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AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di MARZO 2016

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aggiornamento al 31.03.2016

aggiornamento al 29.03.2016

aggiornamento al 23.03.2016

aggiornamento al 09.03.2016

aggiornamento al 07.03.2016

aggiornamento al 02.03.2016

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 31.03.2016

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IN EVIDENZA

APPALTI: Convenzioni Consip optional. Nessun obbligo per gli enti. Acquisti extra senza nulla osta. Lo conferma il Mef con la circolare sul contenimento delle spese dei conti pubblici.
Gli enti locali hanno la facoltà e non un obbligo di aderire alle convenzioni-quadro della Consip o degli altri soggetti aggregatori.

Lo conferma la circolare 23.03.2016 n. 12 del Mef, in tema di misure di contenimento delle spese dei bilanci pubblici. Indirettamente, quindi, la circolare conferma che agli enti locali non si applicano (se non in parte) le disposizioni contenute nell'articolo 1, comma 510, della legge 208/2015.
Come è noto, la disposizione da ultimo citata ha suscitato una serie di problemi applicativi, perché subordina la possibilità delle amministrazioni di effettuare acquisizioni di beni e servizi al di fuori delle convenzioni quadro solo previa autorizzazione specificamente motivata resa da un non meglio identificato «organo di vertice amministrativo».
Nell'ambito degli enti locali si è immediatamente posto il problema di identificare tale organo. Le tesi in campo sono due. Secondo una prima tesi, non essendo l'autorizzazione un atto inerente la gestione ma la programmazione e il controllo, la competenza è della giunta. Secondo la seconda tesi, al contrario, spetta al segretario comunale emanare l'autorizzazione.
In questo secondo filone interpretativo si è inserita la Corte dei conti, sezione Liguria, con la deliberazione 24.02.2016 n. 14. Una decisione che, tuttavia, ha destato parecchie perplessità, perché ha considerato l'autorizzazione alla stregua di un atto gestionale ed ha, inoltre, considerato come già vigente negli enti locali il «dirigente apicale», che invece è solo oggetto di una futura attuazione della legge 124/2015.
Non si è trattato degli unici elementi critici della deliberazione della sezione Liguria. Tra essi, ha spiccato proprio l'assenza dell'analisi in merito all'obbligatorietà dell'articolo 1, comma 510, della legge 208/2015 per gli enti locali. La sezione lo ha dato per scontato.
Tuttavia, si tratta di un'omissione di analisi piuttosto rilevante. Infatti, l'articolo 1, comma 510, della legge 208/2015 impone l'autorizzazione preventiva per effettuare acquisizioni fuori convenzioni solo alle «amministrazioni pubbliche obbligate ad approvvigionarsi attraverso le convenzioni di cui all'articolo 26 della legge 23.12.1999, n. 488, stipulate da Consip spa, ovvero dalle centrali di committenza regionali».
Ma, come spiega la circolare 12/2016 alle convenzioni-quadro «le amministrazioni pubbliche, diverse dalle amministrazioni statali centrali e periferiche, di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, nonché le autorità indipendenti, hanno facoltà di ricorrere ai sensi dell'articolo 1, comma 449, della legge 27.12.2006, n. 296, e fermo restando l'obbligo, in caso di mancato ricorso, dell'utilizzo dei relativi parametri di prezzo-qualità come limiti massimi per la stipulazione dei contratti». E gli enti locali rientrano tra le amministrazioni diverse da quelle statali centrali e periferiche.
Non essendovi, dunque, per i comuni e le province, l'obbligo di utilizzare le convenzioni-quadro, non c'è nemmeno l'obbligo di far precedere le acquisizioni extra convenzioni da alcuna autorizzazione, né di trasmettere l'autorizzazione alla sezione regionale di controllo della Corte dei conti.
L'autorizzazione, invece, appare necessaria ai sensi dell'articolo 1, comma 516, della legge 208/2015, ai fini dell'acquisizione di beni e servizi informatici. Allo stesso modo, l'autorizzazione è da ritenere necessaria per l'acquisizione dei beni e dei servizi previsti dal dpcm 24.12.2015 di attuazione dell'articolo 9, comma 3, del dl 66/2014, convertito in legge 89/2014.
In questi casi, resta ancora aperto il problema dell'individuazione dell'organo di vertice amministrativo competente negli enti locali (articolo ItaliaOggi del 30.03.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

NEWS

LAVORI PUBBLICI: Per i piccoli lavori ridotte pubblicità e trasparenza. Codice appalti. Sotto il milione inviti a meno imprese.
Paletti più laschi sull’assegnazione degli appalti sotto al milione di euro. È lo scenario che si verificherà senza una correzione di rotta prima dell’approvazione finale del nuovo codice dei contratti pubblici.
Un paradosso clamoroso, considerando lo spirito della legge delega approvata in Parlamento, mirata a garantire massima trasparenza e rigore nella lotta alla corruzione, dopo le inchieste sulle gare truccate messe in moto dalle procure di mezza Italia.

Gli appalti sotto al milione rappresentano il cuore delle opere pubbliche: circa l’80% delle gare (12.754 su 15.870, secondo i dati Cresme 2015) riguardano interventi sotto questa soglia. E proprio in questa fascia, dove si annida la “zona grigia” degli appalti, il nuovo codice rischia di alleggerire obblighi di pubblicità e concorrenza. Vincoli, già tutt'altro che a a prova di bomba, considerata anche la scelta di far cadere gli obblighi di pubblicità sui giornali, per tutti gli appalti, dall’anno prossimo.
Nulla cambia per i piccoli contratti (sotto i 40 mila euro) dove sia ora che in futuro rimane l’affidamento diretto a imprese di fiducia della stazione appaltante. Per il resto, non si può fare a meno di notare che viene anzitutto confermata la scelta compiuta nel 2011 dal governo Berlusconi di mantenere la soglia, raddoppiata allora da 500mila euro a un milione, per la procedura negoziata basata su indagini di mercato.
Resta, così, la possibilità di assegnare sostanzialmente senza gara un’ampia quota di lavori. Anche con il nuovo codice, per i lavori sotto al milione, le Pa non dovranno pubblicare alcun vero bando sull’intenzione di assegnare una commessa, se si eccettua un semplice avviso pubblicato sul proprio sito, per un periodo minimo di 15 giorni, con l’indicazione dei requisiti necessari a svolgere il compito.
Più nel dettaglio, per i lavori fino a 150 mila euro, in futuro si potranno invitare solo tre imprese invece che cinque. Ma è soprattutto negli appalti tra 500mila euro e un milione che avverrà la “semplificazione” maggiore. Mentre ora servono almeno 10 inviti, in futuro ne basteranno cinque. Addio poi alla pubblicità post-aggiudicazione di valore più “formale”. Mentre ora bisogna pubblicare la notizia dell’aggiudicazione e la lista degli invitati sulla Gazzetta Ufficiale e su almeno due quotidiani (uno a tiratura nazionale, l’altro locale, oltre che sui siti istituzionali), il nuovo codice mantiene solo un generico richiamo all’obbligo di pubblicità successiva. Non solo.
Insieme ai lavori, va segnalato anche che con il nuovo codice raddoppia da centomila a 209mila euro le soglie per gli affidamenti a “trattativa privata” degli incarichi di progettazione.
Insomma, nessun faro acceso su i “piccoli” appalti. A meno di un futuro intervento dell’Anac di Cantone, cui toccherà il compito di «migliorare la qualità delle procedure» per assegnare i tantissimi micro-cantieri, che già oggi viaggiano all’ombra
(articolo Il Sole 24 Ore del 30.03.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTINiente accatastamento per le reti di Tlc. Infrastrutture. Il chiarimento è fornito dal decreto attuativo della direttiva 2014/61.
Il decreto attuativo della direttiva 2014/61 fa chiarezza: le infrastrutture di reti di comunicazione elettronica non vanno accatastate. Le infrastrutture di telecomunicazione non sono unità immobiliari e, come tali, non vanno iscritte in catasto e non soggiacciono alla fiscalità conseguente.
È d’impatto l’intervento del legislatore che, nell’ambito del decreto legislativo 33/2016 attuativo della direttiva 2014/61/Ue sulla riduzione dei costi delle reti di comunicazione elettronica ad alta velocità, ha deciso di dare una svolta all’annosa questione dell’accatastamento delle infrastrutture Tlc. Si tratta dei tralicci, ripetitori, stazioni radio base, antenne -oltre alle opere per l'installazione della rete- ancorati a muri o altri supporti oppure impiantati dentro aree recintate.
In passato sia l’agenzia del Territorio (circolare 4/2006, 6/2012) sia la giurisprudenza si sono occupate del trattamento catastale: la prima per affermarne l’obbligo di accatastamento (in forma autonoma o come variazioni di preesistenti unità immobiliari); la seconda talvolta si è adeguata alla posizione dell’Agenzia, più spesso ha invece accolto i ricorsi che ne sostenevano l’irrilevanza sul piano catastale, specie in virtù dell’assimilazione alle «opere di urbanizzazione primaria» (articolo 86, comma 3, del Codice delle comunicazioni elettroniche).
Con il decreto legge Sblocca Italia del 2014 sembrava che la questione fosse risolta a favore di questa seconda interpretazione, essendo stabilito che le infrastrutture Tlc costituiscono opere di urbanizzazione primaria.
La Corte di Cassazione però con la sentenza 24026/2015 in materia di Ici (si veda «Il Sole 24 Ore» del 26.11.2015) ha di recente sposato la tesi del Fisco. Invero, la Suprema corte non ha minimamente affrontato il punto che il decreto legge Sblocca Italia mirava a risolvere e, con scarna motivazione, ha deciso per l’accatastamento dei ripetitori di telefonia mobile nella categoria D.
L’articolo 12, comma 2, del decreto legislativo 33/2016 rimette ordine: non solo le reti ad alta velocità in fibra ottica, ma tutte le infrastrutture comprese negli articoli 87-88 Cce, da chiunque possedute, sono da considerarsi beni diversi dalle unità immobiliari in base al Dm 28/1998 e per questo esclusi dall’accatastamento e dai tributi che ne conseguono (Imu, Tasi, Ici a suo tempo).
Ciò che rileva, infatti, non è tanto l’autonomia funzionale e reddituale di queste infrastrutture -e neppure la destinazione a interesse collettivo per cui in passato sono state talvolta classificate nella categoria E/3- ma il fatto che il legislatore ne riconosca una «pubblica utilità», analoga per esempio a quella delle fognature o della rete idrica. La norma, peraltro, dovrebbe avere portata interpretativa, visto che, secondo la relazione illustrativa, rappresenta un «chiarimento» volto a esplicitare quanto già previsto dal Cce.
Natura questa confermata dalla sua collocazione sistematica, nell’articolo 12 tra le «disposizioni di coordinamento», dove al comma 1 si ribadisce che in caso di discordanze prevalgono le norme del Cce.
Per effetto, il Fisco e gli enti locali non solo dovranno escludere dall’accatastamento le nuove infrastrutture di telecomunicazione, ma anche rinunciare alle pretese di accatastamento già avanzate
(articolo Il Sole 24 Ore del 29.03.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI: Giro di vite sugli appalti illeciti. Con la depenalizzazione sanzioni fino a 50 mila euro. I rischi per le aziende a seguito dell'entrata in vigore il 6 febbraio scorso del dlgs 8/2016.
Arriva la depenalizzazione in materia di appalti illeciti, ma per le aziende, forse, c'è poco di cui rallegrarsi. Infatti, ciò non significherà meno «punizioni». Anzi. Dal 6 febbraio gli ispettori del lavoro sono in agguato per contestare «in proprio» anche gli (ex) reati commessi nel passato e non ancora prescritti. Per gli illeciti aumentano anche le sanzioni, ora tra gli 5.000 e gli 50.000.

A partire dal 6 febbraio il dlgs n. 8/2016 ha reso illeciti amministrativi molte fattispecie di reato di natura contravvenzionale, punite per lo più con la sola ammenda (ossia la minore pena pecuniaria). Tra di essi vi sono anche i reati previsti dall'art. 18, dlgs 276/2003, quelli attinenti la somministrazione illecita di manodopera, come pure il distacco di personale e i pseudo appalti di servizi labour intensive.
Insomma, il classico caso della cooperativa di lavoro che, fingendo di appaltare un servizio, in realtà «impresta» personale. Sul punto nei giorni scorsi si è espressa la Corte di cassazione, con la sent. 10484/2016, ribadendo, come anche lo stesso ministero del lavoro con la circolare n. 6/2016, che fornire manodopera da parte di soggetti non autorizzati (cioè, non agenzie per il lavoro), continua ad essere vietato dall'ordinamento.
Ciò che oggi cambia, sono le sanzioni, non più penali, dunque, e naturalmente, per così dire, l'approccio repressivo. Che peggiora senz'altro. Va detto che fino a oggi tutto il meccanismo punitivo era basato, in linea di massima, sulla difficile sincronia tra l'azione degli ispettori del Ministero del lavoro e quella delle procure della repubblica. Soprattutto a causa del fatto che le contestazioni in materia di somministrazione di lavoro era poco «trattata degli uffici giudiziari» (dati i sovente notevoli carichi di lavoro che li faceva propendere per fattispecie di ben altra gravità penale e di ritenuto maggiore disvalore sociale), gli stessi uffici del lavoro sono apparsi non di rado in difficoltà nel reprimere situazioni, talvolta, dubbie.
A disincentivare un'eccessiva attenzione su tali divieti si aggiungeva la circostanza di un sistema repressivo che, quantunque penalistico nominalmente, in realtà si era negli anni già sostanzialmente depenalizzato. Senz'altro in forme di maggiore favore rispetto alle quelle oggi previste dal dlgs 8/2016. Infatti, grazie alla possibilità di regolarizzare il reato, estinguendolo, con il pagamento di una somma in via amministrativa (ex dlgs 758/1994), bastavano spesso pochissimi euro per mettere le cose a posto. Per esempio, nel caso di somministrazione illecita di un lavoratore per dieci giorni, erano sufficienti 125 (ossia un quarto dell'ammenda giornaliera, 50, come previsto per legge) a definire il reato.
Oggi, ex art. 1, comma 6, dlgs 8/2016, la stessa somma in via amministrativa «non può, in ogni caso, essere inferiore a 5.000». In definitiva, chi non ha sanato entro il 6 febbraio, si trova ora in questa esatta condizione. Così oggi, tolte di mezzo per legge le Procure e chiamate in causa le direzioni territoriali del ministero del lavoro (e presto le sedi territoriali del nuovo Ispettorato nazionale del lavoro), c'è da aspettarsi che la gestione in proprio, con contestazioni da parte degli ispettori e azioni di recupero pecuniario per mezzo delle ingiunzioni degli uffici, creerà, rispetto al passato, una ben diversa pressione e conseguente contenzioso.
Del resto, che quello della contestazione di appalti e distacchi illeciti rischi di diventare un leitmotiv ispettivo della seconda parte del 2016, sembra una non difficile previsione, dato che il dlgs 8/2016 ha previsto l'obbligo per le procure della repubblica di trasmettere entro 90 giorni alle direzione del ministero del lavoro i fascicoli in loro possesso.
Gli ispettori saranno poi chiamati per legge alle contestazioni nei successivi 90 giorni. Come a dire che, se tutto «fila liscio» (cioè nei tempi di legge), entro agosto, alle aziende di cui sono stati rilevati reati gli anni scorsi, dovrebbe essere richiesto il pagamento delle nuove sanzioni amministrative (articolo ItaliaOggi del 29.03.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

GIURISPRUDENZA

PUBBLICO IMPIEGO: A caccia durante la malattia: recesso valido. Giusta causa. Il lavoratore aveva un regolare certificato medico.
È valido il licenziamento del dipendente che durante il periodo di malattia partecipa a una battuta di caccia all’estero, anche se la sua assenza sia giustificata da un regolare certificato di malattia oppure dalla fruizione di congedi parentali.
Questa condotta, infatti, a prescindere dalla veridicità dei certificati medici, si concretizza in una violazione dei doveri di correttezza e buona fede che impongono al dipendente di astenersi, durante la malattia, dall’adozione di condotte stressanti per il fisico e, quindi, incompatibili con la necessità di guarire rapidamente.

Questi i principi giuridici posti alla base di un licenziamento convalidato in via definitiva dalla Corte di Cassazione, Sez. lavoro (sentenza 29.03.2016 n. 6054).
Un lavoratore subordinato si era ripetutamente assentato dal lavoro per brevi periodi, talvolta immediatamente antecedenti a giorni festivi, per delle battute di caccia; in occasioni di tali battute, il lavoratore aveva sovente prolungato la propria assenza inviando dei certificati medici oppure utilizzando dei giorni di congedo parentale.
Il datore di lavoro aveva contestato questa condotta e al termine della procedura disciplinare aveva licenziato il dipendente.
La Corte d’appello di Firenze ha considerato valido ed efficace il licenziamento, rilevando che il dipendente, recandosi all’estero per le battute di caccia, aveva gravemente violato il proprio dovere di evitare attività -come i viaggi e la caccia- capaci di ritardare la pronta e rapida guarigione.
Il lavoratore ha proposto ricorso per Cassazione contro questa decisione ma la Corte, con la sentenza sopra ricordata, ha rigettato il gravame, ritenendo pienamente legittima la scelta aziendale di contestare, da un lato, la violazione dell’obbligo di astenersi da condotte che ritardano la guarigione e, dall’altro, l’utilizzo improprio dei congedi parentali per finalità diverse da quelle tipiche dell’istituto.
La sentenza considera inoltre irrilevante ai fini della decisione il tema dell’effettiva validità della certificazione medica presentata dal dipendente, in quanto la contestazione aziendale aveva per oggetto una condotta complessiva articolata in diversi episodi, rispetto alla quale la validità di singole certificazioni mediche risultava irrilevante
(articolo Il Sole 24 Ore del 30.03.2016).

EDILIZIA PRIVATAL’ente ha determinato di respingere l’istanza di accertamento di conformità, di cui si discute, non per ragioni sostanziali, attinenti cioè alla eventuale non sanabilità, sotto il profilo urbanistico, degli interventi realizzati, ma unicamente per ragioni formali, rappresentate, nello specifico, dalla dedotta carenza degli elaborati progettuali e della documentazioni tecnico amministrativa, allegati alla medesima istanza.
Un tale modo di procedere è sicuramente illegittimo, e comporta, ritenuti assorbiti gli altri vizi dedotti, l’accoglimento del ricorso, dovendo la constatazione, da parte del Comune, dell’incompletezza della richiesta di sanatoria (circostanza, tra l’altro, pure contestata dai ricorrenti anche con certificazioni provenienti dal protocollo dell’ente) condurre, in ogni caso, non già al diniego o all’archiviazione della stessa, quanto piuttosto ad una doverosa attività di integrazione della medesima.
In proposito la giurisprudenza è consolidata nel ritenere che la carenza documentale, nell’ottica della leale, reciproca, cooperazione procedimentale di cui alla legge n. 241 del 1990, può dar luogo ad una declaratoria di improcedibilità dell’istanza del privato solo laddove la pubblica amministrazione abbia preliminarmente formulato al soggetto interessato una specifica richiesta di integrazione della documentazione necessaria (in base alla legge, o agli atti regolamentari o generali della medesima amministrazione) ad un compiuto esame della fattispecie.
Pertanto, deve ritenersi illegittimo il diniego o l’archiviazione dell’istanza di rilascio della concessione edilizia in sanatoria di opere edilizie abusive motivato con esclusivo riferimento alla incompletezza della documentazione depositata dall’istante, trattandosi di circostanza che può legittimare solo una richiesta di integrazione documentale da parte dell’Autorità competente a pronunciare sulla domanda”.

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... per l'annullamento provvedimento prot. n. 45796 del 21/11/2014 con cui il responsabile dell'area V del Comune di Capaccio ha disposto l'archiviazione dell'istanza di accertamento di conformità prot. n. 44940/14 del 17.11.2014;
- di ogni atto connesso e per l’accertamento dell’obbligo della P.A. di provvedere all’esame della pratica edilizia prot. n. 44940 del 17.11.2014 e sul connesso accertamento di compatibilità paesaggistica nonché per la declaratoria di illegittimità del silenzio serbato sull’istanza prot. n. 772 del 12.01.2015 con la quale il ricorrente ha chiesto l’annullamento in autotutela dell’impugnato provvedimento di archiviazione e sull’istanza prot. n. 44187 del 25.10.2010.
...
5.- Il ricorso è fondato e merita accoglimento, alla stregua delle considerazioni che seguono.
In pratica, l’ente si sarebbe determinato a respingere l’istanza di accertamento di conformità, di cui si discute, non per ragioni sostanziali, attinenti cioè alla eventuale non sanabilità, sotto il profilo urbanistico, degli interventi realizzati, ma unicamente per ragioni formali, rappresentate, nello specifico, dalla dedotta carenza degli elaborati progettuali e della documentazioni tecnico amministrativa, allegati alla medesima istanza.
Ma un tale modo di procedere è sicuramente illegittimo, e comporta, ritenuti assorbiti gli altri vizi dedotti, l’accoglimento del ricorso, dovendo la constatazione, da parte del Comune, dell’incompletezza della richiesta di sanatoria (circostanza, tra l’altro, pure contestata dai ricorrenti anche con certificazioni provenienti dal protocollo dell’ente) condurre, in ogni caso, non già al diniego o all’archiviazione della stessa, quanto piuttosto ad una doverosa attività di integrazione della medesima.
In proposito la giurisprudenza è consolidata nel ritenere che la carenza documentale, nell’ottica della leale, reciproca, cooperazione procedimentale di cui alla legge n. 241 del 1990, può dar luogo ad una declaratoria di improcedibilità dell’istanza del privato solo laddove la pubblica amministrazione abbia preliminarmente formulato al soggetto interessato una specifica richiesta di integrazione della documentazione necessaria (in base alla legge, o agli atti regolamentari o generali della medesima amministrazione) ad un compiuto esame della fattispecie.
Pertanto, deve ritenersi illegittimo il diniego o l’archiviazione dell’istanza di rilascio della concessione edilizia in sanatoria di opere edilizie abusive motivato con esclusivo riferimento alla incompletezza della documentazione depositata dall’istante, trattandosi di circostanza che può legittimare solo una richiesta di integrazione documentale da parte dell’Autorità competente a pronunciare sulla domanda” (ex multis TAR Campania-Napoli, sez. IV, 05.08.2009, n. 4730).
6.- Le rassegnate conclusioni devono ritenersi satisfattive della pretesa azionata in giudizio con plurime domande, atteso che l’amministrazione è onerata a conformarsi a quanto statuito in sentenza (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 16.03.2016 n. 609 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Gara revocabile se c’è convenienza. L’apertura delle «buste» non aumenta la speranza di vittoria dei concorrenti. Tar Toscana. Lecito confrontare i costi delle offerte pervenute, ma la scelta di internalizzare va motivata.
Una gara bandita da una pubblica amministrazione non può essere revocata a cuor leggero: lo sottolinea il TAR Toscana -Sez. I- nella sentenza 15.03.2016 n. 467, relativa ad un servizio di sterilizzazione e noleggio di strumenti chirurgici.
Prima di concludere la selezione, un’Azienda sanitaria locale aveva revocato il bando di gara ritenendo fosse conveniente internalizzare, cioè gestire in proprio il servizio. L’Asl sosteneva che fossero presenti risorse aziendali, il cui utilizzo avrebbe consentito un risparmio di spesa.
Di parere opposto era una delle imprese che avevano partecipato alla gara, la quale sosteneva che i risparmi, posti a base della revoca della gara, fossero inattendibili. Le opposte tesi, dell’amministrazione e dell’impresa che aveva partecipato alla gara revocata prima di essere conclusa, sono state valutate dal Tar sotto l’aspetto della logicità e ragionevolezza, dell’adeguata motivazione e dell’idonea istruttoria sulla possibilità di conseguire forti risparmi di spesa.
Sono state quindi verificate le opzioni “make or buy” che la stessa Azienda sanitaria aveva ipotizzato prima di decidere di rivolgersi al mercato, calcolando le esigenze del servizio di sterilizzazione e i costi dello strumentario chirurgico che sarebbe stato fornito.
All’indomani di un primo annullamento (Tar Toscana, sentenza numero 1449 del 2014) l’Asl aveva confermato la propria opinione circa la convenienza economica dell’internalizzazione. Ciò ha generato un’ulteriore sentenza (la numero 467 del 2016) la quale ha ribadito che l’ente pubblico, anche quando si riservi nel bando la facoltà di non dar luogo alla gara o all’aggiudicazione, è soggetto al sindacato del giudice amministrativo.
Inoltre, per liberarsi da un procedimento di gara ed operare in “make” (internalizzazione servizio) rispetto al “buy” (esternalizzazione), occorre dimostrare la possibilità di conseguire forti risparmi di spesa, individuare le criticità delle operazioni, attualizzando l’esame dei fabbisogni sulla base di dati certi e non presuntivi.
A tal fine, prima di decidere di internalizzare, l’amministrazione deve inoltre tener presenti le offerte che le sono pervenute grazie alla procedura di gara: tali offerte sono infatti segrete e tutelate da riservatezza, ma solo ai fini dell’imparzialità della gara, sicché le offerte stesse ben possono essere aperte ed utilizzate per conoscere il costo effettivo di un eventuale affidamento esterno.
Oltretutto, sottolinea il Tar Toscana, l’apertura delle offerte di gara non aumenta la speranza di vittoria dei concorrenti, speranza che rimane generica e quindi non radica responsabilità se la conoscenza degli importi offerti sia utilizzata per decidere se confermare l’affidamento esterno o ricorrere risorse interne dell’ente pubblico. Non avendo motivato adeguatamente la convenienza dell’internalizzazione sulla base delle offerte già pervenute, l’Asl si quindi è vista annullare una seconda volta la procedura.
Questo orientamento sarà utile anche nelle prime applicazioni del futuro decreto legislativo di recepimento delle direttive comunitarie sugli appalti, atteso per l'aprile 2016 (legge 11 del 2016), perché conferma l’opportunità del ricorso a procedure di “public sector comparator” (articolo 181 dello schema di decreto legislativo), con valutazione dell’equilibrio economico finanziario e della qualità dei servizi, a monte della decisione di parternariato pubblico privato
(articolo Il Sole 24 Ore del 29.03.2016 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Ascensore senza tutti i consensi. La Cassazione a favore dei disabili.
Il Comune non può pretendere il consenso di tutti i proprietari di immobili che si affacciano sul cortile prima di autorizzare la costruzione dell'ascensore che serve al disabile. Per il titolo edilizio che l'amministrazione locale è chiamata a rilasciare al cittadino risulta sufficiente il rispetto delle maggioranze prescritte dal codice civile da parte dell'assemblea condominiale che delibera l'intervento edilizio: il permesso a costruire viene infatti rilasciato fatti salvi i diritti dei terzi, i quali dunque devono rivolgersi al giudice civile se si ritengono lesi.

È quanto emerge dalla sentenza 09.03.2016 n. 561, pubblicata dalla II Sez. del TAR Campania-Salerno.
Regola e deroga
Accolto il ricorso del condomino, che aveva superato perfino gli ostacoli posti dalla Soprintendenza per l'impianto da realizzare in area soggetta a vincolo ambientale: troppo zelante l'ufficio tecnico dell'ente che blocca i lavori dell'ascensore necessario a una signora malata di cancro sostenendo che per il progetto serve l'assenso dei proprietari di tutti gli appartamenti prospicienti il cortile.
In realtà l'amministrazione ben può pronunciarsi ex articolo 11 del testo unico dell'edilizia senza che abbiano dato il loro consenso al progetto tutti coloro che vantano un diritto di servitù di passaggio nel cortile dove deve sorgere l'impianto: affinché il via ai lavori abbia il placet dell'ente, infatti, è sufficiente che la delibera sia approvata dalla maggioranza degli intervenuti con un numero di voti che rappresenta almeno un terzo del valore dell'edificio.
L'unico limite è che l'installazione dell'impianto non deve rendere inservibile il cortile, altrimenti si configura l'innovazione vietata dall'articolo dell'articolo 1120, secondo comma, Cc. Ma si tratta di un elemento che ha rilievo soltanto sul piano civilistico.
Sbaglia ancora l'ufficio tecnico quando motiva lo stop al progetto con la violazione dell'articolo 907 Cc: se serve a eliminare le barriere architettoniche, l'ascensore ben può essere installato in deroga alle norme sulla distanza delle costruzioni dalle vedute, a patto che rispetti le disposizioni sull'uso delle cose comuni (articolo ItaliaOggi del 30.03.2016).
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MASSIMA
... per l'annullamento del provvedimento del Responsabile dell'U.T.C. - Area urbanistica del Comune di Amalfi n. 10304 del 30.09.2006 -notificato il 30.10.2006-, di rigetto della istanza presentata dal ricorrente di rilascio dell'autorizzazione per la installazione di un ascensore ai sensi della legge n. 13 del 09.01.1982;
...
1.- Il ricorso è fondato e merita di essere accolto.
È noto che l’art. 2 l. 09.01.1989 n. 13, recante norme per favorire il superamento e l’eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici privati, ha previsto la possibilità per l’assemblea condominiale di approvare le innovazioni preordinate a tale scopo con le maggioranze indicate nell’art. 1136, 2 e 3 comma, c.c., così derogando all’art. 1120, 1° comma, che richiama il 5° comma dell’art. 1136 e, quindi, le più ampie maggioranze ivi contemplate: cfr., fra le tante, Cass., sez. II, 24.07.2012, n. 12930.
L’unico limite è rappresentato, ai sensi del successivo comma 3, dal disposto dell’art. 1120, 2° comma, il quale vieta le innovazioni che rendano talune parti comuni dell’edificio inservibili all’uso e al godimento anche di un solo condomino, comportandone una sensibile menomazione dell’utilità, secondo l’originaria costituzione della comunione.
Essendo tale ultimo profilo, di rilevanza esclusivamente civilistica, estraneo ai confini della lite che ne occupa, vale, perciò, puntualizzare che,
ai fini della verifica della legittimazione alla richiesta del titolo abilitativo alla edificazione, rimessa alle competenze dell’autorità amministrativa comunale ex art. 11 t.u. 380/2001, la deliberazione assembleare assunta con le prescritte maggioranze deve ritenersi bensì necessaria, ma anche sufficiente ai fini dell’assenso al titolo abilitativo. Peraltro, il permesso di costruire viene sempre rilasciato con salvezza dei diritti dei terzi che, ove pregiudicati, potranno essere fatti valere nella competente sede civilistica.
Sotto distinto profilo, è altresì noto che
l’installazione di un ascensore, al fine dell’eliminazione delle barriere architettoniche, realizzata da un condomino su parte di un cortile e di un muro comuni, deve considerarsi indispensabile ai fini dell’accessibilità dell’edificio e della reale abitabilità dell’appartamento, e rientra, pertanto, nei poteri spettanti ai singoli condomini ai sensi dell’art. 1102 c.c., senza che, ove siano rispettati i limiti di uso delle cose comuni stabiliti da tale norma, rilevi, la disciplina dettata dall’art. 907 c.c. sulla distanza delle costruzioni dalle vedute (cfr. Cass., sez. II, 16.05.2014, n. 10852).
2.- Il ricorso va, perciò, accolto.

EDILIZIA PRIVATA: L’accertamento dell’avvenuto inizio dei lavori entro l’anno dal rilascio del permesso di costruire, necessario a evitarne la decadenza, è questione di fatto, da valutarsi caso per caso, onde accertare che l’avvio delle opere sia effettivo, e non volto al solo scopo di evitare la perdita di efficacia del titolo abilitativo.
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In disparte il dato formale, pur pertinente, evidenziato dalla difesa del Comune, della mancata comunicazione, da parte del ricorrente, dell’inizio dei lavori, osserva il Tribunale come, dall’esame della giurisprudenza in materia, emerga la netta prevalenza di un indirizzo rigoroso, circa l’accertamento giurisdizionale dell’inizio dei lavori, sotto il profilo sostanziale, indirizzo espresso in massime, come le seguenti:
- “La realizzazione di semplici movimenti di terra e gittata di un strato di battuto di calcestruzzo tesi a circoscrivere le fondamenta della costruzione da realizzare non integrano la fattispecie di inizio dei lavori. Ai fini dell’impedimento della decadenza del permesso di costruire, infatti, l’avvio dei lavori può ritenersi sussistente solo quando le opere intraprese siano tali da manifestare l’univoca intenzione di realizzare il manufatto assentito; tale requisito non è soddisfatto dal semplice sbancamento del terreno, dalla pulitura del sito o dall’aver approntato il cantiere ed i materiali necessari per l’esecuzione dei lavori”;
- “Le opere di sbancamento, di sottofondazione e di perimetrazione non sono sufficienti ad integrare il requisito dell’avvio dei lavori, che deve comunque avvenire entro un anno dal rilascio della concessione edilizia, mentre i medesimi lavori devono terminare, a pena di decadenza della concessione, entro tre anni”;
- “È legittimo il provvedimento di dichiarazione di decadenza di un permesso di costruire per mancato inizio dei lavori nel termine annuale, nell’ipotesi in cui entro detto termine risultino eseguiti unicamente lavori di modesta entità, quali opere di sbancamento e di demolizione parziale”;
- “In ipotesi di rilascio di permesso di costruire per sostituzione edilizia con demolizione di fabbricato ad uso commerciale e ricostruzione ad uso residenziale, la rimozione degli infissi interni ed esterni e lo smontaggio dei controsoffitti configurano opere del tutto marginali e volte solo ad impedire in limine la decadenza del titolo stesso, comunque non idonee ad indicare l’avvenuto inizio dei lavori”.
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Circa le doglianze volte a stigmatizzare la mancata osservanza, da parte dell’Amministrazione, delle disposizioni della l. 241/1990, volte a favorire la partecipazione del privato al contenuto del provvedimento finale, vale a dire l’obbligo di comunicare l’avvio del procedimento di decadenza e la conseguente impossibilità, per l’interessato, di rassegnare memorie, da valutarsi da parte della P.A., anche in funzione deflattiva del contenzioso, possono essere oggetto di disamina congiunta, smentite come sono dal prevalente indirizzo giurisprudenziale, espresso in decisioni, come quelle che seguono:
- “Ai sensi dell’art. 15, comma 2, d.lgs. n. 380 del 2001, la pronunzia di decadenza del permesso a costruire ha carattere strettamente vincolato all’accertamento del mancato inizio e completamento dei lavori entro i termini stabiliti dalla norma stessa (rispettivamente un anno e tre anni dal rilascio del titolo abilitativo, salvo proroga) ed ha natura ricognitiva del venir meno degli effetti del permesso a costruire per l’inerzia del titolare a darvi attuazione. Siffatta decadenza, peraltro, opera di diritto e non è richiesta a tal fine l’adozione di un provvedimento espresso”;
- “La decadenza della concessione edilizia (ora permesso di costruire) per mancato inizio lavori nel termine previsto si verifica per legge in modo automatico tanto che non residua all’amministrazione alcun margine per valutazioni di ordine discrezionale; da ciò deriva che il provvedimento di annullamento della proroga della concessione edilizia, motivato dalla intervenuta decadenza della concessione edilizia per l’inutile scadenza anche del prorogato termine di inizio lavori, non richiede la previa adozione di un provvedimento dichiarativo della decadenza né tanto meno la comunicazione di avvio del procedimento”;
- “La decadenza della concessione edilizia per mancata osservanza del termine di inizio o di completamento dei lavori ovvero per sopravvenuta incompatibilità con lo strumento urbanistico sopravvenuto, opera “di diritto”, con la conseguenza che il provvedimento, ove adottato, ha carattere meramente dichiarativo di un effetto verificatosi “ex se” con l’inutile decorso del termine; da ciò consegue che l’eventuale provvedimento di decadenza è sufficientemente motivato col richiamo alla norma applicata, senza che sia necessaria una comparazione tra l’interesse del privato e quello pubblico, essendo quest’ultimo “ope legis” prevalente sul primo e che non è necessaria la comunicazione di avvio del procedimento, essendo la decadenza un effetto che si verifica “ipso iure”, senza che residui all’amministrazione alcun margine per valutazioni di ordine discrezionale”.
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Quanto all’evidenziata carenza di motivazione e d’istruttoria, che connoterebbe –secondo il ricorrente– il provvedimento gravato, il Tribunale ritiene che la censura sia priva di pregio; valga, per disattenderla, oltre al riferimento alle massime già riferite, anche il richiamo alle seguenti, ulteriori, decisioni:
- “L’adozione del provvedimento di decadenza dal titolo edilizio autorizzatorio per inosservanza dei termini d’inizio dei lavori o di ultimazione delle opere non comporta la valutazione degli interessi pubblico e privato coinvolti, stanti il carattere ricognitivo con effetti ex tunc e la natura vincolata del provvedimento in parola, elementi quest’ultimi significativi della prevalenza ope legis dell’interesse pubblico, conseguendone che non rileva il tempo decorso tra l’effetto verificatosi e l’adozione dell'atto, e che, per le medesime ragioni, è bastevole come motivazione l’indicazione della norma applicata”;
- “La decadenza dalla concessione edilizia per mancato inizio dei lavori nel termine prefissato è atto meramente dichiarativo di una situazione verificatasi “ope legis”, senza che residui alcun margine per valutazioni discrezionali: conseguentemente, non è configurabile, in tale atto, il vizio di eccesso di potere per perplessità e contraddittorietà della motivazione”.

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... per l’annullamento:
-a) del provvedimento, n. prot. 5613 del 19.03.2014, notificato in data 01.04.2014, emesso dalla Città di Campagna, avente ad oggetto la declaratoria della decadenza del permesso di costruire in sanatoria e completamento, n. 89/2012 del 19.06.2012, relativo a un fabbricato rurale destinato a deposito agricolo e box pertinenziale, catastalmente individuato al foglio n. 89 –particella n. 609– del Comune di Campagna e del conseguente ordine di demolire;
-b) della diffida dell’08.03.2013, prot. 5605, di cui si legge nell’atto, impugnato al punto precedente;
-c) d’ogni altro atto, anche non conosciuto, presupposto, consequenziale o comunque connesso, nella parte in cui, anche interpretata, determini la decadenza del permesso di costruire, n. 89/12, nonché l’inefficacia della d. i.a., presentata in data 11.02.2013, prot. 3727, pratica n. 19/13, o comunque ponga a carico del ricorrente la demolizione del fabbricato che ci occupa o comunque impedisca l’accoglimento delle conclusioni, di cui al ricorso;
...
Il ricorso non è fondato.
Iniziando dall’analisi della prima censura, premesso che, secondo la giurisprudenza, “l’accertamento dell’avvenuto inizio dei lavori entro l’anno dal rilascio del permesso di costruire, necessario a evitarne la decadenza, è questione di fatto, da valutarsi caso per caso, onde accertare che l’avvio delle opere sia effettivo, e non volto al solo scopo di evitare la perdita di efficacia del titolo abilitativo” (Consiglio di Stato, Sez. IV, 20/12/2013, n. 6151), osserva il Collegio come le opere, indicate in ricorso come indicative dell’estrinsecazione dell’animus aedificandi del ricorrente, consistite in “chiusura del vano scala che dal piano seminterrato conduce al piano sottotetto, tale da creare indipendenza tra i piani seminterrato, rialzato e sottotetto; chiusura dei vani finestra al piano seminterrato, tale da rendere l’attuale piano seminterrato un volume tecnico inaccessibile; svuotamento, mediante rimozione di mobili e suppellettili, dai vani abitativi posti al piano rialzato, al fine di utilizzare quest’ultimo come deposito agricolo e box auto” (opere, testimoniate anche dalla relazione tecnica di parte, allegata all’atto introduttivo del giudizio, ove le stesse erano, in maniera parzialmente difforme, così sintetizzate: “anche se in misura minima, ma dimostrando la sua totale volontà di eseguire tutto quanto previsto nel p. di c., eseguiva piccoli lavori di adeguamento, quali la rimozione della scalinata interna di comunicazione tra il piano rialzato e il piano seminterrato, la chiusura del vuoto posto nel solaio di calpestio del sottotetto” e “l’apposizione di terreno vegetale nella parte retrostante del fabbricato, per un’altezza di circa mt. 1,00 lungo tutto il lato”), non assurgano a un livello tale, da costituire un effettivo e concreto inizio dei lavori.
In disparte il dato formale, pur pertinente, evidenziato dalla difesa del Comune di Campagna, della mancata comunicazione, da parte del ricorrente, dell’inizio dei lavori, osserva il Tribunale come, dall’esame della giurisprudenza in materia, emerga la netta prevalenza di un indirizzo rigoroso, circa l’accertamento giurisdizionale dell’inizio dei lavori, sotto il profilo sostanziale, indirizzo espresso in massime, come le seguenti: - “La realizzazione di semplici movimenti di terra e gittata di un strato di battuto di calcestruzzo tesi a circoscrivere le fondamenta della costruzione da realizzare non integrano la fattispecie di inizio dei lavori. Ai fini dell’impedimento della decadenza del permesso di costruire, infatti, l’avvio dei lavori può ritenersi sussistente solo quando le opere intraprese siano tali da manifestare l’univoca intenzione di realizzare il manufatto assentito; tale requisito non è soddisfatto dal semplice sbancamento del terreno, dalla pulitura del sito o dall’aver approntato il cantiere ed i materiali necessari per l’esecuzione dei lavori” (Consiglio di Stato, Sez. IV, 15/04/2013, n. 2027);
- “Le opere di sbancamento, di sottofondazione e di perimetrazione non sono sufficienti ad integrare il requisito dell’avvio dei lavori, che deve comunque avvenire entro un anno dal rilascio della concessione edilizia, mentre i medesimi lavori devono terminare, a pena di decadenza della concessione, entro tre anni” (TAR Latina (Lazio), Sez. I, 19/07/2010, n. 1170);
- “È legittimo il provvedimento di dichiarazione di decadenza di un permesso di costruire per mancato inizio dei lavori nel termine annuale, nell’ipotesi in cui entro detto termine risultino eseguiti unicamente lavori di modesta entità, quali opere di sbancamento e di demolizione parziale” (TAR Toscana, Sez. III, 17/11/2008, n. 2533);
- “In ipotesi di rilascio di permesso di costruire per sostituzione edilizia con demolizione di fabbricato ad uso commerciale e ricostruzione ad uso residenziale, la rimozione degli infissi interni ed esterni e lo smontaggio dei controsoffitti configurano opere del tutto marginali e volte solo ad impedire in limine la decadenza del titolo stesso, comunque non idonee ad indicare l’avvenuto inizio dei lavori” (Consiglio di Stato, Sez. IV, 20/12/2013, n. 6151).
A fronte di tale severo orientamento, teso alla verifica di un serio e concreto intento di procedere alle opere, di cui al titolo abilitativo, le opere cui s’è appellato il ricorrente (definite “minime” nella stessa relazione tecnica di parte), ovvero i “piccoli lavori di adeguamento”, consistiti nella rimozione di una scala interna, nella chiusura di un vuoto tecnico e in modesti riporti di terreno vegetale, oltre che –come riferito in ricorso– nell’anodina “rimozione di mobili e suppellettili, dai vani abitativi posti al piano rialzato, al fine di utilizzare quest’ultimo come deposito agricolo e box auto”, appaiono, obiettivamente, di tale scarsa entità, da sconfinare quasi nell’irrilevanza, e, in ogni caso, del tutto inidonei a dimostrare che il ricorrente voleva, effettivamente, accingersi all’esecuzione dei lavori autorizzati.
La seconda e terza doglianza dell’atto introduttivo del giudizio, volte a stigmatizzare la mancata osservanza, da parte dell’Amministrazione, delle disposizioni della l. 241/1990, volte a favorire la partecipazione del privato al contenuto del provvedimento finale, vale a dire l’obbligo di comunicare l’avvio del procedimento di decadenza e la conseguente impossibilità, per l’interessato, di rassegnare memorie, da valutarsi da parte della P.A., anche in funzione deflattiva del contenzioso, possono essere oggetto di disamina congiunta, smentite come sono dal prevalente indirizzo giurisprudenziale, espresso in decisioni, come quelle che seguono:
- “Ai sensi dell’art. 15, comma 2, d.lgs. n. 380 del 2001, la pronunzia di decadenza del permesso a costruire ha carattere strettamente vincolato all’accertamento del mancato inizio e completamento dei lavori entro i termini stabiliti dalla norma stessa (rispettivamente un anno e tre anni dal rilascio del titolo abilitativo, salvo proroga) ed ha natura ricognitiva del venir meno degli effetti del permesso a costruire per l’inerzia del titolare a darvi attuazione. Siffatta decadenza, peraltro, opera di diritto e non è richiesta a tal fine l’adozione di un provvedimento espresso” (TAR Catania (Sicilia), Sez. I, 10/06/2015, n. 1622);
- “La decadenza della concessione edilizia (ora permesso di costruire) per mancato inizio lavori nel termine previsto si verifica per legge in modo automatico tanto che non residua all’amministrazione alcun margine per valutazioni di ordine discrezionale; da ciò deriva che il provvedimento di annullamento della proroga della concessione edilizia, motivato dalla intervenuta decadenza della concessione edilizia per l’inutile scadenza anche del prorogato termine di inizio lavori, non richiede la previa adozione di un provvedimento dichiarativo della decadenza né tanto meno la comunicazione di avvio del procedimento” (TAR Latina (Lazio), Sez. I, 27/11/2015, n. 788);
- “La decadenza della concessione edilizia per mancata osservanza del termine di inizio o di completamento dei lavori ovvero per sopravvenuta incompatibilità con lo strumento urbanistico sopravvenuto, opera “di diritto”, con la conseguenza che il provvedimento, ove adottato, ha carattere meramente dichiarativo di un effetto verificatosi “ex se” con l’inutile decorso del termine; da ciò consegue che l’eventuale provvedimento di decadenza è sufficientemente motivato col richiamo alla norma applicata, senza che sia necessaria una comparazione tra l’interesse del privato e quello pubblico, essendo quest’ultimo “ope legis” prevalente sul primo e che non è necessaria la comunicazione di avvio del procedimento, essendo la decadenza un effetto che si verifica “ipso iure”, senza che residui all’amministrazione alcun margine per valutazioni di ordine discrezionale” (TAR Napoli (Campania), Sez. II, 30/01/2009, n. 542).
Tanto, in disparte la pur rilevante circostanza, opportunamente posta in risalto dalla difesa del Comune, secondo cui nello stesso p. di c. in sanatoria era specificato che il mancato inizio dei lavori, nel termine annuale, ne avrebbe comportato la decadenza, con conseguente piena consapevolezza di tal effetto automatico, da parte del suo titolare.
Del resto, attesa la, già riferita, sostanziale irrilevanza delle opere realizzate, non si vede come l’Amministrazione, anche se informata dal ricorrente dell’esecuzione delle stesse, avrebbe potuto determinarsi altrimenti.
Quanto, infine, all’evidenziata carenza di motivazione e d’istruttoria, che connoterebbe –secondo il ricorrente– il provvedimento gravato, il Tribunale ritiene che la censura sia priva di pregio; valga, per disattenderla, oltre al riferimento alle massime già riferite, anche il richiamo alle seguenti, ulteriori, decisioni:
- “L’adozione del provvedimento di decadenza dal titolo edilizio autorizzatorio per inosservanza dei termini d’inizio dei lavori o di ultimazione delle opere non comporta la valutazione degli interessi pubblico e privato coinvolti, stanti il carattere ricognitivo con effetti ex tunc e la natura vincolata del provvedimento in parola, elementi quest’ultimi significativi della prevalenza ope legis dell’interesse pubblico, conseguendone che non rileva il tempo decorso tra l’effetto verificatosi e l’adozione dell'atto, e che, per le medesime ragioni, è bastevole come motivazione l’indicazione della norma applicata” (TAR Salerno (Campania), Sez. II, 06/04/2012, n. 654);
- “La decadenza dalla concessione edilizia per mancato inizio dei lavori nel termine prefissato è atto meramente dichiarativo di una situazione verificatasi “ope legis”, senza che residui alcun margine per valutazioni discrezionali: conseguentemente, non è configurabile, in tale atto, il vizio di eccesso di potere per perplessità e contraddittorietà della motivazione” (TAR Napoli (Campania), Sez. IV, 29/04/2004, n. 7513)
(TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 24.02.2016 n. 448 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PATRIMONIO: La lite sulla proprietà della strada spetta al giudice ordinario. Dismissioni immobiliari. L’iscrizione nell’elenco delle vie pubbliche ha portata dichiarativa, non ablativa.
Stop al Tar sull’accertamento di proprietà della strada inclusa nel piano comunale delle cessioni immobiliari: si va al giudice ordinario.
La questione è importante perché è possibile che un privato veda il proprio immobile compreso nell’elenco del Piano comunale delle alienazioni immobiliari. Il privato ha ragione di preoccuparsi, perché l’immobile sembra, inopinatamente, essere divenuto di proprietà pubblica. A quale giudice dovrà rivolgersi per far accertare che l’immobile è di sua proprietà? Il Tar Campania ha risposto: il giudice ordinario.
Vediamo i termini della questione.
L’articolo 58 del Dl 112/2008 stabilisce che per procedere al riordino e valorizzazione del patrimonio immobiliare di Regioni, Province, Comuni e altri enti locali, ciascun ente individua, redigendo un elenco sulla base della documentazione esistente presso i propri archivi, i singoli beni immobili ricadenti nel territorio di competenza, non strumentali all’esercizio delle proprie funzioni istituzionali, suscettibili di valorizzazione o dismissione.
La VII Sez. del TAR Campania-Napoli, con la sentenza 18.02.2016 n. 870 ha ritenuto che l’elenco del Piano delle alienazioni immobiliari abbia natura puramente dichiarativa e non costitutiva del diritto di proprietà. Pertanto non trattandosi di un atto autoritativo di carattere ablativo della proprietà, la giurisdizione in merito all’accertamento della natura privata o pubblica del bene spetta al giudice ordinario, con il rito decisamente più lungo e complesso.
Nel caso di specie, due condòmine avevano impugnato la delibera comunale che aveva incluso nel Piano delle alienazioni immobiliari un viale che le stesse affermavano essere di proprietà del condominio.
Il Tar ricorda che rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario le controversie in tema di proprietà pubblica o privata delle strade, in quanto tali questioni hanno ad oggetto l’accertamento dell’esistenza di diritti soggettivi, sia dei privati che della Pubblica Amministrazione. Pertanto la contestazione circa la possibilità di sua inclusione nel Piano di alienazioni immobiliari, in considerazione della natura privata del viale in questione, appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario.
Il Tar richiama il principio secondo il quale l’iscrizione di una strada nell’elenco delle vie pubbliche o gravate da uso pubblico non ha natura costitutiva e portata assoluta, ma riveste funzione puramente dichiarativa della pretesa del Comune; essa pone una semplice presunzione di pubblicità dell’uso, superabile con la prova contraria della natura della strada e dell’inesistenza di un diritto di godimento da parte della collettività mediante un’azione negatoria di servitù in sede giudiziaria civile
(articolo Il Sole 24 Ore del 29.03.2016).
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MASSIMA
... per l'annullamento, previa sospensione dell’efficacia:
a) della deliberazione del Consiglio Comunale del Comune di Lettere n. 20 del 06.07.2015, pubblicata mediante affissione all'albo pretorio dal 15.07.2015 al 30.07.2015, ad oggetto "Approvazione piano delle alienazioni e delle valorizzazioni dei beni strumentali", nella parte in cui include nel piano delle alienazioni e delle valorizzazioni immobiliari previsto dall'art. 58 della L. 06.08.2008 n. 133 il tratto di strada individuato nella particella 649, foglio 13 ed indicato quale prolungamento di "Via Casa Marangi";
b) della successiva deliberazione dello stesso Consiglio Comunale di Lettere, n. 26 del 31.8.2015, pubblicata mediante affissione all'albo pretorio dal 04.09.2015 al 19.09.2015, avente ad oggetto "Mozione per la revoca in autotutela della delibera di Consiglio Comunale n. 20 del 06/07/2015, ai sensi dell'art. 21-quinques legge 241/1990, art. 43, comma 1, D.lgs. 267/2000, art. 13, comma 1 e 2, del vigente Statuto Comunale, artt. 15, 16 e 17 del Regolamento per il funzionamento del Consiglio Comunale", con la quale si delibera "di non approvare relativamente all'argomento in oggetto la suddetta mozione di deliberazione così come formulata a cura del consigliere Manzo Filippo, facendo proprio il contenuto della proposta sindacale";
...
7.
Il Collegio al riguardo, richiamandosi ai propri precedenti in materia (da ultimo Tar Campania, sez. VII sent. n. 1752 del 25/03/2011; n. 1397 del 12/03/2010; n. 1651 del 25/03/2010; n. 16427 del 29/06/2010) non può che rilevare il difetto di giurisdizione dell’adito G.A..
7.1 Va ribadito, infatti, che,
secondo la giurisprudenza assolutamente prevalente (cfr. Cass. civ. Sez. U., ordinanza n. 1624 del 27/01/2010; Sez. U, ordinanza n. 6406 del 17/03/2010; Consiglio di Stato, Sez. V, n. 5422 del 10.09.2009; Consiglio di Stato sez. V, n. 522 del 07.04.1995; Cass. SS. UU. n. 5457 del 13.10.1980; Cass. SS.UU. n. 3302 del 12.06.1979; TAR Valle d’Aosta n. 86 del 13.11.2009; TAR Campania Napoli n. 2040 del 20.04.2009; TAR Liguria n. 2053 del 27.11.2008; TAR Trentino Alto Adige-Trento n. 286 del 10.11.2008; TAR Lazio-Roma n. 3419 del 19.04.2007), rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario le controversie in tema di proprietà, pubblica o privata, delle strade e circa l’esistenza di diritti di uso pubblico su strade private, in quanto tali questioni hanno ad oggetto l’accertamento dell’esistenza e dell’estensione di diritti soggettivi, sia dei privati che della pubblica Amministrazione.
7.2 Ed invero, nell’ipotesi di specie, parte ricorrente contesta l’esistenza stessa dei presupposti per l’inserimento della strada de qua fra le strade pubbliche e pertanto la possibilità di sua inclusione nel piano di alienazioni immobiliari, in considerazione della natura privata del viale in questione.
7.3 Né al riguardo rilevano le specifiche censure dedotte da parte ricorrente sub specie di difetto di istruttoria, in quanto
è noto che la giurisdizione si determina in base alla domanda e, ai fini del riparto tra giudice ordinario e giudice amministrativo, rileva non già la prospettazione delle parti, bensì il "petitum" sostanziale, il quale va identificato non solo e non tanto in funzione della concreta pronuncia che si chiede al giudice, ma anche e soprattutto in funzione della "causa petendi", ossia della intrinseca natura della posizione dedotta in giudizio ed individuata dal giudice con riguardo ai fatti allegati ed al rapporto giuridico del quale detti fatti costituiscono manifestazione (fra le altre Cass. civ. Sez. U., ordinanza n. 12378 del 16/05/2008; Sez. U, ordinanza n. 15323 del 25/06/2010).
7.4 A tal riguardo è indubbio che la posizione fatta valere da parte ricorrente sia di diritto soggettivo in quanto per la giurisprudenza prevalente sia della Suprema Corte che del Consiglio di Stato (da ultimo Civ., Sez. Un., 27.01.2010, n. 1624 cit.; Consiglio di Stato, Sez. V - sentenza 07.12.2010 n. 8624) “
l’iscrizione di una strada nell'elenco delle vie pubbliche o gravate da uso pubblico non ha natura costitutiva e portata assoluta, ma riveste funzione puramente dichiarativa della pretesa del Comune, ponendo una semplice presunzione di pubblicità dell’uso, superabile con la prova contraria della natura della strada e dell’inesistenza di un diritto di godimento da parte della collettività mediante un’azione negatoria di servitù"; analogamente Consiglio di Stato, Sez. V - sentenza 01.12.2006 n. 7081 ritiene che l’iscrizione di una strada vicinale nell’elenco delle strade di uso pubblico del Comune comporta una presunzione di pubblicità della strada stessa, superabile solo con l’accertamento in sede giudiziaria civile della sua natura privata.
7.6. Né vale a fondare il radicamento della giurisdizione dell’adito G.A. la circostanza che il carattere pubblico della strada sia stato rappresentato negli atti impugnati ai fini della sua inclusione nel pieno di alienazioni immobiliari, in quanto, come correttamente rappresentato dalla difesa della controinteressata, nella stessa prima delibera di C.C. n. 20 del 2015 oggetto di impugnativa si afferma che l’inserimento dei beni immobili nel Piano ne determina la classificazione come bene disponibile e la destinazione urbanistica, anche in variante, ai vigenti strumenti urbanistici e che la stessa ha effetto dichiarativo della proprietà, anche in assenza di precedente trascrizione, producendo gli effetti previsti dall’art. 2644 c.c..
La natura puramente dichiarativa dell’elenco del Piano delle Alienazioni immobiliari di cui alle citate delibere, al pari di quella discendente dall’iscrizione della strade tra quelle pubbliche o di uso pubblico, non lascia pertanto spazi per la sussistenza della giurisdizione dell’adito G.A., non potendo detta inclusione, in quanto di carattere meramente dichiarativo –e non costitutivo- e pertanto di natura paritetica, rilevare come atto autoritativo di carattere ablativo della proprietà privata.
7.5 Né può ritenersi la sussistenza della giurisdizione dell’adito G.A. ai sensi dell’art. 34 D.Lgs. n. 80/1998 (ora ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. f), c.p.a.) in quanto come ritenuto dal Consiglio di Stato sez. V, con sentenza del 10.09.2009, n. 5422, (avente ad oggetto l’annullamento di una nota comunale di inclusione di una strada privata fra le strade vicinali, ossia fra le strade ad uso pubblico) la disposizione citata va interpretata in senso costituzionalmente orientato (Corte Cost. n. 204/2004 e n. 191/2006 ) e, quindi, deve escludersi che essa abbia esteso l'alveo della giurisdizione amministrativa a liti -come la presente- non riconducibili, nemmeno mediatamente, all'esercizio di un pubblico potere.
8.
Va quindi dichiarato il difetto di giurisdizione dell’adito G.A. in favore del G.O., con conseguente inammissibilità dell’odierno ricorso.
9.
Restano salvi gli effetti processuali e sostanziali della domanda se il processo è riproposto innanzi al G.O. nel termine perentorio di tre mesi dal passaggio in giudicato della presene sentenza, ex art. 11 c.p.a. (traslatio iudicii).

EDILIZIA PRIVATAIn generale, rientra nel concetto di costruzione ogni manufatto, di qualunque materiale esso sia costituito, che emerga in modo sensibile al di sopra del livello del suolo o non sia completamente interrato e che, pur difettando di una propria individualità, per struttura, solidità, compattezza, consistenza e sporgenza dal terreno, sia idoneo a creare quelle intercapedini dannose, in quanto impediscono il passaggio di aria e luce, che la legge, stabilendo la distanza minima fra le costruzioni, intende evitare.
Pertanto, alla luce delle suesposte considerazioni, appare coerente con le finalità di pubblico interesse l’esclusione dalla disciplina delle distanza dei manufatti non più alti di un metro in quanto, appunto, configurano entità trascurabili rispetto all'interesse tutelato dalla norma considerato nel suo triplice aspetto della tutela della sicurezza, della salubrità e dell'igiene.

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L’argomento della ricorrente, che attiene invero più all’interpretazione giurisprudenziale della normativa vigente che a concreti profili di illegittimità delle norme genericamente richiamate, non trova peraltro riscontro nel testo del R.E.
L’art. 11, comma 2, in materia di “distanze minime dei fabbricati dai confini di proprietà”, stabilisce infatti che “La distanza dei fabbricati dai confini di proprietà viene determinata quale distanza minima tra il fabbricato in qualsiasi punto, anche se aggettante, ed il confine”.
L’art. 12, comma 1°, dello stesso R.E., in materia di “Distanze minime tra edifici” precisa che con tale definizione si intende “…la distanza minima fra le proiezioni verticali dei fabbricati, misurata nei punti di massima sporgenza ad esclusione degli aggetti praticabili e non praticabili compresi entro m. 1,20. I distacchi variano da zona a zona ma è fissato un minimo assoluto”.
Il 2° comma dello stesso articolo precisa che “E’ prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di 10 metri tra pareti finestrate e tra pareti di edifici antistanti”.
Alla luce dei ricordati testi normativi non è dato comprendere sotto quale aspetto la previsione comunale si ponga in concreto ed effettivo contrasto con i parametri normativi richiamati.
Del pari privo di pregio è il rilievo che sarebbe illegittima la disposizione impugnata nella parte in cui prevede che “Fanno eccezione alla distanza minima così definita i manufatti di qualsiasi genere, compresi gli interrati e i seminterrati, non più alti in ogni punto di 1,00 metro dalla quota del piano stradale o del piano di campagna allo stato naturale se più sfavorevole”.
Ed invero la pacifica giurisprudenza è concorde nel ritenere che ratio della disposizione in oggetto sia quella di impedire che tra costruzioni vicine si creino intercapedini che, per la loro esiguità, abbiano a risultare pericolose (sotto il profilo dell’insalubrità nonché dell’ordine pubblico).
In generale, rientra nel concetto di costruzione ogni manufatto, di qualunque materiale esso sia costituito, che emerga in modo sensibile al di sopra del livello del suolo o non sia completamente interrato e che, pur difettando di una propria individualità, per struttura, solidità, compattezza, consistenza e sporgenza dal terreno, sia idoneo a creare quelle intercapedini dannose, in quanto impediscono il passaggio di aria e luce, che la legge, stabilendo la distanza minima fra le costruzioni, intende evitare.
Pertanto, alla luce delle suesposte considerazioni, appare coerente con le finalità di pubblico interesse l’esclusione dalla disciplina delle distanza dei manufatti non più alti di un metro in quanto, appunto, configurano entità trascurabili rispetto all'interesse tutelato dalla norma considerato nel suo triplice aspetto della tutela della sicurezza, della salubrità e dell'igiene (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 03.02.2016 n. 98 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il c.d. piano "in pilotis " o piloty è lo spazio a livello del suolo su cui insiste un edificio costruito su piloni.
Esso, dunque, fintanto che resta aperto su tutti i lati e destinato a parcheggio, sebbene non qualificabile come un volume tecnico, non concorre a formare la volumetria dell'edificio, rilevando in tal senso soltanto solo allorché venga chiuso per essere utilizzato ad altri fini.

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in materia urbanistico-edilizia il presupposto per l'esistenza di un volume edilizio è costituito dalla costruzione di (almeno) un piano di base e due superfici verticali contigue, così da ottenere appunto una superficie chiusa su un minimo di tre lati, non potendosi dunque escludere in via generale dal computo della volumetria tale tipologia di manufatti.
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C – R.E. Artt. 13 e 126: contrasto con l’orientamento giurisprudenziale consolidato in materia di volumi tecnici: la censura va respinta senza necessità di alcuna argomentazione non essendo stato individuato da parte della ricorrente alcun parametro normativo violato dal Comune di Tortoli.
D – R.E. Art. 14 - NTA del PUC, art. 45, comma 8, lettera e): Violazione articoli 4 e 5 del decreto Floris - contrasto con l’orientamento giurisprudenziale consolidato in materia di calcolo dei volumi: in quanto la lettera b) del comma 2, e i commi 3, 4 e 5 sarebbero in contrasto con l’orientamento giurisprudenziale consolidato e con l’art. 4 del decreto Floris secondo cui costituisce volume urbanistico qualunque spazio chiuso lateralmente per almeno tre lati.
Orbene, il riferimento al comma 2, lettera b) dell’art. 14 è relativo alla detraibilità dal computo dei volumi del piano pilotis per un’altezza pari a mt. 2,50.
La censura non merita accoglimento.
Il c.d. piano "in pilotis " o piloty è lo spazio a livello del suolo su cui insiste un edificio costruito su piloni.
Esso, dunque, fintanto che resta aperto su tutti i lati e destinato a parcheggio, sebbene non qualificabile come un volume tecnico, non concorre a formare la volumetria dell'edificio, rilevando in tal senso soltanto solo allorché venga chiuso per essere utilizzato ad altri fini (in termini, TAR Lazio, Sez. II-ter, n. 8644 dell’11.09.2009).
L’altro vizio di legittimità contestato dalla Regione riguarda il 3° comma dell’art. 14, per il quale “Sono inoltre escluse dal computo dei volumi le superfici chiuse lateralmente su tre lati con profondità inferiore ai 2,50 metri”.
Tale censura merita accoglimento.
Ed invero in materia urbanistico-edilizia il presupposto per l'esistenza di un volume edilizio è costituito dalla costruzione di (almeno) un piano di base e due superfici verticali contigue, così da ottenere appunto una superficie chiusa su un minimo di tre lati (cfr. Tar Campania, Napoli, IV, 24.05.2010, n. 8342; Tar Piemonte, 12.07.2005, n. 2824), non potendosi dunque escludere in via generale dal computo della volumetria tale tipologia di manufatti.
Di qui l’annullamento dell’art. 14, comma 3°, del R.E. (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 03.02.2016 n. 98 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non esiste una differenza di ordine qualitativo tra ampliamento e nuova costruzione.
L'ampliamento, infatti, costituisce una “modalità” di realizzazione di una nuova costruzione che si concreta essenzialmente nella realizzazione di nuovi manufatti che si aggiungono alla struttura edilizia preesistente modificandone l' estensione e la consistenza, con incremento del valore originario; pertanto, il detto intervento si traduce nella costruzione di corpi aggiunti, il cui inserimento modifica la fisionomia strutturale e accresce la consistenza volumetrica dell' edificio sul quale si interviene, che risulta trasformato dalla realizzazione della nuova opera..
In sostanza, ciò che distingue l'ampliamento dalla nuova costruzione è l’iniziale relazione di accessorietà tra un manufatto nuovo ed uno preesistente principale.
Pertanto il concetto di “nuova costruzione” riguarda non solo la realizzazione di un manufatto su un'area libera, ma anche ogni intervento di ristrutturazione che rende un manufatto oggettivamente diverso da quello preesistente, in considerazione dell'entità delle modifiche; tenendo presente che l'oggettiva diversità del manufatto, come emerge dall'articolo 8 della legge 28.02.1985 n. 47 (relativo alla determinazione delle variazioni essenziali), si ha per il solo fatto che sussiste "il mutamento della destinazione d'uso che implichi la variazione degli standard".
In buona sostanza, ciò che distingue l'ampliamento dalla nuova costruzione è la natura totalmente autonoma del manufatto realizzato su un terreno inedificato ovvero radicalmente innovativa rispetto alla costruzione preesistente che caratterizza la seconda rispetto al primo.
Tali tipologie di intervento restano quindi assoggettate al medesimo regime urbanistico senza che possa dunque ritenersi legittimo introdurre in sede di pianificazione comunale, con riguardo ad ampliamenti di notevole portata (fino al 40%) e al fine di assoggettarli ad una diversa disciplina urbanistica, una diversa qualificazione giuridica di interventi edilizi sostanzialmente omogenei.
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E – Regolamento Edilizio – art. 16 – Violazione principi giurisprudenziali consolidati in materia – Contrasto con l’orientamento giurisprudenziale consolidato in materia: analogamente a quanto sopra rilevato sub C), la censura va respinta senza necessità di alcuna argomentazione non essendo stato individuato da parte della ricorrente alcun parametro normativo violato dal Comune di Tortoli.
F) – Regolamento Edilizio – articoli 21 e 27 – Violazione art. 3 del DPR n. 380/2001 e ss.mm.: con riguardo alla modifica delle definizioni contenute nell’anzidetta normativa statale, in particolare la definizione di “manutenzione straordinaria” non può essere diversa da quella prevista dalla lettera b) e la definizione di “ampliamento” non può essere diversa da quella prevista dalla lettera e.1) dello stesso DPR, secondo cui è “nuova costruzione” ogni ampliamento realizzato all’esterno della sagoma esistente, e non solo quello che supera il 40% del volume.
Quanto al primo profilo, in mancanza del benché minimo argomento dal quale ricavare quale sia il profilo di contrasto con l’art. 3 del DPR n. 380/2001 individuato dalla Regione (né aiuta il verbale n. 8 del CTRU a pag. 10, parimenti generico), la definizione di “manutenzione straordinaria” di cui all’art. 21 del R.E. appare coerente con quanto previsto dalla normativa statale, con conseguente reiezione della censura.
Merita invece accoglimento il secondo rilievo relativo all’art. 27, comma 1 e 2, del R.E. per il quale “Si definisce ampliamento di edificio esistente l’intervento che comporta un incremento fino ad un massimo del 40% delle superfici esistenti…; 2. Per incrementi superiori l’intervento si considera di nuova costruzione”.
Va anzitutto premesso che non esiste una differenza di ordine qualitativo tra ampliamento e nuova costruzione.
L'ampliamento, infatti, costituisce una “modalità” di realizzazione di una nuova costruzione che si concreta essenzialmente nella realizzazione di nuovi manufatti che si aggiungono alla struttura edilizia preesistente modificandone l' estensione e la consistenza, con incremento del valore originario; pertanto, il detto intervento si traduce nella costruzione di corpi aggiunti, il cui inserimento modifica la fisionomia strutturale e accresce la consistenza volumetrica dell' edificio sul quale si interviene, che risulta trasformato dalla realizzazione della nuova opera..
In sostanza, ciò che distingue l'ampliamento dalla nuova costruzione è l’iniziale relazione di accessorietà tra un manufatto nuovo ed uno preesistente principale.
Pertanto il concetto di “nuova costruzione” riguarda non solo la realizzazione di un manufatto su un'area libera, ma anche ogni intervento di ristrutturazione che rende un manufatto oggettivamente diverso da quello preesistente, in considerazione dell'entità delle modifiche; tenendo presente che l'oggettiva diversità del manufatto, come emerge dall'articolo 8 della legge 28.02.1985 n. 47 (relativo alla determinazione delle variazioni essenziali), si ha per il solo fatto che sussiste "il mutamento della destinazione d'uso che implichi la variazione degli standard" (Cons. St., Sez. V, 03.02.1999, n. 98; Sez. V, 22.06.1998, n. 921).
In buona sostanza, ciò che distingue l'ampliamento dalla nuova costruzione è la natura totalmente autonoma del manufatto realizzato su un terreno inedificato ovvero radicalmente innovativa rispetto alla costruzione preesistente che caratterizza la seconda rispetto al primo.
Tali tipologie di intervento restano quindi assoggettate al medesimo regime urbanistico senza che possa dunque ritenersi legittimo introdurre in sede di pianificazione comunale, con riguardo ad ampliamenti di notevole portata (fino al 40%) e al fine di assoggettarli ad una diversa disciplina urbanistica, una diversa qualificazione giuridica di interventi edilizi sostanzialmente omogenei.
Di qui l’accoglimento della censura e l’annullamento dell’art. 27, comma 1 e 2, del R.E. (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 03.02.2016 n. 98 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Le disposizioni di cui al D.M. 05.07.1975, finalizzate alla tutela di preminenti interessi pubblici, integrano una normativa di rango primario e pertanto ad esse, al pari di quanto accade per le disposizioni in materia di sicurezza statica e di prevenzione degli incendi e degli infortuni, dev’essere data un’interpretazione strettamente letterale, con la conseguenza che tali prescrizioni sono inderogabili da parte dei regolamenti comunali.
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G) – Regolamento Edilizio – articoli 26, 29, 30, 31, 32, 38, 39, 40 e ss. fino al 53 – Violazione della legge regionale n. 23/1985, artt. 10-bis, 11, 14, 15 e 15-ter.
Sostiene in particolare la Regione che:
G.1) L’art. 26 del R.E. in materia di mutamenti di destinazione d’uso sarebbe in contrasto con l’art. 11 della L.R. n. 23/1985;
G.2) Gli artt. 29, 30, 31 e 32 che disciplinano le opere interne, le opere minori, la sistemazione dei terreni e l’arredo urbano sarebbero in contrasto con gli artt. 10-bis e 15 della L.R. n. 23/1985;
G.3) Gli artt. 38, 39 e 40 che disciplinano le modalità per la realizzazione di opere di edilizia libera, di opere soggette a permesso di costruire e di opere soggette a DIA/Autorizzazione edilizia sarebbero in contrasto con gli artt. 10-bis, 15, 15-ter della L.R. n. 23/1985.
Ritiene il Collegio che le censure in esame, per come genericamente formulate dalla ricorrente che, per ognuna di esse si limita a richiamare un parametro normativo (peraltro dal contenuto articolato e complesso) senza spendere neppure un argomento per evidenziare profili di illegittimità censurati vadano tutte respinte per genericità, non potendosi ammettere che l’onere probatorio incombente sulla parte ricorrente possa, nel giudizio amministrativo, limitarsi ad una generico giudizio di difformità della disposizione urbanistica impugnata rispetto alla normativa di riferimento del tutto avulsa dalla prospettazione di puntuali vizi dell'atto concretamente incidenti sugli interessi riconducibili alla sfera giuridica della parte ricorrente.
H – Regolamento Edilizio – Art. 73: Violazione dell’art. 1 del DM Sanità 05.07.1975.
La censura della Regione riguarda il 2° comma dell’art. 73 R.E. per il quale le disposizioni sulle altezze minime dei locali abitabili “…non si applicano per gli interventi di recupero del patrimonio edilizio esistente..”.
Tale previsione, infatti, sarebbe in contrasto col richiamato decreto del 1975 che consente la deroga alle altezze minime solo per i locali di abitazione di edifici situati in ambito di Comunità montane sottoposti ad interventi di recupero edilizio e di miglioramento delle caratteristiche igienico sanitarie quando l’edificio presenti caratteristiche tipologiche specifiche del luogo meritevoli di conservazione.
Il motivo è fondato.
Le disposizioni di cui al D.M. 05.07.1975, finalizzate alla tutela di preminenti interessi pubblici, integrano, infatti, una normativa di rango primario e pertanto ad esse, al pari di quanto accade per le disposizioni in materia di sicurezza statica e di prevenzione degli incendi e degli infortuni, dev’essere data un’interpretazione strettamente letterale, con la conseguenza che tali prescrizioni sono inderogabili da parte dei regolamenti comunali.
Di qui l’illegittimità dell’art. 73, comma 2, del R.E. del Comune di Tortolì (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 03.02.2016 n. 98 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il vincolo cimiteriale persegue la finalità di pubblico interesse di assicurare, in primo luogo, condizioni di igiene e di salubrità mediante la conservazione di una "cintura sanitaria" intorno allo stesso cimitero e, in secondo luogo, garantire la tranquillità e il decoro ai luoghi di sepoltura.
Sul punto non è superfluo richiamare la giurisprudenza formatasi in materia per la quale “La fascia di rispetto cimiteriale prevista dall'art. 338 t.u. leggi sanitarie 27.07.1934 n. 1265, misurata a partire dal muro di cinta del cimitero, costituisce un vincolo assoluto d'inedificabilità, tale da imporsi anche a contrastanti previsioni di piano regolatore generale, che non consente in alcun modo l'allocazione sia di edifici che di opere incompatibili col vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che tale fascia di rispetto intende tutelare e che sono da individuarsi in esigenze di natura igienico-sanitaria, nella salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi destinati all'inumazione e alla sepoltura, nel mantenimento di un'area di possibile espansione della cinta cimiteriale…”.

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O.1 - Inoltre l’art. 58 delle NTA definisce le aree di rispetto cimiteriale ma si pone in contrasto con l’art. 338 del TU leggi sanitarie in quanto la misura della fascia di rispetto è pari a 200 metri e può essere ridotta, salvo specifica autorizzazione ASL, solo per la costruzione di nuovi cimiteri o l’ampliamento di quelli già esistenti e per dare esecuzione ad un’opera pubblica o all’attuazione di un intervento urbanistico.
L’art. 338 del T.U. delle leggi sanitarie (R.D. 27.07.1934 n. 1265) stabilisce che: “I cimiteri devono essere collocati alla distanza di almeno 200 metri dal centro abitato. È vietato costruire intorno ai cimiteri nuovi edifici entro il raggio di 200 metri dal perimetro dell'impianto cimiteriale, quale risultante dagli strumenti urbanistici vigenti nel comune o, in difetto di essi, comunque quale esistente in fatto, salve le deroghe ed eccezioni previste dalla legge.

Il consiglio comunale può approvare, previo parere favorevole della competente azienda sanitaria locale, la costruzione di nuovi cimiteri o l'ampliamento di quelli già esistenti ad una distanza inferiore a 200 metri dal centro abitato, purché non oltre il limite di 50 metri, quando ricorrano, anche alternativamente, le seguenti condizioni:
a) risulti accertato dal medesimo consiglio comunale che, per particolari condizioni locali, non sia possibile provvedere altrimenti;
b) l'impianto cimiteriale sia separato dal centro urbano da strade pubbliche almeno di livello comunale, sulla base della classificazione prevista ai sensi della legislazione vigente, o da fiumi, laghi o dislivelli naturali rilevanti, ovvero da ponti o da impianti ferroviari.
Per dare esecuzione ad un'opera pubblica o all'attuazione di un intervento urbanistico, purché non vi ostino ragioni igienico-sanitarie, il consiglio comunale può consentire, previo parere favorevole della competente azienda sanitaria locale, la riduzione della zona di rispetto tenendo conto degli elementi ambientali di pregio dell'area, autorizzando l'ampliamento di edifici preesistenti o la costruzione di nuovi edifici. La riduzione di cui al periodo precedente si applica con identica procedura anche per la realizzazione di parchi, giardini e annessi, parcheggi pubblici e privati, attrezzature sportive, locali tecnici e serre.
”.
Il rilievo della Regione è fondato e merita accoglimento sia in ordine alla previsione di una ridotta fascia di rispetto (100 m.) sia con riferimento alla mancata indicazione dei casi tassativi in cui può essere derogata la previsione normativa.
Il vincolo cimiteriale, infatti, persegue la finalità di pubblico interesse di assicurare, in primo luogo, condizioni di igiene e di salubrità mediante la conservazione di una "cintura sanitaria" intorno allo stesso cimitero e, in secondo luogo, garantire la tranquillità e il decoro ai luoghi di sepoltura.
Sul punto non è superfluo richiamare la giurisprudenza formatasi in materia per la quale “La fascia di rispetto cimiteriale prevista dall'art. 338 t.u. leggi sanitarie 27.07.1934 n. 1265, misurata a partire dal muro di cinta del cimitero, costituisce un vincolo assoluto d'inedificabilità, tale da imporsi anche a contrastanti previsioni di piano regolatore generale, che non consente in alcun modo l'allocazione sia di edifici che di opere incompatibili col vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che tale fascia di rispetto intende tutelare e che sono da individuarsi in esigenze di natura igienico-sanitaria, nella salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi destinati all'inumazione e alla sepoltura, nel mantenimento di un'area di possibile espansione della cinta cimiteriale…” (Cons. Stato, Sez. IV, n. 4403 del 2011).
Di qui l’annullamento dell’art. 58 delle NTA del PUC per quanto in contrasto con l’art. 338 del T.U. leggi sanitarie (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 03.02.2016 n. 98 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPacifica è la diversa natura degli oneri di urbanizzazione, che compensano la collettività per il nuovo ed ulteriore carico urbanistico che si riversa sulla zona, rispetto ai costi di costruzione che vogliono essere una compartecipazione comunale all’incremento di valore della proprietà immobiliare del costruttore, a seguito della nuova edificazione; si tratterebbe, quindi, di una prestazione patrimoniale aggiuntiva, di carattere paratributario, che non sarebbe negoziabile.
La terminologia adoperata di “sgravio”, “scomputo”, “compensazione”, implica, in presenza di una convenzione edilizia, una negoziazione inter partes, che non significa affatto rinunce e/o abbuoni di somme dovute, ma serve per concordare soluzioni per adempiere alle obbligazioni previste e stabilite, in modo equivalente e sostitutivo, fermo restando la corrispondenza all’importo pecuniario quantificato; attraverso di essa, la parte pubblica tende a realizzare, in modo tempestivo e proficuo, ulteriori opere a vantaggio della collettività, circostanza che giustifica l’utilizzo di siffatte somme paratributarie.
L’art. 16 del DPR n. 380/2001, su cui fa perno la tesi del Comune, prevede la corresponsione di un contributo commisurato all’incidenza degli oneri sociali di urbanizzazione, nonché al costo di costruzione; esso, pertanto, è composto da due quote distinte: gli oneri di urbanizzazione, che non sono dovuti se il titolare del permesso si obbliga a realizzare direttamente tali opere, le quali resteranno acquisite al patrimonio indisponibile del Comune (cd. scomputo totale e/o parziale), ed il costo di costruzione, che, invece, essendo una percentuale (dal 5 al 20%) rapportata non ad opere da fare per la collettività, ma ai costi di costruzione per tipologia edilizia, adeguati annualmente, non sono suscettibile di entrare in quel meccanismo dello scomputo, ma non per questo è possibile ricavare la regola fiscale di un pagamento pecuniario.
Quel che va verificato, una volta che il Comune ha richiesto lavori aggiuntivi alle stesse opere di urbanizzazione, è la loro adeguatezza ai costi di costruzione dovuti; la indisponibilità, infatti, è nel senso che essi sono previsti e quantificati per legge, ma la forma del pagamento, con compensazione o meno, è rimessa all’accordo delle parti.
L’art. 16 citato non costituisce, quindi, un impedimento ad un eventuale accordo sostitutivo anche per il costo di costruzione, né esso si pone come norma imperativa in senso negativo, solo perché lo scomputo è oggettivamente possibile unicamente per gli oneri urbanistici; ciò spiega il perché la norma si è limitata ad indicare i soli oneri urbanistici come scomputabili, ma non è affatto possibile affermare che sussiste un divieto tassativo per forme alternative di pagamento e/o compensazione con opere urbanistiche anche per i costi di costruzione.
Nei casi di edilizia abitativa convenzionata (art. 17 DPR. 380/2001), invero, il costo di costruzione è barattabile con i prezzi di vendita e i canoni di locazione (indicizzati), mediante accordo tra Comune e costruttore.

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La natura paratributaria se esclude ogni disponibilità del quantum dovuto, che ha criteri prefissati, non impedisce al Comune di negoziare tale importo per altri precisi adempimenti urbanistici, quali infrastrutture ed opere sociali e civiche.
Nella fattispecie il Comune ha espressamente compensato tali costi con la richiesta di ulteriori lavori ed adempimenti operativi, tanto è vero che si è premurato di stabilire il tetto complessivo delle somme in compensazione, che, se sforate in plus, restano a carico della sola società, senza alcuno esborso da parte dell’ente.
Non è, pertanto, rilevabile alcuna nullità assoluta per la clausola compensativa posta in convenzione, né è possibile alcuna sostituzione automatica della stessa con la regola del versamento pecuniario, che, nel caso di specie, sarebbe aggiuntivo ed implicherebbe il pagamento, da parte del Comune, delle opere ulteriori realizzate dalla ditta; la forma solutoria dei costi di costruzione, fermo il quantum e la doverosità, non ha alcuna tipizzazione monetaria inderogabile.
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... per l'annullamento DELLA DELIBERA N. 61 DELL'08.10.2009 CON CUI IL C.C. DEL COMUNE DI SPOLTORE CONVALIDA PARZIALMENTE LA DELIBERA DI G.M. N. 49/2001 DI ADOZIONE DELLE MODIFICHE ALLE N.T.A. DEL P.P. DIREZIONALE VILLA RASPA; NONCHÈ DELLA DELIBERA DI G.M. N. 260 DEL 05.11.2009 NELLA PARTE IN CUI DISPONE NEI CONFRONTI DELLA DITTA RICORRENTE IL PAGAMENTO DEL COSTO DI COSTRUZIONE E DEL RICHIESTO PAGAMENTO.
...
La delibera comunale n. 61/2009 si prospetta come atto modificativo dell’art. 8 delle NTA del P.P. (zona direzionale Villa Raspa), sostituendo alla frase “potranno essere scomputati dagli oneri concessori dovuti”, altra che dice “potranno essere scomputati dagli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria dovuti”, e dell’art. 6 della convenzione tipo allagata alle NTA, prevedendo che “resta in ogni caso dovuto … l’importo relativo ai costi di costruzione delle opere”; obbligo riaffermato nel provvedimento di G.M. n. 260/2009.
IL soggetto attuatore, pertanto, dovrà realizzare a proprie spese tutte le opere di urbanizzazione primaria, cedendole con relative aree, infrastrutture, impianti ed attrezzature pubbliche del comprensorio, per una percentuale del 5% “delle Se delle zone a servizi previsti nel comprensorio”.
L’atto è stato reso immediatamente eseguibile.
IL Comune sostiene che si tratta di una variante adottata che farà il suo percorso ex lege, ai fini dell’approvazione, e che comunque per il richiesto pagamento dei costi di costruzione è stato utilizzato l’art. 1419, comma 2°, cod. civ. con la sostituzione automatica nella convenzione della norma imperativa, rappresentata dall’art. 16 del DPR n. 380/2001, mentre gli annullamenti degli atti rappresentano un’autotutela immediata.
Pacifica è la diversa natura degli oneri di urbanizzazione, che compensano la collettività per il nuovo ed ulteriore carico urbanistico che si riversa sulla zona, rispetto ai costi di costruzione che vogliono essere una compartecipazione comunale all’incremento di valore della proprietà immobiliare del costruttore, a seguito della nuova edificazione; si tratterebbe, quindi, di una prestazione patrimoniale aggiuntiva, di carattere paratributario, che non sarebbe negoziabile.
La terminologia adoperata di “sgravio”, “scomputo”, “compensazione”, implica, in presenza di una convenzione edilizia, una negoziazione inter partes, che non significa affatto rinunce e/o abbuoni di somme dovute, ma serve per concordare soluzioni per adempiere alle obbligazioni previste e stabilite, in modo equivalente e sostitutivo, fermo restando la corrispondenza all’importo pecuniario quantificato; attraverso di essa, la parte pubblica tende a realizzare, in modo tempestivo e proficuo, ulteriori opere a vantaggio della collettività, circostanza che giustifica l’utilizzo di siffatte somme paratributarie.
L’art. 16 del DPR n. 380/2001, su cui fa perno la tesi del Comune, prevede la corresponsione di un contributo commisurato all’incidenza degli oneri sociali di urbanizzazione, nonché al costo di costruzione; esso, pertanto, è composto da due quote distinte: gli oneri di urbanizzazione, che non sono dovuti se il titolare del permesso si obbliga a realizzare direttamente tali opere, le quali resteranno acquisite al patrimonio indisponibile del Comune (cd. scomputo totale e/o parziale), ed il costo di costruzione, che, invece, essendo una percentuale (dal 5 al 20%) rapportata non ad opere da fare per la collettività, ma ai costi di costruzione per tipologia edilizia, adeguati annualmente, non sono suscettibile di entrare in quel meccanismo dello scomputo, ma non per questo è possibile ricavare la regola fiscale di un pagamento pecuniario.
Quel che va verificato, una volta che il Comune ha richiesto lavori aggiuntivi alle stesse opere di urbanizzazione, è la loro adeguatezza ai costi di costruzione dovuti; la indisponibilità, infatti, è nel senso che essi sono previsti e quantificati per legge, ma la forma del pagamento, con compensazione o meno, è rimessa all’accordo delle parti.
L’art. 16 citato non costituisce, quindi, un impedimento ad un eventuale accordo sostitutivo anche per il costo di costruzione, né esso si pone come norma imperativa in senso negativo, solo perché lo scomputo è oggettivamente possibile unicamente per gli oneri urbanistici; ciò spiega il perché la norma si è limitata ad indicare i soli oneri urbanistici come scomputabili, ma non è affatto possibile affermare che sussiste un divieto tassativo per forme alternative di pagamento e/o compensazione con opere urbanistiche anche per i costi di costruzione.
Nei casi di edilizia abitativa convenzionata (art. 17 DPR. 380/2001), invero, il costo di costruzione è barattabile con i prezzi di vendita e i canoni di locazione (indicizzati), mediante accordo tra Comune e costruttore.
La LRA n. 18/1983, quale modificata dalla LRA. n. 70/1995, stabilisce anch’essa la corresponsione di un contributo commisurato alle spese di urbanizzazione ed al costo di costruzione (art.60), senza null’altro di particolare, il che conferma l’assenza di ogni norma imperativa circa la forma dell’incasso, mentre è essenziale che l’entrata finanziaria vi sia, ancorché destinata, in contestuale, ad altre opere pubbliche.
La natura paratributaria se esclude ogni disponibilità del quantum dovuto, che ha criteri prefissati, non impedisce al Comune di negoziare tale importo per altri precisi adempimenti urbanistici, quali infrastrutture ed opere sociali e civiche.
Nella fattispecie il Comune ha espressamente compensato tali costi con la richiesta di ulteriori lavori ed adempimenti operativi, tanto è vero che si è premurato di stabilire il tetto complessivo delle somme in compensazione, che, se sforate in plus, restano a carico della sola società, senza alcuno esborso da parte dell’ente.
Non è, pertanto, rilevabile alcuna nullità assoluta per la clausola compensativa posta in convenzione, né è possibile alcuna sostituzione automatica della stessa con la regola del versamento pecuniario, che, nel caso di specie, sarebbe aggiuntivo ed implicherebbe il pagamento, da parte del Comune, delle opere ulteriori realizzate dalla ditta; la forma solutoria dei costi di costruzione, fermo il quantum e la doverosità, non ha alcuna tipizzazione monetaria inderogabile.
Che il Comune voglia cambiare il sistema adottato in precedenza, è nella sua discrezionalità, ma vanno salvaguardati gli effetti di quanto già concordato inter partes; l’art. 136 L. n. 311/2004, invero, prevede come, anche in ipotesi di provvedimenti illegittimi, sia salvaguardata la posizione patrimoniale del privato che ha il rapporto convenzionale con l’ente pubblico, rafforzando quello che è l’affidamento del cittadino nei confronti dell’Amministrazione, nonché gli equilibri economici contrattati.
L’annullamento d’ufficio in autotutela risulta, inoltre, conflittuale con l’art. 21-septies L. n. 241/1990, non rinvenendosi nella fattispecie nessuna delle ipotesi tassative di legge.
Conclusivamente il ricorso è accolto nei limiti degli interessi di parte ricorrente e le spese seguono la soccombenza (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 18.10.2010 n. 1142 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 29.03.2016

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Non spetta l'incentivo alla progettazione interna per i lavori di manutenzione ordinaria e straordinaria che dir si voglia.
AMEN!!

     Con l'AGGIORNAMENTO AL 21.12.2015 davamo conto di come la Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna, avesse deferito alla Sezione delle Autonomie ovvero alle Sezioni riunite il quesito relativo alla possibilità o meno di corrispondere l’incentivo alla progettazione per le attività di manutenzione straordinaria anche a seguito delle modifiche normative introdotte dall’articolo 13-bis del decreto-legge 24.06.2014, n. 90, convertito, con modificazioni, in legge 11.08.2014, n. 114.
     Ebbene, la Sez. Autonomie della Corte dei Conti ha posto fine al variegato e contrastante panorama interpretativo delle sezioni regionali in questi termini: "
la corretta interpretazione dell’articolo 93, comma 7-ter, d.lgs. 163/2006, alla luce delle disposizioni recate dal d.l. n. 90/2014 e dei criteri individuati dalla legge delega n. 11/2016, è nel senso dell’esclusione dall’incentivo alla progettazione interna di qualunque attività manutentiva, senza distinzione tra manutenzione ordinaria o straordinaria".
     Di seguito il parere:

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Questione di massima sulla corretta interpretazione dell’articolo 93, comma 7-ter, d.lgs. n. 163/2006, alla luce delle disposizioni recate dal d.l. n. 90/2014 e dei criteri individuati dalla legge delega n. 11/2016.
La corretta interpretazione dell’articolo 93, comma 7-ter, d.lgs. 163/2006, alla luce delle disposizioni recate dal d.l. n. 90/2014 e dei criteri individuati dalla legge delega n. 11/2016, è nel senso dell’esclusione dall’incentivo alla progettazione interna di qualunque attività manutentiva, senza distinzione tra manutenzione ordinaria o straordinaria.
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Resta ferma la necessità per gli enti locali di adeguare tempestivamente la disciplina regolamentare in materia, nella quale, peraltro, trova necessario presupposto l’erogazione dei predetti incentivi.

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PREMESSO
Con parere 15.12.2015 n. 155 e parere 15.12.2015 n. 156 la Sezione regionale di controllo per l’Emilia Romagna, in esito alle richieste di parere avanzate, rispettivamente, dai Sindaci dei Comuni di Ferrara e di Coriano, ha sospeso i due giudizi in corso, rimettendo i relativi atti al Presidente della Corte dei conti, per il deferimento in un’unica soluzione –stante la coincidenza dell’oggetto delle questioni poste- alla Sezione delle autonomie, ai sensi dell’art. 6, comma 4, del d.l. 10.10.2012, n. 174, convertito, con modificazioni, dalla legge 07.12.2012, n. 213 e s.m.i..
La richiesta di parere, articolata in tre quesiti dal Comune di Ferrara, è volta a conoscere l’avviso della suddetta Sezione Regionale di controllo in ordine alla corretta interpretazione dell’art. 93, comma 7-ter, del d.lgs. 12.04.2006, n.163 a seguito delle modifiche recate dagli articoli 13 e 13-bis del d.l. 24.06.2014, n. 90 convertito dalla l. n. 114/2014.
L’Amministrazione comunale chiede, fra l’altro, se le opere di manutenzione siano completamente escluse dal riparto del fondo per la progettazione e l’innovazione, oppure se sia possibile distinguere tra le attività di manutenzione ordinaria, escluse dall’incentivo, e quelle di manutenzione straordinaria, che, differenziandosi dalle prime per tipologia e complessità dei lavori e richiedendo un’attività progettuale specialistica, possano essere oggetto di incentivazione.
Nel parere 15.12.2015 n. 155, la Sezione Regionale di controllo ha ritenuto di dare soluzione solo a due dei tre quesiti posti dal Comune di Ferrara, affermando che l’incentivo alla progettazione può essere corrisposto alle sole figure professionali espressamente indicate dal legislatore e precisando, per quanto riguarda la questione di diritto intertemporale, che debbono essere richiamati i principi contenuti nella deliberazione 24.03.2015 n. 11 della Sezione delle Autonomie.
In ordine, infine, all’ulteriore quesito proposto, la Sezione, ravvisando un contrasto interpretativo fra le Sezioni regionali di controllo, ha deciso di rimettere la questione al Presidente della Corte dei conti.
Analogo esito ha avuto la richiesta formulata dal Comune di Coriano concernente una questione similare alla precedente.
Nel parere 15.12.2015 n. 156, infatti, la suddetta Sezione ha rimesso la questione all’odierno esame, evidenziando come l’orientamento che si era consolidato prima della novella recata dal d.l. n. 90/2014 (Sez. Toscana parere 19.03.2013 n. 15 e parere 13.11.2012 n. 293; Sez. Lombardia parere 06.03.2013 n. 72, Sez. Liguria parere 10.05.2013 n. 24), fosse inteso a riconoscere il predetto emolumento solo per la manutenzione straordinaria, purché preceduta da un’attività di progettazione e ad escluderlo, invece, nelle ipotesi di interventi qualificabili come attività di manutenzione ordinaria.
Successivamente, alla luce della nuova formulazione del comma 7-ter dell’articolo 93 d.lgs. n. 163/2006, che esclude espressamente dall’incentivazione le attività di manutenzione, sarebbe venuta meno l’uniformità di interpretazione da parte delle Sezioni regionali di controllo, le quali hanno espresso in merito pareri discordanti.
Alla luce di tale contrasto interpretativo, la Sezione regionale di controllo per l’Emilia Romagna ha sottoposto la questione al Presidente della Corte dei conti per il suo deferimento alla Sezione delle autonomie, in ragione della necessità di individuare un indirizzo interpretativo univoco della normativa esaminata.
Il Presidente della Corte dei conti, con l’ordinanza n. 4 del 25.01.2016, ha deferito la questione alla Sezione delle autonomie, fissando, con successiva convocazione, la discussione della stessa questione al punto 2) dell’ordine del giorno dell’odierna adunanza.
CONSIDERATO
1. La Sezione è chiamata ad esprimere il proprio avviso in merito alla questione di massima sollevata, ai sensi dell’art. 6, comma 4, del d.l. n. 174/2012, dalla Sezione regionale di controllo per l’Emilia Romagna con il parere 15.12.2015 n. 155 e parere 15.12.2015 n. 156 e concernente l’interpretazione dell’articolo 93, comma 7-ter, del d.lgs. n. 163/2006, come introdotto dall’art. 13-bis del d.l. n. 90/20014, convertito con modificazioni dalla legge n. 114/2014 ed, in particolare, in merito alla possibilità che l’incentivo alla progettazione possa essere corrisposto in relazione ad attività di manutenzione straordinaria, implicanti compiti di progettazione specialistica, anche a seguito delle novità introdotte dal citato art. 13-bis.
La questione è stata sollevata in ragione del contrasto interpretativo emerso nell’ambito dell’attività consultiva svolta ex art. 7, comma 8, della legge 05.06.2003, n. 131, dalle Sezioni regionali di controllo.
In particolare, secondo un orientamento, al quale hanno aderito la Sezione regionale per la Lombardia nel parere 28.10.2015 n. 351 e la Sezione regionale per le Marche nel parere 17.12.2014 n. 141, l’incentivo alla progettazione può essere riconosciuto per le attività di manutenzione straordinaria, purché si sia resa necessaria una preventiva attività di progettazione.
A diverse conclusioni ermeneutiche sono pervenute altre Sezioni regionali di controllo, tra cui la Sezione Toscana (cfr. parere 28.10.2015 n. 490), la Sezione Umbria (cfr. parere 14.05.2015 n. 71), la Sezione Liguria (cfr. parere 24.10.2014 n. 60), nonché la Sezione Veneto (cfr. parere 17.12.2015 n. 568), alle quali si aggiunge la Sezione remittente.
Secondo il predetto indirizzo l’interpretazione letterale della norma porta a sostenere che nessuna tipologia di attività manutentiva, a prescindere dalla presenza o meno di una preventiva attività di progettazione, possa essere remunerata con l’incentivo previsto dall’art. 93, comma 7-ter, d.lgs. n. 163/2006.
La prima tesi che riconosce l’attribuzione dell’incentivo in esame a favore delle attività di manutenzione straordinaria, precedute da attività di progettazione, si fonda sull’opportunità di coniugare l’interpretazione letterale delle disposizioni in parola con un’interpretazione sistematica, che tenga conto anche di altre norme. In tal senso devono essere considerati l’art. 3, comma 1, lett. b), del DPR 06.06.2001, n. 380 (Testo unico in materia di edilizia), che definisce le attività di manutenzione straordinaria, l’art. 3, commi 7 e 8, del d.lgs. n. 163/2006, che include nell’ambito degli appalti pubblici di lavori anche “le attività di costruzione, demolizione, recupero, ristrutturazione, restauro, manutenzione di opere”, nonché l’art. 3, comma 18, lettere a) e b), della legge 24.12.2003, n. 350 (legge finanziaria per il 2004), che equipara gli interventi di manutenzione straordinaria alla costruzione di nuove opere, qualificandoli come spese di investimento, per le quali è consentito il ricorso all’indebitamento.
Il contrapposto indirizzo interpretativo si fonda, invece, sui comuni canoni ermeneutici sanciti dall’articolo 12 delle preleggi – ove si prevede che l’interpretazione della norma sia, innanzitutto e principalmente, secondo il senso palesato dal significato stesso delle parole che la compongono (sul punto cfr. Cassazione Sez. Lav., sent. n. 1111 del 26.01.2012). Muovendo da tali presupposti, anche sulla base di un’interpretazione sistematica delle norme, tale orientamento ritiene di escludere la possibilità di corrispondere l’incentivo per le attività di manutenzione complessivamente intese, giacché il richiamo operato dalla citata legge finanziaria non sarebbe pertinente, in quanto rispondente ad una differente ratio legis.
A sostegno delle predette argomentazioni la Sezione remittente invoca, altresì, il disegno di legge delega al Governo per l’attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE in materia di concessioni e di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture (Atto Senato 1678-B), divenuto successivamente legge 28.01.2016, n. 11, nel cui ambito il criterio enunciato alla lettera “rr” dell’art. 1 esclude l’attribuzione del compenso incentivante per la remunerazione delle fasi della progettazione.
2. Ai fini del corretto inquadramento della tematica –nel rammentare la precedente giurisprudenza della Sezione in materia e segnatamente la
deliberazione 15.04.2014 n. 7 e deliberazione 24.03.2015 n. 11, che hanno fissato rispettivamente i presupposti per il riconoscimento del diritto all’incentivazione ed i limiti temporali per l’applicazione delle novelle recate dal d.l. n. 90/2014 in materia di tetto massimo alla corresponsione degli incentivi alla progettazione– occorre prendere le mosse dalla pre-vigente disciplina.
In particolare dall’articolo 92, commi 5 e 6, del codice degli appalti pubblici (rubricato “corrispettivi, incentivi per la progettazione e fondi a disposizione delle stazioni appaltanti”), che prevedeva la possibilità di ripartire per ogni singola opera o lavoro, secondo criteri previsti in sede di contrattazione decentrata ed assunti in un regolamento, una somma non superiore al due per cento dell'importo posto a base di gara dell'opera o del lavoro, tra i dipendenti coinvolti, tenendo conto delle responsabilità professionali connesse alle specifiche prestazioni da svolgere.
In costanza dell’anzidetto regime normativo e nel silenzio delle disposizioni sullo specifico aspetto, il consolidato orientamento delle Sezioni regionali di controllo in sede consultiva aveva escluso dal novero delle attività incentivabili la manutenzione ordinaria ed aveva riconosciuto il predetto emolumento solo a favore delle attività di manutenzione straordinaria, purché si fosse resa necessaria un’attività di progettazione.
Il riferito indirizzo si è andato consolidando intorno ad alcuni principi cardine riguardanti, fra l’altro, la riconoscibilità dell’incentivo limitatamente all’area degli appalti di lavori, con esclusione dei servizi manutentivi.
Con l’entrata in vigore dell’art. 13 del d.l. 24.06.2014, n. 90, convertito dalla l. n. 114/2014, i commi 5 e 6 dell’art. 92 sono stati abrogati.
Il successivo articolo 13-bis, rubricato “Fondi per la progettazione e l'innovazione”, ha aggiunto all’art. 93 del d.lgs. n. 163/2006 il comma 7-bis, che, nell’istituire un apposito fondo per la progettazione e l’innovazione, demanda ad un regolamento dell’ente la determinazione della percentuale effettiva delle risorse (non superiori al 2 per cento degli importi posti a base di gara di un’opera o di un lavoro) da destinare alle predette finalità.
Le risorse così determinate possono essere devolute, in forza di quanto disposto dal successivo comma 7-ter, per l’80 per cento ai compensi incentivanti da suddividere tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori. Il restante 20 per cento è destinato, dal comma 7-quater all’acquisto da parte dell’ente di beni, strumentazioni e tecnologie funzionali a progetti di innovazione, di implementazione di banche dati per il controllo ed il miglioramento della capacità di spesa per centri di costo, nonché all’ammodernamento ed all’accrescimento dell’efficienza dell’ente e dei servizi ai cittadini.
Il secondo periodo del comma 7-ter dell’articolo 93 d.lgs. n. 163/2006 demanda, altresì, al potere regolamentare di ciascun ente la definizione dei “criteri di riparto delle risorse del fondo, tenendo conto delle responsabilità connesse alle specifiche prestazioni da svolgere, con particolare riferimento a quelle effettivamente assunte e non rientranti nella qualifica funzionale ricoperta, della complessità delle opere, escludendo le attività manutentive, e dell’effettivo rispetto, in fase di realizzazione dell’opera, dei tempi e dei costi previsti dal quadro economico del progetto esecutivo”.
3.
Alla luce del quadro normativo di riferimento appare evidente come il legislatore, con le disposizioni di cui trattasi, sia intervenuto a modificare profondamente la disciplina degli incentivi alla progettazione, ridefinendone gli ambiti di operatività, sia sotto il profilo soggettivo che sotto quello oggettivo.
In riferimento al primo aspetto,
è stato limitato l’ambito dei destinatari del nuovo fondo istituito dal citato art. 13-bis, confinandolo, innanzitutto, alle figure professionali espressamente individuate dalle norme (responsabile del procedimento ed incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori e dei loro collaboratori) con esclusione di quelle aventi qualifica dirigenziale, per le quali prevale senz’altro, il criterio dell’onnicomprensività del trattamento economico.
Inoltre,
la corresponsione dell’incentivo è stata prevista a vantaggio esclusivo dei soggetti che abbiano effettivamente svolto attività di progettazione non rientranti fra le competenze della qualifica funzionale ricoperta, al fine di riconoscere un differenziale retributivo connesso al maggior carico di lavoro e di responsabilità assunto dai dipendenti dei ruoli tecnici, per lo svolgimento di tali attività.
Sotto il profilo oggettivo, nell’ottica del contenimento delle dinamiche retributive del personale,
è stato ridotto del 50 per cento il tetto massimo riconoscibile a favore di ogni singolo dipendente, prima individuato nel trattamento economico annuo lordo. Inoltre, le quote corrispondenti a prestazioni non svolte o, comunque, non accertate e validate da parte del responsabile del servizio preposto alla struttura competente, costituiscono economie di spesa.
4. Dalla sintetica ricostruzione normativa proposta,
appare evidente, altresì, come le disposizioni introdotte dal d.l. n. 90/2014 e dalla relativa legge di conversione, mirino non solo ad una finalità di contenimento della spesa ma anche ad una sua razionalizzazione.
In quest’ultima prospettiva si collocano, infatti, la finalizzazione del fondo non più alla mera incentivazione, bensì alla progettazione ed all’innovazione, con destinazione della quota del 20% alle dotazioni infrastrutturali necessarie a raggiungere tale obiettivo. Alla medesima finalità appare diretta la previsione di una graduabilità dell’incentivo in relazione ad alcuni parametri collegati anche a tempi e costi previsti nel progetto esecutivo dell’opera, il cui mancato rispetto può dar luogo alla riduzione delle risorse destinate al fondo.
Tali obiettivi, peraltro, emergono con chiarezza anche nei lavori preparatori del decreto legge n. 90 (d.d.l. A.S. 1582 e A.C. 2486-B), che ridimensiona la portata dell’istituto in esame, in luogo dell’originaria proposta di soppressione dello stesso.
La disposizione vigente, con espressione inequivoca, esclude dagli incentivi alla progettazione l’attività di manutenzione, da intendersi, ai sensi dell’art. 3 del DPR n. 05.10.2010, n. 207, come combinazione di tutte le azioni tecniche, specialistiche ed amministrative volte a mantenere o a riportare un’opera o un impianto nella condizione di svolgere la funzione prevista dal progetto. Tale esclusione prescinde da eventuali differenziazioni fra manutenzione ordinaria e straordinaria, che pure esistono e sono chiaramente definite dalla disciplina di settore (cfr. art. 3, comma 1, lettere a) e b), del DPR 06.06.2001, n. 380 in materia di edilizia).
A proposito, inoltre, di progettazione della manutenzione, come previsto dall’art. 38 del citato DPR n. 207/2010 e ribadito dal comma 5 dell’art. 93 del d.lgs. n. 267/2000 (TUEL), uno specifico piano di manutenzione dell’opera deve essere adottato, quale documento complementare al progetto esecutivo, al fine di prevedere e pianificare l’attività di manutenzione degli interventi, per la conservazione nel tempo della funzionalità, delle caratteristiche di qualità, dell’efficienza e del valore economico.
Tuttavia,
alla luce di quanto previsto dal successivo art. 105 del citato regolamento di attuazione del codice degli appalti, l‘esecuzione di lavori di manutenzione, che prevedono il rinnovo o la sostituzione di parti strutturali di opere, non può avvenire a prescindere dalla redazione ed approvazione del progetto esecutivo. L’attività di manutenzione, dunque, deve trovare necessaria coerenza con le indicazioni contenute già in sede di progetto esecutivo e soprattutto con le esigenze dell’amministrazione legate alla piena fruibilità, nei tempi programmati, di un’opera di interesse pubblico.
5. Tale ultimo aspetto risulta particolarmente valorizzato dalla recente legge 28.01.2016, n. 11 concernente la delega al Governo per l’attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE in materia, rispettivamente di concessioni, appalti pubblici nei settori ordinari e nei settori speciali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, con contestuale abrogazione del vecchio codice degli appalti.
In tale ambito, il criterio di delega enunciato alla lettera “rr” dell’art. 1 prevede la destinazione del 2% dell’importo posto a base di gara non più alla remunerazione delle fasi della progettazione, quanto piuttosto a beneficio delle fasi della programmazione della spesa per investimenti, della predisposizione e controllo delle procedure di bando e di esecuzione dei contratti pubblici, della direzione dei lavori e dei collaudi, con particolare riferimento ai profili dei tempi e dei costi, allo scopo di incentivare la realizzazione dell’opera a regola d’arte e nei tempi previsti dal progetto, senza alcun ricorso a varianti in corso d’opera.
Il suddetto criterio, che esclude espressamente l’applicazione degli incentivi alla progettazione, trova conferma nello schema di decreto legislativo varato dal Consiglio dei Ministri del 03.03.2016, di prossima approvazione, che, agli articoli da 21 a 27, reca la nuova disciplina in materia di progettazione delle amministrazioni aggiudicatrici e che, in linea con l’enunciato criterio di delega, nulla dispone in merito ai predetti incentivi.
6. Conclusivamente, si ritiene di poter osservare che
la chiara formulazione dell’art. 93, comma 7-ter, desumibile dall’applicazione del fondamentale canone ermeneutico dell’interpretazione letterale non lasci spazio ad altri criteri per così dire sussidiari, che finirebbero inevitabilmente per alterare la voluntas legis, espressa in modo inequivoco dal tenore letterale delle disposizioni (in claris non fit interpretatio). Disposizioni quelle in esame che escludono tout court la riconoscibilità dell’incentivo alla progettazione nei confronti di tutte le attività qualificabili come manutentive, senza differenziazioni di sorta ed a prescindere dalla progettazione, che, come è stato già precisato, risulta strettamente connessa alla realizzazione degli interventi di manutenzione straordinaria.
Qualora, infatti, l’art. 93, comma 7-ter, avesse voluto circoscrivere la non remunerabilità alle sole prestazioni tecniche relative ad interventi di manutenzione ordinaria, peraltro già pacificamente ammessa in via pretoria, avrebbe dovuto espressamente disporre in tal senso (ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit). Oltre a ciò deve osservarsi che, ove limitata ai soli interventi di manutenzione ordinaria, la novella introdotta dall’art. 13-bis del d.l. n. 90/2014 sarebbe risultata priva di concreta portata innovativa rispetto al regime antecedente, anche in termini di risparmio di spesa.
Né a diverse conclusioni potrebbe giungersi sulla base dell’art. 3, comma 18, lett. a) e b), della legge 24.12.2003, n. 350, invocato da alcune Sezioni regionali a sostegno dell’attribuzione dell’incentivo a fronte di una preventiva attività di programmazione, in quanto tale disposizione appare tesa principalmente a limitare l’utilizzo dell’indebitamento alle sole spese di investimento, al fine di una corretta attuazione della golden rule di cui all’art. 119, sesto comma, della Costituzione.
Peraltro, all’interpretazione della norma nei sensi indicati conduce anche l’evoluzione più recente del quadro normativo, rappresentata dai criteri di delega contenuti nella legge 28.01.2016, n. 11.
Resta ferma, infine, la necessità per gli enti locali di adeguare tempestivamente la disciplina regolamentare in materia, nella quale, peraltro, trova necessario presupposto l’erogazione dei predetti incentivi.
P.Q.M.
La Sezione delle autonomie della Corte dei conti sulla questione di massima rimessa dalla Sezione regionale di controllo per l’Emilia Romagna, con il parere 15.12.2015 n. 155 e parere 15.12.2015 n. 156, come ricostruita in parte motiva, pronuncia il seguente principio di diritto: “
la corretta interpretazione dell’articolo 93, comma 7-ter, d.lgs. 163/2006, alla luce delle disposizioni recate dal d.l. n. 90/2014 e dei criteri individuati dalla legge delega n. 11/2016, è nel senso dell’esclusione dall’incentivo alla progettazione interna di qualunque attività manutentiva, senza distinzione tra manutenzione ordinaria o straordinaria”.
La Sezione regionale di controllo per l’Emilia Romagna si atterrà al principio enunciato nel presente atto di indirizzo interpretativo, al quale si conformeranno tutte le Sezioni regionali di controllo, ai sensi dell’art. 6, comma 4, del decreto legge 10.10.2012, n. 174, convertito dalla legge n. 213/2012 (Corte dei Conti, Sez. Autonomie, deliberazione 23.03.2016 n. 10).

     Si legga, anche, un commento di stampa:

INCENTIVO PROGETTAZIONEManutenzione, niente incentivi ai progettisti.
Il fondo per la progettazione e l'innovazione, quello che destina compensi incentivanti non superiori al 2% degli importi a base d'asta a determinate figure professionali dell'ente, non può essere riconosciuto alle figure dirigenziali per attività di manutenzione dell'opera né ordinaria né straordinaria.

È quanto ha messo nero su bianco la Sezione autonomie della Corte dei conti, nel testo della deliberazione 23.03.2016 n. 10 con la quale ha chiarito la portata delle innovazioni introdotte al codice degli appalti, dall'articolo 13-bis del decreto legge n. 90/2014.
Nel dirimere la questione, la Corte ha principalmente sottolineato che, nella nuova formulazione della norma, essendo stati abrogati i commi 5 e 6 dell'articolo 92 del dlgs n. 163/2006, l'erogazione dei compensi incentivanti sono sottoposti a rigidi paletti.
Da un lato, l'80% va suddiviso tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano sicurezza, della direzione lavori e di collaudo, mentre il restante 20% è destinato all'acquisto, da parte dell'ente, di beni e strumenti che siano funzionali a progetti di innovazione.
Da questa formulazione, pertanto, si deduce che vengono esclusi dalla ripartizione delle risorse, quelle figure, aventi qualifica dirigenziale che soggiacciono al criterio dell'onnicomprensività del trattamento economico. In pratica, le risorse vanno a che ha effettivamente svolto attività di progettazione non rientrante tra la competenza della qualifica funzionale ricoperta, così da riconoscere una sorta di «differenziale retributivo connesso al maggior carico di lavoro e di responsabilità che è stato assunto».
È pacifico, prosegue la Corte, che la razionalizzazione del fondo non miri alla semplice incentivazione, bensì alla progettazione ed all'innovazione, soprattutto nella parte in cui destina il venti per cento alle dotazioni infrastrutturali necessarie a raggiungere tale obiettivo.
Infine, è altrettanto chiaro (poiché non menzionate dalla norma del codice degli appalti) che sono escluse dagli incentivi alla progettazione, le mere attività di manutenzione, senza differenziazioni di sorta ed a prescindere dalla progettazione che, pertanto, deve ritenersi strettamente connessa alla realizzazione degli interventi di manutenzione straordinaria (articolo ItaliaOggi del 25.03.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

     Ciò chiarito, è giunta l'ora di provvedere con urgenza alla ripetizione delle somme (eventualmente) indebitamente erogate a cura del Dirigente/P.O. -nei confronti dei propri collaboratori- piuttosto che dell'Ufficio Personale -nei confronti della P.O.- poiché, altrimenti, è scontato che la Procura regionale contabile suonerà il citofono di casa degli inadempienti colpevoli (con dolo e colpa grave).
     Al riguardo, giova qui ricordare altri soggetti coinvolti e deputati al controllo quali:
il segretario comunale, il ragioniere capo ed il Revisore dei Conti e le correlate personali responsabilità se non svolgono il proprio dovere a' termini di legge (si legga una variegata casistica raggruppata nell'apposito dossier).
     Non solo, la Corte delle Autonomie ricorda che "
Resta ferma la necessità per gli enti locali di adeguare tempestivamente la disciplina regolamentare in materia, nella quale, peraltro, trova necessario presupposto l’erogazione dei predetti incentivi".
29.03.2016 - LA SEGRETERIA PTP

DOTTRINA E CONTRIBUTI

APPALTI: F. Graziotto, APPALTI PUBBLICI: il DURC deve essere regolare fin dall’offerta - nota a sentenza n. 5/2016 Consiglio di Stato – decisione in Adunanza Plenaria (23.03.2016 - tratto da www.ambientediritto.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 13 del 29.03.2016, "Modifiche alla legge regionale 09.12.2008, n. 31 (Testo unico delle leggi regionali in materia di agricoltura, foreste, pesca e sviluppo rurale) e alla legge regionale 16.08.1993, n. 26 (Norme per la protezione della fauna selvatica e per la tutela dell’equilibrio ambientale e disciplina dell’attività venatoria) conseguenti alle disposizioni della legge regionale 08.07.2015, n. 19 e della legge regionale 12.10.2015, n. 32 e contestuali modifiche agli articoli 2 e 5 della l.r. 19/2015 e all’articolo 3 della l.r. 32/2015" (L.R. 25.03.2016 n. 7).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Schema di decreto del Presidente della Repubblica concernente regolamento recante disciplina semplificata della gestione delle terre e rocce da scavo (Atto del Governo n. 279):
Atto del Governo sottoposto a parere parlamentare - 26.02.2016
Schede di lettura - 09.03.2016

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: "Attestazione di Prestazione Energetica (A.P.E.). Descrizione dei servizi, della documentazione da produrre e degli obblighi per il professionista" (Consiglio Nazionale degli Ingegneri, circolare 17.03.2016 n. 696).

APPALTI FORNITURE - ENTI LOCALI - INCARICHI PROFESSIONALI - PUBBLICO IMPIEGO: OGGETTO: Enti ed organismi pubblici - bilancio di previsione per l'esercizio 2016 - Circolare MEF-RGS n. 32 del 23.12.2015 - Ulteriori indicazioni (Ministero dell'Economia e delle Finanze, Ragioneria Generale dello Stato, circolare 23.03.2016 n. 12).
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Indice delle Schede
Scheda tematica G - Misure di contenimento della spesa
Scheda tematica G.1 - Efficientamento della spesa per acquisti
Scheda tematica G.4 - Spese per organismi collegiali ed altri organismi
Scheda tematica G.5 - Spese per acquisti di mobili e arredi
Scheda tematica G.6 - Spese per razionalizzazione degli acquisti di beni e servizi informatici
Scheda tematica G.7 - Spesa per studi e incarichi di consulenza
Scheda tematica G.8 - Spese per autovetture
Scheda tematica I - Indicazioni in materia di personale
Scheda tematica I.1 - Assunzioni, dotazioni organiche, lavoro flessibile, ferie, riposi e permessi
Scheda tematica I.2 - Trattamento economico del personale
Scheda tematica I.3 - Contrattazione integrativa
Scheda tematica L - Piano degli indicatori e risultati attesi di bilancio
Scheda tematica M - Monitoraggio della spesa pubblica e versamenti al bilancio dello Stato

PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto: Gestione Dipendenti Pubblici – Liquidazione delle pensioni sul nuovo sistema (SIN 2) per i lavoratori iscritti a gestioni diverse dalla Cassa Stato (INPS, circolare 22.03.2016 n. 54).

A.N.AC. (già AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI)

APPALTIL'ex controllore pubblico non gareggia per l'appalto. Delibera Anac chiarisce l'applicazione del «pantouflage».
A una gara pubblica non può partecipare una società il cui socio e amministratore abbia rivestito cariche in una società in house che in passato aveva gestito il servizio oggetto dell'affidamento; la norma che impone l'applicazione dell'istituto del «pantouflage» deve essere interpretata in maniera ampia perché finalizzata a prevenire fenomeni corruttivi e asimmetrie anticoncorrenziali.

È quanto ha affermato l'Autorità nazionale anticorruzione con la delibera 09.03.2016 n. 292 (affidamento in concessione del servizio di parcheggi pubblici a pagamento senza custodia - presunta violazione art. 53, comma 16-ter, del d.lgs. n. 165/2001), rispetto ad una gara per l'affidamento in concessione del servizio di parcheggi pubblici a pagamento senza custodia a favore di una società il cui presidente del consiglio di amministrazione e proprietario del 50% delle quote sociali, aveva svolto la funzione di direttore generale della società in house del comune affidatario del servizio dal 2008 al 2014.
Il contenimento del rischio di situazioni di corruzione connesse all'impiego del dipendente successivo alla cessazione del rapporto di lavoro è disciplinato dall'art. 53, comma 16-ter, del dlgs 165/2001, stabilisce (per tre anni dalla cessazione del servizio) il divieto di svolgimento di attività professionale (cosiddetto «pantouflage») per i dipendenti che, negli ultimi tre anni di servizio, hanno esercitato poteri autoritativi o negoziali per conto delle pubbliche amministrazioni; a tale divieto si aggiunge la nullità dei contratti posti in essere in violazione del divieto.
Si poneva, quindi il problema dell'estensione dei divieti e delle nullità previste dal citato art. 53, comma 16-ter del dlgs n. 165/2001, a un ex dipendente pubblico che abbia deciso, successivamente alla cessazione del rapporto di pubblico impiego, di costituirsi in proprio, anche in forma societaria, per esercitare un'attività economica per la quale abbia maturato specifica esperienza durante la permanenza al servizio della pubblica amministrazione. Secondo l'Avvocatura comunale, la norma nulla disporrebbe con riferimento all'ex dipendente pubblico che decide di diventare egli stesso operatore economico; viceversa l'Anac accede ad una interpretazione ben più ampia.
La delibera chiarisce che le finalità perseguite dalla disposizione impongono una lettura della stessa non limitata al dato letterale ma ampia e conforme all'intenzione del legislatore di contenere, attraverso l'istituto del «pantouflage», il rischio di situazioni di corruzione successive alla cessazione del rapporto di lavoro e quindi si applica anche se l'ex dipendente costituisce una propria società prestandovi attività professionale. Diversamente, dice l'Anac, si sarebbe determinata, in sede di formulazione dell'offerta, un'asimmetria informativa in favore della società aggiudicataria rispetto agli altri concorrenti, in grado di minare il corretto svolgimento della procedura di affidamento.
Inoltre, l'Anac specifica che, con riferimento agli operatori economici presso i quali l'ex dipendente non può prestare servizio nel periodo di raffreddamento devono ritenersi inclusi anche gli operatori potenzialmente destinatari dell'attività autoritativa e negoziale della p.a. (nel caso tutti i partecipanti alla gara per l'affidamento del servizio di gestione dei parcheggi a pagamento del comune) (articolo ItaliaOggi del 25.03.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

LAVORI PUBBLICI: Il bollino Soa a maglie strette. Più controlli sulle imprese edili per partecipare agli appalti. L'Anac sui lavori oltre 150 mila euro. Perizia giurata e codici Ateco per le verifiche.
Non è utilizzabile il silenzio-assenso nella verifica dei documenti a comprova dei lavori privati per ottenere gli attestati Soa (società organismo di attestazione); c'è l'obbligo di fornire perizia giurata alla Soa per tutte le operazioni di trasferimento che coinvolgono l'impresa di costruzioni; la Soa può utilizzare anche i codici Ateco per le verifiche sugli oggetti sociali delle imprese; è illegittima la stipula del contratto di attestazione che l'impresa edile stipula con la Soa nel periodo di interdizione dell'impresa.

Sono questi alcuni dei chiarimenti forniti dall'Autorità nazionale anticorruzione con il comunicato del Presidente 09.03.2016 siglato da Raffaele Cantone e diffuso il 18 marzo che contiene diverse precisazioni relative al «manuale sulla qualificazione per l'esecuzione di lavori pubblici di importo superiore a 150 mila euro» del 16.10.2014 (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 28.10.2014).
Sono 22 i chiarimenti che, nelle more di quanto verrà stabilito con il nuovo codice appalti pubblici (che conferma l'utilizzo «di regola» del sistema basato sulle Soa), vengono forniti su diverse questioni interpretative. Fra i punti toccati, si ribadisce la necessità che le Soa acquisiscano la perizia giurata per tutte le operazioni che consolidano un trasferimento di azienda (anche per scissioni, fusioni e operazioni assimilabili); per l'Anac «gli altri documenti previsti dal codice civile non risultano idonei».
Viene poi risolto un problema di diritto transitorio relativo all'applicazione delle nuove regole di valutazione alle operazioni di cessioni/trasferimenti/affitti perfezionate prima dell'entrata in vigore del Manuale alle imprese che chiedono il rinnovo dell'attestazione. Rivedendo l'impostazione iniziale l'Anac ritiene «possibile ammettere l'inapplicabilità delle disposizioni del Manuale alle operazioni di trasferimento aziendale sottoscritte in epoca antecedente alla sua entrata in vigore e già oggetto di valutazione ai fini del conseguimento dell'attestato di qualificazione». Con riguardo alle verifiche sull'oggetto sociale dell'impresa richiedente la qualificazione, l'Anac ammette la richiesta dei Codice Ateco per tutte le società e non solo per le ditte individuali, così da compiere una ricognizione ampia delle attività svolte dalle imprese.
Il comunicato chiarisce poi che non è possibile sottoscrivere il contratto di attestazione nel periodo di interdizione dell'impresa. Per la dimostrazione dello stato di fallimento e delle relative procedure concorsuali il comunicato specifica le Soa dovranno rivolgersi alle cancellerie dei Tribunali fallimentari di riferimento.
Sulle verifiche dei certificati di esecuzione lavori (Cel) viene poi bocciata la proposta avanzata dalle Soa di evitare la produzione della copia autenticata del progetto approvato: per l'Anac «la copia autentica del progetto approvato risulta tra la documentazione, individuata specificatamente dal Regolamento attuativo, da esibire a corredo dei Cel, riferiti a lavorazioni eseguite per committenti non tenuti all'applicazione del Codice».
Per il Durc, ormai acquisibile dallo «Sportello Unico Previdenziale», il comunicato chiarisce che non serve più l'autodichiarazione e che le imprese possono ottenere in tempo reale una certificazione valida 4 mesi di regolarità contributiva. Importante il chiarimento sulle opere superspecialistiche effettuate al di fuori della contrattualistica pubblica: «potranno essere valutate positivamente tutte le lavorazioni eseguite dall'esecutore principale nelle categorie scorporabili senza alcuna limitazione rispetto all'importo totale dell'intervento, dovranno acquisire idonea documentazione contabile sottoscritta dal direttore dei Lavori».
Il Comunicato stabilisce poi che il silenzio assenso non può estendersi al «riscontro di veridicità e sostanza», delle dichiarazioni e dei documenti prodotti dalle imprese in sede di qualificazione, effettuato dalle Soa presso le amministrazioni pubbliche, trattandosi non di «assenso, concerto, nulla osta» finalizzato all'adozione di un provvedimento da parte della competente Pa, ma di mera verifica/accertamento in ordine al contenuto di atti e documenti prodotti dai privati ai fini del rilascio dell'attestato (articolo ItaliaOggi del 22.03.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTIAppalti, l'invito sarà la norma. Servizi e forniture fino a 150 mila: l'80% verrà affidato. La riforma del Codice appalti generalizza il ricorso alla procedura negoziata per semplificare.
Affidamenti a trattativa privata, senza gara, con scarsa qualità delle prestazioni; mancata rotazione di incarichi e costi lievitati.

Sono questi alcuni dei di punti che emergono dalla lettura della delibera 02.03.2016 n. 207 (Oggetto: Roma Capitale – Attività contrattuale con particolare riferimento alle procedure negoziate - Attività ispettiva) dell'Autorità nazionale anticorruzione sulla gestione degli appalti a Roma nel periodo 2012-2014.
Le risultanze dell'approfondito lavoro dei tecnici di Raffaele Cantone fanno riflettere anche in relazione alle scelte che il governo sta compiendo con il nuovo Codice appalti, un provvedimento che punta su una forte semplificazione procedurale cui dovrebbe fare da contraltare un sistema incisivo di vigilanza e controlli, favorito anche da più alti livelli di trasparenza e pubblicità degli affidamenti. Si tratta di una vera scommessa, molto coraggiosa, che però alla luce dei recenti comportamenti di un comune come Roma, potrebbe rivelarsi molto azzardata.
In estrema sintesi, il primo punto che l'Anac segnala nella delibera è quello dell'utilizzo della procedura negoziata. L'analisi si era già concentrata nei mesi scorsi su un rilevante campione: 1.850 procedure negoziate (pari al 10% del totale) espletate nel periodo 2012-2014; nella seconda fase ne sono state selezionate 36 che sono state sottoposte a ulteriori approfondimenti. Fra la prima e la seconda fase ispettiva, però, si sono avute soltanto conferme di quelli che Anac segnala come «rilevanti profili di criticità e comportamenti delle strutture gestionali di Roma Capitale in contrasto con le normative ed i regolamenti attuativi vigenti».
L'elemento di maggiore rilevanza attiene alla carenza o al difetto di motivazione dei presupposti per il ricorso alla procedura negoziata oggi disciplinata dall'articolo 57 del Codice dei contratti pubblici; i casi che l'Autorità segnala sono quelli in cui l'affidamento è determinato da fattispecie definite di estrema urgenza ma, in generale, si può rilevare come la procedura negoziata senza bando a Roma fosse divenuta la prevalente modalità di affidamento dei contratti, per tutti i tipi di appalto, insieme agli affidamenti diretti o in economia.
A tale riguardo, e in prospettiva, il nuovo Codice appalti sembra muoversi non coerentemente visto che, per servizi e forniture, generalizza il ricorso alla procedura negoziata con invito a tre fino a 150 mila euro e con verifica dei requisiti sul solo aggiudicatario; si parla di un numero elevatissimo di affidamenti (quasi l'80%) in cui la procedura negoziata ad inviti diventerà un sistema generale e non, come dice anche la giurisprudenza europea, eccezionale.
A ciò si aggiunga che il decreto conferma che, fino a 40 mila euro, la scelta può avvenire in via diretta. Su questo punto la delibera evidenzia una generale violazione dei principi di libera concorrenza, parità di trattamento, non discriminazione, trasparenza e proporzionalità, per esempio, negli affidamenti di servizi sociali e socio-sanitari e un improprio ricorso all'affidamento diretto di servizi a cooperative sociali.
In sostanza quindi, si denunciano «le ricadute negative sulla qualità delle prestazioni, l'incremento dei costi, per la lesione della concorrenza, come effetto della sottrazione alle regole di competitività del mercato di una cospicua quota di appalti, affidati per la maggior parte senza gara».
È lecito domandarsi se il nuovo Codice riuscirà a impedire il ripetersi di questi comportamenti, assunti con le più vincolistiche norme attuali. Molto dipenderà dall'incisività dell'azione di vigilanza ex antecollaborativa») ed ex post (ispettiva) dell'Anac. Il nuovo Codice sembra incentivare la discrezionalità delle amministrazioni. La speranza è che non si tramuti in arbitrio (articolo ItaliaOggi del 18.03.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

CORTE DEI CONTI

PUBBLICO IMPIEGOComuni, niente incarichi lampo. Impossibile attribuire ai funzionari obiettivi precisi. Corte conti Liguria stigmatizza la prassi di affidare posizioni organizzative per pochi giorni.
Illegittimi, ma prima di tutto illogici, gli incarichi a funzionari nell'area delle posizioni organizzative per periodi brevi, inferiori all'anno, così come illegittimi sono gli incrementi alle risorse variabili del fondo decisi ad anno finanziario avanzato.

La Corte dei conti, sezione regionale di controllo della Liguria, con la deliberazione 21.03.2016 n. 23 fa ordine e chiarezza su due punti da sempre tutto sommato chiari nella normativa, ma molto di frequente gestiti in modo difforme dalla prassi.
Posizioni organizzative. Ai sensi dell'articolo 9, commi 1 e 4, del Ccnl 01.04.1999 «
gli incarichi relativi all'area delle posizioni organizzative sono conferiti dai dirigenti per un periodo massimo non superiore a cinque anni, previa determinazione di criteri generali da parte degli enti, con atto scritto e motivato e possono essere rinnovati con le medesime formalità. I risultati delle attività svolte dai dipendenti cui siano stati attribuiti gli incarichi di cui al presente articolo sono soggetti a valutazione annuale in base a criteri e procedure predeterminati dall'ente».
La sezione, nel rinviare alla procura l'esame della documentazione del comune di Alassio, ha rilevato che negli anni 2013 e 2014 erano stati conferiti ripetuti incarichi di posizione organizzativa a funzionari, di durata inferiore all'anno, dei quali, per altro, molti di durata perfino non superiore ai 15 giorni.
Secondo la sezione, tale prassi di per sé non risulta convincente e rispettosa della normativa, specie perché gli incarichi conferiti per periodi talmente brevi sono risultati privi dell'individuazione e dell'attribuzione degli obiettivi gestionali che ciascun titolare avrebbe dovuto conseguire nel periodo di riferimento.
Il comune ha controdedotto, rilevando che la brevità degli incarichi è stata effetto del processo di riorganizzazione svolto in quel periodo. L'assunto non ha convinto la magistratura contabile, in particolare per quel che riguarda la durata degli incarichi. La sezione spiega che essi debbono estendersi per un periodo temporale «tale da consentire al titolare della posizione un ragionevole margine di autonomia e discrezionalità, circostanza che pare escludersi in casi di rinnovi ogni 15 giorni o ogni mese».
Non si tratta, nel caso di specie, del problema, pur rilevante ma non trattato dalla sezione, della logicità dell'azione amministrativa e della tutela dell'affidamento dei dipendenti, ma del rispetto formale delle norme. Una durata degli incarichi delle posizioni organizzative molto breve e, comunque, inferiore al periodo necessario per la gestione (almeno l'anno finanziario) fa venire meno, secondo la sezione, la causa giuridica, e dunque la legittimità, della retribuzione di posizione. Essa, infatti, finisce per non potersi più considerare collegata allo svolgimento di mansioni caratterizzate da un elevato grado di autonomia gestionale e organizzativa o da contenuti di alta professionalità e specializzazione, per trasformarsi in una semplice integrazione retributiva, slegata dal suo presupposto negoziale, cioè la gestione continuativa di obiettivi.
Secondo la sezione Liguria, perfino la durata annuale degli incarichi «si pone al limite della ragionevolezza, senza peraltro superarla ad avviso di questo collegio, se si tiene conto che l'art. 9 del Ccnl 01.04.1999 si riferisce a «un periodo massimo non superiore a cinque anni», ipotizzando una naturale durata pluriennale dell'incarico, anche in funzione di certezza dell'azione amministrativa e di garanzia del dipendente pubblico di non rimanere continuamente in balia delle decisioni del potere politico».
Dette considerazioni possono certamente estendersi anche alla prassi altrettanto poco corretta, in voga presso molte amministrazioni, di conferire incarichi dirigenziali per periodi molto brevi, inferiori all'anno.
Incremento delle risorse variabili. La sezione ha, inoltre, puntato l'attenzione su un'altra prassi illegittima, consistente nel deliberare gli incrementi alla parte variabile del fondo ai sensi dell'articolo 15, comma 5, del Ccnl 01.04.1999, in periodi molto avanzati dell'anno, da agosto in poi, quando larga parte dell'attività dei dipendenti è stata svolta.
In questi casi «l'eventuale corresponsione della retribuzione variabile perderebbe il suo carattere di pregnante stimolo a conseguire un risultato difficile da ottenere per assumere quello, del tutto estraneo alla sua funzione, di compensare prestazioni già svolte o in corso di svolgimento quasi ultimato». Il parere ricorda la copiosa giurisprudenza contabile che ha ravvisato responsabilità amministrativa per questo modo di gestire le risorse variabili (articolo ItaliaOggi del 25.03.2016).

CONSIGLIERI COMUNALI - SEGRETARI COMUNALI: Danno erariale al sindaco per lo stipendio «eccessivo» del segretario.
La produttività del segretario non può essere parametrata anche alla retribuzione aggiuntiva percepita in virtù dell'incarico di direttore generale.

Lo ha stabilito la Sez. giurisdizionale dell'Umbria della Corte dei Conti con la sentenza 09.03.2016 n. 21.
La vicenda
Il giudizio riguardava sulla legittimità dell'erogazione dell'indennità di risultato al segretario nella parte in cui è correlata alla retribuzione percepita in qualità di direttore generale.
La difesa ha sostenuto che l'articolo 42 del contratto nazionale dei segretari stabilisca il principio di onnicomprensività della retribuzione di risultato con riferimento a tutti gli incarichi attribuiti al segretario, fatta eccezione per quello di direttore generale. Questo comporta che l'indennità di risultato di quest'ultimo costituisce espressa deroga al principio di onnicomprensività, con specifico riguardo al cumulo di funzioni.
Analogamente, l'articolo 44 stabilisce un'altra deroga al principio di onnicomprensività, in quanto prevede l'attribuzione di una specifica indennità, in aggiunta alla retribuzione di posizione goduta quale segretario, in caso di svolgimento delle funzioni di direttore.
Niente parametrazione
I magistrati contabili umbri non hanno condiviso le argomentazioni e hanno ritenuto fondata la responsabilità del presidente della Provincia in cui operava il segretario, sulla base di un'interpretazione letterale degli articoli 42 e 44 del contratto nazionale dei segretari combinata con i precedenti della Corte, gli orientamenti applicativi dell'Aran e quelli dell'Agenzia autonoma per la gestione dell'albo dei segretari.
Mentre l'indennità ex articolo 44 è corrisposta in aggiunta alla posizione di retribuzione del segretario, affermano nella sentenza, quella di risultato è calcolata tenendo conto del complesso degli incarichi aggiuntivi conferitigli, ma fatta eccezione per quello di direttore generale. L'esclusione dell'incarico di direttore dai parametri di determinazione del risultato è peraltro confermata dalla deliberazione del Cda dell'Agenzia 389/2002, in cui vengono elencate le voci retributive su cui calcolare l'indennità di risultato e in cui non figurano sia i diritti di segreteria che l'indennità di direttore generale.
Negli stessi termini si è espressa l'Aran negli orientamenti applicativi, in cui ha sostenuto che la determinazione dell'indennità di risultato richiede la preventiva fissazione e il formale conferimento al segretario di precisi obiettivi, tenendo conto del complesso degli incarichi aggiuntivi conferiti, ad eccezione di quello di direttore generale.
La colpa
Queste valutazioni portano la sezione Umbria a rilevare la colpa grave del convenuto e, in quanto erano ben conosciuti e chiari gli orientamenti espressi in materia, ad avallare l'accusa di «colpa gravissima» formulata dalla Procura, a motivo dell'elevato grado di responsabilità. Elemento che peraltro non consente di esercitare il potere riduttivo.
Di qui la condanna al pagamento della somma derivante dall'illegittima erogazione dell'indennità di risultato al segretario, quale titolare anche delle funzioni di direttore generale, oltre agli interessi dalla data delle spese a quella della sentenza, cui seguono spese di giustizia e agli interessi legali (22.03.2016 - tratto da www.quotidianoentilocali.ilsole24ore.com).

CONSIGLIERI COMUNALI - INCARICHI PROFESSIONALI - PUBBLICO IMPIEGO: Incarichi illegittimi, paga il sindaco. Corte dei conti. Allo staff non possono essere assegnati compiti di supporto amministrativo.
Matura responsabilità amministrativa in capo al sindaco che assegna ai collaboratori dell’ufficio di staff compiti di supporto agli uffici e, in questo caso, si deve dare per presupposto il danno. La responsabilità non si estende né al dirigente che ha dato il parere di regolarità tecnica, né ai dirigenti e segretari che sono intervenuti in una fase limitata, e il sindaco non può invocare la carenza di specifica competenza professionale in quanto si è in presenza di violazioni macroscopiche. A riduzione del danno non possono essere invocati i vantaggi comunque conseguiti dall’ente con l’attività dei collaboratori.
Possono essere così sintetizzate le dure conclusioni della Sez. di appello della Corte dei Conti della Sicilia, con la sentenza 17.02.2016 n. 27.
La Corte ha condannato il sindaco di un Comune che ha assegnato incarichi di collaborazione ex articolo 90 del Tuel a risarcire all’ente tutti i compensi erogati. La sentenza deve essere segnalata soprattutto per la rigidità con cui considera fonte di responsabilità amministrativa lo svolgimento di compiti di supporto alle strutture amministrative da parte dei collaboratori dell’ufficio di staff, per la lettura assai riduttiva dell’esimente della buona fede per gli amministratori e per la limitazione degli ambiti di maturazione di responsabilità in capo ai dirigenti che esprimono pareri contabili o intervengono in misura limitata nel conferimento dell’incarico.
L’ufficio di staff è uno strumento di supporto dell’organo politico e non può essere destinato a compiti analoghi nei confronti delle strutture amministrative, perché in questo caso sarebbe violato il principio di distinzione delle competenze tra organi di governo e dirigenti. Da sottolineare che la sentenza si riferisce a scelte compiute prima dell’estate del 2014, cioè dell’entrata in vigore del Dl 90/2014 che vietano espressamente agli uffici di staff di adottare atti di gestione, rafforzando quindi il principio.
Il conferimento di incarichi con queste finalità deve seguire le procedure ordinarie e rispettare i principi dettati per le collaborazioni: il riferimento è all’articolo 7 del Dlgs 165/2001. Nel caso specifico, invece, gli incarichi conferiti violavano questi principi in quanto non erano di «alta specializzazione»; non era stata compiuta la preventiva verifica dell’assenza di analoghe professionalità all’interno dell’ente; non vi era l’individuazione in modo chiaro dei compiti assegnati, con la connessa verifica che non dovesse trattarsi di attività ordinarie, e non erano stati individuati i criteri per la definizione dei compensi.
La sentenza aggiunge che, in questi casi, «i profili di illegittimità degli atti costituiscono un sintomo della dannosità per l’erario». Altrettanto rigida è la considerazione sull’impossibilità di ridurre la sanzione in ragione del vantaggio conseguito dall’ente in quanto si deve escludere che «una qualche utilità possa attribuirsi ad una prestazione conseguente a un incarico conferito contra legem».
La sentenza prende invece una posizione “garantista” sulla maturazione di responsabilità amministrativa in capo al dirigente che ha dato il parere di regolarità contabile in quanto questa attività è limitata agli aspetti contabili «con esclusione di qualsiasi valutazione in ordine all’intrinseca legittimità del procedimento».
Analoga posizione viene assunta per il coinvolgimento del dirigente del settore personale e del segretario, in quanto il loro intervento si era limitato alla fase iniziale. Infine, non costituisce esimente l’assenza di una specifica competenza professionale in capo al sindaco che deve «acquisire le necessarie cognizioni», soprattutto perché sono stati «violati i principi fondamentali che presiedono all’attività amministrativa, nonché disposizioni di facile interpretazione»
(articolo Il Sole 24 Ore del 21.03.2016).

CONSIGLIERI COMUNALI - INCARICHI PROFESSIONALI - PUBBLICO IMPIEGOL’ufficio di staff è organo strumentale allo svolgimento di funzioni che sono proprie del sindaco; è, infatti, solo quest’ultimo che può individuare in concreto le azioni per le quali abbia necessità di supporto e delineare l’oggetto dell’incarico di collaborazione così come come l’utilità attesa dallo svolgimento dello stesso.
E' altrettanto evidente che tali incarichi di collaborazione non possono risolversi in forme di supporto alla struttura amministrativa dell’Ente, posto che, diversamente, verrebbe meno quella separazione tra funzione di indirizzo e coordinamento (propria dell’organo di vertice) e gestione esecutiva (propria della struttura organizzativa) voluta dalla recente riforma dell’ordinamento degli enti locali.
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Nella fattispecie, in chiara violazione del predetto precetto normativo, gli incarichi attribuiti non erano evidentemente riferibili alle funzioni di indirizzo politico e di controllo del sindaco ma comportavano lo svolgimento di attività di amministrazione attiva rientranti nei compiti istituzionali dell’Ente; ciò, rende evidente, nella fattispecie, che lo strumento utilizzato (nomina di componenti dell’ufficio di staff) è avvenuto per causa diversa (attività di amministrazione attiva rientranti nei compiti istituzionali dell’Ente) da quella prevista dalla legge (funzioni di indirizzo politico e di controllo del sindaco) con evidente illegittimità dovuta ad eccesso di potere per “sviamento del potere dalla causa tipica”.
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Sul punto, la giurisprudenza contabile ha affermato che è illegittimo l'affidamento esterno di funzioni rientranti nel compiti di strutture interne all'amministrazione, determinando la sottrazione delle corrispondenti competenze ad esse riservate e la nascita di una obbligazione diseconomica (vietata dall'art. 1 della Legge n. 241/1990 e dall'art. 97 della Costituzione) in quanto aggiuntiva rispetto all'onere economico già relativo al competente organo interno; inoltre , il conferimento di funzioni dell’Ente a soggetti esterni rappresenta un’opzione operativa percorribile solo in presenza di speciali condizioni e, segnatamente, laddove sussistano (e vengano conseguentemente esternate nella motivazione del pertinente provvedimento di conferimento) i seguenti presupposti:
- assenza di una apposita struttura organizzativa ovvero una carenza organica che impedisca o renda oggettivamente difficoltoso l'esercizio di una determinata funzione, da accertare per mezzo di una reale ricognizione;
- complessità dei problemi da risolvere che richiedono conoscenze ed esperienze eccedenti le normali competenze del personale;
- indicazione specifica dei contenuti e dei criteri per il conferimento di funzioni dell’Ente a soggetti esterni; indicazione della durata dell'incarico;
- proporzione fra il compenso corrisposto all'incaricato e l'utilità conseguita dall’Amministrazione;
- detti presupposti sono cumulativi e, soprattutto, devono essere oggettivamente sussistenti.
Nella vicenda in esame, come chiaramente rappresentato dal Giudice di primo grado, di cui questo Collegio condivide le motivazioni, il conferimento di funzioni dell’Ente a soggetti esterni è avvenuto senza rispettare le predette condizioni di legge e, infatti, dalla lettura dei provvedimenti attributivi di funzioni a soggetti esterni, a firma del Ni., emerge chiaramente che:
● non risultano esplicitati gli eventuali connotati di alta specializzazione dei soggetti chiamati a prestare ausilio all’Ente;
● non risulta essere stata compiuta alcuna concreta verifica circa l’insussistenza di risorse interne che potessero svolgere tali funzioni;
● non vi è una congrua ed analitica specificazione dell’attività richiesta ai soggetti incaricati;
● non sono stati esplicitati i parametri in base ai quali sono stati quantificati i compensi corrisposti agli incaricati.
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Secondo un orientamento giurisprudenziale pressoché pacifico, i profili di illegittimità degli atti costituiscono un sintomo della dannosità per l’erario delle condotte che, all’adozione di quegli atti, abbiano concorso; in altri termini, la non conformità dell’azione amministrativa alle puntuali prescrizioni che ne regolano lo svolgimento pur non essendo idonea a generare, di per sé, una responsabilità amministrativa in capo all’agente, può assumere rilevanza allorché quegli atti integrino una condotta almeno gravemente colposa, foriera di un nocumento economico per l’Amministrazione.
Tale principio, certamente valevole come enunciazione di sintesi, deve comunque subire un’operazione di attualizzazione e specificazione, per tener conto dei peculiari connotati dell’agire pubblico che, di volta in volta, viene portato all’attenzione del Giudice contabile.
Ebbene, tale operazione di taratura del principio porta il Collegio a ritenere che le plurime e qualitativamente significative devianze dalle vincolanti prescrizioni di riferimento, in precedenza specificate, integrino fatti dannosi per l’erario dell’Ente.
A tale conclusione induce la considerazione secondo la quale gli stringenti limiti al conferimento di funzioni dell’Ente a soggetti esterni sono posti a garanzia del preminente interesse alla corretta ed oculata allocazione delle risorse, nonché a presidio degli equilibri di finanza pubblica; la preservazione di tali valori ha luogo, oltre che attraverso la fissazione di tetti quantitativi alla spesa, anche mediante l’imposizione di vincoli di carattere modale che definiscono condizioni e procedure che legittimano l’esborso.
In tale peculiare contesto, per quanto di rilievo nel presente giudizio, il rispetto delle limitazioni di carattere modale è presupposto di legittimità della spesa sostenuta; le lacune procedurali, rilevabili per il tramite della motivazione dei provvedimenti oggetto del presente giudizio, quindi, non sono meri vizi inficianti l’azione amministrativa con rilevanza circoscritta alla sfera di legittimità dei provvedimenti stessi, ma si riverberano anche sugli effetti economici prodotti da questi, rendendo, automaticamente, dannosa per l’erario la conseguente spesa.
Tale ricostruzione è in linea con un orientamento giurisprudenziale consolidato sia in primo grado che in grado di appello.
In particolare, poi, tale indirizzo ha ricevuto anche l’avallo di questa Sezione d’Appello, la quale, dopo aver evidenziato che le speciali condizioni (….rispondenza dell'incarico esternalizzato agli obiettivi dell'ente; assenza di una apposita struttura organizzativa della P.A. ovvero carenza organica che impedisca o renda oggettivamente difficoltoso l'esercizio di una determinata funzione pubblica, da accertare per mezzo di una reale ricognizione; complessità dei problemi da risolvere che richiedono conoscenze ed esperienze eccedenti le normali competenze del personale della P.A. o dell'ente pubblico; indicazione specifica dei contenuti e dei criteri per lo svolgimento dell'incarico esternalizzato; indicazione della durata dell'incarico, svolgimento da parte del privato di un'attività non continuativa; proporzione fra il compenso corrisposto all'incaricato e l'utilità conseguita dall'amministrazione) che legittimano il conferimento di funzioni dell’Ente a soggetti esterni alla P.A., ha affermato che tali requisiti «….devono coesistere e, soprattutto, devono essere oggettivamente sussistenti….».
Inoltre, ha precisato anche che, «….nei rapporti pubblicistici (…) si deve tenere conto dei limiti posti dal legislatore all'azione degli amministratori, soprattutto quando, come nella specie, detti limiti mirano a tutelare preminenti interessi pubblici, quali quelli che si ricollegano alle esigenze di equilibrio della finanza pubblica in un momento di grave crisi economico-finanziaria del paese. Pertanto, quando, come nel caso in esame, il legislatore pone agli amministratori pubblici determinati vincoli di spesa, ritenendo implicitamente non utile tutte quelle spese che non rispettino i limiti da esso posti, è sufficiente che la spesa si effettui contra legem perché si realizzi il danno….».
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Ritiene, inoltre, il Collegio che, alla produzione del predetto danno erariale, non abbia, inoltre, fornito alcun effettivo contributo causale, giuridicamente apprezzabile, il funzionario che ha espresso parere favorevole in ordine alla regolarità contabile dei provvedimenti d’incarico emessi dal sindaco in quanto il parere di regolarità contabile, apposto dal funzionario preposto al Servizio Finanziario sul provvedimento di nomina emesso dal sindaco, resta limitato alla verifica della competenza del soggetto che ha disposto l’effettuazione della spesa, dell’esistenza della relativa copertura finanziaria, della corretta imputazione al pertinente capitolo di bilancio ecc., con esclusione, quindi, di qualsiasi valutazione in ordine all’intrinseca legittimità del procedimento decisionale che ha condotto all’emissione del provvedimento in questione.

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Dalla lettura delle predette disposizioni di legge, emerge chiaramente che l’ufficio di staff è organo strumentale allo svolgimento di funzioni che sono proprie del sindaco; è, infatti, solo quest’ultimo che può individuare in concreto le azioni per le quali abbia necessità di supporto e delineare l’oggetto dell’incarico di collaborazione così come come l’utilità attesa dallo svolgimento dello stesso; è altrettanto evidente che tali incarichi di collaborazione non possono risolversi in forme di supporto alla struttura amministrativa dell’Ente, posto che, diversamente, verrebbe meno quella separazione tra funzione di indirizzo e coordinamento (propria dell’organo di vertice) e gestione esecutiva (propria della struttura organizzativa) voluta dalla recente riforma dell’ordinamento degli enti locali.
Nella fattispecie, in chiara violazione del predetto precetto normativo, gli incarichi attribuiti dal Ni. non erano evidentemente riferibili alle funzioni di indirizzo politico e di controllo del sindaco ma comportavano lo svolgimento di attività di amministrazione attiva rientranti nei compiti istituzionali dell’Ente; ciò, rende evidente, nella fattispecie, che lo strumento utilizzato (nomina di componenti dell’ufficio di staff) è avvenuto per causa diversa (attività di amministrazione attiva rientranti nei compiti istituzionali dell’Ente) da quella prevista dalla legge (funzioni di indirizzo politico e di controllo del sindaco) con evidente illegittimità dovuta ad eccesso di potere per “sviamento del potere dalla causa tipica”.
Sul punto, la giurisprudenza contabile ha affermato che è illegittimo l'affidamento esterno di funzioni rientranti nel compiti di strutture interne all'amministrazione, determinando la sottrazione delle corrispondenti competenze ad esse riservate e la nascita di una obbligazione diseconomica (vietata dall'art. 1 della Legge n. 241/1990 e dall'art. 97 della Costituzione) in quanto aggiuntiva rispetto all'onere economico già relativo al competente organo interno (Corte dei conti, Sez. Giur. Trentino Alto Adige, n. 8 del 22.03.2010); inoltre , il conferimento di funzioni dell’Ente a soggetti esterni rappresenta un’opzione operativa percorribile solo in presenza di speciali condizioni e, segnatamente, laddove sussistano (e vengano conseguentemente esternate nella motivazione del pertinente provvedimento di conferimento) i seguenti presupposti: assenza di una apposita struttura organizzativa ovvero una carenza organica che impedisca o renda oggettivamente difficoltoso l'esercizio di una determinata funzione, da accertare per mezzo di una reale ricognizione; complessità dei problemi da risolvere che richiedono conoscenze ed esperienze eccedenti le normali competenze del personale; indicazione specifica dei contenuti e dei criteri per il conferimento di funzioni dell’Ente a soggetti esterni; indicazione della durata dell'incarico; proporzione fra il compenso corrisposto all'incaricato e l'utilità conseguita dall’Amministrazione; detti presupposti sono cumulativi e, soprattutto, devono essere oggettivamente sussistenti.
Nella vicenda in esame, come chiaramente rappresentato dal Giudice di primo grado, di cui questo Collegio condivide le motivazioni, il conferimento di funzioni dell’Ente a soggetti esterni è avvenuto senza rispettare le predette condizioni di legge e, infatti, dalla lettura dei provvedimenti attributivi di funzioni a soggetti esterni, a firma del Ni., emerge chiaramente che:
non risultano esplicitati gli eventuali connotati di alta specializzazione dei soggetti chiamati a prestare ausilio all’Ente;
non risulta essere stata compiuta alcuna concreta verifica circa l’insussistenza di risorse interne che potessero svolgere tali funzioni;
non vi è una congrua ed analitica specificazione dell’attività richiesta ai soggetti incaricati;
non sono stati esplicitati i parametri in base ai quali sono stati quantificati i compensi corrisposti agli incaricati.
Tutto ciò premesso, non appare superfluo evidenziare che, secondo un orientamento giurisprudenziale pressoché pacifico (cfr., ex multis, Corte conti, Sez. Lombardia, 05.03.2007, n. 141; id., Sez. App. III, 10.03.2003, n. 100/A; id., Sez. Molise, 04.04.2002, n. 65/E), i profili di illegittimità degli atti costituiscono un sintomo della dannosità per l’erario delle condotte che, all’adozione di quegli atti, abbiano concorso; in altri termini, la non conformità dell’azione amministrativa alle puntuali prescrizioni che ne regolano lo svolgimento pur non essendo idonea a generare, di per sé, una responsabilità amministrativa in capo all’agente, può assumere rilevanza allorché quegli atti integrino una condotta almeno gravemente colposa, foriera di un nocumento economico per l’Amministrazione.
Tale principio, certamente valevole come enunciazione di sintesi, deve comunque subire un’operazione di attualizzazione e specificazione, per tener conto dei peculiari connotati dell’agire pubblico che, di volta in volta, viene portato all’attenzione del Giudice contabile.
Ebbene, tale operazione di taratura del principio porta il Collegio a ritenere che le plurime e qualitativamente significative devianze dalle vincolanti prescrizioni di riferimento, in precedenza specificate, integrino fatti dannosi per l’erario dell’Ente.
A tale conclusione induce la considerazione secondo la quale gli stringenti limiti al conferimento di funzioni dell’Ente a soggetti esterni sono posti a garanzia del preminente interesse alla corretta ed oculata allocazione delle risorse, nonché a presidio degli equilibri di finanza pubblica; la preservazione di tali valori ha luogo, oltre che attraverso la fissazione di tetti quantitativi alla spesa, anche mediante l’imposizione di vincoli di carattere modale che definiscono condizioni e procedure che legittimano l’esborso.
In tale peculiare contesto, per quanto di rilievo nel presente giudizio, il rispetto delle limitazioni di carattere modale è presupposto di legittimità della spesa sostenuta; le lacune procedurali, rilevabili per il tramite della motivazione dei provvedimenti oggetto del presente giudizio, quindi, non sono meri vizi inficianti l’azione amministrativa con rilevanza circoscritta alla sfera di legittimità dei provvedimenti stessi, ma si riverberano anche sugli effetti economici prodotti da questi, rendendo, automaticamente, dannosa per l’erario la conseguente spesa.
Tale ricostruzione è in linea con un orientamento giurisprudenziale consolidato sia in primo grado (tra le tante, più di recente, Sez. Giur. Lazio Sent. 06.05.2008, n. 736; Sez. Giur. Sicilia Sent. 07.01.2008, n. 185; Sez. Giur. Molise Sent. 28.02.2007, n. 50; Sez. Giur. Sicilia Sent. 21.09.2007, n. 2492; Sez. Giur. Veneto Sent. 03.04.2007, n. 303; Sez. Giur. Calabria Sent. 30.08.2006, n. 672), che in grado di appello (ex pluribus: Sez. I App Sent. 28.05.2008, n. 237; Sez. App. III Sent. 05.04.2006, n. 173; Sez. App. II Sent. 20.03.2006, n. 122; Sez. App. II Sent. 16.02.2006, n. 107; Sez. App. III Sent. 06.02.2006, n. 74; Sez. App. I Sent. 04.10.2005, n. 304; Sez. App. I Sent. 08.08.2005, n. 259; Sez. App. I Sent. 31.05.2005, n. 187; Sez. App. III Sent. 13.04.2005, n. 183; Sez. App. II Sent. 28.11.2005, n. 389).
In particolare, poi, tale indirizzo ha ricevuto anche l’avallo di questa Sezione d’Appello (cfr. Sent. 101/A/2010; 196/A/2009; 284/A/2008; 206/A/2008; 122/A/2008; 48/A/2007), la quale, dopo aver evidenziato che le speciali condizioni (….rispondenza dell'incarico esternalizzato agli obiettivi dell'ente; assenza di una apposita struttura organizzativa della P.A. ovvero carenza organica che impedisca o renda oggettivamente difficoltoso l'esercizio di una determinata funzione pubblica, da accertare per mezzo di una reale ricognizione; complessità dei problemi da risolvere che richiedono conoscenze ed esperienze eccedenti le normali competenze del personale della P.A. o dell'ente pubblico; indicazione specifica dei contenuti e dei criteri per lo svolgimento dell'incarico esternalizzato; indicazione della durata dell'incarico, svolgimento da parte del privato di un'attività non continuativa; proporzione fra il compenso corrisposto all'incaricato e l'utilità conseguita dall'amministrazione) che legittimano il conferimento di funzioni dell’Ente a soggetti esterni alla P.A., ha affermato che tali requisiti «….devono coesistere e, soprattutto, devono essere oggettivamente sussistenti….»; inoltre, ha precisato anche che, «….nei rapporti pubblicistici (…) si deve tenere conto dei limiti posti dal legislatore all'azione degli amministratori, soprattutto quando, come nella specie, detti limiti mirano a tutelare preminenti interessi pubblici, quali quelli che si ricollegano alle esigenze di equilibrio della finanza pubblica in un momento di grave crisi economico-finanziaria del paese. Pertanto, quando, come nel caso in esame, il legislatore pone agli amministratori pubblici determinati vincoli di spesa, ritenendo implicitamente non utile tutte quelle spese che non rispettino i limiti da esso posti, è sufficiente che la spesa si effettui contra legem perché si realizzi il danno….».
L’illegittimità dei conferimenti di funzioni dell’Ente a soggetti esterni costituisce, quindi, nella fattispecie, il presupposto antigiuridico che ha cagionato un danno erariale per l’Ente (pari alle somme che sono state pagate a soggetti esterni all’Ente stesso).
Le considerazioni che precedono escludono, quindi, che una qualche utilità possa attribuirsi ad una prestazione conseguente ad un incarico conferito contra legem con conseguente impossibilità di considerare, ai fini della quantificazione del danno risarcibile, l’eventuale vantaggio conseguente all’attività del soggetto esterno all’Ente, illegittimamente incaricato di svolgere funzioni che avrebbero dovuto essere svolte da dipendenti dell’Ente stesso (in quanto attività istituzionali), per lo svolgimento delle quali i dipendenti medesimi ricevono una congrua retribuzione.
Ciò premesso, ritiene il Collegio che non sia configurabile un nesso di causalità tra la condotta della Giunta municipale (che ha adottato la citata delibera n. 145/2008) ed il danno azionato dal PM, in quanto, nella stessa, era prevista, per altro su proposta del Ni. stesso, l’istituzione di un ufficio di staff per lo svolgimento di funzioni “intersettoriali” dando, quindi, al sindaco stesso la possibilità di procedere alla nomina degli esterni da effettuarsi, ovviamente in un momento successivo, nel rispetto dei limiti di legge (utilizzando, cioè, collaboratori esterni solo per funzioni di indirizzo politico e di controllo proprie del sindaco e previa verifica di indisponibilità di risorse interne).
Ciò che, invece, è stata causa del danno erariale in questione è proprio la successiva nomina degli esterni da parte del sindaco che ha conferito, a soggetti esterni, incarichi che non erano riferibili, come già detto, alle funzioni di indirizzo politico e di controllo proprie del sindaco, e che non è stata preceduta da una preventiva verifica di indisponibilità di risorse interne.
Ritiene, inoltre, il Collegio che, alla produzione del predetto danno erariale, non abbia, inoltre, fornito alcun effettivo contributo causale, giuridicamente apprezzabile, il funzionario che ha espresso parere favorevole in ordine alla regolarità contabile dei provvedimenti d’incarico emessi dal sindaco in quanto il parere di regolarità contabile, apposto dal funzionario preposto al Servizio Finanziario sul provvedimento di nomina emesso dal sindaco, resta limitato alla verifica della competenza del soggetto che ha disposto l’effettuazione della spesa, dell’esistenza della relativa copertura finanziaria, della corretta imputazione al pertinente capitolo di bilancio ecc., con esclusione, quindi, di qualsiasi valutazione in ordine all’intrinseca legittimità del procedimento decisionale che ha condotto all’emissione del provvedimento in questione.
Sempre in relazione al profilo del nesso di causalità, la difesa dell’appellante ha affermato che, nella fattispecie, i provvedimenti contestati si collocherebbero all'interno di un procedimento amministrativo che si era aperto con la fase istruttoria (in cui erano intervenuti il Responsabile del procedimento ed il Dirigente dell'Ufficio competente, al fine di comprovare, rispettivamente, la sussistenza dei requisiti di legittimità della procedura e, dunque, degli atti sindacali da deliberare, nonché la relativa regolarità tecnica) e si era concluso con la stipula dei contratti individuali di lavoro da parte del dirigente dell'Ufficio Gestione Risorse Umane (e, talvolta, del Direttore generale), attuativi delle scelte sindacali di nomina ma, sempre, previa verifica della conformità a legge delle stesse.
Sul punto si osserva che, nella fattispecie, il Ni. è stato il proponente della delibera di giunta n. 145/2008, i provvedimenti di nomina dei predetti collaboratori esterni sono stati sottoscritti solo dal Ni. stesso e dal funzionario preposto al Servizio Finanziario e le convenzioni, per il conferimento dei singoli incarichi, risultano sottoscritte solo dal collaboratore esterno e dal Ni. stesso); inoltre, l’asserito intervento, nella fattispecie, del dirigente dell'Ufficio Gestione Risorse Umane (e, talvolta, del Direttore generale), in sede di attuazione delle scelte sindacali di nomina (che avrebbe dovuto verificare la conformità a legge delle stesse), avrebbe, semmai, potuto riguardare soltanto taluni specifici profili di esso (ad es.: la circostanza che il “Regolamento comunale degli Uffici e dei Servizi” abbia previsto espressamente l’esistenza di tale Ufficio; il fatto che non venga superato il numero massimo di componenti che sia stato eventualmente fissato dal predetto regolamento o da altra deliberazione a carattere generale; la sussistenza di specifici requisiti già previsti, in linea generale, da norme di legge o di regolamento, la natura temporanea dell’incarico conferito etc.), con esclusione, quindi, di qualsiasi valutazione in ordine alla congruità delle motivazioni relative all’effettiva necessità del conferimento dell’incarico, alla concreta individuazione del soggetto designato, alle mansioni da svolgere etc. (che rientravano nelle prerogative del sindaco, unico soggetto che poteva individuare in concreto le azioni per le quali avesse necessità di supporto e delineare l’oggetto dell’incarico di collaborazione così come come l’utilità attesa dallo svolgimento dello stesso).
Infine, la difesa dell'appellante lamenta che erroneamente il Giudice di primo grado abbia ritenuto la sussistenza della colpa grave a carico del Ni.:
1. che non aveva le competenze professionali adeguate per rendersi conto di eventuali illegittimità (data la complessità della normativa regolante la fattispecie ed i dubbi interpretativi conseguenti);
2. pur essendo asseritamente intervenuti, nel procedimento di nomina dei predetti collaboratori esterni, funzionari dell’Ente che nulla hanno eccepito in ordine alla sussistenza di eventuali illegittimità.
A sostegno delle sue ragioni, ha richiamato la sentenza della Prima Sezione Centrale d’Appello di questa Corte n. 107/2015.
Ha, inoltre, richiesto, a questa Corte, di sollevare una questione di massima, innanzi alle SS.RR., per chiarire se un amministratore, che deliberi dopo un procedimento amministrativo (nel quale sono intervenuti gli organi dell’apparato burocratico dell’Ente senza nulla eccepire in ordine alla sussistenza di eventuali illegittimità dell’atto da adottare) possa rispondere, per colpa grave, di eventuali danni erariali conseguenti alla esecuzione della delibera adottata.
In relazione al punto n. 1, si osserva, che la ricorrenza dell’elemento soggettivo non può essere esclusa dal non possedere adeguate cognizioni tecnico-giuridiche giacché chi assume, per propria iniziativa, un munus pubblico ha anche l’onere di acquisire le necessarie cognizioni per espletarlo in conformità alla legge, altrimenti vi sarebbe una condizione soggettiva precostituita che legittimerebbe l’adozione di atti illegittimi, forieri di illeciti erariali e senza alcuna conseguenza per l’autore; ciò sarebbe, evidentemente, paradossale.
In relazione al punto n. 2, si osserva che, in disparte dalla limitata partecipazione, nella fattispecie di funzionari dell’Ente di cui si è già detto (in quanto il Ni. è stato il proponente della delibera di giunta n. 145/2008, i provvedimenti di nomina dei predetti collaboratori esterni sono stati sottoscritti solo dal Ni. stesso e, come già detto, dal funzionario preposto al Servizio Finanziario e, infine, le convenzioni per il conferimento dei singoli incarichi risultano sottoscritte solo dal collaboratore esterno e dal Ni. stesso) appare evidente che, nel caso in esame, le determinazioni sopra richiamate sono state adottate in macroscopico dispregio della disciplina applicabile e tale comportamento, pertanto, appare connotato quanto meno dall’elemento psicologico della colpa grave, poiché l’amministratore ha violato i principi fondamentali che presiedono all’attività amministrativa, nonché disposizioni di facile interpretazione contenute nella normativa di rango primario, nello statuto comunale e nel regolamento di organizzazione.
Tali ultime considerazioni consentono, infine, di escludere l’applicabilità di un eventuale potere riduttivo dell’addebito.
In ordine, poi, alla richiesta di rimettere la prospettata questione di massima alle SS.RR. di questa Corte si osserva quanto segue.
L’art. 1, comma 7, del decreto legge 15.11.1993, n. 453, convertito, con modificazioni, nella l. 14.01.1994 n. 19, prevede espressamente che “Le sezioni riunite della Corte dei conti decidono sui conflitti di competenza e sulle questioni di massima deferite dalle sezioni giurisdizionali centrali o regionali, ovvero a richiesta del procuratore generale”.
A tale norma, l’art. 42, comma 2, della l. 18.06.2009 n. 69 ha aggiunto un ultimo periodo e precisamente “Il Presidente della Corte può disporre che le sezioni riunite si pronuncino sui giudizi che presentano una questione di diritto già decisa in senso difforme dalle sezioni giurisdizionali centrali o regionali e su quelli che presentano una questione di massima di particolare importanza. Se la sezione giurisdizionale, centrale o regionale, ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle sezioni riunite, rimette a queste ultime, con ordinanza motivata, la decisione del giudizio.”.
E’ evidente che “…la decisione del giudizio" alla quale fa riferimento l’ultima parte del comma aggiunto può essere soltanto quella aventi ad oggetto i conflitti di competenza, le questioni di diritto e le questioni di massima, con esclusione di ogni possibile conferimento di poteri di valutazione del merito delle questioni controverse.
Una siffatta interpretazione della novella normativa si inserisce, quindi, nel contesto dei poteri e delle attribuzioni ben consolidate facenti capo alle Sezioni riunite, per cui la norma, lungi dall’aver voluto creare una nuova competenza (quella di esame del merito della controversia) in capo al Supremo Organo giurisdizionale, deve essere interpretata nell’unico significato possibile e costituzionalmente orientato, consistente nel principio che la rimessione del giudizio, in caso di dissenso, in tanto sia possibile in quanto sia diretta ad approfondire e a riesaminare sotto diversi profili la sola questione di diritto, con ragioni che devono essere congruamente esplicitate nell’ordinanza di rimessione.
In sostanza, le Sezioni riunite potrebbero, in caso di dissenso adeguatamente motivato, rivedere il principio di diritto affermato o dare una diversa soluzione alla questione di massima presentata rispetto a quanto in precedenza enunciato, rimettendo, poi, la definizione del merito della fattispecie agli organi giurisdizionali remittenti.
Nel caso di specie, facendo applicazione di predetti principi, deve ritenersi inammissibile la richiesta della difesa dell’appellante di sottoporre alle SS.RR. di questa Corte la predetta questione (e, cioè, se un amministratore, che deliberi dopo un procedimento amministrativo -nel quale sono intervenuti gli organi dell’apparato burocratico dell’Ente senza nulla eccepire in ordine alla sussistenza di eventuali illegittimità dell’atto da adottare- possa rispondere, per colpa grave, di eventuali danni erariali conseguenti alla esecuzione della delibera adottata) in quanto non è una questione di diritto ma una questione di merito che deve essere risolta e decisa con riferimento ad ogni singola ipotesi.
Infatti, secondo costante giurisprudenza di questa Corte, la sussistenza della colpa grave non può essere affermata in astratto ma deve essere valutata caso per caso.
Questo perché, non ogni condotta diversa da quella doverosa implica colpa grave ma solo quella che sia caratterizzata da particolare negligenza, imprudenza od imperizia e che sia posta in essere senza l’osservanza, nel caso concreto, di un livello minimo di diligenza, prudenza o perizia che dipende dal tipo di attività concretamente richiesto all’agente in quel settore della P.A. al quale è preposto e di tutte le circostanze soggettive ed oggettive esistenti al momento in cui la condotta causativa di danno è stata posta in essere.
Per le ragioni suesposte, l’appello deve essere respinto e la sentenza impugnata appare meritevole di conferma.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo (Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. appello Sicilia, sentenza 17.02.2016 n. 27).

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Convocazioni senza dolo. L'errata indicazione non sempre inficia i lavori. Seduta legittima se al consigliere non è stato precluso di esprimere il voto.
In materia di ritualità della convocazione del consiglio comunale, la discordanza tra l'avviso pubblicato all'albo pretorio online e le convocazioni consegnate ai consiglieri e agli altri organi interessati, inficia i lavori del consiglio comunale e quindi la legittimità della seduta consiliare?

L'art. 32, comma 1, della legge 28.06.2009, n. 69, recante norme per l'eliminazione degli sprechi relativi al mantenimento di documenti in forma cartacea, dispone che «gli obblighi di pubblicazione di atti e provvedimenti amministrativi aventi effetto di pubblicità legale si intendono assolti con la pubblicazione nei propri siti informatici da parte delle amministrazioni e degli enti pubblici obbligati».
Per gli enti locali, l'art. 124 del decreto legislativo n. 267/2000 dispone l'obbligo della pubblicazione delle deliberazioni all'albo pretorio (ora sito istituzionale) dell'ente, per 15 giorni consecutivi, mentre, l'articolo 38, comma 7, del medesimo decreto legislativo stabilisce che le sedute del consiglio sono pubbliche salvo i casi previsti dal regolamento. Il decreto legislativo n. 33, del 14.03.2013, inoltre, disponendo il riordino della disciplina degli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione delle informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni, ha rafforzato, in particolare, a fini conoscitivi, l'esigenza di pubblicità degli atti.
Fermo restando, dunque, che, per quel che riguarda gli enti locali, l'obbligo di legge con valore di pubblicità legale è limitato alla pubblicazione delle deliberazioni e delle determinazioni dirigenziali (Cds n. 1370 del 15.03.2006), nel caso di specie, in cui la rilevata difformità è rappresentata dall'errata comunicazione di «seduta chiusa al pubblico», effettuata all'albo pretorio online, a fronte della corretta comunicazione di «seduta aperta al pubblico», riportata nell'avviso di convocazione consegnato ai consiglieri, l'ente locale ha previsto nello statuto che «il comune ha un albo pretorio per la pubblicazione degli atti e avvisi previsti dalla legge, dallo Statuto e dai regolamenti».
Il regolamento comunale prevede che l'elenco degli argomenti da trattare in consiglio è pubblicato all'albo del comune, stabilendo che tale pubblicazione deve essere effettuata nel giorno precedente la riunione e in quello in cui la stessa ha luogo. Inoltre stabilisce che debbano essere elencati distintamente, nell'ambito dell'ordine del giorno, sotto l'indicazione «seduta segreta», gli argomenti che comportino valutazioni e apprezzamenti su persone.
Pertanto, pur non avendo valore di pubblicità legale, la pubblicazione delle convocazioni con l'esatta indicazione dell'ordine del giorno, come prevista dal regolamento comunale, scaturisce oltre che per la necessità di trasparenza e diffusione delle informazioni, anche per consentire l'effettiva partecipazione del pubblico alle sedute di consiglio che non siano segrete.
Tuttavia, l'eventuale errata convocazione del consiglio comunale può essere riconosciuta come tale quando possa avere una effettiva efficacia preclusiva della piena capacità del consigliere di esprimere il voto in seno al collegio di appartenenza.
Nel caso di specie, la convocazione nei confronti dei consiglieri comunali è stata effettuata nel rispetto della normativa regolamentare, tant'è che la deliberazione effettuata nella seduta consiliare di cui trattasi è stata adottata in presenza di tutti i consiglieri comunali assegnati.
Escludendo l'ipotesi di dolo, l'errata indicazione della seduta, come segreta, riportata sul sito dell'amministrazione, pur avendo potenzialmente impedito ad una parte della cittadinanza di assistere alla riunione di consiglio (nelle premesse della deliberazione il sindaco dà atto della presenza di pubblico in sala), non può certo avere l'effetto di inficiarne i lavori.
Infatti, il pubblico, ai sensi dell'articolo 42 del regolamento non può interloquire con il consiglio, orientandone le decisioni, e, in ogni caso, chiunque abbia interesse può sempre accedere al verbale delle adunanze che, ai sensi dell'articolo 55, comma 3, dello stesso regolamento riporta il testo integrale delle dichiarazioni di voto, della parte dispositiva e della deliberazione (articolo ItaliaOggi del 25.03.2016).

APPALTI - PUBBLICO IMPIEGO: Affidamento al coniuge del Dirigente, l'utilizzo del MEPA preserva dal conflitto di interessi?
IL CASO: un tecnico comunale risulta essere il coniuge del titolare dell'impresa individuale che si è aggiudicata vari appalti del Comune nel settore delle manifestazioni e degli eventi.
Tutti gli affidamenti sono stati conferiti mediante procedure MEPA, nella quale il dipendente in conflitto di interesse, titolare di posizione organizzativa, non figurava però come punto ordinante.
Il Comune ha valorizzato la circostanza che la parentela con un dipendente non può essere motivo di esclusione, e ha quindi proceduto agli affidamenti al coniuge del dipendente.
In definitiva, secondo la tesi del Comune, non avendo il dipendente concorso all'affidamento, lo stesso non era tenuto all'obbligo di astensione, non configurandosi un conflitto di interesse.

(Risponde l'Avv. Nadia Corà)
La tesi del Comune non può essere condivisa. Ha errato il Comune a limitare la valutazione in ordine alla sussistenza o meno di un possibile conflitto di interesse alla sola fase di avvio della procedura di scelta del contraente e al concreto svolgimento di tale fase mediante acquisizione sul MEPA a cura del punto ordinante.
La valutazione in ordine alla configurabilità di una situazione di conflitto di interesse va fatta con riferimento a tutta la procedura di affidamento, a partire dalla fase della pianificazione, programmazione, e progettazione della procedura di affidamento perché è proprio in questa fase, che culmina nella determina a contrarre, che si possono verificare gravi irregolarità, abusi e conflitti d'interesse.
Va presidiato, ai fini di prevenzione della corruzione, il momento in cui viene scelto il tipo di procedura, specie laddove si tratti di affidamento diretto, nonché il momento -altrettanto rischioso- in cui viene scelto il nominativo dell'operatore economico destinatario dell'affidamento, sia che si tratti di affidamento diretto sia che si tratti di affidamento mediante procedura negoziata, con formazione dell'Elenco degli operatori economici da invitare (c.d. Elenco ditte).
Non c'è dubbio, infatti, che con riferimento a questi adempimenti della procedura, possono trovare spazio, in mancanza di adeguate misure di prevenzione della corruzione, favoritismi, amicizie o, come nel presente caso, legami di parentela idonee ad orientare la scelta del soggetto affidatario non già verso il migliore contraente possibile ma verso il soggetto che viene favorito.
Ne consegue che, laddove il dipendente, pur non avendo svolto la fase di avvio della procedura mediante l'acquisizione sul MEPA, abbia comunque potuto svolgere, anche in via soltanto potenziale, un ruolo, a monte, nella precedente fase della pianificazione, programmazione e progettazione dell'acquisizione dei servizi correlati ad eventi e manifestazioni, nella sua qualità di P.O. dell'area tecnica, lo stesso avrebbe, doverosamente, dovuto astenersi, tenuto conto che il conflitto di interesse che rileva ai fini della prevenzione della corruzione non è soltanto il conflitto di interesse reale ma è anche il conflitto di interesse soltanto potenziale.
La stessa Autorità Nazionale Anticorruzione del resto ha ribadito il proprio orientamento già maturato nel corso del 2015 (parere sulla normativa del 09/11/2015 - AG/76/2015), ritenendo sussistente un conflitto di interesse c.d. "materiale".
Si è in presenza di un conflitto di interesse materiale, e non formale, laddove il conflitto di interesse non sia espressamente rinvenibile in una norma di legge, ma si configuri in via di fatto, materialmente, in relazione alle specifiche circostanze del caso, ricollegabili anche indirettamente alle disposizioni che impongono l'astensione dalla partecipazione alla decisione del titolare dell'interesse e stabiliscono che il dipendente si astiene dal partecipare all'adozione di decisioni o ad attività che possano coinvolgere interessi propri, ovvero di suoi parenti, affini entro il secondo grado, del coniuge o di conviventi, oppure di persone con le quali abbia rapporti di frequentazione abituale, ovvero, di soggetti od organizzazioni con cui egli o il coniuge abbia causa pendente o grave inimicizia o rapporti di credito o debito significativi, ovvero di soggetti od organizzazioni di cui sia tutore, curatore, procuratore o agente, ovvero di enti, associazioni anche non riconosciute, comitati, società o stabilimenti di cui sia amministratore o gerente o dirigente.
Il dipendente si astiene in ogni altro caso in cui esistano gravi ragioni di convenienza (tratto dalla newsletter 23.03.2016 n. 142 di http://asmecomm.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOsservatorio Viminale/ Vietato tacitare i consiglieri.
È legittima la disposizione regolamentare che assegna al sindaco-presidente del consiglio comunale la facoltà di negare il diritto di parola a un consigliere, qualora sullo stesso argomento si sia pronunciato il proprio capogruppo?

L'esistenza dei gruppi consiliari non è espressamente prevista dalla legge, ma si desume implicitamente da quelle disposizioni del decreto legislativo n. 267/2000 che contemplano diritti e prerogative in capo ai gruppi o ai capigruppo.
In particolare, l'art. 38, comma 3, stabilisce che il regolamento consiliare disciplina la gestione di tutte le risorse attribuite per il funzionamento del consiglio e per quello dei gruppi consiliari regolarmente costituiti.
Il successivo art. 39, comma 4, prevede, invece, che il presidente del consiglio assicuri una adeguata e preventiva informazione ai gruppi consiliari e ai singoli consiglieri sulle questioni sottoposte al consiglio.
Infine, i capigruppo sono menzionati dall'articolo 125 il quale stabilisce che le deliberazioni adottate dalla giunta sono trasmesse in elenco a tali soggetti.
Le disposizioni citate, dunque, non assegnano ai gruppi e ai capigruppo alcuna specifica funzione di rappresentanza dei singoli consiglieri che possa essere esercitata durante le sedute dei consigli. Invero, i gruppi appaiono essenziali, in particolare, per la formazione delle commissioni consiliari (ove costituite), mentre i capigruppo, di norma, regolano le attività all'interno dei gruppi medesimi e svolgono le funzioni necessarie per la costituzione di tali commissioni.
Peraltro, il richiamato art. 38, al comma 2, demandando al regolamento la disciplina del funzionamento del consiglio, nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto, consente anche l'adozione di norme per regolare «la discussione delle proposte».
Tuttavia, è anche vero che l'articolo 43 del decreto legislativo n. 267/2000, riconoscendo il diritto di iniziativa dei consiglieri su ogni questione sottoposta alla deliberazione del consiglio, non limita la facoltà in parola alla sola presentazione delle proposte, ma intende, invece, garantire a ogni singolo eletto il diritto di esprimere la propria personale posizione nell'ambito del consiglio, diritto non surrogabile da manifestazioni di volontà collettive imposte dal regolamento.
Tant'è che anche l'articolo 78 del richiamato Tuel limitando il diritto a prendere parte alla discussione solo nel caso di delibere che riguardino interessi propri o di propri parenti o affini sino al quarto grado, conferma implicitamente la funzione relativa alla personale partecipazione del singolo consigliere alla discussione delle proposte.
Tale tesi trova conforto anche nella giurisprudenza (Tar Campania Napoli, sez. I, 25/03/1999, n. 847) che, ritenendo legittimo il regolamento per il funzionamento del consiglio comunale nella parte in cui lascia al presidente il compito di stabilire la durata delle discussioni, ha, altresì, rilevato l'illegittimità del medesimo strumento nella parte in cui consente al consiglio, a maggioranza, di troncare la discussione quando ritenga che l'argomento sia sufficientemente dibattuto e che le ulteriori richieste di intervento abbiano carattere pretestuoso (articolo ItaliaOggi del 18.03.2016).

APPALTI: I requisiti per l'affidamento dei contratti pubblici.
DOMANDA:
A seguito di partecipazione a confronto concorrenziale per lavori in economia, mediante cottimo fiduciario, il legale rappresentante della società aggiudicataria (società di capitali) ha dichiarato il possesso dei requisiti d’ordine generale di cui all'art. 38, comma 1, del D.Lgs. 163/2006 ed, in particolare, che “i soggetti di cui all'art. 38, comma 1, lett. c), del D.Lgs. 163/2006 attualmente in carica, non hanno riportato condanne passate in giudicato, decreti penali di condanna divenuti irrevocabili e sentenze di applicazione della pena su richiesta, ai sensi dell’art. 444 del codice di procedura penale, ivi comprese quelle per le quali abbiano beneficiato della non menzione.”
Il punto indicava chiaramente che tali sentenze o decreti dovevano essere obbligatoriamente dichiarati TUTTI, ad eccezione delle condanne quando il reato è stato depenalizzato ovvero per le quali è intervenuta la riabilitazione ovvero quando il reato è stato dichiarato estinto dopo la condanna ovvero in caso di revoca della condanna medesima. In sede di verifica si è appurato che la composizione societaria dell’aggiudicataria vede due soci persone giuridiche al 50% l’una.
Si chiede pertanto:
1. se le verifiche di cui all’art. 38 d.lgs. 163/2006 lettere b) e c) siano da estendere anche ai soci non persone fisiche, risultando ambiguo il dettato della norma con riferimento ai soggetti in caso di società con meno di quattro soci recitando: “degli amministratori muniti di potere di rappresentanza o del direttore tecnico o del socio unico persona fisica, ovvero del socio di maggioranza in caso di società con meno di quattro soci, se si tratta di altro tipo di società o consorzio” oppure se siano da riferirsi solo al socio persona fisica (in caso di società con meno di quattro soci).
Si chiede quindi se le dichiarazioni debbano intendersi, e pertanto le verifiche da effettuarsi, non soltanto relativamente al socio persona fisica ma anche per il socio persona giuridica per quanto concerne sia le società con socio unico che le società con meno di quattro soci relativamente al socio di maggioranza, in ossequio al principio della par condicio dei concorrenti;
2. se è possibile, ad aggiudicazione avvenuta, ricorrere all'istituto del soccorso istruttorio per vedere rese le eventuali ulteriori dichiarazioni, sostenendo l’aggiudicataria di non aver reso le stesse per i soci persone giuridiche;
3. se è possibile comunque ricorrere al soccorso istruttorio in caso di omessa dichiarazione in merito alla lettera m-quater dell’art. 38 D.Lgs. 163/2006, non avendo rilevato tale omissione in sede di apertura offerte.
RISPOSTA:
1) L'AVCP, con determinazione del 16.05.2012 n. 1, ha fornito “Indicazioni applicative sui requisiti di ordine generale per l’affidamento dei contratti pubblici” precisando, relativamente alle disposizioni dell’art. 38 comma 1 lett. b) e c) del Codice dei contratti pubblici -concernenti l’esclusione dalle procedure di affidamento disposta per i soggetti sottoposti a procedimenti per l’irrogazione di misure di prevenzione antimafia, nonché derivante dalla pronuncia di particolari sentenze di condanna (per reati che incidono sulla moralità professionale e reati di partecipazione ad un'organizzazione criminale, corruzione, frode, riciclaggio)- che: «In riferimento al primo profilo, si ritiene che l’accertamento della sussistenza della causa di esclusione di cui all’art. 38, comma 1, lett. b) e c) vada circoscritto esclusivamente al socio persona fisica anche nell’ipotesi di società con meno di quattro soci, in coerenza con la ratio sottesa alle scelte del legislatore: diversamente argomentando, risulterebbe del tutto illogico limitare l’accertamento de quo alla sola persona fisica nel caso di socio unico ed estendere, invece, l’accertamento alle persone giuridiche nel caso di società con due o tre soci, ove il potere del socio di maggioranza, nella compagine sociale, è sicuramente minore rispetto a quello detenuto dal socio unico».
Successivamente, con determinazione n. 2 del 02.09.2014, l'ANAC -la quale ha assunto i compiti e le funzioni dell’Avcp- ha constatato l’esistenza di alcuni profili di criticità in ordine all’applicazione dell’art. 38, comma 1, lett. b) e c) derivanti dall’entrata in vigore del Codice antimafia (D.Lgs. 06.09.2011 n. 159): "Le disposizioni del Codice antimafia costituiscono ius superveniens rispetto al Codice dei contratti ed al Regolamento. Deve ritenersi, pertanto, che il Codice antimafia, pur non prevedendo l’abrogazione espressa del citato art. 38, il quale continua quindi ad esplicare i propri effetti, abbia senz’altro innovato la disciplina dettata da tale disposizione".
Le verifiche contemplate nel Codice antimafia, tuttavia, attengono al momento immediatamente antecedente alla stipula del contratto ed alla fase esecutiva dello stesso e come tali sono limitate all’aggiudicatari.
Consegue da quanto sopra che ai fini della verifica dei requisiti di carattere generale dei concorrenti in sede di gara, continua a trovare applicazione esclusivamente l’art. 38, comma 1, lett. b) e c), del Codice dei contratti, trattandosi di disposizione normativa sulla quale non incidono, in relazione a tale fase della procedura, le norme dettate dal Codice antimafia. Al riguardo valgono, dunque, le considerazioni espresse dall’Autorità nella determinazione n. 1/2012.
Ai fini della stipula del contratto, invece, occorre eseguire sull’aggiudicatario le verifiche contemplate dallo stesso art. 38, comma 1, lett. b) e c), così come innovate dal Codice antimafia, ossia estendendo le verifiche anche al socio persona giuridica per quanto concerne sia le società con socio unico che le società con meno di quattro soci relativamente al socio di maggioranza, in ossequio al principio della par conditio dei concorrenti.
Infatti, appare irrazionale che le condanne per i reati previsti dal citato dispositivo normativo debbano produrre effetto solo per il socio persona fisica e non per il socio persona giuridica (cfr. sentenza del TAR Puglia Bari, Sez. I, 30.08.2013 n. 1287 che afferma: «Invero, il riferimento normativo contenuto nell’art. 38, comma 1, lett. c), dlgs 12.04.2006, n. 163 ... al “socio di maggioranza” deve essere interpretato anche nel senso di socio di maggioranza - persona giuridica (e non solo persona fisica), onde evitare la facile elusione della disciplina legislativa). Se lo spirito del Codice dei contratti pubblici è quello di assicurare legalità e trasparenza nei procedimenti degli appalti pubblici, occorre garantire l’integrità morale del concorrente sia se persona fisica che persona giuridica. Tra l’altro, viceversa, verrebbe violato il principio della par conditio dei concorrenti in quanto una società concorrente con socio unico o socio di maggioranza che sia persona fisica sarebbe soggetto alla dichiarazione antimafia, mentre se si tratta di persona giuridica non sarebbe soggetto alla dichiarazione antimafia
».
2) Dal momento che l'estensione delle verifiche in oggetto anche al socio persona giuridica attengono al momento immediatamente antecedente alla stipula del contratto ed alla fase esecutiva dello stesso, sarà successivamente all'aggiudicazione (e senza che ciò implichi il ricorso al soccorso istruttorio), che la società di capitali dovrà rendere le ulteriori dichiarazioni relative a entrambi i soci persona giuridica, nel rispetto della determinazione ANAC n. 2 del 02.09.2014, e della disciplina del Codice antimafia.
3) Oltre all'ipotesi di falsità, l'omissione o incompletezza delle dichiarazioni da rendersi ai sensi dell'art. 38 da parte di tutti i soggetti ivi previsti costituiscono, di per sé, motivo di esclusione dalla procedura ad evidenza pubblica anche in assenza di una espressa previsione del bando di gara (ex multis, parere AVCP 16.05.2012, n. 74 e Cons. St., sez. III, 03.03.2011, n. 1371).
Le dichiarazioni sul possesso dei prescritti requisiti, pertanto, non possono essere prodotte ex post, qualora mancanti (cfr., AVCP Determinazione n. 4/2012; Determinazione n. 1/2012), dunque nessuno spazio può avere il dovere di soccorso istruttorio (cfr. Consiglio di Stato, sez. III, 16.03.2012, n. 1471), nemmeno in caso di omessa dichiarazione in merito alla lettera m-quater dell’art. 38 d.lgs. 163/2006 (link a www.ancirisponde.ancitel.it).

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AMBIENTE-ECOLOGIA: Gestione dei rifiuti senza rischi. Modelli organizzativi adeguati per prevenire gli ecoreati. Le indicazioni Fise Assoambiente per prevenire la responsabilità ex dlgs 231/2001.
Valutazione dell'esposizione a tutti i reati previsti dal dlgs 231/2001, chiara definizione di compiti e responsabilità aziendali, peculiare analisi dei rischi legati alle aree sensibili dell'attività d'impresa.
Arriva da Fise-Assoambiente la guida che supporta le aziende di gestione rifiuti nella redazione del «modello organizzativo» utile ad arginare le dirette responsabilità previste dal dlgs 231/2001 in caso di reati commessi da propri collaboratori.
Approvate dal ministero della giustizia nel dicembre 2015 e diramate nei giorni scorsi anche sul sito internet www.assoambiente.org, le linee guida sviluppate in collaborazione con CertiQuality integrano e declinano le più generali istruzioni già dettate da Confindustria in materia di responsabilità amministrativa degli enti.
Il contesto normativo. In base al dlgs 231/2001 imprese ed enti rispondono direttamente, con sanzioni amministrative sia pecuniarie che interdittive, per determinati reati commessi nel loro interesse o vantaggio da propri amministratori, dirigenti e dipendenti. Le stesse entità non rispondono di tali illeciti (c.d. «reati presupposto», elencati dal decreto) se dimostrano: di aver adottato ed efficacemente attuato prima della loro commissione un «modello di organizzazione e gestione» idoneo a prevenirli; di aver svolto effettiva vigilanza sulla sua osservanza; l'avvenuta fraudolentemente elusione del protocollo da parte degli autori dell'illecito.
Il modello è considerato «idoneo» se risponde ai requisiti essenziali sanciti dagli articoli 6 e 7 del dlgs 231/2001, ossia: individua le attività nel cui ambito possono commettersi i reati presupposto; prevede specifici protocolli per formazione e attuazione delle azioni preventive; dispone obblighi di informazione dell'Organo di vigilanza; prevede un adeguato sistema sanzionatorio per la violazione delle regole; è costantemente verificato ed aggiornato. Una presunzione di conformità è sancita dallo stesso dlgs 231/2001 per i protocolli riconosciuti dal ministero della giustizia.
I reati presupposto. Fondamentale nella redazione del modello, sottolineano le nuove linee guida, è considerare tutte le fattispecie di reato previste dal dlgs 231/2001, salvo poi affrontare le specificità dei singoli illeciti cui l'attività dell'azienda renda sensibilmente esposti. Sotto tale profilo, a titolo esemplificativo le istruzioni Assoambiente elencano una serie di reati presupposto che interessano anche le imprese della gestione sui rifiuti.
Tra questi, vengono in primo luogo evidenziati gli illeciti legati a rapporti e contatti con la pubblica amministrazione, come malversazione, indebita percezione di erogazioni, truffa ai danni dello Stato, concussione e corruzione.
In relazione a tali illeciti, principali aree di rischio per le aziende del settore ambientale appaiono essere: partecipazione a gare pubbliche e negoziazioni; procedimenti per rilascio di atti, provvedimenti e autorizzazioni.
Di rilevo, si evince dalle stesse linee guida, anche l'associazione a delinquere, collegabile con il reato di attività organizzata per il traffico illecito di rifiuti. Ricettazione, riciclaggio e impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita possono altresì interessare le attività di raccolta e smaltimento rifiuti come la produzione di energie rinnovabili.
Sotto osservazione anche l'impiego di cittadini di paesi terzi con soggiorno irregolare, illecito aggravato dall'esposizione a situazioni lavorative di grave pericolo. Tra gli altri reati di carattere generale, l'attenzione deve altresì essere posta su falsità e frode informatica, ricettazione, riciclaggio, impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita. Peculiare, per la trasversalità delle fattispecie sottese, dovrà altresì essere la prevenzione dei reati di omicidio e lesioni colpose commesse in violazione delle norme sulla sicurezza sul lavoro, elevati a illeciti «231» dalla legge 123/2007.
Tra gli illeciti di stretto carattere ambientale (che se non già sottoposti a prevenzione impongono un rapido upgrade del proprio modello organizzativo), si ricordano invece due importanti upgrade del catalogo dei «reati 231»: quello effettuato dlgs 121/2011, che vi ha inserito quelli in materia di inquinamento di acque, aria e suolo, gestione dei rifiuti, danneggiamento di fauna, flora e habitat; quello recato dalla recente legge 68/2015 che vi ha introdotto i nuovi eco-delitti (sia dolosi che colposi) di inquinamento e disastro ambientale, traffico o abbandono di materiale ad alta radioattività.
Il modello organizzativo. Al fine di garantire l'efficace controllo dei rischi, nella costruzione del «modello 231» particolare attenzione dovrà essere posta nella chiara e formale definizione di compiti e responsabilità delle figure aziendali.
Tra i protocolli di controllo per prevenire i reati (anche nelle attività eco-sensibili) si citano a titolo di esempio quelli relativi alle variazioni del ciclo produttivo «trasversali» sia alla gestione ambientale (quali nuovi scarichi, rifiuti o emissioni) che alla gestione della sicurezza sul lavoro (come l'aggiornamento della valutazione dei rischi per ricezione di nuovi rifiuti o utilizzo di neo sostanze chimiche).
Analisi dei processi aziendali. L'idonea prevenzione dei reati ex dlgs 231/2001 passa attraverso l'individuazione dei rischi legati alle c.d. «aree sensibili» dell'azienda. Nelle imprese di gestione rifiuti, sottolineano le linee guida, figurano in tale senso le attività di trattamento rifiuti, intermediazione, trasporto, bonifiche.
In relazione al trattamento rifiuti, in particolare, peculiare attenzione dovrà essere prestata a: processi di pianificazione dei conferimenti; trasporti; gestione, esercizio e manutenzione impianti; flussi in ingresso/uscita; analisi di laboratorio; monitoraggi ambientali (relativi a suolo, acque, aria); gestione delle emergenze; gare e negoziazioni dirette; omologa rifiuti. In relazione alla bonifica di siti inquinati particolare attenzione dovrà inoltre essere posta su: attività preliminari ed elaborazione dei progetti; caratterizzazioni (come carotaggi ed emungimenti); messa in sicurezza; bonifica delle falde; asportazione di strati contaminati e trattamenti on site.
Fra i controlli specifici sul processo, l'attenzione dovrà invece essere posta sui protocolli aziendali interni che disciplinano anche: uso di sostanze chimiche; eventi potenzialmente contaminanti di matrici ambientali; controlli manuali a campione; censimento di impianti, macchinari, attrezzature e dispositivi potenzialmente contenenti sostanze lesive dell'ozono; nuove opere e manutenzioni straordinarie anche in prossimità di aree naturali; tracciabilità delle attività; verifica di titoli autorizzatori in capo a soggetti terzi cui vengono conferiti i rifiuti (inclusa verifica delle targhe dei mezzi); gestione degli impianti con emissioni; verifica della validità temporale delle autorizzazioni.
I sistemi di gestione ambientale volontari. Le linee guida Assoambiente offrono infine utili indicazioni per l'integrazione tra sistemi volontari di gestione ambientali (Iso 14001 ed Emas) e modelli ex dlgs 231/2001. Tali sistemi volontari, evidenziano le linee guida, mirano proprio ad identificare gli aspetti ambientali con impatti significativi al fine di effettuare gli interventi di prevenzione, controllo, monitoraggio e miglioramento necessari.
Fermo restando che solo l'adozione e l'attuazione del «modello 231» può avere effetto contenitivo delle responsabilità legate ai sottesi illeciti, i sistemi volontari Iso ed Emas possono, con i dovuti adattamenti che tengano conto delle relative prescrizioni legali, contribuire proprio alla valida costruzione del documento di prevenzione ex dlgs 231/2001 (articolo ItaliaOggi Sette del 27.03.2016).

APPALTI FORNITURE - INCARICHI PROFESSIONALI: Consulenze p.a. non oltre il 20% della spesa 2009. Circolare della Rgs.
La spending review va avanti e sotto la scure finiscono le spese per mobili e arredi, per le auto, per i beni e i servizi informatici, per gli studi e gli incarichi di consulenza.

In una circolare indirizzata agli enti pubblici (circolare 23.03.2016 n. 12), la Ragioneria generale dello Stato mette nero su bianco gli obblighi di risparmio di spesa da rispettare nei bilanci di previsione 2016 alla luce delle disposizioni introdotte dalla legge di Stabilità 2016 e dal decreto legge milleproroghe.
In particolare, sono previsti tagli alle spese per acquisti e arredi che, si precisa, non possono superare il 20% della spesa sostenuta in media negli anni 2010 e 2011, «se non destinati all'uso scolastico e dei servizi dell'infanzia, salvo che l'acquisto sia funzionale alla riduzione delle spese connesse alla conduzione degli immobili».
E ancora, scure sulle consulenze: le spese per studi e incarichi non possono essere superiori al 20% di quella sostenuta nel 2009. Sforbiciata anche per le spese destinate a computer e ai servizi informatici. «L'obiettivo annuale, da raggiungere alla fine del triennio 2016-2018, è pari al 50% della spesa annuale media per la gestione del solo settore informatico relativa al triennio 2013-2015», si legge nella circolare.
Viene quindi ribadito il divieto per tutto il 2016 per le p.a di acquistare autovetture (articolo ItaliaOggi del 26.03.2016).

APPALTI FORNITURE - INCARICHI PROFESSIONALISpending review: al via scure su consulenze mobili e pc.
Parte la nuova fase di spending review per la pubblica amministrazione. Le revisione della spesa prosegue sulle linee guida tracciate negli ultimi anni, in primis con il maxi-blocco del turnover al 25% previsto dalla legge di stabilità, ma va avanti anche con operazioni più chirurgiche: dallo stop agli acquisti di auto per l'intero anno, fino al taglio delle spese per i mobili, i computer e le consulenze.
Nella circolare 23.03.2016 n. 12 che incorpora le disposizioni della legge di stabilità e del Milleproroghe, la Ragioneria generale dello Stato ricorda alla platea degli enti pubblici (tra gli altri enti di previdenza, Inail, Camere di Commercio, Università, Autorità indipendenti ecc...) quali sono i nuovi obblighi da rispettare nei bilanci di previsione 2016, invitando i ministeri a vigilare ciascuno sugli enti ed istituti di propria competenza.
Si parte quindi dalle consulenze che lo scorso anno, secondo una recente relazione della Funzione pubblica, sono aumentate di ben il 60%. In base a quanto previsto dalla legge di stabilità, se dal primo gennaio 2016 si vorrà ricorrere a consulenti o collaboratori esterni non si potrà spendere più del 20% di quanto speso nel 2009.
Paletti strettissimi sono posti anche all'acquisto di mobili, tavoli, sedie, armadi e altri elementi di arredamento. Nessuna amministrazione, recita il documento firmato dal ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan, potrà «effettuare spese di ammontare superiore al 20% della spesa sostenuta in media negli anni 2010 e 2011 per l'acquisto di mobili ed arredi, se non destinati all'uso scolastico e dei servizi all'infanzia».
La Ragioneria ricorda inoltre che per l'acquisto di pc, prodotti informatici e connessioni ad internet, la legge di stabilità 2016 ha introdotto l'obbligo per le amministrazioni pubbliche e tutte le società inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, di provvedere «esclusivamente tramite Consip o soggetti aggregatori».
Una procedura che si affianca all'obiettivo di risparmio di spesa annuale, da raggiungere alla fine del triennio 2016-2018, pari al 50% della spesa annuale media per la gestione corrente del solo settore informatico, relativa al triennio 2013-2015.
L'attuale legislazione prevede infine il divieto di acquisto di nuove auto o di stipula di contratti di leasing sino al 31.12.2016 (anche se una proposta di legge in esame in Parlamento punta ad estendere il limite fino al 2017) (25.03.2016 - tratto da www.ilsole24ore.com).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATANuova modulistica per il Durc telematico. Nuova modulistica per il Durc online.
Con la nota prot. n. 5081/2016, infatti, il Ministero del lavoro ha aggiornato il modello per la dichiarazione di «non commissione di illeciti ostativi al rilascio del documento unico di regolarità contributiva», ai sensi dell'articolo 1, comma 1175, della legge n. 296/2006.
Il nuovo modello, aggiornato alle novità del decreto interministeriale del 30.01.2015 (disciplina del Durc online), va (re)inviato anche dai datori di lavoro che già hanno rilasciato per la prima volta dopo il 01.07.2015 la dichiarazione sull'assenza delle cause ostative.
Durc online. Dal 01.07.2015 è operativa la procedura semplificata di rilascio del Durc, che prevede la via telematica quale unica modalità per le richieste e il rilascio della regolarità contributiva. Tra l'altro il documento ha una validità di 120 giorni e può essere utilizzato a ogni fine di richiesta dalla legge.
La disciplina è dettata dal decreto 30.01.2015 che, all'articolo 8, prevede le cosiddette «cause ostative alla regolarità», ossia una serie di violazioni previdenziale e sulla sicurezza del lavoro (dettagliate nell'allegato A al decreto) che, ai sensi del citato articolo 1, comma 1175, della legge n. 296/2006, non consentono il rilascio del Durc.
Il comma 4 dell'articolo 8, stabilisce che, ai fini della regolarità contributiva, l'impresa è tenuta ad autocertificare alla competente direzione territoriale del lavoro l'inesistenza a suo carico di provvedimenti, amministrativi o giurisdizionali definitivi in ordine alla commissione delle predette violazioni ovvero il decorso del periodo indicato dallo stesso allegato relativo a ciascun illecito.
Con la nota in esame, il ministero comunica di aver aggiornato il modello di autocertificazione e di averlo pubblicato nella sezione «strumenti e servizi» del sito internet. Il modello va usato, oltre che per le prossime dichiarazioni, anche dai datori di lavoro che lo hanno già rilasciato per la prima volta a partire dal 01.07.2015 (articolo ItaliaOggi del 25.03.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

TRIBUTI: Gli immobili vuoti non pagano la Tari.
Gli immobili vuoti non sono soggetti alla Tari. Il mancato utilizzo di un immobile, privo di mobili o di allacci alle reti idriche o elettriche, esonera il contribuente dal pagamento della tassa rifiuti.
È questa la tesi dell'Ifel espressa in uno schema di regolamento Tari predisposto per i comuni, che all'articolo 4 elenca gli immobili esclusi dal prelievo per inidoneità a produrre rifiuti.

È una questione dibattuta da anni e che ha fatto registrare contrastanti prese di posizione della giurisprudenza, di legittimità e di merito, e del ministero dell'economia e delle finanze.
Ad oggi, però, solo la Cassazione non ha cambiato idea e ha sempre mantenuto fermo il principio che non è decisiva ai fini della tassazione la scelta del titolare di usare o meno l'immobile. Ciò che conta è che l'immobile sia oggettivamente utilizzabile o suscettibile di produrre rifiuti. Occorre guardare alle condizioni del locale o dell'area e non all'uso che intende farne l'occupante o il detentore. La maggior parte delle amministrazioni locali, invece, ha escluso dalla tassazione gli immobili inutilizzati, se privi di allacci alle reti, idriche ed elettriche, o di mobili.
È evidente, quindi, che la posizione espressa dall'Ifel con il regolamento Tari si pone in contrasto con le regole da tempo affermate dalla Suprema corte e, tra l'altro, con l'interpretazione fornita dallo stesso istituto di finanza locale con una nota del 01.09.2014. Nella nota Ifel, correttamente, era stato precisato che la tassa è dovuta a prescindere dall'uso degli immobili, purché siano «potenzialmente in grado di produrre rifiuti urbani». Dunque, «indipendentemente dalla circostanza che vi sia un effettivo utilizzo del servizio pubblico». E la regola stabilita dalla Cassazione per la Tarsu vale anche per Tares e Tari.
In effetti la Cassazione (ordinanza 18022/2013), per esempio, ha ritenuto legittima la pretesa del comune di Bologna di applicare la Tarsu a un appartamento inutilizzato. Per i giudici di legittimità, il cambio di residenza del contribuente, la denuncia di cessazione dell'occupazione dell'immobile e il mancato consumo di energia elettrica non lo esonerano dal pagamento della tassa rifiuti.
Vanno esclusi dalla tassazione solo gli immobili non utilizzabili (inagibili, inabitabili, diroccati). Non ha alcuna rilevanza la scelta soggettiva dei titolari di non utilizzarli. Anche il mancato arredo non costituisce prova dell'inutilizzabilità dell'immobile e della inettitudine alla produzione di rifiuti. Un alloggio che il proprietario lasci inabitato e non arredato si rivela inutilizzato, ma non oggettivamente inutilizzabile.
Per la prima volta il principio è stato affermato con la sentenza 16785/2002, poi ribadito con le sentenze 9920/2003, 22770/2009, 1850/2010 e altre. Sempre la Cassazione (ordinanza 1332/2013) ha chiarito che l'esonero dal pagamento non spetta neppure quando il contribuente fornisca la prova dell'avvenuta cessazione di un'attività industriale (nel caso di specie, un oleificio) (articolo ItaliaOggi del 25.03.2016).

APPALTIStazioni appaltanti contro le frodi. Il personale deve prevedere misure anticorruzione. L'obiettivo è prevenire i conflitti di interesse per evitare distorsioni della concorrenza.
Scatta la responsabilità disciplinare, amministrativa e penale per il personale della stazione appaltante che è in posizione di conflitto di interesse relativamente a una procedura di appalto pubblico; ogni amministrazione deve prevedere idonee misure di prevenzione della corruzione e delle frodi connesse ad eventuali interessi economici, finanziari o personali del personale che interviene nella procedura di aggiudicazione.

È quanto stabilisce l'articolo 42 dello schema di decreto legislativo contenente il nuovo codice dei contratti pubblici sul quale entro i primi di aprile si dovranno esprimere con pareri che si annunciano corposi (ormai sembrano almeno 30 i punti da ritoccare), le commissioni parlamentari, il Consiglio di stato e la Conferenza unificata (Schema di decreto legislativo recante disposizioni per l'attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture - Atto del Governo n. 283 sottoposto a parere parlamentare).
La disposizione recepisce analoghe norme delle direttive europee del 2014 che per la prima volta hanno introdotto una disciplina sui problemi derivanti da situazioni di conflitto di interesse che possono fare capo ai responsabili delle stazioni appaltanti o al personale del prestatore di servizi.
Il principio generale è che le stazioni appaltanti devono prevedere misure adeguate per contrastare le frodi e la corruzione e individuare, prevenire e risolvere in modo efficace ogni ipotesi di conflitto di interesse nello svolgimento delle procedure di aggiudicazione degli appalti e delle concessioni.
L' obiettivo espressamente citato nella disposizione è quello di evitare qualsiasi distorsione della concorrenza e garantire la parità di trattamento di tutti gli operatori economici, si tratta dello stesso scopo che persegue la disciplina in materia di «partecipazione precedente di candidati o offerenti» di cui all'articolo 67 dello schema di decreto delegato, con la differenza che quest'ultima norma è destinata soltanto a soggetti esterni alla stazione appaltante, mentre l'articolo 42 riguarda anche i soggetti interni e i prestazioni di servizi che hanno partecipato alle fasi preliminari.
L'articolo 42 introduce quindi, in maniera innovativa rispetto all'attuale codice, la definizione di conflitto d'interesse facendo riferimento alle situazioni in cui il personale di una stazione appaltante o di un prestatore di servizi che, anche per conto della stazione appaltante, interviene nello svolgimento della procedura di aggiudicazione degli appalti e delle concessioni o può influenzarne, in qualsiasi modo, il risultato, ha, direttamente o indirettamente, un interesse finanziario, economico o altro interesse personale che può essere percepito come una minaccia alla sua imparzialità e indipendenza nel contesto della procedura di appalto o di concessione.
Il caso che si può immaginare è quello del soggetto che supporta il responsabile del procedimento della stazione appaltante nella predisposizione degli atti di gara.
La norma si indirizza al «personale» sia della stazione appaltante, sia del prestatore di servizi, e stabilisce che in questi casi il soggetto interessato deve astenersi dal partecipare alla procedura di aggiudicazione degli appalti e delle concessioni, pena l'incorrere (nel caso del personale dipendente pubblico) in responsabilità disciplinare, fatte salve le ipotesi di responsabilità amministrativa e penale (che riguarda anche il prestatore di servizi). Si prevede che le disposizioni trovino applicazione anche per la fase di esecuzione dei contratti pubblici (esempio per la direzione lavori).
La stazione appaltante dovrà vigilare sul rispetto delle norme del nuovo codice e di quelle che essa stessa detterà in via generale o nei singoli atti di gara, oltre che sul rispetto della disciplina nazionale in materia di conflitti di interesse e di lotta alla corruzione (articolo ItaliaOggi del 25.03.2016).

EDILIZIA PRIVATA: Il bonus del 65% al decollo. Dall'Enea il portale ad hoc per la documentazione. Tutto pronto per le domande relative ai lavori di riqualificazione energetica.
Tutto pronto per la detrazione del 65% per i lavori di riqualificazione energetica degli immobili. Dal 22 marzo è infatti attivo sul sito dell'Enea il portale http://finanziaria2016.enea.it/ per usufruire beneficio, trasmettendo la documentazione tecnica per fruire della detrazione per i lavori di risparmio energetico conclusi nel 2016.
L'Enea precisa che «attualmente il sito non può accettare l'inserimento di documentazione relativa agli interventi di building automation (dispositivi multimediali per il controllo da remoto degli impianti), poiché siamo in attesa di indicazioni operative da parte dei ministeri e degli enti preposti».
Resterà attivo anche il sito relativo all'anno fiscale 2015 (disponibile all'indirizzo http://finanziaria2015.enea.it/), per consentire sia l'invio delle ultime pratiche relative al 2015 sia le eventuali modifiche di quanto già precedentemente trasmesso. Fino al 31.12.2016 è possibile usufruire delle detrazioni fiscali del 65% per gli interventi di riqualificazione energetica degli edifici esistenti: con la legge di Stabilità 2016 (legge 28.12.2015, n. 208) sono state prorogate fino a tale data sia la detrazione fiscale del 65% per gli interventi di efficientamento energetico e di adeguamento antisismico degli edifici, sia la detrazione del 50% per le ristrutturazioni edilizie. L'agevolazione consiste in una detrazione dall'Irpef o dall'Ires ed è concessa quando si eseguono interventi che aumentano il livello di efficienza energetica degli edifici esistenti.
In particolare, la detrazione, che è pari al 65% per le spese sostenute dal 06.06.2013 al 31.12.2016, è riconosciuta se le spese sono state sostenute per la riduzione del fabbisogno energetico per il riscaldamento, il miglioramento termico dell'edificio (coibentazioni - pavimenti - finestre, comprensive di infissi), l'installazione di pannelli solari e la sostituzione degli impianti di climatizzazione invernale. Dal 01.01.2017 il beneficio sarà del 36%, cioè quello ordinariamente previsto per i lavori di ristrutturazione edilizia.
Con la legge di Stabilità 2016 l'agevolazione è prevista anche per l'acquisto, l'installazione e la messa in opera di dispositivi multimediali per il controllo da remoto degli impianti di riscaldamento o produzione di acqua calda o di climatizzazione delle unità abitative, volti ad aumentare la consapevolezza dei consumi energetici da parte degli utenti e a garantire un funzionamento efficiente degli impianti (articolo ItaliaOggi del 24.03.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Liquidazioni online per la Pa. Pensioni. Eccetto i dipendenti statali.
Con la circolare 110/2015 la gestione dipendenti pubblici dell’Inps aveva dato avvio alla sperimentazione per la liquidazione delle pensioni con la nuova procedura Sin2, superando nei fatti il vecchio modello PA04, cioè la certificazione dello stato di servizio con le relative retribuzioni. Nei fatti la liquidazione delle pensioni da cartacea diventa telematica.
Il periodo transitorio ha riguardato 14 province. Con la circolare 22.03.2016 n. 54 l’istituto di previdenza, a seguito dell’esito della sperimentazione, estende a tutte le sedi la liquidazione delle pensioni attraverso il canale informatico, escluso i dipendenti statali. I datori di lavoro, dal canto loro, dovranno fornire supporto ai dipendenti prossimi alla pensione, invitandoli alla presentazione della domande con un anticipo di almeno sei mesi. Ricevuta la richiesta di pensione, dovranno verificare la correttezza della posizione assicurativa alimentata attraverso il flusso uniemens – sezione ListaPosPa.
Se nella fase di verifica dovessero emergere delle anomalie, le stesse dovranno essere sistemate in funzione della collocazione temporale. Per i periodi fino al 31.12.2004 la modifica della posizione assicurativa avviene direttamente su Passweb, per i periodi compresi tra il 01.01.2005 e il 30.09.2012 le sistemazioni potranno avvenire tramite flusso telematico o sistemazione “manuale” sull’applicativo web, mentre per le correzioni da apportare dal 01.10.2012 le rettifiche dovranno essere fatte esclusivamente mediante l’invio di una nuova denuncia.
Inoltre dovranno essere inseriti i dati di ultimo miglio che consistono nella funzione di “anticipo Dma” e nell’inserimento delle retribuzioni valutabili in “quota A” alla cessazione. La circolare precisa altresì che in nessun caso l’anticipo Dma può essere utilizzato per coprire lacune contributive, cui fanno seguito periodi per i quali è stata presentata regolare denuncia attraverso il flusso mensile. Ne deriva, a ulteriore conferma di quanto già affermato nella circolare 12/2016, che il modello PA04 non dovrà più essere trasmesso.
L’Inps effettuerà la liquidazione della pensione sulla base dei dati presenti nella posizione assicurativa del lavoratore prossimo alla pensione. In ogni caso la pensione messa in pagamento è sempre da considerarsi provvisoria. La pensione definitiva sarà liquidata una volta che saranno consolidati gli uniemens relativi ai mesi per i quali l’ente aveva effettuato l’anticipo Dma.
I modelli PA04 trasmessi fino al 30.04.2016 potranno essere utilizzati per la sistemazione dei periodi antecedenti il 01.10.2012 oppure per la compilazione dell’ultimo miglio e dell’anticipo Dma. Dal 01.05.2016 il modello PA04 cesserà definitivamente di esistere
(articolo Il Sole 24 Ore del 23.03.2016).

CONSIGLIERI COMUNALIIl sindaco delude? Un referendum per revocarlo.
Se diretta è l'investitura, diretta potrà essere anche la revoca. I sindaci che tradiscono il mandato degli elettori potranno essere mandati a casa senza attendere la fine della legislatura. Basterà aspettare 18 mesi e raccogliere le firme del 15% dei votanti dell'ultima tornata elettorale.
Non servirà nessun quorum per la validità del referendum i cui costi saranno a totale carico del comune. Se sfiduciato dai propri cittadini, il sindaco si intenderà revocato e il Viminale dovrà indire nuove elezioni entro i tre mesi successivi.

La proposta di legge di Pino Pisicchio (Atto Camera n. 3660) è appena stata presentata alla camera e fa già molto discutere. Perché i sindaci (e soprattutto quelli dei piccoli comuni che si sentono accerchiati da progetti di associazionismo forzoso imposti in nome dell'efficienza e dei risparmi di spesa) la interpretano come una spada di Damocle agitabile per sovvertire l'esito democratico delle elezioni.
«Ma in realtà», spiega Pisicchio, «si tratta di uno strumento di democrazia continua, particolarmente necessario in questo periodo storico in cui la crisi dei partiti ha prodotto un forte deficit democratico». «Fino alla fine degli anni 80», osserva il deputato pugliese, «gli italiani iscritti ai partiti erano 4 milioni e mezzo, in pratica il 10% del corpo elettorale. Ora questo numero sta precipitando, c'è una forte disaffezione, l'astensionismo sta raggiungendo livelli record e si fa fatica in questo quadro a parlare di democrazia compiuta».
La scelta della classe dirigente diventa quindi un problema reale e le possibilità di commettere errori sono molto elevate. Il ragionamento allora diventa molto semplice: visto che è impossibile mandare a casa i deputati, perché la Costituzione non lo consente, tanto vale iniziare dai comuni «dove si verifica non di rado che il rapporto di fiducia tra il capo dell'amministrazione locale, investito dal voto popolare, e il corpo elettorale non sia più in sintonia».
E dove, prosegue Pisicchio, spesso i consigli comunali, spinti da una logica di autoconservazione, «finiscono per creare condizioni di tutela del sindaco» anche quando ormai la sua immagine è compromessa. Pisicchio, che è presidente del Gruppo Misto, spera che i lavori in commissione affari costituzionali possano iniziare prima dell'estate. E punta a raccogliere un ampio consenso sul testo ma soprattutto una discussione rapida. «Lo spiegherò nella conferenza dei capigruppo», dice. «Non a caso ho formulato la proposta alla vigilia delle amministrative» (articolo ItaliaOggi del 22.03.2016).

EDILIZIA PRIVATASolo il 46% dei comuni ha lo sportello unico edilizia.
Ad oggi, solo il 46% su 1.500 comuni ha istituito lo sportello unico per l'edilizia (cd. Sue) e nell'89% dei casi lo sportello è organizzato in forma singola. Nell'88% dei casi il Sue costituisce l'unico punto di contatto con l'utenza e si interfaccia direttamente con altri enti e uffici coinvolti nel procedimento.
Questo è quanto emerge dal report elaborato da Italia Semplice in merito alla funzionalità dello sportello unico per l'edilizia.
Le maggiori criticità riscontrate sono relative al livello di collaborazione con gli enti coinvolti nei procedimenti (giudicato scarso nel 25% dei casi), alla gestione della pratica online e nei rapporti con il Suap (le pratiche di edilizia produttiva arrivano direttamente al Sue tramite il Suap solo nel 62% dei casi).
Le amministrazioni manifestano esigenze di consulenza nell'interpretazione della normativa, soprattutto relativa ad alcune tematiche specifiche quali l'efficientamento energetico e le energie alternative, l'affiancamento sulle modalità di accorpamento delle funzioni con altri Comuni, in un'ottica di forma associata del Sue e la formazione sull'iter del procedimento per tutti gli enti e uffici coinvolti. Le azioni di affiancamento proseguiranno nell'ambito del nuovo ciclo di programmazione dei fondi strutturali.
Sono state individuate prime misure correttive in materia di agibilità e sismica. La previsione della Scia «unica» e la nuova disciplina della conferenza dei servizi, approvate in via preliminare dal Consiglio dei ministri il 20.01.2016, affrontano i fondamentali nodi critici per il funzionamento dei Sue.
Nei comuni che hanno istituito (o aderito a) un Suap, le funzioni di Sue e Suap non sono unificate nel 70% dei casi (in queste circostanze le funzioni di edilizia produttiva sono gestite prevalentemente dai Suap). Nell'oltre l'80% dei casi il Sue acquisisce d'ufficio i documenti e le informazioni già in possesso della pubblica amministrazione (articolo ItaliaOggi del 22.03.2016).

EDILIZIA PRIVATAEdifici nuovi e ristrutturati, Ape con verifica in cantiere.
Nei casi di edifici di nuova costruzione e di ristrutturazioni importanti, il servizio di Ape offerto dal soggetto certificatore deve comprendere almeno la valutazione della prestazione energetica dell'edificio a partire dai dati progettuali, i controlli in cantiere nei momenti costruttivi più significativi e una verifica finale con l'eventuale utilizzo delle più appropriate tecniche strumentali.

Questo è quanto si legge nella circolare 17.03.2016 n. 696 del Consiglio nazionale degli ingegneri sulle modalità di redazione Ape.
Il direttore dei lavori deve segnalare al soggetto certificatore le varie fasi della costruzione dell'edificio e degli impianti, quando rilevanti per le prestazioni energetiche dell'edificio, al fine di consentire i previsti controlli in corso d'opera. Il soggetto certificatore opera nell'ambito delle proprie competenze e per l'esecuzione delle attività di rilievo in sito, diagnosi, verifica o controllo, può procedere alle ispezioni ed al collaudo energetico delle opere, avvalendosi, ove necessario, delle necessarie competenze professionali.
Per gli edifici esistenti al fine di ottimizzare la procedura, il richiedente può rendere disponibili a proprie spese i dati relativi alla prestazione energetica dell'edificio o dell'unità immobiliare. Lo stesso può anche richiedere il rilascio dell'attestato di prestazione energetica sulla base di un attestato di qualificazione energetica relativo all'edificio o alla unità immobiliare oggetto di attestazione della prestazione, anche non in corso di validità, evidenziando eventuali interventi su edifici e impianti eseguiti successivamente e dal le risultanze di una diagnosi energetica effettuata da tecnici abilitati con modalità coerenti con i metodi di valutazione della prestazione energetica attraverso cui si intende procedere.
Il soggetto certificatore è tenuto a utilizzare e valorizzare i documenti sopra indicati (e i dati in essi contenuti), qualora esistenti e resi disponibili dal richiedente, unicamente previa verifica di completezza e congruità (articolo ItaliaOggi del 22.03.2016).

EDILIZIA PRIVATAAmianto, rimozione finanziata. Fondi anche per la posa in opera dei nuovi materiali. Nelle Faq dell'Inail alcuni chiarimenti alle imprese per accedere al Bando Isi 2015.
Scossaline e grondaie rientrano tra le spese finanziabili, in caso di rifacimento della copertura per la rimozione di amianto. E sono finanziabili anche le spese di posa in opera del materiale sostitutivo di copertura, ma fino al massimo di 25 euro a metro quadrato.

A precisarlo, tra l'altro, è l'Inail in una serie di Faq pubblicate sul sito internet relative al bando Isi 2015.
Il bando 2015. Il bando Isi 2015 ha stanziato 276.269.986 (sesta tranche di complessivi 1,2 miliardi di euro), con la novità di prevedere uno specifico asse di finanziamento dedicato ai progetti finalizzati alla rimozione di materiali con amianto. Destinatarie dei finanziamenti sono tutte le imprese, ad eccezione di quelle ammesse a contributo per avvisi di anni precedenti o per il bando Fipit.
Tre le tipologie di progetti ammessi: di investimento; di responsabilità sociale e per l'adozione di modelli organizzativi; di bonifica da amianto. Il contributo concesso è pari al 65% delle spese con massimo di 130 mila euro e minimo di 5 mila (minimo non operante per imprese fino a 50 dipendenti in caso di progetti del secondo tipo). Dal 1° marzo, si possono precaricare i progetti sul sito web dell'Inail al fine di verificarne la compatibilità.
Il prezzo a metro quadro. Una prima Faq riguarda gli interventi di rimozione di coperture in amianto e chiede di sapere se i costi di posa in opera del materiale sostitutivo possano o meno essere compresi tra quelli finanziabili. La risposta è affermativa. Le spese di posa in opera della nuova copertura, spiega l'Inail, rientrano tra quelle indispensabili alla completezza dell'intervento; l'unica limitazione riguarda il costo del materiale sostitutivo: va computato nella misura massima di 25 euro per metro quadro di copertura rimossa e da sostituire.
Pertanto, aggiunge l'Inail, nei preventivi presentati in caso di superamento del click day dovranno essere evidenziati i costi relativi all'acquisto del materiale sostitutivo delle coperture rimosse.
La copertura da rifare. Una seconda Faq chiede di sapere se, sempre in caso di rimozione di coperture in amianto, sia finanziabile il rifacimento della nuova copertura di superficie maggiore di quella rimossa. La risposta è negativa. In tal caso, spiega l'Inail, nel computo delle spese di progetto si terrà conto unicamente della porzione riferibile alla sostituzione della copertura rimossa e, pertanto, la porzione eccedente resterà interamente a carico del richiedente.
Capannoni in affitto. Un'ultima Faq, nel caso in cui l'intervento di rimozione dell'amianto riguardi una porzione di un immobile in locazione, chiede all'Inail se l'azienda locataria possa ottenere il contributo sull'intera copertura posto che, in caso di mancata eliminazione integrale dell'amianto sul tutta l'intera copertura, il rischio amianto comunque continuerebbe a sussistere per i propri dipendenti.
La risposta è negativa anche in questo caso, perché l'Avviso pubblico prevede che, nel caso di locazioni parziali d'immobile, sia finanziata la sola quota parte dei lavori che riguarda la porzione di immobile non locata e utilizzata direttamente dai dipendenti dell'impresa richiedente (articolo ItaliaOggi del 22.03.2016).

EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI: Catasto, rettifiche motivate. Nulli gli atti che non indicano gli immobili comparabili o i lavori eseguiti. Accertamento. Stretta della giurisprudenza di legittimità e di merito: bocciate le esposizioni schematiche.
Accertamenti catastali a rischio di nullità se non adeguatamente motivati: è il principio ormai costante che emerge dalla giurisprudenza di legittimità e di merito, chiamata spesso, negli ultimi tempi, ad affrontare cause legate alle rettifiche operate dalla ex agenzia del Territorio.
Il classamento di un immobile è necessario per l’attribuzione della rendita catastale, che di fatto, esprime il valore di ogni unità. A questo fine, occorre considerare sia le singole caratteristiche dell’immobile (come ad esempio la dimensione, l’epoca di costruzione, la struttura e la dotazione impiantistica, la qualità e lo stato edilizio, la presenza di pertinenze comuni o esclusive, il livello di piano), sia il contesto in cui è ubicato (riscontrando il grado di urbanizzazione dell’area circostante, la presenza di infrastrutture o la vicinanza alle principali vie di comunicazione). In sintesi dunque, ogni unità immobiliare è qualificata con una determinata categoria e, in relazione alla “qualità” dell’immobile, con una specifica classe.
Per ogni Comune è stabilita una tariffa per ogni classe che, moltiplicata per la dimensione del fabbricato (vano, metro quadrato o metro cubo) dà la rendita catastale. Gli uffici, per “aggiornare” questo valore possono rettificare la rendita sia di un singolo immobile, sia di tutte le unità presenti in un determinato quartiere o zona. Le cause che rendono necessario un riclassamento sono riconducibili a due categorie:
- la variazione subita dalla microzona comunale in cui è ubicato l’immobile, come ad esempio il miglioramento della viabilità, la realizzazione di scuole, ospedali;
- l’esecuzione di opere a cura del possessore, volte alla ristrutturazione del fabbricato.
Per la Cassazione (sentenza 6593/2015), a prescindere dall’impulso che ha dato avvio alla procedura di classamento, questa attività è (e resta) una procedura «individuale», che va effettuata considerando i fattori posizionali ed edilizi pertinenti a ciascuna unità immobiliare. Si tratta così di un unico criterio che consente di identificare il «parametro globale di apprezzamento» del fabbricato stesso.
Gli atti di accertamento catastali, sebbene possano dipendere da vari fattori, spesso riportano una motivazione sintetica e schematica che difficilmente risponde ai requisiti minimi per la validità dell’atto.
La Suprema corte ha da tempo dichiarato la nullità degli atti privi di motivazione poiché questa ha carattere sostanziale e non solo formale: non si tratta infatti di un elemento utile solo a provocare la difesa del contribuente, ma circoscrive l’eventuale successivo giudizio (sentenza 20251/2015).
La Ctr di Milano, sezione staccata di Brescia (sentenza 1043/67/2016), in virtù di questo principio, ha affermato che la motivazione “integrata” nella costituzione dell’ufficio, quindi dopo l’emissione dell’avviso di accertamento, non consente al contribuente di difendersi e pertanto l’atto è nullo (in questo senso anche Ctp Milano, sentenza 1419/12/2016).
Per la Ctr di Roma (sentenza 1075/21/16), non può ritenersi congruamente motivato il provvedimento che faccia riferimento a un generico scostamento del valore dell’immobile ovvero a non precisate opere edilizie eseguite.
Occorre così che il provvedimento, per garantire il diritto di difesa, contenga:
- la menzione dei rapporti tra valore di mercato e catastale nella microzona di riferimento, qualora la modifica sia stata avviata su richiesta del Comune;
- l’indicazione delle trasformazioni edilizie;
- l’indicazione dei fabbricati, del loro classamento e delle caratteristiche analoghe che li rendono simili all’unità oggetto di riclassamento, quando l’atto sia conseguente a un aggiornamento o a un’incongruità rispetto ad altri immobili (sentenza 23247/2014).
Il contribuente quindi, dovrà comprendere i motivi della variazione eseguita dall’ufficio, per riscontrarne la correttezza ed eventualmente decidere di ricorrere al giudice tributario.
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Dal 2016 l’atto è soggetto a reclamo.
Le modalità dei ricorsi. Le modifiche introdotte dal Dlgs 156/2015 hanno creato un doppio binario in base alla data di notifica.

L’accertamento catastale va impugnato davanti alla commissione tributaria secondo le regole ordinarie.
Recentemente, peraltro, le Sezioni unite della Cassazione (sentenza 2950/2016) hanno confermato che, se il contribuente contesta le risultanze dei pubblici registri e richiede una variazione dei dati negli stessi contenuti, la giurisdizione è, appunto, del giudice tributario.
Il ricorso deve essere notificato all’ufficio che ha emesso il provvedimento entro 60 giorni dalla notifica dell’atto stesso. In seguito alle modifiche introdotte dal Dlgs 156/2015, l’accertamento catastale è un atto reclamabile e pertanto occorre attendere 90 giorni prima della costituzione in giudizio. In questo arco temporale, l’ufficio valuta le motivazioni del contribuente e, nel caso, rettifica o annulla il provvedimento.
L’istituto del reclamo anche per gli atti catastali trova applicazione con riferimento ai ricorsi notificati dal contribuente a partire dal 01.01.2016. Poiché in passato questi provvedimenti non erano soggetti a mediazione, i ricorsi presentati entro il 31.12.2015 dovevano seguire le regole ordinarie.
Si pensi a un accertamento catastale notificato il 16.12.2015: il contribuente che ha notificato il ricorso entro la fine del 2015, doveva costituirsi in giudizio entro il 14.01.2016. Il contribuente che ha notificato il ricorso dopo il 1° gennaio, invece, poiché questo ha anche gli effetti del reclamo, dovrà attendere i 90 giorni previsti prima della costituzione in giudizio.
La difesa del contribuente dovrà essere indirizzata innanzitutto a contestare eventuali elementi errati considerati dall’ufficio che possano influire sul valore del fabbricato. Eventuali fotografie potrebbero meglio rappresentare lo stato conservativo e documentare così che la nuova rendita attribuita non ne rappresenta il reale valore. Preliminarmente, però, ove i dati in base ai quali l’ufficio ha rettificato il classamento non siano chiaramente identificabili, occorrerà rilevare anche il vizio di motivazione (si veda l’altro articolo in pagina).
Sebbene poi possa apparire singolare, davanti a un accertamento catastale, il contribuente potrebbe chiedere alla commissione che siano sospesi gli effetti dell’atto nelle more del giudizio. Come infatti avviene nei ricorsi contro gli avvisi di accertamento, è sempre possibile la richiesta cautelare. Poiché però nella maggior parte dei casi non sono pretese somme, occorrerà che il contribuente documenti in che misura la nuova rendita può arrecargli un danno grave e irreparabile.
Tutte le imposte la cui base imponibile dipende da questo valore, infatti (Imu, imposta di registro, ipotecaria o catastale, e così via) dovranno essere calcolate secondo la nuova rendita accertata, a prescindere dal fatto che il provvedimento risulti pendente
(articolo Il Sole 24 Ore del 21.03.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA: Vincoli idrogeologici, stop al silenzio-assenso. Più complesse le autorizzazioni per lavori nei territori a rischio frane e alluvioni (l’88% dei Comuni).
Collegato ambientale. Dal 2 febbraio eliminato ogni automatismo: necessario acquisire il parere preventivo dell’Autorità di tutela prima di avviare gli interventi.

Il Collegato ambientale (legge n. 221 del 28.12.2015) introduce nuove procedure, più complesse, per mitigare il rischio idrogeologico, aspetto che interessa gran parte del territorio nazionale. In edilizia questo ha un impatto immediato perché nelle numerose zone soggette a questo vincolo le semplificazioni introdotte di recente sono applicabili in misura limitata.
Secondo un recente studio di Ispra (Dissesto idrogeologico in Italia – dicembre 2015), oltre l’88% dei Comuni è a rischio idrogeologico e questa problematica interessa quasi sette milioni di persone. A fronte di ripetuti tragici eventi accaduti negli ultimi decenni (frane e alluvioni), il legislatore è intervenuto a più riprese, rendendo obbligatoria per i Comuni la redazione dei Piani di assetto idrogeologico (legge n. 183/1989), prevedendo l’obbligo per i Comuni ad alto rischio di predisporre un piano emergenziale (legge n. 267/98), fino al più recente Dlgs n. 49/2010, che ha dato attuazione alla direttiva 2007/60/Ce per la prevenzione e mitigazione del rischio idrogeologico a livello europeo.
Grazie, poi, all’assoggettamento di piani e programmi alle procedure di Vas (valutazione ambientale strategica), il rischio idrogeologico ha assunto sempre più rilevanza a livello di pianificazione urbanistica.
La necessità di tutelare il territorio, però, si scontra con l’altra faccia della medaglia, ovvero la necessità di semplificare le procedure amministrative, incluse quelle in materia edilizia.
Ci si riferisce in particolare alle modifiche introdotte dalla legge n. 134/2012 rispetto allo sportello unico per l’edilizia, che, attraverso la conferenza di servizi, è competente ad acquisire tutti gli atti preliminari di assenso necessari a completare l’istruttoria, inclusi quelli delle autorità preposte alla tutela dell’ambiente, del paesaggio del patrimonio storico-artistico e, oggi, anche dell’assetto idrogeologico.
Ancor più rilevante la semplificazione introdotta dal Dl n. 69/2013 che ha esteso il silenzio assenso alle domande di permesso di costruire che non vengono concluse con provvedimento espresso motivato entro 30 giorni dal completamento della relativa istruttoria.
Per non parlare poi dell’introduzione della Scia (segnalazione certificata di inizio attività) e Cia (comunicazione inizio lavori) anche in edilizia.
A seguito delle modifiche introdotte dal Collegato ambientale, tuttavia, le semplificazioni edilizie –così come quelle più generali introdotte al procedimento amministrativo (legge n. 241/1990)– incontrano un ulteriore limite applicativo oltre a quelli già preesistenti relativi ad aspetti essenziali e primari, tra cui la tutela dell’ambiente, del paesaggio, nonché la salute e sicurezza delle persone.
Dal 2 febbraio scorso -data di entrata in vigore del Collegato ambientale- a tali aspetti essenziali si aggiunge anche il rischio idrogeologico, con conseguente maggior attenzione agli interventi su immobili interessati da vincolo idrogeologico (di fatto gran parte del patrimonio edilizio esistente).
L’attività edilizia libera (ossia senza titolo edilizio), ad esempio, deve comunque considerare e rispettare anche le previsioni normative e regolamentari comunali poste a tutela del rischio idrogeologico.
Gli interventi sottoposti a Dia, Scia o Cia (secondo le specifiche discipline regionali) devono ottenere preventivamente atti o pareri relativi all’assetto idrogeologico laddove previsto dalla normativa applicabile. Ed è escluso il ricorso alle autocertificazioni o a attestazioni e asseverazioni da parte di tecnici abilitati.
Il permesso di costruire non si forma per silenzio assenso nel caso in cui, rispetto all’intervento in progettazione sussista un vincolo idrogeologico e non sia ottenuto il relativo parere favorevole (momento da cui iniziano a decorrere i 30 giorni per il silenzio-assenso). Anzi, qualora venga rilasciato un parere negativo, la mancata formale conclusione del procedimento principale, comporta il rigetto della domanda di permesso di costruire.
L’equilibrio tra tutela del territorio e semplificazione edilizia, dunque, si fa sempre più precario, considerato che il rischio idrogeologico interessa una parte rilevante del nostro patrimonio immobiliare.
Da un lato, non possono essere sicuramente trascurati aspetti sempre più importanti per la tutela della collettività, dall’altro, le amministrazioni dovranno strutturarsi e operare in modo da non ostacolare o ritardare lo sviluppo sostenibile evadendo le richieste dei privati nei tempi di legge
(articolo Il Sole 24 Ore del 21.03.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Ai privati l’iniziativa sul danno ambientale. Siti di interesse nazionale. Le decisioni passano da Palazzo Chigi al ministero.
Oltre all’intervento sulle procedure edilizi, il Collegato ambientale (legge n. 221/2015) riscrive le procedure e i criteri per la definizione transattiva del danno ambientale rispetto ai siti di interesse nazionale.
L’articolo 31, infatti, abroga la precedente disciplina (articolo 2 del Dl n. 208/2008) –salvi i procedimenti per i quali sia già stato comunicato lo schema di contratto– e introduce un nuovo articolo (306-bis) al Codice dell’ambiente (Dlgs n. 152/2006).
La nuova procedura –ad una prima lettura– parrebbe più semplice e snella di quella previgente, in quanto non è più prevista l’approvazione dello schema di transazione da parte della Presidenza del consiglio, bensì è il ministero dell’Ambiente a gestire la transazione, ottenendo il preventivo parere di Regione, Comuni e Ispra mediante conferenza di servizi, nonché il successivo parere di avvocatura dello Stato e Corte dei conti.
L’iniziativa, però, è sempre in mano al privato che avvia la procedura presentando una propria proposta che:
- individui gli interventi di riparazione primaria, complementare e compensativa;
- in caso di riparazione compensativa, tenga conto dei tempi della riparazione primaria o della riparazione complementare;
- se non è possibile risarcire risorsa con risorsa e servizio con servizio, contenga una liquidazione del danno per equivalente economico;
- preveda un piano di monitoraggio in caso di inquinamento residuo ;
- tenga conto degli interventi di bonifica già approvati e realizzati;
- in caso di concorso di più soggetti, sia formulata anche da alcuni soltanto di essi con riferimento all’intera obbligazione, salvo il regresso nei confronti degli altri;
- contenga idonee garanzie finanziarie.
Alcuni dei criteri transattivi destano qualche perplessità. In particolare, rimane la possibilità di quantificare il danno residuo per equivalente economico, possibilità che è stata messa in discussione in passato anche a livello europeo e che aveva portato problemi applicativi, tanto che questa possibilità,residuale, era stata limitata ai costi del mancato ripristino in forma specifica (legge n. 97/2013).
Ulteriori dubbi desta altresì la necessità di prevedere una proposta che consideri il danno ambientale cagionato anche da altri soggetti, con sostanziale ribaltamento del diritto di rivalsa dal ministero agli stessi privati proponenti la transazione.
La procedura, peraltro, deve sempre presupporre la pendenza di un giudizio e trova applicazione solo rispetto ai siti di interesse nazionale.
Cosa succede per gli altri siti non di interesse nazionale? Può il ministero definire transazioni anche rispetto a questi siti? E come? La risposta non è scontata. La recente novella, tuttavia, offre uno spunto di riflessione in più. Il nuovo articolo 306-bis (Determinazione delle misure per il risarcimento del danno ambientale e il ripristino ambientale dei siti di interesse nazionale) è stato inserito subito dopo l’articolo 306 (Determinazione delle misure per il ripristino ambientale), il quale prevede la possibilità per il ministero di valutare l’opportunità di un accordo con l’operatore interessato attraverso accordi sostitutivi di provvedimento (articolo 11 della legge n. 241/1990).
La conseguenzialità logica delle due norme e l’assonanza dei relativi titoli potrebbe portare a ritenere che anche per i siti non di interesse nazionale sia possibile definire accordi transattivi con il ministero attraverso accordi sostitutivi di provvedimento e, quindi, attraverso una procedura più elastica, salvo voler applicare analogicamente i principi stabiliti dall’articolo 306-bis. In tal caso, però, il rischio è che tali transazioni difficilmente possano andare a buon fine, soprattutto rispetto ad operatori e situazioni minori
(articolo Il Sole 24 Ore del 21.03.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

TRIBUTI: Debiti fiscali pagati in natura. In diverse città si può ricorrere al baratto amministrativo. Dalla pulizia alla manutenzione: gli interventi sul territorio fanno risparmiare in tasse.
Comuni in ordine sparso sul baratto amministrativo. Sono in costante aumento gli enti che decidono di introdurre la possibilità per i contribuenti di saldare «in natura» i propri debiti col fisco locale. Dopo anni di federalismo fiscale impazzito e complice anche il blocco dei tributi imposto dall'ultima legge di stabilità, la fantasia dei sindaci sembra avere trovato un nuovo canale per sfogarsi. Ma non mancano i dubbi interpretativi e i rischi.
Il baratto è stato introdotto dall'art. 24 del dl 133/2014 (c.d. decreto «sblocca Italia»), rubricato «Misure di agevolazione della partecipazione delle comunità locali in materia di tutela e valorizzazione del territorio». In base a tale norma, i comuni possono definire «i criteri e le condizioni per la realizzazione di interventi su progetti presentati da cittadini singoli e associati, purché individuati in relazione al territorio da riqualificare».
Tali interventi, che possono riguardare la pulizia, la manutenzione, l'abbellimento di aree verdi, piazze o strade e in genere la valorizzazione di una limitata zona del territorio urbano o extraurbano, danno diritto a riduzioni o esenzioni relativi ai tributi inerenti al tipo di attività posta in essere. Le agevolazioni fiscali, precisa ancora la norma, possono essere concesse per un periodo limitato, per specifici tributi e per attività individuate in ragione dell'esercizio sussidiario di funzioni pubblicistiche.
Fin qui il dettato legislativo, che, come detto, i sindaci (dopo un iniziale disinteresse nei confronti dell'istituto) si stanno esercitando a riempire di contenuti.
Ad aprire la strada, come noto, è stato un piccolo comune della provincia di Novara, Invorio, che la scorsa estate ha varato un regolamento per consentire ai «compaesani» di pagare Imu, Tasi, Tari attraverso prestazioni di pubblica utilità.
Negli scorsi mesi diverse altre realtà si sono accodate, comprese alcune grandi città, come Milano, Torino, Bologna, Bergamo, Bari, Genova.
È questa, in effetti, la nuova frontiera del federalismo fiscale: uno slogan che sembra aver perso molto dell'appeal di un tempo, dopo che, colpo su colpo, è stato in buona parte smantellato l'arsenale di balzelli in precedenza a disposizione degli amministratori locali. L'ultimo tassello del vecchio mosaico federale è stato tolto dalla legge 208/2015, che ha cancellato la Tasi sulla prima casa e ha bloccato per tutto il 2016 la possibilità per i sindaci di aumentare il prelievo. Il tutto in attesa di un ennesimo restyling di cui, al momento, non si scorge neppure il profilo.
Parallelamente (e un po' in sordina), si sta sviluppando una sorta di federalismo al contrario, da un certo punto di vista più virtuoso, perché a differenza del suo «fratello maggiore» non comporta un incremento della pressione fiscale, ma punta a offrire un modo alternativo e sostenibile per pagare le tasse.
Ma l'elemento che accomuna i due federalismi sta nell'incertezza delle regole, che rischia di generare confusione, disparità di trattamento e magari anche contenziosi.
Diversi sono, infatti, gli aspetti poco chiari della disciplina sul baratto, a partire dal soggetto cui spetta definirne le modalità applicative: nella maggior parte dei casi è il consiglio comunale, ma non mancano esempi di deliberazioni di giunta.
I dubbi maggiori riguardano, però, altri aspetti più di sostanza, come l'individuazione dei potenziali beneficiari e dei tributi «barattabili», i criteri per verificare l'adeguatezza della controprestazione in natura, l'impatto dello scambio sui bilanci comunali.
Su tali aspetti, sarebbero necessari maggiori punti fermi, pur senza imbrigliare eccessivamente la normativa locale. Ma l'esperienza insegna che devolution dovrebbe significare poche regole ma certe e non totale assenza di regole.
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Comuni fai-da-te su regole e limitazioni da applicare.
Il baratto amministrativo può riguardare cittadini singoli o associati. È questa l'unica, generica indicazione fornita dall'art. 24 del dl 133. Logico, quindi, che i comuni si siano mossi sulla base di criteri diversi per individuare i potenziali beneficiari.
In generale, i regolamenti prevedono delle limitazioni in base all'Isee, escludendo tutti coloro che superano un valore minimo: ma a Invorio, quest'ultimo è fissato a 8.500 euro, a Oristano a 9.000 euro, mentre a Milano si sale a 21.000 euro. Difficile trovare la logica sottesa a tali valori.
Solo alcuni regolamenti, inoltre, prevedono il requisito della morosità incolpevole (ossia, come recita il bando milanese, una situazione di sopravvenuta impossibilità a provvedere al pagamento a ragione della perdita o consistente riduzione della capacità reddituale del nucleo familiare), mentre quasi nessuno valorizza il requisito della sussidiarietà orizzontale, mettendo sullo stesso piano le persone fisiche e, ad esempio, le associazioni no profit.
Quasi ovunque il baratto è limitato ai soli residenti, mentre solo in alcuni casi sono previsti limiti di età (a Carpi niente baratto per gli ultrasessantasettenni) e requisiti di idoneità psicofisica ovvero la fedina penale pulita (è il caso del capoluogo meneghino, che esclude tutti coloro che siano stati condannati o abbiano patteggiato per delitti contro la pa, il patrimonio, l'ordine pubblico o la libertà personale).
Imu, Tasi, Tari, ma anche i loro antenati, ossia Ici, Tarsu, Tia, Tares e chi più ne ha più ne metta nella lunga serie di acronimi che ha scandito la travagliata storia del fisco locale degli ultimi anni. Ma il baratto amministrativo può riguardare anche entrate non tributarie, come le sanzioni amministrative (ad esempio, per le violazioni al codice della strada), oppure patrimoniali (canoni e proventi per l'uso e il godimento dei beni comunali, corrispettivi, tariffe per la fornitura di beni e per la prestazione di servizi).
Anche dal punto di vista oggettivo, i comuni si sono sbizzarriti e, a seconda dei casi, hanno ampliato o ristretto l'ambito di applicazione dell'istituto, talvolta magari forzando un po' la lettera della legge che, come abbiamo visto, parla di esclusivamente di «tributi», prevedendo per di più che siano «specifici» ed «inerenti al tipo di attività posta in essere» da chi ottiene la possibilità di pagarli lavorando.
Ovviamente, non mancano le eccezioni: ad esempio, a Venaria Reale il regolamento riguarda solo la tassa rifiuti, ma in generale i comuni hanno preferito porre un limite di tipo quantitativo (e non qualitativo) stabilendo delle soglie di valore ai debiti fiscali al di sotto o al di sopra delle quali il baratto non è ammesso. Ma anche qui senza alcuna uniformità: se a Milano è previsto un minimo di 1500 euro, in generale i comuni prevedono un tetto massimo sia per il singolo contribuente che come somma massima autorizzata.
Un altro fattore di differenziazione è rappresentato dalla scelta di includere o meno nel baratto anche i debiti pregressi dei contribuenti, oltre che quelli che matureranno dopo l'introduzione dell'istituto.
Sul punto, del resto, si registrano punti di vista diversi anche all'interno delle associazioni rappresentative dei sindaci, con l'Ifel che la ammette (nota del 22.10.2015), mentre l'Anci Emilia-Romagna propende per il no alla luce del principio di indisponibilità e di irrinunciabilità al credito tributario cui soggiacciono tutte le entrate tributarie comunali (nota del 16/10/2015), con tutti i correlati rischi di danno erariale.
Maggiore uniformità si registra, invece, sull'individuazione delle prestazioni che chi aderisce al baratto può svolgere in luogo del pagamento monetario. In genere, i comuni si attengono al dettato normativo, che, come detto, menziona la manutenzione, l'abbellimento di aree verdi, piazze, strade ovvero gli interventi di decoro urbano, di recupero e riuso, con finalità di interesse generale, di aree e beni immobili inutilizzati. Di rado, però, si predilige la valorizzazione di una limitata zona del territorio urbano o extraurbano.
Molto diversi, al contrario, i parametri per quantificare il valore di tale prestazioni: a Milano, a ciascuna ora di lavoro ai fini del baratto viene riconosciuto il valore di 10 euro, a Barzana (Bg) ogni 8 ore si scalano 60 euro di debito, a Oristano bisogna lavorare 10 ore per vedersi abbuonare 70 euro.
Un buco nero, infine, le modalità di contabilizzazione del baratto nei bilanci comunali: nell'epoca dell'armonizzazione contabile, sarebbe quindi auspicabile che almeno in questo campo venissero definite regole uguali per tutti (articolo ItaliaOggi Sette del 21.03.2016).

APPALTI: Il nuovo Codice degli appalti vissuto come una sfida dai legali. Primi commenti degli avvocati esperti del settore al pacchetto varato dal governo.
Materia scivolosa quella degli appalti. Molta burocrazia, poca trasparenza e una grossa fetta di spesa pubblica in gioco. Questa l'immagine che l'argomento ha dato di sé fino all'ultimo vecchio codice degli appalti e concessioni, il «moloch» del 2006 con i suoi 1500 commi e 54 norme di modifica.
Eppure, per questo agglomerato di articoli il momento della pensione sembra essere sempre più vicino, visto il recente varo da parte del governo del decreto legislativo che riforma il codice degli appalti, recepisce le direttive europee e affida un ruolo fondamentale di vigilanza all'Anac di Raffaele Cantone
(Schema di decreto legislativo recante disposizioni per l'attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture - Atto del Governo n. 283 sottoposto a parere parlamentare).
Il recepimento delle nuove direttive europee «può costituire l'occasione per ristrutturare il sistema italiano per l'affidamento degli appalti. Tuttavia, il legislatore dovrebbe finalmente garantire agli operatori che il nuovo Codice sia –finalmente– un punto di arrivo e non un ulteriore punto di partenza, come invece è stato il Codice del 2006», commentano Nico Moravia e Marco Giustiniani dello studio legale Pavia e Ansaldo.
Secondo i due professionisti, in quest'ottica, il governo in sede di attuazione della delega avrebbe dovuto fare propria questa considerazione di base: «
affidare contratti pubblici non è un mestiere semplice. Pertanto, più semplici, snelle e trasparenti saranno le procedure, più si renderà semplice e veloce il mestiere di chi aggiudica e quello di controlla la correttezza degli affidamenti».
Il rischio, per Moravia e Giustiniani, è che il legislatore insegua il mito della procedura perfetta che possa prescindere da valutazioni soggettive sulle offerte, mentre l'esperienza insegna che tanti appalti richiedono necessariamente la valutazione di offerte tecniche e queste non possono mai essere su criteri assolutamente oggettivi.
«Il tutto sembra orientato ad intervenire in modo innovativo in un settore per troppi anni esposto alla complicazione e alla paralisi», ha commentato invece Francesco Sciaudone, managing partner di Grimaldi Studio Legale, da poco chiamato a far parte della Commissione che contribuirà alla stesura dei testi dei provvedimenti attuativi del Codice, costituita dall'Anac e presieduta da Michele Corradino. «Uno stile di recepimento copy out, un forte ricorso alla deregolamentazione e un ruolo centrale riservato all'Anac chiamata a completare e adeguare le norme di legge, con interventi di cosiddetta soft law -continua Sciaudone- sono indizi molto positivi per un deciso e convinto cambio di passo che potrebbe essere foriero di una importante spinta alla crescita economica».
Il decreto legislativo, secondo Alberto Fantini dello studio legale Tonucci e Partners è sostanzialmente in linea con il processo di riforma europeo ispirato a procedure di gara semplici, innovative con ridotti oneri documentali, più veloci, aperte a una maggiore partecipazione delle Pmi, sensibili alle istanze ambientali e sociali, tracciabili e controllabili dall'Anac.
Quindi, in generale il nuovo provvedimento, con i suoi i principi e criteri, «dovrebbe favorire anche in Italia il processo di integrazione europea, peraltro è da apprezzare quanto indicato a proposito del sistema di qualificazione gestito da Anac delle stesse stazioni appaltanti e non solo degli operatori».
Tuttavia, ad una prima valutazione, come recita la legge delega -sottolinea il professionista di Tonucci: «vi è una elencazione di criteri che appaiono nella formulazione maggiormente vincolanti rispetto all'ampia libertà di scelta lasciata dal legislatore europeo per il recepimento delle direttive, mentre altri appaiono più generici rispetto alla necessità di sostanziare alcuni principi innovativi delle direttive».
Ad esempio, riguardo al primo profilo, Fantini spiega che al contrario del legislatore europeo, che punta a valorizzare le procedure negoziate ovvero forme di consultazioni preliminari del mercato e degli operatori al fine di rendere l'approvvigionamento maggiormente aderente alle esigenze della P.a, nel provvedimento si registra una maggiore rigidità sul punto.
Mentre, riguardo al secondo aspetto, esempio di criterio generico, è quello sui partenariati pubblico-privato e sul partenariato per l'innovazione.
Come pure vi sono dei criteri direttivi in materia di rito processuale abbreviato speciale che lasciano perplessi in quanto poco coerenti con i principi di effettività e attualità della lesione costringendo gli operatori a promuovere ricorsi «al buio» aumentando piuttosto che riducendo il contenzioso», conclude Fantini.
Un altro aspetto importante introdotto dal provvedimento è, secondo Germana Cassar di Dla Piper, «l'aver affidato all'Autorità Nazionale Anticorruzione un ruolo centrale nella riforma con funzioni di controllo, monitoraggio e anche sanzionatorie nonché di adozione di atti di indirizzo quali linee guida, bandi e contratti tipo. Tale accentramento dovrebbe essere garanzia di armonizzazione e di rispetto dei principi di trasparenza e della concorrenza e pertanto costituisce un punto di forza».
Nel testo della prima legge delega la professionista di Dla Piper non ha invece riscontrato criteri o regole finalizzati a risolvere le problematiche attuali relative ai cantieri aperti o alle opere non completate ma assolutamente necessarie al paese. «Sebbene vi sia l'espressa indicazione di voler superare la legge obiettivo (legge 443/2001) con l'aggiornamento e la revisione del piano generale dei trasporti e della logistica e la riprogrammazione dell'allocazione delle risorse alle opere in base ai criteri individuati nel Documento pluriennale di pianificazione –continua Cassar- non è affatto chiaro quali saranno le priorità e quale sarà la sorte delle opere pubbliche «lasciate a metà» per mancanza di risorse.
A riguardo, occorrerà valutare in concreto se l'introduzione dell'espressa previsione di misure volte a contenere il ricorso a variazioni progettuali in corso d'opera possa portare al compimento delle opere pubbliche il cui cantiere è ancora in corso in tempi ragionevoli. Inoltre, è interessante verificare se la possibilità di affidare la continuazione delle opere anche a imprese fallite o ammesse al concordato possa rappresentare un'opportunità di risolvere la problematica delle opere incompiute
», conclude Cassar.
Sulla complessità oggettiva del sistema e sul fatto che non esistano formule semplicistiche per risolvere i vari nodi esistenti, non ha dubbi Alessandro Botto, socio di Legance Avvocati Associati. La complessità però –chiarisce l'avvocato– «non è spesso data dal numero e dalla farraginosità delle norme, ma sono queste ultime che nella stragrande maggioranza dei casi sono figlie della complessità intrinseca del settore. Ciò detto, appare comunque meritevole di condivisione l'intento di adottare un atteggiamento sostanzialistico e rivolto a risolvere in concreto i vari problemi sul tappeto»
Il decreto del governo comunque è composto da 217 articoli e sancisce la fine del Codice degli appalti del 2006 che negli anni si era andato via via ingigantendo a suon di modifiche e integrazioni. Il vecchio Codice aveva infatti 660 articoli e più di 1.500 commi. Nel corso degli anni è stato modificato da 54 norme diverse a cui vanno aggiunte 19 leggi di conversione.
Per far sì che questa sia davvero la «volta buona» della semplificazione di questa materia, in teoria, con un approccio anglosassone, secondo Botto basterebbe seguire una sola norma: «comportatevi bene», lasciando alla giurisprudenza il compiuto di individuare le best practices. Il problema è che in questa disciplina si vogliono invece inserire norme di varia natura (ad esempio anticorruzione, antimafia ecc.) e si pretende anche di dettare una disciplina molto dettagliata per paura di fenomeni collusivi; ciò inevitabilmente crea ipertrofia normativa.
Il fatto, poi, che si sposti la disciplina a valle non necessariamente semplifica il sistema (l'art. 5 della legge delega per esempio rinvia a un decreto ministeriale su proposta dell'Anac e sentite le Commissioni parlamentari). Più duttile la soft regulation dell'Autorità, ma anche qui occorre evitare una ipertrofia normativa di terzo livello, spiega l'avvocato di Legance.
Che si vada verso la semplificazione se lo augura anche Antonio Lirosi socio dello studio Gianni, Origoni, Grippo, Cappelli & Partners, sottolineando però che bisognerà aspettare la stesura definitiva del nuovo codice per valutare se sia stato o meno raggiunto l'obiettivo della semplificazione. «Il legislatore è ormai consapevole del fatto che il continuo proliferare di norme e l'eccessivo numero delle stesse comporta l'insorgere di interpretazione contrastanti che si riflettono in termini di criticità sulle procedure di gara, con tutto quel che ne consegue anche sotto il profilo dei fenomeni corruttivi», ha spiegato Lirosi.
Pur apprezzando la buona volontà del legislatore, meno ottimista si mostra Elena Giuffrè di Ashurst, secondo la quale il reale contenimento delle disposizioni del nuovo Codice è certamente di non facile attuazione. «Innanzitutto in quanto il nuovo testo dovrà recepire ben tre direttive, oltre ad includere le procedure per i contratti di importo cosiddetti «sotto soglia», anche se l'inclusione di tali ultimi contratti ha sollevato qualche dubbio di violazione del divieto di gold plating, in quanto andrebbe oltre il livello di regolazione definito a livello comunitario. In aggiunta, si consideri che la riduzione delle disposizioni, se da un lato semplifica il lavoro degli operatori, dall'altro lato, potrebbe prestare il fianco ad eccessivi margini di interpretazione delle norme con conseguente apertura di contenziosi», ha aggiunto la professionista.
Con il nuovo testo arriva anche l'espresso divieto di affidamento di contratti attraverso procedure derogatorie rispetto a quelle ordinarie, a eccezione di singole fattispecie connesse a urgenze di protezione civile determinate da calamità naturali, per le quali devono essere previsti adeguati meccanismi di controllo e di pubblicità successiva.
Sullo stop alle deroghe, Giuffrè si augura che venga lasciato comunque in piedi, come del resto consentito dalle nuove direttive comunitarie, lo spazio per i casi limitati di affidamento tramite procedura negoziata senza pubblicazione del bando, pur con la massima trasparenza e con i più opportuni controlli, onde evitare il rischio di abusi. Ciò in quanto –ha spiegato l'avvocato di Ashurst– «ci sono indubbiamente casi, al di là delle situazioni emergenziali considerate dalla legge delega, in cui l'espletamento di una gara aperta rallenta i tempi, creando reali difficoltà operative alla stazione appaltante. I principi di concorrenza e trasparenza, del resto, nei limiti consentiti dalle direttive, devono anche tener conto delle esigenze di efficienza della gestione pubblica. Spesso le deroghe alle procedure aperte e ristrette vengono adottate dalle stazioni appaltanti anche perché le lungaggini delle procedure di gara rischiano di vanificare o pregiudicare gli obiettivi del progetto. Anche per tale motivo, sicuramente ci auspichiamo un reale snellimento e una maggiore rapidità nella conclusione delle procedure di gara», ha concluso Giuffrè.
La gara dovrebbe garantire il miglior risultato nella scelta del contraente, spiega invece Luca Raffaello Perfetti - socio fresco di nomina di BonelliErede e responsabile del dipartimento di diritto amministrativo dello studio – aggiungendo che in Italia «dopo anni di fuga dalla gara, si è passati all'estremo opposto». Più che escludere affidamenti diretti, secondo lui occorrerebbe articolare meglio le procedure: «per essere più aderenti alla realtà infatti, in alcuni casi, la gara appare lo strumento meno adatto per ottenere il risultato migliore. In Italia la diffusa illegalità spinge ad affermare regole restrittive, come quella della gara in ogni caso, che poi portano ad aggiramenti. Meglio sarebbe dotarsi di strumenti adatti caso per caso e far valere le responsabilità di chi li usi in modo scorretto», conclude Perfetti.
La riduzione e la più specifica individuazione dei casi in cui è consentito derogare alle modalità ordinarie di affidamento per Mauro Pisapia, socio di Lombardi Molinari Segni «mira a restringere l'ampia discrezionalità usata –e in alcuni casi forse abusata– dalle stazioni appaltanti in tema di procedure selettive. Il legislatore mira così ad arginare il fenomeno, avente una certa diffusione, dell'elusione dell'obbligo dell'evidenza pubblica, dietro il quale spesso si celano condotte di dubbia liceità da parte dei soggetti, pubblici e privati, coinvolti. Anche in quest'ottica credo vada letto il potenziamento della funzione di vigilanza attribuita ad Anac».
Mentre sul fatto che venga reintrodotto il controllo preventivo della Corte dei conti -come previsto dalla legge delega approvata alla Camera prima del decreto del Governo- mediante una sua apposita sezione per gli appalti secretati (carceri, caserme e altri impianti militari e, in alcuni casi, giudiziari), Pisapia ha commentato: «la scelta appare effettivamente poco coerente rispetto al complesso della legge delega, che riconosce in via generalizzata ad Anac il potere di vigilanza sugli appalti pubblici. Nondimeno, dalla lettura della norma di riferimento (art. 1, comma 1, lett. m) emerge che l'attribuzione alla Corte dei Conti del controllo preventivo sugli appalti segretati risponde alla necessità di tutelare le specifiche esigenze di riservatezza che caratterizzano tale categoria di contratti. Si tratta di una valutazione discrezionale del legislatore che, verosimilmente, ha ritenuto preferibile affidare tale delicata funzione alla magistratura contabile» (articolo ItaliaOggi Sette del 21.03.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATAEsame del rischio di incendi per gli edifici sotto tutela.
Valutazione preliminare del rischio di incendio (per gli occupanti e per i beni tutelati) per gli edifici sottoposti a tutela. Sulla base della valutazione è necessaria una strategia composta di soluzioni tecniche affinché sia assicurato un grado di sicurezza antincendio equivalente a quello della regola tecnica alla quale si intende derogare.

È con la lettera-circolare 15.03.2016 n. 3181 di prot. del dipartimento dei vigili del fuoco del ministero dell'interno avente ad oggetto «linea guida per la valutazione, in deroga, dei progetti di edifici sottoposti a tutela ai sensi del dlgs 22.01.2004, n. 42, aperti al pubblico, destinati a contenere attività dell'allegato 1 al dpr 01.08.2011 n. 151».
Negli edifici sottoposti a tutela, in relazione alle destinazioni d'uso, dovranno osservarsi le regole tecniche di prevenzione incendi, ovvero per le attività non normate, si dovrà ricorrere ai criteri generali di prevenzione e incendio. Oltre alla sicurezza antincendio, vanno tenute in conto diverse problematiche quali la conservazione, la tutela, il restauro e anche gli aspetti di ordine strutturale, di uso e di anticrimine.
Diventa fondamentale garantire che l'obiettivo della «salvaguardia della vita umana» sia integrato con quello della «salvaguardia del patrimonio culturale». Il vincolo imposto all'immobile da tutelare comporta l'imprescindibile dovere di conservazione e l'obbligo di autorizzazione preventiva, da parte della sovraintendenza per ogni intervento sul manufatto, limitatamente agli aspetti che si riferiscono alle prescrizioni contenute nella dichiarazione di interesse culturale della stessa. Il vincolo può essere posto sull'immobile nella completezza, in una sua parte, sul suo contenuto ma anche nel suo aspetto esteriore.
Rientrano in questa fattispecie, il cosiddetto vincolo indiretto e quello pertinenziale, che rispondono alla necessità di evitare che sia messa in pericolo l'integrità dei beni immobili culturali (articolo ItaliaOggi del 19.03.2016).

PUBBLICO IMPIEGOP.a., arrivano le buste arancioni. L'Inps calcola la pensione. E invita ad aderire a Spid. L'annuncio ieri alla firma dell'accordo con Agid. Boeri: puntiamo a coinvolgere i giovani.
A un milione e mezzo di dipendenti pubblici simulazione della pensione in busta paga. Mentre a quelli privati arriverà, con lo stesso obiettivo, la busta arancione dell'Inps. In totale saranno sette milioni gli italiani interessati dall'operazione, gran parte dai primi di aprile.

Lo ha detto il presidente dell'Inps, Tito Boeri, spiegando che il cittadino troverà un fascicolo di quattro pagine con alcune informazioni utili, dalla data di pensionamento alla previsione dell'assegno mensile.
L'avvio dell'operazione da 150 mila lettere al giorno è stato annunciato ieri in occasione della firma dell'accordo siglato tra Inps e Agid, l'Agenzia per l'Italia digitale che dipende da Palazzo Chigi, relativo all'iniziativa «Cittadino digitale», pensata per avvicinare gli utenti ai servizi online della pubblica amministrazione.
La finalità della busta arancione è quella di riuscire a raggiungere diverse fasce di popolazione: secondo i dati Istat, infatti, nel 2015, soltanto il 60% degli italiani si è connesso a Internet e appena il 30% degli utenti ha utilizzato la rete per interagire con la pubblica amministrazione.
Sono proprio le persone che attualmente non sono digitalizzate a necessitare maggiormente di informazioni sul loro futuro previdenziale e di una maggiore consapevolezza finanziaria nonché di informazioni sui vantaggi derivanti dall'utilizzo dei servizi online.
Spid. Per dare una sterzata ai rapporti con i cittadini, la pubblica amministrazione punta sulle nuove opportunità offerte da Spid, il Pin unico per interagire con la pubblica amministrazione.
Lo Spid (Sistema pubblico per la gestione dell'identità digitale) rimpiazza migliaia di codici esistenti, per entrare via web da subito nei servizi pubblici ma anche, in prospettiva, in quelli privati (bancari, assicurativi ed e-commerce). L'accesso potrà avvenire con pc, smartphone o tablet. Le credenziali di Spid saranno rilasciate attraverso posta, mail o sms: chi ha già una password rilasciata da una p.a. (come il pin dell'Inps) potrà accelerare l'iter.
Accanto al prospetto con l'estratto conto contributivo e la simulazione di base, Inps inviterà gli utenti a richiedere Spid per accedere a tutte le funzionalità offerte dal servizio. Come ha spiegato Boeri attualmente sono 18,5 milioni i cittadini che possiedono un pin Inps, di cui 13 milioni sono lavoratori attivi. Il progetto punta soprattutto ai giovani che, secondo Boeri, «non si pongono il problema della loro pensione futura».
Infatti dei 12 milioni di persone senza pin il 42% è costituito da under 40. «Si tratta di un progetto che parte dal lontano», ha commentato il direttore generale di Agid, Antonio Samaritani, «l'Inps è stato tra i primi soggetti sperimentati da Spid. Sul fronte della digitalizzazione l'Italia è ancora indietro: siamo al 63% contro una media Ue del 76%. Il problema è legato anche alla scarsa usabilità dei servizi online» (articolo ItaliaOggi del 18.03.2016).

APPALTICodice appalti, cambi in corsa. Modifiche su débat public e criteri di aggiudicazione. l'orientamento emerso nelle commissioni parlamentari che stanno esaminando il dlgs.
Modifiche in vista, concordate fra parlamento e ministero delle infrastrutture, per il nuovo codice appalti su subappalto, débat public, progettazione, qualificazione, criteri di aggiudicazione e disciplina transitoria.

È quanto inizia a emergere dal lavoro sullo schema di decreto che conterrà il nuovo codice dei contratti pubblici, approvato il 3 marzo dal consiglio dei ministri, che stanno conducendo le commissioni parlamentari di camera e senato che si esprimeranno con un parere unificato (attesi anche quelli del Consiglio di stato e della Conferenza unificata) da rendere in tempi brevi per rispettare il termine del 18 aprile (Schema di decreto legislativo recante disposizioni per l'attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture - Atto del Governo n. 283 sottoposto a parere parlamentare).
Dopo l'avvio dei lavori in commissione, con le relazioni introduttive di Raffaella Mariani (commissione ambiente della camera), che ha messo in guardia sugli effetti derivanti dai molteplici rinvii sulla disciplina transitoria, e di Stefano Esposito (commissione lavori pubblici del senato), si è iniziato ad entrare nel merito delle questioni con gli interventi dei parlamentari, presente il viceministro Riccardo Nencini.
In particolare ieri, con l'audizione di Raffaele Cantone, presidente dell'Autorità nazionale anticorruzione, è stato posto subito l'accento sul problema antimafia e subappalto: «Nel codice degli appalti
», ha detto Cantone, «non c'è alcun riferimento alla disciplina antimafia e credo che non sarebbe male richiamarne i riferimenti». Per il presidente dell'Anac «in tempi brevi è stato fatto un lavoro egregio ma c'è qualche problema, come, per esempio, la tecnica del rinvio; capisco le ragioni ma si rischia di creare qualche confusione, e qualche confusione nel codice c'è, per esempio sul subappalto».
E anche negli interventi dei relatori il subappalto è subito emerso come uno dei nodi da sciogliere, soprattutto perché sono saltati i limiti oggi vigenti. Il viceministro Riccardo Nencini, intervenuto il 15 marzo in senato, aveva confermato la massima disponibilità del governo a lavorare di concerto con la commissione «senza alterare l'impianto complessivo del provvedimento e, soprattutto, garantendo il rispetto dei tempi, al fine di consentire l'adozione del decreto entro la scadenza perentoria del 18 aprile».
E le principali materie oggetto di modifiche ormai iniziano a essere chiare: dai contratti sotto soglia, ai livelli della progettazione, al prezzo più basso che molti vorrebbero rivedere per gli appalti di lavori fra un milione e la soglia Ue.
Del tutto allineato il ministero delle infrastrutture sul débat public di cui condivide le posizioni del relatore Esposito che ha parlato di «meccanismo lacunoso e inadeguato che lascia anche eccessiva discrezionalità alle singole amministrazioni pubbliche» e che «andrebbe integrato con disposizioni specifiche, in attesa di una riforma più organica» (articolo ItaliaOggi del 18.03.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

LAVORI PUBBLICIOpere incompiute dentro i piani triennali delle p.a.. Obbligo di ricognizione per programmare gli investimenti.
Opere incompiute da aggiornare entro il 31 marzo 2016; a fine giugno la pubblicazione dell'elenco aggiornato; nel nuovo Codice appalti previsto l'obbligo di inserimento delle opere pubbliche incompiute nella programmazione triennale al fine di completarle o di individuare soluzioni alternative, fra cui la cessione a titolo di corrispettivo per la realizzazione di altra opera pubblica, la vendita o la demolizione.

La richiesta di aggiornare il censimento delle opere proviene dalla direzione generale per la regolazione e i contratti pubblici del ministero delle infrastrutture che nei giorni scorsi scritto ha chiesto a ministeri, regioni, province autonome, ma anche all'Anci, all'Upi e agli altri enti pubblici nazionali, regionali e locali, di aggiornare in maniera completa ed esaustiva gli elenchi anagrafici delle opere incompiute. Tutto ciò dovrà avvenire entro il 31.03.2016.
Sulla base dei dati ricevuti, si legge nella nota trasmessa dal ministero, il dicastero di Porta Pia, unitamente alle regioni e alle province autonome, ciascuno per le sezioni di rispettiva competenza, pubblicheranno entro il 30.06.2016 le graduatorie delle opere pubbliche incompiute aggiornate al 31.12.2015, secondo i criteri imposti dalla legge che nel 2013 ha istituito il Simoi, il sistema informativo di monitoraggio delle opere incompiute accessibile dal sito del Servizio contratti pubblici (consultabile al sito www.serviziocontrattipubblici.it).
Lo scopo del Simoi è stato quello di creare a livello informativo e statistico, una banca-dati costituita da appositi elenchi-anagrafe delle opere incompiute di competenza delle amministrazioni statali, regionali e locali.
In questi anni è aumentato il numero delle stazioni appaltanti iscritte al Simoi e, conseguentemente, delle opere pubbliche incompiute inserite nella banca dati: si è passati dalle 571 opere incompiute registrate nel 2013, a 689 opere monitorate nel 2014 e a 868 opere nel 2015.
Il tema delle opere incompiute viene peraltro trattato anche nel nuovo Codice degli appalti (approvato in via preliminare dal consiglio dei ministri del 3 marzo) dove si stabilisce che le opere pubbliche incompiute siano inserite nella programmazione triennale dei lavori pubblici, ai fini del loro completamento o per l'individuazione di soluzioni alternative quali il riutilizzo, anche dimensionato, la cessione a titolo di corrispettivo per la realizzazione di altra opera pubblica, la vendita o la demolizione.
In sostanza si profila l'obbligatorietà per ogni amministrazione pubblica della ricognizione delle opere incompiute in occasione di predisposizione dei piani triennali degli investimenti.
Inoltre, sempre nello schema di decreto che adesso è all'attenzione delle camere e del Consiglio di stato, si stabilisce che con decreto del ministro delle infrastrutture e dei trasporti, di concerto con il ministro dell'economia e delle finanze, da adottare entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore del decreto, previo parere del Cipe e sentita la Conferenza unificata, dovranno essere definiti anche i «criteri e le modalità per favorire il completamento delle opere incompiute» (articolo ItaliaOggi del 18.03.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI - TRIBUTI: Comuni, baratto in bilancio. Le transazioni non monetarie vanno contabilizzate. La nuova contabilità non disciplina il pagamento dei tributi con prestazioni in natura.
Il baratto amministrativo deve essere adeguatamente rappresentato nei bilanci dei comuni.

Lo prevede il dlgs 118/2011, che impone di dare evidenza anche alle transazioni non monetarie. Tuttavia, il nuovo ordinamento contabile non disciplina puntualmente le modalità di registrazione e imputazione dell'operazione.
Come noto, il baratto amministrativo, introdotto dall'art. 24 del dl 133/2014, consente ai comuni di concedere sconti ai contribuenti in cambio di prestazioni in natura.
In pratica, è possibile pagare (in tutto o in parte) tributi, tariffe e sanzioni svolgendo attività di pulizia, manutenzione, abbellimento di aree verdi, piazze o strade e in genere di valorizzazione del territorio.
Anche se il numero di amministrazioni che decidono di introdurre tale istituto è in continua crescita, la sua estensione e le relative modalità applicative sono ancora incerte, così come il suo impatto sulle scritture contabili comunali.
Si tratta di una lacuna grave, dato che, nell'era dell'armonizzazione dei bilanci, non è ammissibile che vi siano prassi diverse da ente a ente.
In attesa degli opportuni chiarimenti da parte della Commissione Arconet, è opportuno innanzitutto ricordare che il dlgs 118/2011 impone di rilevare anche le transazioni da cui non derivano flussi di cassa, al fine di attuare pienamente il contenuto autorizzatorio degli stanziamenti di previsione.
In base al punto 1 del principio contabile applicato sulla contabilità finanziaria (allegato 4/2 del dlgs 118), la registrazione delle transazioni non monetarie è effettuata attraverso le regolarizzazioni contabili, costituite da impegni cui corrispondono accertamenti di pari importo e da mandati versati in quietanza di entrata.
Ciò premesso, per quanto concerne nello specifico il baratto amministrativo, occorre ancora distinguere a seconda che esso riguardi debiti già scaduti ovvero debiti futuri non ancora maturati.
Per la verità, la possibilità di barattare debiti pregressi non è pacifica, almeno per quelli di natura tributaria. L'Ifel che la ammette (nota del 22.10.2015), mentre l'Anci Emilia-Romagna propende per il no alla luce del principio di indisponibilità e di irrinunciabilità al credito tributario cui soggiacciono tutte le entrate tributarie comunali (nota del 16/10/2015).
Laddove si proceda comunque in tal senso, non pare corretto cancellare solo il residuo attivo. Si ritiene, infatti, che si debba prevedere fra le spese correnti uno stanziamento per la prestazione in natura che sarà svolta dal debitore e chiudere la transazione non monetaria con un mandato versato in quietanza di entrata sul residuo da incassare.
Laddove il residuo attivo fosse stato cancellato in quanto ritenuto ormai inesigibile, è necessario procedere ad una rettifica in aumento dei residui attivi, e non all'accertamento di nuovi crediti di competenza dell'esercizio (punto 9.1 del principio contabile). Inoltre, per evitare rischi di danno erariale, occorre quantificare in modo trasparente e motivato il valore della prestazione sostitutiva del pagamento.
Nel secondo caso (debito non ancora maturato), si suggerisce di accertare normalmente l'entrata secondo le modalità indicate dai principi contabili e di procedere al contestuale impegno della spesa, da regolarizzare, successivamente al ricevimento della prestazione, con un mandato versato in quietanza in entrata a chiusura dell'accertamento.
Ovviamente, in entrambi i casi, la spesa impatterà sugli equilibri, a meno che si tratti di un'uscita che comunque sarebbe stata prevista (articolo ItaliaOggi del 18.03.2016).

LAVORI PUBBLICIRipartono le opere pubbliche. Il pareggio di bilancio può ridare slancio agli investimenti. Ma per gli enti locali restano in vigore il monitoraggio del Patto 2015 e le sanzioni.
Il pareggio di bilancio, seppure in forma «temperata», andrà a sostituire il controverso patto di stabilità: è questa una delle novità previste dalla legge di stabilità 2016.
Introdotto dalla Ue nel 2012, a garanzia di una più rigorosa politica di bilancio da parte dei paesi membri, il principio del pareggio è stato recepito dall'Italia attraverso la legge costituzionale del 20.04.2012 e la legge del 24.12.2012 n. 243, che ne ha deliberato criteri tecnici e modalità di calcolo.
Rispetto agli originari parametri previsti da quest'ultima, pareggio di competenza e di cassa, la legge di stabilità 2016 prevede il pareggio per la sola competenza.
L'utilizzo del pareggio di bilancio a fronte del patto di stabilità è di certo una buona notizia per tutti quegli enti che disponevano di risorse finanziarie bloccate dai vincoli di spesa della finanza pubblica: si apre così uno spiraglio per l'avvio di opere pubbliche e servizi a favore dell'utenza e dell'economia locale.
Tuttavia, relativamente al secondo semestre 2015, resta in vigore l'obbligo di monitoraggio del patto di stabilità e l'obbligo della certificazione finale entro il 31.03.2016. Inoltre continueranno ad applicarsi le sanzioni per gli enti inadempienti negli anni precedenti, nonché la compensazione delle quote cedute o acquisite nell'ambito del patto regionale o nazionale orizzontale. Le voci per la determinazione del saldo, in termini di competenza, sono le entrate finali dei primi cinque titoli e le spese finali dei primi tre, il cui saldo per essere in regola deve essere maggiore o uguale a zero.
La legge di stabilità introduce ulteriori novità per il solo 2016: l'istituzione di alcune voci migliorative delle entrate, quali il Fondo pluriennale vincolato di parte corrente e quello di parte capitale al netto delle quote finanziate da debito, e una voce peggiorativa relativa al contributo ex art. 1, comma 20 (Imu-Tasi).
Anche nelle uscite il legislatore ha previsto delle voci migliorative per il solo 2016, quali le spese di bonifica ambientale (c. 716) e le spese «Sisma 2012» (solo per enti locali di Emilia Romagna, Lombardia e Veneto) entrambe sia di parte corrente che in conto capitale; le spese per l'edilizia scolastica in conto capitale (c. 713) e le spese per la realizzazione del Museo nazionale della Shoah per Roma.
Altre poste nella sezione relativa alle spese, non solo per il 2016, sono il fondo crediti di dubbia esigibilità, sia di parte corrente che in conto capitale calcolato sul bilancio di previsione 2016 e gli accantonamenti destinati a confluire nel risultato d'amministrazione, quali il fondo contenzioso e gli «altri accantonamenti».
Infine occorrerà sommare o sottrarre gli eventuali spazi finanziari ceduti o acquisiti tramite stato o regione.
Anche il sistema sanzionatorio è stato oggetto di revisione, tra le novità, il comma 721 prevede che se entro 30 giorni dal termine stabilito per l'approvazione del rendiconto di gestione l'ente non provveda alla trasmissione della certificazione del pareggio di bilancio (positivo o negativo) il presidente dell'organo dei revisori diventerà automaticamente commissario ad acta e dovrà provvedere, pena la decadenza, a trasmettere la predetta certificazione entro i successivi 30 giorni. In ogni caso il ritardato inoltro bloccherà qualsiasi trasferimento da parte del ministero degli interni fino all'effettivo invio.
La trasmissione oltre i 60 giorni, anche in caso di conseguimento del saldo, comporterà la sospensione di tali erogazioni. Il mancato rispetto del pareggio di bilancio prevede: la riduzione del fondo di solidarietà comunale in misura pari all'importo corrispondente allo scostamento registrato; l'impossibilità d'impegnare spese correnti in misura superiore all'importo dei corrispondenti assunti nell'anno precedente a quello di riferimento; l'impossibilità di ricorrere all'indebitamento per gli investimenti; l'impossibilità di procedere a qualsiasi tipo d'assunzione di nuovo personale; la riduzione del 30% delle indennità di funzione e dei gettoni di presenza degli amministratori comunali.
Nel caso in cui la Corte dei conti accerti che il rispetto dei vincoli di pareggio sia stato raggiunto artificiosamente, il responsabile amministrativo incorrerà in una sanzione fino a tre mesi di retribuzione, mentre per gli amministratori fino a dieci volte l'indennità di carica (articolo ItaliaOggi del 18.03.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTICommissioni di gara, cambiano le nomine. CODICE APPALTI 1/ Nuovi criteri nel dlgs.
Nuove modalità di nomina delle commissioni di aggiudicazione, nel codice degli appalti, approvato in Consiglio dei ministri il 03.03.2016, presentato in parlamento, il 5 marzo, in attuazione delle direttive Ue del 2014, nn. 23, 24 e 25 (Schema di decreto legislativo recante disposizioni per l'attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture - Atto del Governo n. 283 sottoposto a parere parlamentare)
Tra le novità, l'art. 77, introduce criteri e procedure nuove, per la nomina delle commissioni di gara, per contratti di appalti e concessioni, limitatamente ai casi di aggiudicazione con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, sulla base del miglior rapporto qualità/prezzo. Il primo requisito richiesto, ai componenti delle commissioni chiamati a valutare le offerte dal punto di vista tecnico ed economico, è la specifica esperienza nel settore cui afferisce l'oggetto del contratto.
La commissione, dispone l'art. 77, è costituita da un numero dispari di commissari, non superiore a cinque, individuato dalla stazione appaltante e, importante novità, può lavorare a distanza, con procedure telematiche che salvaguardino la riservatezza delle comunicazioni. Si prevede, inoltre, l'istituzione, presso l'Anac, di un apposito albo, in cui saranno iscritti gli esperti, da individuare quali commissari da parte delle stazioni appaltanti.
L'iscrizione all'albo comporterà il pagamento di una tariffa e saranno previsti, con apposito decreto, i compensi massimi erogabili. Il metodo di individuazione dei commissari sarà il pubblico sorteggio, da una lista di candidati costituita da un numero di nominativi almeno doppio rispetto a quello dei componenti da nominare. Sono previste eccezioni, nel caso di affidamento di contratti di importo inferiore alle soglie di rilievo comunitario e nel caso di affidamenti che «non presentano particolare complessità»: in tali casi la stazione appaltante può nominare componenti interni.
Il codice ha tipizzato, inoltre, un caso in cui le procedure sono considerate di non particolare complessità, individuandole in quelle svolte attraverso piattaforme telematiche di negoziazione, come dallo stesso decreto disciplinate dall'art. 58. Sono previste, infine, una serie di incompatibilità: i commissari non possono svolgere, né devono aver svolto altre funzioni in relazione al contratto del cui affidamento si tratta; non possono essere nominati tra coloro i quali, nel biennio precedente, presso l'Amministrazione affidataria, abbiano ricoperto cariche di pubblico amministratore.
Si applicano, inoltre, a tutti i componenti, compresi i segretari, l'articolo 35-bis del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 e le cause di astensione previste dall'articolo 51 del codice di procedura civile (articolo ItaliaOggi del 18.03.2016).

APPALTIAffidamenti diretti sotto i 40 mila euro. CODICE APPALTI 2/ Per lavori e forniture.
Il nuovo codice degli appalti riforma, tra i vari interventi, le acquisizioni di lavori, servizi e forniture in economia. Nel dlgs n. 163/2006, come è noto, è l'art. 125 a disciplinare la materia, distinguendo, altresì, sulla base degli importi economici, i procedimenti per amministrazione diretta e quelli per cottimo fiduciario.
Tutto questo nel nuovo codice, all'esame parlamentare, non è più previsto (Schema di decreto legislativo recante disposizioni per l'attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture - Atto del Governo n. 283 sottoposto a parere parlamentare).
Si introduce, invero, per i soli lavori nel settore dei beni culturali, la previsione dell'affidamento in economia all'art. 148, comma 7, limitatamente alle ipotesi di somma urgenza, laddove ogni ritardo sia pregiudizievole alla pubblica incolumità o alla tutela del bene, fino all'importo di 300 mila euro, tanto in amministrazione diretta, che per cottimo fiduciario.
Altra eccezione, sempre prevista dal medesimo comma, per gli stessi limiti di importo, riguarda particolari tipi di intervento individuati con i decreti di cui all'articolo 146, comma 4. A un'attenta lettura, peraltro, l'affidamento diretto per lavori, servizi e forniture, è dettagliatamente disciplinato dall'art. 36 del nuovo codice. Si prevede infatti che l'affidamento e l'esecuzione di lavori, servizi e forniture di importo inferiore alle soglie comunitarie, avvengano nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità.
Si fa salvo, inoltre, il principio di rotazione e la necessità di assicurare l'effettiva possibilità di partecipazione delle micro, piccole e medie imprese. Per affidamenti di importo inferiore a 40.000 euro, si procede mediante affidamento diretto, adeguatamente motivato o per i lavori in amministrazione diretta.
Per affidamenti di importo superiore a 40.000 e fino alle soglie di rilievo comunitario (per servizi e forniture) ovvero fino a 150.000 euro per lavori, si ritorna alla procedura negoziata, sostanzialmente riprendendo i criteri previsti dall'art. 125 del vigente codice, laddove l'art. 36 prevede la previa consultazione di almeno tre operatori, individuati sulla base di indagini di mercato o tramite elenchi di operatori economici, nel rispetto di un criterio di rotazione degli inviti. L'abolizione, pertanto, è soltanto apparente (articolo ItaliaOggi del 18.03.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

GIURISPRUDENZA

ATTI AMMINISTRATIVI: Rinuncia al ricorso con la procura speciale. Sezioni unite. Il passo indietro totale o parziale rispetto all’impugnazione, anche se proposta dal difensore, resta una scelta dell’imputato
Senza procura speciale il difensore non può rinunciare, totalmente o parzialmente all’impugnazione, anche se da lui proposta. Può farlo solo se il suo assistito è presente alla dichiarazione in udienza e non si oppone.

Le Sezioni unite penali della Corte di Cassazione (sentenza 25.03.2016 n. 12603) chiariscono i dubbi sorti nella giurisprudenza di legittimità sulla possibilità di fare un passo indietro da parte del difensore non munito di una procura “ampia”.
Per il Supremo collegio l’impugnazione continua a essere una “scelta” dell’imputato, il che giustifica che questo resti l’unico soggetto a poter togliere effetto all’impugnazione proposta dal suo legale, nei modi previsti per la rinuncia, e non viceversa. Il semaforo rosso scatta per il difensore che non ha una procura speciale sia nel caso di rinuncia totale sia parziale.
Se la rinuncia è un atto dispositivo del rapporto processuale non riconducibile al semplice esercizio della difesa tecnica, la stessa natura va riconosciuta alla rinuncia parziale. Anche in quest’ultima ipotesi si abdica, infatti, alla possibilità, già esercitata per conto dell’imputato, di ottenere la riforma o la caducazione di un capo o di un punto del provvedimento impugnato, seppure con effetti più limitati rispetto alla totale.
Diversa è invece l’ipotesi di una rinuncia a una o più argomentazioni o motivazioni su cui si fondano le diverse parti di impugnazione relative a diversi capi impugnati: in tal caso si può parlare di rinuncia a uno o più motivi, facendola rientrare tra gli atti di difesa squisitamente tecnici.
Allo stesso modo non può essere considerato una vera e propria rinuncia, neppure parziale, il mancato svolgimento orale delle ragioni già esposte nei motivi di impugnazione. Infine è rimessa alla autonoma valutazione del difensore, senza necessità di procura speciale, la prospettazione, argomentata e provata, delle ragioni di una sopravvenuta carenza di interesse della parte a coltivare l’impugnazione. Il giudice rileva allora d’ufficio l’inammissibilità dell’impugnazione per carenza d’interesse che, se sopravvenuta, evita la pronuncia di condanna alle spese e alla sanzione pecuniaria
(articolo Il Sole 24 Ore del 26.03.2016).

AMBIENTE-ECOLOGIAE' illegittimità l'ordinanza sindacale di  rimozione dei materiali e dei rifiuti abbandonati in un'area di proprietà del ricorrente laddove risulta che la stessa si rivela connotata da difetto di istruttoria per non avere l’Amministrazione comunale verificato se realmente la situazione fosse -o meno- interamente addebitabile alla società destinataria dell'ordinanza de qua.
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... per l’annullamento, previa sospensione dell’efficacia esecutiva:
- dell’ordinanza del 22.07.2015 prot. n. 2461 a firma del Sindaco del Comune di Trieste, adottata ai sensi e per gli effetti dell’articolo 192 D.Lgs. del 03.04.2006, n. 152, nei confronti della società ricorrente, avente a oggetto l’eliminazione di un abbandono di materiali e rifiuti sulle pp.cc.nn. 5779/36, 5779/48, 5779/53 del C.C. di Santa Maria Maddalena Inferiore in Trieste;
- di ogni altro atto connesso, presupposto o consequenziale, ivi compreso l’eventuale verbale di sopralluogo, effettuato dal Comune di Trieste in data 10.04.2013.
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Viene sottoposta al vaglio di questo Tribunale amministrativo l’ordinanza ex articolo 192 D.Lgs. n. 152/2006, con la quale il Comune di Trieste ha intimato alla società Ar.En. S.p.A. la rimozione dei materiali e dei rifiuti abbandonati in un’area di proprietà dell’Ente, ma già nella disponibilità dell’impresa destinataria del provvedimento medesimo.
L’ordinanza in esame assume quale proprio presupposto essenziale che dell’abbandono in questione sia responsabile la società Ar.En. S.p.A., in quanto l’evento si sarebbe verificato nel periodo in cui l’area era nella custodia dell’impresa medesima.
Tale presupposto è contestato da parte ricorrente.
In effetti, come si è dato conto nella parte in fatto, il Comune –con una condotta non certo conforme ai canoni di diligenza cui deve essere improntata la tutela dei diritti dominicali– ha accettato la restituzione dell’area senza aver effettuato precedentemente una ricognizione in contraddittorio dello stato dell’immobile.
Né al riguardo rileva che –come documentato in atti– controparte si sia sottratta al confronto, ben apprestando l’ordinamento rimedi per tale eventualità.
Lo stesso, non giustificato, ritardo (quattordici mesi dalla restituzione dell’area) per l’avvio del procedimento ex articolo 192 D.Lgs. n. 152/2006, è suscettibile di recidere qualsivoglia collegamento tra la situazione preesistente, quando cioè l’area era nella disponibilità della società odierna ricorrente, e quella successiva nella quale si è constata la presenza dei materiali e dei rifiuti si cui si è ordinata la rimozione.
Nondimeno, considerato che agli atti vi sono riprese fotografiche dell’area per cui è causa, effettuate in epoca antecedente alla restituzione della medesima, questo Tribunale disponeva una verificazione volta ad appurare, ove possibile, la corrispondenza di quella situazione fattuale a quella attuale.
Gli esiti della verificazione in relazione alle tredici zone di deposito di materiali e rifiuti in cui è stata suddivisa l’area esterna e per i vari piani del fabbricato ivi insistente possono così essere sintetizzati:
- per due zone (segnatamente, la 5 e la 6 nella numerazione utilizzata nella relazione del verificatore) non è possibile fare alcun confronto in assenza di documentazione descrittiva della situazione pregressa;
- per cinque zone (segnatamente, la 1, la 2, la 3, la 7 e la 8) e per i piani interrato e primo la situazione è solo parzialmente coincidente, essendo stati rinvenuti rifiuti in misura maggiore e/o di natura diversa di quanto rilevato in precedenza;
- per sei aree (segnatamente, la 4, la 9, la 10, la 11, la 12 e la 13) e per il piano secondo la situazione è sostanzialmente immutata;
- il piano terzo è sgombro di rifiuti e materiali abbandonati.
Il verificatore, peraltro, ha avuto cura di precisare che il confronto è stato necessariamente superficiale in assenza di una identificazione precisa, nella documentazione in atti, di materiali e volumetrie esistenti antecedentemente alla riconsegna del bene al Comune.
Alla luce delle suesposte risultanze, si rivela fondato il primo motivo di impugnazione con il quale parte ricorrente ha stigmatizzato il difetto di istruttoria, per non avere l’Amministrazione comunale verificato se realmente la situazione fosse o meno interamente addebitabile alla società Ar.En. S.p.A..
In effetti, un più accurato approfondimento della situazione giuridico-fattuale avrebbe consentito di apprezzare l’esistenza all’interno dell’area in questione di zone per le quali la rimozione di quanto ivi accatastato non può essere posta a carico degli odierni ricorrenti non essendovi allo stato prova che tale situazione risalga al momento nel quale il bene era nella disponibilità della società Ar.En. S.p.A..
Così come avrebbe consentito di apprezzare la presenza in altre zone dell’area de qua di materiali ulteriori e/o diversi, abbandonati in epoca più recente, verosimilmente gettati dalla strada o introdotti dalle aperture nelle recinzioni, come ipotizzato dallo stesso verificatore. Sicché, sulla scorta degli elementi probatori sin qui disponibili, nemmeno della rimozione di tali ulteriori e/o diversi materiali possono essere onerati gli odierni ricorrenti.
D’altro canto, poiché questo Tribunale deve esaminare l’ordinanza impugnata nel suo complesso e non per stralci, il provvedimento gravato è da ritenersi interamente illegittimo, vieppiù tenendo conto che il riconosciuto difetto di istruttoria è idoneo a inficiare integralmente l’atto comunale, che, pertanto, viene interamente annullato.
Peraltro, non sussistendo i presupposti indicati dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (cfr., sentenza n. 5/2015) per procedere all’assorbimento dei motivi di impugnazione, il Collegio deve esaminare anche il secondo profilo di illegittimità dedotto da parte ricorrente.
Il motivo non è fondato, non ravvisandosi nell’azione amministrativa comunale i presupposti dello sviamento di potere, ovverosia il perseguimento di uno scopo diverso da quello per il quale è stato attribuito il potere esercitato (cfr., TAR Umbria, sentenza n. 99/2015).
Invero, secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale, cui questo Tribunale aderisce, la censura di sviamento di potere per poter essere favorevolmente apprezzata necessita di un adeguato supporto probatorio che appalesi la divergenza dell’atto dalla sua funzione tipica (cfr., TAR Lazio–Roma, Sez. III, sentenza n. 9731/2015).
Nel caso di specie, il fatto che l’Amministrazione abbia atteso quattordici mesi dalla restituzione dell’area per avviare il procedimento e un ulteriore anno per concluderlo, denota trascuratezza nella cura dell’interesse pubblico, ma non certo il perseguimento di uno scopo eccentrico rispetto agli obiettivi della norma attributiva del potere.
Al contempo, la circostanza che il Comune si sia determinato a riprendere i lavori di ristrutturazione dell’immobile de quo, quale che ne sia l’efficacia causale o concausale rispetto al provvedimento che qui si esamina, resta allo stato circostanza –per stessa ammissione di parte ricorrente– suffragata esclusivamente da notizie di stampa.
In conclusione, il ricorso è fondato e, per l’effetto, l’ordinanza comunale qui impugnata è annullata.
Tenuto conto, tuttavia, che all’esito dell’istruttoria svolta in corso di causa è emerso che almeno in parte l’abbandono di materiali e rifiuti risale all’epoca nella quale l’area era nella disponibilità e sotto la custodia della società ricorrente, il Collegio ritiene equo compensare tra le parti le spese di giudizio.
Viene, invece, posto a carico del Comune resistente, in applicazione della regola della soccombenza, il compenso del verificatore, nella misura che sarà liquidata con separato provvedimento (TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza 24.03.2016 n. 107 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Meno paletti per le moschee. L'edificazione non è legata al rispetto della Costituzione. La Consulta ha cassato (in parte) la legge lombarda del 2005. No alle telecamere.
Per edificare una moschea in Lombardia i musulmani non sono tenuti a impegnarsi al rispetto dei principi della Costituzione italiana, perché ciò non ha alcuna rilevanza a fini urbanistici. Nella normativa urbanistica, infatti, non si possono discriminare le confessioni religiose senza intesa con lo stato, poiché esse hanno diritto a costruire come le altre i propri edifici di culto.
Anche se la regione conserva il potere di regolare e limitare l'edificazione di immobili religiosi, tenendo conto dell'entità della presenza sul territorio dell'una o dell'altra confessione e delle esigenze di culto della popolazione. In ogni caso, comunque, la regione non può imporre sistemi di videosorveglianza, né alle moschee né agli edifici di culto di altre religioni.

Cerca così di bilanciare opposti interessi e di non entrare in un dibattito tutto politico sul trattamento dei musulmani in Italia la Corte costituzionale, che, con la sentenza 24.03.2016 n. 63, ha cassato parzialmente la legge della Lombardia n. 12/2005, dedicata alla disciplina urbanistica degli immobili di culto.
La legge, impugnata dalla presidenza del consiglio, ha subito alcune bocciature, ma è stata salvata anche in molte parti.
Religioni senza intesa. La legge lombarda distingue tre gruppi: gli enti della Chiesa cattolica; gli enti delle altre confessioni religiose con una legge d'intesa con lo stato; gli enti di tutte le altre confessioni religiose.
A questa terza categoria di enti, collegati alle confessioni «senza intesa», la possibilità di costruire edifici di culto è stata condizionata all'accertamento della diffusione della confessione religiosa negli ambito comunale e alla presenza negli statuti delle confessioni medesime di formule di accettazione dei principi e dei valori della Costituzione italiana. Questi requisiti devono essere oggetto di una valutazione preventiva, anche se non vincolante, di una consulta regionale (da costituirsi).
La Corte costituzionale, se da un lato ammette che le regioni possano disciplinare la programmazione e realizzazione di luoghi di culto, dall'altro ha bocciato le norme descritte, perché impongono regimi differenziati e norme più rigide alle sole confessioni senza intesa.
Pianificazione. La legge lombarda prevede un particolare strumento di pianificazione urbanistica, il Piano per le attrezzature religiose (Pat): per elaborarlo si devono acquisire i pareri di organizzazioni, comitati, questure e prefetture per agoni di sicurezza pubblica; inoltre obbliga a installare in ciascun edificio di culto un impianto di videosorveglianza esterno all'edificio, collegato con gli uffici della polizia locale o forze dell'ordine. Le norme sono state bocciate perché occupandosi di sicurezza pubblica, invadono la competenza legislativa esclusiva dello Stato.
Convenzione urbanistica. La Corte ha salvato le norme regionali che prevedono che gli enti delle confessioni religiose diverse dalla Chiesa cattolica devono stipulare una convenzione a fini urbanistici con il comune interessato e che le convenzioni devono prevedere espressamente la possibilità della risoluzione o della revoca per violazione della convenzione.
La Consulta ha precisato, però, che i comuni possono revocare la convenzione solo per ragioni urbanistiche e che devono agire con proporzionalità: la revoca va applicata solo in assenza di alternative meno severe (articolo ItaliaOggi del 25.03.2016).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 70, commi 2-bis, limitatamente alle parole «che presentano i seguenti requisiti:» e alle lettere a) e b), e 2-quater, della legge della Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), introdotti dall’art. 1, comma 1, lettera b), della legge della Regione Lombardia 03.02.2015, n. 2, recante «Modifiche alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) – Principi per la pianificazione delle attrezzature per servizi religiosi»;
Va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 72, commi 4 e 7, lettera e), della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, introdotti dall’art. 1, comma 1, lettera c), della legge reg. Lombardia n. 2 del 2015;
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4.1.– L’ordinamento repubblicano è contraddistinto dal principio di laicità, da intendersi, secondo l’accezione che la giurisprudenza costituzionale ne ha dato,
non come indifferenza di fronte all’esperienza religiosa, bensì come salvaguardia della libertà di religione in regime di pluralismo confessionale e culturale: compito della Repubblica è «garantire le condizioni che favoriscano l’espansione della libertà di tutti e, in questo ambito, della libertà di religione», la quale «rappresenta un aspetto della dignità della persona umana, riconosciuta e dichiarata inviolabile dall’art. 2» Cost..
Il libero esercizio del culto è un aspetto essenziale della libertà di religione (art. 19) ed è, pertanto, riconosciuto egualmente a tutti e a tutte le confessioni religiose (art. 8, primo e secondo comma), a prescindere dalla stipulazione di una intesa con lo Stato.

Come questa Corte ha recentemente ribadito, altro è la libertà religiosa, garantita a tutti senza distinzioni, altro è il regime pattizio (artt. 7 e 8, terzo comma, Cost.), che si basa sulla «concorde volontà» del Governo e delle confessioni religiose di regolare specifici aspetti del rapporto di queste ultime con l’ordinamento giuridico statale (sentenza n. 52 del 2016).
Data l’ampia discrezionalità politica del Governo in materia, il concordato o l’intesa non possono costituire condicio sine qua non per l’esercizio della libertà religiosa; gli accordi bilaterali sono piuttosto finalizzati al soddisfacimento di «esigenze specifiche di ciascuna delle confessioni religiose (sentenza n. 235 del 1997), ovvero a concedere loro particolari vantaggi o eventualmente a imporre loro particolari limitazioni (sentenza n. 59 del 1958), ovvero ancora a dare rilevanza, nell’ordinamento, a specifici atti propri della confessione religiosa» (sentenza n. 52 del 2016).
Per questo,
in materia di libertà religiosa, la giurisprudenza di questa Corte è costante nell’affermare che «il legislatore non può operare discriminazioni tra confessioni religiose in base alla sola circostanza che esse abbiano o non abbiano regolato i loro rapporti con lo Stato tramite accordi o intese (sentenze n. 346 del 2002 e n. 195 del 1993)».
Di conseguenza,
quando tale libertà e il suo esercizio vengono in rilievo, la tutela giuridica deve abbracciare allo stesso modo l’esperienza religiosa di tutti, nella sua dimensione individuale e comunitaria, indipendentemente dai diversi contenuti di fede; né in senso contrario varrebbero considerazioni in merito alla diffusione delle diverse confessioni, giacché la condizione di minoranza di alcune confessioni non può giustificare un minor livello di protezione della loro libertà religiosa rispetto a quella delle confessioni più diffuse.
4.2.–
L’apertura di luoghi di culto, in quanto forma e condizione essenziale per il pubblico esercizio dello stesso, ricade nella tutela garantita dall’art. 19 Cost., il quale riconosce a tutti il diritto di professare la propria fede religiosa, in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitare in privato o in pubblico il culto, con il solo limite dei riti contrari al buon costume. L’esercizio della libertà di aprire luoghi di culto, pertanto, non può essere condizionato a una previa regolazione pattizia, ai sensi degli artt. 7 e 8, terzo comma, Cost.: regolazione che può ritenersi necessaria solo se e in quanto a determinati atti di culto vogliano riconnettersi particolari effetti civili.
Più in particolare, nell’esaminare questioni in parte simili alle odierne, questa Corte ha già affermato che,
in materia di edilizia di culto, «tutte le confessioni religiose sono idonee a rappresentare gli interessi religiosi dei loro appartenenti» e la previa stipulazione di un’intesa non può costituire «l’elemento di discriminazione nell’applicazione di una disciplina, posta da una legge comune, volta ad agevolare l’esercizio di un diritto di libertà dei cittadini», pena la violazione del principio affermato nel primo comma dell’art. 8 Cost., oltre che nell’art. 19 Cost..
Al riguardo, vale il divieto di discriminazione, sancito in generale dall’art. 3 Cost. e ribadito, per quanto qui specificamente interessa, dagli artt. 8, primo comma, 19 e 20 Cost.; e ciò anche per assicurare «l’eguaglianza dei singoli nel godimento effettivo della libertà di culto, di cui l’eguale libertà delle confessioni di organizzarsi e di operare rappresenta la proiezione necessaria sul piano comunitario».
Ciò non vuol dire che a tutte le confessioni debba assicurarsi un’eguale porzione dei contributi o degli spazi disponibili: come è naturale allorché si distribuiscano utilità limitate, quali le sovvenzioni pubbliche o la facoltà di consumare suolo, si dovranno valutare tutti i pertinenti interessi pubblici e si dovrà dare adeguato rilievo all’entità della presenza sul territorio dell’una o dell’altra confessione, alla rispettiva consistenza e incidenza sociale e alle esigenze di culto riscontrate nella popolazione.
5.– Alla luce di tali principi, costantemente affermati dalla giurisprudenza di questa Corte, sono fondate le questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto i commi 2, 2-bis, lettere a) e b), e 2-quater, dell’art. 70 della legge regionale n. 12 del 2005, come modificati dall’art. 1, comma 1, lettera b), della legge regionale n. 2 del 2015, per violazione degli artt. 3, 8, 19 e 117, secondo comma, lettera c), Cost..
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5.2.–
La normativa regionale illustrata, in quanto disciplina la pianificazione urbanistica dei luoghi di culto, attiene senz’altro al «governo del territorio», cosicché, riguardata dal punto di vista materiale, rientra nelle competenze regionali concorrenti, ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost..
Nondimeno,
la valutazione sul rispetto del riparto di competenze tra Stato e Regioni, richiede di tenere conto, oltre che dell’oggetto, anche della ratio della normativa impugnata e di identificare correttamente e compiutamente gli interessi tutelati, nonché le finalità perseguite.
Il legislatore regionale, nell’esercizio delle sue competenze, qual è quella in materia di «governo del territorio» che qui viene in rilievo, non può mai perseguire finalità che esorbitano dai compiti della Regione.
Da questo punto di vista occorre ribadire che
la legislazione regionale in materia di edilizia del culto «trova la sua ragione e giustificazione –propria della materia urbanistica– nell’esigenza di assicurare uno sviluppo equilibrato ed armonico dei centri abitativi e nella realizzazione dei servizi di interesse pubblico nella loro più ampia accezione, che comprende perciò anche i servizi religiosi».
In questi limiti soltanto la regolazione dell’edilizia di culto resta nell’ambito delle competenze regionali. Non è, invece, consentito al legislatore regionale, all’interno di una legge sul governo del territorio, introdurre disposizioni che ostacolino o compromettano la libertà di religione, ad esempio prevedendo condizioni differenziate per l’accesso al riparto dei luoghi di culto.
Poiché la disponibilità di luoghi dedicati è condizione essenziale per l’effettivo esercizio della libertà di culto, un tale tipo di intervento normativo eccederebbe dalle competenze regionali, perché finirebbe per interferire con l’attuazione della libertà di religione, garantita agli artt. 8, primo comma, e 19 Cost., condizionandone l’effettivo esercizio.

Pertanto, una lettura unitaria dei principi costituzionali sopra richiamati ed evocati dal ricorrente porta a concludere che
la Regione è titolata, nel governare la composizione dei diversi interessi che insistono sul territorio, a dedicare specifiche disposizioni per la programmazione e realizzazione di luoghi di culto; viceversa, essa esorbita dalle sue competenze, entrando in un ambito nel quale sussistono forti e qualificate esigenze di eguaglianza, se, ai fini dell’applicabilità di tali disposizioni, impone requisiti differenziati, e più stringenti, per le sole confessioni per le quali non sia stata stipulata e approvata con legge un’intesa ai sensi dell’art. 8, terzo comma, Cost..
Per queste ragioni,
deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 70, commi 2-bis, sia nelle lettere a) e b), sia nella parte dell’alinea che le introduce (vale a dire, nelle parole «che presentano i seguenti requisiti:»), e 2-quater, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005.
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8.– Dell’art. 72 della legge regionale n. 12 del 2005 (interamente novellato dall’art. 1, comma 1, lettera c, della legge regionale n. 2 del 2015), sono censurati i commi 4 e 7, lettera e).
Il comma 4 –qui considerato solo nel suo primo periodo– prevede che, nel corso del procedimento per la predisposizione del piano delle attrezzature religiose di cui allo stesso art. 72 (denominato «Piano per le attrezzature religiose» nella rubrica di tale articolo), vengano acquisiti «i pareri di organizzazioni, comitati di cittadini, esponenti e rappresentanti delle forze dell’ordine oltre agli uffici provinciali di questura e prefettura al fine di valutare possibili profili di sicurezza pubblica, fatta salva l’autonomia degli organi statali».
La seconda disposizione censurata esige che, nel piano predetto, sia prevista, per ciascun edificio di culto (se non già esistente all’entrata in vigore della legge regionale n. 2 del 2015, in virtù dell’art. 72, comma 8), «la realizzazione di un impianto di videosorveglianza esterno all’edificio, con onere a carico dei richiedenti, che ne monitori ogni punto di ingresso, collegato con gli uffici della polizia locale o forze dell’ordine».
Prescrivendo l’acquisizione di pareri inerenti a questioni di sicurezza pubblica, nonché l’installazione di impianti di videosorveglianza, le disposizioni censurate entrerebbero nella materia «ordine pubblico e sicurezza», rimessa alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, anche con riguardo alle possibili forme di coordinamento con le Regioni (artt. 117, secondo comma, lettera h, e 118, terzo comma, Cost.).
La questione è fondata.
Nella Costituzione italiana ciascun diritto fondamentale, compresa la libertà di religione, è predicato unitamente al suo limite; sicché non v’è dubbio che le pratiche di culto, se contrarie al «buon costume», ricadano fuori dalla garanzia costituzionale di cui all’art. 19 Cost.; né si contesta che, qualora gli appartenenti a una confessione si organizzino in modo incompatibile «con l’ordinamento giuridico italiano», essi non possano appellarsi alla protezione di cui all’art. 8, secondo comma, Cost..
Tutti i diritti costituzionalmente protetti sono soggetti al bilanciamento necessario ad assicurare una tutela unitaria e non frammentata degli interessi costituzionali in gioco, di modo che nessuno di essi fruisca di una tutela assoluta e illimitata e possa, così, farsi “tiranno”
(sentenza n. 85 del 2013).
Tra gli interessi costituzionali da tenere in adeguata considerazione nel modulare la tutela della libertà di culto –nel rigoroso rispetto dei canoni di stretta proporzionalità, per le ragioni spiegate sopra– sono senz’altro da annoverare quelli relativi alla sicurezza, all’ordine pubblico e alla pacifica convivenza.
Tuttavia, il perseguimento di tali interessi è affidato dalla Costituzione, con l’art. 117, secondo comma, lettera h), in via esclusiva allo Stato, mentre le Regioni possono cooperare a tal fine solo mediante misure ricomprese nelle proprie attribuzioni
(ex plurimis, sentenza n. 35 del 2012).
Nel caso di specie, invece, le disposizioni censurate, considerate nella loro ratio e nel loro contenuto essenziale (sentenze n. 118, n. 35 e n. 34 del 2012), perseguono evidenti finalità di ordine pubblico e sicurezza: da valutare ex ante, nella programmazione (art. 72, comma 4: «[n]el corso del procedimento di predisposizione del piano […] vengono acquisiti i pareri di […] rappresentanti delle forze dell’ordine oltre agli uffici provinciali di questura e prefettura, al fine di valutare possibili profili di sicurezza pubblica»); e da gestire a posteriori, in ogni nuovo luogo di culto, mediante la realizzazione di capillari sistemi di videosorveglianza, collegati con le forze dell’ordine (art. 72, comma 7, lettera e).
Sotto questo profilo, pertanto, le disposizioni censurate sono da ritenersi costituzionalmente illegittime, in quanto eccedono dai limiti delle competenze attribuite alla Regione.

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1.– Con ricorso notificato il 03-07.04.2015 e depositato il 09.04.2015 (reg. ric. n. 47 del 2015), il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha impugnato gli artt. 70, commi 2, 2-bis, 2-ter e 2-quater, e 72, commi 4, 5 e 7, lettere e) e g), della legge della Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), come modificati dall’art. 1, comma 1, lettere b) e c), della legge della Regione Lombardia 03.02.2015, n. 2, recante «Modifiche alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) – Principi per la pianificazione delle attrezzature per servizi religiosi».
2.– L’intervento nel giudizio dell’Associazione VOX – Osservatorio italiano sui Diritti non è ammissibile.
Il giudizio di costituzionalità delle leggi, promosso in via d’azione ai sensi dell’art. 127 della Costituzione e degli artt. 31 e seguenti della legge 11.03.1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), si svolge esclusivamente tra soggetti titolari di potestà legislativa, fermi restando, per i soggetti privi di tale potestà, gli altri mezzi di tutela giurisdizionale eventualmente esperibili.
Pertanto, non è ammesso, nei giudizi di costituzionalità delle leggi promossi in via d’azione, l’intervento di soggetti privi di potere legislativo (ex plurimis, sentenze n. 118 e n. 31 del 2015, n. 210 del 2014, n. 285, n. 220 e n. 118 del 2013).
3.– Le disposizioni regionali impugnate apportano alcune modificazioni alla legge regionale per il governo del territorio n. 12 del 2005, intervenendo sui principi relativi alla pianificazione delle attrezzature per i servizi religiosi. Il ricorso del Presidente del Consiglio si articola in numerose censure che lamentano tanto la violazione dell’eguale libertà religiosa di tutte le confessioni, garantita dai principi costituzionali e dal diritto internazionale e sovranazionale, quanto l’eccesso di competenza legislativa da parte della Regione.
4.– All’esame delle singole censure, occorre premettere alcune considerazioni sui principi costituzionali in materia di libertà religiosa e di status delle confessioni religiose con e senza intesa con lo Stato.
4.1.–
L’ordinamento repubblicano è contraddistinto dal principio di laicità, da intendersi, secondo l’accezione che la giurisprudenza costituzionale ne ha dato (sentenze n. 508 del 2000, n. 329 del 1997, n. 440 del 1995, n. 203 del 1989), non come indifferenza di fronte all’esperienza religiosa, bensì come salvaguardia della libertà di religione in regime di pluralismo confessionale e culturale: compito della Repubblica è «garantire le condizioni che favoriscano l’espansione della libertà di tutti e, in questo ambito, della libertà di religione», la quale «rappresenta un aspetto della dignità della persona umana, riconosciuta e dichiarata inviolabile dall’art. 2» Cost. (sentenza n. 334 del 1996).
Il libero esercizio del culto è un aspetto essenziale della libertà di religione (art. 19) ed è, pertanto, riconosciuto egualmente a tutti e a tutte le confessioni religiose (art. 8, primo e secondo comma), a prescindere dalla stipulazione di una intesa con lo Stato.
Come questa Corte ha recentemente ribadito, altro è la libertà religiosa, garantita a tutti senza distinzioni, altro è il regime pattizio (artt. 7 e 8, terzo comma, Cost.), che si basa sulla «concorde volontà» del Governo e delle confessioni religiose di regolare specifici aspetti del rapporto di queste ultime con l’ordinamento giuridico statale (sentenza n. 52 del 2016).
Data l’ampia discrezionalità politica del Governo in materia, il concordato o l’intesa non possono costituire condicio sine qua non per l’esercizio della libertà religiosa; gli accordi bilaterali sono piuttosto finalizzati al soddisfacimento di «esigenze specifiche di ciascuna delle confessioni religiose (sentenza n. 235 del 1997), ovvero a concedere loro particolari vantaggi o eventualmente a imporre loro particolari limitazioni (sentenza n. 59 del 1958), ovvero ancora a dare rilevanza, nell’ordinamento, a specifici atti propri della confessione religiosa» (sentenza n. 52 del 2016).
Per questo,
in materia di libertà religiosa, la giurisprudenza di questa Corte è costante nell’affermare che «il legislatore non può operare discriminazioni tra confessioni religiose in base alla sola circostanza che esse abbiano o non abbiano regolato i loro rapporti con lo Stato tramite accordi o intese (sentenze n. 346 del 2002 e n. 195 del 1993)» (sentenza n. 52 del 2016).
Di conseguenza,
quando tale libertà e il suo esercizio vengono in rilievo, la tutela giuridica deve abbracciare allo stesso modo l’esperienza religiosa di tutti, nella sua dimensione individuale e comunitaria, indipendentemente dai diversi contenuti di fede; né in senso contrario varrebbero considerazioni in merito alla diffusione delle diverse confessioni, giacché la condizione di minoranza di alcune confessioni non può giustificare un minor livello di protezione della loro libertà religiosa rispetto a quella delle confessioni più diffuse (sentenza n. 329 del 1997).
4.2.–
L’apertura di luoghi di culto, in quanto forma e condizione essenziale per il pubblico esercizio dello stesso, ricade nella tutela garantita dall’art. 19 Cost., il quale riconosce a tutti il diritto di professare la propria fede religiosa, in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitare in privato o in pubblico il culto, con il solo limite dei riti contrari al buon costume. L’esercizio della libertà di aprire luoghi di culto, pertanto, non può essere condizionato a una previa regolazione pattizia, ai sensi degli artt. 7 e 8, terzo comma, Cost.: regolazione che può ritenersi necessaria solo se e in quanto a determinati atti di culto vogliano riconnettersi particolari effetti civili (sentenza n. 59 del 1958).
Più in particolare, nell’esaminare questioni in parte simili alle odierne, questa Corte ha già affermato che,
in materia di edilizia di culto, «tutte le confessioni religiose sono idonee a rappresentare gli interessi religiosi dei loro appartenenti» e la previa stipulazione di un’intesa non può costituire «l’elemento di discriminazione nell’applicazione di una disciplina, posta da una legge comune, volta ad agevolare l’esercizio di un diritto di libertà dei cittadini», pena la violazione del principio affermato nel primo comma dell’art. 8 Cost., oltre che nell’art. 19 Cost. (sentenza n. 195 del 1993).
Al riguardo, vale il divieto di discriminazione, sancito in generale dall’art. 3 Cost. e ribadito, per quanto qui specificamente interessa, dagli artt. 8, primo comma, 19 e 20 Cost.; e ciò anche per assicurare «l’eguaglianza dei singoli nel godimento effettivo della libertà di culto, di cui l’eguale libertà delle confessioni di organizzarsi e di operare rappresenta la proiezione necessaria sul piano comunitario» (sentenza n. 346 del 2002).
Ciò non vuol dire –come ha chiarito la stessa giurisprudenza già citata e come si dirà ancora più avanti– che a tutte le confessioni debba assicurarsi un’eguale porzione dei contributi o degli spazi disponibili: come è naturale allorché si distribuiscano utilità limitate, quali le sovvenzioni pubbliche o la facoltà di consumare suolo, si dovranno valutare tutti i pertinenti interessi pubblici e si dovrà dare adeguato rilievo all’entità della presenza sul territorio dell’una o dell’altra confessione, alla rispettiva consistenza e incidenza sociale e alle esigenze di culto riscontrate nella popolazione.
5.– Alla luce di tali principi, costantemente affermati dalla giurisprudenza di questa Corte,
sono fondate le questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto i commi 2, 2-bis, lettere a) e b), e 2-quater, dell’art. 70 della legge regionale n. 12 del 2005, come modificati dall’art. 1, comma 1, lettera b), della legge regionale n. 2 del 2015, per violazione degli artt. 3, 8, 19 e 117, secondo comma, lettera c), Cost..
5.1.– In virtù delle modifiche apportate dalla legge regionale n. 2 del 2015, la legge regionale n. 12 del 2005, sul governo del territorio, nel capo dedicato alla realizzazione di edifici di culto e di attrezzature destinate a servizi religiosi (artt. 70-73), distingue tre ordini di destinatari: gli enti della Chiesa cattolica (art. 70, comma 1); gli enti delle altre confessioni religiose con le quali lo Stato abbia già approvato con legge un’intesa (art. 70, comma 2); gli enti di tutte le altre confessioni religiose (art. 70, comma 2-bis).
A questa terza categoria di enti, collegati alle confessioni “senza intesa”, i citati artt. 70-73 sono applicabili solo a condizione che sussistano i seguenti requisiti: «a) presenza diffusa, organizzata e consistente a livello territoriale e un significativo insediamento nell’ambito del comune nel quale vengono effettuati gli interventi disciplinati dal presente capo; b) i relativi statuti esprim[a]no il carattere religioso delle loro finalità istituzionali e il rispetto dei principi e dei valori della Costituzione».
In virtù del comma 2-quater dell’art. 70, la valutazione di tali requisiti è obbligatoriamente rimessa al vaglio preventivo, ancorché non vincolante, di una consulta regionale, da istituirsi e nominarsi con provvedimento della Giunta regionale della Lombardia.
Tuttavia, come affermato in udienza dalla difesa regionale, la consulta non è ancora stata istituita, benché sia passato oltre un anno dall’entrata in vigore della censurata legge regionale n. 2 del 2015.
5.2.–
La normativa regionale illustrata, in quanto disciplina la pianificazione urbanistica dei luoghi di culto, attiene senz’altro al «governo del territorio», cosicché, riguardata dal punto di vista materiale, rientra nelle competenze regionali concorrenti, ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost. (ex plurimis, sentenze n. 272, n. 102 e n. 6 del 2013).
Nondimeno,
la valutazione sul rispetto del riparto di competenze tra Stato e Regioni, richiede di tenere conto, oltre che dell’oggetto, anche della ratio della normativa impugnata e di identificare correttamente e compiutamente gli interessi tutelati, nonché le finalità perseguite (ex plurimis, sentenze n. 140 del 2015, n. 167 e n. 119 del 2014).
Il legislatore regionale, nell’esercizio delle sue competenze, qual è quella in materia di «governo del territorio» che qui viene in rilievo, non può mai perseguire finalità che esorbitano dai compiti della Regione.
Da questo punto di vista occorre ribadire che
la legislazione regionale in materia di edilizia del culto «trova la sua ragione e giustificazione –propria della materia urbanistica– nell’esigenza di assicurare uno sviluppo equilibrato ed armonico dei centri abitativi e nella realizzazione dei servizi di interesse pubblico nella loro più ampia accezione, che comprende perciò anche i servizi religiosi» (sentenza n. 195 del 1993).
In questi limiti soltanto la regolazione dell’edilizia di culto resta nell’ambito delle competenze regionali. Non è, invece, consentito al legislatore regionale, all’interno di una legge sul governo del territorio, introdurre disposizioni che ostacolino o compromettano la libertà di religione, ad esempio prevedendo condizioni differenziate per l’accesso al riparto dei luoghi di culto.
Poiché la disponibilità di luoghi dedicati è condizione essenziale per l’effettivo esercizio della libertà di culto, un tale tipo di intervento normativo eccederebbe dalle competenze regionali, perché finirebbe per interferire con l’attuazione della libertà di religione, garantita agli artt. 8, primo comma, e 19 Cost., condizionandone l’effettivo esercizio.

Pertanto, una lettura unitaria dei principi costituzionali sopra richiamati ed evocati dal ricorrente porta a concludere che
la Regione è titolata, nel governare la composizione dei diversi interessi che insistono sul territorio, a dedicare specifiche disposizioni per la programmazione e realizzazione di luoghi di culto; viceversa, essa esorbita dalle sue competenze, entrando in un ambito nel quale sussistono forti e qualificate esigenze di eguaglianza, se, ai fini dell’applicabilità di tali disposizioni, impone requisiti differenziati, e più stringenti, per le sole confessioni per le quali non sia stata stipulata e approvata con legge un’intesa ai sensi dell’art. 8, terzo comma, Cost..
Per queste ragioni,
deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 70, commi 2-bis, sia nelle lettere a) e b), sia nella parte dell’alinea che le introduce (vale a dire, nelle parole «che presentano i seguenti requisiti:»), e 2-quater, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005.
Per contro, non sono oggetto del presente giudizio l’art. 72, comma 1, della stessa legge regionale n. 12 del 2005, il quale ricollega alla valutazione delle «esigenze locali», previo esame delle diverse istanze confessionali, la programmazione urbanistica delle attrezzature religiose; e il successivo art. 73, comma 3, il quale fa riferimento alla «consistenza ed incidenza sociale» delle diverse confessioni nel territorio di un Comune, ai fini della ripartizione da parte di quest’ultimo dei contributi di cui allo stesso art. 73.
6.– È censurato anche il comma 2-ter dell’art. 70 (introdotto anch’esso dall’art. 1, comma 1, lettera b), della legge regionale n. 2 del 2015), il quale prevede che gli enti delle confessioni religiose diverse dalla Chiesa cattolica, di cui ai commi 2 e 2-bis, «devono stipulare una convenzione a fini urbanistici con il comune interessato» e che tali convenzioni devono prevedere espressamente «la possibilità della risoluzione o della revoca, in caso di accertamento da parte del comune di attività non previste nella convenzione».
Il ricorrente lamenta la lesione dell’art. 19 Cost., poiché la disposizione impugnata definirebbe con una formula troppo generica i presupposti della risoluzione o revoca della convenzione, tra l’altro interferendo con la libertà di un ente confessionale di svolgere anche attività diverse da quelle strettamente attinenti al culto (ad esempio, culturali o sportive). La censura, dunque, si riferisce esclusivamente al secondo periodo del comma 2-ter.
La questione non è fondata, nei sensi di seguito precisati.
La convenzione prevista dalla disposizione in esame, necessaria nella fase di applicazione della normativa in questione da parte del Comune, deve essere ispirata alla finalità, tipicamente urbanistica, di assicurare lo sviluppo equilibrato e armonico dei centri abitati. Naturalmente la convenzione potrà stabilire le conseguenze che potranno determinarsi nel caso in cui l’ente che l’ha sottoscritta non ne rispetti le stipulazioni, graduando l’effetto delle violazioni in base alla loro entità.
La disposizione impugnata consente di annoverare tra queste conseguenze, a fronte di comportamenti abnormi, la possibilità di risoluzione o di revoca della convenzione. Si tratta, con ogni evidenza, di rimedi estremi, da attivarsi in assenza di alternative meno severe. Nell’applicare in concreto le previsioni della convenzione, il Comune dovrà in ogni caso specificamente considerare se, tra gli strumenti che la disciplina urbanistica mette a disposizione per simili evenienze, non ve ne siano altri, ugualmente idonei a salvaguardare gli interessi pubblici rilevanti, ma meno pregiudizievoli per la libertà di culto, il cui esercizio, come si è detto, trova nella disponibilità di luoghi dedicati una condizione essenziale.
Il difetto della ponderazione di tutti gli interessi coinvolti potrà essere sindacato nelle sedi competenti, con lo scrupolo richiesto dal rango costituzionale degli interessi attinenti alla libertà religiosa.
La disposizione in questione, così interpretata, si presta a soddisfare il principio e il test di proporzionalità, che impongono di valutare se la norma oggetto di scrutinio, potenzialmente limitativa di un diritto fondamentale, qual è la libertà di culto, sia necessaria e idonea al conseguimento di obiettivi legittimamente perseguiti, in quanto, tra più misure appropriate, prescriva di applicare sempre quella meno restrittiva dei diritti individuali e imponga sacrifici non eccedenti quanto necessario per assicurare il perseguimento degli interessi ad essi contrapposti.
7.– In un ulteriore motivo di ricorso, i commi 2-bis, 2-ter e 2-quater dell’art. 70 della legge regionale n. 12 del 2005 (tutti introdotti dall’art. 1, comma 1, lettera b), della legge regionale n. 2 del 2015) sono censurati congiuntamente per violazione dell’art. 117, commi primo e secondo, lettera a), Cost., in relazione ai «principi europei ed internazionali in materia di libertà di religione e di culto».
In particolare sono richiamati gli artt. 10, 17 e 19 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE); gli artt. 10, 21 e 22 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (proclamata a Nizza il 07.12.2000 e adattata a Strasburgo il 12.12.2007); e, infine, l’art. 18 del Patto internazionale sui diritti civili e politici (adottato a New York il 16.12.1966, ratificato e reso esecutivo in Italia con legge 25.10.1977, n. 881).
La questione è inammissibile.
Per giurisprudenza costante, il ricorso in via principale deve identificare esattamente la questione nei suoi termini normativi, indicando le norme costituzionali (ed eventualmente interposte) e ordinarie, la definizione del cui rapporto di compatibilità o incompatibilità costituisce l’oggetto della questione e, inoltre, deve contenere una argomentazione di merito a sostegno della richiesta declaratoria di illegittimità costituzionale (sentenze n. 251, n. 233, n. 218, n. 153 e n. 142 del 2015).
Sul punto, invece, il ricorso, dopo avere menzionato nel proprio titolo le disposizioni sovranazionali e regionali ritenute reciprocamente incompatibili, illustra sinteticamente il contenuto delle prime, ma trascura del tutto le seconde. Di conseguenza, non risulta chiaro quali siano gli specifici contenuti della normativa regionale ritenuti incompatibili con i principi sovranazionali e nemmeno in quali esatti termini si ponga l’incompatibilità.
Tale difetto argomentativo non può essere rimediato mediante una lettura complessiva del ricorso: la quale, al contrario, rende ancor più oscuro il senso del motivo ora in esame. In particolare, non è chiaro se il Presidente del Consiglio dei ministri abbia inteso semplicemente sottolineare il rilievo anche sovranazionale dei principi di eguaglianza e libertà religiosa, richiamati in altri motivi di ricorso, oppure denunciare l’incompatibilità, con gli anzidetti principi sovranazionali, di specifici contenuti dei commi censurati dei quali non è stata messa in dubbio la compatibilità con i corrispondenti principi della Costituzione italiana.
In riferimento alle disposizioni della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, la censura presenta un ulteriore profilo di inammissibilità. A norma del suo art. 51 (nonché dell’art. 6, paragrafo 1, primo alinea, del Trattato sull’Unione europea e della Dichiarazione n. 1 allegata al Trattato di Lisbona) e di una consolidata giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, le disposizioni della Carta sono applicabili agli Stati membri solo quando questi agiscono nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione: «[l]e disposizioni della presente Carta si applicano […] agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione» (art. 51 della Carta).
Come questa Corte ha già affermato, perché la Carta dei diritti UE sia invocabile in un giudizio di legittimità costituzionale, occorre, dunque, che la fattispecie oggetto di legislazione interna «sia disciplinata dal diritto europeo –in quanto inerente ad atti dell’Unione, ad atti e comportamenti nazionali che danno attuazione al diritto dell’Unione, ovvero alle giustificazioni addotte da uno Stato membro per una misura nazionale altrimenti incompatibile con il diritto dell’Unione– e non già da sole norme nazionali prive di ogni legame con tale diritto» (sentenza n. 80 del 2011).
L’assenza di qualsiasi argomentazione in merito ai presupposti di applicabilità delle norme dell’Unione europea alla legge in esame rende il riferimento a queste ultime generico (sentenze n. 199 del 2012 e n. 185 del 2011), peraltro in un caso in cui i punti di contatto tra l’ambito di applicazione di tali norme e quello delle disposizioni censurate sono tutt’altro che evidenti (vedi, a contrario, sentenza n. 114 del 2012).
Lo stesso vale, a maggior ragione, per gli artt. 10, 17 e 19 del TFUE, i quali si rivolgono esplicitamente all’Unione e alle sue istituzioni e non stabiliscono ulteriori obblighi in capo agli Stati membri.
Ciò costituisce un ulteriore difetto di motivazione, e quindi causa di inammissibilità, del motivo di ricorso in esame, cui si deve infine aggiungere l’inconferenza del riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera a), Cost., il quale non può essere considerato un diverso ed ulteriore presidio, rispetto agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., del rispetto della conformità ai vincoli comunitari (sentenza n. 185 del 2011).
8.– Dell’art. 72 della legge regionale n. 12 del 2005 (interamente novellato dall’art. 1, comma 1, lettera c, della legge regionale n. 2 del 2015), sono censurati i commi 4 e 7, lettera e).
Il comma 4 –qui considerato solo nel suo primo periodo– prevede che, nel corso del procedimento per la predisposizione del piano delle attrezzature religiose di cui allo stesso art. 72 (denominato «Piano per le attrezzature religiose» nella rubrica di tale articolo), vengano acquisiti «i pareri di organizzazioni, comitati di cittadini, esponenti e rappresentanti delle forze dell’ordine oltre agli uffici provinciali di questura e prefettura al fine di valutare possibili profili di sicurezza pubblica, fatta salva l’autonomia degli organi statali».
La seconda disposizione censurata esige che, nel piano predetto, sia prevista, per ciascun edificio di culto (se non già esistente all’entrata in vigore della legge regionale n. 2 del 2015, in virtù dell’art. 72, comma 8), «la realizzazione di un impianto di videosorveglianza esterno all’edificio, con onere a carico dei richiedenti, che ne monitori ogni punto di ingresso, collegato con gli uffici della polizia locale o forze dell’ordine».
Prescrivendo l’acquisizione di pareri inerenti a questioni di sicurezza pubblica, nonché l’installazione di impianti di videosorveglianza, le disposizioni censurate entrerebbero nella materia «ordine pubblico e sicurezza», rimessa alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, anche con riguardo alle possibili forme di coordinamento con le Regioni (artt. 117, secondo comma, lettera h, e 118, terzo comma, Cost.).
La questione è fondata.
Nella Costituzione italiana ciascun diritto fondamentale, compresa la libertà di religione, è predicato unitamente al suo limite; sicché non v’è dubbio che le pratiche di culto, se contrarie al «buon costume», ricadano fuori dalla garanzia costituzionale di cui all’art. 19 Cost.; né si contesta che, qualora gli appartenenti a una confessione si organizzino in modo incompatibile «con l’ordinamento giuridico italiano», essi non possano appellarsi alla protezione di cui all’art. 8, secondo comma, Cost..
Tutti i diritti costituzionalmente protetti sono soggetti al bilanciamento necessario ad assicurare una tutela unitaria e non frammentata degli interessi costituzionali in gioco, di modo che nessuno di essi fruisca di una tutela assoluta e illimitata e possa, così, farsi “tiranno
(sentenza n. 85 del 2013).
Tra gli interessi costituzionali da tenere in adeguata considerazione nel modulare la tutela della libertà di culto –nel rigoroso rispetto dei canoni di stretta proporzionalità, per le ragioni spiegate sopra– sono senz’altro da annoverare quelli relativi alla sicurezza, all’ordine pubblico e alla pacifica convivenza.
Tuttavia, il perseguimento di tali interessi è affidato dalla Costituzione, con l’art. 117, secondo comma, lettera h), in via esclusiva allo Stato, mentre le Regioni possono cooperare a tal fine solo mediante misure ricomprese nelle proprie attribuzioni (ex plurimis, sentenza n. 35 del 2012).
Nel caso di specie, invece, le disposizioni censurate, considerate nella loro ratio e nel loro contenuto essenziale (sentenze n. 118, n. 35 e n. 34 del 2012), perseguono evidenti finalità di ordine pubblico e sicurezza: da valutare ex ante, nella programmazione (art. 72, comma 4: «[n]el corso del procedimento di predisposizione del piano […] vengono acquisiti i pareri di […] rappresentanti delle forze dell’ordine oltre agli uffici provinciali di questura e prefettura, al fine di valutare possibili profili di sicurezza pubblica»); e da gestire a posteriori, in ogni nuovo luogo di culto, mediante la realizzazione di capillari sistemi di videosorveglianza, collegati con le forze dell’ordine (art. 72, comma 7, lettera e).
Sotto questo profilo, pertanto, le disposizioni censurate sono da ritenersi costituzionalmente illegittime, in quanto eccedono dai limiti delle competenze attribuite alla Regione.

9.– È censurato anche l’art. 72, comma 4, secondo periodo, della legge regionale n. 12 del 2005, a norma del quale, con riguardo al piano delle attrezzature religiose, «[r]esta ferma la facoltà per i comuni di indire referendum nel rispetto delle previsioni statutarie e dell’ordinamento statale».
Il ricorso lamenta la violazione dell’art. 19 Cost., in quanto, affermando la facoltà dei Comuni di indire tali referendum, farebbe sì che la possibilità di destinare a edilizia di culto determinate aree risulti «subordinata a decisioni espressione di maggioranze politiche o culturali o altro».
La questione è inammissibile.
Come è evidente dal suo chiaro tenore testuale, la disposizione non modifica in alcun modo il procedimento di approvazione del piano, né incide sulla disciplina dei referendum comunali, limitandosi, in proposito, a rinviare a quanto già previsto dalla rilevante normativa locale e nazionale.
La disposizione è quindi meramente ricognitiva, priva di «autonoma forza precettiva o, se si preferisce, di quel carattere innovativo che si suole considerare proprio degli atti normativi» (sentenza n. 346 del 2010); sicché deve ritenersi insussistente l’interesse della parte ricorrente a impugnarla (sentenze n. 230 del 2013 e n. 401 del 2007).
10.– Il vigente art. 72, comma 7, lettera g), della legge regionale n. 12 del 2005 prevede che il piano delle attrezzature religiose garantisca «la congruità architettonica e dimensionale degli edifici di culto previsti con le caratteristiche generali e peculiari del paesaggio lombardo, così come individuate nel PTR». La citata lettera g) è censurata per violazione degli artt. 3, 8 e 19 Cost. perché, richiamando con formula ambigua le caratteristiche del paesaggio lombardo, attribuirebbe all’amministrazione una discrezionalità troppo ampia, tale da consentire facilmente applicazioni discriminatorie.
La questione non è fondata, nei sensi precisati di seguito.
Diversamente da quanto suggerito dal rimettente, la disposizione impugnata non richiede, genericamente, che gli edifici di culto si conformino a non meglio identificate caratteristiche del «paesaggio lombardo»; essa specifica invece che le caratteristiche a cui debbono conformarsi anche gli edifici di culto sono quelle «individuate nel PTR», vale a dire, nel piano territoriale regionale, di cui agli artt. 19 e seguenti della stessa legge regionale n. 12 del 2005.
Letta nella sua integralità, comprensiva del rimando al piano territoriale regionale, la disposizione esige che, nel valutare la conformità paesaggistica degli edifici di culto, si debba avere riguardo, non a considerazioni estetiche soggettive, occasionali ed estemporanee, come tali suscettibili di applicazioni arbitrarie e discriminatorie, bensì alle indicazioni predeterminate dalle pertinenti previsioni del piano territoriale regionale.
Si conferma così che quest’ultimo, anche con riguardo allo specifico ambito qui considerato, è atto di orientamento di tutta la programmazione e pianificazione territoriale locale della Lombardia, nonché quadro di riferimento per le valutazioni sulla compatibilità degli atti di governo del territorio, anche comunali, sulle cui eventuali previsioni contrastanti ha la prevalenza.
Così intesa, la disposizione censurata non è altro che una specificazione di quanto previsto, in generale, dagli artt. 19 e 20 della legge regionale n. 12 del 2005. Un eventuale cattivo uso della discrezionalità programmatoria, atto a penalizzare surrettiziamente l’insediamento delle attrezzature religiose, potrà essere censurato nelle sedi competenti.
11.– A norma del vigente art. 72, comma 5, della legge regionale n. 12 del 2005, «[i] comuni che intendono prevedere nuove attrezzature religiose sono tenuti ad adottare e approvare il piano delle attrezzature religiose entro diciotto mesi dalla data di entrata in vigore della [legge regionale n. 2 del 2015]» (primo periodo); «[d]ecorso detto termine il piano è approvato unitamente al nuovo PGT» (secondo periodo).
Il citato comma 5, ad avviso della difesa statale, contrasterebbe con l’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., in quanto stabilirebbe la mera facoltà, per i Comuni che intendano farlo, di prevedere la realizzazione di nuove attrezzature religiose attraverso l’apposito piano.
In tal modo, la disposizione si porrebbe in contrasto con il decreto del Ministero dei lavori pubblici 02.04.1968, n. 1444 (Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi dell’art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765) e, in particolare, con il suo art. 3, a norma del quale negli insediamenti residenziali deve essere assicurata, per ogni abitante, una dotazione minima di 18 metri quadrati per spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggio, da ripartire normalmente in modo tale che 2 metri quadrati siano destinati ad attrezzature di interesse comune, anche «religiose», oltre che «culturali, sociali, assistenziali, sanitarie, amministrative, per pubblici servizi» e altre.
Il ricorrente ricorda che la giurisprudenza costituzionale ha già ricollegato alla competenza di cui all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. alcune previsioni del d.m. n. 1444 del 1968: sono citate, in proposito, le sentenze di questa Corte n. 232 del 2005 e n. 120 del 1996.
La questione è manifestamente inammissibile.
A prescindere da ogni considerazione circa la correttezza dell’interpretazione data dal ricorrente al censurato art. 72, comma 5, è assorbente il rilievo che, per come è evocato, il parametro risulta del tutto inconferente (sentenze n. 269 e n. 121 del 2014).
Il ricorrente non spiega in alcun modo perché la disciplina delle dotazioni urbanistiche contenuta nell’art. 3 del d.m. n. 1444 del 1968, dovrebbe ritenersi attinente all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. Sul punto, pertanto, il ricorso non è sufficientemente e adeguatamente motivato.
In ogni caso, il cattivo o il mancato esercizio del potere da parte delle autorità urbanistiche potrà essere censurato nelle sedi competenti.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara inammissibile l’intervento dell’Associazione VOX – Osservatorio italiano sui Diritti, nel giudizio promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso in epigrafe;
2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 70, commi 2-bis, limitatamente alle parole «che presentano i seguenti requisiti:» e alle lettere a) e b), e 2-quater, della legge della Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), introdotti dall’art. 1, comma 1, lettera b), della legge della Regione Lombardia 03.02.2015, n. 2, recante «Modifiche alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) – Principi per la pianificazione delle attrezzature per servizi religiosi»;
3) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 72, commi 4 e 7, lettera e), della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, introdotti dall’art. 1, comma 1, lettera c), della legge reg. Lombardia n. 2 del 2015;
4) dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 70, comma 2-ter, ultimo periodo, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera b), della legge reg. Lombardia n. 2 del 2015, promossa, in riferimento all’art. 19 della Costituzione, dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso in epigrafe;
5) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 70, commi 2-bis, 2-ter e 2-quater, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, introdotti dall’art. 1, comma 1, lettera b), della legge reg. Lombardia n. 2 del 2015, promossa –in riferimento all’art. 117, commi primo e secondo, lettera a), Cost., in relazione agli artt. 10, 17 e 19 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, agli artt. 10, 21 e 22 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (proclamata a Nizza il 07.12.2000 e adattata a Strasburgo il 12.12.2007) ed all’art. 18 del Patto internazionale sui diritti civili e politici (adottato a New York il 16.12.1966, ratificato e reso esecutivo in Italia con legge 25.10.1977, n. 881)– dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso in epigrafe;
6) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 72, comma 4, ultimo periodo, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera c), della legge reg. Lombardia n. 2 del 2015, promossa, in riferimento all’art. 19 Cost., dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso in epigrafe;
7) dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 72, comma 7, lettera g), della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera c), della legge reg. Lombardia n. 2 del 2015, promossa, in riferimento agli artt. 3, 8 e 19 Cost., dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso in epigrafe;
8) dichiara manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 72, comma 5, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera c), della legge reg. Lombardia n. 2 del 2015, promossa, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso in epigrafe (Corte Costituzionale, sentenza 24.03.2016 n. 63).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATACom’è noto una particolare fattispecie di responsabilità della P.A. è quella del cd. danno da ritardo. A tale categoria concettuale -che trova oggi un aggancio normativo nell’art. 2-bis della legge n. 241 del 1990- sono riconducibili tre distinte ipotesi:
a) l'adozione tardiva di un provvedimento legittimo ma sfavorevole per il privato interessato;
b) l'adozione di un provvedimento favorevole ma tardivo;
c) la mera inerzia e cioè la mancata adozione del provvedimento.

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La fattispecie per cui è causa è riconducibile all’ipotesi sub b) -danno da ritardato conseguimento del bene della vita- venendo in considerazione l'adozione di un provvedimento favorevole ma tardivo.
Il ricorrente ha, infatti, conseguito il bene della vita cui aspirava (autorizzazione all’apertura del distributore di carburante), ma con notevole ritardo rispetto ai tempi normativamente prefissati (art. 2 L. n. 241/1990 e regolamenti attuativi; art. 4, comma 7, DPR n. 447/1998), avendo il Comune rilasciato il titolo abilitativo richiesto a distanza di oltre cinque anni dall’avvio del procedimento.
Il danno non è stato, dunque, causato direttamente dal provvedimento, che anzi risulta legittimo, ma dalla mancata conclusione del procedimento nel termine previsto: il pregiudizio lamentato dal ricorrente è quello subìto per aver ottenuto in ritardo il bene della vita cui aveva titolo.
Sussistono tutti i presupposti per affermare la responsabilità aquiliana dell’Ente Locale ex art. 2043 c.c.. In particolare nella fattispecie è riscontrabile:
a) la condotta antigiuridica della P.A., risultante dal comportamento illecito (ritardo ingiustificato nell’adozione di un provvedimento favorevole), oltre che dall’adozione di un illegittimo atto soprassessorio (sull’illegittimità della sospensione sine die del procedimento amministrativo la giurisprudenza amministrativa è pacifica);
b) l’evento dannoso (danno ingiusto) ovvero la lesione dell’interesse legittimo pretensivo del privato. Il rilascio tardivo del provvedimento richiesto dimostra ex se la spettanza del bene della vita, dispensando il giudice del compito di effettuare il giudizio prognostico;
c) il nesso di causalità tra la condotta antigiuridica dell’amministrazione e l’evento dannoso;
d) l’elemento soggettivo, essendo il danno riferibile ad una condotta colposa della. P.A.. Al riguardo il Collegio ritiene di dover fare applicazione del consolidato orientamento secondo cui al privato, il quale assuma di essere stato danneggiato da un provvedimento illegittimo o dall’inerzia della P.A., non è richiesto un particolare impegno per dimostrare la colpa della stessa, potendo egli limitarsi ad allegare l'illegittimità dell'atto o lo spirare del termine di conclusione del procedimento e per il resto farsi applicazione, al fine della prova dell'elemento soggettivo, delle regole di comune esperienza e della presunzione semplice di cui all'art. 2727 c.c.; di conseguenza a quel punto spetta all'Amministrazione dimostrare, se del caso, che si è verificato un errore scusabile, il quale è configurabile in caso di contrasti giurisprudenziali sull'interpretazione di una norma, di formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore, di rilevante complessità del fatto, d'influenza determinante di comportamenti di altri soggetti o di illegittimità derivante da una successiva dichiarazione d'incostituzionalità della norma applicata.
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... per l'annullamento:
- della nota prot. n. 31550 datata 25.02.2010 e pervenuta l'01.03.2010, con cui il Responsabile della Struttura Unica Attività Produttive del Comune di Taranto sospendeva sine die i termini del procedimento in merito alla pratica edilizia prot. n. 356/06 di cui all'istanza, presentata dal ricorrente, in data 07.06.2006, finalizzata all'ottenimento delle autorizzazioni per la realizzazione di una stazione di servizio di vendita di carburanti;
- nonché, ove necessario e per quanto di interesse, dei verbali della Conferenza di servizi svoltasi in data 9/2/2010 presso l'assessorato Assetto del Territorio della Regione Puglia nonché della nota di indizione della stessa Conferenza di Servizi mai conosciuti e/o notificati;
- dei verbali della Conferenza di servizi svoltasi in data 30/06/2009 presso lo Sportello Unico delle Attività Produttive del Comune di Taranto nonché della nota di indizione della stessa Conferenza di Servizi;
- della nota n. 2869 del 12.03.2008 della Direzione Urbanistica ed Edilizia del Comune di Taranto e dell'ivi allegata Relazione Tecnica del 07.03.2008;
- della nota n. 6241 del 20.6.08, della Direzione Urbanistica ed Edilizia del Comune di Taranto mai conosciuta e/o notificata;
- di tutti gli atti presupposti, connessi e consequenziali;
- per la condanna del Comune di Taranto al risarcimento dei danni derivanti dall’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa o dal mancato esercizio di quella obbligatoria nonché di quelli derivanti dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento;
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L’azione di annullamento va dichiarata improcedibile per sopravvenuta carenza d’interesse, avendo l’istante conseguito, sia pur con notevole ritardo, il bene della vita cui aspirava.
La domanda con cui il ricorrente chiede il risarcimento del danno derivante dall’inosservanza dei termini di conclusione del procedimento merita parziale accoglimento.
Com’è noto una particolare fattispecie di responsabilità della P.A. è quella del cd. danno da ritardo. A tale categoria concettuale -che trova oggi un aggancio normativo nell’art. 2-bis della legge n. 241 del 1990- sono riconducibili tre distinte ipotesi:
a) l'adozione tardiva di un provvedimento legittimo ma sfavorevole per il privato interessato;
b) l'adozione di un provvedimento favorevole ma tardivo;
c) la mera inerzia e cioè la mancata adozione del provvedimento.
La fattispecie per cui è causa è riconducibile all’ipotesi sub b) -danno da ritardato conseguimento del bene della vita- venendo in considerazione l'adozione di un provvedimento favorevole ma tardivo.
Il ricorrente ha, infatti, conseguito il bene della vita cui aspirava (autorizzazione all’apertura del distributore di carburante), ma con notevole ritardo rispetto ai tempi normativamente prefissati (art. 2 L. n. 241/1990 e regolamenti attuativi; art. 4, comma 7, DPR n. 447/1998), avendo il Comune di Taranto rilasciato il titolo abilitativo richiesto a distanza di oltre cinque anni dall’avvio del procedimento.
Il danno non è stato, dunque, causato direttamente dal provvedimento, che anzi risulta legittimo, ma dalla mancata conclusione del procedimento nel termine previsto: il pregiudizio lamentato dal ricorrente è quello subìto per aver ottenuto in ritardo il bene della vita cui aveva titolo.
Sussistono tutti i presupposti per affermare la responsabilità aquiliana dell’Ente Locale ex art. 2043 c.c.. In particolare nella fattispecie è riscontrabile:
a) la condotta antigiuridica della P.A., risultante dal comportamento illecito (ritardo ingiustificato nell’adozione di un provvedimento favorevole), oltre che dall’adozione di un illegittimo atto soprassessorio (sull’illegittimità della sospensione sine die del procedimento amministrativo la giurisprudenza amministrativa è pacifica);
b) l’evento dannoso (danno ingiusto) ovvero la lesione dell’interesse legittimo pretensivo del privato. Il rilascio tardivo del provvedimento richiesto dimostra ex se la spettanza del bene della vita, dispensando il giudice del compito di effettuare il giudizio prognostico;
c) il nesso di causalità tra la condotta antigiuridica dell’amministrazione e l’evento dannoso;
d) l’elemento soggettivo, essendo il danno riferibile ad una condotta colposa della. P.A.. Al riguardo il Collegio ritiene di dover fare applicazione del consolidato orientamento secondo cui al privato, il quale assuma di essere stato danneggiato da un provvedimento illegittimo o dall’inerzia della P.A., non è richiesto un particolare impegno per dimostrare la colpa della stessa, potendo egli limitarsi ad allegare l'illegittimità dell'atto o lo spirare del termine di conclusione del procedimento e per il resto farsi applicazione, al fine della prova dell'elemento soggettivo, delle regole di comune esperienza e della presunzione semplice di cui all'art. 2727 c.c.; di conseguenza a quel punto spetta all'Amministrazione dimostrare, se del caso, che si è verificato un errore scusabile, il quale è configurabile in caso di contrasti giurisprudenziali sull'interpretazione di una norma, di formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore, di rilevante complessità del fatto, d'influenza determinante di comportamenti di altri soggetti o di illegittimità derivante da una successiva dichiarazione d'incostituzionalità della norma applicata (in tal senso, ex plurimis: Cons. Stato, V, 12.02.2013, n. 798; id., V, 19.11.2012, n. 5846; id., IV, 31.01.2012, n. 482).
Nel caso di specie l’odierno ricorrente ha assolto all’onere di allegazione dell’illegittimità dell’atto e/o del ritardo della P.A. nella conclusione del procedimento, forieri del pregiudizio patrimoniale.
L’amministrazione, ad avviso del Collegio, non ha viceversa fornito un’adeguata prova in ordine alla scusabilità dell’errore che ha determinato la tardiva adozione del provvedimento favorevole, risultando dagli atti che il provvedimento favorevole è stato rilasciato, a cinque anni di distanza dall’avvio del procedimento, sulla scorta dei pareri già allegati dall’istante nel 2006, meramente “confermati” o “aggiornati” nel corso del procedimento, nonché senza alcun ricorso alla procedura di variante urbanistica di cui all’art. 5, D.P.R. 447/1998, ritenuta in definitiva non necessaria dal Comune, come sostenuto sin dall’inizio dal ricorrente.
Per tali ragioni, il Collegio è dell’avviso che la domanda di risarcimento del danno patrimoniale avanzata dal ricorrente sia meritevole di ammissione a risarcimento (an debeatur).
Il danno-conseguenza (quantum debeatur) non può tuttavia essere liquidato, come richiesto dall’interessato, in misura pari ad € 370.400 per le ragioni di seguito indicate.
Il contratto preliminare di affitto d’azienda, stipulato dal ricorrente il 02.04.2008 con altra impresa già operante nel settore, per un corrispettivo annuo di € 60.000,00 (€ 5.000,00 mensili) e una durata di anni sei, prevedeva l’obbligo di stipulare il contratto definitivo entro un anno dalla sottoscrizione del preliminare.
Ciò posto, è verosimile ritenere che le parti non avrebbero stipulato il contratto definitivo di affitto azienda prima della scadenza dell’anno (01.04.2009), tenuto conto che il titolo abilitativo non era stato ancora rilasciato; l’operazione economica presentava profili di complessità; la funzione del preliminare è proprio quella di consentire ai contraenti il controllo delle sopravvenienze prima della stipulazione definitiva; l’affittuario d’azienda, utilizzando la diligenza propria dell’operatore economico avveduto (homo eiusdem condicionis et professionis), non avrebbe stipulato il definitivo senza prima aver svolto le opportune verifiche in ordine al rilascio del titolo abilitativo; non risulta dagli atti (manca un’allegazione sul punto) che fossero iniziati i lavori di adeguamento delle aree interessate -destinate a “Verde di rispetto stradale" o "Strada di PRG”- alla diversa utilizzazione dei suoli né che il concedente o l’affittuario disponessero già, al momento del preliminare, delle attrezzature necessarie per adibire le aree in questione a distributore di carburante, con annesso punto di ristorazione.
E’ pertanto verosimile ritenere che il contratto definitivo di affitto d’azienda sarebbe stato stipulato alla scadenza del termine annuale, sicché il ricorrente avrebbe potuto percepire i canoni (€ 5000 mensili) solo a far data dal 01.04.2009. Considerato che il provvedimento favorevole è stato rilasciato il 17.07.2011, il ricorrente avrebbe ipoteticamente diritto a conseguire a titolo di risarcimento del danno la somma di € 137.500 (€ 5000 x 27,5 mesi: 01.04.2009-17.07.2011), pari ai canoni mensili non percepiti a causa del colpevole ritardo della P.A. nell’adozione del provvedimento favorevole.
Detto importo deve, tuttavia, essere decurtato di una somma pari a circa la metà, risultando dagli atti che il ricorrente -pur avendo stigmatizzato nel corpo del ricorso introduttivo la condotta soprassessoria della P.A. e il ritardo nella conclusione del procedimento- ha dapprima chiesto un duplice rinvio dell’udienza camerale fissata per la decisione dell’istanza cautelare e poi definitivamente rinunciato alla tutela cautelare medesima (si vedano i verbali delle udienze camerali del 27.05.2010, 29.07.2010, 21.10.2010).
Tale contegno ha aggravato il danno ed è dunque rilevante ex art 30, comma 3, c.p.a. (“Nel determinare il risarcimento il giudice valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti e, comunque, esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti”): la disposizione, pur non evocando in modo esplicito il disposto dell’art. 1227, comma 2, del codice civile, afferma che l'omessa attivazione degli strumenti di tutela previsti costituisce, nel quadro del comportamento complessivo delle parti, dato valutabile, alla stregua del canone di buona fede e del principio di solidarietà, ai fini dell’esclusione o della mitigazione del danno evitabile con l’ordinaria diligenza (Cons. St. Ad Pl. n. 3/2011).
Nel caso di specie è plausibile ritenere, sulla base di un giudizio di prognosi postuma fondato sulla stessa giurisprudenza di questo Tar citata dal ricorrente nell’atto introduttivo del giudizio, che, ove l’istante avesse insistito sull’istanza cautelare o comunque chiesto l’adozione di una misura cautelare atipica che compulsasse il Comune a concludere il procedimento in itinere, ormai avviato da circa quattro anni, il Collegio avrebbe accolto l’istanza medesima.
Nessun danno può dirsi risarcibile per il periodo anteriore all’aprile 2009, mancando una prova certa del pregiudizio patito e non avendo la parte ricorrente inviato al Comune uno specifico e tempestivo “avviso di danno” (dagli atti risulta solo una generica diffida a concludere il procedimento nei termini, dd. 03.03.2008, scevra di qualsiasi riferimento all’esistenza di danni attuali o potenziali): anche tale contegno omissivo appare rilevante nella prospettiva degli artt. 30, co. 3, c.p.a. e 1227, co. 2., c.c., costituendo il cd. avviso di danno un comportamento non eccedente la soglia del sacrificio significativo, esigibile anche dalla vittima di una condotta illecita alla stregua del principio di auto-responsabilità, del canone di buona fede di cui all’art. 1175 e del principio di solidarietà di cui all’art. 2 Cost..
La scelta della parte ricorrente di non inviare al Comune uno specifico e tempestivo avviso di danno, di differire più volte le udienze camerali e di rinunciare alle misure cautelari previste dall’ordinamento processuale -apprezzata congiuntamente alla successiva proposizione di una domanda tesa ad ottenere il risarcimento di un danno, quello da ritardo, che l’attivazione dei suddetti rimedi avrebbe plausibilmente (ossia più probabilmente che non) evitato o mitigato- integra violazione dell’obbligo di cooperazione, che spezza il nesso causale e, per l’effetto, impedisce il risarcimento dei danni evitabili (arg. in base a Cons. St. Ad Pl. n. 3/2011).
Alla luce delle suesposte considerazioni, il Collegio, in applicazione del combinato disposto degli artt. 2056 e 1226 del codice civile, valutata l’incidenza sul piano della causalità giuridica del comportamento omissivo del danneggiato (artt. 30 c.p.a. e 1227, co. 2, c.c.), reputa congruo liquidare in via equitativa il danno patrimoniale subito dal ricorrente in misura pari a € 70.000 (euro settantamila/00).
Sulla somma in tal modo determinata, che costituisce debito di valore, dovranno essere corrisposti la rivalutazione monetaria e gli interessi compensativi sulla somma via via rivalutata con utilizzo del cd. metodo a scalare, secondo i modi e nei limiti precisati dalle Sezioni Unite della Cassazione nella sentenza n. 1712/1995.
Il Comune di Taranto va altresì condannato a rifondere al ricorrente le spese di lite, liquidate come da dispositivo. Spese compensate nei rapporti con le altre parti del giudizio (TAR Puglia-Lecce, Sez. II, sentenza 23.03.2016 n. 549 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sanzioni omogenee per i lavori su beni di valore paesaggistico. Corte costituzionale. Illogica la disciplina attuale.
Passo indietro nella tutela dei beni paesaggistici, con sanzioni penali più diluite: questa è la strada che la Corte costituzionale è stata costretta a percorrere con la sentenza 23.03.2016 n. 56.
A causa di una legislazione definita «ondivaga», la Consulta ha dovuto comparare le varie sanzioni previste per chi esegue lavori su beni paesaggistici (articolo 181 del decreto legislativo 42/2004). Queste sanzioni sono state ritenute illogicamente più severe a seconda del tipo di vincolo che tutela il bene: l’illogicità, consistente in pene più gravi per gli stessi lavori a seconda del tipo di vincolo imposto sul bene, ha causato un livellamento verso il basso, cioè una diluizione delle sanzioni allineandole a quelle più miti.
Le conseguenze della sentenza della Corte riguardano unicamente i procedimenti penali, mentre rimangono immutate le sanzioni amministrative (riduzione in pristino, sanzioni pecuniarie). Il ragionamento svolto dal giudice delle leggi riguarda una norma del 2004 (Codice Urbani dei beni culturali e del paesaggio) che prevedeva pene diverse per chi esegue lavori su beni paesaggistici a seconda che il bene fosse stato vincolato per legge pure con specifico provvedimento amministrativo (decreto ministeriale).
I beni tutelati per legge sono elencati nell’articolo 142 del predetto codice e cioè sono quelli che ricadono nei 300 m dalla battigia del mare e dei laghi, nella fascia di 150 m dai corsi d’acqua, ad altezze alpine superiori a 1600 m ed a 1200 m nell’Appennino, parchi e riserve nazionali, boschi e foreste, zone di usi civici, zone umide, vulcani, zone di interesse archeologico.
A fianco di queste categorie, c’è una seconda categoria di immobili, cioè quelli che per loro caratteristiche paesaggistiche sono dichiarati di notevole interesse pubblico con apposito provvedimento (decreto ministeriale di vincolo).
Nella sentenza, la Consulta si accorge che i lavori eseguiti su tali categorie di immobili (quella vincolata per legge perché adiacenti corsi d’acqua; quella vincolata da specifico provvedimento ministeriale) hanno sanzioni penali diverse: sanzioni più gravi se il vincolo è quello imposto per categorie (distanza dal mare, dai fiumi, zone montane ecc.) rispetto alle sanzioni imposte su beni singolarmente vincolati. Questa disparità di trattamento non è ritenuta giustificata dalla Corte, che quindi allinea le sanzioni a quelle per singoli beni vincolati.
La conseguenza è che i reati si allineano e diventano tutti contravvenzionali, con termini di prescrizione inferiori (4 anni) rispetto alla qualificazione come «delitti» (prescritti in 6 anni), applicabile in in precedenza per i lavori su beni paesaggistici. Inoltre, tutti gli interventi si estinguono se vi è una riduzione in pristino da parte del trasgressore prima che venga disposta la demolizione da parte dell’autorità amministrativa e comunque prima che intervenga la condanna.
Diventa di applicazione generale anche la possibilità di “accertamento di compatibilità paesaggistica”, che fino ad oggi non era possibile per le zone oggetto di vincolo imposto per legge. L’unificazione delle sanzioni genererà anche procedimenti penali più omogenei, senza distinzione a seconda del tipo di vincolo violato
(articolo Il Sole 24 Ore del 24.03.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA: Beni tutelati, pena soft. Niente reclusione per i lavori non autorizzati. Consulta: normativa irragionevole. Il reato diventa contravvenzione.
Niente più reclusione da uno a quattro anni per chi senza autorizzazione esegua lavori su immobili o aree dichiarati di notevole interesse pubblico con provvedimento ad hoc o tutelati per legge.
Queste fattispecie delittuose, previste dal Codice dei beni culturali e del paesaggio (art. 181, comma 1-bis, lettere a) e b) del dlgs 42/2004), vengono cancellate e assorbite nella generica condotta di chi, senza autorizzazione o in difformità di essa, esegue lavori di qualsiasi genere su beni paesaggistici.
Una condotta, quest'ultima, prevista dal comma 1 dell'art. 181 e di natura contravvenzionale, quindi punita con l'arresto fino a due anni e l'ammenda da 30.986 a 103.290 euro. La reclusione resta prevista solo per l'ipotesi in cui i lavori realizzino opere di notevole impatto volumetrico (aumento di volumetria superiore al 30%, ampliamento superiore a 750 metri cubi o nuova costruzione con volumetria superiore ai 1.000 metri cubi).

Con la sentenza 23.03.2016 n. 56 la Corte costituzionale ha riscritto completamente la disciplina dei reati incidenti su beni paesaggistici, dando ragione al Tribunale di Verona che aveva sollevato la questione di legittimità dell'art. 181, comma 1-bis, lettera a) del dlgs 42/2004 per violazione degli artt. 3 e 27 della Carta.
Il giudice rimettente ha chiamato in causa la Consulta ritenendo la norme censurata (comma 1-bis) viziata da irragionevolezza, visto che puniva la condotta di chi realizza senza autorizzazione lavori su immobili o aree, dichiarati di interesse pubblico con provvedimento, in modo più severo (reclusione fino a quattro anni) rispetto alla generica condotta (comma 1) di chi senza autorizzazione o in difformità di essa, esegue lavori di qualsiasi genere su beni paesaggistici che invece costituisce una semplice contravvenzione.
Le condotte incidenti su beni vincolati per effetto di un provvedimento, osservava il Tribunale di Verona, erano configurate come delitto e per di più non godevano delle ipotesi di non punibilità o estinzione, previste invece per gli autori dei reati di cui al comma 1 nell'ipotesi di accertamento di compatibilità paesaggistica o di rimessione in pristino da parte del trasgressore prima della decisione dell'autorità amministrativa e comunque prima della condanna. Così delineata, dunque, la condotta di cui al comma 1-bis avrebbe violato l'art. 27 Cost. «rendendo la pena ingiusta e quindi priva della sua finalità rieducativa».
Nella sentenza redatta dal giudice Giancarlo Coraggio, la Corte ha dovuto riconoscere i vizi della normativa, definita «ondivaga e non giustificata né da sopravvenienze fattuali né dal mutare degli indirizzi culturali di fondo». E già questo, ammette la Consulta, «è sintomo di irragionevolezza della disciplina». Una irragionevolezza che si manifesta nella «rilevantissima disparità tanto nella configurazione dei reati (nel primo caso delitto, nel secondo contravvenzione) quanto nel trattamento sanzionatorio, in relazione sia alla entità della pena che alla disciplina delle cause di non punibilità ed estinzione del reato».
Per questo la Corte ha deciso di ricondurre le condotte incidenti su «beni provvedimentali» alla fattispecie del comma 1, salvo che, «al pari delle condotte incidenti sui beni tutelati per legge, si concretizzino nella realizzazione di lavori che comportino il superamento di soglie volumetriche».
Tribunale di Orvieto. Con una sentenza anch'essa redatta dal giudice Giancarlo Coraggio (n. 59/2016) la Consulta ha dichiarato in parte inammissibile e in parte non fondata la questione di legittimità costituzionale relativa alla soppressione del Tribunale ordinario di Orvieto (articolo ItaliaOggi del 24.03.2016).

EDILIZIA PRIVATA: Lavori su beni paesaggistici, la Corte costituzionale parifica le sanzioni.
E' illegittimo l’art. 181, comma 1-bis del Codice dei beni culturali e del paesaggio nella parte in cui differenzia le sanzioni a seconda che le condotte incidano su beni sottoposti a vincoli puntuali o invece su beni vincolati per legge.
Con la sentenza 23.04.2016 n. 56, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 181, comma 1-bis, del Codice dei beni culturali e del paesaggio (decreto legislativo 22.01.2004, n. 42), nella parte in cui prevede «: a) ricadano su immobili od aree che, per le loro caratteristiche paesaggistiche siano stati dichiarati di notevole interesse pubblico con apposito provvedimento emanato in epoca antecedente alla realizzazione dei lavori; b) ricadano su immobili od aree tutelati per legge ai sensi dell’articolo 142 ed».
Secondo la Consulta è fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale ordinario di Verona in merito all'art. 181, comma 1-bis, lettera a), del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 06.07.2002, n. 137), nella parte in cui, anche quando non risultino superati i limiti quantitativi previsti dalla successiva lettera b), punisce con la sanzione della reclusione da uno a quattro anni, anziché con le pene più lievi previste dal precedente comma 1 −che rinvia all’art. 44, comma 1, lettera c), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia – Testo A)– colui che, senza la prescritta autorizzazione o in difformità di essa, esegua lavori di qualsiasi genere su immobili o aree che, per le loro caratteristiche paesaggistiche, siano stati dichiarati di notevole interesse pubblico con apposito provvedimento emanato in epoca antecedente alla realizzazione dei lavori.
LEGISLAZIONE ONDIVAGA. La Corte costituzionale ricorda che con le modifiche apportate all’art. 181 del codice dalla legge 15.12.2004, n. 308 (Delega al Governo per il riordino, il coordinamento e l’integrazione della legislazione in materia ambientale e misure di diretta applicazione) il legislatore è tornato a distinguere le fattispecie: “non solo ha invertito la risposta sanzionatoria, punendo più gravemente le condotte incidenti su beni sottoposti a vincoli puntuali rispetto a quelle incidenti su beni vincolati per legge, ma ha anche delineato un complessivo trattamento sanzionatorio delle prime di gran lunga più severo rispetto a quello riservato alle seconde”.
Infatti “i lavori eseguiti sui beni vincolati in via provvedimentale senza la prescritta autorizzazione o in difformità da essa integrano sempre un delitto e sono puniti con la reclusione da uno a quattro anni; mentre i lavori eseguiti sui beni vincolati per legge integrano una contravvenzione e sono puniti con l’arresto fino a due anni e l’ammenda da 30.986,00 a 103.290,00 euro, a meno che non costituiscano, ai sensi dell’art. 181, comma 1-bis, lettera b), opere di notevole impatto volumetrico, nel qual caso sono puniti alla stessa stregua dei primi. Solo per i reati commessi su beni sottoposti a vincolo legale, poi, operano, alle condizioni specificamente previste, le cause di non punibilità e di estinzione del reato rispettivamente introdotte dai commi 1-ter e 1-quinquies”.
Secondo la Consulta “si è dunque in presenza di una legislazione ondivaga, non giustificata né da sopravvenienze fattuali né dal mutare degli indirizzi culturali di fondo della normativa in materia; e già questo è sintomo di irragionevolezza della disciplina attuale”.
Questa irragionevolezza “è resa poi manifesta dalla rilevantissima disparità tanto nella configurazione dei reati (nell’un caso delitto, nell’altro contravvenzione), quanto nel trattamento sanzionatorio, in relazione sia alla entità della pena che alla disciplina delle cause di non punibilità ed estinzione del reato”.
PARIFICAZIONE DELLA RISPOSTA SANZIONATORIA. Pertanto “dalla fondatezza della questione consegue la parificazione della risposta sanzionatoria (secondo l’assetto già sperimentato dal legislatore al momento della codificazione), con la riconduzione delle condotte incidenti sui beni provvedimentali alla fattispecie incriminatrice di cui al comma 1, salvo che, al pari delle condotte incidenti sui beni tutelati per legge, si concretizzino nella realizzazione di lavori che comportino il superamento delle soglie volumetriche indicate al comma 1-bis”.
Questo risultato “si ottiene mediante l’eliminazione dell’inciso dell’art. 181, comma 1-bis, che va dai «:», che seguono le parole «di cui al comma 1», e precedono la lettera a), alla congiunzione «ed» di cui alla lettera b)”.
Quindi, per la Corte costituzionale l’art. 181, comma 1-bis deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui prevede «: a) ricadano su immobili od aree che, per le loro caratteristiche paesaggistiche siano stati dichiarati di notevole interesse pubblico con apposito provvedimento emanato in epoca antecedente alla realizzazione dei lavori; b) ricadano su immobili od aree tutelati per legge ai sensi dell’articolo 142 ed».
Restano assorbiti gli altri profili di censura e la questione proposta in via subordinata. Quest’ultima, in particolare, risulta superata a seguito dell’intervento sull’art. 181, comma 1-bis. Da esso consegue che le condotte incidenti sui beni paesaggistici individuati in via provvedimentale, consistenti nella realizzazione di lavori che non comportino il superamento delle soglie volumetriche ivi indicate, e ora regolate dal comma 1 dell’art. 181, possono beneficiare degli istituti della non punibilità per accertamento postumo della compatibilità paesaggistica e della estinzione del reato per ravvedimento operoso, rispettivamente previsti dall’art. 181, comma 1-ter, e comma 1-quinquies, che richiamano appunto il comma 1 per definire il loro ambito di applicazione” (commento tratto da e link a www.casaeclima.com).
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MASSIMA
Dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 181, comma 1-bis, del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 06.07.2002, n. 137), nella parte in cui prevede «: a) ricadano su immobili od aree che, per le loro caratteristiche paesaggistiche siano stati dichiarati di notevole interesse pubblico con apposito provvedimento emanato in epoca antecedente alla realizzazione dei lavori; b) ricadano su immobili od aree tutelati per legge ai sensi dell’articolo 142 ed».
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1.− Con ordinanza depositata il 06.08.2014, il Tribunale ordinario di Verona ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 181, comma 1-bis, lettera a), del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 06.07.2002, n. 137), nella parte in cui, anche quando non risultino superati i limiti quantitativi previsti dalla successiva lettera b), punisce con la sanzione della reclusione da uno a quattro anni, anziché con le pene più lievi previste dal precedente comma 1 −che rinvia all’art. 44, comma 1, lettera c), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia – Testo A)– colui che, senza la prescritta autorizzazione o in difformità di essa, esegua lavori di qualsiasi genere su immobili o aree che, per le loro caratteristiche paesaggistiche, siano stati dichiarati di notevole interesse pubblico con apposito provvedimento emanato in epoca antecedente alla realizzazione dei lavori.
La disposizione censurata, secondo il giudice a quo, violerebbe l’art. 3 Cost., per l’irragionevolezza del «deteriore» trattamento sanzionatorio riservato all’autore del reato da essa previsto, sia rispetto alle condotte identiche poste in essere su beni paesaggistici sottoposti a vincolo legale previste dal comma 1, sia rispetto alla fattispecie disciplinata dalla lettera b) della medesima disposizione, riguardante condotte poste in essere sugli stessi beni paesaggistici di significativo impatto ambientale, sia, infine, rispetto all’art. 734 del codice penale.
Ed infatti, ai sensi del comma 1 dell’art. 181 del d.lgs. n. 42 del 2004 (d’ora in avanti «codice dei beni culturali e del paesaggio» o «codice»), le condotte incidenti su beni paesaggistici vincolati ex lege integrano, qualora non superino i limiti quantitativi previsti dal successivo comma 1-bis, reati contravvenzionali; gli autori non sono punibili ai sensi del comma 1-ter, qualora sopravvenga l’accertamento di compatibilità paesaggistica dell’autorità preposta; e, ai sensi del successivo comma 1-quinquies, i reati si estinguono in ipotesi di rimessione in pristino da parte del trasgressore prima che venga disposta d’ufficio dall’autorità amministrativa e comunque prima che intervenga la condanna. Ai sensi dell’art. 181, comma 1-bis, lettera a), invece, le condotte incidenti su beni vincolati in via provvedimentale integrano un delitto e non godono delle predette ipotesi di non punibilità o estinzione.
L’irragionevole trattamento sanzionatorio apprestato dalla disposizione censurata violerebbe anche l’art. 27 Cost., rendendo la pena ingiusta e quindi priva della sua finalità rieducativa.
La lesione dei menzionati parametri deriverebbe anche dal trattamento omogeneo che ricevono le due differenti fattispecie disciplinate dall’art. 181, comma 1-bis. Le opere menzionate nella lettera b), incidenti su beni vincolati ex lege, sarebbero, difatti, di straordinario impatto ambientale ma equiparate, quanto a regime sanzionatorio, alle ben più lievi ipotesi disciplinate dalla lettera a), incidenti su beni sottoposti a vincolo provvedimentale.
Infine, la violazione degli artt. 3 e 27 Cost. sarebbe evidente ove si ponga a raffronto l’art. 181, comma 1-bis, lettera a), del codice con l’art. 734 cod. pen., che commina l’ammenda fino a 6.197,00 euro a colui che distrugge o altera le bellezze naturali soggette a speciale protezione dell’autorità.
2.– In via subordinata, il giudice rimettente ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 181, commi 1-ter, 1-quater e 1-quinquies, del codice dei beni culturali e del paesaggio, nella parte in cui esclude dal proprio ambito applicativo le condotte previste dall’art. 181, comma 1-bis, lettera a). Sarebbe, difatti, parimenti irragionevole escludere le cause di non punibilità e di estinzione del reato là dove si tratti di condotte identiche, quali quelle previste dai commi 1 e 1-bis del medesimo articolo.
3.– La questione sollevata in via principale è fondata.
4.− È noto che la discrezionalità di cui gode il legislatore nel delineare il sistema sanzionatorio penale trova il limite della manifesta irragionevolezza e dell’arbitrio, come avviene a fronte di sperequazioni tra fattispecie omogenee non sorrette da alcuna ragionevole giustificazione (sentenze n. 81 del 2014, n. 68 del 2012, n. 161 del 2009, n. 324 del 2008 e n. 394 del 2006).
4.1.– Facendo applicazione di tali principi nella materia in esame, questa Corte ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1-sexies del decreto-legge 27.06.1985, n. 312 (Disposizioni urgenti per la tutela delle zone di particolare interesse ambientale), introdotto dall’art. 1 della legge di conversione 08.08.1985, n. 431, che dettava una disciplina inversa a quella odierna, perché puniva più severamente le violazioni incidenti sui beni sottoposti a vincolo legale.
In quell’occasione la Corte ha affermato che «la ratio della introduzione di vincoli paesaggistici generalizzati (in base a tipologie di beni) risiede nella valutazione che l’integrità ambientale è un bene unitario, che può risultare compromesso anche da interventi minori e che va, pertanto, salvaguardato nella sua interezza (sentenze n. 247 del 1997, n. 67 del 1992 e n. 151 del 1986; ordinanze n. 68 del 1998 e n. 431 del 1991)» e che la severità del relativo trattamento sanzionatorio «trova giustificazione nella entità sociale dei beni protetti e nel ricordato carattere generale, immediato ed interinale, della tutela che la legge ha inteso apprestare di fronte alla urgente necessità di reprimere comportamenti tali che possono produrre danni gravi e talvolta irreparabili all’integrità ambientale (sentenze n. 269 e n. 122 del 1993; ordinanza n. 68 del 1998)» (ordinanza n. 158 del 1998).
La più rigorosa risposta sanzionatoria nei confronti dei reati incidenti su beni paesaggistici vincolati per legge è stata quindi ritenuta non irragionevolmente discriminatoria per il fatto che introduce «una tutela del paesaggio (per vaste porzioni del territorio individuate secondo tipologie paesistiche, ubicazioni o morfologiche), improntata a integrità e globalità, implicante una riconsiderazione assidua dell’intero territorio nazionale alla luce e in attuazione del valore estetico-culturale (v., da ultimo, ordinanze n. 68 del 1998 e n. 431 del 1991)» (ordinanza n. 158 del 1998).
4.2.– Tale assetto ha subito una modifica in occasione della “codificazione” della materia paesaggistica, prima con l’art. 163 del decreto legislativo 29.10.1999, n. 490 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali, a norma dell’articolo 1 della L. 08.10.1997, n. 352) e poi con l’originario art. 181 del codice dei beni culturali e del paesaggio.
Con tali norme il legislatore, innalzando il grado di tutela dei beni vincolati in via provvedimentale allo stesso livello di quelli tutelati per legge, ha optato per l’identità di risposta sanzionatoria, evidentemente sul presupposto di una ritenuta sostanziale identità dei valori in gioco.
4.3.– Con le modifiche apportate all’art. 181 del codice dalla legge 15.12.2004, n. 308 (Delega al Governo per il riordino, il coordinamento e l’integrazione della legislazione in materia ambientale e misure di diretta applicazione) il legislatore è tuttavia tornato a distinguere le fattispecie.
Nel fare ciò, non solo ha invertito la risposta sanzionatoria, punendo più gravemente le condotte incidenti su beni sottoposti a vincoli puntuali rispetto a quelle incidenti su beni vincolati per legge, ma ha anche delineato un complessivo trattamento sanzionatorio delle prime di gran lunga più severo rispetto a quello riservato alle seconde.
Ed infatti, i lavori eseguiti sui beni vincolati in via provvedimentale senza la prescritta autorizzazione o in difformità da essa integrano sempre un delitto e sono puniti con la reclusione da uno a quattro anni; mentre i lavori eseguiti sui beni vincolati per legge integrano una contravvenzione e sono puniti con l’arresto fino a due anni e l’ammenda da 30.986,00 a 103.290,00 euro, a meno che non costituiscano, ai sensi dell’art. 181, comma 1-bis, lettera b), opere di notevole impatto volumetrico, nel qual caso sono puniti alla stessa stregua dei primi. Solo per i reati commessi su beni sottoposti a vincolo legale, poi, operano, alle condizioni specificamente previste, le cause di non punibilità e di estinzione del reato rispettivamente introdotte dai commi 1-ter e 1-quinquies.
5.− Si è dunque in presenza di una legislazione ondivaga, non giustificata né da sopravvenienze fattuali né dal mutare degli indirizzi culturali di fondo della normativa in materia; e già questo è sintomo di irragionevolezza della disciplina attuale.
Tale irragionevolezza è resa poi manifesta dalla rilevantissima disparità tanto nella configurazione dei reati (nell’un caso delitto, nell’altro contravvenzione), quanto nel trattamento sanzionatorio, in relazione sia alla entità della pena che alla disciplina delle cause di non punibilità ed estinzione del reato.
6.− Dalla fondatezza della questione consegue la parificazione della risposta sanzionatoria (secondo l’assetto già sperimentato dal legislatore al momento della codificazione), con la riconduzione delle condotte incidenti sui beni provvedimentali alla fattispecie incriminatrice di cui al comma 1, salvo che, al pari delle condotte incidenti sui beni tutelati per legge, si concretizzino nella realizzazione di lavori che comportino il superamento delle soglie volumetriche indicate al comma 1-bis.
Tale risultato si ottiene mediante l’eliminazione dell’inciso dell’art. 181, comma 1-bis, che va dai «:», che seguono le parole «di cui al comma 1», e precedono la lettera a), alla congiunzione «ed» di cui alla lettera b).
6.1.– L’art. 181, comma 1-bis, deve pertanto essere dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui prevede «
: a) ricadano su immobili od aree che, per le loro caratteristiche paesaggistiche siano stati dichiarati di notevole interesse pubblico con apposito provvedimento emanato in epoca antecedente alla realizzazione dei lavori; b) ricadano su immobili od aree tutelati per legge ai sensi dell’articolo 142 ed».
7.– Restano assorbiti gli altri profili di censura e la questione proposta in via subordinata.
Quest’ultima, in particolare, risulta superata a seguito dell’intervento sull’art. 181, comma 1-bis. Da esso consegue che le condotte incidenti sui beni paesaggistici individuati in via provvedimentale, consistenti nella realizzazione di lavori che non comportino il superamento delle soglie volumetriche ivi indicate, e ora regolate dal comma 1 dell’art. 181, possono beneficiare degli istituti della non punibilità per accertamento postumo della compatibilità paesaggistica e della estinzione del reato per ravvedimento operoso, rispettivamente previsti dall’art. 181, comma 1-ter, e comma 1-quinquies, che richiamano appunto il comma 1 per definire il loro ambito di applicazione.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 181, comma 1-bis, del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 06.07.2002, n. 137), nella parte in cui prevede «
: a) ricadano su immobili od aree che, per le loro caratteristiche paesaggistiche siano stati dichiarati di notevole interesse pubblico con apposito provvedimento emanato in epoca antecedente alla realizzazione dei lavori; b) ricadano su immobili od aree tutelati per legge ai sensi dell’articolo 142 ed» (Corte Costituzionale, sentenza 23.03.2016 n. 56).

ATTI AMMINISTRATIVIEntrambe le adottate ordinanze sindacali contingibili ed urgenti sono illegittime poiché sono sfornite di elementi istruttori e di motivazione in grado di rappresentare un’effettiva situazione di grave pericolo che minaccia l’incolumità dei cittadini (art. 54, comma 2, d.lgs. n. 267 del 2000), solo in ragione della quale si giustifica l’eccezionale deroga al principio di tipicità degli atti amministrativi e alla disciplina vigente attuata mediante l’utilizzazione di provvedimenti extra ordinem (sulla necessità che il presupposto delle ordinanze contingibili e urgenti -mezzo per far fronte a situazioni di carattere eccezionale e impreviste costituenti minaccia per la pubblica incolumità e per le quali sia impossibile utilizzare gli ordinari mezzi approntati dall’ordinamento- sia suffragato da istruttoria e motivazione adeguate la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato è costante).
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1. Con il primo motivo d’appello, il Comune di Roccantica censura la sentenza di primo grado per travisamento dei fatti e per essere sconfinata nel merito amministrativo, contestando in particolare che la strada di via Ciliciano sia interpoderale e che il traffico veicolare su di essa sia modesto, come invece ritenuto dal Tribunale amministrativo, e le conclusioni conseguentemente tratte circa la situazione di pericolo ravvisata dai provvedimenti impugnati.
Con il secondo motivo l’amministrazione appellante rileva che a fronte dell’oggettiva pericolosità di tale situazione, la violazione delle garanzie procedimentali dedotta dall’avvocato Li. degrada a irregolarità non invalidante ex art. 21-octies l. 07.08.1990, n. 241. Inoltre, il Comune evidenzia che la questione delle condizioni fitosanitarie, sollevata da controparte, è irrilevante a fronte della pericolosità delle piante, derivanti dalla loro inclinazione verso la sede stradale.
Con il terzo ed ultimo motivo l’appellante osserva che il mancato richiamo all’art. 54 d.lgs. n. 267 del 2000 nella seconda ordinanza non invalida il provvedimento, essendo chiari i presupposti di pericolosità sulla cui base è stato emanato. Inoltre, il motivo sottolinea che l’ordinanza dispone anche la potatura di alcuni alberi ed è dunque riconducibile al paradigma astratto di cui al citato art. 29 Cod. strada, espressamente richiamato nell’atto.
2. Nessuna di queste censure è fondata e l’appello deve quindi essere respinto.
Entrambe le ordinanze impugnate sono sfornite di elementi istruttori e di motivazione in grado di rappresentare un’effettiva situazione di grave pericolo che minaccia l’incolumità dei cittadini (art. 54, comma 2, d.lgs. n. 267 del 2000), solo in ragione della quale si giustifica l’eccezionale deroga al principio di tipicità degli atti amministrativi e alla disciplina vigente attuata mediante l’utilizzazione di provvedimenti extra ordinem (sulla necessità che il presupposto delle ordinanze contingibili e urgenti -mezzo per far fronte a situazioni di carattere eccezionale e impreviste costituenti minaccia per la pubblica incolumità e per le quali sia impossibile utilizzare gli ordinari mezzi approntati dall’ordinamento- sia suffragato da istruttoria e motivazione adeguate la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato è costante; da ultimo: Cons. Stato, III, 29.05.2015, n. 2697; V, 23.09.2015, n. 4466, 02.03.2015, n. 988, 25.05.2012, n. 3077, 20.02.2012, n. 904; VI, 05.09.2005, n. 4525).
Né emerge in alcun modo perché una siffatta situazione, evidentemente non generatasi improvvisamente, non possa essere, sempre che ne sussistano i presupposti, affrontata con i mezzi ordinari.
La violazione delle garanzie partecipative –qui di particolare pregnanza, atteso il valore sia ornamentale che economico delle storiche querce e comunque il costo immaginabile della rimozione delle piante e dell’estirpazione dei ceppi– è vizio conseguente.
3. In particolare, entrambi i provvedimenti si fondano su relazioni di servizio (rispettivamente nn. 1648 e 2986 del 17 giugno e 19.11.2010) in cui viene riportata la presenza di piante, in prevalenza querce secolari, site sulla scarpata a monte della strada, asserite comportare una situazione di pericolo per l’incolumità pubblica a causa del fatto che sono «inclinate verso la carreggiata stradale» e tali da impedire «anche la visibilità, essendo poste in curva» e, nella seconda relazione, anche il passaggio degli autoveicoli con i loro rami «posti ad altezza inferiore ai limiti dettati dal codice della strada».
A supporto di queste asserite, eccezionali ed urgenti e non altrimenti fronteggiabili circostanze, non vi sono –e soltanto nella seconda relazione- altro che fotografie relative alla singola pianta, scattate ad una distanza talmente ravvicinata da impedire di verificare se effettivamente queste costituiscano un ostacolo alla visibilità o al transito viario. Quindi, entrambe le ordinanze, emesse nello stesso giorno della rispettiva relazione, recepiscono pedissequamente queste ultime.
4. A fronte di tali evidenti carenze nella rappresentazione dei presupposti necessari per l’esercizio del potere il Tribunale amministrativo ha accolto l’impugnativa dell’avv. Li. con motivazione condivisibile, puntuale e ben argomentata, in grado di resistere alle censure sollevate dal Comune di Roccantica con il presente appello.
In primo luogo, quest’ultimo adduce in contrario (I motivo d’appello) elementi di prova non citati nelle ordinanze impugnate, e cioè la relazione del vicino Comune di Poggio Catino del 10.09.2010, addirittura successivi alla sentenza appellata, come la relazione dei carabinieri di Casperia del 09.11.2011. Con ciò l’amministrazione tenta in modo inammissibile di integrare davanti al giudice la motivazione dei propri provvedimenti e viola al contempo il divieto di ius novorum sancito dall’art. 104, comma 2, Cod. proc. amm..
Inoltre, nell’accogliere le censure dedotte dall’avv. Li., il giudice di primo grado non ha operato alcuno sconfinamento in valutazioni discrezionali, ma bene ha riscontrato vizi evidenti quali la violazione delle garanzie partecipative, la carenza di presupposti, l’insufficiente istruttoria e lo sviamento di potere, del tutto sindacabili nell’ambito della giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo.
5. L’indimostrata sussistenza dei presupposti per emettere le ordinanze contingibili oggetto del presente giudizio, non supplita dalle prove offerte dal Comune di Roccantica di cui al motivo sopra esaminato, impedisce di invocare fondatamente la “sanatoria processuale” prevista dall’art. 21-octies, comma 2, l. n. 241 del 1990 (II motivo d’appello).
A questo specifico riguardo, occorre soggiungere che le censure con cui l’originario ricorrente aveva lamentato di non avere potuto esercitare le ricordate garanzie partecipative procedimentali assumono rilievo sostanziale, alla luce dell’assenza di elementi istruttori a base dei provvedimenti impugnati in grado di rappresentare in modo adeguato una effettiva situazione di pericolo per la pubblica incolumità.
6. Alla luce di tale fondamentale carenza è quindi vano invocare il principio secondo cui l’errata indicazione delle norme fondanti l’esercizio del potere non comporta invalidità dell’atto amministrativo quando i relativi presupposti sono chiaramente espressi nella motivazione dello stesso (III motivo d’appello).
Infatti, alla luce di quanto sinora rilevato, difetta proprio il presupposto che avrebbe legittimato il sindaco del Comune di Roccantica ad avvalersi degli eccezionali poteri di ordinanza ex art. 54.
7. Da ultimo, nemmeno può sostenersi che la seconda ordinanza sarebbe comunque riconducibile al potere di cui all’art. 29 Cod. strada, in essa richiamato.
La disposizione prevede pone a carico dei proprietari confinanti con la strada il dovere di manutenzione delle piante ed in particolare di potatura dei rami «che si protendono oltre il confine stradale e che nascondono la segnaletica o che ne compromettono comunque la leggibilità dalla distanza e dalla angolazione necessarie».
Ma come per il pericolo per l’incolumità pubblica, ed in disparte i sintomi di sviamento evincibili dal promiscuo ed apodittico richiamo a quest’ultima dedotti in primo grado dall’avv. Li., neanche a dimostrazione di questo presupposto sono forniti nell’ordinanza e negli atti presupposti elementi istruttori adeguati (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 22.03.2016 n. 1189 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Moralità, oneri legittimi? Quesito del Cds alla corte di giustizia ue.
A rischio di legittimità comunitaria le norme del codice dei contratti pubblici che impongo oneri per gli ex amministratori di imprese concorrenti ai fini della verifica della moralità professionali.

Potrebbe essere questo l'esito della pronuncia Ue richiesta dal Consiglio di Stato, Sez. VI, con l'ordinanza 21.03.2016 n. 1160.
La Corte di giustizia dovrà quindi esaminare la questione pregiudiziale di compatibilità comunitaria in merito alla disciplina dell'art. 38 del dlgs 12.04.2006, n. 163 sulla cosiddetta moralità professionale degli ex amministratori di imprese concorrenti.
In particolare, i giudici hanno chiesto alla Corte europea di chiarire in primo luogo se contrasti con la vigente direttiva 2004/18/Ce la norma che estende il contenuto dell'obbligo dichiarativo sull'assenza di sentenze definitive di condanna (comprese le sentenze di applicazione della pena su richiesta delle pari), per i reati che incidono sulla moralità professionale, ai soggetti titolari di cariche nell'ambito delle imprese concorrenti, cessati dalla carica nell'anno antecedente la pubblicazione del bando, configurando anche una correlativa causa di esclusione dalla gara, qualora l'impresa non dimostri che vi sia stata completa ed effettiva dissociazione dalla condotta penalmente sanzionata di tali soggetti.
Per i giudici italiani va chiarito se sia corretto rimettere alla discrezionalità della stazione appaltante la valutazione sull'integrazione della condotta dissociativa che consente alla stazione appaltante di introdurre, su un piano effettuale, a pena di esclusione dalla gara oneri informativi e dichiarativi relativi a vicende penali non ancora definite con sentenza irrevocabile (e, quindi, per definizione di esito incerto), non previsti dalla legge neppure in ordine ai soggetti in carica; oneri di dissociazione spontanea, indeterminati quanto alla tipologia delle condotte scriminanti, al relativo riferimento temporale (anche anticipato rispetto al momento di irrevocabilità della sentenza penale) e alla fase della procedura in cui devono essere assolti; e infine oneri di leale collaborazione dal contorno indefinito, se non con richiamo alla clausola generale della buona fede» (articolo ItaliaOggi del 25.03.2016).
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MASSIMA
7. Nel merito, ritiene il Collegio che nella presente controversia assuma carattere pregiudiziale la questione della compatibilità con il diritto euro-unitario della previsione dell’art. 38, comma 1, lett. c), d.lgs. 12.04.2006, n. 163, come modificato dall’art. 4, comma 2, lett. b), d.l. 13.05.2011, convertito nella legge 12.07.2011, n. 106, applicabile ratione temporis alla fattispecie sub iudice (v. sopra sub § 1.3.), nella parte in cui estende ai soggetti cessati dalle cariche sociali ivi specificate nell’anno antecedente la pubblicazione del bando di gara la causa di esclusione costituita dalla pronuncia di sentenza di condanna passata in giudicato, di decreto penale di condanna divenuto irrevocabile, oppure di sentenza di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell’art. 444 Cod. proc. pen., per i reati contemplati nella citata disposizione legislativa, «qualora l’impresa non dimostri che vi sia stata completa ed effettiva dissociazione della condotta penalmente sanzionata» (così, testualmente, la citata disposizione).
Come già esposto sopra sub § 1.4., nella specie viene in rilievo la posizione dell’ing. B. in seno alla Mantovani, il quale vi aveva rivestito la carica di amministratore delegato munito di rappresentanza legale fino al 06.03.2013 –dunque entro l’anno antecedente la pubblicazione del bando, avvenuta il 15.07.2013–, data delle sue dimissioni ‘forzate’ in seguito a misure cautelari restrittive della libertà personale cui lo stesso è stato assoggettato pochi giorni prima per i reati che hanno condotto alla pronuncia della sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti.
Tale sentenza, pronunciata dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Venezia il 05.12.2013 in camera di consiglio (e, dunque, non in udienza pubblica dibattimentale), è stata pubblicata completa di motivazione in data 03.02.2014 e divenuta irrevocabile il 29.03.2014, quindi successivamente alle dichiarazioni sull’assenza di cause ostative ex art. 38, comma 1, lett. c), d.lgs. n. 163 del 2006, rese dal legale rappresentante della Mantovani il 4 ed il 16.12.2013, con conseguente inconfigurabilità della causa escludente della falsità delle dichiarazioni rese in sede di gara, sorgendo l’obbligo dichiarativo solo con l’irrevocabilità delle sentenze penali contemplate dalla citata disposizioni normativa (infatti, anche l’art. 45 della Direttiva 2004/18/CE richiede la definitività della sentenza penale).
Sebbene la pendenza del procedimento penale fosse di pubblico dominio ancora prima della pubblicazione e del passaggio in giudicato della sentenza penale nei confronti dell’ex-amministratore –tant’è che l’autorità di gara, sin dalla seduta del 09.01.2014, ha ammesso l’a.t.i. Mantovani con riserva alle ulteriori fasi di gara (v. sopra sub § 1.5.), in funzione del chiarimento della posizione dell’ex-amministratore–, e sebbene la stazione appaltante, nell’esercizio dei poteri istruttori, avesse acquisito il certificato del casellario giudiziale relativo all’ing. B. (con richiesta dell’08.05.2014 alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Bolzano; v. doc. 7 del fasc. di primo grado), da cui risultava la pronuncia della sentenza penale a carico di quest’ultimo (e la data in cui la stessa era divenuta irrevocabile), la stazione appaltante, a scioglimento della riserva, ha escluso l’a.t.i. Mantovani dalla gara in ragione dell’insufficiente e tardiva dimostrazione della dissociazione dalla condotta penalmente rilevante dell’ex amministratore ing. B., desunta principalmente dall’elemento indiziario costituito dalla mancata tempestiva comunicazione alla stazione appaltante degli eventi penalmente rilevanti concernenti tale soggetto, qualificata come violazione del dovere di leale collaborazione con la stazione appaltante (v. p. verbale del 27.02.2015), alla cui luce gli atti indicati dall’a.t.i. Mantovani come dissociativi nella memoria procedimentale del 10.06.2006 sono stati ritenuti inadeguati e tardivi.
La motivazione della stazione appaltante si muove in sostanziale aderenza all’interpretazione dell’art. 38, comma 1, lett. c), d.lgs. n. 163 del 2006 nella parte concernente i soggetti cessati dalla carica nell’anno antecedente la pubblicazione del bando, fornita dall’Autorità di vigilanza nel parere del 27.02.2015 (v. sopra sub § 1.10.) in risposta al secondo quesito formulato dalla stazione appaltante, nonché in aderenza all’ivi richiamato orientamento giurisprudenziale.
Orbene, ritiene il Collegio che, ai fini della decisione della causa, in particolare ai fini della decisione del motivo d’appello sub § 3.a), sia necessario investire la Corte di Giustizia dell’Unione Europea della questione pregiudiziale comunitaria sulla compatibilità con il diritto dell’Unione Europea di una normativa nazionale, quale quella dell’art. 38, comma 1, lett. c), d.lgs. n. 163 del 2006, nella parte in cui estende il contenuto dell’ivi previsto obbligo dichiarativo sull’assenza di sentenze definitive di condanna (comprese le sentenze di applicazione della pena su richiesta delle pari) ai soggetti titolari di cariche nell’ambito delle imprese concorrenti, cessati dalla carica nell’anno antecedente la pubblicazione del bando, e configura una correlativa causa di esclusione dalla gara, qualora l’impresa non dimostri che vi sia stata completa ed effettiva dissociazione dalla condotta penalmente sanzionata, rimettendo alla discrezionalità della stazione appaltante la valutazione sull’integrazione della condotta dissociativa, che consente alla stazione appaltante –anche alla luce del sopra citato parere dell’Autorità di Vigilanza e dell’ivi richiamata giurisprudenza nazionale– di introdurre, su un piano effettuale, a pena di esclusione dalla gara:
(i) oneri informativi e dichiarativi relativi a vicende penali non ancora definite con sentenza irrevocabile (e, quindi, per definizione di esito incerto), non previsti dalla legge neppure in ordine ai soggetti in carica;
(ii) oneri di dissociazione spontanea, indeterminati quanto alla tipologia delle condotte scriminanti, al relativo riferimento temporale (anche anticipato rispetto al momento di irrevocabilità della sentenza penale) e alla fase della procedura in cui devono essere assolti;
(iii) oneri di leale collaborazione dal contorno indefinito, se non con richiamo alla clausola generale della buona fede.
Quali parametri del giudizio di compatibilità con il diritto dell’Unione Europea vengono in rilievo l’art. 45, paragrafi 2, lettere c) e g), e 3, lett. a) della Direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 31.03.2004 del 31.03.2004 –applicabile ratione temporis alla fattispecie dedotta in giudizio– ed i principi di diritto europeo di tutela del legittimo affidamento e di certezza del diritto, di parità di trattamento, di proporzionalità e di trasparenza, di divieto di aggravio del procedimento e di massima apertura alla concorrenza del mercato degli appalti pubblici, nonché di tassatività e determinatezza delle fattispecie sanzionatorie.
Non ricorrendo le condizioni di esenzione del giudice di ultima istanza dall’obbligo di rinvio ai sensi dell’art. 267 del Trattato (cfr. Corte Giust., 06.10.1982, Cilfit, C-283/81; 15.09.2005, Intermodal Transports, C-495/03), la Corte di Giustizia deve essere investita delle seguenti questioni pregiudiziali ex art. 267 T.F.U.E. (in parte sollecitate dall’odierna appellante sia nell’atto d’appello, sia nella memoria del 19.11.2015, e in parte formulate d’ufficio): «
Se osti alla corretta applicazione dell’art. 45, paragrafi 2, lettere c) e g), e 3, lett. a) della Direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 31.03.2004 e dei principi di diritto europeo di tutela del legittimo affidamento e di certezza del diritto, di parità di trattamento, di proporzionalità e di trasparenza, di divieto di aggravio del procedimento e di massima apertura alla concorrenza del mercato degli appalti pubblici, nonché di tassatività e determinatezza delle fattispecie sanzionatorie, una normativa nazionale, quale quella dell’art. 38, comma 1, lett. c), d.lgs. 12.04.2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE) e successive modificazioni, nella parte in cui estende il contenuto dell’ivi previsto obbligo dichiarativo sull’assenza di sentenze definitive di condanna (comprese le sentenze di applicazione della pena su richiesta delle pari), per i reati ivi indicati, ai soggetti titolari di cariche nell’ambito delle imprese concorrenti, cessati dalla carica nell’anno antecedente la pubblicazione del bando, e configura una correlativa causa di esclusione dalla gara, qualora l’impresa non dimostri che vi sia stata completa ed effettiva dissociazione dalla condotta penalmente sanzionata di tali soggetti, rimettendo alla discrezionalità della stazione appaltante la valutazione sull’integrazione della condotta dissociativa che consente alla stazione appaltante di introdurre, su un piano effettuale, a pena di esclusione dalla gara:
   (i) oneri informativi e dichiarativi relativi a vicende penali non ancora definite con sentenza irrevocabile (e, quindi, per definizione di esito incerto), non previsti dalla legge neppure in ordine ai soggetti in carica;
   (ii) oneri di dissociazione spontanea, indeterminati quanto alla tipologia delle condotte scriminanti, al relativo riferimento temporale (anche anticipato rispetto al momento di irrevocabilità della sentenza penale) e alla fase della procedura in cui devono essere assolti;
   (iii) oneri di leale collaborazione dal contorno indefinito, se non con richiamo alla clausola generale della buona fede
».
Il Collegio reputa, altresì, opportuno precisare che la decisione di adire la Corte in via pregiudiziale spetta unicamente al giudice nazionale, a prescindere dal fatto che le parti del procedimento principale ne abbiano o meno formulato l’intenzione, con la conseguente ammissibilità della formulazione di questioni anche d’ufficio, senza attenersi ai quesiti proposti dalle parti.
Alla Corte di Giustizia della Unione Europea vanno perciò sottoposti i quesiti sopra formulati, e il presente giudizio va per l’effetto sospeso in attesa della relativa decisione.

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATAE' legittima l'ordinanza sindacale contingibile ed urgente che ha ingiunto al condominio di lasciare libera da cose e persone l’autorimessa di proprietà, in quanto priva delle necessarie autorizzazioni contro gli incendi.
Ciò poiché in atti risulta che ormai da molti mesi è in corso un carteggio tra il comune, il condominio e le autorità preposte alla sicurezza pubblica proprio relativamente allo stato dell’autorimessa condominiale; la certificazioni per gli incendi è scaduta da tempo, e l’amministrazione dello stabile non ha ottemperato alle ingiunzioni ricevute volte a conseguire la sanatoria della situazione irregolare in atto.

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E’ impugnata un’ordinanza contingibile e urgente con cui il sindaco del comune di Sanremo ha ingiunto al condominio di lasciare libera da cose e persone l’autorimessa di proprietà, in quanto priva delle necessarie autorizzazioni contro gli incendi.
In atti risulta che ormai da molti mesi è in corso un carteggio tra il comune, il condominio e le autorità preposte alla sicurezza pubblica proprio relativamente allo stato dell’autorimessa condominiale; la certificazioni per gli incendi è scaduta da tempo, e l’amministrazione dello stabile non ha ottemperato alle ingiunzioni ricevute volte a conseguire la sanatoria della situazione irregolare in atto.
Risulta da ciò che è sussistente la situazione di urgenza che ha indotto il sindaco a provvedere: nonostante i reiterati solleciti a non far uso del parcheggio sino al conseguimento dei titoli mancanti, lo spazio è tuttora impiegato per la sosta delle vetture, cosa che integra la situazione di rischio per l’incolumità.
Oltre a ciò va notata l’insussistenza dell’obbligo di inviare la previa comunicazione di avvio del procedimento, posto che la ricordata esistenza del risalente carteggio sulla questione aveva reso edotta l’amministrazione condominiale circa la possibilità dell’adozione dell’atto di che si tratta.
Consegue da ciò che era necessario per l’autorità provvedere con un atto capace di far cessare l’uso improprio dello spazio condominiale tuttora in corso, sì che anche la censura di incompetenza del sindaco è infondata e va disattesa (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 19.03.2016 n. 268 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Sulla legittimità della gestione in autoproduzione del servizio di raccolta e trasporto dei rifiuti solidi urbani da parte degli enti locali, i quali possano operare anche in assenza di iscrizione all'Albo dei gestori ambientali.
A seguito dell'entrata in vigore dell'art. 34, c. 20, del d.l. n. 179/2012, non sussistono più limiti di sorta all'individuazione da parte degli Enti locali delle concrete modalità di gestione dei servizi pubblici locali di rispettivo interesse.
La citata disposizione ha quindi superato il pregresso orientamento (da ultimo rappresentato dall'art. 23-bis del d.l.n. 112 del 2008 e, in seguito, dall'art. 4 del d.l. n. 138 del 2011) il quale disciplinava in modo estremamente puntuale le modalità di gestione ammesse e limitava oltremodo il ricorso al modello dell'autoproduzione.
Al riguardo si richiama l'orientamento eurounitario secondo cui "un'autorità pubblica può adempiere ai compiti di interesse pubblico ad essa incombenti mediante propri strumenti senza essere obbligata a far ricorso ad entità esterne non appartenenti ai propri servizi e [può] farlo altresì in collaborazione con altre autorità pubbliche".
Il medesimo principio è stato ulteriormente ribadito al considerando 5 della c.d. direttiva settori classici 2014/24/UE secondo cui "è opportuno rammentare che nessuna disposizione della presente direttiva obbliga gli Stati membri ad affidare a terzi o a esternalizzare la prestazione di servizi che desiderano prestare essi stessi o organizzare con strumenti diversi dagli appalti pubblici ai sensi della presente direttiva".
Nel medesimo senso depone, inoltre, l'art. 2 della c.d. direttiva concessioni 2014/23/UE (significativamente rubricato 'Principio di libera amministrazione delle autorità pubbliche'), il quale riconosce in modo espresso la possibilità per le amministrazioni di espletare i compiti di rispettivo interesse pubblico: i) avvalendosi delle proprie risorse, ovvero ii) in cooperazione con altre amministrazioni aggiudicatrici, ovvero -ancora iii) mediante conferimento ad operatori economici esterni.
Si osservi che la direttiva da ultimo ricordata pone le tre modalità in questione su un piano di integrale equiordinazione, senza riconoscere alla modalità sub iii) valenza -per così dire- paradigmatica e, correlativamente, senza riconoscere alle modalità sub i) e ii) valenza eccettuale o sussidiaria.
Del resto, la giurisprudenza ha a propria volta stabilito che, stante l'abrogazione referendaria dell'art. 23-bis del d.l. n. 112/2008 e la declaratoria di incostituzionalità dell'art. 4 del d.l. n. 138/2011 e le ragioni del quesito referendario (lasciare maggiore scelta agli enti locali sulle forme di gestione dei servizi pubblici locali, anche mediante internalizzazione e società in house), è venuto meno il principio, con tali disposizioni perseguito, della eccezionalità del modello in house per la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica.
Nell'ambito dell'art. 212 del Codice dell'ambiente (d.lvo 03.04.2006, n. 152) non è individuabile alcuna prescrizione che impedisca in radice ai Comuni di esercitare le attività di raccolta e trasporto di rifiuti. La mancata inclusione dei Comuni nel novero degli enti che sono assoggettati a un regime abilitativo semplificato non significa che agli stessi sia in radice precluso l'esercizio delle richiamate attività, bensì -più semplicemente- che tali enti possano operare anche in assenza di iscrizione all'Albo.
Il parere del Comitato dell'Albo Nazionale dei gestori ambientali secondo cui i Comuni non sono ricompresi fra i destinatari dell'obbligo di iscrizione all'Albo deve esser correttamente inteso nel senso che gli stessi possano esercitare le relative attività senza dover soggiacere a un adempimento formale come quello dell'iscrizione (e tanto, anche alla luce del generale principio secondo cui "ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit") (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 15.03.2016 n. 1034 - link a www.dirittodeiservizipubbici.it).

APPALTI: Il requisito del pregresso svolgimento di prestazioni analoghe, previsto in un bando di gara, non può essere assimilato a quella di prestazioni identiche.
Nel caso in cui il bando di gara pubblica richieda quale requisito il pregresso svolgimento di prestazioni analoghe, tale nozione non può, se non con grave forzatura interpretativa, essere assimilata a quella di prestazioni identiche, dovendo dunque ritenersi soddisfatta la prescrizione ove il concorrente abbia comunque dimostrato lo svolgimento di servizi o forniture rientranti nel medesimo settore imprenditoriale o professionale cui afferisce (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 15.03.2016 n. 1030 - link a www.dirittodeiservizipubbici.it).

APPALTI SERVIZI: Sulla differenza tra la società in house e la società mista.
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Sull'ammissibilità dell'affidamento di un servizio pubblico (nel caso di specie per l'affidamento del servizio di igiene urbana) ad una società mista a condizione che si sia svolta in un'unica gara per la scelta del socio e per l'individuazione del determinato servizio da svolgere.
La differenza tra la società in house e la società mista consiste nel fatto che la prima agisce come un vero e proprio organo dell'amministrazione dal punto di vista sostanziale, mentre la diversa figura della società mista a partecipazione pubblica, in cui il socio privato è scelto con una procedura ad evidenza pubblica, presuppone la creazione di un modello nuovo, nel quale interessi pubblici e privati trovino convergenza.
In quest'ultimo caso, l'affidamento di un servizio ad una società mista è ritenuto ammissibile a condizione che si sia svolta una unica gara per la scelta del socio e l'individuazione del determinato servizio da svolgere, delimitato in sede di gara sia temporalmente che con riferimento all'oggetto.
La Corte di Giustizia ha, infatti, ritenuto l'ammissibilità dell'affidamento di servizi a società miste, a condizione che si svolga in unico contesto una gara avente ad oggetto la scelta del socio privato (socio non solo azionista, ma soprattutto operativo) e l'affidamento del servizio già predeterminato con obbligo della società mista di mantenere lo stesso oggetto sociale durante l'intera durata della concessione.
La chiave di volta del sistema è rappresentato dal fatto che l'oggetto sia predeterminato e non genericamente descritto, poiché altrimenti, è evidente, sarebbe agevole l'aggiramento delle regole pro-competitive a tutela della concorrenza.
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L'affidamento diretto di un servizio a una società mista non è incompatibile con il diritto comunitario, a condizione che la gara per la scelta del socio privato della società affidataria sia stata espletata nel rispetto dei principi di parità di trattamento, di non discriminazione e di trasparenza.
Inoltre, i criteri di scelta del socio privato si devono riferire non solo al capitale da quest'ultimo conferito, ma anche alle capacità tecniche di tale socio e alle caratteristiche della sua offerta in considerazione delle prestazioni specifiche da fornire, in guisa da potersi inferire che la scelta del concessionario risulti indirettamente da quella del socio medesimo (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 15.03.2016 n. 1028 - link a www.dirittodeiservizipubbici.it).

APPALTI SERVIZI: Sulla facoltà dell'amministrazione di revocare una gara per l'affidamento di un servizio.
La giurisprudenza ha da tempo valorizzato la facoltà dell'amministrazione di ripensare le modalità tecniche di erogazione e gestione di un determinato servizio e la volontà di provvedere in autoproduzione come plausibili giustificazioni della revoca degli atti di gara e degli atti successivi, e concludono per la sindacabilità di tali scelte solo in presenza di palesi e manifesti indici di irragionevolezza.
La revoca, in consonanza con i limiti che incontra l'esercizio del generale potere di autotutela amministrativa, deve essere adeguatamente motivata e supportata da idonea istruttoria circa la sussistenza dei presupposti di opportunità per svolgere l'attività mediante le strutture interne dell'ente: presupposti che ben possono essere individuati nella possibilità di conseguire forti risparmi di spesa attraverso la riorganizzazione e la internalizzazione o reinternalizzazione del servizio (TAR Toscana, Sez. I, sentenza 15.03.2016 n. 467 - link a www.dirittodeiservizipubbici.it).

PUBBLICO IMPIEGO: La commissione di concorso deve rispettare il principio del collegio perfetto anche nella fase di valutazione delle prove scritte.
Le operazioni concorsuali sono state precedute, in una precedente seduta, dalla suddivisione degli elaborati fra i membri della Commissione, ivi compresi i supplenti, ai fini di una loro correzione individuale che avrebbe costituito la “base” per le successive operazioni.
La Sezione è dell’avviso che tale modus procedendi non sia effettivamente compatibile col rispetto del principio del collegio perfetto che, per costante giurisprudenza, deve permeare in primo luogo e soprattutto le attività della Commissione di concorso nella fase di esame e valutazione delle prove d’esame da correggere.

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6. Scendendo all’esame del merito dell’appello dell’Agenzia delle Entrate, col primo mezzo si contesta l’avviso del giudice a quo il quale, muovendo dalla constatazione che nella specie i componenti supplenti risultavano aver partecipato a tutte le sedute della Commissione esaminatrice, unitamente a quelli effettivi, ha reputato integrata la violazione dell’art. 9, comma 5, del d.P.R. 09.05.1994, nr. 487, laddove si statuisce che “i supplenti intervengono alle sedute della commissione nelle ipotesi di impedimento grave e documentato degli effettivi”.
In contrario, la difesa erariale assume –anche richiamando pregressa giurisprudenza in materia- la non illegittimità della partecipazione dei supplenti, purché ne sia chiaramente indicata a verbale la qualità differenziandola da quella dei componenti effettivi (come avvenuto nel caso di specie), e anzi la sua opportunità in ragione di elementari principi di buon andamento dell’azione amministrativa, essendo utile che costoro si tengano edotti dei criteri e parametri seguiti dalla Commissione nelle operazioni di correzione, in modo da rendere più utile ed efficace il loro successivo subentro.
Tuttavia, la Sezione non può non rilevare che nel caso che qui occupa la partecipazione dei supplenti non ha avuto (o non ha avuto soltanto) una tale ratio e finalità, essendosi concretizzata in una costante integrazione della Commissione nel suo complesso: in altri termini, e come correttamente rilevato dal primo giudice, dall’esame dei verbali relativi alle operazioni di correzione emerge che la Commissione ha costantemente operato come un collegio “allargato” anche ai supplenti, ancorché di questi ultimi fosse sempre precisata tale qualità, di modo che apparentemente tutti i componenti si sono sempre espressi su tutte le prove, senza che sia possibile accertare quale sia il collegio che ha valutato ciascuna singola prova di esame (e, quindi, se e in quali casi i supplenti siano effettivamente subentrati in luogo dei componenti effettivi).
Inoltre, come meglio si vedrà al punto successivo, i componenti supplenti –con l’eccezione di uno di essi, cui erano assegnati anche altri compiti– hanno partecipato anche alla ripartizione delle tracce da correggere, ai fini della successiva lettura individuale, con cui si è realizzata l’ulteriore violazione del principio di collegialità.
7. A tale secondo aspetto afferisce il secondo motivo dell’appello dell’Agenzia delle Entrate, col quale si mira a dimostrare che il modus procedendi nella specie seguito dalla Commissione esaminatrice non sarebbe incompatibile con la necessaria collegialità che deve connotare le operazioni di correzione degli elaborati.
Si assume, in particolare, che dai verbali in atti si evincerebbe che la Commissione avrebbe dapprima proceduto ad una “verifica” collegiale di tutti gli elaborati, individuando e definendo i criteri da seguire per la loro correzione, per poi procedere ad “una ulteriore valutazione” dei soli elaborati che all’esito della correzione presentavano determinate caratteristiche in termini di punteggio potenzialmente attribuibile (verbale nr. 11 del 30.08.2012), e quindi, in una seduta successiva, alla compilazione delle schede con l’assegnazione dei punteggi finali a tutte le prove esaminate (verbale nr. 12).
In contrario, parte appellata evidenzia che le operazioni così descritte sono state precedute, in una precedente seduta, dalla suddivisione degli elaborati fra i membri della Commissione, ivi compresi i supplenti, ai fini di una loro correzione individuale che avrebbe costituito la “base” per le successive operazioni (verbale nr. 8 del 04.06.2012).
La Sezione è dell’avviso che tale modus procedendi non sia effettivamente compatibile col rispetto del principio del collegio perfetto che, per costante giurisprudenza, deve permeare in primo luogo e soprattutto le attività della Commissione di concorso nella fase di esame e valutazione delle prove d’esame da correggere (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 12.11.2015, nr. 5137; id., sez. VI, 29.07.2009, nr. 4708; id., sez. IV, 12.03.2007, nr. 1218).
Ed invero, dalla consecutio logica delle risultanze dei verbali che si sono richiamati, emerge con evidenza che il momento centrale e qualificante delle operazioni di correzione è stato determinato, nella presente fattispecie, dalla preliminare suddivisione degli elaborati da correggere fra i componenti della Commissione, ai fini di una lettura individuale; che cosa sia avvenuto a valle di tale lettura individuale può evincersi solo induttivamente dai verbali successivi, ma la ricostruzione più ragionevole, contrariamente a quanto si assume dalla difesa erariale, porta a escludere che vi sia stato un pieno rispetto della regola del collegio perfetto.
Infatti, non è chiaro in che cosa sia consistita quella “verifica” collegiale di tutti gli elaborati, di cui si legge nel precitato verbale nr. 11 e su cui oggi insiste l’Amministrazione appellante: tuttavia, deve ragionevolmente escludersi che essa si sia tradotta in una integrale rilettura collegiale di tutte le prove già esaminate dai singoli componenti la Commissione, dal momento che è lo stesso verbale nr. 11 a precisare che “una ulteriore valutazione” collegiale vi fu solo per gli elaborati che presentavano, all’esito del vaglio preliminare condotto dal singolo commissario che li aveva letti, determinate caratteristiche sotto il profilo del punteggio attribuibile.
Di conseguenza, deve ritenersi che per gli altri elaborati, non rientranti nella predetta tipologia, la “verifica” in discorso sia consistita nella mera individuazione del punteggio di attribuire, nella migliore delle ipotesi sulla base di una sorta di “relazione” sintetica svolta dal componente che aveva letto la prova, nella peggiore recependone acriticamente e passivamente il giudizio; in entrambi i casi, la mancata sottoposizione al collegio della prova nella sua interezza integra lesione della regola del collegio perfetto (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 14.03.2016 n. 1011 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIRotazione non tassativa. Rinnovo appalti a trattativa privata.
In una procedura senza pubblicazione del bando di gara, l'applicazione del principio di rotazione non ha una valenza precettiva assoluta dal momento che prevalgono sempre le ragioni della massima concorrenza; pertanto il precedente affidatario può essere legittimamente invitato.

È quanto ha affermato il TAR Lazio-Roma, Sez. II, con la sentenza 11.03.2016 n. 3119 con riguardo all'applicazione del principio di rotazione nell'ambito di una gara (nel caso specifico si trattava di un affidamento tramite gara informale, indetta ai sensi dell'art. 30 del decreto legislativo n. 163/2006, per l'affidamento della concessione del servizio di rimozione veicoli in sosta d'intralcio a Roma, per la quale non è stata disposta la convalida dell'aggiudicazione provvisoria.
I giudici affermano che il principio di rotazione, essendo funzionale ad assicurare un certo avvicendamento delle imprese affidatarie, non ha una valenza precettiva assoluta per le stazioni appaltanti. Il Tar ha evidenziato quindi che l'episodica mancata applicazione del principio di rotazione non vale a inficiare gli esiti di una gara già espletata, una volta che questa si sia conclusa con l'aggiudicazione in favore di un soggetto già in precedenza invitato a simili selezioni, ovvero già affidatario del servizio.
Pertanto, se non vi siano situazioni particolari, quali per esempio precedenti inadempimenti contrattuali, non può essere invocata la mancata applicazione del principio per escludere un concorrente che chieda di essere invitato a partecipare a una procedura negoziata.
In definitiva, dice la sentenza, considerato che l'articolo 57, comma 6, del codice degli appalti (che disciplina la procedura negoziata senza bando e con inviti ad almeno cinque concorrenti) pone sullo stesso piano i principi di concorrenza e di rotazione, afferma che in ogni caso si devono sempre privilegiare i valori della concorrenzialità e della massima partecipazione. Da ciò discende quindi che in linea di massima non sussistono ostacoli a invitare (anche) il gestore uscente del servizio a prendere parte al nuovo confronto concorrenziale.
In definitiva, quindi, il principio di rotazione può essere considerato recessivo rispetto all'esigenza di assicurare la massima concorrenza, invitando anche il precedente affidatario del contratto, scaduto (articolo ItaliaOggi del 18.03.2016).
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MASSIMA
9. Né può ritenersi che la decisione della stazione appaltante sia adeguatamente supportata dalla volontà di applicare il principio di rotazione degli operatori economici da invitare nelle procedure negoziate, espressamente richiamato dall’art. 57, comma 6, del codice degli appalti. Difatti la giurisprudenza ha precisato che
il principio di rotazione, essendo funzionale ad assicurare un certo avvicendamento delle imprese affidatarie, non ha una valenza precettiva assoluta per le stazioni appaltanti, di guisa che:
A)
la sua episodica mancata applicazione non vale ex se ad inficiare gli esiti di una gara già espletata, una volta che questa si sia conclusa con l’aggiudicazione in favore di un soggetto già in precedenza invitato a simili selezioni, ovvero già affidatario del servizio (Cons. Stato, Sez. VI, 28.12.2011, n. 6906);
B)
in difetto di situazioni particolari, riscontrabili ad esempio in ipotesi di precedenti inadempimenti contrattuali, non può essere invocato sic et simpliciter per escludere un concorrente che chieda di essere invitato a partecipare ad una procedura negoziata (TAR Lombardia Brescia, Sez. II, 14.10.2015, n. 1325; TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, 16.01.2015, n. 179; TAR Molise Campobasso, Sez. I, 17.04.2014, n. 269).
In definitiva,
posto che l’art. 57, comma 6, del codice degli appalti pone sullo stesso piano i principi di concorrenza e di rotazione, la prevalente giurisprudenza si è ripetutamente espressa nel senso di privilegiare i valori della concorrenzialità e della massima partecipazione, per cui in linea di massima non sussistono ostacoli ad invitare (anche) il gestore uscente del servizio a prendere parte al nuovo confronto concorrenziale.
Ciò posto, il Collegio ritiene che nel caso in esame il principio di rotazione non possa essere utilmente invocato per giustificare il mancato invito della ricorrente in quanto la stessa nel quinto motivo del ricorso introduttivo, oltre ad eccepire che ha regolarmente gestito il servizio per oltre dieci anni, ha eccepito di essere il principale operatore del settore attivo sul territorio capitolino, circostanza che trova riscontro nel fatto che sia l’unico soggetto che ha presentato un offerta nella prima gara.
Pertanto il suo invito, lungi dal pregiudicare l’applicazione del principio di rotazione, avrebbe semmai favorito la concorrenza.

APPALTI: La connotazione di consorzio stabile comporta l’esecuzione delle prestazioni contrattuali ad opera di un soggetto affidatario costituito in forma collettiva, che stipula il contratto in nome proprio e per conto delle consorziate, con la conseguenza che ai fini della verifica dei requisiti di qualificazione, atti a comprovare la capacità tecnica e la solidità generale, il consorzio può cumulare quelli posseduti dalle imprese consorziate e usufruirne in proprio.
Di conseguenza la giurisprudenza ha chiarito che
anche i consorzi stabili, se in forza della natura di soggetto collettivo legittimamente cumulano indistintamente i requisiti tecnici e finanziari delle imprese consorziate, devono tuttavia comprovare il possesso dei requisiti generali di cui all’art. 38 del codice degli appalti in capo ad esse; del resto, se così non fosse, per gli operatori economici privi dei requisiti di cui all’art. 38 risulterebbe agevole, anziché concorrere direttamente andando incontro a sicura esclusione, aderire ad un consorzio da utilizzare come «copertura elusiva» dell’obbligo di possedere i requisiti generali.
Di conseguenza, posto che l’affidabilità morale rappresenta un requisito ineludibile e specifico per ogni singolo esecutore, la carenza dei requisiti di cui all’art. 38 in capo alle imprese consorziate indicate come esecutrici dell’appalto non può non comportare l’esclusione del consorzio stabile.
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4. Poste tali premesse, occorre procedere innanzi tutto all’esame dei primi due motivi del ricorso introduttivo (riproposti con i motivi aggiunti), con i quali la società CLT censura la sua esclusione dalla prima gara.
In proposito il Collegio ritiene che non possa essere accolto il primo motivo (che avrebbe carattere assorbente), con il quale la ricorrente -sulla base di un’articolata ricostruzione della disciplina relativa ai consorzi stabili- perviene ad affermare che, anche in ragione della peculiare natura della gara in questione (procedura negoziata, indetta ai sensi dell’art. 30 del codice degli appalti), la stazione appaltante, invece di disporre l’esclusione della ricorrente stessa in ragione della asserita carenza dei requisiti generali in capo a due delle consorziate indicate nell’offerta, ben avrebbe potuto limitarsi a precludere l’esecuzione del servizio alle due consorziate, oppure chiedere alla ricorrente di revocare la dichiarazione presentata in sede di offerta, nella parte in cui essa dichiara di concorrere anche per conto delle predette consorziate.
Difatti, secondo la giurisprudenza (ex multis, Cons. Stato, Sez. V, 22.01.2015, n. 244; id., Sez. III, 04.03.2014, n. 1030),
la connotazione di consorzio stabile comporta l’esecuzione delle prestazioni contrattuali ad opera di un soggetto affidatario costituito in forma collettiva, che stipula il contratto in nome proprio e per conto delle consorziate, con la conseguenza che ai fini della verifica dei requisiti di qualificazione, atti a comprovare la capacità tecnica e la solidità generale, il consorzio può cumulare quelli posseduti dalle imprese consorziate e usufruirne in proprio.
Di conseguenza la giurisprudenza (Cons. Stato, Sez. IV, 13.10.2015, n. 4703) ha chiarito che
anche i consorzi stabili, se in forza della natura di soggetto collettivo legittimamente cumulano indistintamente i requisiti tecnici e finanziari delle imprese consorziate, devono tuttavia comprovare il possesso dei requisiti generali di cui all’art. 38 del codice degli appalti in capo ad esse; del resto, se così non fosse, per gli operatori economici privi dei requisiti di cui all’art. 38 risulterebbe agevole, anziché concorrere direttamente andando incontro a sicura esclusione, aderire ad un consorzio da utilizzare come «copertura elusiva» dell’obbligo di possedere i requisiti generali.
Di conseguenza, posto che l’affidabilità morale rappresenta un requisito ineludibile e specifico per ogni singolo esecutore, la carenza dei requisiti di cui all’art. 38 in capo alle imprese consorziate indicate come esecutrici dell’appalto non può non comportare l’esclusione del consorzio stabile.

Né giova alla ricorrente far leva sul fatto che l’art. 38 non sia espressamente richiamato dall’art. 30, comma 1, del codice degli appalti. Difatti il terzo comma dell’art. 30 prevede espressamente che la scelta del concessionario deve avvenire “nel rispetto dei principi desumibili dal Trattato e dei principi generali relativi ai contratti pubblici” e la stessa ricorrente finisce per ammettere che le disposizioni dell’art. 38 -nel richiedere il possesso dei requisiti di ordine generale- costituiscono espressione di un principio di carattere generale e di matrice comunitaria, come tale senz’altro applicabile anche alle procedure per l’affidamento delle concessioni.
Pertanto resta solo da evidenziare che -qualora si accedesse all’ulteriore prospettazione della ricorrente, secondo la quale nelle procedure per l’affidamento delle concessioni il principio sotteso all’art. 38 (secondo il quale sono esclusi dalla gara i soggetti privi dei requisiti generali) comunque non implica che la carenza dei requisiti generali in capo ad uno dei consorziati designati per l’esecuzione dell’appalto determini automaticamente l’esclusione del consorzio stabile- in tali procedure si riproporrebbe il rischio dell’adesione al consorzio come mero espediente per eludere l’applicazione del principio sotteso all’art. 38 (TAR Lazio-Roma, Sez. II, sentenza 11.03.2016 n. 3119 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Con riferimento al requisito di regolarità fiscale di cui all’art. 38, comma 1, lett. g), del codice degli appalti, costituiscono violazioni definitivamente accertate quelle relative all’obbligo di pagamento di debiti per imposte e tasse certi, scaduti ed esigibili.
Infatti,
solo in tal caso l’inadempimento tributario può ritenersi indicativo del mancato rispetto degli obblighi relativi al pagamento di imposte e tasse, mentre non è sufficiente la circostanza che l’operatore economico sia destinatario di una cartella esattoriale, attesa la necessità non solo che la pendenza con l’Erario sia stata debitamente accertata dai competenti organi come esistente ad una determinata data, ma anche che la pretesa tributaria si sia consolidata in favore della Amministrazione finanziaria per l’inutile decorso del termine di impugnazione.
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Si deve rammentare che, secondo la giurisprudenza
, l’impresa che abbia ottenuto una rateizzazione del debito tributario deve essere considerata in regola ai fini della presentazione della domanda di partecipazione alla gara, stante il valore novativo che tali atti assumono, fermo restando che la sussistenza del requisito della regolarità fiscale deve essere valutata con riferimento al momento ultimo per la presentazione delle offerte; pertanto la mera presentazione di una richiesta di rateizzazione del debito tributario non esclude -anzi conferma- il carattere della definitività del debito stesso, perché la rateizzazione implica la certezza dell’ammontare e dell’esistenza della pretesa erariale, la quale non può essere più contestata in sede giudiziale, e non è comunque pienamente certo il suo accoglimento prima della adozione del relativo atto, con l’ulteriore conseguenza che la dichiarazione di non aver commesso infrazioni definitivamente accertate non può essere validamente resa prima dell’effettivo accoglimento della domanda di rateizzazione.
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5. Passando al secondo motivo di ricorso -con il quale la ricorrente mira a dimostrare l’insussistenza delle violazioni gravi rispetto agli obblighi tributari, che la stazione appaltante ha ritenuto “definitivamente accertate” in capo alle consorziate Al. e Au. e che hanno determinato la sua esclusione dalla gara ai sensi dell’art. 38, comma 1, lett. g), del codice degli appalti- il Collegio preliminarmente osserva che non vi è motivo per disporre l’integrazione del contraddittorio nei confronti dell’Agenzia delle Entrate o per disporre l’esecuzione una verificazione sulla posizione fiscale delle predette consorziate, potendosi ritenere la stessa già adeguatamente acclarata in base alla documentazione versata in atti.
Ciò premesso il Collegio osserva innanzi tutto che,
con riferimento al requisito di regolarità fiscale di cui all’art. 38, comma 1, lett. g), del codice degli appalti, costituiscono violazioni definitivamente accertate quelle relative all’obbligo di pagamento di debiti per imposte e tasse certi, scaduti ed esigibili (cfr. parere dell’ANAC n. 199 del 05.12.2012).
Infatti,
solo in tal caso l’inadempimento tributario può ritenersi indicativo del mancato rispetto degli obblighi relativi al pagamento di imposte e tasse, mentre non è sufficiente la circostanza che l’operatore economico sia destinatario di una cartella esattoriale, attesa la necessità non solo che la pendenza con l’Erario sia stata debitamente accertata dai competenti organi come esistente ad una determinata data, ma anche che la pretesa tributaria si sia consolidata in favore della Amministrazione finanziaria per l’inutile decorso del termine di impugnazione.
Ne consegue che, con particolare rifermento alla posizione della società Al. -sebbene nell’attestazione dell’Agenzia delle Entrate in data 07.08.2015 (richiamata nella richiesta di chiarimenti formulata dalla stazione appaltante con nota del 14.08.2015) venga qualificata come «violazione definitivamente accertata» la seguente annotazione «Ricorso avverso l’AVV. RETT. E LIQ. 2007 S. 1T N. 001067-000 A 001 per l’anno d’imposta 2007, relativo alla società in oggetto deciso in I Grado con esito parzialmente favorevole all’ufficio con importo accertato di Euro 215.284,00»- tuttavia dal riferimento espresso ad un avviso di rettifica e liquidazione, contenuto in tale annotazione, ben si poteva desumere che il predetto importo di euro 215.284,00 non equivaleva ad un debito di natura tributaria accertato nei confronti della predetta società, bensì al valore accertato dall’Agenzia delle Entrate, in relazione all’acquisto di un terreno da parte della società stessa, peraltro rideterminato dalla Commissione Tributaria Provinciale di Roma, a seguito di ricorso presentato dalla medesima società, in euro 182.122,50.
Coglie, quindi, nel segno la ricorrente quando afferma che tale annotazione non consentiva alla stazione appaltante di ritenere che la società Al. fosse priva del requisito della regolarità fiscale al momento della presentazione dell’offerta, perché -come si può evincere dalla attestazione della medesima Agenzia delle Entrate in data 13.11.2015 (versata in atti anche da Roma Capitale)- solo in tale data l’Agenzia delle Entrate ha provveduto alla iscrizione a ruolo della somma complessiva di euro 38.297,99 a titolo di imposte, interessi e sanzioni.
6. Diverse considerazioni valgono -come già sommariamente indicato da questa Sezione nell’ordinanza cautelare n. 5676 del 2015- per la posizione della società Autoturismo, in relazione alla quale la stazione appaltante ha correttamente ritenuto di poter desumere la mancanza del requisito della regolarità fiscale non solo dall’attestazione dell’Agenzia delle Entrate in data 13.08.2015, richiamata nella richiesta di chiarimenti formulata con nota del 20.08.2015, ma anche dalla risposta a tale richiesta fornita dalla predetta società con nota del 10.09.2015.
Difatti
si deve rammentare che, secondo la giurisprudenza (ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, 18.11.2011, n. 6084; TAR Campania Napoli, sez. II, 13.09.2013, n. 4269), l’impresa che abbia ottenuto una rateizzazione del debito tributario deve essere considerata in regola ai fini della presentazione della domanda di partecipazione alla gara, stante il valore novativo che tali atti assumono, fermo restando che la sussistenza del requisito della regolarità fiscale deve essere valutata con riferimento al momento ultimo per la presentazione delle offerte; pertanto la mera presentazione di una richiesta di rateizzazione del debito tributario non esclude -anzi conferma- il carattere della definitività del debito stesso, perché la rateizzazione implica la certezza dell’ammontare e dell’esistenza della pretesa erariale, la quale non può essere più contestata in sede giudiziale, e non è comunque pienamente certo il suo accoglimento prima della adozione del relativo atto, con l’ulteriore conseguenza che la dichiarazione di non aver commesso infrazioni definitivamente accertate non può essere validamente resa prima dell’effettivo accoglimento della domanda di rateizzazione.
Ciò posto, con riferimento alla fattispecie in esame non può farsi a meno di evidenziare che la società Au. -nel fornire i chiarimenti richiesti dalla stazione appaltante con la suddetta nota del 20.08.2015, in relazione al contestato mancato pagamento delle cartelle esattoriali n. 09720140092209401 (relativa ad un importo pari ad euro 14.445,05) e n. 09720130292330353 (relativa ad un importo pari ad euro 22.572,91)- si è limitata a rappresentare soltanto che le cartelle stesse «sono in fase di istruttoria per la rateizzazione. Sarà premura di questa Società trasmettere copia dell’avvenuta rateizzazione di rateizzazione non appena l’Agenzia delle Entrate restituirà l’apposita modulistica», senza fare alcun cenno all’intenzione di impugnare tali cartelle esattoriali innanzi alla competente Commissione Tributaria.
Risulta quindi evidente che:
A) da un lato, è stata la stessa società Autoturismo a fornire alla stazione appaltante gli elementi in base ai quali essa è stata ritenuta non in possesso del requisito di cui all’art. 38, comma 1, lett. g), del codice degli appalti;
B) dall’altro, nessun rilievo può assumere -ai fini della valutazione della legittimità dell’esclusione della società ricorrente- il fatto che la Commissione Tributaria Provinciale di Roma abbia provveduto dapprima a sospendere le predette cartelle, con il decreto presidenziale n. 2638/4/15 del 18.11.2015, e poi a dichiararle inefficaci con la sentenza n. 2330/4/16 del 04.02.2016.
Difatti tali provvedimenti giurisdizionali sono successivi non solo alla scadenza del termine ultimo per la presentazione delle offerte (05.05.2015), ma anche all’adozione dell’impugnata determinazione dirigenziale n. 1498 del 03.11.2015 (TAR Lazio-Roma, Sez. II, sentenza 11.03.2016 n. 3119 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 38 dpr 380/2001 prevede l’irrogazione della sanzione pecuniaria alternativa all’ordinanza di demolizione in caso di annullamento del permesso di costruire solo “qualora non sia possibile, in base a motivata valutazione, la rimozione dei vizi delle procedure amministrative o la restituzione in pristino”; e, dunque, come è fatto palese dal tenore letterale della norma e come la condivisibile giurisprudenza ha avuto modo di precisare, la fiscalizzazione dell’abuso edilizio può riguardare solo vizi formali e procedurali e non sostanziali, e le ipotesi in cui soltanto una parte del fabbricato risulti abusiva e nel contempo risulti obiettivamente verificato che la demolizione di tale parte esporrebbe a serio rischio la residua parte legittimamente assentita.
La più recente giurisprudenza del Consiglio di Stato ha, poi, precisato che anche in caso di annullamento del titolo edilizio per vizi sostanziali la sanatoria (recte, la rinnovazione del titolo, l’emanazione di un nuovo permesso di costruire) è consentita, qualora si sia trattato di vizi emendabili, che possono essere rimossi, mentre è preclusa qualora si tratti di vizi inemendabili.
L’art. 38, secondo tale orientamento, è applicabile anche nel caso di annullamento per vizi sostanziali, purché emendabili, dovendosi procedere invece al ripristino a fronte di vizi inemendabili.
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La sanzione demolitoria prevista dalla norma, quale effetto primario e naturale derivante dall’annullamento del permesso di costruire (così come dalla sua mancanza ab origine: cfr. art. 31, comma 2, del d.p.r. n. 380/2001 cit.), non richiede all’amministrazione un particolare impegno motivazionale, ma rinviene nella legalità violata la sua giustificazione in re ipsa.
Ed invero, nel caso di annullamento del titolo abilitativo edilizio, in disparte l'ipotesi di vizi di ordine meramente procedurale e formale (o, al più, secondo la recente giurisprudenza citata, anche di vizi sostanziali emendabili), non ricorrente nella fattispecie in esame, il modello legale tipico di atto consequenziale è proprio quello dell'ordine di ripristino dello stato dei luoghi, in quanto unico atto idoneo ad arrecare una piena soddisfazione all'interesse pubblico alla rimozione delle opere in contrasto con la disciplina urbanistica; cosicché, ove lo sviluppo attuativo del pregresso annullamento della concessione si incanali nell’alveo naturale della riduzione in pristino, nessun onere di specifica motivazione ricade sull’amministrazione procedente, il cui operato è obbligatoriamente scandito dallo stesso legislatore; mentre, solo in presenza di circostanze peculiari ed eccezionali, idonee ad accreditare l’oggettiva impossibilità di attuare la misura ordinaria della riduzione in pristino, sarà possibile accedere alla misura residuale della sanzione pecuniaria, occorrendo, però, in siffatta evenienza, giustificare la deroga alla soluzione di ‘tutela reale’ privilegiata dal legislatore, mediante una congrua motivazione che dia adeguatamente conto delle valutazioni effettuate.
L’applicabilità della sanzione alternativa pecuniaria è, invece, prevista dall’art. 38, comma 1, del d.p.r. n. 380/2001 per l’ipotesi in cui soltanto una parte di un fabbricato risulti abusivamente realizzata e risulti, nel contempo, accertato che la sua demolizione esporrebbe a serio rischio statico la residua parte legittima del fabbricato medesimo, e non già per il caso –verificatosi nella specie– in cui l’intera opera sia stata assentita mediante titolo abilitativo edilizio annullato; né, peraltro, risulta in concreto dimostrata da parte ricorrente l’effettiva e insuperabile impossibilità tecnica del ripristino dello stato dei luoghi, giustificativa dell’irrogazione della misura alternativa pecuniaria.

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Con il primo motivo i ricorrenti hanno dedotto che l’Amministrazione avrebbe dovuto procedere, in applicazione del disposto dell’art. 38 D.P.R. 380/2001, all’irrogazione di una sanzione pecuniaria, in luogo della demolizione del manufatto divenuto abusivo.
Il motivo è infondato.
Come già evidenziato da questa Sezione con la sentenza n. 33/2015, l’art. 38 citato prevede l’irrogazione della sanzione pecuniaria alternativa all’ordinanza di demolizione in caso di annullamento del permesso di costruire solo “qualora non sia possibile, in base a motivata valutazione, la rimozione dei vizi delle procedure amministrative o la restituzione in pristino”; e, dunque, come è fatto palese dal tenore letterale della norma e come la condivisibile giurisprudenza ha avuto modo di precisare, la fiscalizzazione dell’abuso edilizio può riguardare, contrariamente a quanto si reputa da parte ricorrente, solo vizi formali e procedurali e non sostanziali, e le ipotesi in cui soltanto una parte del fabbricato risulti abusiva e nel contempo risulti obiettivamente verificato che la demolizione di tale parte esporrebbe a serio rischio la residua parte legittimamente assentita (Cons. di Stato, Sez. V, 22/05/2006 n. 2960; TAR Liguria, 05/02/2011 n. 235; TAR Campania, Salerno, Sez. I, 19/04/2012 n. 738).
La più recente giurisprudenza del Consiglio di Stato ha, poi, precisato che anche in caso di annullamento del titolo edilizio per vizi sostanziali la sanatoria (recte, la rinnovazione del titolo, l’emanazione di un nuovo permesso di costruire) è consentita, qualora si sia trattato di vizi emendabili, che possono essere rimossi, mentre è preclusa qualora si tratti di vizi inemendabili (Cons. Stato, sez. VI, n. 4221/2015, sez. IV, n. 7131/2010).
L’art. 38, secondo tale orientamento, è applicabile anche nel caso di annullamento per vizi sostanziali, purché emendabili, dovendosi procedere invece al ripristino a fronte di vizi inemendabili.
Nel caso in esame, tuttavia, si verte pacificamente in ipotesi di vizi sostanziali non emendabili, posto che, come risulta chiaramente dalla sentenza n. 1099/2014 del Consiglio di Stato, il permesso annullato non poteva essere emesso in ragione della destinazione agricola dell’area e dell’incompatibilità, con la stessa, delle opere progettate.
Il Consiglio di Stato, infatti, ha rilevato che le NTA del PRG per la Zona E) - rurale prevedono che: “Gli interventi in queste zone devono essere rivolti allo sviluppo delle attività agricole-produttive ed alla tutela del territorio non edificato. Sono consentite esclusivamente le attività di coltivazione agricola, quelle residenziali connesse, nonché le attività di trasformazione e commercializzazione di prodotti agricoli di produzione propria. Sono consentite, altresì, le attività di tipo agrituristico, nel rispetto delle normative vigenti in materia".
Secondo la sentenza di appello “in base alla predetta disposizione, l’area in questione non poteva assolutamente essere finalizzata alla realizzazione di un piazzale destinato all'attività di deposito giudiziario ed amministrativo di autoveicoli in quanto si risolveva in una sostanziale inammissibile “deruralizzazione” dell’area”. Deve infatti ritenersi “del tutto inconciliabile con la finalità agricola, e non può dunque essere ammissibile, la realizzazione in area agricola di opere di battitura del terreno, riporto di sabbia e di materiali inerti con asfaltatura per la realizzazione di una pavimentazione per uno spessore di circa 50 cm.. La realizzazione del piazzale- deposito altera lo stato dei luoghi e costituisce un intervento di permanente trasformazione edilizia ed urbanistica del territorio disciplinato dall'art. 3 d.P.R. n. 380 del 2001 che, essendo subordinato al permesso di costruire, deve necessariamente rispettare le tipologie e le destinazioni d'uso funzionali consentite per la zona agricola. Nella specie la realizzazione di un parcheggio scoperto è assolutamente fuori dalle ipotesi di legittima utilizzazione che il proprietario ritenga di fare del proprio terreno”.
Acclarata la natura sostanziale e non emendabile del vizio riscontrato, deve aggiungersi che la sanzione demolitoria prevista dalla norma, quale effetto primario e naturale derivante dall’annullamento del permesso di costruire (così come dalla sua mancanza ab origine: cfr. art. 31, comma 2, del d.p.r. n. 380/2001 cit.), non richiede all’amministrazione un particolare impegno motivazionale, ma rinviene nella legalità violata la sua giustificazione in re ipsa.
Ed invero, nel caso di annullamento del titolo abilitativo edilizio, in disparte l'ipotesi di vizi di ordine meramente procedurale e formale (o, al più, secondo la recente giurisprudenza citata, anche di vizi sostanziali emendabili), non ricorrente nella fattispecie in esame, il modello legale tipico di atto consequenziale è proprio quello dell'ordine di ripristino dello stato dei luoghi, in quanto unico atto idoneo ad arrecare una piena soddisfazione all'interesse pubblico alla rimozione delle opere in contrasto con la disciplina urbanistica; cosicché, ove lo sviluppo attuativo del pregresso annullamento della concessione si incanali nell’alveo naturale della riduzione in pristino, nessun onere di specifica motivazione ricade sull’amministrazione procedente, il cui operato è obbligatoriamente scandito dallo stesso legislatore; mentre, solo in presenza di circostanze peculiari ed eccezionali, idonee ad accreditare l’oggettiva impossibilità di attuare la misura ordinaria della riduzione in pristino, sarà possibile accedere alla misura residuale della sanzione pecuniaria, occorrendo, però, in siffatta evenienza, giustificare la deroga alla soluzione di ‘tutela reale’ privilegiata dal legislatore, mediante una congrua motivazione che dia adeguatamente conto delle valutazioni effettuate (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. II, 21.03.2006, n. 3124).
L’applicabilità della sanzione alternativa pecuniaria è, invece, prevista dall’art. 38, comma 1, del d.p.r. n. 380/2001 per l’ipotesi in cui soltanto una parte di un fabbricato risulti abusivamente realizzata e risulti, nel contempo, accertato che la sua demolizione esporrebbe a serio rischio statico la residua parte legittima del fabbricato medesimo (Cons. Stato, sez. IV, 21.04.2008, n. 1776), e non già per il caso –verificatosi nella specie– in cui l’intera opera sia stata assentita mediante titolo abilitativo edilizio annullato; né, peraltro, risulta in concreto dimostrata da parte ricorrente l’effettiva e insuperabile impossibilità tecnica del ripristino dello stato dei luoghi, giustificativa dell’irrogazione della misura alternativa pecuniaria
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 10.03.2016 n. 1397 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti costituiscono atti vincolati, per la cui adozione non è necessario l'invio della comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell'atto, anche alla luce del disposto dell'art. 21-octies legge 241/1990 che osta all’annullamento degli atti di natura vincolata per violazioni formali.
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Circa la doglianza relativa alla disparità di trattamento che l’Amministrazione comunale avrebbe operato autorizzando la sanatoria di altro immobile adibito ad uso palestra, nonostante anche in tal caso l’attività non fosse compatibile con l'originaria destinazione (agricola) dell'area, in merito deve rilevarsi che il vizio di disparità di trattamento non è certo invocabile per ottenere dall’Amministrazione l’estensione di un provvedimento illegittimo o viziato da violazione di legge e, quindi, qualora nel caso analogo, rispetto al quale si lamenta il trattamento deteriore, siano state consentite attività illegittime secondo la disciplina vigente, come invece sosterrebbero i ricorrenti.
Del resto, la repressione dell'abusivismo edilizio si connota come un'attività vincolata nei cui confronti non è configurabile l'eccesso di potere per ingiustizia manifesta o disparità di trattamento, che è vizio tipico degli atti discrezionali.

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Con il quarto motivo i ricorrenti hanno addotto il difetto dei presupposti dell’ordinanza di demolizione, per non essersi perfezionata l'inoppugnabilità della determina dirigenziale n. 508 del 22.07.2014, recante l'annullamento del permesso di costruire.
Sul punto è agevole osservare che l’inoppugnabilità del provvedimento presupposto non costituisce condizione di efficacia dell’atto, non incidendo la mancata impugnazione sulla produzione degli effetti del provvedimento, ma unicamente sul loro consolidamento.
Quanto, poi, all’asserita impossibilità di spostare i veicoli insistenti sull’area, che impedirebbe la riduzione in pristino, come rappresentato con il quinto motivo, si rileva che tale circostanza non influisce sulla materiale impossibilità di demolire le opere, ma solo sulla difficoltà delle eventuali operazioni prodromiche che, peraltro, come evidenziato dall’Amministrazione comunale, avrebbero ben potuto essere eseguite previo nulla osta delle Autorità competenti sui sequestri e vincoli in essere sui veicoli depositati.
Venendo all’esame del sesto motivo, si evidenzia che, secondo costante indirizzo giurisprudenziale, da cui non vi è ragione di discostarsi, l'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti costituiscono atti vincolati, per la cui adozione non è necessario l'invio della comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell'atto (Consiglio di Stato VI Sez. 29.11.2012 n. 6071; Consiglio di Stato, IV Sezione, 18.09.2012; Consiglio di Stato IV Sezione 10.08.2011, n. 4764; Consiglio di Stato, IV Sezione, 20.07.2011, n. 4403; Consiglio di Stato, VI Sezione, 24.09.2010, n. 7129), anche alla luce del disposto dell'art. 21-octies legge 241/1990 che osta all’annullamento degli atti di natura vincolata per violazioni formali.
Va infine esaminata la doglianza relativa alla disparità di trattamento che l’Amministrazione comunale avrebbe operato autorizzando la sanatoria di altro immobile adibito ad uso palestra, nonostante anche in tal caso l’attività non fosse compatibile con l'originaria destinazione (agricola) dell'area.
In merito deve rilevarsi, in primo luogo, che il vizio di disparità di trattamento non è certo invocabile per ottenere dall’Amministrazione l’estensione di un provvedimento illegittimo o viziato da violazione di legge e, quindi, qualora nel caso analogo, rispetto al quale si lamenta il trattamento deteriore, siano state consentite attività illegittime secondo la disciplina vigente, come invece sosterrebbero i ricorrenti. Del resto, la repressione dell'abusivismo edilizio si connota come un'attività vincolata nei cui confronti non è configurabile l'eccesso di potere per ingiustizia manifesta o disparità di trattamento, che è vizio tipico degli atti discrezionali (così TAR Umbria, n. 354 del 02.11.2011; ma cfr. anche Cons. di Stato sez. VI, n. 6658 del 27.12.2007; Cons. di Stato sez. VI, n. 852 del 28.02.2006; TAR Calabria-Catanzaro, n. 2964 del 16.12.2010).
In secondo luogo, il Comune nei propri scritti difensivi ha chiarito che l’impianto sportivo è stato autorizzato all’esito del procedimento per il rilascio del permesso di costruire in deroga ai sensi dell’art. 14 D.P.R. 380/2001 e di deliberazione favorevole del Consiglio Comunale, di tal che le due fattispecie non risultano comparabili
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 10.03.2016 n. 1397 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L'art. 53, par. 2, della dir. 2004/18/CE deve essere interpretato nel senso che l'amministrazione aggiudicatrice non è tenuta a rendere noto ai potenziali offerenti, nel bando di gara o nel capitolato d'oneri, il metodo di valutazione delle offerte.
L'articolo 53, paragrafo 2, della direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31.03.2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, quale modificata dal regolamento (UE) n. 1251/2011 della Commissione, del 30.11.2011, letto alla luce del principio della parità di trattamento e dell'obbligo di trasparenza, deve essere interpretato nel senso che l'amministrazione aggiudicatrice non è tenuta a rendere noto ai potenziali offerenti, nel bando di gara o nel capitolato d'oneri, il metodo di valutazione delle offerte adottato per esaminare il grado di rispondenza ai criteri di aggiudicazione pubblicati in precedenza nel bando o nel capitolato, purché tale metodo, adottato dopo la scadenza del termine di presentazione delle offerte ma prima dell'apertura delle stesse:
a) non modifichi i criteri di aggiudicazione dell'appalto e la ponderazione relativa di tali criteri, quali esposti nel bando di gara o nel capitolato d'oneri,
b) non contenga elementi che, se fossero stati noti al momento della preparazione delle offerte, avrebbero potuto influire su tale preparazione e
c) non sia stato adottato tenendo conto di elementi che possono avere un effetto discriminatorio nei confronti di uno degli offerenti. Spetta al giudice del rinvio verificare se tali condizioni siano soddisfatte nel procedimento principale (Avvocato Generale conclusioni 10.03.2016 causa n. C-6/15 - link a http://curia.europa.eu).

EDILIZIA PRIVATA: Realizzazione di opere edilizie in zona sottoposta a vincolo - Condotta che si protrae nel tempo - Natura permanente del reato paesaggistico - Integrazione dell'elemento soggettivo del reato - Sufficiente il dolo generico - Artt. 167 e 181, c.1-bis, dlgs n. 42/2004.
Il reato di cui all'art. 181 del dlgs n. 42 del 2004, qualora sia realizzato attraverso una condotta che si protrae nel tempo, come nel caso di realizzazione di opere edilizie in zona sottoposta a vincolo, ha natura permanente e si consuma con l'esaurimento totale dell'attività o con la cessazione, per qualsiasi motivo, della condotta (Corte di cassazione, Sezione III penale, 11/06/2015, n. 24690).
Inoltre, ai fini della integrazione dell'elemento soggettivo del reato di cui all'art. 181, comma 1-bis, del dlgs n. 42 del 2004 è sufficiente il dolo generico, sussistente ove l'agente non abbia dimostrato di avere convenientemente adempiuto al dovere di informarsi preventivamente circa l'eventuale assoggettamento a vincoli dell'area interessata dalla esecuzione delle opere in questione (Corte di cassazione, Sezione III penale, 28/12/2011, n. 48478).
Manufatto realizzato in assenza dei prescritti nullaosta paesaggistici ceduto a terzi - Impedimento alla efficacia dell'ordine di ripristino - Esclusione - Rimessione in pristino dello stato dei luoghi a spese del condannato - Finalità - Scopo risarcitorio del danno patito dal bene ambientale.
La finalità della previsione che impone, in caso di condanna, la rimessione in pristino dello stato dei luoghi a spese del condannato è, infatti, quella di rimuovere gli effetti dannosi che derivano dall'avvenuta commissione del reato; premesso che, pertanto, la sua funzione, ancorché indefettibilmente connessa all'avvenuto riscontro della penale responsabilità dell'agente, non è strettamente punitiva (come è evidenziato proprio dal fatto che alla sua realizzazione può essere subordinata la concessione della sospensione condizionale della pena) ma è volta, con scopo per quanto possibile risarcitorio del danno patito dal bene ambientale, alla cosiddetta restituito in integrum della situazione preesistente alla commissione del reato, la circostanza che il manufatto realizzato in assenza dei prescritti nullaosta paesaggistici sia stato ceduto a terzi, non avendo alcun effetto lenitivo del danno ambientale verificatosi, non costituisce impedimento alla efficacia dell'ordine di ripristino impartito ai sensi dell'art. 181, comma 2, del dlgs n. 42 del 2004 (sostanzialmente nello stesso senso (Corte di cassazione, Sezione III penale, 11/04/2014, n. 16035).
Inoltre, non sussiste alcuna sovrapposizione di competenze fra la subordinazione della concessione della sospensione condizionale della pena all'avvenuta rimessione in pristino dello stato dei luoghi a cura del condannato e la previsione di cui all'art. 167 del dlgs n. 42 del 2004, posto che quest'ultima disposizione disciplina l'intervento solo surrogatorio della Autorità amministrativa nella restituzione allo status quo ante dei luoghi laddove il condannato (primario destinatario dell'ordine di ripristino di essi, indipendentemente dall'essere o meno detto ripristino condizione per la sospensione della esecuzione della pena) non abbia ottemperato ad esso (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.03.2016 n. 9134 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Realizzazione di opere edilizie in zona vincolata - Assenza delle prescritte autorizzazioni - Responsabilità del direttore dei lavori - Rinuncia all'incarico - Segnalazione contestuale della irregolarità - Fattore esimente della penale responsabilità - Intervenuta decadenza del permesso a costruire ai sensi dell'art. 15 del dPR n. 380/2001 - Doveri di diligenza - Limiti - Art. 29, c.2 e 44 del dPR n. 380/2001.
In tema di realizzazione di opere edilizie in assenza delle prescritte autorizzazioni, siano esse specificamente connesse alla normativa di tutela urbanistica ovvero siano riferite a quella a garanzia del patrimonio paesaggistico ed ambientale, devono essere qualificati come reati comuni e non come reati a soggettività ristretta, va precisato che siffatto principio cessa tuttavia di avere validità per quel che concerne la posizione del direttore dei lavori, per il quale deve, viceversa, ritenersi che la specifica qualifica rivestita sia elemento necessario ai fini della integrazione del reato, trattandosi, pertanto, limitatamente a tale soggetto, di un reato proprio (Corte di cassazione, Sezione III penale, 19/12/2007, n. 47083).
Nella specie, ai sensi dell'art. 29, comma 2, del dPR n. 380 del 2001, costituisce fattore esimente la penale responsabilità del direttore dei lavori il fatto che questi abbia rinunziato all'incarico conferitogli dalla committenza dei lavori, segnalando contestualmente la irregolarità di questi, non si è, parimenti, rilevato che, essendo venuto meno l'incarico del direttore dei lavori per effetto della intervenuta decadenza del permesso a costruire ai sensi dell'art. 15 del dPR n. 380 del 2001, la sua responsabilità non poteva essere collegata esclusivamente al mancato rispetto dei doveri di diligenza connessi alla qualifica, non più rivestita, di direttore dei lavori (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.03.2016 n. 9134 - link a www.ambientediritto.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: I limiti alla retroattività della legge secondo il Consiglio di Stato.
La retroattività della legge, sebbene non costituzionalmente preclusa nelle materie diverse da quella penale, richiede, tuttavia, una esplicita previsione che renda chiara ed univoca la scelta del legislatore.
Il principio di irretroattività, invero, sebbene non costituzionalizzato fuori dalla materia penale:
- rappresenta un principio generale dell’ordinamento, come si desume dall’art. 11 della Preleggi che espressamente statuisce che la «legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo»;
- trova un suo fondamento ulteriore nei principi di tutela dell’affidamento e della certezza del diritto, la cui crescente importanza è confermata anche dalla giurisprudenza sovranazionale, tanto della Corte di giustizia quanto della Corte europea per la tutela dei diritti dell’uomo;
- assume un rilievo ancora maggiore laddove la legge in ipotesi retroattiva consente, come accade nel caso di specie, l’adozione di provvedimenti sostanzialmente ablatori, in grado di produrre nella sfera giuridica del privato effetti fortemente negativi, che incidono tanto sulla reputazione individuale (perché presuppongono l’assenza dei requisiti di onorabilità) quanto sulla libertà di iniziativa economica (perché precludono la titolarità di partecipazioni al capitale di determinate società); provvedimenti, quindi, in senso lato espropriativi, perché sottraggono al soggetto che ne è destinatario un prerogativa (la possibilità di essere titolari di rapporti di partecipazione societaria oltre una certa soglia) che attiene alla sua stessa capacità giuridica, dando luogo a una forma di incapacità speciale.
In questo contesto è evidente che la scelta nel senso della retroattività, sebbene non astrattamente preclusa al legislatore, deve, tuttavia, essere esplicita e univoca.
La retroattività della legge (specie quando la legge fonda il potere di adottare provvedimenti fortemente restrittivi della sfera giuridica del privato) rappresenta, infatti, un’eccezione e, come tale, deve essere esplicita, dovendosi, in mancanza di una previsione univoca, optare per l’interpretazione che esclude la retroattività, in conformità ai richiamati principi generali dell’ordinamento giuridico.

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52. Va, peraltro, evidenziato che gli elementi significativi della fattispecie oggetto del presente giudizio si collocano tutti anteriormente alla data di entrata in vigore delle nuove norme che hanno esteso alla SP. i requisiti di onorabilità. È anteriore, infatti, sia l’acquisto della partecipazione sia la perdita del requisito di onorabilità.
La tesi sostenuta dalla sentenza appellata, secondo cui la nuova disciplina troverebbe, comunque, applicazione, stante l’inoperatività della norma transitoria di cui all’art. 2 d.m. n. 144 del 1998, presuppone, quindi, la natura retroattività delle nuove disposizioni.
Al riguardo deve rilevarsi che la retroattività della legge, sebbene non costituzionalmente preclusa nelle materie diverse da quella penale, richiede, tuttavia, una esplicita previsione che renda chiara ed univoca la scelta del legislatore.
Il principio di irretroattività, invero, sebbene non costituzionalizzato fuori dalla materia penale:
- rappresenta un principio generale dell’ordinamento, come si desume dall’art. 11 della Preleggi che espressamente statuisce che la «legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo»;
- trova un suo fondamento ulteriore nei principi di tutela dell’affidamento e della certezza del diritto, la cui crescente importanza è confermata anche dalla giurisprudenza sovranazionale, tanto della Corte di giustizia quanto della Corte europea per la tutela dei diritti dell’uomo;
- assume un rilievo ancora maggiore laddove la legge in ipotesi retroattiva consente, come accade nel caso di specie, l’adozione di provvedimenti sostanzialmente ablatori, in grado di produrre nella sfera giuridica del privato effetti fortemente negativi, che incidono tanto sulla reputazione individuale (perché presuppongono l’assenza dei requisiti di onorabilità) quanto sulla libertà di iniziativa economica (perché precludono la titolarità di partecipazioni al capitale di determinate società); provvedimenti, quindi, in senso lato espropriativi, perché sottraggono al soggetto che ne è destinatario un prerogativa (la possibilità di essere titolari di rapporti di partecipazione societaria oltre una certa soglia) che attiene alla sua stessa capacità giuridica, dando luogo a una forma di incapacità speciale.
In questo contesto è evidente che la scelta nel senso della retroattività, sebbene non astrattamente preclusa al legislatore, deve, tuttavia, essere esplicita e univoca.
La retroattività della legge (specie quando la legge fonda il potere di adottare provvedimenti fortemente restrittivi della sfera giuridica del privato) rappresenta, infatti, un’eccezione e, come tale, deve essere esplicita, dovendosi, in mancanza di una previsione univoca, optare per l’interpretazione che esclude la retroattività, in conformità ai richiamati principi generali dell’ordinamento giuridico (
Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 03.03.2016 n. 882 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'art. 16 D.P.R. n. 380 del 2001 (e prima l’art. 11 della legge n. 10/1977) prevede per il rilascio del permesso di costruire la corresponsione di un contributo composto da due quote distinte: gli oneri di urbanizzazione, che non sono dovuti se il titolare del permesso si obbliga a realizzare direttamente tali opere, ed il costo di costruzione che, invece, essendo una percentuale rapportata non ad opere da fare per la collettività ma ai costi di costruzione per tipologia edilizia, adeguati annualmente, non sono suscettibili di entrare nel meccanismo dello scomputo.
Tuttavia, una volta che il Comune, nell’esercizio della sua ampia discrezionalità, ha consentito lavori di urbanizzazione svolti direttamente dal beneficiario del titolo edilizio, la loro realizzazione da parte dell’istante ben può sostituire quanto dovuto per costo di costruzione.
L’indisponibilità di cui al citato art. 16, infatti, è nel senso che essi sono previsti e quantificati per legge ma nulla impedisce che la forma del pagamento, con compensazione o meno, sia rimessa all’accordo delle parti.
La natura paratributaria di tale onere, se esclude ogni disponibilità del quantum dovuto che ha criteri prefissati, non impedisce cioè al Comune di negoziare tale importo per altri precisi adempimenti urbanistici, quali infrastrutture ed opere sociali e civiche.
L’art. 16 citato non costituisce, quindi, un impedimento ad un eventuale accordo sostitutivo anche per il costo di costruzione, né esso si pone come norma imperativa in senso negativo solo perché lo scomputo è oggettivamente possibile unicamente per gli oneri urbanistici; ciò spiega il perché la norma si è limitata ad indicare i soli oneri urbanistici come scomputabili, ma non è affatto possibile affermare che sussiste un divieto tassativo per forme alternative di pagamento e/o compensazione con opere urbanistiche anche per i costi di costruzione.

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Il ricorso è fondato.
A fronte del silenzio sostanzialmente serbato dal Comune di Alghero rispetto alle richieste di rimborso ripetutamente presentate dal sig. Co., il difensore del Comune giustifica il mancato pagamento per cui è causa con una serie di argomentazioni che risultano in contrasto con gli atti posti in essere dallo stesso Comune di Alghero, sui quali si è fondato l’affidamento dell’odierno ricorrente.
Risulta invero che, con nota del 27.07.2001, il Comune di Alghero aveva determinato gli oneri concessori dovuti dal sig. Co. in relazione alla pratica edilizia n. 2001/0448 in complessivi euro 17.535,87.
La stessa nota determinativa degli oneri precisava, per quanto qui interessa, quanto alle modalità di pagamento che:
- il totale della prima rata è pari a euro 5.260,76 (50% oneri di urbanizzazione + 30% costo costruzione).
E’ incontestato che il sig. Co. ha provveduto al pagamento dell’intero importo richiesto.
Al fine di definire l’urbanizzazione circostante il fabbricato oggetto dei lavori di ristrutturazione, in data 09.07.2003 il ricorrente chiedeva al Comune l’assenso all’esecuzione delle opere a parziale scomputo di quanto dovuto per oneri concessori.
Come si ricava dalla relazione tecnica presentata, le opere consistevano essenzialmente:
- nel rifacimento di un tratto di fognatura sulla via Leopardi a cui era già precariamente allacciato il fabbricato;
- nel rifacimento dei marciapiede in corrispondenza del tratto della via Leopardi antistante il fabbricato;
- nella sostituzione delle alberature esistenti con essenze meno invasive;
- nel rifacimento del manto bituminoso del tratto della via Leopardi antistante il fabbricato.
A seguito di tale richiesta, visto il parere favorevole della Commissione edilizia espresso nella seduta del 07.11.2003, il Comune di Alghero, accertato che i prezzi utilizzati nell’elaborato contabile (computo metrico estimativo) risultavano congrui rispetto a quanto previsto dal prezziario regionale, autorizzava quanto richiesto affidando al funzionario tecnico geom. Ca.Lo. l’alta vigilanza sulla regolare esecuzione dei lavori.
Il sig. Co., quindi, realizzava le anzidette opere e con nota del 24.03.2004, pervenuta al Comune di Alghero il 02.04.2004, comunicava l’ultimazione dei lavori.
Sostiene oggi il Comune di Alghero che lo scomputo richiesto dal ricorrente non può essere riconosciuto perché ai sensi dell’art. 11 della legge 28.01.1977 n. 10 esso riguarderebbe solo la quota di contributo di cui al precedente art. 5 (concernente gli oneri di urbanizzazione) mentre, nella specie, gli oneri dovuti per la concessione n. 303/2001 sarebbero riferiti esclusivamente ai costi di costruzione.
In tal senso depone anche la delibera del Consiglio comunale n. 92 del 23.12.1999 richiamata nella concessione n. 381/2003.
L’errata indicazione nella nota del 27.07.2001, prosegue il Comune, non sarebbe decisiva in quanto la somma richiesta corrisponde esattamente a quanto dovuto a titolo di costo di costruzione sulla base del valore totale del computo metrico dei lavori da eseguire.
Come detto il ricorso merita accoglimento a prescindere da eventuali errori commessi dal Comune di Alghero nella qualificazione degli oneri richiesti.
L'art. 16 D.P.R. n. 380 del 2001 (e prima l’art. 11 della legge n. 10/1977) prevede per il rilascio del permesso di costruire la corresponsione di un contributo composto da due quote distinte: gli oneri di urbanizzazione, che non sono dovuti se il titolare del permesso si obbliga a realizzare direttamente tali opere, ed il costo di costruzione che, invece, essendo una percentuale rapportata non ad opere da fare per la collettività ma ai costi di costruzione per tipologia edilizia, adeguati annualmente, non sono suscettibili di entrare nel meccanismo dello scomputo.
Tuttavia, una volta che il Comune, nell’esercizio della sua ampia discrezionalità, ha consentito lavori di urbanizzazione svolti direttamente dal beneficiario del titolo edilizio, la loro realizzazione da parte dell’istante ben può sostituire quanto dovuto per costo di costruzione.
L’indisponibilità di cui al citato art. 16, infatti, è nel senso che essi sono previsti e quantificati per legge ma nulla impedisce che la forma del pagamento, con compensazione o meno, sia rimessa all’accordo delle parti.
La natura paratributaria di tale onere, se esclude ogni disponibilità del quantum dovuto che ha criteri prefissati, non impedisce cioè al Comune di negoziare tale importo per altri precisi adempimenti urbanistici, quali infrastrutture ed opere sociali e civiche.
L’art. 16 citato non costituisce, quindi, un impedimento ad un eventuale accordo sostitutivo anche per il costo di costruzione, né esso si pone come norma imperativa in senso negativo solo perché lo scomputo è oggettivamente possibile unicamente per gli oneri urbanistici; ciò spiega il perché la norma si è limitata ad indicare i soli oneri urbanistici come scomputabili, ma non è affatto possibile affermare che sussiste un divieto tassativo per forme alternative di pagamento e/o compensazione con opere urbanistiche anche per i costi di costruzione (in termini: TAR Pescara 18.10.2010 n. 1142).
Nel caso di specie è avvenuto proprio questo.
Con la concessione n. 381/2003 il Comune di Alghero ha sostanzialmente inteso rinunciare a quanto dovuto dal sig. Co. a titolo di oneri concessori in cambio dell’effettuazione di lavori di urbanizzazione.
Ne segue che la pretesa del ricorrente alla restituzione, fino all’importo dei lavori svolti, per il quale il Comune aveva espresso un giudizio di accettazione dei prezzi utilizzati in quanto ritenuti congrui in base a quanto previsto dal prezziario regionale, è fondata, con conseguente condanna del Comune alla corresponsione del loro importo.
Sotto questo profilo non rileva l’argomento per il quale gli interventi realizzati sarebbero primariamente utili allo stesso ricorrente in relazione ai lavori di ristrutturazione effettuati in quanto, oltre al rilievo che la loro realizzazione è stata espressamente consentita dal Comune, si tratta comunque di opere fruibili dall’intera collettività e non riservate all’uso esclusivo del sig. Co..
Di qui la condanna del Comune di Alghero al pagamento in favore del sig. Sa.Co. della somma di euro 13.092,32.
Il ricorrente chiede anche il pagamento degli interessi legali su detta somma.
Occorre quindi stabilire il dies a quo di tale obbligo accessorio.
Va anzitutto precisato che il mancato esercizio del collaudo non può risolversi a vantaggio dell’amministrazione inerte perché ciò si tradurrebbe in un ingiusto sacrificio economico a danno del privato.
Nel caso di specie il direttore dei lavori ha comunicato al Comune di Alghero che i lavori erano terminati il 24.03.2004 (nota protocollata in arrivo al Comune di Alghero il 02.04.2004).
Con nota dell’11.01.2005 il ricorrente ha chiesto al medesimo Comune di Alghero il collaudo delle opere (di tale nota, peraltro, non viene fornita prova sulla data di ricezione da parte dell’amministrazione).
Da questo momento è iniziata una ingiustificata inerzia degli uffici comunali che si è protratta fino al 09.12.2006, data in cui i tecnici comunali hanno provveduto ad eseguire le operazioni di collaudo.
Inerzia tanto più ingiustificata nel rilievo che il Comune aveva nominato un funzionario tecnico col compito proprio di vigilare sulla corretta esecuzione dei lavori per cui è causa.
In sostanza, quindi, merita accoglimento la richiesta di interessi avanzata dal sig. Co. che dovranno essere quantificati sulla somma da restituire come sopra determinata a decorrere dal 10.04.2006, data nella quale risulta che il sig. Co., con raccomandata r.r., ha formalmente comunicato al Comune di Alghero di essere pronto a porre in essere ogni adempimento necessario all’effettuazione del collaudo.
In conclusione, quindi, il ricorso merita accoglimento nei sensi sopra precisati
(TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 01.03.2016 n. 193 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Buoni pasto illegittimamente distribuiti: gli enti locali non possono attivare il recupero per equivalente monetario.
Invero le citate condivisibili decisioni hanno stigmatizzato l’iniziativa recuperatoria intrapresa dall’amministrazione in quanto è stato “del tutto obliterato di considerare la struttura e funzione dei buoni-pasto, sostitutivi della fruizione gratuita del servizio mensa presso la sede di lavoro ed escludenti «ogni forma di monetizzazione indennizzante» (v. così, testualmente, l’accordo quadro del 31.10.2003).
Infatti, a prescindere dalla natura assistenziale o retributiva dell’istituto in questione, è decisivo rimarcare che, nel caso di specie, i dipendenti non hanno percepito somme in denaro, bensì titoli non monetizzabili destinati esclusivamente ad esigenze alimentari in sostituzione del servizio mensa e, per tale causale, pacificamente spesi nel periodo di riferimento, e che, pertanto, si tratta di benefici destinati a soddisfare esigenze di vita primarie e fondamentali dei dipendenti medesimi, di valenza costituzionale, con conseguente inconfigurabilità di una pretesa restitutoria, per equivalente monetario, del maggior valore attribuito ai buoni-pasto nel periodo di riferimento.”
Tale approdo ha così dato continuità e consolidato un precedente, conforme, opinamento della giurisprudenza amministrativa di merito che aveva valorizzato il “principio giurisprudenziale secondo il quale la buona fede del lavoratore non può essere invocata ad impedimento per l’Amministrazione per procedere al recupero di un indebito, dato che questo principio, sia pure valido per le somme percepite a titolo di retribuzione, non può essere applicato per le somme elargite a titolo assistenziale, soprattutto nel caso di specie in cui i lavoratori non hanno percepito somme ma titoli idonei ad essere spesi unicamente per esigenze alimentari nel periodo di riferimento, in sostituzione del servizio mensa.”
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FATTO
Con la sentenza n. 9093/2013 in epigrafe impugnata il Tribunale amministrativo regionale del Lazio ha scrutinato il ricorso (proveniente da trasposizione di ricorso straordinario), con il quale gli odierni appellanti avevano gravato i provvedimenti attuativi di recupero dei buoni pasto emessi tra il 19/8 e il 19/10/2011, aventi ad oggetto le esecuzioni della Ordinanza Commissariale n. 297 del 13/06/2011, della Determinazione Direttoriale n. 130 del 19/07/2011, della Determinazione Dipartimentale n. 122 del 04/08/2011, in quanto atti presupposti di contenuto dispositivo determinativo dei singoli provvedimenti attuativi di recupero dei suddetti buoni pasto.
In punto di fatto era accaduto che con ordinanza n. 297 del 13/06/2011 il Commissario Straordinario aveva dato mandato al Direttore Generale di procedere alla nomina della responsabile del procedimento di recupero dei buoni pasto del personale appartenente al Corpo Militare C.R.I.; il successivo 19/07/2011, con Determinazione Direttoriale n. 130, il Direttore Generale aveva nominato responsabile del procedimento di recupero dei buoni pasto il Capo Dipartimento Risorse Umane e quest’ultimo con Determinazione Dipartimentale n. 122 del 04/08/2011 aveva avviato il procedimento di recupero delle suddette somme: nei confronti di tutti gli originari ricorrenti era stato quindi disposto il recupero dei buoni pasto percepiti.
Gli odierni appellanti erano quindi insorti, sostenendo che i buoni pasto avessero natura fungibile e meramente assistenziale e non retributiva e che, conseguentemente, le dette erogazioni non fossero ripetibili.
Il Tar non ha condiviso tale tesi ed ha in primo luogo puntualizzato che, a suo avviso, considerato che gli originari ricorrenti non erano dipendenti civili dell’ente pubblico Croce Rossa Italiana, bensì appartenenti al Corpo Militare della stessa (il personale in servizio acquisiva lo status di “militare” ed era “sottoposto alle norme della disciplina militare e dei codici penali militari” ex art. 1653 del D.Lgs. n. 66/2010) non erano a costoro applicabili le disposizioni e i principi riguardanti gli impiegati civili dello Stato e delle altre Amministrazioni pubbliche (cfr. TAR Lazio, n. 464/1998).
Nel merito, ha scrutinato i motivi di censura contenuti nell’atto introduttivo del giudizio e li ha respinti in quanto infondati, sostenendo che la contestata iniziativa recuperatoria si presentasse come un atto dovuto a prescindere dalla natura retributiva o assistenziale delle predette somme.
Ci si trovava infatti al cospetto –ad avviso del Tar- di un indebito oggettivo, erogato illegittimamente ed il recupero aveva natura di atto dovuto ex art. 2033 c.c..
Irrilevanti, erano –secondo il primo giudice- i principi di “affidamento” e di “buona fede”, invocabili soltanto in ordine al quomodo del recupero e del pari ricorreva il requisito dell’“interesse pubblico” specifico che deve caratterizzare il provvedimento di recupero, insito nell’acclaramento della non spettanza degli emolumenti percepiti dal dipendente.
Anzi, il diritto dell’Amministrazione al recupero delle somme rientrava tra i diritti soggettivi irrinunciabili e, posto che l’azione recuperatoria era stata congruamente motivata, l’azione amministrativa era immune dai lamentati vizi.
Il mezzo è stato quindi integralmente disatteso.
Gli originari ricorrenti rimasti soccombenti hanno impugnato la detta decisione, criticando la tesi con la quale era stata affermata la ripetibilità delle somme erogate.
Ripercorso l’iter del contenzioso, anche infraprocedimentale, intercorso hanno sostenuto che l’iniziativa recuperatoria fosse del tutto illegittima, anche in relazione alla natura (non retributiva, ma assistenziale) della “prestazione” erogata dall’Amministrazione.
Con memoria depositata l’11/11/2015 gli appellanti hanno chiesto la sospensione della provvisoria esecutività della gravata decisione, hanno rammentato che sulla vicenda de quo la giurisprudenza amministrativa si è di recente pronunciata in senso conforme alla loro pretesa ed hanno chiesto che la controversia venga decisa con sentenza succintamente motivata.
Alla odierna camera di consiglio del 14.01.2016 fissata per la delibazione del petitum cautelare la causa è stata trattenuta in decisione dal Collegio.
DIRITTO
1. Stante la completezza del contraddittorio, la non necessità di disporre incombenti istruttori e la mancata opposizione delle parti, espressamente rese edotte dal Collegio della possibilità di immediata definizione nel merito della causa, l’appello può essere effettivamente deciso nel merito.
1.1. Esso è fondato e va accolto, conformemente al recente orientamento della giurisprudenza (Consiglio di Stato sez. VI sent. nn. 5314/2014 e 5315/2014).
2. Invero le citate condivisibili decisioni hanno stigmatizzato l’iniziativa recuperatoria intrapresa dall’amministrazione in quanto è stato “del tutto obliterato di considerare la struttura e funzione dei buoni-pasto, sostitutivi della fruizione gratuita del servizio mensa presso la sede di lavoro ed escludenti «ogni forma di monetizzazione indennizzante» (v. così, testualmente, l’accordo quadro del 31.10.2003). Infatti, a prescindere dalla natura assistenziale o retributiva dell’istituto in questione, è decisivo rimarcare che, nel caso di specie, i dipendenti non hanno percepito somme in denaro, bensì titoli non monetizzabili destinati esclusivamente ad esigenze alimentari in sostituzione del servizio mensa e, per tale causale, pacificamente spesi nel periodo di riferimento, e che, pertanto, si tratta di benefici destinati a soddisfare esigenze di vita primarie e fondamentali dei dipendenti medesimi, di valenza costituzionale, con conseguente inconfigurabilità di una pretesa restitutoria, per equivalente monetario, del maggior valore attribuito ai buoni-pasto nel periodo di riferimento.”
2.1. Tale approdo ha così dato continuità e consolidato un precedente, conforme, opinamento della giurisprudenza amministrativa di merito (Tar Piemonte, sentenza n. 1436/2009) che aveva valorizzato il “principio giurisprudenziale secondo il quale la buona fede del lavoratore non può essere invocata ad impedimento per l’Amministrazione per procedere al recupero di un indebito, dato che questo principio, sia pure valido per le somme percepite a titolo di retribuzione, non può essere applicato per le somme elargite a titolo assistenziale, soprattutto nel caso di specie in cui i lavoratori non hanno percepito somme ma titoli idonei ad essere spesi unicamente per esigenze alimentari nel periodo di riferimento, in sostituzione del servizio mensa.”
Esso è pienamente condiviso dal Collegio ed è peraltro conforme a quello raggiunto in subiecta materia dalla giurisprudenza civile (ex aliis, Corte appello Ancona 27/12/2006 n. 521).
3. Le superiori considerazioni rivestono (come è evidente, in quanto escludono oggettivamente l’an della ripetibilità di importi erogati in forma di “buoni-pasto") portata troncante e militano -con portata assorbente- per la riforma della gravata decisione e l’accoglimento del mezzo di primo grado con conseguente annullamento degli atti gravati.
Le questioni vagliate esauriscono la vicenda sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c., in aderenza al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza costante, ex plurimis, per le affermazioni più risalenti, Cassazione civile, sez. II, 02.03.1995 n. 3260 e, per quelle più recenti, Cassazione civile, sez. V, 16.05.2012 n. 7663) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 29.02.2016 n. 850 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Durc, regolarità permanente. Negli appalti è irrilevante la regolarizzazione postuma. Il Consiglio di stato, con due sentenze consecutive, sconfessa il ministero del lavoro.
Negli appalti pubblici la regolarizzazione postuma della posizione previdenziale non è ammessa.

È quanto afferma il Consiglio di Stato, riunito in Adunanza plenaria, in due sentenze consecutive,
la sentenza 29.02.2016 n. 5 e sentenza 29.02.2016 n. 6.
Secondo il massimo organo di giurisdizione amministrativa, difatti, l'impresa che partecipa alla gara pubblica deve essere in regola con l'assolvimento degli obblighi previdenziali e assistenziali fin dalla presentazione dell'offerta e conservare tale stato per tutta la durata della procedura di aggiudicazione e del rapporto con la stazione appaltante.
Si ricorda che il Durc è il certificato che, contemporaneamente attesta la regolarità contributiva di un operatore economico nei confronti dell'Inps, dell'Inail e della Cassa edile (con riguardo alle sole imprese appartenenti al settore edile).
Questo certificato è necessario, fra l'altro, per la partecipazione ai pubblici appalti.
Il dm 30/01/2015 ha introdotto un profondo rinnovamento della disciplina di riferimento prevedendo che dal 01.07.02015 la verifica della regolarità contributiva avvenga, fatte salve alcune eccezioni, via web e in tempo reale (c.d. Durc online).
Assenza di regolarità. Il recente regolamento, riprendendo la previsione dell'art. 31, comma 8, del dl n. 69/2013, ha previsto che in tutti i casi in cui l'interrogazione non fornisca l'esito di regolarità gli istituti devono invitare, prima dell'emissione del Durc negativo, il soggetto interessato a regolarizzare, entro il termine di 15 giorni, la riscontrata non conformità indicando analiticamente le cause d'irregolarità.
Il contrasto giurisprudenziale. Con due distinte ordinanze la quarta sezione del Cds ha rimesso alla Adunanza plenaria la questione se l'obbligo degli istituti previdenziali di invitare l'interessato alla regolarizzazione del Durc (c.d. preavviso di Durc negativo) sussista anche nel caso in cui la richiesta provenga dalla stazione appaltante in sede di verifica della dichiarazione resa dall'impresa ai sensi dell'art. 38, comma 1, lett. i) del dlgs n. 163/2006 (codice dei contratti pubblici).
In altri termini viene chiesto all'Adunanza se la mancanza dell'invito alla regolarizzazione impedisca di considerare come «definitivamente accertata» la situazione di irregolarità contributiva.
Al riguardo, difatti, sussistevano sulla questione due orientamenti giurisprudenziali contrastanti: un primo orientamento (tradizionale ma risalente), secondo il quale l'invito alla regolarizzazione non si applica in caso di Durc richiesto dalla stazione appaltante, atteso che l'obbligo degli istituti di attivare la procedura di regolarizzazione stride coi principi in tema dì procedure di evidenza pubblica che non ammettono regolarizzazioni postume; un secondo orientamento (minoritario ma più recente) afferma, invece, che l'obbligo degli istituti previdenziali di invitare l'interessato alla regolarizzazione sussiste anche ove la richiesta sia fatta in sede di verifica da parte della stazione appaltante.
A sostegno di quest'ultima ipotesi si valorizza la novità rappresentata dall'art. 31, comma 8, del dl n. 69/2013 che, secondo la tesi in esame, avrebbe implicitamente ma sostanzialmente modificato il suddetto art. 38 del codice, con la conseguenza che l'irregolarità contributiva potrebbe considerarsi definitivamente accertata solo alla scadenza del termine di quindici giorni assegnato dall'ente previdenziale per la regolarizzazione della posizione contributiva.
La sezione rimettente evidenzia come tale soluzione interpretativa sia stata pure recepita dall'art. 4 del dm 30/1/2015 e dalla successiva circolare interpretativa n. 19/2015 del ministero del lavoro.
La decisione. L'Adunanza plenaria del Cds, per mezzo delle citate sentenze, ha risolto la disputa fondando la propria decisione sulle seguenti motivazioni:
• nel comma 8 dell'art. 31 del dl 69/2013 manca qualsiasi riferimento alla disciplina dell'evidenza pubblica o dei contratti pubblici e in particolare all'art. 38, comma 1, lett. i), ovvero la disposizione che prevede come causa ostativa della partecipazione l'aver commesso «violazioni gravi e definitivamente accertate, alle norme in materia di contributi previdenziali e assistenziali» il quale non può, dunque, considerarsi né implicitamente modificato né tantomeno abrogato; pertanto l'invito alla regolarizzazione è un istituto estraneo alla disciplina dell'aggiudicazione e dell'esecuzione dei contratti pubblici;
• l'invito alla regolarizzazione costituisce una sorta di preavviso di rigetto la cui applicazione, prevista dall'art. 10-bis della legge n. 241/1990, è espressamente esclusa nell'ambito delle procedure concorsuali;
• la possibilità generalizzata di sanatoria (della falsa dichiarazione e della mancanza del requisito sostanziale) darebbe vita ad una palese violazione del principio della parità di trattamento e dell'autoresponsabilità dei concorrenti, in forza del quale ciascuno di essi sopporta le conseguenze di errori, omissione e, a fortiori, delle falsità, commesse nella formulazione dell'offerta e nella presentazione delle dichiarazioni; difatti, arguisce l'Adunanza, è fin troppo evidente che la «regolarizzazione postuma» finirebbe per consentire ad una impresa di partecipare alla gara senza preoccuparsi dell'esistenza a proprio carico di una irregolarità contributiva, potendo essa confidare sulla possibilità di sanare il proprio inadempimento in caso di aggiudicazione (e, quindi, a seconda della convenienza);
• in tal senso la Plenaria condivide e fa proprie le conclusioni indicate nella determinazione n. 1/2015 dell'Anac secondo la quale il nuovo istituto del soccorso istruttorio «non può, in ogni caso, essere strumentalmente utilizzato per l'acquisizione, in gara, di un requisito o di una condizione di partecipazione, mancante alla scadenza del termine di presentazione dell'offerta»;
• se fosse resa praticabile la regolarizzazione postuma verrebbe consentita, al soggetto che abbia perso e poi riacquisito il requisito della regolarità contributiva, di conseguire l'aggiudicazione in violazione del «principio di continuità» (cfr. Cons. stato, Ad. plen. 20.07.2014, n. 8), secondo il quale il possesso dei requisiti non può essere perso dal concorrente neanche temporaneamente nel corso della procedura;
• le sentenze in esame, infine, affermano che la regolarizzazione postuma sarebbe pure contraria alla giurisprudenza comunitaria (cfr. Cge pronuncia del 9/2/1996, in cause riunite C-226/04 e C-228/04) la quale ha già da tempo affermato che «la sussistenza del requisito della regolarità fiscale e contributiva (che, pure, può essere regolarizzato in base a disposizioni nazionali di concordato, condono o sanatoria) deve comunque essere riguardata con riferimento insuperabile al momento ultimo per la presentazione delle offerte, a nulla rilevando una regolarizzazione successiva la quale, pertanto, non potrà in alcun modo incidere sul dato dell'irregolarità ai fini della singola gara».
In base alle ragioni esposte l'Adunanza plenaria del Consiglio di stato ha così risolto il precedente contrasto affermando che anche dopo l'entrata in vigore dell'art. 31, comma 8, del dl n. 69/2013 (conv. dalla legge 09.08.2013, n. 98), non sono consentite regolarizzazioni postume della posizione previdenziale, dovendo l'impresa essere in regola con l'assolvimento degli obblighi previdenziali e assistenziali fin dalla presentazione dell'offerta e conservare tale stato per tutta la durata della procedura di aggiudicazione e del rapporto con la stazione appaltante, restando dunque irrilevante, un eventuale adempimento tardivo dell'obbligazione contributiva.
L'istituto dell'invito alla regolarizzazione (il c.d. preavviso di Durc negativo), previsto a livello legislativo dall'art. 31, comma 8, del dl n. 69/2013 e regolamentato dal dm 30/01/2015, può operare solo nei rapporti tra impresa ed ente previdenziale, ossia con riferimento al Durc chiesto dall'impresa e non anche al Durc richiesto dalla stazione appaltante per la verifica della veridicità dell'autodichiarazione resa ai sensi dell'art. 38, comma 1, lett. i) ai fini della partecipazione alla gara d'appalto.
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Doppio binario per la verifica.
La Plenaria, nella
sentenza 29.02.2016 n. 5, ha ribadito che l'incameramento della cauzione provvisoria previsto dall'art. 48 del Codice dei contratti pubblici, costituisce una conseguenza automatica del provvedimento di esclusione, come tale non suscettibile di alcuna valutazione discrezionale con riguardo ai singoli casi concreti.
Non v'è dubbio che, di fatto, la decisione presa dal Consiglio di stato vanifichi parzialmente i recenti interventi legislativi di semplificazione finalizzati, fra l'altro, a consentire il superamento dei vincoli che in precedenza avevano limitato l'efficacia e l'utilizzo del certificato in parola con riferimento al richiedente e al singolo procedimento o fase del contratto, affermando così il c.d. principio di unicità del Durc (sancito pure dall'Inps nella circolare n. 126/2015).
La posizione così assunta impone, quindi, la necessità di rivedere la procedura delineata nel decreto del ministero del lavoro del 30/01/2015.
In futuro gli istituti dovranno, come già accadeva in passato, utilizzare un doppio binario per la verifica della regolarità contributiva:
- per gli appalti pubblici l'accertamento andrà cristallizzato alla data che, di volta in volta, la stazione appaltante dovrà espressamente indicare nella richiesta del Durc (indicazione che, peraltro, la procedura online attualmente non prevede);
- per gli altri utilizzi (es. appalti privati in edilizia, accesso a benefici e sovvenzioni ecc.) gli istituti, in caso di riscontrata irregolarità, inviteranno, invece, il soggetto interessato a regolarizzare la riscontrata non conformità con conseguente emissione, in caso d'intervenuta regolarizzazione, del Durc online.
In una prospettiva di armonizzazione, e al fine di semplificare la procedura di rilascio del certificato, sarebbe quindi auspicabile un intervento legislativo che, magari nel corpo normativo dell'ormai imminente nuovo codice dei contratti pubblici, contempli l'istituto dell'invito alla regolarizzazione anche per le gare d'appalto, tamponando così la breccia aperta dalla decisione del Consiglio di stato (articolo ItaliaOggi Sette del 21.03.2016).

ATTI AMMINISTRATIVI: L'amministrazione deve motivare le decisioni sulla Ztl. Tar Abruzzo.
Contrordine: la Ztl del centro storico resterà aperta alle auto sabato pomeriggio, diversamente che in passato. Lo stabilisce il sindaco, ma l'amministrazione locale non fornisce una spiegazione della decisione adottata, tanto che l'ordinanza è annullata per mancanza di motivazione.
Anche i provvedimenti che disciplinano le zone a traffico veicolare limitato, infatti, devono rendere conto dell'impatto che la nuova regolamentazione avrà sulla circolazione e la sicurezza nell'area, oltre che sull'ambiente e la salute dei cittadini che vi abitano.

È quanto emerge dalla sentenza 26.02.2016 n. 62, pubblicata dal TAR Abruzzo-Pescara.
Impatto ambientale - Accolto sul punto il ricorso proposto da un gruppo di residenti e da un'associazione. Il sindaco riduce i paletti della Ztl: lo stop alle auto scatta solo la domenica pomeriggio e non più anche il sabato dalle ore 17 alle 20. Su questo fronte il comune è inattaccabile.
L'ordinanza risulta invece carente sull'apertura della Ztl perché non dà conto dell'istruttoria svolta prima della decisione che ha portato alla deregulation.
Il provvedimento del sindaco, infatti, si limita a richiamare la vecchia regolamentazione dell'area senza indicare i motivi che hanno portato alla modifica né prefigurare l'impatto della decisione sul territorio e sul patrimonio culturale e ambientale del centro storico. Spese di giudizio compensate (articolo ItaliaOggi del 26.03.2016).
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MASSIMA
4 – Alla stessa conclusione non può pervenirsi riguardo all’ordinanza 323/2015, con cui si è disposto “di aggiornare la disciplina delle aree pedonali – zone a traffico limitato – zone di sosta con disco orario – parcheggi a pagamento” nonché “di integrare ai sensi dell’art. 7 commi 8-11, del vigente C.d.S. le zone di rilevanza urbanistica (ZRU) nelle aree Pescara “Centro” e “Centro Storico”, già individuate con delibera di G.C. n. 136/2013 e s.m.i…”, oggetto del giudizio nella parte in cui dispone in merito alla ZTL 3 con i seguenti orari “domenica e festivi: 16.00-20.00” con sospensione della stessa per il periodo dall’8 dicembre al 6 gennaio.
È pacifico tra le parti che effetto del provvedimento è che la ZTL non è operante, a differenza della precedente regolamentazione, il sabato pomeriggio dalle 17 alle 20 (cfr. relazione dell’ufficio, pag. 4).
Va osservato che
l’ordinanza non fornisce alcuna motivazione sul punto né dà indicazioni dell’attività istruttoria svolta ai fini della determinazione assunta, limitandosi a richiamare atti pregressi senza evidenziare le ragioni che hanno reso opportuno la loro modifica nel senso indicato.
La materia è regolata dall’art. 7, comma 9, del Codice della Strada, a norma del quale “I comuni, con deliberazione della giunta, provvedono a delimitare le aree pedonali e le zone a traffico limitato tenendo conto degli effetti del traffico sulla sicurezza della circolazione, sulla salute, sull'ordine pubblico, sul patrimonio ambientale e culturale e sul territorio. In caso di urgenza il provvedimento potrà essere adottato con ordinanza del sindaco, ancorché di modifica o integrazione della deliberazione del giunta”.
Tralasciando ogni rilievo in ordine al riparto delle competenze tra Giunta e Sindaco, non essendovi specifiche deduzioni al riguardo, va osservato che
è la stessa norma che delinea il quadro degli interessi che l’amministrazione deve prendere in considerazione allorché adotta provvedimenti in materia (“…tenendo conto degli effetti del traffico sulla sicurezza della circolazione, sulla salute, sull'ordine pubblico, sul patrimonio ambientale e culturale e sul territorio”).
Era perciò necessario che l’Amministrazione desse conto delle valutazioni effettuate in ordine all’incidenza delle nuove misure sugli interessi pubblici sottesi alla istituzione e disciplina della ZTL in questione.

La carenza di ogni motivazione sul punto, che non può essere supplita dalle deduzioni difensive ed essendo comunque irrilevante sulla legittimità dell’atto la circostanza che l’Amministrazione abbia “in programma l’attuazione di alcuni interventi strutturali sulla viabilità della zona di Viale Regina Margherita”, conduce all’accoglimento del motivo nella parte diretta contro l’ordinanza 323/2015.

URBANISTICA: L’impugnazione di strumenti urbanistici generali, quale è il PGT, esclude l’esistenza di controinteressati, da intendersi questi ultimi come soggetti individuati o facilmente individuabili nel provvedimento impugnato, aventi uno specifico e diretto interesse alla conservazione del medesimo e quindi al rigetto del ricorso.
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1.1 Il resistente eccepisce dapprima l’inammissibilità del ricorso, ai sensi dell’art. 41 del D.Lgs. 104/2010 (“Codice del processo amministrativo” o c.p.a.), per omessa notificazione del medesimo ad un controinteressato, da individuarsi nell’ente pubblico proprietario del terreno condotto in affitto agrario dall’esponente.
L’eccezione è infondata, in quanto l’impugnazione di strumenti urbanistici generali, quale è il PGT, esclude l’esistenza di controinteressati, da intendersi questi ultimi come soggetti individuati o facilmente individuabili nel provvedimento impugnato, aventi uno specifico e diretto interesse alla conservazione del medesimo e quindi al rigetto del ricorso (sulla nozione di “controinteressato”, si veda, fra le tante, TAR Toscana, sez. I, 16.03.2015, n. 396).
Sull’inesistenza di controinteressati, in caso di impugnazione di un atto generale quale è il Piano Regolatore Generale (ora, nella Regione Lombardia, PGT), si veda, fra le più recenti: Consiglio di Stato, sez. IV, 07.05.2015, n. 2316, con la giurisprudenza ivi richiamata
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 23.02.2016 n. 374 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Alla luce dell’evoluzione della giurisprudenza amministrativa in materia, la normativa in materia di VAS non impone una rigorosa separazione fra Autorità competente e procedente, potendo le stesse essere scelta anche fra articolazioni o organi della stessa amministrazione, anche in caso di strutture amministrative di piccole dimensione, come quelle di molti comuni.
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2.1 Nel primo motivo di ricorso, viene denunciata la violazione di una pluralità di norme –di carattere comunitario, statale e regionale– riguardante la disciplina della VAS (Valutazione Ambientale Strategica, di cui alla direttiva 2001/42/CE), in quanto sarebbe illegittima la scelta dell’Autorità competente e di quella procedente per la VAS, individuate rispettivamente nel Responsabile del Servizio Urbanistica del Comune di Livraga e nel Sindaco del Comune stesso (cfr. i documenti 2 e 4 del ricorrente).
A detta dell’esponente, infatti, il rapporto di subordinazione esistente fra il Responsabile del Servizio ed il Sindaco finirebbe per ledere l’autonomia e l’indipendenza di valutazione del primo, con conseguente lesione delle garanzie di imparzialità e terzietà della valutazione ambientale.
La doglianza deve reputarsi infondata, alla luce dell’evoluzione della giurisprudenza amministrativa in materia, a partire dalla pronuncia del Consiglio di Stato sez. IV, 12.01.2011, n. 133, secondo cui la normativa in materia di VAS non impone una rigorosa separazione fra Autorità competente e procedente, potendo le stesse essere scelta anche fra articolazioni o organi della stessa amministrazione, anche in caso di strutture amministrative di piccole dimensione, come quelle di molti comuni (cfr., fra le più recenti, Consiglio di Stato, sez. IV, 17.09.2012, n. 4926 e TAR Liguria, sez. I, 21.11.2013, n. 1404)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 23.02.2016 n. 374 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: È illegittimo il silenzio-rifiuto delle Poste. Tar Piemonte.
Il destinatario della raccomandata a/r ha perso la busta e ora non sa più che data porta la lettera speditagli dall'assicurazione. Il punto è che l'informazione è fondamentale per dimostrare che nel frattempo è intervenuta la prescrizione nella relativa controversia: risulta dunque illegittimo il silenzio-rifiuto serbato in materia dalle Poste, che dovranno invece consegnare entro un mese all'interessato la copia dei registri di consegna da cui si evincono la data e il numero di identificazione del plico. E ciò anche se per gli uffici della Spa questo impone una ricerca ad hoc, anche laboriosa.

È quanto emerge dalla sentenza 18.02.2016 n. 207, pubblicata dalla I Sez. del TAR Piemonte.
Elaborazione esclusa - Accolto il ricorso dell'utente che ha diritto all'accesso ai documenti in base alla legge sulla trasparenza. È evidente che Poste Italiane non può rispondere a ogni utente che smarrisce la busta dalla raccomandata col relativo timbro di spedizione.
L'interesse qualificato che consente l'ostensione dei documenti, nel caso specifico, è proprio la sussistenza di una controversia giudiziaria per la quale la data della lettera inviata dall'assicurazione assume un valore dirimente rispetto all'estinzione del diritto azionato.
E in effetti Poste ben può provvedere perché l'utente non chiede un'attività che consiste in un'elaborazione di dati ma soltanto una ricerca, per quanto non semplice, che si risolve nel consultare il registro, estrarre il dato richiesto e poi fare semplicemente la fotocopia della pagine in cui sono stati trascritti i dati (articolo ItaliaOggi del 26.03.2016).
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MASSIMA
Il ricorso è fondato, nei limiti che verranno precisati.
Va premesso che la ricorrente chiede l’accesso ad una raccomandata, al fine di dimostrare l’intervenuta interruzione dei termini di prescrizioni nell’ambito di una causa in materia assicurativa.
Ricopre quindi una posizione qualificata all'esercizio del diritto di accesso, a tutela di un interesse evidentemente funzionale ad una eventuale azione giudiziaria.
Va ricordato che,
secondo l’orientamento prevalente, l’accesso deve avere un oggetto determinato o quanto meno determinabile; la domanda non può essere generica e deve riferirsi a specifici documenti senza necessità di un'attività di elaborazione di dati da parte del soggetto destinatario della richiesta.
Se non può in linea di principio pretendersi che l’istante in sede di accesso agli atti indichi specifici dati (quali il numero di protocollo e la data di formazione di un atto) non in suo possesso, deve in ogni caso rilevarsi come l'Amministrazione, in detta sede, sia tenuta a produrre documenti individuati in modo sufficientemente preciso e circoscritto e non anche a compiere attività di ricerca ed elaborazione degli stessi.
Ciò al fine di coniugare il diritto alla trasparenza con l'esigenza di non pregiudicare, attraverso un improprio esercizio del diritto di accesso, il buon andamento dell'Amministrazione, riversando sulla stessa l'onere di reperire documentazione inerente un determinato segmento di attività.
Richieste generiche, infatti, sottoporrebbero l'Amministrazione a ricerche incompatibili sia con la funzionalità dei plessi, sia con l'economicità e la tempestività dell'azione amministrativa.

In altri termini,
a prescindere dalla specifica indicazione della data e del numero di protocollo attribuito agli atti richiesti, non v’è dubbio come l'accesso non possa costringere l'Amministrazione ad attività di elaborazione dati, di guisa che la relativa istanza non può essere generica, eccessivamente estesa o riferita ad atti non specificamente individuati.
Nel caso di specie la difficoltà risiede proprio nel fatto che la ricorrente chiede copia di un documento, proprio perché interessata a conoscere i dati identificativi dello stesso, mentre l’Amministrazione ritiene di non poter risalire all’atto senza detti elementi identificativi.
Si poneva quindi in capo all’Amministrazione l’obbligo di avviare una ricerca, presumibilmente consultando un registro in cui sono trascritti giornalmente i dati della corrispondenza (mittente, destinatario, data di consegna), quindi di porre in essere una attività non di elaborazione, ma di ricerca, consistente nel consultare il registro, estrarre il dato richiesto, anche effettuando semplicemente la fotocopia della pagine in cui sono stati trascritti i dati.
In tal senso probabilmente la domanda di accesso poteva essere soddisfatta, poiché non richiedeva una attività di elaborazione di dati, ma solo una attività di ricerca, fase connaturale ad ogni domanda di accesso.
Per tale ragione il ricorso va accolto, poiché il diniego all’accesso è illegittimo in quanto sorretto da un interesse giuridicamente rilevante e diretto ad ottenere un atto, il cui rinvenimento non implica una attività elaborativa.

VARI: Anche la Cassazione striglia i call center sulle chiamate mute. Dopo l'intervento del Garante una sentenza ferma le telefonate generate automaticamente.
Stop alle telefonate mute: sono fuorilegge. Anche per la Corte di Cassazione - Sez. I civile, che con la sentenza 04.02.2016 n. 2196 bacchetta i call center che utilizzano lo stratagemma dell'overbooking di chiamate telefoniche. Ossia, un sistema automatizzato chiama più numeri di quanti siano gli operatori disponibili, per evitare tempi morti.
Così, a volte, c'è un utente in linea ma nessun addetto del call center pronto a parlare. Il risultato è un trattamento dei dati (il numero del chiamato) non corretto: perché disturbare qualcuno e farlo stare in attesa e nell'ansia di non sapere chi c'è all'altro capo del filo? Ma non si tratta solo di una scorrettezza, si tratta di una vera e propria illegittimità. Lo ha detto il Garante della privacy e lo ha confermato la corte suprema, che ha convalidato una decisione del collegio presieduto da Antonello Soro.
La pronuncia ha rilevato l'effettuazione delle chiamate multiple attraverso un sistema, definito predictive. Esiste cioè un compositore numerico che connette gli operatori (a quei numeri che danno risposta positiva. In caso di minor numero di operatori rispetto alle risposte positive, però, il destinatario, proprio in considerazione della prescelta modalità, è esposto al rischio di non ricevere risposta alla chiamata. Il Garante della privacy ha ritenuto questo sistema contrario ai principi del codice della privacy: secondo gli articoli 4 e 11 del Codice della privacy, i dati personali vanno gestiti rispettando i canoni della correttezza, pertinenza e non eccedenza rispetto alle finalità del loro utilizzo.
Anche i giudici hanno ritenuto scorretta la modalità di trattamento del dato messa in atto dal sistema di telemarketing, in quanto tale modalità mira a ottimizzare il successo delle chiamate passate agli operatori, facendo ricadere il rischio, e il disagio, della chiamata «muta» sui soli destinatari. Per la Cassazione non ha alcuna importanza se la percentuale delle telefonate «mute» è molto bassa. Inoltre, la Cassazione aggiunge anche un altro motivo di illegittimità: costituiscono un trattamento dei dati personali con sistemi automatici di chiamata, che è consentito dal Codice della privacy (artt. 129 e 130) solo con il consenso dell'interessato.
L'esonero dall'obbligo di acquisire il previo consenso riguarda solo il marketing diretto, effettuato mediante l'uso del telefono con l'operatore. Mentre, prosegue la sentenza in esame, non rientrano nel concetto di marketing diretto con operatore, ma riguardano sistemi automatici di chiamata, le telefonate con contatto abbattuto (quelle appunto «mute»), proprio perché in esse l'operatore manca.
La Cassazione, quindi, conclude che l'articolo 130, comma 3-bis, del Codice della privacy, che consente, in deroga al principio del consenso espresso, il trattamento dei dati personali mediante l'impiego del telefono per le comunicazioni di natura commerciale nei confronti di chi non abbia esercitato il diritto di opposizione mediante iscrizione della propria numerazione nel registro pubblico delle opposizioni (regime dell'opt-out), non trova applicazione nel caso in cui l'autore del trattamento abbia inviato telefonate senza operatore, né in quello in cui l'utenza chiamata non risulti inserita in uno degli elenchi cartacei o elettronici a disposizione del pubblico (come per esempio avviene per i telefoni cellulari).
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I paletti dell'Autorità.
Comfort noise per evitare che il chiamato sia raggiunto dalla telefonata di un malintenzionato. È uno stratagemma per rendere meno fastidiose le chiamate di telemarketing, alla ricerca di un non semplice equilibrio tra esigenze commerciali e diritto alla tranquillità individuale.
La prescrizione è inserita nel provvedimento 20.02.2014 del Garante della privacy, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 79 del 04.04.2014, con cui ha imposto agli operatori di telemarketing di adottare specifiche misure per arginare il fenomeno delle telefonate mute.
Il problema deriva dalle impostazioni dei sistemi centralizzati di chiamata dei call center, rivolte a massimizzare la produttività degli operatori.
Le regole fissate dal Garante per eliminare gli effetti distorsivi di questa pratica commerciale, prevedono che i call center devono tenere precisa traccia delle «chiamate mute», che dovranno comunque essere interrotte trascorsi 3 secondi dalla risposta dell'utente.
Non possono verificarsi più di 3 telefonate «mute» ogni 100 andate «a buon fine». Tale rapporto deve essere rispettato nell'ambito di ogni singola campagna di telemarketing.
L'utente non può essere messo in attesa silenziosa, ma il sistema deve generare una sorta di rumore ambientale, il cosiddetto «comfort noise» (come con voci di sottofondo, squilli di telefono, brusio), per dare la sensazione che la chiamata provenga da un call center e non da un eventuale molestatore.
L'utente disturbato da una chiamata muta non potrà essere ricontattato per cinque giorni e, al contatto successivo, dovrà essere garantita la presenza di un operatore.
Infine i call center saranno tenuti a conservare per almeno due anni i report statistici delle telefonate «mute» effettuate per ciascuna campagna, così da consentire eventuali controlli.
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Il telemarketing selvaggio resiste.
Il telemarketing «selvaggio» resiste. E si discute se il Registro delle opposizioni sia stato davvero efficace contro le chiamate indesiderate.
Chi non vuole ricevere comunicazioni telefoniche commerciali iscrive il suo numero nel registro e dovrebbe essere al riparo (http://www.registrodelleopposizioni.it). Le aziende di marketing prima di lanciare una campagna devono sottoporre le loro liste al registro, che le ripulisce dalle linee iscritte.
Eppure stando all'ultima relazione annuale del Garante della privacy (per il 2014), per quanto riguarda le utenze telefoniche iscritte al Registro pubblico delle opposizioni è alto numero di segnalazioni relative alla ricezione di chiamate promozionali indesiderate. Segnalazioni e reclami in materia di marketing telefonico sono stati 2.220 (quasi il 50% del totale).
Numerose segnalazioni hanno riguardato anche telefonate a carattere commerciale effettuate nei confronti di utenze riservate, fisse e mobili, non presenti negli elenchi telefonici e anche di utenze, non riservate e non iscritte nel Registro pubblico delle opposizioni, per le quali è stato negato il consenso al trattamento dei dati personali nei confronti di una o più società.
In numerosi casi, rileva il Garante, le aziende che hanno svolto attività a contenuto promozionale hanno operato anche tramite terzi i quali, a loro volta, hanno ulteriormente demandato l'attività promozionale ad altri soggetti, talora stabiliti all'estero. Lo svolgimento dell'attività istruttoria ha comportato la necessità di svolgere un previo accertamento sulla titolarità delle utenze segnalate. In numerosi casi, il numero chiamante è risultato oscurato oppure solo apparentemente in chiaro (in quanto, ricontattando l'utenza telefonica, la stessa è risultata essere «inesistente»).
Nel 2014 il Garante ha trattato un totale di 1.398 pratiche, delle quali, per più di 1.000, è stata conclusa l'attività istruttoria. In più di 80 casi, inoltre, l'attività è stata definita con la trasmissione degli atti al Dipartimento competente per l'apertura di un procedimento sanzionatorio. Gli accertamenti svolti nell'ambito delle istruttorie, peraltro, hanno determinato in taluni casi la necessità di effettuare attività di carattere ispettivo nei confronti sia dei soggetti committenti l'attività di telemarketing, sia di alcuni call center.
Al 01.03.2016 nel Registro pubblico delle opposizioni sono presenti oltre 1.457.000 numerazioni, intestate ai cittadini che hanno manifestato il diritto di opposizione alle chiamate di telemarketing. Si ricorda che dal Registro pubblico delle opposizioni vengono rimosse periodicamente le numerazioni iscritte che sono cessate o per cui è cambiato l'intestatario.
Dall'inizio delle attività del servizio al 01.02.2016, circa il 58% delle iscrizioni sono state effettuate via web, il 36% tramite il numero verde, mentre il restante 6% di registrazioni è avvenuto con le modalità e-mail, fax e raccomandata.
Ma il Registro funziona? Secondo la Fondazione Bordoni, che gestisce il registro, bisogna distinguere l'impianto normativo con l'effettivo funzionamento del servizio. In sostanza si può essere in disaccordo con la scelta di lasciare la possibilità agli operatori di marketing di effettuare chiamate senza il previo consenso (a certe condizioni), ma la gestione del registro invece è ottimale. Per quanto riguarda il servizio fornito agli abbonati, il gestore ha gestito tutte le richieste di iscrizione pervenute entro il giorno lavorativo successivo, ha iscritto oltre un milione di cittadini, ha fornito assistenza e supporto predisponendo un apposito help desk a disposizione di tutti i cittadini e promosso iniziative di sensibilizzazione sulle nuove regole e sugli strumenti di tutela.
Certo è che con il varo del Registro sono stati introdotti obblighi per gli operatori di telemarketing. Le imprese che effettuano chiamate promozionali, si legge sul sito del gestore del servizio, sono obbligati a: indicare con precisione agli abbonati da dove sono stati estratti i loro dati personali; informarli della possibilità di iscrizione al Registro pubblico delle opposizioni al fine di non essere più contattati; garantire la propria identificazione mostrando il numero telefonico all'abbonato contattato.
Tra l'altro è un sistema adottato, oltre che dagli Stati Uniti, da molti paesi europei: Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Islanda, Olanda, Norvegia, Regno Unito, Spagna. All'estero le chiamo «liste Robinson».
Attenzione a non credere, però, che l'iscrizione al Registro protegga da tutte le chiamate di telemarketing.
Gli operatori di telemarketing possono, infatti, legittimamente chiamare se hanno ottenuto il diretto consenso dell'interessato, indipendentemente dall'iscrizione nel Registro. Il consenso potrebbe essere stato raccolto, per esempio, durante la stipula di contratti con le aziende dalle quali sono stati acquistati prodotti o servizi oppure durante la sottoscrizione di tessere di fidelizzazione cliente, raccolta punti: il consenso specifico non è superato dall'iscrizione nell'elenco.
È sempre possibile revocare il consenso dato a terzi inviando la richiesta cancellazione dei propri dati direttamente al soggetto titolare del trattamento dei dati; il titolare ha l'obbligo di rimuovere entro 15 giorni dalle proprie liste il numero telefonico in questione.
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Come iscriversi al Registro opposizioni.
Possono iscriversi nel Registro pubblico delle opposizioni gli abbonati (persona fisica, persona giuridica, ente o associazione), il cui numero telefonico è presente negli elenchi telefonici, che non desiderano essere contattati per proposte commerciali.
L'iscrizione è gratuita, a tempo indeterminato e revocabile senza alcuna limitazione.
Ci si può iscrivere in qualunque momento, a qualsiasi ora anche nei giorni festivi. Si possono iscrivere contemporaneamente più numerazioni intestate allo stesso abbonato.
L'iscrizione, inoltre, è sicura e protetta contro l'accesso abusivo.
L'accesso ai dati forniti dall'abbonato può avvenire solo per finalità ispettive da parte del Garante della privacy o dell'Autorità giudiziaria. L'iscrizione decade automaticamente quando cambia l'intestatario o si verifica la cessazione dell'utenza.
Per iscriversi nel Registro ci sono cinque modalità: compilando il modulo elettronico sul sito www.registrodelleopposizioni.it; chiamando il numero verde 800.265.265; inviando il modulo predisposto all'indirizzo di posta elettronica abbonati.rpo@fub.it; inviando la raccomandata al Gestore del Registro pubblico delle opposizioni – Abbonati, Ufficio Roma Nomentano, Casella Postale 7211, 00162 Roma; oppure spedendo il fax allo 06.5422.4822.
L'iscrizione è effettuata entro il giorno lavorativo successivo alla richiesta e diventa efficace al massimo trascorsi 15 giorni: dopo questo lasso di tempo gli operatori di telemarketing devono rispettare le opposizioni del cittadino.
Se un abbonato continua a ricevere chiamate pubblicitarie indesiderate, per prima cosa, deve verificare se l'iscrizione al Registro sia avvenuta con successo.
Si può, per esempio, chiamare il numero verde 800.265.265 dal numero telefonico per cui è stata fatta la richiesta di inserimento nel Registro. Occorre verificare, poi, se sono trascorsi 15 giorni dall'iscrizione.
Ma soprattutto bisogna controllare di non avere dato il consenso al trattamento dei propri dati per finalità di telemarketing a soggetti terzi che effettuano chiamate pubblicitarie da fonti diverse dagli elenchi telefonici pubblici. Tale consenso, avvisa la Fondazione Bordoni, che gestisce il registro, potrebbe essere stato raccolto, per esempio, durante la stipula di contratti con le aziende dalle quali sono stati acquistati prodotti o servizi oppure durante la sottoscrizione di tessere di fidelizzazione cliente, raccolta punti (articolo ItaliaOggi Sette del 27.03.2016).

APPALTISì alla gara se c'è l'istanza di concordato.
Alle gare pubbliche di appalto possono partecipare non solo le imprese che hanno già ottenuto il decreto di ammissione al concordato con continuità aziendale, ma anche quelle che hanno presentato domanda di concordato preventivo con riserva.

Questo è il principio espresso dal Consiglio di Stato -Sez. VI- con la sentenza 03.02.2016 n. 426.
Nello specifico, i giudici di Palazzo Spada sottolineano che è consentita la partecipazione alle procedure di affidamento di contratti pubblici non solo alle imprese che hanno già ottenuto il decreto di ammissione al concordato con continuità aziendale, «ma anche a quelle che abbiano presentato domanda di ammissione al concordato preventivo» con riserva, ai sensi dell'articolo 161, 6° comma, della Lf., in quanto, secondo la giurisprudenza prevalente, il deposito della domanda di concordato preventivo con riserva (c.d. «concordato in bianco») non comporta il venir meno dei requisiti prescritti dall'articolo 38 del codice dei contratti pubblici.
Il richiamato orientamento è del resto coerente le finalità della riforma della Lf. (approvata con il d.l. 22.06.2012, n. 83 del 2012, convertito dalla l. 07.08.2012, n. 134) che, nell'interesse del mercato e degli stessi creditori, è volta a «guidare l'impresa oltre la crisi», anche preservando «la capacita dell'impresa a soddisfare al meglio i creditori attraverso l'acquisizione di nuovi appalti».
Il principio generale della necessaria corrispondenza tra quota di partecipazione e quota di esecuzione -di cui al combinato dei commi 4 e 13 dell'articolo 37 del codice dei contratti pubblici- è posto a garanzia della stazione appaltante e del buon esito del programma contrattuale, con la conseguenza che la mancata dimostrazione di tale corrispondenza comporta l'esclusione dalla procedura.
Con riguardo all'articolo 37, 4° comma, e all'indicazione delle parti del servizio imputate alle singole imprese associate o associande, è necessario seguire «un approccio ermeneutico di natura sostanzialistica che valorizzi il dato teleologico del raggiungimento dello scopo della norma senza che assuma rilievo dirimente il profilo estrinseco del modo in cui siffatta esigenza sia soddisfatta»; con la conseguenza che tale obbligo «dovrà allora ritenersi assolto sia in caso di indicazione, in termini schiettamente descrittivi, delle singole parti del servizio da cui sia evincibile il riparto di esecuzione tra le imprese associate, sia in caso di indicazione quantitativa, in termini percentuali, della quota di riparto delle prestazioni che saranno eseguite tra le singole imprese».
Un tale approccio ermeneutico, consente di ritenere che, in questa circostanza, risulta pienamente soddisfatta l'esigenza -cui risponde l'obbligo di specificazione delle quote o delle parti del servizio assegnate a ciascuna impresa- di garantire alle amministrazioni aggiudicatrici la conoscenza preventiva del soggetto che eseguirà il servizio (articolo ItaliaOggi del 18.03.2016).
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MASSIMA
1. – Va rilevata, in via preliminare, l’infondatezza dell’eccezione di improcedibilità dell’appello dedotta dal raggruppamento aggiudicatario in relazione all’istanza -presentata al Tribunale di Roma in data 05.08.2015– con cui Fa. s.p.a. ha domandato l’ammissione al concordato preventivo con riserva, ai sensi dell’articolo 161, comma 6, della legge fallimentare (approvata con R.D. 16.03.1942, n. 267).
Questa istanza, proprio in quanto riservata –sostiene il raggruppamento appellato- non sarebbe idonea a garantire un concordato preventivo con caratteristiche di continuità aziendale secondo quanto previsto dall’articolo 186-bis della legge fallimentare, con la conseguenza che Fa. s.p.a. sarebbe ora priva del requisito di cui all’articolo 38, comma 1, lettera a), del Codice dei contratti pubblici, ai sensi del quale non possono partecipare a gare pubbliche i soggetti che “si trovano in stato di fallimento, di liquidazione coatta, di concordato preventivo, salvo il caso di cui all’art. 186-bis del R.D. 16.03.1942, n. 267, o nei cui riguardi sia in corso un procedimento per la dichiarazione di una di tali situazioni”.
La questione è stata affrontata dalla giurisprudenza che ha rilevato come la richiamata norma del Codice dei contratti pubblici consenta la partecipazione alle procedure di affidamento di contratti pubblici non solo alle imprese che hanno già ottenuto il decreto di ammissione al concordato con continuità aziendale, “ma anche a quelle che abbiano presentato domanda di ammissione al concordato preventivo (Cons. Stato, IV, 03.07.2014, n. 3344).
Né in senso contrario depone la circostanza che la domanda di concordato preventivo sia stata presentata “in bianco” o “con riserva”: come osserva l’appellante –e come risulta dallo stesso stralcio di visura camerale riportato nella memoria del raggruppamento appellato– Fa. s.p.a. ha attivato una procedura finalizzata all’ammissione ad un concordato preventivo con caratteristiche di continuità aziendale ai sensi del richiamato articolo 186-bis della legge fallimentare.
Anche sul punto
la giurisprudenza si è pronunciata espressamente affermando che il deposito della domanda di concordato preventivo con riserva (c.d. “concordato in bianco”) non comporta il venir meno dei requisiti prescritti dall’articolo 38 del Codice dei contratti pubblici (Cons. Stato, V, 22.12.2014, n. 6303; 27.12.2013, n. 6272; IV, n. 3344 del 2013 cit.).
Il richiamato orientamento è del resto coerente le finalità della riforma della legge fallimentare (approvata con il decreto-legge 22.06.2012, n. 83 del 2012, convertito dalla legge 07.08.2012, n. 134) che -nell’interesse del mercato e degli stessi creditori- è volta a “guidare l’impresa oltre la crisi”, anche preservando “la capacita dell’impresa a soddisfare al meglio i creditori attraverso l’acquisizione di nuovi appalti (Cons. St., V, n. 6272 del 2013 cit.).

EDILIZIA PRIVATA: La Dia serve entro un anno. Edilizia/una sentenza del Tar Lombardia.
Addio lavori se non si dà corso alla Dia (Denuncia di inizio attività) entro un anno né viene richiesta all'amministrazione una proroga ad hoc del titolo edilizio. Passa infatti l'orientamento giurisprudenziale più restrittivo secondo cui serve un provvedimento espresso del Comune che riconosce i motivi di forza maggiore per i quali non sono cominciati in modo tempestivo gli interventi previsti dalle denuncia di inizio attività.

È quanto emerge dalla sentenza 29.01.2016 n. 201, pubblicata dalla II Sez. del TAR Lombardia-Milano.
Impedimento oggettivo
Stop alla società che intendeva realizzare un nuovo edificio a uso residenziale. Non bastano i lavori già realizzati entro un anno dalla presentazione della Dia a dimostrare che l'impresa abbia davvero la seria intenzione di realizzare l'opera: risultano a tal proposito insufficienti l'abbattimento della tettoia, la rimozione della pavimentazione antistante, la deviazione della fognatura e la chiusura delle finestre.
E ciò perché non solo non si tratta di attività previste dalla denuncia presentata ma soprattutto non risultano assolutamente necessarie per costruire l'edificio che è oggetto della segnalazione all'autorità.
Quanto alle cause di forza maggiore, serve un provvedimento esplicito diversamente da quanto capita con l'accertamento dell'intervenuta decadenza dalla possibilità di svolgere i lavori.
Deve infatti escludersi che la sussistenza di cause di forza maggiore di per sé impediscano la decadenza dalla denuncia di inizio attività perché serve un esercizio di discrezionalità da parte dell'amministrazione, che deve verificare l'esistenza di un impedimento oggettivo (articolo ItaliaOggi del 22.03.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

CONDOMINIO - VARI: Stop ai «gattari» in terrazzo. Animali in condominio. Le indicazioni del Tar Catania.
Prendersi cura in luogo privato (quale un terrazzo di esclusiva proprietà) di gatti randagi, dando loro da mangiare seppur ad intervalli non regolari, espone chi pone in essere tale attività al rischio di vedersi far carico dell’obbligo di provvedere alle necessarie vaccinazioni ed altre incombenze relative ai felini.
Questo è il principio sancito dal TAR Sicilia-Catania, Sez. III, con sentenza 12.01.2016 n. 3.
Il caso, segnalato dal blog “24zampe” del Sole24 Ore, era nato da una denuncia di un condòmino, il quale aveva segnalato con un esposto la presenza di una colonia di gatti randagi che sostava spesso sul terrazzo di proprietà di un altro condòmino, causando gravi inconvenienti igienico sanitari all’intero condominio.
All’esposto faceva seguito una ordinanza del sindaco di Avola che imponeva al proprietario del terrazzo e tenutario della colonia felina di eliminare entro 10 giorni tutti gli inconvenienti igienico sanitari generati dalla presenza degli animali, nonché di provvedere entro breve, tanto a ridurre la presenza di gatti sul terrazzo, quanto alle necessarie vaccinazioni dei felini.
Contro l’ordinanza presentava ricorso al Tar il destinatario del provvedimento amministrativo, sostenendo, in via principale, che egli non essendo proprietario dei gatti, che accudiva saltuariamente per puro spirito umanitario e senza averne un ritorno economico, non poteva essere obbligato a svolgere attività come quelle impostegli dal Comune.
Il Tar siciliano, tuttavia, respingeva il ricorso, in applicazione della Direttiva dell’Assessorato Regionale per la Sanità Ispettorato Veterinario del 13/02/2007, che al punto 3, «detenzione e maltrattamento degli animali», prevede che «chiunque detenga un animale o abbia accettato di occuparsene è responsabile della sua salute e del suo benessere, deve provvedere alla sua sistemazione, ed è severamente vietato abbandonarlo e/o maltrattarlo».
Sulla base di questo principio di diritto, pertanto, il Tar confermava l’ordinanza emessa dal Comune di Avola.
Il punto, allora, è il seguente: chi decide di accudire degli animali randagi (gatti in questo caso) in modo non occasionale, in questo modo ne assume la custodia, e quindi deve essere ritenuto responsabile della loro salute (provvedendo anche alle vaccinazioni obbligatorie per legge) e soprattutto è tenuto ad evitare i disagi e i problemi che possano derivare ai condòmini dalla presenza dei predetti felini. È chiaro, inoltre, che si potrebbe allora persino ipotizzare che il “gattaro” sia tenuto personalmente a rispondere di eventuali danni che gli animali potrebbero causare ad altri condòminila scarsa igiene dovuta alla presenza massiccia dei felini.
L’ordinanza del Tar potrà trovare amplie applicazioni nell’ambito della vita in condominio, dove una presenza massiccia di animali si può rivelare particolarmente gravosa per i condòmini che debbano subirla.
Per quanto riguarda la presenza di animali domestici in condominio, è utile ricordare la recente innovazione portata dalla legge di riforma del diritto condominiale 220/2012, che all’articolo 1138 del Codice civile prevede ora che le norme del regolamento di condominio non possano vietare di possedere o detenere animali domestici. Tale divieto, tuttavia, può rimanere se introdotto dal regolamento di condominio “contrattuale”, qualora cioè si sia espressa in tal senso l’unanimità dei condòmini
(articolo Il Sole 24 Ore del 22.03.2016).

TRIBUTI: Hotel, ko supertassa sui rifiuti. Tar Emilia.
Addio al rincaro del tributo per i rifiuti. Per giustificare il giro di vite, infatti, il comune non può limitarsi a richiamare le esigenze di bilancio, deve invece motivare l'aggravio rilevato nella copertura minima obbligatoria del servizio.
Ancora. L'hotel non può pagare a metro quadro importi quasi pari a 2,5 volte in più delle abitazioni se la delibera non distingue, ad esempio, fra superficie delle camere e locali destinati alla ristorazione.

È quanto emerge dalla sentenza 02.12.2015 n. 1056, pubblicata dalla II Sez. del Tar Emilia Romagna-Bologna.
L'amministrazione non sfugge all'onere di motivare l'aggravio introdotto anche se in questo caso l'aumento è del per cento e non rappresenta uno scostamento «anormale o eccessivo» (nella specie sulla Tarsu). Ma la delibera fa riferimento solo alla regolarità contabile e non indica elementi fondamentali come il costo e il gettito del servizio l'anno prima e le spese preventivate nella stagione in corso né quantifica l'ammontare di sgravi e rimborsi.
Insomma: l'ente locale deve dar conto dell'istruttoria effettuata e consentire di ricostruire sul piano contabile le motivazioni che hanno portato a decidere l'aumento delle tariffe. Altrimenti scatta lo stop.
Veniamo agli alberghi. La delibera del comune viola il principio eurounitario «chi inquina paga» perché non considera che le camere degli hotel sono più o meno assimilabili alle abitazioni private quanto a rifiuti prodotti, mentre è l'area della ristorazione a produrre più spazzatura: ecco perché risulta necessario distinguere fra le superfici a destinazione diversa. Senza dimenticare che la raccolta differenziata fa miracoli.
L'amministrazione avrebbe quindi dovuto fare riferimento a dati statistici rilevati sulla base di studi ad hoc riscontrabili dai cittadini per legittimare la scelta di applicare agli hotel la tariffa maggiore rispetto a quella applicata alle abitazioni civili mentre non poteva semplicemente richiamare le delibere adottate negli anni precedenti. Consiglio e Giunta dovranno adottare nuovi provvedimenti (articolo ItaliaOggi del 26.03.2016).
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MASSIMA
6. Nel merito il ricorso è fondato e deve essere accolto.
6.1. Con una prima censura i ricorrenti lamentano che il Comune di Riccione abbia fissato la misura della tassa 2011 per la classe F "alberghi, pensioni, locande, ospedali, residenze turistiche alberghiere" in € 6,088/mq, ossia in misura di gran lunga superiore a quella fissata, per lo stesso anno, per la classe A "abitazioni, circoli, uffici pubblici, stazioni FS, ostelli" pari ad € 2,513/mq, senza neanche distinguere tra locali ad uso abitativo e locali ad uso non abitativo.
La censura è fondata.
Il D.Lgs. 15.11.1993 n. 507 dispone testualmente, all'art. 65, comma 2: "Le tariffe per ogni categoria o sottocategoria omogenea sono determinate dal comune, secondo il rapporto di copertura del costo prescelto entro i limiti di legge, moltiplicando il costo di smaltimento per unità di superficie imponibile accertata, previsto per l'anno successivo, per uno o più coefficienti di produttività quantitativa e qualitativa di rifiuti" ed all'art. 69, comma 2: "Ai fini del controllo di legittimità, la deliberazione deve indicare le ragioni dei rapporti stabiliti tra le tariffe, i dati consuntivi e previsionali relativi ai costi del servizio discriminati in base alla loro classificazione economica, nonché i dati e le circostanze che hanno determinato l'aumento per la copertura minima obbligatoria del costo ovvero gli aumenti di cui al comma 3".
Ciò posto,
il Collegio rileva che, nel caso di specie, non risulta in base a quali studi, indagini o ricerche istruttore, né in base a quali dati siano state fissate le tariffe, con particolare riferimento anche ai rapporti tra le varie categorie.
Gli atti impugnati, infatti, non chiariscono attraverso quale percorso logico ovvero per quali ragioni di carattere politico-amministrativo siano state quantificate le tariffe per le diverse classi di contribuenza: in concreto mancano gli elementi motivazionali e, prima ancora istruttori, relativi all'effettiva capacità di ciascuna tipologia di locali di produrre rifiuti solidi urbani.
Il Comune di Riccione, viceversa, avrebbe dovuto fornire, sulla base di dati statistici rilevati a seguito di studi specifici ed oggettivamente riscontrabili, la dimostrazione delle ragioni per le quali ha ritenuto di applicare agli esercizi alberghieri una tariffa maggiore rispetto a quella applicata alle abitazioni civili e non limitarsi alla mera enunciazione di petizioni di principio o richiami a delibere di anni precedenti, come già visto, in alcun modo vincolanti.

6.2. Con un’altra censura i ricorrenti deducono la violazione del principio "chi inquina paga", affermatosi nella giurisprudenza della Corte di Giustizia dell'Unione europea, e la violazione del D.Lgs. n. 507/1993, segnatamente degli artt. 31, 58, 59, 61, 65, 68 e 69.
Anche tale censura è fondata.
L'art. 65, comma 1, D.Lgs. n. 507/1993 recita testualmente: "La tassa può essere commisurata o in base alla quantità e qualità medie ordinarie per unità di superficie imponibile dei rifiuti solidi urbani interni ed equiparati producibili nei locali ed aree per il tipo di uso, cui i medesimi sono destinati, e al costo dello smaltimento oppure, per i comuni aventi popolazione inferiore a 35.000 abitanti, in base alla qualità, alla quantità effettivamente prodotta, dei rifiuti solidi urbani e al costo dello smaltimento".
Il secondo comma del medesimo articolo dispone che la determinazione delle tariffe per ogni categoria o sottocategoria omogenea, deve essere effettuata "secondo il rapporto di copertura del costo prescelto entro i limiti di legge, moltiplicando il costo di smaltimento per unità di superficie imponibile accertata, previsto per l'anno successivo, per uno o più coefficienti di produttività quantitativa e qualitativa di rifiuti".
Risulta chiaro, alla stregua della su riportata normativa, che
la determinazione delle tariffe con riguardo alle diverse categorie e sottocategorie deve aver luogo tenendo conto della idoneità a produrre rifiuti dei locali e delle aree tassabili.
Nel caso di specie, viceversa, il Comune di Riccione ha utilizzato una differenziazione di tariffe che, sebbene possa far ritenere, in linea di principio, giustificato un regime di tassazione più elevato per gli alberghi con servizio di ristorazione, in considerazione del fatto che l'esercizio di un'attività di questo tipo può determinare una produzione quantitativamente e qualitativamente significativa di rifiuti, non appare corretto laddove non prevede alcuna distinzione, nell'ambito degli alberghi, fra le aree destinate esclusivamente a camere e quelle destinate alla ristorazione.
Deve ritenersi illogico, infatti, che un'area che manifesta una capacità di produrre rifiuti pari o, addirittura, inferiore a quella delle abitazioni private, debba essere assoggettata ad un regime di tassazione di gran lunga più elevato rispetto a quello previsto per tale tipologia di immobili.
Anche sotto questo profilo, dunque,
la delibera di Giunta n. 74 del 10.03.2011 è illegittima laddove prevede per gli alberghi un importo per la Ta.r.s.u. 2011 pari 2,42 volte l'importo fissato per le abitazioni private: queste ultime, infatti, sono autonomamente produttive di rifiuti, tanto che i sistemi di raccolta più recenti ne stanno perfezionando i metodi di differenziazione (cfr. Cons. Stato, sez. V, 01.08.2015, n. 3781).
6.3. Con una terza censura i ricorrenti lamentano che la delibera consiliare n. 14 del 17.02.2011 non ha motivato affatto le ragioni dell’aumento delle tariffe nella misura del 6% essendosi limitata ad affermare che, tenuto conto che "l'Amministrazione Comunale ha sostenuto un notevole aumento del costo del servizio sia dall'anno 2009 al 2010, sia dal 2010 al 2011",…."con un aumento del 6 % nelle tariffe dell'anno 2010 si raggiungerebbe un introito Ta.r.s.u. 2011 di € 11.250.000,00 circa che coprirebbe il 96,71 % circa del costo del servizio ed assicurerebbe anche una compilazione regolare del Bilancio di previsione 2011".
La censura è fondata.
L'art. 31 D.Lgs, 507/1993 dispone che, per determinare gli importi dovuti per la Ta.r.s.u., occorre fare "riferimento a dati del conto consuntivo comprovati da documentazioni ufficiali e non si considerano addizionali, interessi e penalità".
Alla stregua della suddetta disposizione l'ente locale, nella delibera con la quale determina gli importi dovuti per la Ta.r.s.u., deve esplicitare con chiarezza tutte le risultanze istruttorie, fornendo motivazione dettagliata delle ragioni delle proprie decisioni.

Nel caso di specie, viceversa, la delibera n. 14/2011 non rappresenta affatto quale sia stato il costo di esercizio del 2010, quale sia stato il gettito del servizio dello stesso anno, quale sia il costo preventivato per l'anno 2011, quale sia stato l'importo (deducibile) relativo al costo di raccolta dei rifiuti e l'ammontare della somma relativa a sgravi e rimborsi né, infine, a quanto ammonti il pur citato "notevole aumento della raccolta e dello smaltimento rifiuti svolto da Hera" (cfr. pag. 3, 2° cpv.).
In assenza dei dati suindicati l’aumento del 6%, per quanto non rappresenti uno scostamento anormale o eccessivo, non risulta motivato né sono altrimenti ricavabili elementi tali da consentire di ricostruire contabilmente la correttezza logica dell'iter argomentativo da cui è scaturito l’aumento della tassa in discorso, non essendo sufficiente a tal fine il mero richiamo a generiche esigenze di regolarità di bilancio (cfr. TAR Sicilia, Palermo, sez. I, 17.12.2009, n. 2017).
Ciò in aperta violazione dell'art. 69 comma 2, D.Lgs. 15.11.1993 n. 507, a tenore del quale il Comune deve specificatamente indicare, nelle delibere che comportano un incremento delle tariffe Ta.r.s.u., i dati e le circostanze che hanno determinato l'aumento per la copertura minima obbligatoria del costo del servizio.
Si tratta di una disposizione che prevede, in subjecta materia, una deroga al principio della non necessità della motivazione per gli atti a contenuto generale
(cfr. TAR Molise, 07.11.2014, n. 607).
In conclusione, assorbita ogni altra censura, il ricorso deve essere accolto con conseguente annullamento, in parte qua, delle delibere impugnate.
All'annullamento in sede giurisdizionale dei provvedimenti tariffari consegue il dovere dell'amministrazione di provvedere alla riedizione del potere esercitato, emendato dai vizi riscontrati.

AGGIORNAMENTO AL 23.03.2016

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LA STORIA INFINITA DELL'INCENTIVO ALLA PROGETTAZIONE INTERNA:
la Sez. controllo veneta della Corte dei Conti deferisce alla Sezione Autonomie la seguente questione di massima "Se gli incentivi previsti e disciplinati dai commi 7-bis, 7-ter e 7-quater del D.lgs. n. 163 del 12.04.2006 possano essere riconosciuti ed erogati al personale indicato dal comma 7-ter anche nel caso di progettazione affidata e realizzata da soggetti esterni alla stazione appaltante".

INCENTIVO PROGETTAZIONE: La Sezione delibera di sospendere la pronuncia sulla richiesta di parere formulata dal Comune di Gallio, disponendo la rimessione degli atti al Presidente della Corte dei conti per le sue valutazioni in ordine al deferimento della questione di massima come si seguito specificata: “Se gli incentivi previsti e disciplinati dai commi 7-bis, 7-ter e 7-quater del D.lgs. n. 163 del 12.04.2006 possano essere riconosciuti ed erogati al personale indicato dal comma 7-ter anche nel caso di progettazione affidata e realizzata da soggetti esterni alla stazione appaltante”.
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Il Sindaco del Comune di Gallio (VI) ha presentato richiesta di parere ai sensi dell’art. 7, comma 8, della legge 05.06.2003, n. 131, formulando il seguente quesito: “In sede di revisione ed aggiornamento del regolamento comunale per la erogazione degli incentivi connessi al Fondo per la progettazione e l’innovazione disciplinato all’art. 93 del D.Lgs. n. 163/2006, come modificato dall’art. 13-bis della L. n. 114/2014, è emerso il dubbio circa la possibilità di erogare tali incentivi anche in presenza di progettazione affidata all’esterno. Ciò in quanto non sembra sussistere univocità di interpretazione tra le varie sezioni dei magistrati contabili laddove la Corte dei Conti Piemonte, nel proprio parere 19.12.2013 n. 434 appare chiaramente condizionare l’erogazione degli incentivi in parola esclusivamente in presenza di progettazione interna, mentre la Sezione della Lombardia nel parere 20.07.2015 n. 236 evidenzia la legittimità di erogazione anche nel caso in cui la progettazione sia stata affidata all’esterno”.
...
Il quesito formulato dal Sindaco del Comune di Gallio, inoltre, può essere considerato sufficientemente generale ed astratto.
Lo stesso, come si dà atto nella stessa richiesta di parere, è stato già affrontato da altre Sezioni regionali di controllo e risolto in maniera contrastante.
In particolare, in merito si sono espresse la Sezione regionale di controllo per il Piemonte (parere 19.12.2013 n. 434) e quella per la Lombardia (parere 20.07.2015 n. 236) nonché
parere 01.10.2014 n. 247 e parere 28.10.2015 n. 351), con tesi discordanti: la prima, infatti, ha affermato che la norma (allora l’art. 92, comma 5, del D.lgs. n. 163/2006, successivamente abrogata dall’art. 13-bis del D.L. n. 90/2014, conv. dalla L. n. 114/2014 e sostituita, senza modifiche sostanziali, dal comma 7-ter dell’art. 93, sempre del D.lgs. n. 163/2006) ancorerebbe il riconoscimento del diritto ad ottenere l’incentivo alla circostanza che la redazione dell’atto di progettazione sia avvenuta all’interno dell’ente, sicché escluderebbe, per converso, il diritto al compenso in capo ai dipendenti dell’ufficio tecnico nel caso in cui tale redazione sia stata affidata all’esterno; la seconda, invece, ha affermato che, anche a seguito della modifica legislativa prima richiamata, permarrebbe il potere dell’amministrazione di disporre un riconoscimento economico in favore del personale interno concernente la fase della gestione degli appalti di opere anche nel caso di “esternalizzazione” dell’attività di progettazione.
Questa Sezione ritiene che l’interpretazione più corretta sia quella offerta dalla Sezione Lombardia. Quest’ultima si fonda sull’analisi della “nuova” disposizione introdotta dal D.L. n. 90/2014 –ossia del comma 7-ter dell’art. 93 del D.lgs. n. 163/2006– che, in deroga al principio di onnicomprensività della retribuzione, vigente nel pubblico impiego, in continuità con il previgente comma 5 dell’art. 92, attribuisce un compenso ulteriore e speciale a soggetti tassativamente individuati (responsabile del procedimento, incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo e loro collaboratori), subordinando, al pari della precedente, la corresponsione del suddetto compenso, disposta dal dirigente o dal responsabile di servizio preposto alla struttura competente, al “previo accertamento positivo delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti”, prevedendone, in caso contrario (accertamento negativo) la devoluzione in economia.
Presupposto indefettibile ai fini della erogazione dell’incentivo in esame, dunque, risulta essere l’effettivo espletamento, in tutto o in parte, di una o più attività afferenti alla gestione degli appalti pubblici e non anche il necessario svolgimento, all’interno dell’ente, dell’attività di progettazione, con conseguente legittimità del riconoscimento dell’emolumento anche in ipotesi di affidamento della progettazione all’esterno (purché si remuneri solo l’attività di supporto a quest’ultima, ove effettivamente svolta dai dipendenti dell’ente).
Del resto, questa Sezione si era già espressa in tal nel senso
(vedasi parere 26.07.2011 n. 337 e
parere 11.05.2012 n. 325).
E’ vero che la Sezione Piemonte, in un pronunciamento più recente (parere 20.01.2015 n. 17), affrontando la questione della spettanza dell’incentivo nel caso di progettazione parzialmente (e non interamente) affidata all’esterno dell’ente, ha affermato che “la normativa vigente non richiede, ai fini della legittima erogazione, il necessario espletamento interno di tutta l’attività progettuale, purché il regolamento ripartisca gli incentivi in maniera conforme alle responsabilità attribuite e devolva in economia la quota relativa agli incarichi conferiti a professionisti esterni”, ma non ci sono elementi per stabilire se si tratta semplicemente di una apertura rispetto alla posizione rigorosa emergente dalla precedente deliberazione del 2013 o piuttosto un vero e proprio revirement, sicché il contrasto, allo stato, sembra permanere.
In considerazione di ciò, in ossequio all’art. 6, comma 4, del D.L. n. 174 del 10.10.2012, conv. dalla L. n. 213 del 07.12.2012 -secondo cui “Al fine di prevenire o risolvere contrasti interpretativi rilevanti per l’attività di controllo o consultiva o per la risoluzione di questioni di massima di particolare rilevanza, la Sezione delle autonomie emana delibera di orientamento alla quale le Sezioni regionali di controllo si conformano”–
appare necessaria l’adozione di una pronuncia che risolva il contrasto segnalato dal Comune di Gallio nella richiesta di parere.
Questa Sezione, peraltro, è a conoscenza del fatto che,
su questione connessa a quella appena rappresentata, è stato già richiesto dalla Sezione per l’Abruzzo il deferimento alla Sezione delle Autonomie o alle Sezioni Riunite, ma la questione di massima formulata appare sostanzialmente diversa, involgendo la stessa la possibilità di riconoscere l’incentivo di cui all’art. 93 nell’ipotesi in cui “tutte le attività che la legge individua come incentivabili, sia di progettazione sia di direzione lavori, sia di collaudo, siano state svolte all’esterno dell’Ente da professionisti all’uopo incaricati (deliberazione 22.12.2015 n. 358).
P.Q.M.
la Sezione regionale di controllo per il Veneto
DELIBERA
di sospendere la pronuncia sulla richiesta di parere formulata dal Comune di Gallio, disponendo la rimessione degli atti al Presidente della Corte dei conti per le sue valutazioni in ordine al deferimento, ai sensi e per gli effetti dell’art. 6, comma 4, del D.L. n. 174 del 10.10.2012, conv. dalla L. n. 213 del 07.12.2012, della questione di massima come si seguito specificata: “
Se gli incentivi previsti e disciplinati dai commi 7-bis, 7-ter e 7-quater del D.lgs. n. 163 del 12.04.2006 possano essere riconosciuti ed erogati al personale indicato dal comma 7-ter anche nel caso di progettazione affidata e realizzata da soggetti esterni alla stazione appaltante” (Corte dei Conti, Sez. controllo Veneto, deliberazione 04.03.2016 n. 123).

     Ed ancora sull'argomento, ecco che alla Camera dei Deputati qualcuno si "sveglia" -con anni di colpevole ritardo- e pone il problema dell'incentivo in materia di pianificazione urbanistica ovverosia di chiarire "se l'intenzione del legislatore fosse quella di corrispondere l'incentivo a tutti i tipi di pianificazione oppure di circoscriverlo soltanto agli atti di pianificazione collegati alla realizzazione di opere pubbliche".
     Ciò detto per il sol fatto che alcuni comuni (tra i quali i comuni di Rivoli e Orbassano in provincia di Torino) hanno già proceduto, sulla base della pronuncia interpretativa -dirimente la querelle- della Corte dei Conti
(Sez. autonomie, deliberazione 15.04.2014 n. 7), ad instaurare procedimenti per la ripetizione di indebito nei confronti di propri dipendenti i quali –sulla base di regolamenti comunale emanati conformemente alla disciplina allora vigente– hanno ricevuto i suddetti incentivi per attività di pianificazione generale.
     Di seguito, l'interrogazione presentata:

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Atto Camera - Interrogazione a risposta scritta 4-12464 del 10.03.2016, seduta n. 587, presentata dall'On. BONOMO Francesca ed altri co-firmatari (link a www.camera.it).
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     Al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, al Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione. — Per sapere – premesso che:
la legge n. 109 del 1994, cosiddetta Legge Merloni, ha introdotto l'istituto degli incentivi spettanti agli Uffici per la progettazione interna agli enti pubblici (articolo 17 e 18);
la ratio della disciplina consiste, da un lato, nella valorizzazione delle professionalità esistenti dell'ente e, dall'altro, nell'esigenza di promuovere consistenti risparmi di spesa pubblica, atteso che l'espletamento delle mansioni ad opera del personale dipendente ha costi comunque ben inferiori all'aggiudicazione del servizio in favore di soggetti esterni all'amministrazione;
l'articolo 18 della legge n. 109 del 1994, nella versione originaria, consentiva di riconoscere una quota non superiore all'1 per cento del costo dell'opera o del lavoro in favore dell'ufficio «qualora esso abbia redatto direttamente il progetto esecutivo della medesima opera o lavoro»: la «legge Merloni» trattava, dunque, solamente gli incentivi per la redazione di progetti esecutivi di opere o lavori pubblici;
tale disciplina –che inizialmente riguardava soltanto gli incentivi per la redazione di progetti esecutivi di opere o lavori pubblici– è stata innovata, una prima volta, con l'articolo 6 del decreto-legge n. 101 del 1995, che ha esteso l'incentivo anche ai progetti (di opere o lavori) preliminari e definitivi, alle indagini geologiche e geognostiche nonché agli studi di impatto ambientale, ed all'aggiornamento dei progetti già esistenti «di cui sia riscontrato il perdurare dell'interesse pubblico alla realizzazione dell'opera»;
successivamente, con legge 15.05.1997, n. 127 (articolo 6, comma 13), l'incentivo è stato esteso anche alla redazione di atti di pianificazione: l'articolo 18 della «legge Merloni» è stato in tal sede modificato nel senso che «L'1 per cento del costo preventivato di un'opera o di un lavoro ovvero il 50 per cento della tariffa professionale relativa ad un atto di pianificazione generale, particolareggiata o esecutiva sono destinati alla costituzione di un fondo interno da ripartire tra il personale degli Uffici tecnici dell'amministrazione aggiudicatrice o titolare dell'atto di pianificazione, qualora essi abbiano redatto direttamente i progetti o i piani, il coordinatore unico di cui all'articolo 7, il responsabile del procedimento e i loro collaboratori». All'articolo 18 della legge n. 109 del 1994 fu dunque aggiunto il comma 1-bis, secondo il quale «il fondo di cui al comma 1 è ripartito per ogni singola opera o atto di pianificazione, sulla base di un regolamento dell'amministrazione aggiudicatrice o titolare dell'atto di pianificazione...»;
la «legge Merloni» è stata successivamente oggetto, in parte qua, di ulteriori novelle: con la legge 17.05.1999, n. 144 (articolo 13, comma 4) sono stati riscritti i commi 1, 1-bis e 2 dell'articolo 18 della legge n. 109 del 1994. Il primo comma dell'articolo 18 della legge n. 109 del 1994 è stato dedicato agli incentivi dovuti per la redazione dei progetti, del piano-sicurezza, per la direzione lavori ed il collaudo «di ogni opera o lavoro» (da corrispondersi in misura non superiore all'1,5 per cento dell'importo posto a base di gara); il comma 1-bis del medesimo articolo 18 della «legge Merloni» ha invece imposto di riconoscere ai «dipendenti dell'Amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto» il «30 per cento della tariffa professionale relativa ad un atto di pianificazione comunque denominato»;
tali previsioni sono state poi recepite dal decreto legislativo n. 163 del 2006, cosiddetto «Codice dei Contratti», ed in particolare dall'articolo 92, commi 5 e 6, in tema di incentivi alla progettazione e pianificazione urbanistica. La norma prevedeva compensi incentivanti sia in relazione alla progettazione di opere pubbliche (comma 5) sia in relazione alla redazione di atti di pianificazione (comma 6). Con particolare riferimento a questi ultimi, l'articolo 92, comma 6, statuiva (come già i previgenti articoli 17 e 18 della legge 12.02.1994, n. 109) che «Il trenta per cento della tariffa professionale relativa alla redazione di un atto di pianificazione comunque denominato è ripartito, con le modalità e i criteri previsti nel regolamento di cui al comma 5, tra i dipendenti dell'amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto»;
l'articolo 13 del decreto-legge n. 90 del 2014, convertito con modificazioni, dalla legge 11.08.2014, n. 114 (Gazzetta Ufficiale n. 144 del 24.06.2014) ha abrogato i commi 5 e 6 dell'orticolo 92 del codice dei contratti. Peraltro, contestualmente la stessa normativa ha introdotto, nel successivo articolo 93, commi 7-bis e seguenti, una disciplina degli incentivi alla progettazione del tutto analoga –per quanto qui interessa– alla precedente;
in attuazione di tali disposizioni i comuni e, più in generale, tutti gli enti pubblici dotati di nuclei di progettazione all'interno dei propri uffici, si sono dotati di un idoneo regolamento attuativo, sulla base del quale hanno erogato gli incentivi previsti dalla legge in favore dei propri dipendenti (Regolamento per la definizione ed il riparto dei fondi di incentivazione per la progettazione di opere pubbliche e la pianificazione urbanistica, ai sensi dell'articolo 92 del decreto legislativo n. 163 del 2006); 
la recente legge delega per l'attuazione della nuova disciplina europea in materia di appalti pubblici e concessioni (legge 28.01.2016, n. 11) ha previsto, al comma 1, lettera rr), una revisione della disciplina per gli incentivi per la progettazione interna delle pubbliche amministrazioni;
con riferimento alle disposizioni in vigore fin dal 1994, la disciplina del cosiddetto incentivo alla progettazione è stata oggetto di dubbi interpretativi, con particolare riferimento alla corretta portata applicativa delle disposizioni recate dall'articolo 92, comma 6, del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163: «Il trenta per cento della tariffa professionale relativa alla redazione di un atto di pianificazione comunque denominato è ripartito, con le modalità e i criteri previsti nel regolamento di cui al comma 5 tra i dipendenti dell'amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto» ed, in particolare, della definizione ivi riportata «atto di pianificazione comunque denominato»;
l'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture (AVCP), (
parere sulla normativa 21.11.2012 - rif. AG-22/12), nell'escludere la possibilità di estendere l'incentivo alla pianificazione dei servizi integrati di igiene urbana, ha diffusamente argomentato l'applicabilità dell'articolo 92, comma 6, del codice alla attività di pianificazione «comunque denominata», a prescindere dalla natura (puntuale o generale) dello strumento in corso di formazione;
secondo l'AVCP, «la pianificazione urbanistica, anche se in forma mediata, inerisce anche a opere o impianti pubblici... Infatti, i piani regolatori contengono tra le altre sia previsioni di c.d. zonizzazione... sia norme di localizzazione di aree destinate a formare spazi di uso pubblico, ovvero riservate a edifici pubblici o di uso pubblico...»;
l'Autorità ha sottolineato il nesso comunque sussistente tra pianificazione urbanistica e realizzazione di opere pubbliche: «la natura stessa e il contenuto della pianificazione urbanistica e in particolare dei piani regolatori consente l'erogazione dell'incentivo ex articolo 92, comma 6, del Codice dei contratti a favore dei dipendenti che abbiano partecipato alla redazione di tali strumenti urbanistici, in quanto tali atti afferiscono, sia pure mediatamente, alla progettazione di opere o impianti pubblici o di uso pubblico, dei quali definiscono l'ubicazione nel tessuto urbano»;
d'altro canto, l'orientamento dell'Autorità di vigilanza assumeva il diritto all'incentivo per l'attività di progettazione urbanistica –a prescindere dalla natura puntuale o meno dello strumento– sin dal 2000, in sede di interpretazione dell'articolo 18 del codice dei contratti (
determinazione 25.09.2000 n. 43, G.U. 43/2000 del 25.09.2000), dove si recita testualmente: «La dizione utilizzata dal legislatore “atto di pianificazione comunque denominato” fa ritenere che in esso possano ricomprendersi, oltre che i vari tipi di atti di pianificazione, anche quegli atti a contenuto normativo, quali per esempio i regolamenti edilizi, che accedono alla pianificazione, purché completi e idonei alla successiva approvazione da parte degli organi competenti»;
in nessun passo delle citate previsioni relative alla progettazione urbanistica il legislatore àncora la spettanza dell'incentivo alla natura di variante puntuale, propedeutica all'approvazione del progetto di opera pubblica, propria dello strumento redatto dagli uffici;
di diverso avviso, tuttavia, le pronunce del giudice contabile. La Corte dei Conti ha sottolineato, in particolare, che l'incentivo in esame può essere corrisposto esclusivamente nel caso in cui lo strumento di pianificazione sia strettamente connesso con la realizzazione di un'opera pubblica e non anche in relazione alla redazione di atti di pianificazione generale, quali possono essere il piano regolatore o una variante generale, i quali costituiscono diretta espressione dell'attività istituzionale dell'ente e non giustificano la deroga al principio dell'onnicomprensività della retribuzione (in tal senso –dopo diversi e contrastanti pronunce delle sezioni regionali– Corte dei Conti, sezione delle autonomie,
deliberazione 15.04.2014 n. 7); 
la Corte ha escluso la possibilità di riconoscere l'incentivo alla progettazione urbanistica ex se, dovendo concorrere –insieme alla redazione dell'atto di pianificazione– un requisito ulteriore individuato nella «intima connessione» tra lo strumento urbanistico in corso di formazione e la realizzazione di un'opera pubblica;
date le descritte incertezze interpretative, con
atto di segnalazione 25.09.2013 n. 4 al Governo, l'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici ha richiesto chiarimenti in merito alla medesima questione; a tale atto, tuttavia, non è stato dato alcun riscontro;
l'ANCI Toscana, nel
parere 20.06.2013 denominato «Gli incentivi per la progettazione urbanistica interna – la posizione di ANCI Toscana» ha illustrato come le intenzioni del legislatore fossero quelle di corrispondere l'incentivo per tutti i tipi di pianificazione urbanistica o territoriale, anche non puntuale. L'Associazione ritiene in particolare che: «La duplice ratio legis (contenimento della spesa pubblica e valorizzazione delle professionalità interne all'Ente) induce ad attribuire l'incentivo anche all'attività di pianificazione generale, altrimenti da affidare necessariamente all'esterno dell'Amministrazione. Inoltre, l'attività di pianificazione generale non costituisce espletamento di ordinarie mansioni dell'Ufficio, ricomprese nella retribuzione ordinaria, quanto impegno straordinario richiesto –in circostanze eccezionali (la redazione di un nuovo strumento)– al pubblico dipendente»;
al contrario, alcuni comuni (tra i quali i comuni di Rivoli e Orbassano in provincia di Torino) hanno già proceduto, sulla base delle pronunce interpretative della Corte dei Conti, a instaurare procedimenti per la ripetizione di indebito nei confronti di propri dipendenti i quali –sulla base di regolamenti comunale emanati conformemente alla disciplina allora vigente– hanno ricevuto i suddetti incentivi per attività di pianificazione generale:
1-
se i Ministri interpellati siano a conoscenza di questo rilevante contenzioso e contrasto interpretativo in merito all'originaria portata della disciplina relativa alla incentivi alla progettazione e pianificazione urbanistica ex articolo 92, commi 5 e 6, del decreto legislativo n. 163 del 2006;
2-
se non ritengano di dover assumere iniziative per chiarire con efficacia erga omnes quale fosse l'effettiva intenzione del legislatore, data la rilevanza dell'argomento –che incide su una delle funzioni fondamentali dell'amministrazione– e la gravità delle possibili conseguenze di un'errata applicazione delle norme;
3-
se –in particolare– si intenda chiarire l'intenzione del legislatore fosse quella di corrispondere l'incentivo a tutti i tipi di pianificazione (come sembrerebbe dalla dizione «atto di pianificazione comunque denominato») ovvero di circoscriverlo soltanto agli atti di pianificazione collegati alle opere pubbliche (varianti per il recepimento di opere pubbliche), come i recenti pareri (non tutti concordi) della Corte dei Conti hanno evidenziato;
4-
quali iniziative di competenza, anche normative, intendano assumere per evitare che le pubbliche amministrazioni –solo in base alla citata pronuncia della Corte dei Conti del 2014– utilizzino lo strumento della ripetizione di indebito in un caso, come quello in esame, dove i dipendenti hanno percepito i descritti emolumenti in forza di atti e regolamenti approvati dalle stesse amministrazioni in attuazione della normativa citata.

     Staremo a vedere quali saranno gli sviluppi, prossimamente...
23.03.2016 - LA SEGRETERIA PTPL

IN EVIDENZA

COMPETENZE PROGETTUALIIngegneri junior confinati alla collaborazione. Tecnici. I professionisti della sezione B sono autonomi solo per le costruzioni semplici.
Limiti severi per l’ingegnere junior nelle offerte di gara di appalto, qualora si tratti di offrire soluzioni migliorative.
Lo sottolinea il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 25.02.2016 n. 776, relativa a una gara di appalto in cui l’offerta tecnica consentiva innovazioni rispetto al progetto predisposto da un Comune.
I lavori messi in gara (completamento della rete fognaria e di un impianto di depurazione), esigevano soluzioni avanzate, innovative e sperimentali, ritenute di competenza dell’ingegnere iscritto nella sezione “A” (laurea magistrale) del Dpr 328/2001.
Il Consiglio di Stato sottolinea che le progettazioni effettuate dall’ingegnere junior non erano ascrivibili a mero concorso e collaborazione alle attività di progettazione di un professionista abilitato per la realizzazione di opere edilizie; «ciò in quanto tale attività deve intendersi quale collaborazione concreta alla redazione di un progetto in fieri e non quale attività di apporto di migliorie ad un progetto già redatto, rispetto al quale (le innovazioni, ndr) assumono carattere di autonomia».
L’ingegnere junior -secondo il Consiglio di Stato- può partecipare a progettazioni complesse solo sotto la direzione e il controllo di un ingegnere iscritto nella sezione “A”, può collaborare esclusivamente riguardo a opere edilizie (realizzando, modificando, riparando o demolendo un edificio, comprese le opere pubbliche) ed è autonomo per le sole costruzioni civili semplici.
Tra tali competenze non vi sono quindi quelle «proposte tecniche migliorative» che il Comune chiedeva, finalizzate alla migliore funzionalità e fruibilità –nel caso esaminato– di una rete fognaria nonché quelle finalizzate alla riduzione dei costi di manutenzione e gestione dell’opera, alla funzionalità delle varie fasi del processo depurativo, quelle per la gestione della sicurezza e dell’organizzazione del cantiere.
Le rispettive competenze degli ingegneri juniores e seniores non sono separate dall’uso (per i soli seniores) di metodologie avanzate, innovative o sperimentali, ovvero standardizzate: secondo il Consiglio di Stato le competenze sono anche divise dalla possibilità, per gli juniores, di operare solo in concorso e in collaborazione alle attività proprie degli ingegneri per opere edilizie e di progettare autonomamente solo costruzioni civili semplici.
Tutto questo ragionamento, coerente alle esigenze dell’utenza che esige specifiche capacità, ha comunque un peccato originale: nel caso specifico il progetto posto a base d’asta, che era solo da migliorare, risultava redatto da un geometra
(articolo Il Sole 24 Ore dell'01.03.2016).

COMPETENZE PROGETTUALI: Sulle competenze dell'ingegnere "junior".
L’art. 46, del d.P.R. n. 328 del 2001 stabilisce che: ”1. Le attività professionali che formano oggetto della professione di ingegnere sono così ripartite tra i settori di cui all'articolo 45, comma 1:
   a) per il settore "ingegneria civile e ambientale": la pianificazione, la progettazione, lo sviluppo, la direzione lavori, la stima, il collaudo, la gestione, la valutazione di impatto ambientale di opere edili e strutture, infrastrutture, territoriali e di trasporto, di opere per la difesa del suolo e per il disinquinamento e la depurazione, di opere geotecniche, di sistemi e impianti civili e per l'ambiente e il territorio; ……
2. Ferme restando le riserve e le attribuzioni già stabilite dalla vigente normativa e oltre alle attività indicate nel comma 3, formano in particolare oggetto dell'attività professionale degli iscritti alla sezione A, ai sensi e per gli effetti di cui all'articolo 1, comma 2, le attività, ripartite tra i tre settori come previsto dal comma 1, che implicano l'uso di metodologie avanzate, innovative o sperimentali nella progettazione, direzione lavori, stima e collaudo di strutture, sistemi e processi complessi o innovativi.
3. Restando immutate le riserve e le attribuzioni già stabilite dalla vigente normativa, formano oggetto dell'attività professionale degli iscritti alla sezione B, ai sensi e per gli effetti di cui all'articolo 1, comma 2:
   a) per il settore "ingegneria civile e ambientale": 1) le attività basate sull'applicazione delle scienze, volte al concorso e alla collaborazione alle attività di progettazione, direzione dei lavori, stima e collaudo di opere edilizie comprese le opere pubbliche; 2) la progettazione, la direzione dei lavori, la vigilanza, la contabilità e la liquidazione relative a costruzioni civili semplici, con l'uso di metodologie standardizzate; 3) i rilievi diretti e strumentali sull'edilizia attuale e storica e i rilievi geometrici di qualunque natura; …
”..

La ratio della norma deve individuarsi nell’intento di attribuire all’ingegnere “junior” la possibilità di partecipare a progettazioni complesse sotto la direzione ed il controllo di un ingegnere iscritto nella sezione “A” al precipuo scopo di evitare che nella concreta fase di realizzazione delle stesse possano essere commessi, per inesperienza legata alla mancata conclusione del ciclo di studi completo, errori potenzialmente forieri di conseguenze negative nella progettazione di opere più rilevanti.
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L’art. 46, comma 3, lettera a), n. 1), del d.P.R. n. 328 del 2001 stabilisce che gli ingegneri “junior” con laurea triennale possano svolgere attività basate sull’applicazione delle scienze, con mera attività di concorso e collaborazione rispetto all’attività degli ingegneri della sezione “A” e solo nel settore delle opere edili; solo in materia di edilizia privata gli ingegneri “junior” avrebbero competenze proprie, nei casi regolati dal comma 3, lettera a), n. 2 di detto art. 46.
Per il settore ingegneria civile ed ambientale l’ingegnere “junior” può svolgere la prevista attività di collaborazione esclusivamente con riguardo ad opere edilizie (cioè le opere, lavorazioni e interventi che mirano a realizzare, modificare, riparare o demolire, di norma, un edificio, e che, comunque individuate, devono essere finalizzate alla realizzazione dello stesso comprese le opere pubbliche) ed attività autonoma per le costruzioni civili semplici
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Circa l
a tesi prospettata sul rilievo che le rispettive competenze dei suddetti ingegneri derivino dagli artt. 51 e 52 del r.d. n. 2537 del 1925, in base ai quali la distinzione qualitativa conseguente ai percorsi formativi di accesso (relativi, rispettivamente, alle lauree e alle lauree specialistiche) si estrinsecherebbe solo nel riservare agli iscritti nella sezione “A” le attività che implicano l’uso di metodologie avanzate, innovative, o sperimentali, osserva al riguardo la Sezione che dette norme non prevedono la differenziazione in questione, che è individuata dall’art. 46 del d.P.R. n. 328 del 2001, in precedenza riportato, le cui disposizioni non pongono come unico discrimine tra le attività consentite per gli ingegneri iscritti alla sezione “A” e gli ingegneri iscritti alla sezione “B” solo l’uso di metodologie avanzate, innovative o sperimentali, ovvero standardizzate, ma anche la possibilità per i secondi di operare solo in concorso e in collaborazione alle attività proprie degli ingegneri per opere edilizie e di progettare autonomamente solo costruzioni civili semplici.
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... per la riforma della sentenza del TAR Campania, Sezione staccata di Salerno, Sezione II, n. 797 del 2015;
...
1.- La Eredi Pi.Ru.Co. s.a.s. di Ru.Pa. ha impugnato presso il TAR Campania, Sezione staccata di Salerno, il provvedimento n. 296 del 19.01.2015 con cui il Comune di Lapio, previa approvazione degli atti di gara, ha disposto l'aggiudicazione definitiva dei lavori di completamento ed adeguamento della rete fognaria e dell'impianto di depurazione alla società Av.Co. di G.Av. & C. s.a.s.; con il gravame
è stata dedotta l’illegittimità dell’impugnato provvedimento per violazione dell’art. 46 del d.P.R. 328 del 2001, in quanto gli elaborati dell’offerta tecnica sarebbero stati redatti e sottoscritti da un ingegnere “junior”, appartenente alle Sezione “B” di detto d.P.R., non abilitato a redigere i progetti richiesti dal bando di gara, di competenza esclusiva degli ingegneri appartenenti alla Sezione “A”.
La società ricorrente ha quindi chiesto l’aggiudicazione della gara e, qualora il contratto fosse già stato stipulato, che sia dichiarata l’inefficacia dello stesso, con subentro della società ricorrente; in via subordinata, ha chiesto il risarcimento dei danni patiti.
2.- Il TAR, con la sentenza in epigrafe indicata, ha respinto il ricorso principale nel sostanziale assunto che l’attività dell’ingegnere di cui trattasi, appartenente alla sezione “B”, rientrava nelle ipotesi di concorso e collaborazione alle attività di progettazione, direzione dei lavori, stima e collaudo di opere edilizie (comprese le opere pubbliche) da esso effettuabili in quanto il progetto recante migliorie che aveva redatto si fondava su un progetto già posto in essere dalla stazione appaltante e, quindi, era stato elaborato in concorso o collaborazione ad una progettazione relativa ad opere pubbliche.
Ciò considerato che la società ricorrente non aveva provato che le migliorie indicate nel progetto contestato avessero vita a soluzioni avanzate, innovative o sperimentali, di competenza dell’ingegnere iscritto nella Sezione “A”, ben potendo un progetto contenente soluzioni migliorative rispetto a quello predisposto della stazione appaltante prevedere metodologie standardizzate.
3.- Con il ricorso in appello in esame la Eredi Pi.Ru.Co. s.a.s. di Ru.Pa. ha chiesto l’annullamento o la riforma di detta sentenza, nonché il risarcimento dei danni in forma specifica o per equivalente, deducendo i seguenti motivi:
   a) Carenza, insufficienza, erroneità, contraddittorietà, irrazionalità ed illogicità della motivazione. Error in iudicando. Violazione dell’art. 46 del d.P.R. n. 328 del 2001. Violazione del bando di gara, sezione IX.3 (pag. 14). Eccesso di potere per manifesta illogicità ed irrazionalità. Difetto di istruttoria. Nullità dell’offerta tecnica. Violazione dell’art. 90, comma 8, del d.lgs. n. 163 del 2006.
Il TAR avrebbe confuso l’attività di collaborazione che all’ingegnere “junior” è consentito effettuare in concorso con un ingegnere appartenente alla sezione “A” con quella esperibile in collaborazione con l’U.T.C. del Comune di Lapio; inoltre non avrebbe considerato che le attività esperibili dall’ingegnere “junior” sarebbero riferite a costruzioni semplici e non ad opere pubbliche.
4.- Con memoria depositata il 22.06.2015 si sono costituiti in giudizio l’ingegnere “junior” Si.Ci. ed il SIND.In.AR.3 (Sindacato Nazionale Ingegneri juniores e Architetti juniores) che hanno dedotto l’infondatezza dell’appello, concludendo per la reiezione, nonché hanno chiesto di essere ammessi a chiamare in causa il M.I.U.R., per chiarire l’origine e la ratio del d.P.R. n. 328 del 2001, e comunque che sia ordinato ad esso di depositare i relativi atti preparatori.
5.- Con memoria depositata il 30.10.2015 le suddette parti controinteressate hanno sostanzialmente ribadito tesi e richieste.
6.- Con memoria depositata il 06.11.2015 si è costituito in giudizio il Comune di Lapio, che ha dedotto l’infondatezza dell’appello, nonché ha escluso la possibilità di attribuzione del risarcimento in forma specifica (stante l’esecuzione di una parte notevole dei lavori appaltati) e per equivalente (tenuto conto che la società appellante avrebbe dovuto essere esclusa per le ragioni indicate nel ricorso incidentale proposto in primo grado dalla società aggiudicataria).
7.- Alla pubblica udienza del 17.11.2015 il ricorso in appello è stato trattenuto in decisione alla presenza degli avvocati delle parti, come da verbale di causa agli atti del giudizio.
8.- L’appello è fondato.
9.- Con il primo motivo di gravame è stato dedotto che il TAR avrebbe confuso l’attività di collaborazione e concorso che poteva essere svolta da parte dell’ingegnere “junior” per la presentazione del progetto di cui trattasi insieme ad altro tecnico qualificato appartenente alla sezione “A” (diverso dal progettista ed esterno), con quella esperibile in concorso con l’U.T.C. del Comune di Lapio, con cui l’ingegnere “junior” non avrebbe potuto aver collaborato in quanto non era in rapporto di dipendenza con esso; peraltro la tesi del primo giudice contrasterebbe con il disposto dell’art. 90 del d.lgs. n. 163 del 2006, che esclude dalla partecipazione agli appalti gli affidatari di incarichi di progettazione.
Inoltre le attività previste dall’art. 46, n. 2, lettera a), del d.P.R. n. 328 del 2001 sarebbero riferite a costruzioni semplici e non ad opere pubbliche.
Sarebbe stata violata la lex specialis, che prevedeva, pena l’esclusione, che gli elaborati dell’offerta tecnica fossero sottoscritti da un progettista abilitato alla progettazione, ai sensi della normativa vigente; nel caso di specie gli elaborati suddetti erano stati redatti e sottoscritti unicamente da un ingegnere “junior”, e quindi non abilitato, sicché la controinteressata avrebbe dovuto essere esclusa dalla gara.
L’art. 46, comma 3, lettera a), n. 1), del d.P.R. n. 328 del 2001 stabilisce che gli ingegneri “junior” con laurea triennale possano svolgere attività basate sull’applicazione delle scienze, con mera attività di concorso e collaborazione rispetto all’attività degli ingegneri della sezione “A” e solo nel settore delle opere edili; solo in materia di edilizia privata gli ingegneri “junior” avrebbero competenze proprie, nei casi regolati dal comma 3, lettera a), n. 2 di detto art. 46.
Nel caso di specie quelle da progettare non sarebbero nemmeno state opere edili, ma opere per la difesa del suolo, per il disinquinamento e per le depurazioni, nonché sistemi ed impianti civili per l’ambiente ed il territorio, che, ex art. 45, comma 1, lettera a), del citato d.P.R., sarebbero di esclusiva competenza di ingegneri iscritti nella sezione “A” e per le quali non sarebbe prevista alcuna attività di concorso o collaborazione.
9.1.- Osserva la Sezione che il TAR ha respinto il ricorso introduttivo del giudizio nel sostanziale assunto che le prescrizioni della lex specialis circa la necessità che gli elaborati dell’offerta tecnica fossero sottoscritti da un progettista abilitato non erano state violate, perché l’attività svolta dall’ingegnere “junior” era consistita nel caso di specie nel concorso e collaborazione ad attività di progettazione di opere edilizie, comprese quelle pubbliche di cui trattasi, attività che era già stata svolta all’atto della redazione del progetto predisposto dalla stazione appaltante; ciò considerato che la società ricorrente non aveva provato che le migliorie indicate nel progetto redatto dal’ingegnere “junior” avessero dato vita a soluzioni avanzate, innovative o sperimentali, di esclusiva competenza dell’ingegnere iscritto nella Sezione “A”.
Il primo giudice ha quindi sostanzialmente ritenuto che le migliorie da apportare al progetto esecutivo redatto dalla stazione appaltante fossero identificabili in mera attività di collaborazione alla progettazione delle opere ivi indicate.
Osserva il collegio che il bando di gara, alla sezione IX - contenuti dell’offerta-, al punto IX.3 - documentazione tecnica-, prevedeva che, a pena di esclusione, gli elaborati dell’offerta tecnica avrebbero dovuto essere sottoscritti da un progettista abilitato all’esercizio della professione, ai sensi della normativa vigente e sottoscritti anche dal legale rappresentante in segno di accettazione; inoltre che le proposte contenute nell’offerta tecnica avrebbero dovuto essere sviluppate nel completo rispetto della normativa vigente nazionale e regionale ed avrebbero costituito integrazione delle corrispondenti indicazioni contenute negli elaborati progettuali posti a base di gara.
Il bando stesso, al punto VI.2.1) -Valutazione dell’offerta-, prevedeva che il progetto esecutivo non era suscettibile di modificazioni che ne alterassero in modo essenziale la sostanzialità e che erano ammesse proposte solo migliorative (cioè quelle che avessero apportato migliorie qualitativamente apprezzabili al progetto posto a base di gara, senza tuttavia stravolgerne l’identità, tali intendendosi solo le integrazioni esecutive, accorgimenti tecnici incidenti sulla funzionalità e sulla durata, proposte migliorative ed apporti di tecnologie innovative sul risparmio energetico).
L’art. 46, del d.P.R. n. 328 del 2001 stabilisce che: ”1. Le attività professionali che formano oggetto della professione di ingegnere sono così ripartite tra i settori di cui all'articolo 45, comma 1:
   a) per il settore "ingegneria civile e ambientale": la pianificazione, la progettazione, lo sviluppo, la direzione lavori, la stima, il collaudo, la gestione, la valutazione di impatto ambientale di opere edili e strutture, infrastrutture, territoriali e di trasporto, di opere per la difesa del suolo e per il disinquinamento e la depurazione, di opere geotecniche, di sistemi e impianti civili e per l'ambiente e il territorio; ……
2. Ferme restando le riserve e le attribuzioni già stabilite dalla vigente normativa e oltre alle attività indicate nel comma 3, formano in particolare oggetto dell'attività professionale degli iscritti alla sezione A, ai sensi e per gli effetti di cui all'articolo 1, comma 2, le attività, ripartite tra i tre settori come previsto dal comma 1, che implicano l'uso di metodologie avanzate, innovative o sperimentali nella progettazione, direzione lavori, stima e collaudo di strutture, sistemi e processi complessi o innovativi.
3. Restando immutate le riserve e le attribuzioni già stabilite dalla vigente normativa, formano oggetto dell'attività professionale degli iscritti alla sezione B, ai sensi e per gli effetti di cui all'articolo 1, comma 2:
   a) per il settore "ingegneria civile e ambientale": 1) le attività basate sull'applicazione delle scienze, volte al concorso e alla collaborazione alle attività di progettazione, direzione dei lavori, stima e collaudo di opere edilizie comprese le opere pubbliche; 2) la progettazione, la direzione dei lavori, la vigilanza, la contabilità e la liquidazione relative a costruzioni civili semplici, con l'uso di metodologie standardizzate; 3) i rilievi diretti e strumentali sull'edilizia attuale e storica e i rilievi geometrici di qualunque natura; …
”..

9.2.- Tanto premesso
ritiene il collegio fondate le censure in esame, in quanto nel caso che occupa, posto che non si verteva in materia di costruzioni civili semplici, non può ritenersi che le progettazioni effettuate dall’ingegnere “junior” fossero ascrivibili a mero concorso e collaborazione alle attività di progettazione di un professionista abilitato per la realizzazione di opere edilizie; ciò in quanto tale attività deve intendersi quale collaborazione concreta alla redazione di un progetto in fieri e non quale attività di apporto di migliorie ad un progetto già redatto, rispetto al quale assumono carattere di autonomia.
La ratio della norma deve infatti individuarsi nell’intento di attribuire all’ingegnere “junior” la possibilità di partecipare a progettazioni complesse sotto la direzione ed il controllo di un ingegnere iscritto nella sezione “A” al precipuo scopo di evitare che nella concreta fase di realizzazione delle stesse possano essere commessi, per inesperienza legata alla mancata conclusione del ciclo di studi completo, errori potenzialmente forieri di conseguenze negative nella progettazione di opere più rilevanti.

Nel caso che occupa le opere alle quali era previsto che le concorrenti potessero apportare migliorie mediante presentazione di elaborati redatti e sottoscritti da un progettista abilitato alla professione, consistevano nel completamento ed adeguamento della rete fognaria e di un impianto di depurazione.
In particolare, al punto VI.2.1) del bando di gara, era previsto che il progetto esecutivo era insuscettibile di modificazioni, ma erano ammesse solo proposte migliorie qualitativamente apprezzabili al progetto posto a base di gara, tali da non stravolgerne l’identità, tali intendendosi “esclusivamente le integrazioni esecutive, oltre agli accorgimenti tecnici incidenti sulla funzionalità e sulla durata, proposte migliorative ed apporti di tecnologie innovative sul risparmio energetico”.
Non vi è dubbio quindi che le migliorie in questione consistessero in autonoma attività professionale da svolgere da parte dell’ingegnere abilitato, senza alcuna collaborazione diretta e contestuale alla attività posta in essere dal redattore del progetto esecutivo posto a base di gara.
Peraltro dal tenore della norma sopra citata si evince con sufficiente chiarezza che
per il settore ingegneria civile ed ambientale l’ingegnere “junior” può svolgere la prevista attività di collaborazione esclusivamente con riguardo ad opere edilizie (cioè le opere, lavorazioni e interventi che mirano a realizzare, modificare, riparare o demolire, di norma, un edificio, e che, comunque individuate, devono essere finalizzate alla realizzazione dello stesso comprese le opere pubbliche) ed attività autonoma per le costruzioni civili semplici, tra le quali non sono computabili le opere previste dal bando di cui trattasi.
Dall’elenco degli elementi oggetto di valutazione indicati al bando di gara al punto VI.2.1) risulta infatti che le proposte tecniche migliorative sono state individuate:
1) in quelle finalizzate alla migliore funzionalità e fruibilità dell’intera rete fognaria durante i ciclo di vita utile dell’intera opera, nonché in quelle finalizzate alla durabilità delle opere ed alla riduzione dei costi di manutenzione e gestione dell’opera con disponibilità alla presa in carico del servizio di gratuita manutenzione ordinaria e straordinaria;
2) in quelle relative all’impianto di depurazione, con particolare riguardo alla funzionalità delle varie fasi del processo depurativo, nonché alla sistemazione dell’area esterna dell’impianto;
3) in quelle per la gestione della sicurezza e dell’organizzazione del cantiere e per la riduzione dei disagi, con minimizzazione delle interferenze con il traffico veicolare e pedonale e informativa all’utenza.
Come risulta dalle pagine da 30 a 32 della memoria difensiva di costituzione dei contro interessati, depositata il 22.06.2015, le migliorie sottoscritte dall’ingegnere “junior” Ci. consistevano, con riguardo alla rete fognaria, nella estensione della rete, nell’utilizzo di misto cemento all’interno degli scavi, nel ripristino della pavimentazione stradale, nella ottimizzazione delle stazioni di sollevamento, nel rifacimento di una strada di accesso ad una pompa di sollevamento, nel rifacimento di strade, nella sistemazione di un canale di deflusso delle acque, nella realizzazione di un muro di sostegno, nella progettazione e calcoli strutturali delle opere in cemento armato; con riguardo all’impianto depurativo consistevano nella fornitura e posa in opera di un sistema di automazione di un cancello, di una recinzione, nella messa in sicurezza di un apparecchio per la grigliatura, nella manutenzione di un canale di disabbiamento, nella fornitura di griglie, nella realizzazione di vasche di denitrificazione e di sedimentazione, nella fornitura di un nuovo sistema di areazione, nella realizzazione di un locale tecnico a servizio degli operatori, nel ripristino di una vasca di sedimentazione, nella riprofilatura di una vasca di contatto, nella fornitura di un sistema di dosaggio automatico di disinfettante e di un sistema di condizionamento, nella realizzazione di pavimentazione nella pulizia e sistemazione di area a verde, nella fornitura e posa in opera di un impianto di illuminazione con alimentazione fotovoltaica, nonché nella progettazione e calcoli strutturali per le opere in cemento armato.
Le opere progettate dall’ingegnere “junior” non erano qualificabili come opere civili semplici.
Ciò posto, non possono condividersi nella fattispecie i rilievi formulati dai controinteressati costituiti in giudizio che (posto che disposizioni di cui agli art. 16 e 46, del d.P.R. n. 328 del 2001 individuano le competenze degli iscritti alle Sezioni “A” e “B”, rispettivamente degli architetti e degli ingegneri, facendo esclusivo riferimento al concetto di "costruzioni civili semplici, con l'uso di metodologie standardizzate") hanno affermato che l’unico discrimine qualitativo tra le competenze dell’ingegnere iscritto nella sezione “A” e quelle dell’ingegnere “junior” sarebbe l’utilizzo di metodologie standardizzate da parte di quest’ultimo e di metodologie avanzate, innovative o sperimentali da parte del primo, mentre null’altro avrebbe a valere il concorso e collaborazione o i riferimenti a costruzioni civili semplici, che individuerebbero solo le caratteristiche maggiormente caratterizzanti la professione.
La tesi è basata sul rilievo che le rispettive competenze dei suddetti ingegneri derivino dagli artt. 51 e 52 del r.d. n. 2537 del 1925, in base ai quali la distinzione qualitativa conseguente ai percorsi formativi di accesso (relativi, rispettivamente, alle lauree e alle lauree specialistiche) si estrinsecherebbe solo nel riservare agli iscritti nella sezione “A” le attività che implicano l’uso di metodologie avanzate, innovative, o sperimentali.
Osserva al riguardo la Sezione che
dette norme non prevedono la differenziazione in questione, che è individuata dall’art. 46 del d.P.R. n. 328 del 2001, in precedenza riportato, le cui disposizioni non pongono come unico discrimine tra le attività consentite per gli ingegneri iscritti alla sezione “A” e gli ingegneri iscritti alla sezione “B” solo l’uso di metodologie avanzate, innovative o sperimentali, ovvero standardizzate, ma anche la possibilità per i secondi di operare solo in concorso e in collaborazione alle attività proprie degli ingegneri per opere edilizie e di progettare autonomamente solo costruzioni civili semplici.
A nulla vale, inoltre, che, come affermato nella memoria depositata dalle parti contro interessate il 30.10.2015, il progettista dell’opera oggetto della gara di cui trattasi fosse un geometra, non essendo stato tempestivamente impugnato il bando laddove ha previsto, al punto IX.3, che gli elaborati dell’offerta tecnica avrebbero dovuto essere redatti e sottoscritti da un progettista abilitato all’esercizio della professione; ciò comporta che, essendo le migliorie proposte dalla Av.Co. di G.Av. & C. s.a.s. sottoscritte dall’ingegner Ci.,
questi avrebbe dovuto comunque essere abilitato alla redazione dei relativi elaborati.
10.- L’appello deve essere conclusivamente accolto nei termini di cui in motivazione e, considerato che detta s.a.s. non ha riproposto in appello il ricorso incidentale formulato in primo grado, il collegio, in riforma della prima decisione, accoglie il ricorso introduttivo del giudizio e, per l’effetto, annulla i provvedimenti con esso impugnati.
...
12.- Nella complessità delle questioni trattate il collegio ravvisa eccezionali ragioni per compensare, ai sensi degli artt. 26, comma 1, del c.p.a. e 92, comma 2, del c.p.c., le spese del doppio grado di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quinta, definitivamente decidendo,
accoglie l’appello in esame nei termini e nei limiti di cui in motivazione e, per l’effetto, in riforma della sentenza di primo grado, accoglie il ricorso originario proposto dinanzi al TAR ed annulla i provvedimenti con esso impugnati (
Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 25.02.2016 n. 776 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

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dossier CARTELLO DI CANTIERE

UTILITA'

EDILIZIA PRIVATASemplificazioni in edilizia (articolo ItaliaOggi Sette del 14.03.2016).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Modulistica di Prevenzione Incendi (link a www.vigilfuoco.it).
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Prevenzione incendi: la nuova modulistica dei Vigili del Fuoco.
L'entrata in vigore del decreto attuativo del D.P.R. n. 151/2011 (costituito dal Decreto 07.08.2012, in vigore dal 27 novembre dello stesso anno) ha comportato un riordino generale della modulistica di prevenzione incendi, per l'occasione denominata "Modulistica 2012".
Questa, in sostanza, ha riproposto -riadattandoli, aggiornati ai nuovi riferimenti normativi o modificati in virtù delle novità introdotte- quelli che erano i modelli "2008" e "2011".
La modulistica "PIN 2012" è rimasta in vigore per circa un anno e mezzo, fino al 30.04.2014, quando ne è stata disposta la parziale sostituzione con dei nuovi moduli, recanti lievi modifiche ed integrazioni, pur mantenendone sostanzialmente inalterati i contenuti.
L'introduzione della nuova modulistica di prevenzione incendi "PIN 2014", come del resto specificato nell'art. 11, comma 2, del Decreto 07.08.2012, è stata disposta da apposito decreto del Direttore Centrale per la Prevenzione e Sicurezza Tecnica.
Nella fattispecie, il Decreto DCPST n. 252 del 10.04.2014, diffuso alle Direzioni Regionali e ai Comandi Provinciali VV.F., oltreché ai Consigli Nazionali delle varie categorie di Professionisti abilitati alle certificazioni in materia di prevenzione incendi tramite la nota prot. 4849 dell'11.04.2014, prevede la parziale modifica ed integrazione di alcuni dei modelli PIN per la presentazione delle segnalazioni, delle asseverazioni e delle certificazioni.
La modulistica attualmente utilizzabile per i procedimenti di prevenzione incendi è costituita dai seguenti modelli, alcuni dei quali datati 2012 e 2014:
• Mod. PIN 1-2012: Richiesta di Valutazione Progetto
• Mod. PIN 2-2014: Segnalazione Certificata di Inizio Attività
• Mod. PIN 2.1-2014: Asseverazione per SCIA
• Mod. PIN 3-2014: Attestazione di Rinnovo Periodico
• Mod. PIN 3.1-2014: Asseverazione per Rinnovo
• Mod. PIN 4-2012: Richiesta di Deroga
• Mod. PIN 5-2012: Richiesta del Nulla Osta di Fattibilità
• Mod. PIN 6-2012: Richiesta di Verifica in Corso d'Opera
• Mod. PIN 7-2012: Dichiarazione per Voltura (07.03.2016 - commento tratto da http://lavoripubblici.it).

VARIBonus mobili ed elettrodomestici (Agenzia delle Entrate, marzo 2016).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

CONSIGLIERI REGIONALI - PUBBLICO IMPIEGO: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 11 del 18.03.2016, "Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione regionale" (L.R. 17.03.2016 n. 5).
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Al riguardo, si legga anche:
Progetto di legge istitutivo dell’ARAC – Regione Lombardia. Richiesta di parere. Il Consiglio dell’Autorità nazionale anticorruzione nell’adunanza del 09.03.2016 (A.N.AC., delibera 09.03.2016 n. 245 - link a www.autoritalavoripubblici.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO - URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 11 del 18.03.2016, "Revisione della normativa regionale in materia di difesa del suolo, di prevenzione e mitigazione del rischio idrogeologico e di gestione dei corsi d’acqua" (L.R. 15.03.2016 n. 4).

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 11.03.2016 n. 59 "Riorganizzazione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo ai sensi dell’articolo 1, comma 327, della legge 28.12.2015, n. 208" (Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, decreto 23.01.2016).

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 09.03.2016 n. 57 "Attuazione della direttiva 2014/61/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 15.05.2014, recante misure volte a ridurre i costi dell’installazione di reti di comunicazione elettronica ad alta velocità" (D.Lgs. 15.02.2016 n. 33).
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Reti di telecomunicazioni ad alta velocità: in Gazzetta il decreto che attua la direttiva 2014/61/UE.
Semplificate le procedure amministrative di rilascio delle autorizzazioni all’effettuazione di scavi per facilitare la posa della fibra ottica
(10.03.2016 - link a www.casaeclima.com).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 10 dell'08.03.2016, "Pubblicazione ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale 21.01.2001, n. 1, dell’elenco dei tecnici competenti in acustica ambientale riconosciuti dalla Regione Lombardia alla data del 29.02.2016, in attuazione dell’articolo 2, commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447 e della deliberazione di giunta regionale 06.08.2012, n. IX/3935" (comunicato regionale 01.03.2016 n. 42).

ENTI LOCALI: G.U. 07.03.2016 n. 55 "Ulteriore differimento dal 31 marzo al 30.04.2016 del termine per la deliberazione del bilancio di previsione per l’anno 2016 da parte degli enti locali, ad eccezione delle città metropolitane e delle province, per le quali lo stesso termine viene ulteriormente differito al 31.07.2016" (Ministero dell'Interno, decreto 01.03.2016).

AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U. 07.03.2016 n. 55 "Attuazione della direttiva 2013/51/EURATOM del Consiglio, del 22.10.2013, che stabilisce requisiti per la tutela della salute della popolazione relativamente alle sostanze radioattive presenti nelle acque destinate al consumo umano" (D.Lgs. 15.02.2016 n. 28).

APPALTI: Schema di decreto legislativo recante disposizioni per l'attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture (Atto del Governo n. 283):
Atto del Governo sottoposto a parere parlamentare - 05.03.2016
Sintesi del contenuto - 15.03.2016
Schede di lettura - 17.03.206

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie avvisi e concorsi n. 9 del 02.03.2016, "Commissione provinciale espropri di Bergamo - Delibera n. 1 dell’11.02.2016. Determinazione dei valori agricoli medi riferiti all’anno 2015 e valevoli per l’anno 2016".

DOTTRINA E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATA: L. Spallino, Distanze in edilizia - REPERTORIO DI GIURISPRUDENZA (digesto giurisprudenziale in materia di regime delle distanze in edilizia, con particolare attenzione alla applicazione del d.m. 1444/1968, art. 9) (20.03.2016 - tratto da www.studiospallino.it cliccando qui).

APPALTI: U. Valboa, Il mercato elettronico della PA. Fonti normative. Strumenti di acquisto nell’ambito della procedura telematica (ODA – RDO). Principali fasi. Atto di determina (07.03.2016 - tratto da www.diritto.it).

LAVORI PUBBLICI: F. Mazzoni, APPALTI: VALUTAZIONE DELLE RISERVE - 3^ parte (14.03.2016 - link a www.ambientediritto.it).

LAVORI PUBBLICI: F. Mazzoni, APPALTI: ESECUZIONE DEI LAVORI - Vademecum settori ordinari - 2^ parte (04.03.2016 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTI SERVIZI: G. Gambardella, I servizi pubblici locali con particolare riferimento al servizio di gestione dei rifiuti solidi urbani ((Rassegna Avvocatura dello Stato n. 4/2015).
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SOMMARIO: 1. I servizi pubblici locali: profili generali - 2. Servizi pubblici locali a rilevanza economica e servizi privi di tale rilevanza - 3. Recenti interventi legislativi sulle modalità di affidamento dei servizi pubblici locali: dall’art. 23-bis del d.l. 25.06.2008 n. 112 all’art. 4 del d.l. n. 13.08.2011 n. 138 ed al decreto Milleproroghe ”modifiche alla disciplina dei servizi pubblici locali - 3.1 L’iniziativa referendaria e la sentenza della Corte Costituzione del 26.01.2011, n. 24. L’esito del referendum e la disciplina applicabile - 3.2 La disciplina introdotta dall’art. 4 del d.l. n. 13.08.2011 n. 138 - 4. Brevi considerazioni sui rifiuti urbani e il loro impatto sull’ambiente - 5. Nozioni introduttive dei rifiuti solidi urbani. Disciplina comunitaria nazionale e regionale - 6. Competenze statali, regionali, provinciali e comunali, delle Camere di Commercio e delle ASL in materia ambientale con particolare riferimento alla gestione dei rifiuti solidi urbani - 7. Distinzione tra rifiuti urbani e rifiuti speciali - 8. La gestione dei rifiuti: profili storici fino all’entrata in vigore del testo unico - 8.1 La gestione dei rifiuti prima del D.P.R. 10.09.1982 n. 915 - 8.2 La legge 20.03.1941 n. 366 sullo smaltimento dei rifiuti solidi urbani - 9. I Principi della gestione dei rifiuti - 10. La riforma della gestione dei rifiuti solidi urbani - 11. Conclusioni.

EDILIZIA PRIVATA: Cartello di cantiere: soggetti obbligati e sanzioni. L’approfondimento (21.03.2015 - tratto da www.avvocaticcs.it).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Cartello di Cantiere: ecco tutte le indicazioni necessarie (06.11.2013 - link a www.ediltecnico.it).

A.N.AC. (già AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI)

LAVORI PUBBLICI: Oggetto: Ulteriori precisazioni in merito al “Manuale sulla qualificazione per l’esecuzione di lavori pubblici di importo superiore a 150.000 euro” (comunicato del Presidente 09.03.2016 - link a www.autoritalavoripubblici.it).

LAVORI PUBBLICI: Indicazioni sull’applicazione dell’art. 37, d.l. 24.06.2014, n. 90 convertito in legge 11.08.2014, n. 114 - In ragione di sollecitazioni pervenute da soggetti operanti nel settore dei contratti pubblici ed emerse in sede di ottemperanza all’obbligo di trasmissione all’ANAC delle varianti in corso d’opera ex art. 37, comma 1, d.l. 90/2014 (conv. con l. 114/2014), ad integrazione del Comunicato del Presidente dell’ANAC del 17.03.2015, si forniscono le seguenti indicazioni interpretative sull’applicazione della norma (comunicato del Presidente 17.02.2016 - link a www.autoritalavoripubblici.it).

INCARICHI PROFESSIONALI - PUBBLICO IMPIEGO: Incarichi a contratto a rischio corruzione.
Gli incarichi dei dirigenti a contratto costituiscono un rilevante rischio ai fini della lotta alla corruzione, della quale le pubbliche amministrazioni debbono necessariamente tenere conto.

È questo il principio più rilevante che emerge dalla delibera 03.02.2016 n. 87 dell'Autorità nazionale anticorruzione, che ha stigmatizzato per una serie di illegittimità varie incarichi dirigenziali assegnati dal comune di Guidonia Montecelio (Roma) a un architetto.
La vicenda è estremamente intricata. La delibera dell'Anac nota come nei confronti di un funzionario architetto dell'ente siano stati assegnati in modo confuso e misto incarichi sia di capo di gabinetto del sindaco e, dunque, in staff all'organo di governo, sia incarichi dirigenziali operativi, ai sensi dell'articolo 110, commi 1 (dotazionali) e 2 (extradotazionali) del dlgs 267/2000, successivamente alle modifiche apportate a tale norma dal dl 90/2014. Gli incarichi sono stati conferiti in una prima fase con decreti sindacali, in una seconda con decreti del vicesindaco e in una terza modificati con deliberazione di giunta.
L'Anac rileva una serie di possibili vizi di legittimità. Infatti, il rinnovo/modifica degli incarichi dirigenziali al destinatario da ultimo definiti dal vice sindaco sono stati fondati sull'articolo 109, comma 2, del dlgs 267/2000, che consente di assegnare incarichi dirigenziali a personale privo della relativa qualifica, ma solo negli enti nei quali non siano presenti dirigenti, mentre nel comune di Guidonia le qualifiche dirigenziali sono previste.
In particolare, comunque, l'Anac contesta al comune l'utilizzo delle norme sugli incarichi a contratto, senza avere dato corso a una procedura selettiva, nonostante fosse già vigente l'obbligo in tal senso imposto dal dl 90/2014. La delibera Anac, dunque, contesta all'attuale sindaco le numerose illegittimità riscontrate, invitandolo a porvi rimedio e, in particolare, osserva come il piano triennale anticorruzione dell'ente non abbia previsto rischio alcuno di corruzione, connesso al processo di reclutamento dei dirigenti a contratto.
Secondo l'Anac si tratta di un vizio molto rilevante, in contrasto aperto con le indicazioni del Piano nazionale anticorruzione del 2013. La delibera dell'Anac, infatti, ingiunge al comune di integrare il piano triennale anticorruzione, considerando espressamente nella mappatura dei rischi proprio i conferimenti di incarichi dirigenziali, di funzioni dirigenziali, di posizioni organizzative con o senza funzioni dirigenziali, indicando le misure necessarie «per scongiurare il pericolo di abusi nel relativo processo di individuazione e/o selezione del personale».
La delibera nota che il conferimento degli incarichi a contratto ai sensi dell'articolo 110 del dlgs 267/2000 è connotato dai rischi specifici concernenti l'area del reclutamento del personale definiti dal Piano nazionale anticorruzione e in particolare l'«abuso nei processi di stabilizzazione finalizzato al reclutamento di candidati particolari», le «previsioni di requisiti di accesso “personalizzati” e insufficienza di meccanismi oggettivi e trasparenti idonei a verificare il possesso dei requisiti attitudinali e professionali richiesti in relazione alla posizione da ricoprire allo scopo di reclutare candidati particolari», l'«inosservanza delle regole procedurali a garanzia della trasparenza e dell'imparzialità della selezione», e la «motivazione generica e tautologica circa la sussistenza dei presupposti di legge per il conferimento di incarichi professionali allo scopo di agevolare soggetti particolari».
Per questo, la delibera dell'Anac esplicita la necessità che il piano triennale anticorruzione preveda la nomina di una «Commissione tecnica deputata all'accertamento del possesso di comprovata esperienza pluriennale e specifica professionalità nelle materie oggetto dell'incarico in capo ai candidati», oltre all'obbligo di definire e pubblicare un elenco di idonei all'esito dei lavori (articolo ItaliaOggi dell'01.03.2016).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

APPALTI: Oggetto: Nuovo Codice dei contratti pubblici – Aggiornamento (ANCE di Bergamo, circolare 18.03.2016 n. 74).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Conto termico: aggiornate le regole di incentivazione per efficienza energetica e fonti rinnovabili (ANCE di Bergamo, circolare 18.03.2016 n. 72).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Compendio di normativa ambientale. Edizione num. 6 – anno 2016 (ANCE di Bergamo, circolare 18.03.2016 n. 70).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: linee guida all'applicazione del D.M. 20.12.2012 "Decreto impianti" (Consiglio Nazionale degli Ingegneri, circolare 17.03.2016 n. 697).
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PREMESSA
Il CNI, nel corso della seduta di consiglio del 24/02/2016, su proposta del GdL Sicurezza, ha condiviso le LINEE GUIDA ALL’APPLICAZIONE DEL D.M. 20.12.2012 “Decreto impianti”, elaborate dalla Commissione Sicurezza Antincendio della Consulta Regionale degli Ordini degli Ingegneri della Lombardia che rappresentano un utile supporto per i professionisti nella formulazione delle Specifiche tecniche degli impianti di protezione attiva contro l’incendio e della relativa documentazione progettuale richieste dal D.M. 20.12.2012 nell’ambito dei procedimenti di prevenzione incendi.
Il Decreto, che disciplina la progettazione, la costruzione, l'esercizio e la manutenzione degli impianti di protezione attiva contro l'incendio, così come definiti nella allegata Regola tecnica di prevenzione incendi per gli impianti di protezione attiva contro l'incendio installati nelle attività soggette ai controlli di prevenzione incendi, al cap. 3 precisa che la documentazione tecnica relativa agli impianti, da presentare ai fini dei procedimenti di prevenzione incendi di cui al D.P.R. 01.08.2011, n. 151, è costituita dalla specifica dell'impianto che si intende realizzare. (...continua).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: linee guida per la valutazione, in deroga, dei progetti di edifici sottoposti a tutela ai sensi del d.lgs. 22.01.2004, n. 42, aperti al pubblico, destinati a contenere attività dell'allegato 1  al D.P.R. 1 agosto (Ministero dell'Interno, Direzione Centrale per la Prevenzione e la Sicurezza, lettera-circolare 15.03.2016 n. 3181 di prot.).

APPALTI: Oggetto: Sola fornitura in cantiere di calcestruzzo preconfezionato (ANCE di Bergamo, circolare 11.03.2016 n. 65).
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Il Ministero del lavoro ha diffuso la nota 2597 del 16.02.2016 con la quale ha chiarito le condizioni entro cui la fornitura di calcestruzzo possa essere considerata “mera fornitura di materiali”. (...continua).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Oggetto: SISTRI: confermata la proroga dell’entrata in vigore delle sanzioni (ANCE di Bergamo, circolare 11.03.2016 n. 64).

COMPETENZE PROFESSIONALI: COMPETENZE PROFESSIONALI – INTERVENTI SU EDIFICI VINCOLATI – SENTENZA TAR SICILIA, CATANIA, 29.10.2015 N. 2519 – COMPETENZA DELL’INGEGNERE SULLA PARTE TECNICA - ACCOGLIMENTO DEL RICORSO DEGLI INGEGNERI E ANNULLAMENTO DEL PROVVEDIMENTO DELLA SOPRINTENDENZA - SENTENZA TAR EMILIA ROMAGNA, BOLOGNA, 13.01.2016 N. 36 – RECUPERO DEL CASTELLO DI BENTIVOGLIO DOPO GLI EVENTI SISMICI – AFFIDAMENTO DELL’INTERVENTO DI RIPRISTINO STRUTTURALE AD UN INGEGNERE - LEGITTIMITÀ - CONSIDERAZIONI (Consiglio Nazionale Ingeneri, circolare 07.03.2016 n. 690).

APPALTI: Oggetto: Contributo di gara ANAC per l’anno 2016 (ANCE di Bergamo, circolare 04.03.2016 n. 63).

APPALTI - LAVORI PUBBLICI: Oggetto: Conversione in legge del decreto-legge “Milleproroghe”: le disposizioni inerenti gli appalti pubblici (ANCE di Bergamo, circolare 04.03.2016 n. 62).

EDILIZIA PRIVATA - VARI: Oggetto: Questioni interpretative prospettate dal Coordinamento Nazionale dei Centri di Assistenza Fiscale e da altri soggetti (Agenzia delle Entrate, circolare 02.03.2016 n. 3/E).
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INDICE
1 QUESITI IN MATERA DI IMPOSTE SUI REDDITI
1.1 Spese per prestazioni di mesoterapia, ozonoterapia e grotte di sale
1.2 Spese per pedagogista
1.3 Norma di riferimento per il riconoscimento dello status di sordo
1.4 Pertinenza abitazione principale
1.5 Sostituzione Caldaia e “bonus mobili”
1.6 Spese per sostituzione sanitari
1.7 Condominio minimo - Detrazione spese per interventi di recupero del patrimonio edilizio e di riqualificazione energetica - ulteriori chiarimenti
1.8 Detrazione per spese di manutenzione, protezione o restauro delle cose vincolate e detrazione per interventi di recupero del patrimonio edilizio
1.9 Acquisto immobili da locare - deducibilità costo d’acquisto
1.10 Acquisto immobili da locare - deducibilità interessi passivi
1.11 Acquisto immobili da locare – limite di deducibilità degli interessi passivi
1.12 Acquisto immobili da locare - limite temporale deducibilità interessi passivi
1.13 Acquisto immobili da locare – durata del contratto di locazione
1.14 Credito d’imposta per le imposte pagate all’estero
1.15 Spese per la frequenza scolastica

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: informativa “Intesa su definizioni standardizzate del Regolamento edilizio unico” (Rete Professioni Tecniche, circolare 01.03.2016 n. 16/2016).

PUBBLICO IMPIEGO: OGGETTO: Estratto Conto Gestione Dipendenti Pubblici. Invio delle comunicazioni personali a un primo contingente di iscritti compresi nel Lotto 2 (INPS, messaggio 29.02.2016 n. 940 - link a www.inps.it).

EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI - VARI: D. Pompilio, L. Pascarella, T. Di Nardo, A. Gigliotti, G. Scardocci, IL COMODATO D’USO: PROFILI CIVILISTICI E ANALISI DELLA DISCIPLINA FISCALE PREVISTA DALLA LEGGE DI STABILITÀ 2016 (Fondazione Nazionale dei Commercialisti, 29.02.2016 - tratto da www.fondazionenazionalecommercialisti.it).
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Sommario: 1. Premessa – 2. Essenziale gratuità del comodato e comodato modale – 3. Obbligazioni del comodatario – 4. Durata del comodato: il comodato a termine implicito e il comodato c.d. precario – 4.1 Ipotesi applicative: comodato di immobile destinato a soddisfare esigenze abitative familiari – 4.2 Comodato immobiliare c.d. vita natural durante – 5. Comodato scritto e comodato verbale: perché preferire la forma scritta – 6. Le novità IMU e TASI 2016 per le abitazioni concesse in comodato d’uso – 7. La disciplina vigente sino al 31.12.2015 – 8. Le modifiche introdotte dalla Legge di Stabilità 2016 – 8.1 La definizione di abitazione principale – 8.2 Gli immobili di lusso – 8.3 La registrazione del contratto di comodato – 8.4 Il possesso di ulteriori immobili – 8.5 La dichiarazione IMU – 9. Il comodato in numeri: analisi statistica delle novità contenute nella Legge di Stabilità 2016.

ENTI LOCALI - SEGRETARI COMUNALI: Oggetto: Articolo 10, commi 1 e 2 del Decreto Legge 24.06.2014, n. 90. Chiarimenti (Ministero dell'Interno, Albo Nazionale dei Segretari Comunali e Provinciali, nota 12.02.2016 n. 3483 di prot.).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Raccolta differenziata dei rifiuti: indicazioni del Garante (Garante per la protezione dei dati personali, documento 14.07.2015 n. 1149822 - link a www.garanteprivacy.it).
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Raccolta differenziata e tutela della privacy. No a sacchetti trasparenti nel "porta a porta" e a controlli indiscriminati. Sì a codice a barre e microchip.
Viola la privacy l'obbligo previsto da alcuni comuni di far utilizzare ai cittadini sacchetti dei rifiuti trasparenti o con etichette adesive nominative per la raccolta "porta a porta". Lecito, invece, contrassegnare il sacchetto con un codice a barre, un microchip o con etichette intelligenti (Rfid). No ai controlli indiscriminati, ma ispezione dei sacchetti solo nei casi in cui il cittadino, che non ha rispettato la normativa sulla raccolta differenziata, non sia identificabile in nessun altro modo.
Con un provvedimento a carattere generale, di cui è stato relatore Giuseppe Fortunato, il Garante per la protezione dei dati personali ha dato risposta a vari quesiti di enti locali e a numerosi reclami e segnalazioni di cittadini che lamentavano una possibile violazione della riservatezza, derivante soprattutto dalle modalità di raccolta dei rifiuti e dai controlli amministrativi, riguardo ai dati personali rilevabili attraverso i sacchetti stessi o dall'ispezione del loro contenuto.
Nei rifiuti finiscono, infatti, molti effetti personali (corrispondenza, fatture telefoniche con i numeri chiamati, estratti conto bancari), a volte relativi anche alla sfera della salute (farmaci, prescrizioni mediche, ecc.) o a convinzioni politiche, religiose, sindacali. Queste informazioni, se trattate in modo non proporzionato o in caso di abusi, possono comportare seri inconvenienti alle persone.
Il Garante ha rilevato che la raccolta differenziata, prevista da specifiche norme, risponde ad un importante interesse pubblico. Ma non ha ritenuto proporzionato l'obbligo imposto da alcuni enti locali ad utilizzare sacchetti trasparenti per la raccolta "porta a porta", perché chiunque si trovi a transitare sul pianerottolo o nell'area antistante l'abitazione può visionare agevolmente il contenuto. Sproporzionata anche la misura che obbliga ad applicare al sacchetto targhette adesive in cui sia riportato a vista nominativo ed indirizzo della persona cui si riferiscono i rifiuti, in particolare se lasciati in strada.
Invasiva è stata ritenuta anche la pratica di ispezioni generalizzate dei sacchetti. Gli organi addetti ai controlli possono procedere ad ispezioni selettive solo nei casi in cui abbiamo ragione di ritenere che i rifiuti siano stati lasciati senza osservare le norme in materia di raccolta differenziata e il cittadino non sia identificabile in altro modo.
Sì, invece, a codici a barre, microchip o Rfid che consentono di delimitare l'identificabilità della persona solo nel caso in cui sia accertata la violazione delle norme sulla raccolta differenziata. In questo modo gli operatori che verificano l'omogeneità del contenuto del sacchetto (carta, vetro, plastica) non vengono a conoscenza dell'identità della persona, che rimane riservata fino alla decodifica dei codice a barre o del microchip da parte dei soggetti che applicano la sanzione.
Per quanto riguarda infine le cosiddette "ecopiazzole", il Garante ritiene lecito che i gestori di queste aree in cui i cittadini portano i materiali per la raccolta differenziata, registrino temporaneamente nominativi ed indirizzo di chi conferisce i rifiuti, previa esibizione di un documento di identità, anche per accertare la residenza dei cittadini ed evitare che uno stesso soggetto conferisca i rifiuti in più comuni aggirando i limiti quantitativi ammessi senza oneri.
"Le lettere d'amore, le bollette, gli estratti conto, le confezioni medicinali che decidiamo di buttare nei nostri rifiuti non devono finire nelle mani di chiunque o essere esposti a sguardi indiscreti -afferma Giuseppe Fortunato, relatore del provvedimento- perché sono tutte informazioni che fanno parte di noi, della nostra identità. Da esse si può capire molto dei nostri gusti, delle nostre preferenze, dei nostri stili di vita, del nostro stato di salute. Quindi, sì ai controlli per sanzionare chi non rispetta la raccolta differenziata, no a indebite invasioni nella nostra privacy." (comunicato stampa 22.07.2015 - link a www.garanteprivacy.it).

CORTE DEI CONTI

PUBBLICO IMPIEGO: Vigili, niente contratti flessibili per assunzioni superiori a 5 mesi.
I comuni non possono utilizzare strumenti di acquisizione flessibile di rapporti di lavoro che coprano disponibilità dei ruoli della polizia municipale per periodi superiori alle esigenze stagionali limitate a cinque mesi in un anno solare.

La Corte dei conti, sezione regionale di controllo per il Lazio, col parere 08.03.2016 n. 43 torna sui vincoli alle assunzioni degli agenti di polizia municipale utili per i comuni al di fuori dei territori delle sei regioni (Basilicata, Emilia-Romagna, Lazio, Marche, Piemonte e Veneto) per le quali le assunzioni sono state «sbloccate» in applicazione dell'articolo 1, comma 234, della legge 208/2015.
La sezione ha analizzato la possibilità per i comuni di avvalersi, per coprire vacanze della polizia municipale, dell'articolo 1, comma 557, della legge 311/2004, ai sensi del quale «i comuni con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti, i consorzi tra enti locali gerenti servizi a rilevanza non industriale, le comunità montane e le unioni di comuni possono servirsi dell'attività lavorativa di dipendenti a tempo pieno di altre amministrazioni locali purché autorizzati dall'amministrazione di provenienza».
Stante la previsione contenuta nell'articolo 5, comma 6, del dl 78/2015, convertito in legge 125/2015, i comuni possono utilizzare tale particolare formula di assunzione solo per esigenze stagionali e per non oltre cinque mesi; se si consentisse, infatti, di coprire le vacanze per periodi superiori, si vanificherebbe il fine delle norme sulla ricollocazione dei dipendenti provinciali in soprannumero.
Lo stesso ragionamento vale per un'altra formula flessibile di acquisizione di dipendenti, l'articolo 92, comma 1, del dlgs 267/2000, a termini del quale «gli enti locali possono costituire rapporti di lavoro a tempo parziale e a tempo determinato, pieno o parziale, nel rispetto della disciplina vigente in materia. I dipendenti degli enti locali a tempo parziale, purché autorizzati dall'amministrazione di appartenenza, possono prestare attività lavorativa presso altri enti».
Secondo la sezione, «la clausola di garanzia della non prorogabilità dei cinque mesi del lavoro stagionale si deve intendere come clausola volta a evitare forme di aggiramento della disposizione, tali da mascherare un impegno lavorativo di durata superiore con contratti di lavoro stagionale ripetuti nell'anno». Il parere, tuttavia, desta molte perplessità laddove, proseguendo, afferma che «nulla invece osta alla riproponibilità della formula del contratto stagionale negli anni a venire», quando saranno stati rimossi i vincoli alle assunzioni, una volta ricollocato tutto il personale in soprannumero della polizia provinciale.
L'affermazione lascia l'impressione che le amministrazioni possano richiamare i dipendenti della polizia locale assunti per esigenze stagionali, così come avviene nel settore privato. Ma, questa conclusione non appare corretta. Nel settore pubblico si assume solo attraverso concorsi (articolo ItaliaOggi del 12.03.2016).
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MASSIMA
L’art. 5 del d.l. n. 78/2015, convertito in legge n. 125/2015, prevede per i comuni il divieto di assumere personale per lo svolgimento di funzioni di polizia municipale con qualsiasi forma contrattuale se prima non è completato il processo di assorbimento del personale di provenienza provinciale.
In sede di conversione in legge è stata introdotta l’eccezione (mancante nel testo originario del decreto legge), a favore delle assunzioni di personale con funzione di polizia locale, con contratto a tempo determinato e per esigenze di carattere strettamente stagionale, sempreché il contratto non abbia durata superiore a cinque mesi nell’anno solare, non prorogabili.
Pertanto, le disposizioni contenute agli artt. 1, comma 557, della legge n. 311/2004 e 92, comma 1, del TUEL, in tema di utilizzazione reciproca di personale tra Comuni limitrofi, non possono ritenersi abrogate con riguardo al personale chiamato a svolgere funzioni di polizia municipale, ma continuano ad essere a questo applicabili, a condizione che il personale assunto sia stagionale, a tempo determinato e con contratto di durata non superiore a cinque mesi, non prorogabili nell’anno solare.
Detti contratti possono peraltro essere ripetuti negli anni a venire, con nuovo contratto stagionale. Infatti, la clausola di garanzia della non prorogabilità dei cinque mesi del lavoro stagionale si deve intendere come clausola volta ad evitare forme di aggiramento della disposizione, tali da mascherare un impegno lavorativo di durata superiore con contratti di lavoro stagionale ripetuti nell’anno. Nulla invece osta alla riproponibilità della formula del contratto stagionale negli anni a venire.
Al contrario, le disposizioni succitate devono ritenersi non operanti per il personale di polizia municipale da assumere “con qualsiasi altra forma contrattuale” fino al completamento del “transito del personale di polizia provinciale nei ruoli di quello di polizia municipale”.

APPALTIDeroghe Consip, la giunta è out. Deve essere il dirigente apicale ad autorizzare gli acquisti. Una delibera della Corte conti Liguria esclude la competenza degli organi di governo.
Deve essere il dirigente apicale e non la giunta ad autorizzare gli acquisiti in deroga agli obblighi di utilizzo della Consip o di altri soggetti aggregatori, previsti dalla legge 208/2015.

Lo ha stabilito la Corte dei Conti, Sez. regionale di controllo della Liguria, con la deliberazione 24.02.2016 n. 14, in merito a un provvedimento di autorizzazione adottato da una giunta comunale, che aveva autorizzato a procedere all'acquisto al di fuori del mercato elettronico gestito dalla Consip sia un servizio di tv via cavo, sia di assistenza per la caldaia dell'edificio comunale, a causa dell'assenza di disponibilità del servizio tv via cavo sul mercato elettronico e del sovradimensionamento delle caldaie presenti sul mercato elettronico rispetto all'immobile da riscaldare, con conseguente lesione del principio di economicità dell'azione amministrativa.
La sezione regionale non ha avuto nulla da obiettare rispetto al merito dell'autorizzazione, ritenendo sussistenti i presupposti di legge per acquisire i servizi sul mercato esterno al soggetto aggregatore.
Infatti, secondo i giudici contabili, il rispetto dell'obbligo di ricorrere al mercato elettronico non può «giungere fino a dovere imporre impegni di spesa diseconomici e inconferenti rispetto alle esigenze da soddisfare».
Invece, per quanto concerne l'organo competente ad autorizzare gli acquisti, la Corte dei conti ritiene che debba rinvenirsi nel «dirigente apicale» e non nella giunta.
La sezione Liguria richiama ampia giurisprudenza secondo la quale l'articolo 107, comma 5, del dlgs 267/2000 a mente del quale che i dirigenti hanno competenza esclusiva e inderogabile per tutti i compiti gestionali, ivi compresi gli atti discrezionali, laddove gli organi di governo, consiglio e giunta comunale, possano operare con i soli poteri di indirizzo e di controllo politico amministrativo.
Pertanto, conclude la sezione, «spettava al dirigente apicale, e non alla giunta comunale, adottare il provvedimento autorizzatorio», suggerendo di ricondurre gli atti ai parametri della regolarità amministrativa, attraverso un provvedimento col quale il dirigente apicale competente può ratificare il contenuto della delibera della giunta comunale.
La questione dimostra l'incertezza operativa scatenata dall'articolo 1, comma 510, della legge 208/2015, la cui formulazione risulta oscura e laconica nell'indicare come competente ai fini dell'autorizzazione l'organo amministrativo di vertice.
La decisione della sezione Liguria non appare, tuttavia, del tutto conclusiva. In primo luogo, infatti, essa si incentra su una competenza del «dirigente apicale», utilizzando un'espressione diversa da quella contenuta nella legge, che non si riferisce affatto a questo soggetto, per altro ancora non vigente negli enti locali.
In secondo luogo, correttamente la deliberazione della Sezione richiama l'inderogabilità del principio di separazione tra politica e gestione, ma non pare cogliere nel segno quando sostiene che l'autorizzazione sia un atto attinente alla gestione.
Le autorizzazioni non appartengono alla sfera della cosiddetta «amministrazione attiva», della quale fa parte l'attività gestionale di competenza dei dirigenti. Nel caso di specie, l'autorizzazione può considerarsi parte essenziale del processo di programmazione e controllo dell'attività gestionale, come tale rientrante nelle competenze proprie degli organi di governo.
Non sarà certamente l'ultima pronuncia su un problema interpretativo che ha già diviso gli interpreti, che meriterebbe una soluzione certa mediante una revisione della norma, che chiarisca meglio come identificare l'organo amministrativo di vertice (articolo ItaliaOggi dell'11.03.2016).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOAssunzioni con il freno. La deliberazione della corte dei conti.
La recente deliberazione 04.02.2016 n. 4 della Corte dei conti, Sezione delle autonomie,  agevola la ricollocazione del personale afferente agli enti disciolti per legge. Tuttavia, l'obbligo di riassorbire l'eventuale sforamento dei limiti di spesa in base al turnover consentito negli anni successivi rischia di congelare ulteriormente le capacità assunzionali, già da tempo bloccate per la gestione degli esuberi provinciali.
La pronuncia dei giudici contabili ha affermato il seguente principio: «Nei casi di trasferimento di personale ad altro ente pubblico derivante dalla soppressione di un ente obbligatoriamente disposta dalla legge, non si ritiene applicabile il limite assunzionale fissato dalla normativa vigente in materia di spese di personale ai fini del coordinamento di finanza pubblica. La deroga al detto vincolo comporta, tuttavia, il necessario riassorbimento della spesa eccedente negli esercizi finanziari successivi a quello del superamento del limite».
In pratica, è possibile sforare il tetto previsto dai commi 557 e 562 della l. 296/2006 (rispettivamente per gli enti già soggetti e per quelli esclusi dal Patto), ma tale sforamento deve essere riassorbito negli anni seguenti «consumando» gli spazi che avrebbero consentito all'ente ricevente di effettuare nuove assunzioni.
In pratica, si tratta dello stesso meccanismo previsto per gli ex provinciali, come definito dalla circolare 1/2015 della Funzione pubblica (circolare Madia). Quest'ultima, infatti, afferma che l'incremento di spesa determinato dalle mobilità obbligatorie va comunque quantificato e si decurta gradualmente in coerenza con la disciplina del turn-over.
Pur con questa limitazione, si tratta comunque di un'apertura rispetto agli orientamenti più restrittivi della giurisprudenza precedente.
Rimangono peraltro ancora dubbi i casi in cui l'ente soppresso esercitasse funzioni aggiuntive rispetto a quelle dei comuni e non, come nel caso esaminato dalla pronuncia in commento, le stesse funzioni. È il caso, ad esempio, delle comunità montane che molte regioni hanno sciolto trasferendo le loro competenze in materia di tutela e promozione della montagna ai comuni singoli o associati. In tal caso, si potrebbe argomentare che il superamento del tetto dipende appunto dalle maggiori funzioni acquisite e che quindi non vi sia obbligo di rientro.
Merita evidenziare, infine, che rimane aperto il problema degli eventuali esuberi delle società partecipate pubbliche che dovessero essere cancellate, almeno per i lavoratori assunti con modalità privatistiche. La Sezione delle autonomie, infatti, ha ribadito che non possono essere ammessi nei ruoli dell'ente pubblico accipiente dipendenti che non abbiano superato un pubblico concorso (articolo ItaliaOggi del 05.03.2016).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Passaggi in libertà. Dall'ente soppresso al comune. Sezione autonomie: derogabili i vincoli assunzionali.
Il trasferimento di personale da un ente soppresso al comune non soggiace ai limiti previsti in materia di assunzioni. Fermo restando che, tuttavia, lo sforamento dei parametri comporta il necessario riassorbimento della spesa eccedente negli esercizi finanziari successivi. In ogni caso, il trasferimento tout court dei dipendenti dall'ente soppresso a un altro ente pubblico può essere ammesso solo per i lavoratori che abbiano superato un concorso, in ossequio a quanto previsto dall'art. 97 Cost..

Sono questi i principi stabiliti dalla sezione Autonomie della Corte conti che nella deliberazione 04.02.2016 n. 4, ha fornito l'esatta interpretazione da dare a una legge della regione Sicilia (n. 22/1986) che, nelle ipotesi di estinzione di un'Istituzione pubblica di assistenza e beneficienza (Ipab), disponeva l'assorbimento del relativo personale da parte del comune.
Interrogata dal commissario straordinario del comune di Licata (Ag), la sezione regionale di controllo della Corte conti Sicilia, ha rimesso il quesito alla sezione autonomie, visto che sul punto, nel corso degli anni, si è formata una giurisprudenza piuttosto eterogenea da parte delle sezioni regionali. Con alcune, come la Corte conti Piemonte, che hanno propugnato una lettura restrittiva della fattispecie, sostenendo che si dovessero applicare in modo rigoroso i limiti in materia di contenimento del personale, in quanto cogenti e finalizzati al riequilibrio della finanza pubblica. E altre, come la sezione regionale della Sardegna che, nell'ipotesi in cui la reinternalizzazione del personale fosse imposta (come nel caso di specie) da una legge regionale, hanno ammesso l'inapplicabilità dei vincoli assunzionali nell'esercizio in corso con contestuale recupero dello sforamento negli esercizi successivi.
La Corte conti Sicilia ha fatto propria quest'ultima tesi ritenendo che contemperi «l'esigenza di rispettare il senso letterale della norma, che introduce espressamente un obbligo di assorbimento del personale, con l'esigenza imperativa di dare attuazione ai vincoli cogenti di finanza pubblica». La sezione autonomie ha condiviso questo orientamento perché consente di bilanciare «le esigenze di contenimento della spesa pubblica con le garanzie di autonomia riservate alle regioni a statuto speciale».
Ciò posto, però, la sezione autonomie ha ribadito, come già aveva fatto con la delibera n. 4/2012 (anche se relativa a un'ipotesi di reinternalizzazione per scelta discrezionale) che «non possa derogarsi al principio costituzionale del pubblico concorso». L'assorbimento dei dipendenti dell'ente soppresso sarà dunque ammissibile «nei limiti in cui il personale interessato sia stato reclutato tramite pubblico concorso» (articolo ItaliaOggi dell'01.03.2016).

QUESITI & PARERI

PATRIMONIO: Alienazione di terreni comunali tramite trattativa privata. Pubblicità.
Poiché la normativa di settore in materia di alienazioni del patrimonio pubblico nulla dispone in merito alle forme di pubblicità da osservarsi per la trattativa privata esperibile a seguito di asta pubblica andata deserta, il Comune, in ossequio ai generali principi di trasparenza, pubblicità e buon andamento dell'azione amministrativa, può dare notizia dell'indizione della procedura con modalità che esso stesso può individuare discrezionalmente.
Il Comune, che non si è ancora dotato di un regolamento in materia di alienazione del proprio patrimonio immobiliare, di cui all'art. 12, comma 2
[1], della legge 15.05.1997, n. 127, avendo esperito un'asta pubblica, andata deserta, intende ora indire una trattativa privata, ai sensi dell'art. 55 [2] del regio decreto 17.06.1909, n. 454 [3], al fine di alienare beni immobili del valore stimato di euro 390.000,00.
L'Ente chiede di conoscere se la pubblicazione dell'avviso di indizione della procedura all'albo comunale e sul sito Internet sia sufficiente a ritenere rispettato il requisito dell'adeguata pubblicità.
Anzitutto, occorre rilevare che l'art. 3, primo comma, della legge 24.12.1908, n. 783
[4], dispone che «La vendita dei beni si fa mediante pubblici incanti sulla base del valore di stima, previe le pubblicazioni, affissioni ed inserzioni da ordinarsi dall'amministrazione demaniale in conformità del regolamento per la esecuzione della presente legge» e che il R.D. 454/1909 nulla dispone in merito alle forme di pubblicità da osservarsi ove si ricorra alla trattativa privata [5].
Occorre, poi, chiarire che la previsione di 'adeguata pubblicità' è contenuta nel già richiamato art. 12, comma 2, della L. 127/1997, il quale consente ai comuni e alle province di alienare il proprio patrimonio immobiliare derogando alla specifica disciplina di settore ed a quella concernente la contabilità generale degli enti locali, ma osservando, comunque, i princìpi generali dell'ordinamento giuridico-contabile, a condizione che essi si dotino di un apposito regolamento, che assicuri criteri di trasparenza e «adeguate forme di pubblicità» per acquisire e valutare concorrenti proposte di acquisto.
In tale contesto, quindi, la valutazione dell'adeguatezza spetta unicamente all'ente locale, al quale il legislatore rimette la scelta, di natura discrezionale, di individuare le forme di pubblicità da garantire.
La medesima considerazione vale anche con riferimento al caso di specie nel quale, in assenza di previsioni fornite dalla normativa di settore, il Comune, in ossequio ai generali principi di trasparenza, pubblicità e buon andamento dell'azione amministrativa, intende diffondere, con modalità che esso stesso può individuare discrezionalmente, l'avviso di indizione della trattativa privata.
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[1] «I comuni e le province possono procedere alle alienazioni del proprio patrimonio immobiliare anche in deroga alle norme di cui alla legge 24.12.1908, n. 783, e successive modificazioni, ed al regolamento approvato con regio decreto 17.06.1909, n. 454, e successive modificazioni, nonché alle norme sulla contabilità generale degli enti locali, fermi restando i princìpi generali dell'ordinamento giuridico-contabile. A tal fine sono assicurati criteri di trasparenza e adeguate forme di pubblicità per acquisire e valutare concorrenti proposte di acquisto, da definire con regolamento dell'ente interessato.».
[2] Il cui primo comma prevede (analogamente a quanto dispone l'art. 9, primo comma, della legge 24.12.1908, n. 783) che «È data facoltà all'Amministrazione di vendere a partiti privati, quando lo ritenga conveniente, gli immobili o lotti pei quali siansi verificate una o più diserzioni di incanti, purché il prezzo e le condizioni dell'asta o dell'ultima asta andata deserta non siano variati se non a tutto vantaggio dell'Amministrazione stessa.».
[3] «Regolamento per l'esecuzione della legge 24.12.1908, n. 783, sulla unificazione dei sistemi di alienazione e di amministrazione dei beni immobili patrimoniali dello Stato».
[4] «Unificazione dei sistemi di alienazione e di amministrazione dei beni immobili patrimoniali dello Stato».
[5] Prescrivendo, invece, rigorose forme di pubblicazione degli avvisi di indizione degli incanti
(21.03.2016 -
link a www.regione.fvg.it).

APPALTI FORNITURE: Acquisto carburante ai sensi della normativa vigente.
L'art. 1, comma 7, D.L. n. 95/2012, stabilisce una disciplina speciale per l'approvvigionamento da parte delle pubbliche amministrazioni di determinate categorie merceologiche, tra cui i carburanti. Per detti beni, la norma in commento prevede l'obbligo di approvvigionamento mediante le Convenzioni Consip o gli accordi quadro messi a disposizione da Consip o da centrali di committenza regionali, ovvero attraverso autonome procedure, nel rispetto della normativa vigente, utilizzando i sistemi telematici di negoziazione resi disponibili dai soggetti indicati. A quest'ultimo riguardo, l'Ente può valutare in concreto la convenienza di utilizzare il MEPA, quale alternativa di approvvigionamento consentita dalla norma in commento.
È fatta salva, inoltre, la possibilità di procedere ad affidamenti che conseguano ad approvvigionamenti da altre centrali di committenza o a procedure ad evidenza pubblica, a condizione che gli stessi prevedano corrispettivi inferiori (del 3% nel caso dei carburanti) a quelli indicati nelle convenzioni o accordi quadro messi a disposizione da Consip Spa e dalle centrali di committenza regionali.

Il Comune rappresenta la propria situazione in merito alla fornitura di combustibile per autotrazione, per cui, se da un lato la società che ha stipulato la convenzione Consip, in esito alla relativa gara, propone un ribasso rispetto al prezzo di mercato superiore rispetto a quello a cui era avvenuto l'affidamento alla precedente ditta fornitrice, dall'altro lato, l'adesione alla convenzione Consip non appare al Comune conveniente, posta la maggiore distanza del distributore della ditta vincitrice, con conseguente impiego di risorse per raggiungerlo, rispetto all'impianto della precedente società affidataria, sito nel territorio comunale.
Il Comune chiede, pertanto, se sia possibile incaricare quest'ultima della fornitura di carburante, in deroga a quanto previsto dalla normativa vigente, e attesa la possibilità di dimostrare la convenienza di un tanto. L'Ente precisa infine che la relativa spesa si aggira intorno ai 15.000 l'anno e rientra pertanto nell'ambito delle spese in economia, di cui all'art. 125, D.Lgs. n. 163/2006.
Sentito il Servizio centrale unica di committenza di questa Direzione centrale, si esprimono le seguenti considerazioni.
La disamina del quesito rende opportuna una rappresentazione di sintesi del quadro normativo in materia di acquisti di carburante, avuto riguardo alle recenti innovazioni apportate dalla L. n. 208/2015 e anticipando sin da ora che non sembra possibile discostarsi dalle considerazioni già espresse nelle note nn. 8377/2015 e 2679/2013
[1].
L'art. 1, comma 7, D.L. n. 95/2012, stabilisce una disciplina speciale per l'approvvigionamento da parte delle pubbliche amministrazioni di beni, quali energia elettrica, gas, carburanti rete e carburanti extra-rete (per quanto qui di interesse), combustibili per riscaldamento, telefonia fissa e telefonia mobile.
Il comma 7 richiamato prevede che la fornitura dei predetti beni avvenga utilizzando le convenzioni o gli accordi quadro messi a disposizione da Consip o da centrali di committenza regionali ovvero attraverso proprie autonome procedure, nel rispetto della normativa vigente, utilizzando i sistemi telematici di negoziazione resi disponibili dai soggetti indicati
[2].
Il medesimo comma 7, come novellato dall'art. 1, comma 494, L. n. 208/2015, fa salva la possibilità di procedere ad affidamenti, nelle indicate categorie merceologiche, anche al di fuori delle predette modalità, a condizione che gli stessi conseguano ad approvvigionamenti da altre centrali di committenza o a procedure di evidenza pubblica, e prevedano, specificamente per i carburanti, corrispettivi inferiori almeno del 3% rispetto ai migliori corrispettivi indicati nelle convenzioni e accordi quadro messi a disposizione da Consip Spa e dalle centrali di committenza regionali.
In tal caso, i contratti devono essere trasmessi all'Autorità nazionale anticorruzione e sottoposti a condizione risolutiva, con possibilità di adeguamento da parte del contraente, per il caso in cui intervengano convenzioni Consip e delle centrali di committenza regionali che prevedano condizioni economiche di maggiore vantaggio in percentuale superiore al 10 per cento rispetto ai contratti già stipulati.
L'art. 1, comma 8, D.L. n. 95/2012, stabilisce che sono nulli, costituiscono illecito disciplinare e sono causa di responsabilità amministrativa i contratti stipulati in violazione di quanto previsto dal comma 7.
Unica eccezione alla disciplina degli acquisti delle particolari categorie merceologiche indicate dall'art. 1, comma 7, D.L. n. 95/2012, si rinviene nella disposizione di cui all'art. 1, comma 510, L. n. 208/2015, che consente alle pp.aa. obbligate ad approvvigionarsi attraverso le convenzioni stipulate da Consip S.p.a., ovvero dalle centrali di committenza regionali, di procedere ad acquisti autonomi, a seguito dell'apposita autorizzazione ivi prevista, 'qualora il bene o il servizio oggetto di convenzione non sia idoneo al soddisfacimento dello specifico fabbisogno dell'amministrazione per mancanza di caratteristiche essenziali', ipotesi non ricorrente nel caso di specie.
La Corte dei conti, ancor prima delle novelle apportate dalla L. n. 208/2015 in tema di acquisti delle pp.aa., ha evidenziato la natura vincolistica delle disposizioni che hanno innovato la disciplina degli affidamenti di beni e servizi della pp.a.a, da cui consegue la necessità di un'interpretazione rigorosa delle stesse, con prioritario rilievo al criterio letterale
[3].
Sotto questo profilo, si osserva che il tenore letterale dell'art. 1, comma 7, D.L. n. 95/2012, subordina la possibilità di procedere ad affidamenti sul libero mercato alla duplice condizione che gli stessi conseguano a procedure ad evidenza pubblica e prevedano corrispettivi inferiori (del 3% nel caso dei carburanti) a quelli indicati nelle convenzioni e accordi quadro messi a disposizione da Consip Spa e dalle centrali di committenza regionali
[4]. Mentre non sono contemplati, nella norma in commento, altri indici di risparmio di spesa pubblica diversi da quelli del prezzo più basso, quali, nel caso di specie, potrebbero essere i risparmi sui costi accessori derivanti dalla maggiore lontananza dei distributori di carburante convenzionati Consip.
Inoltre, con specifico riferimento alla necessità di attivare procedure ad evidenza pubblica per la scelta in autonomia del fornitore, e stante la precisazione dell'Ente della riconducibilità della spesa da sostenersi (intorno ai 15.000 l'anno) nell'ambito delle spese in economia, di cui all'art. 125, D.Lgs. n. 163/2006, è il caso di osservare che la disposizione di cui all'art. 1, comma 7, D.L. n. 95/2012, nell'indicare le 'procedure di evidenza pubblica', sembra riferirsi a tutte le procedure di tipo concorrenziale, nelle quali sia comunque garantita l'evidenza pubblica dell'affidamento, che presuppone il rispetto dei principi di cui all'art. 2, comma 1, D.Lgs. n. 163/2006, ed in particolare del principio di pubblicità, trasparenza, e parità di trattamento.
In questo senso -ferma restando l'autonomia dell'Ente nella scelta della procedura da seguire per la scelta del contraente nella fattispecie concreta, ai sensi dell'art. 1, comma 7, D.L. n. 95/2012- non sembra rientrare, tra le procedure ad evidenza pubblica, la procedura in economia dell'affidamento diretto. Un tanto, in assenza di un'interpretazione autentica del legislatore o di pronunce giurisprudenziali da cui risulti una diversa lettura della disposizione in esame
[5].
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[1] Consultabili all'indirizzo web: autonomielocali.regione.fvg.it
[2] In proposito, l'Ente può valutare concretamente la convenienza di ricorrere al MEPA, quale alternativa consentita dalla norma in commento per l'affidamento della fornitura carburanti.
[3] Corte dei conti, sezione regionale di controllo per la Lombardia, parere 21.03.2013, n. 89.
[4] In proposito, l'ANAC, a seguito dell'indagine sugli affidamenti in deroga alle convenzioni Consip di energia elettrica, gas, carburanti, combustibili per il riscaldamento, telefonia mobile, ha dato un riscontro positivo sull'operato delle stazioni appaltanti di porre a base d'asta il prezzo definito nelle convenzioni Consip per la tipologia di prestazioni di cui necessitavano, per proposte al ribasso da parte degli operatori economici. E la disponibilità degli operatori economici ad offrire prezzi più bassi è stata apprezzata come impulso ad una maggiore vivacità del mercato, con conseguente ottimizzazione dell'utilizzo delle risorse pubbliche (Cfr. Comunicato del Presidente ANAC del 04.11.2015, a seguito dell'indagine ANAC di cui sopra, dell'ottobre 2015).
Considerazioni, queste, che non sembrano consentire di discostarsi dal parametro del prezzo più basso a giustificazione di una deroga agli obblighi di ricorrere alle convenzioni Consip.
[5] Cfr. ANCI, parere 28.03.2013, secondo cui tra le procedure ad evidenza pubblica rientrano anche le procedure negoziate (anche senza previa pubblicazione del bando di gara), potendosi escludere soltanto le acquisizioni in economia mediante amministrazione diretta e l'affidamento diretto. Nella nota, l'Associazione richiama la delibera n. 271 del 04.07.2012 della Corte dei conti Piemonte, che include tra le procedure negoziate anche il cottimo fiduciario, che prevede l'indizione di una gara informale, con consultazione di almeno 5 operatori economici. La gara ufficiosa -precisa il magistrato contabile- implica una valutazione comparativa delle offerte, valutazione che è insita nel concetto stesso di gara (Cons. Stato, sez. VI, 29.03.2001, n. 1881, ivi richiamato)
(17.03.2016 -
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INCARICHI PROFESSIONALI: Conferimento incarico di direzione artistica a professionista esterno.
Il Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione ha chiarito (cfr. circolare n. 6/2014) che, ai fini dei divieti imposti dall'art. 5, comma 9, del d.l. 95/2012, come modificato dal d.l. 90/2014, occorre prescindere dalla natura del rapporto, dovendosi invece considerare l'oggetto dell'incarico.
La predetta disciplina, dunque, non esclude alcuna delle forme contrattuali contemplate dall'articolo 7 del d.lgs. 165/2001, ma impedisce di utilizzare quelle forme contrattuali per conferire incarichi aventi il contenuto proprio degli incarichi vietati.

Il Comune ha chiesto un parere in ordine ad alcune problematiche afferenti al conferimento di un incarico di direzione artistica delle stagioni musicali a professionista esterno.
L'Ente si è posto la questione se detto incarico possa rientrare eventualmente tra le tipologie contemplate all'art. 5, comma 9, del d.l. 95/2012, come modificato dal d.l. 90/2014, e se, in particolare, lo stesso incarico rientri tra quelli consentiti in relazione a quanto precisato dalla circolare n. 4/2015
[1] emanata in materia dal Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione, a integrazione delle indicazioni già fornite con la precedente circolare n. 6/2014.
Il richiamato articolo 5, comma 9, del d.l. 95/2012 impone, com'è noto, il divieto alle pubbliche amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2, del d.lgs. 165/2001 (enti locali compresi) di attribuire incarichi di studio e di consulenza a soggetti già lavoratori privati o pubblici collocati in quiescenza.
Alle richiamate amministrazioni è altresì fatto divieto di conferire ai medesimi soggetti incarichi dirigenziali o direttivi o cariche in organi di governo delle amministrazioni sopra indicate e degli enti e società da esse controllati, ad eccezione dei componenti delle giunte degli enti territoriali e dei componenti o titolari degli organi elettivi degli enti di cui all'articolo 2, comma 2-bis
[2], del d.l. 101/2013, convertito, con modificazioni, dalla l. 125/2013.
Come chiarito dal Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione
[3], gli incarichi vietati dalla citata norma sono solo quelli espressamente contemplati, nello specifico incarichi di studio e consulenza, incarichi dirigenziali o direttivi, cariche di governo nelle amministrazioni e negli enti e società controllati. Si è inoltre precisato che 'la disciplina in esame pone puntuali norme di divieto, per le quali vale il criterio di stretta interpretazione ed è esclusa l'interpretazione estensiva o analogica' [4].
Nella stessa sede si è pertanto rimarcato come tutte le ipotesi di incarico o collaborazione non rientranti nelle categorie sopra elencate debbano ritenersi sottratte ai divieti di cui alla disciplina in esame.
Si osserva in proposito che compete all'Ente istante procedere ad un'attenta valutazione del contenuto delle prestazioni richieste e delle caratteristiche peculiari dell'incarico in argomento, al fine di verificare se lo stesso possa configurarsi quale incarico dirigenziale (riferito - come precisato dal Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione -a 'direzione di struttura' e, quindi, rientrante tra le tipologie vietate dalla disciplina in esame) o come incarico specialistico conferito ad un professionista esterno
[5] (riconducibile alla casistica normata dall'art. 7, comma 6, del richiamato d.lgs. 165/2001), che non implichi in concreto lo svolgimento di funzioni direttive.
Si rileva quanto evidenziato dal Ministro, che ha chiarito -nelle circolari citate- come 'ai fini dell'applicazione dei divieti, occorre prescindere dalla natura giuridica del rapporto, dovendosi invece considerare l'oggetto dell'incarico. La disciplina in esame, dunque, non esclude alcuna delle forme contrattuali contemplate dall'articolo 7 del decreto legislativo n. 165 del 2001
[6], ma impedisce di utilizzare quelle forme contrattuali per conferire incarichi aventi il contenuto proprio degli incarichi vietati'.
Nella circolare n. 6/2014
[7], in particolare, il predetto Ministro ha rimarcato che restano ferme le disposizioni vigenti relative ai requisiti e alle modalità di scelta dei soggetti ai quali conferire incarichi, e alle procedure di conferimento (come quelle contenute nell'articolo 7 del d.lgs. 165/2001). Non è quindi escluso il ricorso a personale in quiescenza per incarichi che non comportino funzioni dirigenziali o direttive e abbiano oggetto diverso da quello di studio e consulenza.
Per il legittimo conferimento di incarichi a professionisti esterni, si rinvia da ultimo, in generale, alle osservazioni più volte formulate dalla Giurisprudenza contabile
[8], che ha evidenziato quali siano i presupposti per un corretto affidamento dei medesimi.
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[1] Cfr. punto 5, ove si menzionano, tra gli incarichi consentiti, quelli di 'direttore musicale, direttore del coro e direttore del corpo di ballo'.
[2] Gli ordini, i collegi professionali, i relativi organismi nazionali e gli enti aventi natura associativa.
[3] Cfr. circolare n. 6/2014.
[4] Vedasi, in proposito, Corte dei conti, Sezione centrale del controllo di legittimità sugli atti del Governo e delle amministrazioni dello Stato, deliberazione n. 23/2014/PREV del 30.09.2014.
[5] Le competenze richieste nella fattispecie in esame sembrano assumere connotazioni ascrivibili a prestazioni specialistiche, di elevata professionalità, in campo artistico. Il TAR Veneto (cfr. sentenza n. 2187/2009) ha sottolineato che il Direttore Artistico non è inquadrato nell'ente e la procedura di reclutamento di tale figura non è un concorso pubblico, considerato che trattasi di figura professionale che rimane esterna all'ente medesimo.
[6] Il comma 6 dell'art. 7 disciplina il conferimento di incarichi individuali, con contratti di lavoro autonomo, di natura occasionale o coordinata e continuativa, ad esperti di particolare e comprovata specializzazione, per prestazioni altamente qualificate. Il comma 6-bis prevede inoltre che le amministrazioni pubbliche disciplinino e rendano pubbliche, secondo i propri ordinamenti, procedure comparative per il conferimento degli incarichi di collaborazione.
[7] Cfr. punto 5. Incarichi consentiti.
[8] Cfr., ex plurimis, Corte dei conti, sez. controllo Piemonte, parere n. 194/2014
(16.03.2016 -
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ATTI AMMINISTRATIVI: Falsa dichiarazione per beneficiare di erogazioni pubbliche, in quali casi si configura un reato penale e quale fattispecie può essere contestata?
IL CASO: un cittadino sulla base di una dichiarazione attestante un reddito imponibile non corrispondente a quello reale, otteneva un finanziamento regionale di circa € 1.000,00 per l'acquisto di un computer. Da un controllo successivo eseguito dai funzionari regionali, emergeva la falsità delle dichiarazioni e la denuncia alle autorità giudiziarie.
(Risponde l'Avv. Guido Paratico)
Come affermato dalle Sezioni unite nella sentenza n. 16568 del 19.04.2007, la linea di discrimine tra il reato di cui all'art. 316-ter c.p. (indebita percezione di erogazioni a danno dello stato) e quello di cui all'art. 640-bis c.p. (truffa aggravata per il perseguimento di erogazioni pubbliche), che hanno in comune l'elemento della indebita percezione di contributi da parte dello Stato o altri enti pubblici o dalle Comunità europee, va ravvisato nella mancata inclusione, tra gli elementi costitutivi del primo reato, dell'effetto della induzione in errore del soggetto passivo, presente invece nel secondo.
Occorre dunque guardare alle regole formali del procedimento di concessione del contributo (o di altra erogazione comunque denominata):
a) se il contributo consegue alla mera presentazione di dichiarazioni o documenti falsi o attestanti cose non vere o all'omissione di informazioni dovute, senza che rilevi che l'ente pubblico possa essere tratto in errore da tale condotta, è integrato il reato di cui all'art. 316-ter;
b) se invece la erogazione del contributo da parte dell'ente pubblico è l'effetto di una induzione in errore circa i presupposti che lo legittimano, dato che le regole del relativo procedimento amministrativo non fanno derivare dalla presentazione della dichiarazione un'automatica conseguenza circa l'erogabilità di esso, è integrato il reato di cui all'art. 640-bis c.p..
Nella specie non risulterebbe che, stando alle regole del relativo procedimento amministrativo, l'assegnazione del computer sia dipesa da un'induzione in errore degli organi della regione, essendo invece da ritenere che essa conseguisse automaticamente per il solo fatto di una auto-dichiarazione da parte del richiedente di un reddito rientrante nei limiti previsti, come spesso avviene nelle erogazione dei contributi.
Il caso di specie, quindi, dovrebbe essere inquadrato nella fattispecie di cui all'art. 316-ter, punti con la reclusione da sei mesi a quattro anni.
La norma, tuttavia, prevede una soglia di non punibilità, disciplinata dal comma 2: "Quando la somma indebitamente percepita è pari o inferiore a 3.999,96 euro si applica soltanto la sanzione amministrativa del pagamento di una somma di denaro da 5.164 euro a 25.822 euro. Tale sanzione non può comunque superare il triplo del beneficio conseguito".
Applicando la norma al caso di specie, quindi, deve ritenersi sussistente la fattispecie di cui all'art. 316-ter c.p., e, trattandosi di una erogazione di valore inferiore alla soglia di punibilità ragguagliata al valore di Euro 3.999,96, integrata la violazione amministrativa a norma del comma 2 del predetto articolo.
Infine, per completezza, non può essere contestato il reato di falso in atto pubblico, posto che in conformità alla giurisprudenza di legittimità di gran lunga prevalente, il reato di cui all'art. 483 c.p. è assorbito nella fattispecie di cui all'art. 316-ter c.p., trattandosi di reato complesso ex art. 84 c.p., e non valendo, proprio per tale motivo, il rilievo della diversità del bene giuridico tutelato dalle due norme, dato che in ogni reato complesso si ha per definizione pluralità di beni giuridici protetti, a prescindere dalla collocazione sistematica della fattispecie incriminatrice (tratto dalla newsletter 16.03.2016 n. 141 di http://asmecomm.it).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Impianti solari termici o fotovoltaici aderenti o integrati nei tetti — Decreto ministeriale 19.05.2015, recante: "Approvazione del modello unico per la realizzazione, la connessione e l'esercizio di piccoli impianti fotovoltaici integrati sui tetti degli edifici" (MIBACT, Ufficio Legislativo, nota 15.03.2016 n. 7716 di prot.).
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Si riscontra la nota prot. n. 581 del 15 febbraio con la quale codesta Direzione, riprendendo i contenuti della precedente richiesta del 21.12.2015, prot. n. 31357, chiede l'avviso di questo Ufficio relativamente alla corretta interpretazione da darsi, nel caso di rilascio dell'autorizzazione paesaggistica per l'installazione di impianti solari fotovoltaici, alle normative di settore per lo sviluppo dell'efficientamento degli usi finali dell'energia negli immobili ricadenti in aree tutelate paesaggisticamente.
Le richieste di parere derivano dalle sollecitazioni provenienti, nel primo caso, dalla Regione Lombardia relativamente all'applicazione del Decreto ministeriale, adottato dal Ministro dello Sviluppo economico il 19.05.2015 a seguito di quanto disposto dall'articolo 7-bis del decreto legislativo n. 28 del 2011, recante: "Approvazione del modello unico per la realizzazione, la connessione e l'esercizio di piccoli impianti fotovoltaici integrati sui tetti degli edifici", e, nel secondo caso, dalla Soprintendenza Belle arti e paesaggio di Alessandria che, nello specifico, fa riferimento alla sentenza n. 1946/2014, con la quale il TAR Piemonte perviene alla conclusione di considerare esclusi dalla necessità di acquisire l'autorizzazione paesaggistica gli impianti in argomento, se non già ricadenti in aree dichiarate ai sensi dell'articolo 136 del Codice, lett. b) e c). (...continua)

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Marostica (Vicenza), dichiarazione di notevole interesse pubblico del centro storico — decreto dirigenziale generale 22.02.2012 — art. 146, comma 5, decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 (MIBACT, Ufficio Legislativo, nota 11.03.2016 n. 7457 di prot.).
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La Direzione regionale per i beni culturali e paesaggistici del Veneto, con nota prot. 10576 del 27.06.2014, integrata con nota prot. 12648 del 30.07.2014, ha formulato specifico quesito in ordine agli effetti giuridici in materia di rilascio dell'autorizzazione paesaggistica che deriverebbero dall'adeguamento degli strumenti urbanistici comunali alle prescrizioni d'uso contenute nella dichiarazione d'interesse pubblico in oggetto, all'esito della positiva verifica da parte del Ministero.
A tal fine la suddetta Direzione ha precisato che la componente prescrittiva di cui alla dichiarazione di interesse pubblico de qua presenta un grado di dettaglio equivalente a quello attribuito alle specifiche prescrizioni d'uso di cui all'art. 143, comma 1, lett. b), del codice di settore.
Il quesito riveste portata generale a fronte della mutata natura (obbligatoria non vincolante, così detta "dequotazione") che assume il parere del Soprintendente nel procedimento di autorizzazione paesaggistica, ai sensi dell'art. 146, comma 5, del codice, in correlazione all'approvazione delle prescrizioni d'uso dei beni paesaggisticamente tutelati e alla positiva verifica da parte del Ministero dell'avvenuto adeguamento degli strumenti urbanistici. (...continua).

CONSIGLIERI COMUNALIOsservatorio Viminale/ Commissione antimafia nello Statuto. Un comune può istituire una commissione consiliare antimafia?
In linea generale, l'articolo 38, comma 6, del decreto legislativo n. 267/2000 prevede la possibilità, per il consiglio comunale, di avvalersi di commissioni costituite nel proprio seno con criterio proporzionale.
Tale disposizione ne demanda la previsione allo statuto dell'ente e rinvia al regolamento comunale la determinazione dei relativi poteri e la disciplina dell'organizzazione e delle forme di pubblicità dei lavori.
Il successivo articolo 44, comma 2, dà, altresì, facoltà al consiglio comunale di «istituire al proprio interno commissioni di indagine sull'attività dell'amministrazione», precisando che «i poteri, la composizione e il funzionamento delle suddette commissioni sono disciplinati dallo statuto e dal regolamento consiliare».
Le commissioni, dunque, nell'ambito del vigente ordinamento degli enti locali, costituiscono forme di articolazione interna del consiglio e si configurano come un contenuto facoltativo dello statuto dell'ente locale, mentre al regolamento è demandata la disciplina delle modalità organizzative con cui le stesse esercitano le funzioni assegnate.
Premesso, pertanto, che tutte le commissioni consiliari operano ordinariamente nell'ambito delle competenze dei consigli, come disciplinate dall'articolo 42 del Tuel, in virtù delle richiamate disposizioni, anche la commissione comunale antimafia, per poter essere concretamente istituita, deve trovare apposita previsione nello statuto comunale.
Nel caso di specie, la partecipazione degli enti locali alle attività di prevenzione dei fenomeni di criminalità organizzata è prevista anche dalla legge regionale in materia, che promuove il ruolo degli enti locali nel perseguimento di tali peculiari obiettivi e adotta specifiche iniziative per valorizzare e diffondere le migliori politiche locali per la trasparenza, la legalità e il contrasto al crimine organizzato.
Il legislatore regionale prevede, inoltre, la promozione di specifiche azioni formative rivolte ad amministratori e dipendenti degli enti locali sui temi della prevenzione e del contrasto civile alle infiltrazioni della criminalità organizzata, del riuso sociale dei beni confiscati, della diffusione della cultura della legalità.
Ciò posto, la commissione di cui trattasi potrebbe esercitare la facoltà di proposta nell'ambito delle funzioni di supporto ed ausilio del consiglio.
L'eventuale funzione di accertamento di potenziali discrasie amministrative deve, invece, essere ricondotta ai compiti specifici della commissione di indagine sull'attività dell'amministrazione, come prevista dal richiamato articolo 44 del decreto legislativo n. 267/2000. Restano, comunque, ferme le competenze degli organi di controllo interno dell'amministrazione, rispetto all'attività degli uffici, che non possono essere surrogate dalla eventuale attività di indagine della commissione consiliare (articolo ItaliaOggi dell'11.03.2016).

PUBBLICO IMPIEGO: Dopo il patteggiamento, il dipendente deve anche risarcire l'Ente per danno all'immagine?
IL CASO: il giudice penale ha applicato, su richiesta della difesa del responsabile dell'Ufficio Urbanistica, la sanzione penale e, tuttavia, la sentenza patteggiata non include alcun risarcimento del danno all'immagine sofferto dal Comune a causa comportamento illecito del responsabile dell'ufficio urbanistica, consistente nell'avanzare a vari imprenditori edili richieste di pagamento di somme di denaro per ottenere le pratiche edilizie presentate. Si tratta di stabilire se tale danno sia dovuto e come il Comune possa ottenerne il risarcimento.
(Risponde l'Avv. Nadia Corà)
La natura patteggiata della sanzione irrogata dal giudice penale non consente di includere il capo di condanna al risarcimento del danno all'immagine. Pertanto, nel caso di specie, la risposta non può che essere demandata all'esito del giudizio di responsabilità di competenza della Corte dei conti.
Quand'anche il Comune abbia sofferto un tale danno a causa del comportamento illecito del proprio funzionario, l'effettiva risarcibilità, a favore del Comune, dipende, infatti, dalla configurabilità, in concreto, della "responsabilità amministrativa" del dipendente in questione.
Nel processo davanti alla Corte dei conti, che ha per oggetto l'accertamento di una tale responsabilità, la sentenza di applicazione pena, pur non avendo efficacia di giudicato, ben può costituire, "un'autorevole fonte" da cui trarre autonome valutazioni sulle risultanze acquisite nel procedimento penale conclusosi con il patteggiamento. L'assenza di un accertamento positivo della responsabilità dell'imputato non impedisce alla Corte dei conti, in virtù del principio di separatezza dei giudizi, penale ed amministrativo-contabile, di poter comunque trarre elementi di valutazione dal fascicolo del procedimento penale ai fini dell'autonoma pronuncia in tema di responsabilità amministrativa, per danno erariale.
In definitiva, la sentenza patteggiata, pur non potendosi qualificare come sentenza di condanna, presuppone pur sempre una ammissione di colpevolezza che esonera la controparte dall'onere della prova. L'accertamento in ordine al comportamento, oggettivamente tenuto dal funzionario del Comune, non è tuttavia elemento di per sé sufficiente per ottenere, nel giudizio davanti alla Corte dei conti, il ristoro del danno all'immagine, dovendo altresì sussistere l'elemento del dolo o della colpa grave, che è compito della magistratura amministrativo-contabile accertare (tratto dalla newsletter 09.03.2016 n. 140 di http://asmecomm.it).

EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO: Oggetto: Torino - immobili demaniali di proprietà della città metropolitana denominati "Palazzo della Prefettura" e "Caserma Chiaffredo Bergia" — dichiarazione dell'interesse culturale particolarmente importante di cui all'art. 10, comma 3, lett. d), del decreto legislativo n. 42 del 2004 - conferimento a Invimit Sgr S.p.A. (MIBACT, Ufficio Legislativo, nota 04.03.2016 n. 6747 di prot.).
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Si riscontra il quesito di cui alla nota prot. 14325 del 09.12.2015 della Soprintendenza Belle arti e paesaggio per il comune e la provincia di Torino, trasmessa a questo Ufficio a cura del Segretariato generale con nota prot. 467 del 15.01.2016, in ordine alla legittimità del conferimento a Invimit Sgr S.p.A. degli immobili demaniali di proprietà della Provincia, ora città metropolitana, di Torino denominati "Caserma Chiaffredo Bergia" e "Palazzo della Prefettura", dichiarati di interesse culturale particolarmente importante ai sensi dell'art. 10, comma 3, lett. a) e d), del decreto legislativo n. 42 del 2004 con decreti del Direttore regionale per i beni culturali e paesaggistici del Piemonte adottati, rispettivamente, in data 09.08.2013 e 10.10.2013.
La società di gestione del risparmio Invimit Sgr S.p.A. è stata costituita dal Ministero dell'economia e delle finanze secondo le previsioni dell'art. 33 del decreto-legge n. 98 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 111 del 2011, per l'istituzione di uno o più fondi d'investimento al fine di partecipare in fondi d'investimento immobiliare chiusi, promossi o partecipati da regioni, province, comuni, ed altri enti pubblici, o da società interamente partecipate dai medesimi, al fine di valorizzare e dismettere il proprio patrimonio immobiliare disponibile.
Lo scrivente Ufficio ha già chiarito con precedente parere (nota prot. 6328 del 19.03.2015) l'assoggettamento delle alienazioni di beni immobili pubblici in favore della società Invimit al regime autorizzatorio previsto dalla Sezione I del Capo IV della Parte II del codice di settore.
L'art. 54 del codice, come è noto, prevede l'inalienabilità dei beni del demanio culturale dichiarati di interesse particolarmente importante ai sensi dell'art. 10, comma 3, lett. d) del codice; i beni inalienabili possono essere oggetto di trasferimento esclusivamente tra gli enti pubblici territoriali ed essere utilizzati solo secondo le previsioni del Titolo II (dedicato alla fruizione e valorizzazione) della Parte II del codice. Ne consegue la conclusione della inalienabilità, allo stato, in favore di Invimit SGR S.p.A. degli immobili de quibus, gravati da vincolo storico-identitario. (...continua).

CONSIGLIERI COMUNALIOsservatorio Viminale/ Sugli enti locali decide la regione.
Per i comuni con popolazione inferiore a 3 mila abitanti, il consiglio comunale deve essere composto da dieci consiglieri? Può essere riutilizzato il simbolo della lista già impiegato nelle precedenti elezioni?

In merito al primo dei quesiti, occorre evidenziare che, nel caso di specie, l'ente locale insiste nel territorio di una regione a statuto speciale. Secondo la carta statutaria, l'ordinamento degli enti locali rientra nella competenza della legislazione regionale, nel rispetto della Costituzione, dei principi dell'ordinamento giuridico della repubblica, degli obblighi internazionali e degli interessi nazionali, nonché delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali della repubblica.
La disciplina prevista dalla legge n. 56/2014, in materia di città metropolitane, è qualificata dall'art. 1, comma 5, della stessa legge come normativa recante principi di «grande riforma economica e sociale»; inoltre, la citata legge, ai sensi del successivo comma 145, dispone che entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, le regioni a statuto speciale Friuli Venezia Giulia e Sardegna e la Regione siciliana adeguano i propri ordinamenti interni ai principi della medesima legge.
Le disposizioni di cui ai commi da 104 a 141 sono applicabili nelle regioni a statuto speciale Trentino-Alto Adige e Valle d'Aosta compatibilmente con le norme dei rispettivi statuti e con le relative norme di attuazione, anche con riferimento alla legge costituzionale 18.10.2001, n. 3.
Nella fattispecie in esame, tuttavia, la regione non ha ancora provveduto a un riordino complessivo del proprio ordinamento degli enti locali.
Pertanto, nelle more di un futuro riassetto della materia, occorre fare riferimento alla normativa regionale attualmente vigente, secondo cui il consiglio comunale dei comuni con popolazione compresa tra 1.000 e 5 mila abitanti è composto da 12 membri.
In merito al secondo quesito formulato, non si ravvisano preclusioni al riutilizzo, da parte della formazione politica interessata alle prossime elezioni comunali, del medesimo contrassegno di lista presentato, e presumibilmente ammesso, in occasione delle elezioni tenutesi nello stesso comune.
Per completezza, si richiamano le disposizioni contenute nell'art. 30, comma 1, lettera b), (per i comuni sino a 15 mila abitanti) e nell'art. 33, comma 1, lett. b) (per i comuni con popolazione superiore a 15 mila abitanti) del dpr n. 570/1960, da cui si evincono i criteri di ammissione dei contrassegni di lista, con riferimento, tra l'altro, al divieto di presentazione di contrassegni identici o comunque confondibili con quelli presentati precedentemente per la stessa consultazione o con quelli notoriamente usati da altri partiti o raggruppamenti politici (articolo ItaliaOggi del 04.03.2016).

EDILIZIA PRIVATAOggetto: "Castellamare di Stabia (Napoli), località Collina di Varano. Istanze del Comune e di privati finalizzate a rideterminare i provvedimenti di tutela diretti" (MIBACT, Ufficio Legislativo, nota 02.03.2016 n. 6433 di prot.).
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Con nota prot. 17789 del 07.11.2014 la Soprintendenza di Pompei formulava un quesito in ordine alla corretta procedura da adottare in seguito alle istanze di privati e enti finalizzate a rideterminare, in presenza di manufatti abusivi, i vincoli diretti, adottati con decreti ministeriali ai sensi della legge n. 1089 del 1939, gravanti sulla collina di Varano.
Tali vincoli risulterebbero particolarmente estesi e non corredati da planimetrie dei resti archeologici, secondo la prassi dell'epoca. La collina di Varano sarebbe interessata nella sua totalità non solo dalla presenza di tre ville monumentali parzialmente riportate alla luce, ma anche da assi viari antichi e numerosi altri rinvenimenti che nel loro insieme testimoniano l'esistenza dell'antica città di Stabiae.
Il Comune di Castellamare, a fronte di numerose istanze di condono, avrebbe manifestato l'intenzione di sottoscrivere un protocollo d'intesa con la Soprintendenza finalizzato a eliminare e/o declassificare i vincoli esistenti, anche ricorrendo all'utilizzo di indagini geoarcheologiche atte a determinare l'esistenza o meno di resti antichi, legittimanti la permanenza dei provvedimenti. Pendono inoltre avanti il Giudice amministrativo una decina di ricorsi per l'annullamento di alcuni dei vincoli, in ordine ai quali la Soprintendenza, con la rappresentanza dell'Avvocatura dello Stato, avrebbe predisposto idonee argomentazioni difensive.
La Soprintendenza chiede a questo Ufficio di esprimersi sulla legittimità della sottoscrizione del protocollo d'intesa, nelle more della definizione dei giudizi amministrativi, nonché sulle iniziative da avviare nell'ipotesi in cui i saggi geoarcheologici diano esito negativo. (...continua).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Oggetto: Mancata partecipazione del componente del Comando Provinciale VV.F. alla riunione della C.C.V.L.P.S. riguardante parere esame progetto dello stadio comunale. Quesito (Ministero dell'Interno, Dipartimento della Pubblica Sicurezza, nota 11.12.2015 n. 557 di prot.).

NEWS

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Permessi sindacali con calcolo pro rata. Pa. Le istruzioni dell’Aran per gli enti interessati da riassetti organizzativi.
In questa fase ad alto tasso di mobilità per la geografia della pubblica amministrazione anche le regole della rappresentanza sindacale devono adeguarsi ai confini interessati da mutamenti più o meno rapidi. Per questa ragione l’Aran, l’agenzia negoziale che rappresenta il “datore di lavoro” pubblico, con la circolare 1/2016 interviene per disciplinare il funzionamento delle Rsu e i calcoli su monte ore e distribuzione dei permessi sindacali per le amministrazioni che cambiano assetto.
Il principio da tradurre in pratica è quello fissato nel contratto quadro del 2015, che sulla base di quanto sperimentato nella scuola due anni prima punta a far “sopravvivere” il più possibile il sistema della rappresentanza alle ristrutturazioni degli enti, per evitare che ogni riassetto imponga nuove elezioni inceppando i meccanismi delle relazioni sindacali.
Con questa filosofia, le istruzioni dell’Aran si addentrano nei criteri per il ricalcolo dei permessi sindacali nei tre casi di riorganizzazione delle Pa: costituzione di un nuovo ente dal trasferimento di funzioni e personale, incorporazione da parte di un ente di funzioni e personale di altre amministrazioni, e scorporo di personale da un ente che però continua a sopravvivere, anche se alleggerito.
La regola generale prevede di fondare la quantificazione e la distribuzione dei permessi sulla situazione che ogni amministrazione al 31 dicembre dell’anno precedente. I riassetti, però, possono avvenire in altre date, e in questi casi la via è quella del calcolo «pro rata».
Se per esempio un ente passa da 100 a 50 dipendenti dal mese di maggio, il monte ore dei permessi, misurato in base al numero dei dipendenti a tempo indeterminato, va calcolato in due fasi: per 4/12 (il periodo dal 1° gennaio al 30 aprile) sulla base della vecchia struttura, e per 8/12 (dal 1° maggio al 31 dicembre) in base alla nuova. Un’impostazione di questo tipo, aggiunge l’Aran, può essere assunta anche “a preventivo” negli enti che rischiano la soppressione e che «dovranno adottare particolari cautele nella concessione delle prerogative sindacali», adottando ad esempio «la concessione pro rata». Anche perché i permessi di troppo vanno restituiti, come prevedono i contratti quadro che impongono la restituzione del «corrispettivo economico» o la compensazione con un taglio di ore l’anno successivo
(articolo Il Sole 24 Ore del 15.03.2016).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Spazi per la fibra ottica agevolati in condominio. Comunicazioni. Sarà possibile affittarli alle società telefoniche.
Per gli amministratori e i condòmini si fa strada una nuova opportunità: è stato pubblicato sulla Gazzetta ufficiale n. 57 del 09.03.2016 il Dlgs 33/2016 «Attuazione della direttiva 2014/61/Ue del Parlamento europeo e del Consiglio, del 15.05.2014, recante misure volte a ridurre i costi dell’installazione di reti di comunicazione elettronica ad alta velocità», che completa l’attuazione della direttiva 2014/61/Ue (già avviata con la legge 164/2014).
Il tema sarà trattato al convegno dedicato alla infrastrutture interne multiservizio, di sabato 19 marzo a Erba, organizzato da Anaci e Ance Como alle 15 alla Sala Lario di Lario Fiere in viale Resegone.
Inserendo nel Dpr 380/2001 l’articolo 135-bis, dove sono definite regole per l’infrastrutturazione digitale degli edifici, nelle nuove costruzioni e in determinate tipologie di ristrutturazioni è imposta la realizzazione di una «infrastruttura fisica multiservizio passiva» interna e di accessi all’edificio per agevolare la realizzazione di impianti di comunicazione elettronica.
La novità si applica a tutti gli edifici (nuovi o già esistenti) dotati (o che si doteranno) di questa infrastruttura, definita nel luglio 2015: si tratta di scatole e tubi dove collocare i cavi che le società telefoniche posano per realizzare i collegamenti sino ai singoli appartamenti. Come nella direttiva, sono considerati sia gli ambiti pubblici, sia gli edifici privati.
In particolare, per gli edifici dotati di infrastruttura ai sensi del Dpr 380/2001, il proprietario o il condominio, ove costituito (equiparabile a gestore di infrastruttura fisica), potrà mettere l’infrastruttura a disposizione degli operatori di rete, potendo (dovendo) soddisfare «tutte le richieste ragionevoli di accesso presentate secondo termini e condizioni eque e non discriminatorie, anche con riguardo al prezzo». Tutti i condomìni, quindi, rientrano in queste possibilità, compreso il pagamento di un fee da parte delle società telefoniche se useranno quelle infrastrutture. Quanto pagare lo deciderà l’Agcom.
Per i condomìni che ne siano sprovvisti esiste quindi la possibilità, con una spesa ragionevole, di realizzare queste infrastrutture (tubi e scatole come adeguati spazi installativi ma volendo anche l’impianto in fibra ottica passivo, pronto all’uso). Per gli edifici già esistenti può essere complicato predisporli, a meno di non sfruttare spazi già esistenti come i vecchi canali per la spazzatura ormai chiusi, ma più semplice è predisporre la sola fibra ottica (per poi poterla affittare a canoni interessanti). Oppure, se si prospettano 4-5 abbonamenti, l’impianto può essere regalato dalla società telefonica.
Insomma, ci sono ampi margini per una trattativa che l’amministratore potrebbe condurre.
È anche prevista l’identificazione degli edifici «predisposti alla banda larga» con l’etichetta rilasciata da tecnici abilitati , come previsto dalle guide Cei 306-2 e 64-100/1,2,3 (integrate nella GT-Cei 306-22).
Inoltre, ai fini dei permessi edilizi, «le opere di infrastrutturazione per la realizzazione delle reti di comunicazione elettronica ad alta velocità in fibra ottica in grado di fornire servizi di accesso a banda ultralarga, effettuate anche all’interno di edifici, da chiunque posseduti, non costituiscono unità immobiliari ai sensi dell’articolo 2 del decreto del Ministro delle finanze 02.01.1998, n. 28, e non rilevano ai fini della determinazione della rendita catastale»
(articolo Il Sole 24 Ore del 15.03.2016).

ENTI LOCALI - VARI: Automobilisti, in arrivo il countdown ai semafori.
Novità per gli automobilisti. Tra poco verranno sdoganati i pannelli luminosi che evidenziano a chi è in transito i secondi residui di accensione della lanterna semaforica. E potranno anche essere installati sulle strade dispositivi che attivano il rosso in caso di eccesso di velocità.
L'impiego di questi sistemi è stato, infatti, previsto dalla legge 120/2010 ma, senza il decreto di riferimento, non è ancora possibile installarli effettivamente sulle strade.

Il chiarimento è arrivato il 10 marzo scorso (INTERROGAZIONE A RISPOSTA IN COMMISSIONE 5/07622) dal sottosegretario Umberto del Basso De Caro in risposta a un'interrogazione che era stata presentata in Commissione trasporti alla Camera.
L'articolo 60 della legge 120/2010 ha formalmente sdoganato i semafori intelligenti e i tabelloni luminosi indicanti il countdown del tempo residuo delle lanterne. Prima di procedere con le installazioni, però, occorre stabilire con decreto del ministero dei trasporti le caratteristiche tecniche di questi impianti che potranno essere utilizzati solo dopo la loro preventiva omologazione.
Il decreto del Mit però è stato condizionato dalla necessaria sperimentazione tecnica dei nuovi sistemi. Per questo motivo già un anno fa il governo era stato chiamato a fornire chiarimenti sui tempi di messa a regime del sistema. La risposta del sottosegretario si sofferma soprattutto sulle sperimentazioni dei dispositivi countdown, utili per evitare di attraversare gli incroci quando la lanterna sta per cambiare colore.
«Queste prove», ha sottolineato il sottosegretario, «hanno dato esito positivo». Il ministero ha quindi redatto una bozza di decreto che approva le norme inerenti alle caratteristiche tecniche per l'omologazione e per l'installazione dei citati dispositivi. Il testo è attualmente all'esame del Consiglio superiore dei lavori pubblici per ogni ulteriore valutazione.
Spetterà poi alla Conferenza stato-città ed autonomie locali mettere l'ultimo timbro sui faldoni, ovvero permettere ai costruttori di iniziare a omologare i sistemi che prima di essere posizionati sulle strade dovranno anche essere acquistati dagli enti e posizionati correttamente. Specialmente i semafori evoluti in grado di interferire con le correnti di traffico troppo veloci (articolo ItaliaOggi del 15.03.2016).

TRIBUTIPer lo sconto Imu, comodato da registrare. La Fondazione nazionale dei commercialisti fa il punto sulla norma.
Dal 1° gennaio scorso, il proprietario dell'immobile che concede in comodato gratuito lo stesso a un parente in linea retta (genitori e/o figli), fruisce dell'abbattimento del 50% della rendita catastale. Ma il contratto deve essere registrato, il comodante deve risiedere nel medesimo comune e deve possedere un solo altro immobile abitativo su tutto il territorio nazionale.
Questa, in estrema sintesi, la situazione analizzata con il documento 29.02.2016 (IL COMODATO D’USO: PROFILI CIVILISTICI E ANALISI DELLA DISCIPLINA FISCALE PREVISTA DALLA LEGGE DI STABILITÀ 2016) dalla Fondazione nazionale commercialisti, in relazione alle novità introdotte dalla legge 208/2015 (Stabilità 2016), che fanno riferimento alle nuove agevolazioni Imu e Tasi.
Il documento analizza nei minimi termini le disposizioni, di cui alla lettera b), del comma 10, dell'art. 1, della legge 208/2015 che hanno introdotto un'agevolazione fiscale, a prescindere dalle eventuali determinazioni degli enti comunali, per gli immobili concessi in comodato d'uso a genitori e/o figli, condizionando la fruibilità a condizioni estremamente stringenti.
Si evidenzia, preliminarmente, che al comma 3, dell'art. 13, dl 201/2011, che ha previsto alcune riduzioni della base imponibile dei tributi indicati è stata inserita la lettera 0a), con la quale si dispone che le unità immobiliari, non di lusso (pertanto con esclusione delle categorie «A/1», «A/8» e «A/9»), concesse in godimento con un contratto di comodato registrato a parenti in linea retta, le quali sono utilizzate quali abitazioni principali, beneficiano della riduzione del 50% della rendita catastale.
Il documento in commento evidenzia che, se nel biennio 2014/2015 non era rilevante né il numero di immobili posseduti, né l'ubicazione degli stessi, a partire dal 1° gennaio di quest'anno, al fine di fruire della detta agevolazione, è necessario che l'unità immobiliare sia concessa in comodato, che il proprietario non possieda che un solo altro immobile su tutto il territorio italiano e che il proprietario risieda nel comune ove è collocato l'immobile concesso in godimento, ancorché sia proprietario di due immobili ubicati in comuni diversi.
Di conseguenza, mentre nel biennio indicato (2014/2015) era prevista l'esenzione Imu qualora i comodatari fossero poco abbienti (Isee non superiore a 15 mila euro), attualmente, il proprietario deve solo rispettare le condizioni appena indicate e può beneficiare della riduzione della base imponibile, come indicato, utilizzando il valore ridotto della rendita.
Posta la gratuità del comodato, di cui agli articoli 1803 e seguenti del codice civile, e l'analisi eseguita nel documento sulle varie ipotesi (comodato a termine, precario, vita natural durante, destinato a soddisfare le esigenze abitative familiari e quant'altro), la nuova disciplina impone la registrazione del contratto, con la conseguenza che, per poter fruire dell'agevolazione per l'intero anno 2016, i contratti di comodato redatti in «forma scritta» dovevano essere registrati entro la data del 16/01/2016, con il pagamento dell'imposta di registro in misura fissa (euro 200).
Se, invece, il contratto è stato formato in «forma verbale» ed è già in essere al 1° gennaio scorso, la registrazione doveva essere eseguita entro lo scorso 1° marzo (ministero dell'economia e delle finanze, nota 2472/2016).
Il comodante deve risiedere anagraficamente e deve dimorare nel medesimo comune ove è ubicato l'immobile concesso in comodato e non può possedere ulteriori immobili in Italia, con l'esclusione di quello adibito ad abitazione principale, facendo riferimento alle sole unità abitative e on tenendo conto di immobili strumentali e/o terreni, per quanto chiarito dal dicastero delle finanze recentemente.
Infine, il contribuente che vuole fruire della detta agevolazione deve attestare il possesso dei requisiti stabiliti dalle disposizioni richiamate con la presentazione della dichiarazione Imu, di cui al comma 6, dell'art. 9, dlgs 23/2011; per i contratti di comodato d'uso già in essere al 1° gennaio scorso e per quelli concessi in comodato nel corso del 2016, la dichiarazione dovrà essere presentata entro e non oltre il 30/06/2017 (articolo ItaliaOggi del 15.03.2016).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATACondomini, fibra ottica e meno costi. Direttiva Ue.
Al via l'installazione della fibra ottica nelle infrastrutture esistenti, compresi gli edifici e i condomini. I proprietari di unità immobiliari già cablate, o il condominio predisposto, hanno il diritto e l'obbligo di consentire l'accesso agli operatori di rete per l'installazione della fibra ottica.

È con il dlgs del 15.02.2016 n. 33 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 09.03.2016 n. 57) che è stata recepita la direttiva europea 2014/61/Ue per ridurre i costi dell'installazione di reti di comunicazione elettronica ad alta velocità, promuovendo l'uso dell'infrastruttura fisica esistente.
Ogni gestore di infrastruttura fisica e ogni operatore di rete ha il diritto di offrire ad operatori di reti l'accesso alla propria infrastruttura fisica ai fini dell'installazione di elementi di reti di comunicazione elettronica ad alta velocità. Alla richiesta scritta è allegata una relazione esplicativa, in cui sono indicati gli elementi del progetto da realizzare, comprensivi di un cronoprogramma degli interventi specifici.
I gestori di infrastruttura fisica e gli operatori di rete, in caso di realizzazione, manutenzione straordinaria sostituzione o completamento della infrastruttura, hanno l'obbligo di comunicare i dati relativi all'apertura del cantiere, al Sinfi (sistema informativo nazionale federato delle infrastrutture), con un anticipo di almeno novanta giorni salvo si tratti di interventi emergenziali. In assenza di infrastrutture disponibili, l'installazione delle reti di comunicazione elettronica ad alta velocità è effettuata preferibilmente con tecnologie di scavo a basso impatto ambientale.
Ogni gestore di infrastrutture fisiche e ogni operatore di rete che esegue direttamente o indirettamente opere di genio civile finanziate in tutto o in parte con risorse pubbliche deve soddisfare ogni ragionevole domanda di coordinamento di opere di genio civile, presentata da operatori di rete, secondo condizioni trasparenti e non discriminatorie (articolo ItaliaOggi del 15.03.2016).

URBANISTICA: Grandi magazzini, Comuni decisivi. Le scelte dei piani urbanistici possono condizionare le nuove aperture nei centri storici.
Commercio. Da contemperare i principi della libera concorrenza con la tutela del paesaggio e della rete di vendita esistente.

Si chiama high street retail e si intende l’offerta commerciale localizzata nelle vie centrali delle principali città. Anche in Italia, specie a Milano, Roma e Firenze ma anche nelle altre maggiori città d’arte e commerciali, i capitali internazionali (fondi sovrani, investitori asiatici e opportunistici) sono a caccia di queste solide opportunità di investimento, che tuttavia ormai scarseggiano o hanno costi proibitivi in relazione al loro rendimento.
Se il prodotto è carente bisogna realizzarne di nuovo e certo non mancano nel centro delle nostre città grandi proprietà immobiliari liberatesi o che si stanno liberando dagli uffici trasferiti nelle nuove aree terziarie. Il caso dell’ormai quasi desertificata Piazza Cordusio a Milano è paradigmatico.
La realizzazione di una nuova offerta commerciale nei salotti e nelle vie dello struscio è peraltro idonea a promuovere la rigenerazione urbana, l’efficientamento energetico e la dotazione di nuove infrastrutture e servizi, non necessariamente pubblici. Ma l’apertura dei department store, ossia dei negozi più grandi, con offerta commerciale articolata e superficie di vendita generalmente superiore a 2.500 metri quadrati, incontra le regole dell’urbanistica commerciale. Si tratta del cosiddetto decreto Bersani (Dlgs n. 114/1998) e della legislazione regionale applicativa, assieme alle norme della sempre vigente legge urbanistica nazionale (la n. 1150/1942) e delle disposizioni regionali in materia di governo del territorio, del Testo unico dell’edilizia (Dpr 380/2001) e soprattutto della disciplina dei piani regolatori comunali.
La tutela del tessuto commerciale esistente, così come dei valori paesaggistici e culturali delle nostre città, assieme alla necessità di dotare il tessuto urbano dei servizi -quali parcheggi e aree a verde- necessari all’ordinato sviluppo territoriale sono solitamente d’ostacolo all’apertura in centro di nuovi department store.
Questa consolidata tendenza si pone però in conflitto con le numerose riforme del commercio (Dl n. 223/2006, n. 138/2011 e n. 1/2012) finalizzate a garantire la libertà di concorrenza in applicazione della Direttiva Bolkestein del 2005.
Nella mediazione del contrasto, in termini maggiormente favorevoli alla libertà di iniziativa economica, spicca il Comune di Milano: lo strumento urbanistico generale consente infatti l’apertura delle grandi strutture nei nuclei di antica formazione, pur assoggettandone l’insediamento al reperimento o alla monetizzazione di una imponente dotazione di aree per servizi pubblici, di interesse pubblico o generale.
Sempre a Milano, non è richiesta la dotazione di parcheggi per le grandi strutture di vendita localizzate nelle zone a traffico limitato (chi parcheggia dove non si può arrivare in auto?), norma tanto ragionevole quanto in contrasto con la disciplina regionale della Lombardia che rispetto agli stalli non distingue tra un centro commerciale in periferia e l’offerta nelle aree pedonali delle città.
Nei tessuti della Città storica di Roma le funzioni commerciali per grande struttura sono invece sostanzialmente escluse e, più in generale, non sono ammesse in buona parte della città. Nella Città storica l’apertura di grandi strutture di vendita è tuttavia consentita per le “attività tutelate” di cui alle delibere del Consiglio comunale n. 36/2006 e n. 86/2009 (quali librerie, rivendite di oggetti di antiquariato, gallerie d’arte, vendite di prodotti di alta moda e prèt à porter di marchi a diffusione nazionale ed internazionale).
Sia nel Lazio che in Lombardia, l’apertura di grandi strutture è poi subordinata alla determinazione favorevole di una conferenza di servizi che vede la partecipazione di Regione, Provincia e Comune, così come stabilito dall’articolo 9 del Dlgs n. 114/1998.
Su quest’ultimo punto, merita di essere citata la regione Veneto che, con Lr n. 50/2012, ha invece previsto che, all’interno dei centri storici, l’autorizzazione commerciale per le grandi strutture di vendita sia rilasciata direttamente dal Comune cui è rimessa ogni valutazione circa la localizzazione dei grandi negozi e la dotazione degli standard urbanistici.
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I vincoli «locali» bocciati dai giudici. Giurisprudenza. Norme da disapplicare.
Anche se dal 2001 con la riforma del Titolo V della Costituzione la disciplina del commercio è di competenza legislativa residuale delle Regioni, la redazione di norme in questa materia non è libera. Come più volte affermato dalla Corte costituzionale, la disciplina del commercio deve essere armonizzata con quella di tutela della concorrenza, di competenza statale.
I limiti introdotti dallo Stato in materia di tutela della concorrenza, pertanto, vincolano e prevalgono rispetto alla disciplina delle Regioni in materia di commercio.
Riguardo alla libera concorrenza, partendo dal dettato dell’articolo 3 del Dl n. 223/2006 per arrivare al Dl n. 1/2012, lo Stato ha chiarito che -in coerenza con la direttiva Bolkestein (2006/123/Ce) e con i principi costituzionali– nel nostro Paese l’iniziativa economica è libera secondo condizioni di piena concorrenza e pari opportunità ed ammette solamente vincoli necessari ad evitare danni alla salute, all’ambiente, al paesaggio, al patrimonio artistico e culturale, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana e possibili contrasti con altri valori di rango primario. Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni devono adeguare la propria normativa a questi principi.
Numerose pronunce giurisprudenziali hanno dichiarato l’abrogazione implicita o comunque l’inapplicabilità di disposizioni regionali in materia di commercio (tra i tanti, Tar Friuli Venezia Giulia, sentenza n. 145/2011) e di norme contenute negli strumenti urbanistici locali (Tar Milano, sentenza n. 2271/2013) che, a vario titolo, imponevano contingentamenti o restrizioni all’insediamento di attività commerciali.
Poiché l’iniziativa economica non può essere assoggettata ad autorizzazioni o limitazioni, salvo che per motivi imperativi rientranti nel catalogo formulato dalla Corte di giustizia (Causa C-400/08), il contingentamento dell’apertura di attività economiche, così come la previsione di “limiti territoriali” al loro insediamento ricadono nell’ambito delle limitazioni vietate (salvo motivi imperativi d’interesse generale).
Eppure ancora oggi gli strumenti urbanistici di molti Comuni prevedono generiche restrizioni all’insediabilità di esercizi commerciali (specialmente se di medie e grandi dimensioni) di dubbia legittimità. Sulla questione, è da ultimo tornata una pronuncia del Consiglio di Stato (la n. 4856/2015), la quale –seppur inerente ad una fattispecie antecedente all’introduzione delle più recenti norme in materia di liberalizzazione- ha affermato la compatibilità con la normativa nazionale e comunitaria sulla libera concorrenza dei limiti all’insediamento delle attività commerciali nel nucleo storico di Roma (delibera comunale n. 36/2006) e, così, ha riacceso il dibattito.
A prescindere dalle peculiarità dei singoli casi, resta la responsabilità delle amministrazioni di dare attuazione ai principi di liberalizzazione del settore, assumendo strumenti di pianificazione urbanistica che, salvi i limiti necessari a tutelare valori di rango primario, consentano il libero insediamento delle attività commerciali
(articolo Il Sole 24 Ore del 14.03.2016).

APPALTI: Affidamenti semplici per servizi culturali, sociali e ristorazione. Appalti. Le procedure nel nuovo Codice.
L’affidamento dei servizi sociali, culturali e di ristorazione potrà essere sviluppato con regole più semplici e con riferimento a una nuova soglia, molto più elevata rispetto a quella prevista per gli altri servizi.
Lo schema del nuovo Codice degli appalti (Schema di decreto legislativo recante disposizioni per l'attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture - Atto del Governo n. 283 sottoposto a parere parlamentare) conferma la situazione di specialità che l’ordinamento comunitario riserva da molti anni a varie categorie di servizi alla persona, ma recependo la direttiva 2014/24 definisce per tali attività elencate nell’allegato IX anche la nuova soglia dedicata, determinata in 750mila euro contro i 209mila delle altre tipologie di servizi.
L’aumento della soglia di riferimento implica che le acquisizioni di servizi sanitari, socio-assistenziali, socio-educativi, culturali, formativi, per il tempo libero e di ristorazione di valore inferiore siano assoggettati agli obblighi previsti dalle norme di natura finanziaria che regolano l’acquisto mediante i mercati elettronici o le piattaforme telematiche, a partire in particolare dal comma 450 dell’articolo unico della legge n. 296/2006.
Già in molti contesti regionali, peraltro, le procedure sottosoglia per l’affidamento di servizi alla persona sono gestite mediante strumenti telematici e da qualche mese è attivo anche un bando abilitante del Mepa-Consip, che riguarda servizi di assistenza domiciliare e servizi socio-educativi per la prima infanzia.
La semplificazione riguarderà anche le procedure di gara di valore superiore alla soglia dei 750mila euro, per le quali viene previsto l’obbligo di pubblicità mediante un bando di gara o mediante un avviso di preinformazione (che può coprire un periodo lungo), al quale faranno seguito procedure che coinvolgeranno gli operatori che avranno manifestato interesse.
Il nuovo Codice regola solo un aspetto della procedura selettiva, indicando come criterio di valutazione delle offerte da applicarsi obbligatoriamente a questi appalti il parametro dell’offerta economicamente più vantaggiosa.
Rispetto al quadro normativo attuale, gli appalti di servizi sociali compresi nell’allegato IX dello schema del nuovo quadro normativo (corrispondente a quello della direttiva comunitaria) non rientrano nel novero dei contratti esclusi dall’applicazione del Codice, ma nell’ambito dei regimi speciali di appalto.
Assumendo a riferimento l’articolo 76 della direttiva 2014/14, i principi regolatori delle procedure selettive per questi appalti sono quelli comunitari, ai quali manca tuttavia esplicito riferimento nelle norme del nuovo Codice.
Le particolari modalità di aggiudicazione lasciano tuttavia spazio per l’applicazione di quelle norme procedurali relative agli appalti ordinari che garantiscono il principio di concorrenza come quelle sull’avvalimento dei requisiti.
Una novità rilevante è data dalle disposizioni che prevedono la possibilità per le amministrazioni di indire per determinate categorie di servizi socio-assistenziali ei socio-educativi gare riservate a alcune categorie di operatori economici, caratterizzati da scopo non lucrativo e dalla partecipazione dei dipendenti alle decisioni dell’impresa.
Questa norma, tuttavia, necessita di qualche correttivo, in quanto presenta alcuni vincoli significativi in ordine al coinvolgimento in tali procedure di soggetti che siano risultati affidatari nel triennio precedente con gare riservate
(articolo Il Sole 24 Ore del 14.03.2016).

ENTI LOCALI - VARI: Un pass digitale e universale per dialogare con le p.a.. Al via dal 15 marzo Spid, il nuovo sistema di login per i servizi pubblici online.
Pin unico per i servizi con la Pubblica amministrazione. O meglio un'unica credenziale.

Il sistema si chiama Spid (sistema pubblico di identità digitale) e parte il 15.03.2016 con una sperimentazione su larga scala.
Le prime amministrazioni che aderiscono sono l'Agenzia delle entrate, Inps, Inail, comune di Firenze, comune di Venezia, comune di Lecce, regione Toscana, regione Liguria, regione Emilia-Romagna, regione Friuli Venezia Giulia, regione Lazio e regione Piemonte.
E InfoCert, Poste Italiane e Tim stanno rendendo disponibili le prime identità digitali.
L'idea è semplificare le modalità di fruizione telematica dei servizi, consentendo al cittadino di dialogare utilizzando una credenziale con tutti i soggetti coinvolti.
Vediamo cosa cambia per cittadini e imprese.
In dettaglio Spid è il nuovo sistema di login che permetterà a cittadini e imprese di accedere con un'unica identità digitale a tutti i servizi online di pubbliche amministrazioni e imprese aderenti. Grazie a Spid si può dire addio alle innumerevoli password, chiavi e codici necessari oggi per utilizzare i servizi online di p.a. e imprese. Tra i servizi fruibili con il sistema Spid possono elencarsi: servizi Anagrafici, 730 precompilato, incentivi alle imprese, certificazione Isee, iscrizione ad asili nido, domanda d'iscrizione alla gestione separata, sportello telematico Imu, Tari, Tasi, certificati energetici, pagamenti contributi Inps lavoratori domestici, invio domanda di disoccupazione, ritiro referti medici.
Altri servizi raggiungibili con il sistema Spid sono lo Sportello unico per le attività produttive (Suap), lo Sportello unico per l'edilizia (Sue) e la prenotazione tramite Cup. Inoltre in alcune regioni si prevede l'estensione all'accesso ad avvisi e bandi, al fascicolo sanitario, al bollo auto e ai servizi per lo studente.
L'identità Spid è costituita da credenziali con caratteristiche differenti in base al livello di sicurezza richiesto per l'accesso. Ci sono tre livelli di sicurezza, ognuno dei quali corrisponderà a tre diversi livelli di identità Spid.
Il primo livello si basa su sistemi di autenticazione informatica a un singolo fattore: per esempio l'autenticazione tramite identificativo utente (Id) e password scelta dall'interessato.
Il secondo livello di sicurezza prevede sistemi di autenticazione informatica a due fattori: per esempio tramite password e generazione di una One Time Password inviata dall'utente oppure l'invio di un sms, liste-tabelle predefinite o applicazioni mobili per smartphone o tablet collegati in rete. Infine il terzo livello è un sistema di autenticazione informatica a due fattori basati su certificati digitali e criteri di custodia delle chiavi private su dispositivi, come per esempio l'autenticazione combinata tramite password e una smart card.
Pubbliche amministrazioni e privati definiranno autonomamente il livello di sicurezza necessario per poter accedere ai propri servizi digitali.
Le credenziali Spid garantiranno un accesso unico a tutti i servizi da molteplici dispositivi.
L'identità Spid viene rilasciata dai Gestori di identità digitale (Identity Provider), soggetti privati accreditati da Agid che, nel rispetto delle regole emesse dall'Agenzia, forniscono le identità digitali e gestiscono l'autenticazione degli utenti.
Per ottenere un'identità Spid l'utente deve farne richiesta al gestore, il quale, dopo aver verificato i dati del richiedente, emette l'identità digitale rilasciando le credenziali all'utente. Ogni gestore può scegliere tra diverse modalità di verifica.
Il cittadino può scegliere il gestore di identità digitale che preferisce.
Attualmente i gestori di identità digitale sono Poste italiane Id, Infocert Id e Tim Id.
Il sistema prevede alcune cautele contro l'utilizzo abusivo o fraudolento dell'identità digitale. A posteriori (dopo il furto di identità) si può agire civilmente per il risarcimento dei danni e si può denunciare penalmente: il codice penale prevede la reclusione fino a tre anni (oltre a una multa) per il gestore di identità (articolo 640-quinquies del codice penale).
In astratto potrebbe capitare anche che un service provider si inventi che un cittadino ha acceduto a un servizio ed effettuato determinate azioni dopo essersi autenticato con una identità Spid. Tuttavia, spiega l'Agid, differentemente dal caso in cui si utilizzasse una carta elettronica, con l'uso dell'identità Spid il reato (sostituzione di persona, frode informatica ecc.) sarebbe facilmente provabile. Il gestore dell'identità infatti deve mantenere traccia dei processi di autenticazione effettuati.
Le misure precauzionali adottate sono le seguenti. Se il cittadino o l'impresa ritiene che la propria identità digitale sia stata utilizzata abusivamente o fraudolentemente da un terzo, potrà bloccare l'identità digitale, chiedendone la sospensione al gestore della stessa e, se conosciuto, anche al fornitore di servizi presso il quale essa risulta essere stata utilizzata.
Se la richiesta sarà inviata con posta elettronica certificata, o sottoscritta con firma digitale o firma elettronica qualificata, il gestore dell'identità digitale e il fornitore di servizi eventualmente contattato provvederanno subito; negli altri casi si procederà previa verifica della provenienza della richiesta di sospensione da parte del soggetto titolare dell'identità digitale.
La sospensione durerà un massimo di 30 giorni, decorsi i quali l'identità digitale dovrà essere ripristinata o revocata. La revoca scatta quando il gestore avrà ricevuto dall'interessato copia della denuncia presentata all'autorità giudiziaria per gli stessi fatti su cui è stata basata la richiesta di sospensione.
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Previste forme di verifica.
Le identità digitali rilasciate all'utente contengono obbligatoriamente il codice identificativo, gli attributi identificativi e almeno un attributo secondario.
Per codice identificativo si intende il particolare attributo assegnato dal gestore dell'identità digitale che consente di individuare univocamente un'identità digitale nell'ambito dello Spid.
Gli attributi identificativi, per le persone fisiche sono nome, cognome, luogo e data di nascita, sesso, codice fiscale, estremi di un valido documento d'identità, mentre per le persone giuridiche sono ragione o denominazione sociale, sede legale, codice fiscale o partita Iva, visura camerale attestante lo stato di rappresentante legale del soggetto richiedente l'identità per conto della società e gli estremi del documento d'identità utilizzato dal rappresentante legale.
L'attributo secondario serve per le comunicazioni tra il gestore dell'identità digitale e l'utente. Gli attributi secondari sono il numero di telefonia fissa o mobile, l'indirizzo di posta elettronica, il domicilio fisico e digitale ed eventuali altri attributi individuati dall'Agid funzionali alle comunicazioni.
Per gli attributi secondari devono essere forniti almeno un indirizzo di posta elettronica e un recapito di telefonia mobile. I gestori devono accertare che l'indirizzo di posta elettronica comunicato sia unico in ambito Spid, cioè non sia stato precedentemente indicato per l'acquisizione di un'identità digitale.
Infine sono attributi qualificati: le qualifiche, le abilitazioni professionali e i poteri di rappresentanza e qualsiasi altro tipo di attributo attestato da un gestore di attributi qualificati.
Le identità digitali saranno rilasciate a domanda e si deve verificare l'identità fisica del soggetto richiedente, tramite esibizione a vista di un valido documento d'identità e, nel caso di persone giuridiche, della procura attestante i poteri di rappresentanza. In alternativa sono previste forme di verifica dell'identità informatica (per esempio mediante acquisizione del modulo di adesione allo Spid sottoscritto con firma elettronica qualificata o con firma digitale).
Una misura indirettamente precauzionale è quella che fa leva sull'aggiornamento costante delle informazioni (attributi identificativi) sul conto del titolare dell'identità. È, infatti, previsto l'obbligo degli utenti di informare tempestivamente il gestore dell'identità digitale di ogni variazione degli attributi previamente comunicati; e il gestore deve provvede tempestivamente ai necessari aggiornamenti.
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La privacy non è a rischio.
Non ci sarà nessuna profilazione a scopi commerciali dei dati dell'utente da parte degli Identity Provider.
Inoltre il sistema Spid protegge i dati personali più di una smart-card. Con le carte elettroniche i dati personali utili a verificare l'identità in rete sono tutti disponibili al service provider.
Con Spid, sebbene l'utente sarà sempre autenticato con assoluta certezza, saranno forniti al service provider, previa autorizzazione dell'utente, solo i dati strettamente necessari per la specifica transazione. Per esempio, per i servizi che necessitano solo di verificare la maggiore età del soggetto o di conoscere un indirizzo email, l'identity provider fornirà al service provider solo le informazioni strettamente necessarie.
In corso d'opera, tra l'altro, il Garante della privacy ha fornito le sue osservazioni (provvedimento 17.12.2015 n. 660), chiedendo una rete di garanzie, tra le quali: stringenti controlli dell'Agid in tema di sicurezza informatica e protezione dei dati; una più puntuale definizione delle modalità di conservazione della documentazione inerente la creazione e il rilascio dell'identità digitale; la specificazione delle caratteristiche del servizio all'utente dell'avvenuto utilizzo delle sue credenziali; una migliore esplicitazione delle procedure di sospensione e revoca dei gestori. È stata inoltre sancita la collaborazione tra Agid e Garante privacy con l'obiettivo di vigilare sul funzionamento di un sistema così delicato.
Il garante ha anche chiesto di specificare che, se il gestore dell'identità digitale fornisce solo l'identificazione da remoto come modalità per la verifica dell'identità del richiedente, ciò deve essere messo in evidenza, oltre che nelle condizioni e termini del contratto, anche nell'informativa da rendere all'utente.
Sempre a protezione dei dati bisogna ricordare l'obbligo per il gestore di comunicazione di eventuali violazioni o intrusioni nei dati personali (i cosiddetti data breach) e le procedure che l'Agid è tenuta ad adottare in caso di inadempimenti del gestore.
Si potranno avere più identità Spid, senza che questo provochi intoppi. Sul sito dell'Agid è trattato il caso del cittadino dotato di due identità Spid fornite da due diversi gestori, che inizi un procedimento amministrativo con una identità Spid, e pone il quesito se quel cittadino dovrà ricordarsi quale identità ha utilizzato per accedere nuovamente a quella p.a. per seguire la propria pratica o presentare altra documentazione. La risposta è negativa, in quanto l'ufficio pubblico, sarà in grado di riconoscere il cittadino e consentirgli di accedere ai propri dati e alle proprie pratiche a prescindere dall'identità Spid utilizzata dal cittadino.
Il cittadino non dovrà temere di avere dimenticato una identità digitale. Non si corre il rischio di avere identità digitali attive di cui si perda memoria. Le norme, infatti, prescrivono al gestore dell'identità di tener traccia dell'uso delle singole identità emesse e, non rilevandone l'utilizzo per un periodo di 24 mesi, deve revocare l'identità non utilizzata.
Per l'uso dell'identità Spid, tra l'altro, non sarà obbligatorio l'uso di alcun lettore di carte ma potrà essere utilizzata in diverse modalità (per esempio, pc, smartphone, tablet ecc.). Il cittadino sarà libero di scegliere la soluzione che offre il mercato e cambiarla quando vuole.
Una volta scelto un gestore di identità e ottenuta l'identità, il cittadino non sarà vincolato a quel gestore, in quanto potrà revocare l'identità ottenuta in qualunque momento senza dover fornire alcuna motivazione.
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Adesione obbligatoria per gli enti.
Spid obbligatorio per le p.a. Per gli enti pubblici l'adesione al sistema pubblico di identità digitale è vincolante. Mentre per le imprese l'adesione allo Spid per fornire i propri servizi in rete è facoltativo.
Lo precisa la circolare 22.02.2016 n. 7 di Assonime, dedicata all'illustrazione della novità in materia di digitalizzazione dei servizi. La circolare richiama, comunque, le disposizioni del codice dell'amministrazione digitale, in base alle quali l'impresa, che aderisce allo Spid per la verifica dell'accesso ai servizi erogati in rete per i quali è richiesto il riconoscimento dell'utente, non è tenuta a un obbligo generale di sorveglianza delle attività sui propri siti ai sensi dell'articolo 17 del decreto legislativo 09.04.2003, n. 70, sul commercio elettronico.
Invece, per gli enti pubblici, erogatori di servizi online, per i quali è necessaria l'identificazione informatica dell'utente, la normativa prescrive l'obbligo di consentire l'identificazione degli utenti mediante lo Spid.
Le p.a., pertanto, hanno l'obbligo di aderire allo Spid.
Le p.a., inoltre, hanno 24 mesi di tempo, decorrenti dalla data di iscrizione nel registro Spid del primo gestore di identità digitale, per adeguare i sistemi di login dei propri siti all'accesso tramite Spid.
La circolare Assonime ricorda che le pubbliche amministrazioni possono anche affidare ai gestori di identità dello Spid le funzioni di autenticazione informatica e che le pubbliche amministrazioni in qualità di fornitori di servizi possono utilizzare a titolo gratuito le verifiche effettuate dai gestori di identità digitale e dai gestori di attributi qualificati.
Le p.a., infine, devono trattare i dati nel rispetto della disciplina sulla protezione dei dati personali: in particolare i fornitori di servizi devono informare l'utente che l'identità digitale e gli eventuali attributi qualificati saranno verificati rispettivamente presso i gestori dell'identità digitale e i gestori degli attributi qualificati (articolo ItaliaOggi Sette del 14.03.2016).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Mud in versione aggiornata. Focus su Cer, materiali recuperati e specifici rifiuti. Dall'Ispra le indicazioni per la denuncia ambientale da effettuare entro il 30/04/2016.
Denuncia dei rifiuti oggetto di riclassificazione, individuazione dei materiali effettivamente recuperati, corretta indicazione dei flussi di Raee, veicoli fuori, residui da manutenzione, costruzione e demolizione.

Questi alcuni dei nodi che le nuove istruzioni diramate nei giorni scorsi dall'Ispra provvedono a sciogliere in vista della dichiarazione ambientale Mud, in scadenza il prossimo 30.04.2016.
Le indicazioni (disponibili cliccando qui) arrivano in attuazione del Dpcm 21.12.2015 che, nel confermare per la nuova dichiarazione la modulistica introdotta dal Dpcm 17.12.2014, ha previsto l'adozione di «informazioni aggiuntive» alle istruzioni riportate in allegato al provvedimento del 2014.
Questo sia per aggiornarle alle intervenute modifiche del quadro normativo di riferimento, sia per superare alcune criticità evidenziate dalla denuncia del 2015.
Nuovo elenco rifiuti. Del Dpcm 17.12.2014, avvisano in primis le nuove istruzioni, non è più valido l'allegato Catalogo europeo dei rifiuti (Cer). Ciò in quanto dal 01.06.2015 l'unico elenco applicabile è quello contenuto dalla decisione 2014/955/Ue in riformulazione della decisione 2000/532/Ce. Allo stesso modo, avvisa l'Ispra richiamandosi alla circolare MinAmbiente 11845/2015, non risulta applicabile l'analogo elenco allegato al Dlgs 152/2006 (il c.d. «Codice ambientale»), superato dalla stessa decisione Ue del 2014.
Le novità previste dal rinnovato elenco europeo dei rifiuti riguardano la modifica di alcuni codici e l'introduzione di nuove voci. Le modifiche, ricorda l'Ispra, interessano in particolare i codici: 010309 (ora «fanghi rossi derivanti dalla produzione di allumina, diversi da quelli di cui alla voce 010310»); 190304* (che passa da «rifiuti contrassegnati come pericolosi parzialmente stabilizzati» a «rifiuti contrassegnati come pericolosi parzialmente stabilizzati, diversi da quelli di cui al punto 190308»).
Le new entry sono invece i codici: 010310* (fanghi rossi derivanti dalla produzione di allumina contenenti sostanze pericolose, diversi da quelli di cui alla voce 010307); 160307* (mercurio metallico); 190308* (mercurio parzialmente stabilizzato).
Classificazione dei rifiuti. Particolare attenzione, indicano le nuove istruzioni, dovrà essere adottata nella compilazione del Mud 2016 alla luce dei rinnovati criteri per la classificazione dei rifiuti in base alla loro pericolosità in vigore dallo scorso 01/06/2015.
Tali criteri sono, infatti, esclusivamente quelli riportati dal regolamento Ue n. 1357/2014 in riformulazione della direttiva 2008/98/Ce, anche in questo caso prevalenti su quelli ex attuale 152/2006. Tale innovazione potrebbe, sottolinea l'Ispra, aver determinato nel corso del 2015 la necessità per gli operatori di riclassificare i rifiuti dai cd. «codice a specchio», conferendo loro un nuovo Cer. In caso di avvenuta riclassificazione dei rifiuti prodotti o gestiti, le istruzioni Ispra indicano in primis come nel Mud vadano riportati i dati presenti nei relativi registri di carico/scarico e formulario di trasporto.
Nel caso, però, in cui il cambio di classificazione abbia interessato rifiuti in deposito presso il produttore al momento dell'evento, occorrerà compilare: una scheda «Rif» con il codice Cer del rifiuto valido al momento della produzione (indicando l'effettiva quantità prodotta, ma come pari a zero quella conferita e in giacenza); un'altra scheda «Rif» con il nuovo codice Cer (indicando la quantità prodotta uguale a zero, mentre quella conferita uguale al deposito iniziale).
La doppia scheda, si evince dalle istruzioni, non sarà invece necessaria qualora la mutata classe di pericolosità del rifiuto non abbia reso necessario il cambio del Cer. In nessun caso, però, dovranno essere effettuate fittizie registrazioni cronologiche di scarico.
Informazioni sui materiali. Nuove istruzioni ad hoc arrivano per l'indicazione nelle comunicazioni rifiuti, veicoli fuori uso, Raee e imballaggi dei quantitativi di materiali costituenti «end of waste» o «Mps» (materie prime secondarie), ossia fuoriusciti dal regime dei rifiuti a seguito di attività di recupero dei sottesi rifiuti.
Qualora detti materiali siano stati prodotti in cicli che prevedono l'impiego in diversa quantità di rifiuti e materie prime, sarà cura del dichiarante riportare tramite la migliore e accurata stima solo la quota di queste ultime. Laddove i materiali generati siano invece semilavoratori non classificabili come «rottami», la quantità dovrà essere riportata nella voce assimilabile per caratteristiche merceologiche.
Comunicazione Raee. Informazioni aggiuntive anche per la denuncia dei tecno-rifiuti disciplinati dal dlgs 49/2014, da indicare nel modulo «Comunicazione Raee» (laddove quelli sub dlgs 152/2006 vanno invece denunciati nella «Comunicazione rifiuti»).
Per i tecno-rifiuti in parola sarà cura degli impianti di gestione fornire nelle relative schede (Tra-Raee), oltre alle informazioni su rifiuti ricevuti e conferiti, i dati relativi ai residui prodotti nelle unità locali in seguito ai processi di trattamento. I Centri di raccolta Raee dovranno invece utilizzare la dedicata e diversa scheda «Cr-Raee», senza dunque duplicare le informazioni nella sopra menzionata scheda.
Comunicazione veicoli fuori uso. Istruzioni particolari per i gestori di veicoli fuori uso rientranti nel dlgs 209/2003, da denunciare con l'apposita «Comunicazione Vfu» (mentre quelli ex dlgs 152/2006 vanno dichiarati nella citata «Comunicazione rifiuti»).
Per i rifiuti in questione sarà onere degli autodemolitori indicare come ricevuti da terzi (da considerare soggetti «privati» solo se diversi da imprese o enti) anche i mezzi a fine vita che provvedono in prima persona a radiare dai pubblici registri. Rottamatori e frantumatori dovranno invece porre attenzione all'indicazione del netto del quantitativo dei rifiuti ricevuti da terzi, che dovrà essere maggiore di zero e risultare uguale al reimpiego.
Nell'indicare la destinazione dei rifiuti in giacenza a fine 2015 (a volte non preventivabile), la distinzione tra quantitativi avviati a recupero o smaltimento dovrà coincidere: con i dati dei formulari nel caso vi siano stati conferimenti nel 2016 antecedenti all'inoltro del nuovo Mud; con la stima effettuata sulla base dei pregressi anni in caso differente.
Rifiuti da manutenzione, costruzione e demolizione. I rifiuti da attività di manutenzione prodotti fuori dalle unità locali dovranno essere denunciati tramite l'apposito modulo «Re», sia che vengano poi conferiti direttamente all'impianto di trattamento sia che vengano trasportati in un luogo di raggruppamento presso la sede del produttore.
Gestori e trasportatori che ricevono, invece, rifiuti da costruzione e demolizione prodotti in cantieri che non costituiscono unità locali dovranno indicare puntualmente nel modulo «rifiuti ricevuti da terzi» (Rt) ogni singolo cantiere da cui detti residui provengono (articolo ItaliaOggi Sette del 14.03.2016).

PATRIMONIO: Niente sponsor su atti pubblici. Bocciata la richiesta dell'Anci del 5% per i dipendenti. Il Consiglio di stato rinvia all'Ambiente il regolamento sul finanziamento delle spese verdi.
Tutto da rifare sulla sponsorizzazione dei documenti comunali. L'innovativa chance, che consente ai municipi di dare visibilità (su comunicati, brochure, volantini, depliant, opuscoli, cataloghi, manifesti e locandine) alle aziende private che finanzino la cura del verde urbano favorendo l'assorbimento di anidride carbonica nell'atmosfera, è destinata a restare ancora in naftalina.

E questo, nonostante sia stata prevista da una legge del 1997, riformulata dalla legge n. 10/2013 sullo sviluppo degli spazi urbani. Il provvedimento del ministero dell'ambiente, contenente la disciplina dei contratti di sponsorizzazione (su cui la conferenza unificata aveva dato l'ok lo scorso 17 dicembre) è stato infatti bocciato senza appello dal Consiglio di stato.
Nel parere 26.02.2016 n. 558 sullo "schema di regolamento in materia di contratti di sponsorizzazione e accordi di collaborazione, ai sensi dell’art. 43, comma 2, della legge 27.12.1997, n. 449" i giudici della Sez. consultiva per gli atti normativi hanno smontato punto per punto lo schema di regolamento. Non solo sul piano sostanziale, ma anche su quello formale.
Sotto il primo aspetto, palazzo Spada ha stigmatizzato l'inserimento di una clausola, «senza copertura legislativa», che avrebbe consentito di destinare all'amministrazione comunale una quota «eventuale» (quindi frutto dell'accordo tra l'ente e l'azienda), pari o non superiore al 5% del valore della sponsorizzazione, da destinare a copertura delle spese sostenute per il controllo e la vigilanza degli spazi verdi urbani.
Una clausola inserita per espresso volere dell'Anci ma che aveva subito sollevato perplessità da parte del ministero dell'interno. Secondo il Viminale, «mancando nella fonte primaria una specifica disposizione autorizzativa, non è possibile porre a carico dello sponsor l'onere di contribuire, sia pure in via residuale, al finanziamento di attività (il controllo e la vigilanza di spazi verdi) che il comune è tenuto a svolgere in via ordinaria».
Il Consiglio di stato ha accolto in toto la linea del Mininterno bocciando il 5% voluto dall'Anci con motivazioni molto dure: «Si tratta di un onere che non può essere introdotto con lo strumento regolamentare e che, in ogni caso, non sarebbe coerente con il ruolo di neutralità dell'ente locale, in quanto potrebbe provocare un'attenuazione dei caratteri di imparzialità e equidistanza che devono ispirare l'azione amministrativa».
Non solo. Palazzo Spada ha escluso che la clausola possa essere legittimata per analogia con la quota del 5% dei risparmi di spesa devoluta all'incremento dei fondi per l'indennità di risultato «dei soli dirigenti statali». Questa quota è espressamente prevista dalla legge n. 449/1997 e «non comporta per gli sponsor ulteriori oneri rispetto a previsioni di spesa già iscritte a bilancio».
Quella patrocinata dall'Anci, invece, «non ha copertura legislativa e comporterebbe per gli sponsor un esborso ulteriore, da versare ai comuni per attività istituzionali di loro competenza, con la prevedibile destinazione di dette somme all'incremento del trattamento economico del personale dipendente».
Tutto questo, per palazzo Spada, già è sufficiente per bocciare lo schema di decreto, ma i giudici amministrativi non hanno risparmiato agli estensori del testo anche una sonora bacchettata sul piano formale per «le imperfezioni e i non pochi refusi del testo che evidentemente non è stato sottoposto a una revisione finale».
Tanto che per il futuro si suggerisce al ministero dell'ambiente di attenersi alle regole indicate nella «Guida alla redazione dei testi normativi» che la presidenza del consiglio ha emanato nel maggio del 2001. E si invita il dicastero guidato da Gian Luca Galletti a prendere contatti con palazzo Spada per «l'eventuale approfondimento delle questioni esaminate» (articolo ItaliaOggi del 12.03.2016).

EDILIZIA PRIVATA: Detrazione del 65% solo su immobili accatastati.
L'immobile oggetto della riqualificazione energetica alla data della richiesta della detrazione del 65% deve essere «esistente», ossia accatastato o con richiesta di accatastamento in corso.
L'immobile ove si vogliono installare le schermature solari e i generatori di caldaie a biomassa deve essere in regola con il pagamento di eventuali tributi e dotato di impianto di riscaldamento.

Queste le indicazioni principi che emergono da due vademecum Enea (schermature solari e per i lavori incentivanti aggiornati al 17.02.2016 e 26.01.2015 con le diverse schede tecniche).
Per usufruire della detrazione del 65% gli interventi di riqualificazione energetica sugli immobili devono rispondere a determinati requisiti. I lavori devono rispettare limiti di dispersione che sono chiaramente tabellati o per l'intero edificio o per il singolo elemento costruttivo oggetto dell'intervento.
Ricordiamo che la detrazione Irpef (per le persone fisiche) e Ires (per le società) del 65% per la riqualificazione energetica degli edifici esistenti, per le spese sostenute è valida dal 1° gennaio al 31.12.2016. L'ambito applicativo del bonus viene esteso, per le spese sostenute dal 01.01.2015 al 31.12.2016, all'acquisto di schermature solari con posa in opera.
Tale agevolazione ha un limite di 60.000 euro (fino a una spesa totale quindi di 92.307 euro) detraibile in 10 anni. Le spese sono detraibili se riferite all'acquisto compreso di posa in opera di schermature solari dinamiche (come da norme EN 13561 e EN 13665) applicate a pareti che siano almeno parzialmente vetrate. È possibile usufruire di una detrazione pari al 65% per l'installazione di caldaie a legna o pellet e stufe a legna o pellet.
Sono inoltre ammesse alla detrazione anche le opere di smontaggio e dismissione dell'impianto di climatizzazione invernale esistente e la fornitura e posa in opera di tutte le apparecchiature e accessori, o delle opere idrauliche e murarie, necessarie per la sostituzione, a regola d'arte, dell'impianto termico esistente con un generatore di calore a biomassa (articolo ItaliaOggi del 12.03.2016).

ATTI AMMINISTRATIVI: P.a., la privacy in pasto a tutti. Il nuovo dlgs trasparenza mette a rischio i dati personali. Il Garante ha dato l'ok al decreto ma ha richiesto una lunga lista di correzioni.
Dati contenuti negli archivi della p.a. in pasto a tutti, senza limiti.

Lo scoperchiamento delle informazioni, anche quelle più delicate, sul conto delle persone conservate dalla pubblica amministrazione è l'effetto paradossale, denunciato dal Garante della privacy (provvedimento 03.03.2016 n. 92), derivante dallo schema di decreto legislativo correttivo sulla trasparenza della pubblica amministrazione.
Lo schema di decreto riformula in molte parti il precedente decreto legislativo 33/2013 e, secondo il Garante, arriva ad eccessi che mettono a repentaglio la riservatezza delle persone.
Non a caso, la lista delle correzioni richieste è molto lunga e riguarda le linee strutturali dello schema di decreto. Vediamo alcuni esempi. A un comune potrebbe arrivare una richiesta di accesso civico avente a oggetto la lista dei nominativi dei minori iscritti a una scuola, magari corredata da tutte le ulteriori informazioni, dall'indirizzo di residenza alla composizione o allo stato reddituale della famiglia, a eventuali disabilità.
All'anagrafe tributaria potrebbe arrivare la richiesta di accesso civico ad oggetto tutti i dati detenuti da ogni istituto di credito con riferimento a saldi, movimenti e giacenza media di tutti i conti correnti. E non si possono escludere richieste di accesso a informazioni sulla salute o la vita sessuale.
Accesso civico. L'accesso civico consente, secondo il decreto legislativo 33/2013, di ottenere dalla p.a. i documenti che devono essere obbligatoriamente pubblicati per finalità di trasparenza (in particolare sono i documenti inseriti nella sezione «amministrazione trasparente» dei siti internet degli enti pubblici). Con lo schema di decreto correttivo diventano conoscibili da chiunque e senza bisogno di particolare motivazione tutti i dati detenuti dalla p.a. (e non solo quelli da pubblicare per ragioni di trasparenza).
È vero che la normativa è ispirata agli ordinamento anglosassoni in cui vige il Freedom of Information Act, che assicura a chiunque il diritto di chiunque di accedere a dati e documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, anche senza motivazione. Ma è anche vero che il testo proposto si pone pericolosamente ai limiti del rispetto della privacy. È per questo che il Garante propone di accogliere la richiesta di accesso solo in presenza di un interesse prevalente rispetto al diritto alla riservatezza.
Incarichi pubblici. Lo schema di decreto prevede la pubblicazione della situazione patrimoniale dei titolari di incarichi amministrativi di vertice. La conseguenza è che sarebbero oltre 140 mila i dirigenti tenuti alla pubblicazione della situazione patrimoniale, senza contare coniugi e parenti fino al secondo grado. Il garante richiede maggiore proporzionalità, distinguendo a seconda del ruolo e della carica ricoperta.
Obblighi di trasparenza. Il Garante chiede di definire gli obblighi di trasparenza, soggetti alla speciale normativa (pubblicazione per 5 anni, obbligo di indicizzazione, riutilizzo, accesso libero, ecc.). Lo schema di decreto si riferisce genericamente a quelli previsti dalla «normativa vigente». Ma questo porta a risultati irragionevoli: ad esempio vi rientrerebbero pubblicazioni matrimoniali o pubblicazioni di albo pretorio il cui termine di pubblicazione sarebbe esteso, senza giustificazione, a un intero quinquennio (articolo ItaliaOggi del 12.03.2016).

LAVORI PUBBLICI: Entro il 31/3 il censimento delle opere incompiute. Arriva il censimento delle opere pubbliche incompiute.
A volerlo è il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti che ha scritto alle stazioni appaltanti (ministeri, regioni, Anci, Upi) invitandoli ad assicurare l'aggiornamento degli elenchi anagrafici delle opere incompiute entro il 31.03.2016. Gli enti pubblici dovranno, a loro volta, sensibilizzare le stazioni appaltanti sulle quali svolgono attività di vigilanza per garantire l'inserimento delle opere incompiute di competenza.
Sulla base dei dati ricevuti il ministero, le regioni e le province autonome, ciascuno per le sezioni di rispettiva competenza, pubblicheranno entro il 30.06.2016 le graduatorie delle opere pubbliche incompiute aggiornate al 31.12.2015, secondo i criteri imposti dalla legge (articolo ItaliaOggi del 12.03.2016).

APPALTIOfferte, pesa il rating d'impresa. Nuovi indici per qualificare gli operatori economici. Nella valutazione con il criterio dell'economicamente più vantaggioso previsto dalla riforma.
Rating di legalità e certificazioni per gli appalti a rischio di infrazione Ue se oggetto di valutazione in sede di offerta.

È quanto potrebbe accadere in base alle previsioni contenute nello schema di decreto di riordino del codice dei contratti pubblici (Schema di decreto legislativo recante disposizioni per l'attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture - Atto del Governo n. 283 sottoposto a parere parlamentare) approvato una settimana fa dal consiglio dei ministri e adesso all'attenzione delle camere che dovranno rendere i pareri entro il 6 aprile (ma i relatori Esposito e Mariani vorrebbero chiudere in tempi rapidi).
Il tema del rating di legalità e più in generale quello dei cosiddetti criteri reputazionali che guardano al comportamento dell'impresa nei precedenti contratti pubblici si inserisce all'interno delle norme che mirano a rendere più incisiva ed effettiva l'analisi delle caratteristiche delle imprese, anche ai fini della qualificazione che, come è noto, può essere o gestita dagli organismi di attestazione (Soa), o effettuata in sede di gara quando si tratta di appalti di forniture e di servizi.
Nella legge delega (n. 11/2016) si prevede (lettera uu, dell'art. 1) un apposito riferimento ai criteri reputazionali ai fini della revisione del sistema di qualificazione degli operatori economici, basati su «parametri oggettivi e misurabili e su accertamenti definitivi concernenti il rispetto dei tempi e dei costi nell'esecuzione dei contratti e la gestione dei contenziosi, assicurando gli opportuni raccordi con la normativa vigente in materia di rating di legalità».
Questo criterio di delega (valido per tutti gli operatori economici) si ritrova attuato in primo luogo all'art. 83 (sui criteri di selezione), comma 10 dello schema che istituisce un sistema di «premialità e di penalità» (per tutti gli operatori) gestito dall'Anac connesso ai criteri reputazionali declinati alla lettera uu) citata.
In secondo luogo, si rinviene all'articolo 84 dedicato al sistema di qualificazione degli esecutori di lavori pubblici, dove si conia la definizione di «rating di impresa», nozione ovviamente più ampia di quella afferente alla disciplina del «rating di legalità» gestito dall'Antitrust a ben altri fini (agevolazioni pubbliche, accesso al credito); in questo caso si citano «indici qualitativi e quantitativi che esprimono la capacità strutturale, di affidabilità e reputazionale dell'impresa» e si rinvia alle linee guida dell'Anac.
La «premialità» riferita ai «rating» ritorna, problematicamente, quando si parla della valutazione delle offerte: l'articolo 95, al comma 6, cita infatti il «rating di legalità» (insieme a varie certificazioni) nell'elemento «qualità» valutabile quando si aggiudica con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa; al successivo comma 13 si precisa inoltre che le stazioni appaltanti devono indicare «i criteri premiali» da applicare alla valutazione delle offerte «in relazione al maggiore rating di legalità» (nessun «raccordo» quindi ma inserimento nella fase di valutazione dell'offerta).
Tale disposizione, nonostante richiami il rispetto della normativa del diritto della Ue, nel fatti si pone in contrasto con una copiosa giurisprudenza della Corte di giustizia e con le nuove direttive (in particolare con l'articolo 67 della n. 24/2014) perché prende in considerazione nella valutazione delle offerte un elemento soggettivo come il rating di legalità dell'impresa, violando il divieto di commistione fra aspetti soggettivi (dell'offerente) da considerare in fase di ammissione alla gara, e aspetti oggettivi da valutare nella fase di offerta e ad essa relativi.
Da qui il rischio che la premialità in fase di valutazione delle offerte legata al rating di legalità, possa essere dichiarata in contrasto con il diritto e con la giurisprudenza Ue, così come i riferimenti alle certificazioni citate al comma 6 dell'articolo 95 dello schema (articolo ItaliaOggi dell'11.03.2016).

APPALTIPiù discrezionalità alle stazioni appaltanti. Con l'innalzamento alla soglia Ue per gli appalti senza gara.
Rischio trasparenza per i contratti sotto soglia di servizi e forniture; facoltativo verificare i requisiti dei soggetti non aggiudicatari.

È quanto si ricava dalle nuove norme previste nello schema di decreto di riordino del codice appalti pubblici in materia di procedure di aggiudicazione (Schema di decreto legislativo recante disposizioni per l'attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture - Atto del Governo n. 283 sottoposto a parere parlamentare).
La materia è complessa e frammentata in più punti dello schema, ma il dato di maggiore rilievo è quello di una estrema semplificazione procedurale con conseguente ampliamento della discrezionalità (ci si augura non dell'arbitrio) delle stazioni appaltanti.
La norma di partenza è l'articolo 36 dedicato ai contratti sotto-soglia che, premettendo l'utilizzabilità delle procedure ordinarie (aperta, ristretta e negoziata con bando), stabilisce che le stazioni appaltanti affidando direttamente contratti sotto i 40 mila euro e i lavori in amministrazione diretta; per lavori di importo pari o superiore a 40 mila euro e inferiore a 150 mila euro e per affidamenti di forniture e servizi di valore inferiore ai 209 mila, utilizzano invece la procedura negoziata «previa consultazione, ove esistenti, di almeno tre operatori economici».
I tre soggetti da invitare alla negoziazione dovranno essere invitati sulla base di indagini di mercato o tramite elenchi di operatori economici e dovrà essere rispettato il criterio di rotazione degli inviti (ma l'Anac dettaglierà la disciplina). Va considerato che per i servizi di ingegneria e architettura, più di 100 articoli dopo e per la precisione all'articolo 157, comma 2, si prevede che siano invitati, sempre fino a 209 mila di importo (e non più da 40 mila fino a 100 mila euro come è oggi), cinque soggetti con le stesse modalità previste dall'articolo 36 (risulta incomprensibile il riferimento all'art. 66, comma 6 citato).
La previsione di una procedura, che altro non è che una procedura informale a tre inviti, coinvolgerà per quanto riguarda il settore dei servizi, 4 miliardi in valore di contratti (elaborando i dati della quadrimestrale Anac del 2015) per un numero di procedure che supera il 71% del mercato complessivo dei contratti sotto soglia (la restante parte riguarda i lavori).
Il dato risulta ancora più rilevante per i servizi di ingegneria e architettura dove l'innalzamento da 100 mila a 209 mila della soglia oggi prevista per affidare con invito a cinque, comprende l'89% del totale degli affidamenti di questi servizi. Ma ci sono anche altri elementi da considerare: in primis il fatto che l'innalzamento alla soglia comunitaria degli affidamenti a procedura negoziata senza bando comporterà una artificiosa suddivisione anche degli appalti sopra la soglia Ue per evitare le gare europee aperte; in secondo luogo il confronto a tre o a cinque soggetti, con una concorrenza ridotta, determinerà probabilmente un aumento dei costi.
Inoltre, va notato che in tutti questi affidamenti il nuovo codice prescrive che «la verifica dei requisiti ai fini della stipula del contratto avviene esclusivamente sull'aggiudicatario», anche se «la stazione appaltante può comunque estendere le verifiche agli altri partecipanti». Può e non «deve», quindi il rischio è che alla negoziazione partecipino anche soggetti senza requisiti (articolo ItaliaOggi dell'11.03.2016).

EDILIZIA PRIVATA: Consumo suolo, decide il cdm. Emendamenti alla camera. Niente dpcm.
Il potere sostitutivo di palazzo Chigi nei confronti della Conferenza unificata per la mancata adozione delle delibere di riduzione del consumo del suolo non scatterà automaticamente. Prima arriverà una messa in mora con ulteriori 15 giorni per adempiere. Decorso inutilmente tale termine, si provvederà con deliberazione del consiglio dei ministri. E non più con dpcm. La stessa procedura è prevista nel caso in cui le regioni non intervengano a dettare disposizioni per incentivare i comuni, singoli e associati, a promuovere strategie di rigenerazione urbana. Gli interventi di rigenerazione delle aree urbane degradate, che saranno oggetto di una specifica delega al governo, non riguarderanno i centri storici.

Sono alcune delle novità contenute nel pacchetto di emendamenti che i relatori al ddl sul contenimento del consumo del suolo (Atto Camera n. 2039), Chiara Braga e Massimo Fiorio hanno depositato ieri alla camera per recepire i rilievi contenuti nei pareri delle commissioni di Montecitorio.
Il pacchetto di modifiche non tocca però il clou dei rilievi mossi dai comuni. A cominciare dal contestato articolo 11, quello sulla disciplina transitoria che, fino all'adozione dei provvedimenti volti alla riduzione del consumo del suolo, e comunque non oltre il termine di tre anni, non consente consumo del suolo tranne che per i lavori e le opere inseriti negli strumenti di programmazione già «adottati» delle amministrazioni.
La commissione cultura nel proprio parere aveva chiesto di sostituire la parola «adottati» con «approvati». «Una differenza sottile ma sostanziale», osserva Claudia Mannino del M5s, «che i relatori non hanno recepito negli emendamenti depositati».
«Moltissimi comuni», spiega Mannino, «hanno i Prg scaduti e il nuovo Prg solo adottato. Con l'attuale formulazione questo basterebbe per introdurre varianti di destinazione urbanistica che sono lo strumento con cui si cementificano i suoli agricoli». Tuttavia, la questione, (assieme agli altri nodi ancora irrisolti) potrebbe essere affrontata presto in aula. L'obiettivo dei relatori è di chiudere i lavori in commissione entro la fine della prossima settimana (articolo ItaliaOggi del 10.03.2016).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Nel Mud i dati dei registri di carico e scarico rifiuti.
Nella compilazione del Mud andranno riportati i dati così come inseriti nei registri di carico e scarico e nei formulari di identificazione dei rifiuti trasportati. Non dovranno essere inserite le registrazioni cronologiche di scarico «fittizie» (previste dalla procedura Sistri) effettuate per azzerare le quantità residue né le corrispondenti registrazioni cronologiche di carico effettuate per registrare le medesime quantità secondo i nuovi criteri di classificazione. In particolare il produttore non dovrà mai indicare nella registrazione di scarico, se stesso quale destinatario del rifiuto.

Queste le istruzioni aggiuntive fornite da Ispra in merito alla presentazione entro il prossimo 30 aprile del Mud 2016.
Eventuali modifiche alle caratteristiche di pericolosità di un rifiuto non sono rilevanti ai fini del Mud laddove non venga modificato il codice Cer. Tutti gli impianti autorizzati a svolgere operazioni di gestione (compresa la messa in riserva) di rifiuti di imballaggio sono tenuti a presentare la comunicazione imballaggi - sezione gestori rifiuti di imballaggio.
Questo vale anche nel caso si tratti di attività di gestione svolta su rifiuti prodotti dal dichiarante (e non ricevuti da terzi), in questo caso quindi il produttore dovrà indicare, nella comunicazione imballaggi, i rifiuti come prodotti nell'unità locale. Gli impianti mobili di smaltimento o di recupero presentano una dichiarazione unica con riferimento a tutte le attività svolte (articolo ItaliaOggi del 10.03.2016).

VARI: In arrivo nuovi contatori per l'elettricità.
Procedure di cambio fornitura e di voltura più veloci ed efficienti, superamento del sistema delle fasce predefinite, rendendo possibili nuove offerte con fasce orarie flessibili definite dal venditore o con soluzioni prepagate, disponibilità di dati dettagliati al quarto d'ora sul proprio comportamento energetico per il risparmio e la gestione innovativa dei consumi (energy footprint).
Sono queste alcune delle novità legate alle nuove funzionalità definite dall'Autorità per i contatori di seconda generazione approvate con la delibera 08.03.2016 n. 87/2016/R/eel.
«Tra le diverse funzionalità dei nuovi misuratori 2G», spiega l'Autorità, «viene, per esempio, prevista la rilevazione dei dati dell'energia ogni 15 minuti e la rilevazione continua della potenza, per avere un quadro sempre aggiornato quotidianamente dei nostri prelievi giornalieri e comportamenti di consumo, con dati da visualizzare sul display o da trasferire a dispositivi esterni.
Nella versione 2.0 dei contatori, quella di immediata disponibilità, che già supporta tutti i benefici definiti, vengono previste due possibili soluzioni di connessione per la telelettura e telegestione, attraverso la rete elettrica Plc (Power line carrier) o in radiofrequenza, con la possibilità di lettura di tutti i registri, di aggiornamento del funzionamento del misuratore in base agli accordi contrattuali conclusi tra il cliente e il venditore.
Definito anche un canale di comunicazione diretto al cliente, oltre al display a bordo contatore, per la trasmissione dei dati ad un dispositivo «intelligente» che può essere installato in casa. Una possibile evoluzione futura, la versione 2.1, potrà integrare canali di comunicazione oggi non ancora maturi per la specifica applicazione dei misuratori 2G o non diffusi sull'intero territorio nazionale, come quelli basati su tecnologie wireless (nuova radiomobile dedicata) o wired (fibra ottica)
» (articolo ItaliaOggi del 10.03.2016).

APPALTIAppalti, progetti senza «svolta». I punti contestati: concorrenza ridotta, appalto integrato, concorsi. La riforma del Codice. Caute o critiche le reazioni dei professionisti e delle società di ingegneria.
Cauzioni anche per i piccoli progettisti, che rischiano di restare fuori dal mercato. Concorrenza limitata: la soglia sotto la quale non ci sarà una vera gara sale da 40mila fino a 209mila euro. Poco coraggio sui concorsi di progettazione, che restano uno strumento periferico. E regole troppo rigide sull’appalto integrato.
Era uno dei capitoli più attesi del codice. Ma, ascoltando imprese e professionisti, sulla progettazione il decreto di recepimento delle direttive europee sui contratti pubblici, appena approdato in Parlamento per i pareri, ha mancato il bersaglio (Schema di decreto legislativo recante disposizioni per l'attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture - Atto del Governo n. 283 sottoposto a parere parlamentare).
Resta solo una nota positiva: la riforma dell’incentivo per la progettazione interna della Pa, il cosiddetto “due per cento”. I dipendenti delle amministrazioni riceveranno compensi extra solo per la programmazione e il controllo delle opere, non per la progettazione che, così, dovrebbe uscire dalla loro orbita, aprendo il mercato. Per il resto, le note dolenti sono parecchie.
Partiamo proprio dalla cauzione che, per i piccoli progettisti, rappresenta un vero incubo. L’articolo 93 del testo detta le regole sulle garanzie per la partecipazione alle procedure di gara. E, tra queste, include anche la cauzione pari al 2% del prezzo indicato nel bando.
«Nel vecchio Codice i servizi di progettazione venivano esclusi dall’obbligo di versare la cauzione, nel nuovo questo non succede», spiega il consigliere tesoriere del Cni, Michele Lapenna. Il carico per i piccoli diventa quasi insostenibile: dovranno pagare la cauzione e, in più, sottoscrivere una polizza per la responsabilità professionale. Una situazione che fa dire al presidente del Cni, Armando Zambrano: «Il testo tradisce lo spirito della legge delega circa la centralità della progettazione. Siamo di fronte ad un arretramento rispetto alla normativa precedente».
Un secondo punto non piace alle società di ingegneria e architettura dell’Oice: l’innalzamento da 40mila a 209mila euro della soglia per le trattative private nei servizi, con invito a tre soggetti, due meno di adesso. Gli operatori in questione andranno individuati sulla base di indagini di mercato o tramite elenchi. Traducendo queste regole in cifre, significa che l’88,7% in numero e il 50% in valore del mercato attuale degli affidamenti di progettazioni sarà sottratto a una vera concorrenza.
Parla Andrea Mascolini, direttore generale dell’Oice: «Con l’effetto incentivo che questa misura porterà, è facile presumere che si possa andare anche oltre: il 90% dei bandi sarà affidato senza vere gare. E questo porterà anche un aumento dei costi di progettazione per la pubblica amministrazione, perché con meno partecipanti diminuirà la concorrenza».
C’è, poi, la questione dell’appalto integrato. Il problema, per gli operatori, è che nel codice non vengono riprodotte le previsioni della delega, che dava la possibilità di affidare con questa formula progetti e lavori per opere ad elevato contenuto tecnologico. Si dice, invece, che tutto andrà affidato sulla base di un esecutivo, salvo eccezioni. Un assetto troppo rigido che in futuro potrebbe essere aggirato: sarebbe stato meglio regolare a monte alcuni casi di appalto integrato. Infine, c’è il tema dei concorsi, uno dei punti più cari negli ultimi anni al Consiglio nazionale degli architetti del presidente Leopoldo Freyrie.
Ne parla il vicepresidente del Cna, Rino La Mendola: «Non c’è nulla di nuovo sul concorso, anzi abbiamo fatto qualche passo indietro. Anche per le opere di particolare interesse architettonico viene previsto che prima si verifichi la possibilità di usare progettisti interni, ipotesi che oggi non esiste. Sui concorsi si continua a fare solo propaganda»
(articolo Il Sole 24 Ore del 09.03.2016).

ENTI LOCALI - VARI: Pin unico per accedere alla p.a.. Dal 15 marzo le identità digitali per entrare in Spid. Le rilasceranno InfoCert, Poste e Tim. Samaritani (Agid): 6 milioni di profili entro il 2016.
Dal 15 marzo un Pin unico per accedere ai servizi della p.a. Dalla prossima settimana infatti InfoCert, Poste Italiane e Tim renderanno disponibili le prime identità digitali nell'ambito del nuovo Sistema pubblico per l'identità digitale (Spid).
Le aziende sono i primi tre soggetti accreditati da Agid, l'Agenzia per l'Italia digitale, per essere «Identity trust provider», in grado di rilasciare ai cittadini e alle imprese le identità digitali, gestendo in totale sicurezza l'autenticazione degli utenti.
Il progetto è stato presentato dal ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione, Marianna Madia, e dagli amministratori delegati di Poste Italiane, Francesco Caio, di Tim, Marco Patuano, e di Infocert, Danilo Cattaneo, assieme al numero uno dell'Agenzia per l'Italia digitale, Antonio Samaritani.
Spid permetterà di accedere con credenziali uniche ai servizi online delle pubbliche amministrazioni aderenti.
Si partirà con gli enti che hanno partecipato alla sperimentazione, durata 18 mesi. E cioè Inps, Inail, Agenzia delle entrate, i comuni di Firenze, Venezia e Lecce e le regioni Toscana, Friuli Venezia Giulia, Emilia-Romagna, Piemonte, Liguria e Marche. Ma l'auspicio dell'Agid e del governo è che Spid possa presto attrarre anche i soggetti privati interessati a consentire alla propria clientela un accesso veloce e soprattutto sicuro ai propri servizi online. Entro giugno dovrebbero essere oltre 600 i servizi a cui si potrà accedere tramite Spid.
«Oggi parte una nuova grande infrastruttura immateriale dell'Italia, un percorso che implica grandi cambiamenti perché ogni cittadino potrà richiedere un'identità digitale con oltre 300 servizi online delle pubbliche amministrazioni. Il nostro obiettivo è Italia login: un pin unico che dovrà diventare per tutti quello che è adesso il codice fiscale e che consentirà di lasciarci alle spalle la doppia F, ovvero file e faldoni», ha commentato il ministro Madia nel corso della presentazione a palazzo Vidoni.
«Al cittadino ciò che interessa è la semplicità delle risposte», ha proseguito Madia. «In questi anni amministrazioni centrali, regioni ed enti locali si sono comportati come isole e non come parti di un solo corpo. In realtà a un cittadino non importa molto se una risposta non arriva per colpa del comune, della regione o dello stato. Il fatto che siamo qui tutti insieme a presentare Spid dimostra che siamo tutti parte di un'unica amministrazione della Repubblica».
Senza dimenticare, come detto, l'appeal che Spid potrà avere nei confronti dei soggetti privati intenzionati ad entrare nel Sistema. «Quello che parte oggi», ha ribadito il ministro, «è un percorso che richiederà aggiustamenti e miglioramenti per far crescere la domanda di digitale tra gli italiani e per aumentare l'offerta di servizi, agganciando anche i servizi non solo della pubblica amministrazione ma anche del settore privato».
Secondo una stima fatta da Antonio Samaritani di Agid potrebbero essere già 6 milioni gli italiani che nel 2016 si doteranno di un'identità unica digitale, divisi in 3 milioni di nuovi accessi e 3 milioni di trasformazioni di vecchi Pin già in uso presso altre amministrazioni come ad esempio Inps o Agenzia delle entrate.
Come funziona Spid. Nato da un'idea dell'a.d. di Poste, Francesco Caio, quando ricopriva il ruolo di «Mister agenda digitale», Spid è una piattaforma alla quale si accede con una coppia di credenziali che costituiranno la password unica per accedere a tutti gli sportelli online.
Spid, è bene chiarirlo, non sostituisce i documenti di identità rilasciati dallo Stato, che restano indispensabili per avere un'identità digitale. Spid, invece, semplifica le modalità con cui questa identità potrà essere riconosciuta in rete. Rappresenta, al pari della tessera sanitaria, della ricetta elettronica, della fatturazione elettronica e della dichiarazione dei redditi precompilata, un classico «servizio-killer» destinato cioè a modificare l'offerta on line restituendo al titolare la possibilità di autorizzare il trasferimento automatico delle sue informazioni senza doverle continuamente digitare.
Ogni volta che vedremo comparire su un sito o accanto a un servizio il pulsante «Accedi con Spid» si potrà effettuare il login attraverso il Pin unico. «Si tratta di un progetto importante per il Paese perché adottiamo standard europei e diventiamo i primi», ha osservato l'ad di Poste Italiane, prima azienda ad entrare nel progetto.
«Dal punto di vista di Poste pensiamo ci sia una base di 4 milioni di clienti che hanno tutte le caratteristiche per potersi dotare di un'identità online. Siamo all'inizio di un percorso di semplificazione in cui lo stato da fardello per i cittadini può diventare veicolo per i servizi competitivi», ha concluso Caio. Anche per l'a.d. di Telecom, Marco Patuano, «si tratta di un calcio di inizio. Di solito si pensa sempre solo alle infrastrutture fisiche ma con le sole infrastrutture fisiche si fa molto meno di quanto si potrebbe».
Tim Id e Poste Id. I clienti di Poste Italiane che hanno già attivato un'identità digitale, attraverso l'app Poste Id potranno trasformarla in Spid in pochi semplici passi. Potranno infatti passare a Spid senza recarsi in ufficio postale perché già in possesso dei prerequisiti necessari (i clienti sono stati già identificati in un ufficio postale; sono registrati sul sito www.poste.it e hanno già registrato un numero di telefono certificato).
L'identità digitale di Tim (Tim Id) potrà essere richiesta gratuitamente da tutti i cittadini effettuando la registrazione sul portale www.nuvolastore.it e seguendo la procedura di attivazione indicata. L'utente riceverà le credenziali Tim Id via email e sms (articolo ItaliaOggi del 09.03.2016).

APPALTI: Codice appalti. Entro il 6/4 il parere delle camere.
È corsa contro il tempo per il nuovo codice appalti: il parlamento dovrà esprimersi entro il 6 aprile ma il rischio di superare il termine del 18 aprile imposto dall'Ue è alto.

È stato infatti trasmesso alle commissioni parlamentari il testo «bollinato» dello schema di decreto legislativo che attua le direttive europee 2014 n. 23, 24 e 25 e che riforma l'attuale codice dei contratti pubblici (dlgs 163/2006)
(Schema di decreto legislativo recante disposizioni per l'attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture - Atto del Governo n. 283 sottoposto a parere parlamentare).
Le competenti commissioni parlamentari (la commissione lavori pubblici e trasporti del Senato e la commissione ambiente, territorio e avori pubblici della Camera) dovranno esprimersi con un parere entro il 6 aprile.
Si tratterà di una corsa contro il tempo dal momento che, ad esempio alla camera, il presidente della commissione Ermete Realacci ha già annunciato che verrà svolto un rapido ciclo di audizioni con i rappresentati degli operatori pubblici e privati del settore. Sullo schema approvato giovedì 3 marzo dal consiglio dei ministri occorrerà anche acquisire il parere del Consiglio di stato e della Conferenza unificata che si pronunceranno entro venti giorni dalla trasmissione. Il termine assegnato dalla legge alle commissioni parlamentari competenti per materia e per i profili finanziari, è invece di trenta giorni dalla trasmissione.
La rilevanza dei pareri parlamentari non è da poco dal momento che «ove il parere delle Commissioni parlamentari indichi specificamente talune disposizioni come non conformi ai principi e criteri direttivi di cui alla presente legge, il governo, con le proprie osservazioni e con eventuali modificazioni, ritrasmette il testo alle camere per il parere definitivo delle commissioni parlamentari competenti, da esprimere entro 15 giorni dall'assegnazione; decorso inutilmente tale termine il decreto legislativo può essere comunque emanato».
In altre parole, se il parere arrivasse con osservazioni pesanti e si dovesse procedere ad un secondo «giro» parlamentare, il termine del 18 aprile per recepire le tre direttive europee verrebbe ampiamente superato. Poca cosa visto che prima di arrivare alle sanzioni passerebbero mesi (articolo ItaliaOggi del 09.03.2016).

EDILIZIA PRIVATA - VARI: Le istruzioni del fisco ampliano l’accesso al bonus sugli arredi. Ma l’agevolazione resta circoscritta ai casi di manutenzione straordinaria.
A quali lavori edilizi si può abbinare il bonus arredi? La domanda non è nuova, ma di sicuro resta attuale anche al quarto anno di applicazione della detrazione sull’acquisto di mobili ed elettrodomestici.

Lo dimostra –tra l’altro– l’ultimo chiarimento dettato dalle Entrate con la circolare 02.03.2016 n. 3/E.
Senza dubbio l’incentivo piace alle famiglie e ha contribuito a riportare in positivo nel 2015 il mercato italiano dell’arredo, dopo il -45,5% registrato tra il 2007 e il 2014. Ma bisogna fare attenzione ai casi di lavori edilizi “leggeri”.
Il cambio della caldaia
L’ultimo chiarimento riguarda la possibilità di “agganciare” la detrazione sui mobili alla sostituzione della caldaia. L’Agenzia spiega che il cambio della caldaia consente l’accesso al bonus «in quanto intervento diretto a sostituire una componente essenziale dell’impianto di riscaldamento e come tale qualificabile intervento di manutenzione straordinaria». E aggiunge: «Non rileva il fatto che tale intervento sia riconducibile anche nell’ambito della lettera h) dell’articolo 16-bis».
È una precisazione con una portata più ampia di quella che appare a prima vista. Vediamo perché. L’articolo 16-bis del Tuir è quello che detta la disciplina generale della detrazione del 36% (ora maggiorata al 50%), mentre la lettera h) è quella che agevola l’esecuzione di opere finalizzate al risparmio energetico «anche in assenza di opere edilizie propriamente dette». In pratica, questi lavori sono agevolati con il 36-50% a prescindere dall’inquadramento edilizio.
Ora le Entrate confermano che, per avere la detrazione sui mobili, i lavori finalizzati al risparmio energetico devono essere almeno “straordinari”. Dopodiché, ricordano che in base al Testo unico dell’edilizia (articolo 123, comma 1) gli interventi di utilizzo di fonti rinnovabili negli edifici di per sé sono già «assimilati a tutti gli effetti alla manutenzione straordinaria».
Ma questo corollario, pur importante, non cambia la regola generale: dove l’articolo 16-bis premia certi lavori senza considerare la loro qualificazione edilizia, per potervi abbinare il bonus mobili occorre che i lavori siano inquadrabili nella manutenzione straordinaria (o nelle più pesanti categorie edilizie del restauro e risanamento conservativo e della ristrutturazione edilizia). Oltre che per l’efficienza, il principio vale per le altre casistiche dell’articolo 16-bis:
- lavori finalizzati all’eliminazione delle barriere architettoniche (lettera e);
- misure per prevenire furti e altri illeciti (f);
- cablatura degli edifici e il contenimento dell’inquinamento acustico (g);
- misure antisismiche (i);
- bonifica dell’amianto e le opere anti-infortuni domestici (l).
Quasi sempre questi lavori saranno di manutenzione straordinaria, ma ci potrebbero essere casi in cui ricadono in quella ordinaria. Si pensi al cambio di una serratura nella porta blindata, all’installazione di impianto di allarme senza lavori edilizi o elettrici, alla posa di un pannello fonoassorbente o alla rimozione di amianto in polvere da un sottotetto senza interventi murari. Tutte spese che non danno diritto al bonus mobili.
Il «timing» dei lavori
Oltre ad aver eseguito un intervento “straordinario”, bisogna anche beneficiare della detrazione del 50% sul recupero edilizio. In questo senso un’apertura è arrivata a Telefisco 2016, in cui le Entrate hanno affermato che si possono agevolare gli acquisti di arredi pagati entro la fine del 2016 abbinandoli a spese per il recupero edilizio sostenute dal 26.06.2012 (data in cui il 36% è stato maggiorato al 50%) al prossimo 31 dicembre.
Le spese per gli arredi possono essere pagate prima di quelle per la ristrutturazione, a patto che i lavori comincino prima dell’acquisto dei mobili (circolare 29/E/2013). Farà fede la data della Scia, della comunicazione di inizio lavori o dell’invio alla Asl. Per l’attività libera basta una semplice autodichiarazione che certifichi la non necessità, in base al regolamento edilizio comunale, di provvedimento urbanistico.
Villette e condomìni
Fin qui si è parlato dei lavori all’interno delle singole unità abitative, cioè in case monofamiliari o nei singoli appartamenti dei condomìni. In realtà, anche gli interventi su parti comuni permettono di avere il bonus mobili –e c’è il vantaggio che in questo caso il 36-50% agevola anche la manutenzione ordinaria, come la tinteggiatura– ma c’è una limitazione: i mobili devono arredare parti comuni (ad esempio, l’alloggio del portiere).
Questo vale anche per i “condomìni minimi”. Così, se in una villetta bifamiliare viene rifatto il tetto, i proprietari dei due alloggi non avranno il bonus mobili per arredare i singoli alloggi.
Al contrario, se viene rifatto il tetto di un’abitazione monofamiliare, il proprietario ne potrà beneficiare. In tal caso, infatti, non esistono interventi su parti comuni differenti rispetto a quelli interni all’abitazione, e quindi è sufficiente che i lavori siano inquadrabili come manutenzione straordinaria (a prescindere dal fatto che siano eseguiti sulla parte esterna o interna del fabbricato).
Gli altri interventi
Oltre al recupero edilizio, ci sono altri due tipi di lavori che consentono di utilizzare il bonus mobili:
i lavori di ripristino di un immobile danneggiato da calamità;
i lavori di restauro e risanamento conservativo, o di ristrutturazione edilizia, su interi fabbricati, eseguiti da imprese o cooperative edilizie che entro sei mesi dalla fine dei lavori vendono o assegnano l’immobile.
L’Agenzia ha chiarito che il bonus mobili non spetta in caso di realizzazione o acquisto box auto pertinenziali (circolare 11/E/2014)
(articolo Il Sole 24 Ore del 07.03.2016).

INCARICHI PROFESSIONALIIncarichi Pa al test dei contratti. Per la validità serve la forma scritta - Le insidie della procura generale e delle delibere preliminari.
Negozi giuridici. La giurisprudenza ribadisce la necessità della stesura formale sia per gli accordi di natura pubblicistica che per quelli privati.

I contratti in cui è parte la pubblica amministrazione richiedono sempre, per la loro validità, la forma scritta. È un principio affermato dalla giurisprudenza di legittimità e da quella di merito sia per gli accordi di natura pubblicistica sia per i contratti in cui l’ente agisce secondo il diritto privato.
I principi costituzionali
Un principio -quello della forma scritta ad substantiam- che permette di individuare con precisione l’obbligazione assunta e il contenuto negoziale dell’atto. Il requisito della forma scritta, la cui mancanza determina la nullità del contratto nei rapporti con la Pa, si può dunque considerare -come affermato dalla Corte suprema- espressione di due princìpi della Costituzione: quello sancito nell’articolo 97, per il quale i pubblici uffici sono organizzati secondo regole di buon andamento e imparzialità dell’amministrazione; e quello contenuto nell’articolo 81, da cui si desume l’esigenza di tutela delle risorse e del patrimonio degli enti pubblici contro il pericolo di impegni finanziari privi di adeguata copertura e assunti senza consapevolezza dell’entità delle obbligazioni da adempiere.
L’incarico all’avvocato
Anche recentemente il giudice di legittimità è tornato sulla questione. Con l’ordinanza n. 2016 dello scorso 2 febbraio ha esaminato la vicenda di un legale che chiedeva il pagamento dei compensi per l’attività professionale prestata per una Camera di commercio. Il giudice di merito aveva respinto la domanda, ritenendo che fosse nullo il contratto di patrocinio; ciò perché l’attività professionale era stata svolta in base a una procura generale che, secondo il Tribunale, non individuava con esattezza l’oggetto del contratto, in quanto riferita a tutte le causa di recupero di crediti.
La Cassazione ha annullato la sentenza, ribadendo il principio secondo cui il requisito della forma scritta è soddisfatto, nel contratto di patrocinio legale, con il rilascio al difensore di una procura generale alle liti, purché sia puntualmente fissato l’ambito delle controversie. Sul punto, nell’ordinanza 2266/2012 la stessa Corte aveva chiarito che l’esercizio della rappresentanza giudiziale (attraverso la redazione e la sottoscrizione dell’atto difensivo) perfeziona, «con l’incontro di volontà fra le parti», l’accordo contrattuale in forma scritta.
La delibera preliminare
Il provvedimento con cui l’ente pubblico delibera di stipulare un contratto è atto meramente preparatorio del futuro negozio giuridico, e dunque non può spiegare effetti nei riguardi dei terzi, essendo «inidoneo, di per sé solo, a dar luogo alla conclusione di un contratto» (Cassazione, sentenza 6443/2003). Le reciproche obbligazioni sorgeranno, quindi, solo quando la volontà dell’ente sarà «estrinsecata nei confronti dell’altra parte attraverso l’organo al quale è attribuita la legale rappresentanza dell’ente stesso».
In ogni caso, una delibera della giunta municipale e la successiva convenzione con il Comune, assunte nell’ambito della procedura di riconoscimento di debiti fuori bilancio, non possono sanare la nullità del rapporto fondamentale che deriva dalla mancanza dell’attribuzione dell’incarico in forma scritta (Cassazione, sentenza 27406/2008).
Lotti e partecipazioni
La regola della necessaria forma scritta è stata ribadita anche dai giudici di merito. Il Tribunale di Roma, con la sentenza del 31.07.2015, l’ha ritenuta applicabile anche all’assunzione, da parte di enti pubblici, di partecipazioni in società di capitali, in quanto tali partecipazioni costituiscono negozi giuridici e determinano il sorgere di obblighi verso la società.
Il tribunale di Oristano (sentenza del 16.10.2006) ha inoltre stabilito che, nel caso di assegnazione di lotti ai privati, la presentazione della domanda di assegnazione e il versamento del prezzo non determinano il perfezionamento del contratto di compravendita, che scatta solo con la sottoscrizione dell’atto da parte del privato e del sindaco, previa autorizzazione dell’organo competente.
Niente «fatti concludenti»
Nei contratti in cui è parte una Pa non è consentita la conclusione a distanza; con la deroga prevista dall’articolo 17 del Rd 2440/1923, che consente la stipula del contratto «per mezzo di corrispondenza, secondo l’uso del commercio», quando l’accordo intercorre con ditte commerciali.
Solo l’atto formale è, quindi, alla base dell’accordo valido ed efficace. Di conseguenza, quando la Pa è parte del contratto, non si può ipotizzare la costituzione di un vincolo giuridico attraverso fatti concludenti. Anche su questo principio la Cassazione non ammette deroghe.
Come nella sentenza 1970/2002, in cui ha negato che si fosse rinnovato tacitamente, per difetto di tempestiva disdetta, un contratto di affitto agrario di un fondo di proprietà comunale; e ciò sebbene l’articolo 4 della legge 203/1982 preveda (evidentemente solo per i rapporti tra privati) la regola esattamente contraria.
  
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Iter violato, rispondono i funzionari. Negli enti. Le responsabilità.
Se l’ente locale acquisisce beni o servizi in assenza dell’impegno contabile o dell’attestazione di copertura finanziaria e senza aver prima stipulato un contratto scritto, chi deve pagare?
Per casi come il conferimento di incarichi per progettazioni, direzioni dei lavori di opere pubbliche, richiesta di forniture, è prevista dagli anni 80 (oggi articolo 191 del Dlgs 267/2000) una regola categorica: se sono acquisiti beni e servizi senza il rispetto dell’iter previsto per la legittimità della spesa, il rapporto obbligatorio intercorre tra il privato fornitore e l’amministratore, il funzionario o il dipendente che ha consentito la fornitura.
 Infatti, in questi casi -Corte di Cassazione, sentenza 14.11.2003 n. 17257- si ha una frattura nel rapporto organico tra l’amministratore e l’ente. La ratio è impedire il formarsi del disavanzo, disponendo che a ogni obbligazione faccia «riscontro l’impegno contabile registrato sul competente capitolo di bilancio».
L’obbligazione sorge direttamente a carico dell’amministratore anche se l’ente, nell’affidare l’incarico, subordina il pagamento alla concessione di un finanziamento. Ciò perché -Sezioni unite, sentenza 26657/2014- dal contratto sorge comunque un’obbligazione di pagamento, ancorché condizionata.
Il contratto, dunque, non produce effetti nei confronti dell’ente ma conserva validità tra i soggetti (privato e amministratore) che l’hanno stipulato. E il fornitore, potendo chiedere il pagamento direttamente all’amministratore, non può agire nei confronti dell’ente con l’azione di indebito arricchimento (articolo 2041 Codice civile): tale azione non è proponibile se il danneggiato può esercitare un’altra azione per farsi indennizzare (articolo 2042)
(articolo Il Sole 24 Ore del 07.03.2016).

INCENTIVI PROGETTAZIONEAddio incentivi per i progettisti. I premi si spostano su programmazione, gare ed esecuzione. Codice appalti. Le novità per i dipendenti pubblici dal decreto attuativo approvato dal consiglio dei ministri.
Stop agli incentivi per i progettisti. Con il nuovo Codice degli appalti è finita la corsa agli incarichi di progettazione da parte dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni (Schema di decreto legislativo recante disposizioni per l'attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture - Atto del Governo n. 283 sottoposto a parere parlamentare). Al contrario, i premi vengono indirizzati alle attività tecnico-burocratiche un tempo non contemplate (programmazione, procedure di gara, esecuzione dei contratti pubblici, verifica della conformità eccetera).
Non è certo un caso che gli storici incentivi alla progettazione si trasformino in premi per funzioni tecniche; è una spinta per la pubblica amministrazione sui suoi compiti di realizzazione delle opere, lasciandole però progettare all’esterno.
L’impianto complessivo ripercorre le disposizioni vigenti: gli incentivi vanno finanziati all’interno degli oneri messi a disposizione per la realizzazione dell’opera nel limite massimo del 2% dell’importo a base di gara, limite rimesso alla discrezionalità dell’ente che può anche azzerare l’incentivo. Non è più previsto che in sede di definizione della percentuale effettiva si debba tenere conto della complessità dell’opera.
L’80% è destinato al responsabile unico del procedimento, agli incaricati di funzioni tecniche e ai collaboratori. Le modalità e i criteri di ripartizione dei premi sono oggetto di contrattazione decentrata e vanno recepiti in un regolamento ad hoc. Anche in questo caso è stato espunto dalla norma l’obbligo di prevedere la distribuzione dei premi in funzione delle responsabilità non connesse al profilo professionale e della complessità dell’opera. Non sono più espressamente citate le attività manutentive. Al contrario sono confermate le penalizzazioni collegate al mancato rispetto dei tempi e dei costi dell’opera; non costituiscono più espliciti esimenti le cause di forza maggiore.
Tornano in gioco anche i dirigenti, ma limitatamente alle attività di collaudo e di verifica di conformità, in passato completamente esclusi da qualsiasi premio. Sia per i dipendenti sia per i dirigenti il fondo deve finanziare anche gli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell’ente; ancora una volta si perde l’occasione per chiarire il tema dell’Irap, lasciando aperta la strada del contenzioso.
Il rimanente 20% viene destinato, come in passato, all’acquisto di beni e tecnologie per gli uffici tecnici, con particolare riferimento alle attività di controllo volte al miglioramento della capacità di spesa. A questo si aggiunge una nuova modalità di utilizzo che prevede l’attivazione di tirocini formativi e di dottorati di ricerca nel settore dei contratti pubblici. Le risorse collegate all’attività svolta da soggetti esterni, un tempo economia di bilancio, si sommeranno al 20% destinato al miglioramento della strumentazione tecnica.
A circa due anni dall’ultima modifica delle norme in materia di compensi Merloni, si ripropone un nuovo punto zero che imporrà la riscrittura del relativo contratto decentrato oltre all’approvazione del conseguente regolamento. Il paradosso consiste nel fatto che molti enti, ad oggi, non hanno ancora recepito dal modifica normativa del 2014: è da ricordare che senza l’approvazione di questi adempimenti è preclusa la corresponsione degli incentivi.
Che cosa succederà da ora in avanti? Fino all’entrata in vigore del nuovo Codice degli appalti si applica, per chi l’ha adottato, il regolamento vigente. Dopo si dovrebbero bloccare ancora tutti gli incentivi, fino all’adozione dei regolamenti, sperando che successive modiche non facciano ripartire da capo il processo.
In tutta questa confusione sarà necessario definire puntualmente la norma e il regolamento da applicare ratione temporis in sede di liquidazione dei compensi. L’orientamento costante della Corte dei conti ritiene che i compensi vadano erogati con riferimento alle disposizioni vigenti nel momento in cui l’attività premiata è effettivamente resa
(articolo Il Sole 24 Ore del 07.03.2016).

APPALTICommissari a sorteggio dagli elenchi Anac. La valutazione delle offerte. Nuove regole per evitare i conflitti d’interesse: i componenti non possono svolgere altri incarichi relativi al contratto.
I componenti della commissione giudicatrice dovranno essere scelti tra gli esperti inclusi in un elenco tenuto dall’Anac, ma per le gare sottosoglia e per le procedure telematiche potranno essere individuati tra i dipendenti della stazione appaltante.
Il nuovo Codice degli appalti
(Schema di decreto legislativo recante disposizioni per l'attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture - Atto del Governo n. 283 sottoposto a parere parlamentare) ridisegna nell’articolo 77 dello schema approvato dal Consiglio dei ministri le modalità composizione dei collegi costituiti per la valutazione delle offerte nelle gare con il metodo dell’offerta economicamente più vantaggiosa, definendo un sistema differenziato in relazione al valore e alla complessità delle procedure. Il numero dei commissari deve essere sempre dispari, con un massimo di cinque soggetti.
La stazione appaltante deve individuare i componenti e nominarli (dopo la scadenza del termine di presentazione delle offerte) mediante sorteggio pubblico da una lista di candidati in numero almeno doppio a quello dei membri da nominare, richiedendo questa lista all’Anac, che la elabora e la comunica entro cinque giorni all’amministrazione richiedente.
Il presidente della commissione è individuato dalla stazione appaltante tra gli esperti sorteggiati: sia per lui sia per gli altri componenti vale l’incompatibilità funzionale, in quanto non possono aver svolto né possono essere destinati a svolgere alcun altro incarico in relazione all’appalto; sono poi prefigurati obblighi di astensione in caso di conflitto di interessi (da dichiarare al momento dell’accettazione della nomina).
La novità ha anche un’importante conseguenza operativa: le stazioni appaltanti dovranno formalizzare gli incarichi agli esperti, con relativi impegni di spesa, dovendo pertanto prevedere le risorse nel quadro economico dell’appalto, facendo riferimento al compenso massimo che verrà stabilito con decreto ministeriale. Lo stesso decreto definirà la quota che i commissari dovranno pagare per l’iscrizione all’albo, fatta eccezione per i dipendenti pubblici che potranno essere iscritti gratuitamente. Se però sono scelti per gare della propria stazione appaltante, non riceveranno alcun compenso.
Per le procedure di affidamento di importo inferiore alla soglia comunitaria oppure per quelle di non particolare complessità (individuate dalla stessa norma come le procedure svolte attraverso piattaforme telematiche di negoziazione) la stazione appaltante può nominare come componenti propri dipendenti.
La definizione e la gestione dell’albo saranno definite dall’Anac con proprie determinazioni: potranno iscriversi soggetti interessati in possesso di requisiti di compatibilità e moralità, oltre che di comprovata esperienza e professionalità nel settore per cui si propongono.
Fino alla definizione dell’albo e alla sua effettiva attivazione, le stazioni appaltanti potranno continuare a nominare i componenti delle commissioni giudicatrici, dovendo in ogni caso rispettare regole di trasparenza e di competenza da definire preventivamente.
L’importanza di nominare nei collegi soggetti con elevata professionalità viene evidenziata anche dal rafforzamento qualitativo delle competenze della commissione, che può anche giudicare inammissibile un’offerta quando ritenga che sussistano gli estremi per la segnalazione alla Procura della Repubblica in relazione a fenomeni di corruzione o collusivi
(articolo Il Sole 24 Ore del 07.03.2016).

APPALTI: Appalti, concorsi d'obbligo per opere di impatto artistico. Lo schema di decreto delegato che riforma il codice. Addio al progetto preliminare.
Concorsi di progettazione e di idee obbligatori per opere di rilevante impatto storico- artistico, ambientale e tecnologico; divieto di affidamento degli incarichi al prezzo più basso; progetto preliminare sostituito dal progetto di fattibilità che dovrà contenere le indagini e i rilievi; premialità ai progettisti che usano la modellazione elettronica (Bim, Building information modelling).

Sono alcune delle novità per i progettisti previste nello schema di decreto delegato, che contiene il nuovo codice degli appalti pubblici
(Schema di decreto legislativo recante disposizioni per l'attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture - Atto del Governo n. 283 sottoposto a parere parlamentare).
Le nuove disposizioni, che devono attuare il principio della centralità del progetto e favorire la qualità della progettazione, prevedono il superamento dello studio di fattibilità e del progetto preliminare, sostituiti dal solo progetto di fattibilità, tecnica ed economica.
In realtà, nella sostanza, quello che si chiama progetto di fattibilità ricalca molto da vicino i contenuti previsti per l'attuale progetto preliminare. Andrà però valutato con attenzione l'impatto derivante dalla soppressione dello studio di fattibilità che oggi costituisce lo strumento per procedere alla programmazione dei lavori e all'avvio delle procedure da realizzare con la finanza di progetto, anche attraverso il cosiddetto «promotore».
Nello schema si riproduce la norma attuale che indica quale debba essere la finalità della progettazione: deve in particolare assicurare il soddisfacimento dei fabbisogni della collettività, la qualità architettonica e tecnico-funzionale dell'opera, un limitato consumo del suolo, il rispetto dei vincoli idrogeologici sismici e forestali e l'efficientamento energetico.
Il progetto di fattibilità dovrà essere redatto dopo lo svolgimento di indagini geologiche e geognostiche e di verifiche preventive dell'assetto archeologico, fermo restando che tra più soluzioni possibili il progetto di fattibilità tecnica ed economica deve individuare quella che presenta il miglior rapporto tra costi e benefici per la collettività. Un punto importante per tutti i progettisti e per le imprese di costruzioni è l'introduzione di strumenti di modellazione elettronica al fine di promuovere la qualità della progettazione.
Diversamente dalle precedenti versioni dello schema, che prevedevano un obbligo entro sei mesi di ricorso a strumenti quali il Bim, nel testo entrato in Consiglio dei ministri si prevede, più correttamente, una graduale transizione verso questa metodologia progettuale, favorita attraverso la possibilità di premiare, ai fini della loro qualificazione da parte dell'Anac, le stazioni appaltanti che la utilizzeranno. Ferma restando la possibilità di eliminare un livello progettuale da parte del responsabile del procedimento, lo schema, coerentemente a quanto stabilisce la legge delega, prevede che di regola sia posto a base di gara di un appalto di lavori il progetto esecutivo, salvo nei casi in cui dispone diversamente lo stesso decreto (per esempio nel caso del contraente generale).
Lo schema prevede, ancora, che il responsabile del procedimento stabilisca criteri, contenuti e momenti di verifica tecnica dei vari livelli di progettazione; disciplina inoltre le modalità di accesso per l'espletamento delle indagini e delle ricerche necessarie all'attività di progettazione. Si prevede inoltre che le progettazioni di livello definitivo ed esecutivo siano, preferibilmente, svolte dal medesimo soggetto, onde garantire omogeneità e coerenza al processo.
Non è escluso che si possa affidare anche ad altro progettista un livello, ma occorre motivare le ragioni di affidamento disgiunto; il nuovo progettista dovrà poi accettare l'attività progettuale svolta in precedenza. In caso di affidamento esterno della progettazione, che ricomprenda, come di norma, entrambi i livelli di progettazione, l'avvio del progetto esecutivo resta sospensivamente condizionato alla determinazione delle stazioni appaltanti sulla progettazione definitiva.
Sono confermate le disposizioni attuali in materia di soggetti affidatari degli incarichi (professionisti, studi, società di ingegneria e di professionisti, raggruppamenti e consorzi stabili), ma cambia sensibilmente il regime degli affidamenti. Altra novità è che i concorsi diventano obbligatori in caso di opere di particolare rilevanza storico-artistica, urbanistica, ambientale e tecnologica, quando non sia la p.a. a progettare.
Per tutte le altre opere da progettare si potrà procedere con affidamenti di servizi di ingegneria e architettura che andranno rigorosamente affidate con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa e mai al massimo ribasso.
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Commissari di gara scelti a sorte.
Commissari di gara scelti a sorteggio da un elenco tenuto dall'Anac per garantire trasparenza e qualità delle scelte effettuate in sede di aggiudicazione; criteri di indipendenza e professionalità per gli aspiranti commissari di gara; all'Autorità forti poteri di regolazione.
È in particolare sulle commissioni di aggiudicazione delle gare che si giocherà la riuscita della riforma del nuovo codice appalti, visto che anche le inchieste su Expo e sulle grandi opere hanno confermato che proprio la permeabilità alle «intrusioni» politiche nella fase di valutazione delle offerte, hanno rappresentato una delle maggiori criticità degli ultimi mesi. Viene quindi modificata radicalmente la disciplina attuale per garantire la massima imparzialità e indipendenza di giudizio.
In particolare, si prevede che la commissione sia composta da esperti nello specifico settore cui afferisce l'oggetto del contratto. La commissione sarà costituta da un numero dispari di commissari, non superiore a cinque, e potrà lavorare a distanza con procedure telematiche che salvaguardino la riservatezza delle comunicazioni. I commissari sono scelti fra gli esperti iscritti all'Albo istituito presso l'Anac e sono individuati dalle stazioni appaltanti mediante pubblico sorteggio da una lista di candidati costituita da un numero di nominativi almeno doppio rispetto a quello dei componenti da nominare. La lista è comunicata dall'Anac alla stazione appaltante, di norma entro 5 giorni dalla richiesta. Si prevede che la stazione appaltante possa, in caso di affidamento di contratti di importo inferiore alle soglie di rilevanza comunitaria o per quelli che non presentano particolare complessità, nominare componenti interni alla stazione appaltante.
Al riguardo, si specifica cosa si intenda per procedure di non particolare complessità. Si precisa che i commissari non devono aver svolto né possano svolgere alcun'altra funzione o incarico tecnico o amministrativo relativamente al contratto del cui affidamento si tratta. Si prevede, inoltre, che coloro che, nel biennio antecedente all'indizione della procedura di aggiudicazione, hanno ricoperto cariche di pubblico amministratore, non possono essere nominati commissari giudicatori relativamente ai contratti affidati dalle amministrazioni presso le quali hanno esercitato le proprie funzioni d'istituto. La nomina dei commissari e la costituzione della commissione devono avvenire dopo la scadenza del termine fissato per la presentazione delle offerte e che il Presidente della commissione sia individuato dalla stazione appaltante tra i commissari.
Infine, con specifica disposizione transitoria, si stabilisce che fino alla adozione della disciplina in materia di iscrizione all'Albo, la commissione continua a essere nominata dall'organo della stazione appaltante competente a effettuare la scelta del soggetto affidatario del contratto, secondo regole di competenza e trasparenza preventivamente individuate da ciascuna stazione appaltante.
Per quel che riguarda il ruolo di Anac, l'Autorità sarà chiamata ad adottare atti di indirizzo quali linee guida, bandi-tipo, contratti-tipo e altri strumenti di regolamentazione flessibile, fornendo costante supporto nell'interpretazione e nell'applicazione del codice.
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Al concessionario l'intero rischio.
Il concessionario dovrà sostenere l'intero rischio operativo connesso alla realizzazione e gestione dell'opera; non ammesso un contributo pubblico; disciplinato il Ppp (Partenariato pubblico- privato) per ogni tipologia di intervento. Sono questi alcuni dei punti fermi della normativa che, mutuando i criteri specifici dettati dalla legge delega, disciplina le concessioni (di lavori e di servizi) recependo la direttiva 2014/23/UE.
Si prevede per la prima volta, una regolamentazione che unifica le concessioni di lavori, servizi e forniture e chiarendo che si tratta di contratti di durata, caratterizzati dal rischio operativo in capo al soggetto privato; ciò comporta che non viene garantito al privato dal settore pubblico il recupero degli investimenti effettuati o dei costi sostenuti per la gestione dei lavori o dei servizi oggetto della concessione; in sostanza il privato deve rischiare davvero sull'intera operazione.
In coerenza, con la disciplina comunitaria e con quanto previsto dal libro verde della Commissione europea, il nuovo impianto normativo disciplina per la prima volta, l'istituto del c.d. «partenariato pubblico privato», quale forma di sinergia tra poteri pubblici e privati per il finanziamento, la realizzazione o la gestione costruire delle infrastrutture o dei servizi pubblici.
Si prevede che i ricavi di gestione dell'operatore economico possano provenire non solo dal canone riconosciuto dall'ente concedente ma anche da qualsiasi altra forma di contropartita economica, quale, per esempio, l'introito diretto della gestione del servizio a utenza esterna. Si chiarisce che il ricorso al Ppp è possibile sia per le c.d. «opere a freddo» che per quelle «opere a caldo», cioè sia per quelle in grado generare reddito attraverso ricavi da utenza in misura tale da ripagare i costi di investimento e remunerare adeguatamente il capitale investito, sia per le altre (per le prime, si pensi per esempio alle carceri o agli ospedali mentre per le seconde a un parcheggio o a una piscina).
Nell'ambito del partenariato pubblico–privato, un istituto assolutamente innovativo è quello dei c.d. «interventi di sussidiarietà orizzontale», ossia la partecipazione della società civile alla pulizia, alla manutenzione, all'abbellimento di aree verdi, piazze o strade, ovvero alla loro valorizzazione mediante iniziative culturali di vario genere, interventi di decoro urbano, di recupero e riuso con finalità di interesse generale, di aree e beni immobili inutilizzati. All'interno di questi interventi vi è anche la previsione del baratto amministrativo.
Per quanto riguarda la durata massima delle concessioni è stabilito che sia limitata e comunque determinata nel bando di gara dall'amministrazione aggiudicatrice o dall'ente aggiudicatore in funzione dei lavori o servizi richiesti al concessionario, nonché commisurata al valore della concessione.
Inoltre, si prevede che per le concessioni ultraquinquennali la durata massima della concessione non può essere superiore al periodo di tempo necessario al recupero degli investimenti da parte del concessionario, insieme a una remunerazione del capitale investito, tenuto conto degli investimenti necessari per conseguire gli obiettivi contrattuali specifici come risultante dal piano economico-finanziario.
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Qualificazione Soa confermata.
Qualificazione imprese con il sistema Soa (Società organismo di attestazione) confermata; introduzione di requisiti premiali; qualificazione dei contraenti generali affidata all'Anac; istituito l'albo dei direttori lavori e dei collaudatori delle opere infrastrutturali; subappalto liberalizzato ma con limite del 30% per l'affidamento di lavori specialistici. Sono alcune delle misure di maggiore rilievo per le imprese di costruzioni previste nello schema di decreto delegato approvato giovedì scorso in via preliminare dal Consiglio dei ministri.
Sul sistema di qualificazione delle imprese lo schema di decreto si muove analogamente a quanto già previsto dall'articolo 40 del codice attuale, disponendo «di regola» l'obbligo di attestazione Soa per i lavori pubblici di importo pari o superiore a 150 mila di euro, rilasciata da organismi di diritto privato autorizzati dall'Anac (le Soa).
Si rafforza il ruolo dell'Anac che con proprie linee guida, individuerà i livelli standard di qualità dei controlli che le Soa devono effettuare, con particolare riferimento a quelli di natura non meramente documentale, da verificare annualmente. L'Autorità presieduta da Raffaele Cantone, che rimane titolare della vigilanza, dovrà effettuare una ricognizione straordinaria sul possesso dei requisiti di esercizio dell'attività da parte delle Soa e relazionare parlamento e governo su eventuali modifiche.
Anche le stazioni appaltanti avranno l'obbligo di effettuare controlli, almeno a campione, secondo modalità predeterminate, sulla sussistenza dei requisiti oggetto dell'attestazione. Viene fissata in cinque anni la durata della qualificazione della Soa, con verifica entro il terzo anno del mantenimento dei requisiti di ordine generale nonché dei requisiti di capacità strutturale indicati nelle linee guida. La qualificazione delle imprese avverrà sulla base dei requisiti di ordine generale e di capacità tecnica, organizzativa ed economica.
Sarà valutata anche la performance dell'impresa attraverso criteri reputazionali che l'Anac individuerà sulla base di alcuni principi riguardanti i precedenti comportamenti nell'esecuzione dei contratti. Dal punto di vista dell'esecuzione del contratto lo schema elimina i limiti alla possibilità di subappalto, a differenza della disciplina attuale che contiene il limite del 30% per le categorie prevalenti; si impone che il subappaltatore debba garantire gli stessi prezzi e lo stesso standard qualitativo delle prestazioni.
L'unica limitazione prevista per il subappalto attiene alle categorie superspecialistiche, nel limite del 30%. Con l'abrogazione della legge obiettivo, viene riformata la disciplina del contraente generale, legata al contratto di appalto di «fare eseguire con qualsiasi messo» un'opera. Per farvi ricorso la stazione appaltante dovrà fornire un'adeguata motivazione, in base a complessità, qualità, sicurezza ed economicità dell'opera.
È stato introdotto per il contraente generale o general contractor il divieto di svolgere attività di direzione lavori e a questa norma è collegata anche quella che riguarda l'albo creato presso il ministero delle infrastrutture un apposito albo nazionale cui devono essere obbligatoriamente iscritti i soggetti che possono ricoprire gli incarichi di direttore dei lavori e di collaudatore negli appalti pubblici aggiudicati con la formula del contraente generale. Il direttore dei lavori lo nominerà il committente mediante sorteggio pubblico da una lista di candidati indicati alle stazioni appaltanti in numero almeno triplo per ciascun ruolo. Sarà poi sempre il dicastero di Porta Pia a definire le modalità di iscrizione all'albo e di nomina.
Va tenuto conto del fatto che non potranno ricevere incarichi di collaudo coloro che hanno svolto o svolgono attività di controllo, verifica, vigilanza e altri compiti relativi al contratto da collaudare; una risposta ai casi giudiziari che hanno riguardato alcune opere della Legge obiettivo.
Per quel che riguarda la procedura di affidamento non sarà più possibile ricorrere alla procedura ristretta e a base di gara sarà posto il progetto definitivo e non più il preliminare. In buona sostanza si tratta di un appalto integrato classico, affidato sulla base di un progetto definitivo, di cui appare difficile comprendere la differenza rispetto a un normale appalto di lavori (se non forse per la disciplina dei contratti a valle). Il sistema di qualificazione dei contraenti generali, oggi assegnato alla competenza del Ministero delle infrastrutture, viene attribuito all'Anac (articolo ItaliaOggi Sette del 07.03.2016).

ENTI LOCALI - VARI: Sosta gratuita invalidi, solo una facoltà.
I Comuni hanno solo la facoltà e non l'obbligo di rendere gratuita la sosta dei veicoli al servizio di invalidi. Ma è auspicabile che nella loro autonomia decidano di prevedere tale beneficio.

Lo ha affermato il sottosegretario alle infrastrutture e dei trasporti, Umberto Del Basso Del Caro, il 24 febbraio scorso nella IX commissione trasporti della Camera, rispondendo alla INTERROGAZIONE A RISPOSTA IN COMMISSIONE 5/07565 dell'onorevole Mirella Liuzzi (M5S).
Partendo dalla considerazione che alcuni Comuni multano i veicoli con contrassegno invalidi parcheggiati negli stalli blu senza il ticket, benché gli altri spazi per invalidi siano occupati, l'on. Liuzzi ha sollecitato con l'interrogazione n. 5-07565 il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e il Ministero del lavoro a emanare una circolare per disciplinare la questione.
Nella risposta scritta, il sottosegretario Del Basso Del Caro ha affermato che non può essere emanata una direttiva che si discosti dal dettato normativo. Ai sensi dell'art. 381 del regolamento di esecuzione e attuazione del codice della strada di cui al dpr n. 495 del 16.12.1992, il Comune stabilisce, anche nell'ambito delle aree destinate a parcheggio a pagamento gestite in concessione, un numero di posti destinati alla sosta gratuita degli invalidi muniti di contrassegno superiore al limite minimo previsto dall'art. 11, comma 5, del dpr 503 del 24.07.1996 e può prevedere, inoltre, la gratuità della sosta per gli invalidi nei parcheggi a pagamento qualora risultino già occupati o indisponibili gli stalli a loro riservati.
Un'interpretazione estensiva e più favorevole a chi è munito di contrassegno invalidi non è possibile, come peraltro già ribadito dalla sentenza n. 21271 del 05.10.2009 della II sezione civile della Corte di cassazione, secondo la quale nessuna norma prevede la gratuità della sosta a pagamento nel caso in cui gli stalli riservati ai veicoli al servizio delle persone diversamente abili risultino occupati. Nella loro autonomia, però, i Comuni, nel fissare le regole da osservare per la sosta, possono disporre la gratuità del parcheggio. Il sottosegretario ai trasporti, pertanto, si appella al senso civico degli enti locali, che sono invitati ad agevolare, nell'ambito del proprio potere discrezionale, un'utenza stradale già fortemente svantaggiata.
In attesa che novità in tal senso possano arrivare dal disegno di legge di riforma del codice stradale, che tra i principi e i criteri fa espresso riferimento proprio all'utenza vulnerabile (articolo ItaliaOggi del 05.03.2016).

APPALTIPa qualificate, rating per le imprese, poteri Anac: al via il nuovo codice appalti. Delrio: semplificazione, lotta alla corruzione, trasparenza, qualità parole-chiave.
Il Consiglio dei ministri ha varato ieri il decreto legislativo che riforma il codice degli appalti e recepisce le direttive Ue 23, 24 e 25 del 2014 in materia di concessioni, appalti nei settori ordinari e settori speciali (Schema di decreto legislativo recante disposizioni per l'attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture - Atto del Governo n. 283 sottoposto a parere parlamentare).
Il provvedimento dovrà tornare in Consiglio dei ministri, dopo il parere di Consiglio di Stato, Conferenza Stato-Regioni e due pareri delle commissioni parlamentari competenti, entro il 18 aprile. La novità più rilevante dell’ultimo passaggio è la riduzione da un milione di euro a 150mila euro della soglia di gara sotto la quale le imprese non sono obbligate ad avere la certificazione Soa per partecipare.
È la pressante richiesta che aveva fatto nelle ultime ore il presidente dell’Ance, Claudio De Albertis. Con la modifica, in sostanza, si torna a un sistema generalizzato di qualificazione centralizzato per le imprese e si dà un taglio drastico alla discrezionalità che avrebbero avuto nella singola gara le singole stazioni appaltanti, definendo autonomamente criteri per l’ammissione alla gara. Un sistema che avrebbe potuto introdurre sperequazioni gravi.
Il ministro delle Infrastrutture, Graziano Delrio, ha illustrato il provvedimento dopo il Consiglio dei ministri, sottolineando soprattutto come l’estrema semplificazione che lui stesso aveva voluto nella legge delega abbatta ora il numero di articoli dai 660 del vecchio sistema codice più regolamento generale ai 217 del nuovo codice che non avrà regolamento generale.
Il passaggio alla soft law, affidata in prima battuta a linee-guida varate dallo stesso ministero delle Infrastrutture su proposta dell’Autorità anticorruzione guidata da Raffaele Cantone, è sicuramente la rivoluzione di maggiore impatto fra gli architravi del nuovo sistema. «Semplificazione, lotta alla corruzione, trasparenza e qualità sono le parole-chiave del provvedimento», ha detto Delrio. Il tema delle nuove regole non è stato invece sfiorato dal premier, che nei giorni aveva battuto molto sulla necessità di finire le incompiute e ieri è tornato invece a ribadire quel che aveva detto due mesi fa sul Ponte sullo Stretto:che sarebbe utile farlo, ma che prima bisogna completare opere come la Salerno-Reggio Calabria e l’Alta velocità al Sud. Un obiettivo che non è certo cosa dei prossimi mesi.
L’altra norma del codice degli appalti riformato su cui si è concentrata la maggiore tensione in queste ultime ore è quella sul subappalto. Anche qui c’erano le richieste dell’Ance, che premeva per limitare i pagamenti diretti delle stazioni appaltanti ai subappaltatori, ma c’erano anche le richieste delle imprese superspecialistiche che lamentavano la scomparsa di qualunque tetto al subappalto, con il paradosso che il costruttore-appaltatore principale avrebbe potuto prendere il lavoro e subappaltare quote molto ampie di impianti e lavori specialistici di alto livello tecnologico senza dover costituire con l’impresa specialistica un’associazione temporanea.
Forte il rischio di una destrutturazione del mercato anche per imprese, come quelle delle attività superspecialistiche, che spesso hanno livelli elevati di capacità tecnologica. Complessivamente più equilibrata la nuova soluzione. Resta la liberalizzazione del subappalto con l’eliminazione del tetto ordinario del 30% previsto dalla legislazione vigente (critiche molto dure sono arrivate dai sindacati mentre il relatore della legge delega al Senato e “padre nobile” della legge, il pd Stefano Esposito, ha già detto che chiederà modifiche nel parere parlamentare).
Alla fine, però, si è trovato un compromesso per le opere superspecialistiche e ad alto contenuto tecnologico: solo per queste attività è stato introdotto un tetto del 30%.
A fronte della liberalizzazione il governo ha voluto introdurre una maggiore vigilanza. Per gli appalti sopra la soglia comunitaria sarà obbligatoria l’indicazione in sede di offerta di una terna di subappaltatori, ma solo se i bandi o gli avvisi di gara lo prevedono in maniera espressa. Anche sotto soglia, le stazioni appaltanti potranno richiedere nel bando di gara l’indicazione in sede di offerta della terna.
Limitati i casi di pagamento diretto del subappaltatore da parte della stazione appaltante, ma le imprese subappaltatrici potranno comunque chiederlo. Il contraente principale resta comunque responsabile in via esclusiva nei confronti della stazione appaltante
(articolo Il Sole 24 Ore del 04.03.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

LAVORI PUBBLICIL’Ance «incassa» la modifica sulla soglia del sistema Soa. La reazioni. De Albertis: ora paritetico rapporto imprese-stazioni appaltanti.
Non mancherà il lavoro per il passaggio dei pareri delle commissioni parlamentari.
Le reazioni degli attori del mercato all’approvazione in prima lettura del Codice appalti sono, infatti, parecchio contrastate: tra i molti segnali di soddisfazione, arrivano anche altrettante richieste di correzioni e aggiustamenti
(Schema di decreto legislativo recante disposizioni per l'attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture - Atto del Governo n. 283 sottoposto a parere parlamentare).
A partire dall’Ance. Il suo presidente, Claudio De Albertis sottolinea che «nel nuovo testo ci sono una serie di elementi che per noi sono molto positivi, come la trasparenza, le regole chiare ma, soprattutto, un rapporto paritetico tra imprese e stazioni appaltanti». Un chiaro riferimento alle correzioni operate nella parte che riguarda la qualificazione degli operatori economici: i costruttori avevano chiesto la revisione della soglia da un milione di euro per le attestazioni Soa e l’hanno ottenuta.
«Guardiamo certamente con favore a questa modifica, anche se resta qualche punto che potrà essere oggetto di correzione: riguarda ancora la discrezionalità eccessiva delle stazioni appaltanti», prosegue De Albertis. Non piace la possibilità riconosciuta alla Pa di recedere dal contratto nel caso in cui vengano iscritte riserve superiori al 15% e non piace il riferimento troppo generico, tra i criteri reputazionali, ai contenziosi precedenti delle imprese.
Chiede correzioni anche Maria Antonietta Portaluri, direttore generale di Anie Confindustria: il Codice - spiega - «va ancora rivisto in un’ottica di maggiore semplificazione burocratica e di riduzione degli oneri». In particolare, «non si comprende il mantenimento del soccorso istruttorio a titolo oneroso per le imprese, mentre dovrebbe essere abrogata una simile previsione. Deve essere ripensato il sistema di qualificazione delle imprese sulla base del principio secondo cui chi esegue le prestazioni deve essere adeguatamente specializzato in tali attività, salvaguardando la specificità dei settori speciali».
Qualche stoccata arriva anche dal lato dei progettisti. Il presidente del Consiglio nazionale degli architetti, Leopoldo Freyrie parla di «giudizio positivo» riferito «all’impianto politico e culturale del provvedimento che marca una significativa discontinuità rispetto alla farraginosa normativa precedente». Meno positivo il presidente del Consiglio nazionale degli ingegneri, Armando Zambrano, che rimarca «il contrasto con i principi della centralità della progettazione», promessi alla vigilia. Nel testo, infatti, «manca un capitolo dedicato ai servizi di ingegneria e architettura ed è un male perché non possiamo essere accomunati a tutti gli altri servizi».
L’Anci, per bocca del suo delegato ai Lavori pubblici, Alessandro Bolis, guarda con favore alla «netta discontinuità rispetto al passato», ma sottolinea le «possibili criticità che potrebbero emergere soprattutto dalla definizione dei soggetti aggregatori e da quella dell’offerta economicamente più vantaggiosa». Il vicepresidente di Legambiente, Edoardo Zanchini, infine, auspica che con il nuovo Codice si possa «chiudere una brutta pagina, lunga quindici anni, segnata troppo spesso da sprechi, corruzione e illegalità».
Fino ad oggi «con la legge Obiettivo sono stati buttati decine di miliardi di euro in grandi opere definite strategiche che avrebbero dovuto modernizzare e rilanciare il Paese e che, invece, hanno portato ad una serie di cantieri infiniti o di progetti rimasti sulla carta»
(articolo Il Sole 24 Ore del 04.03.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

LAVORI PUBBLICIUscita di scena graduale per il general contractor. Grandi opere. Scompare il programma di infrastrutture strategiche ma restano lavori per 36 miliardi affidati al contraente generale.
L’addio alla legge obiettivo, con il nuovo Codice appalti, è totale (Schema di decreto legislativo recante disposizioni per l'attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture - Atto del Governo n. 283 sottoposto a parere parlamentare).
Scompare il programma delle infrastrutture stategiche (il Pis), cioè in sostanza la cartina di Berlusconi con le opere di serie A, e scompaiono le relative procedure speciali, con delibere Cipe e possibilità di scavalcare gli enti locali e la Commissione di impatto ambientale. Ora tutte le opere pubbliche nazionali di trasporto (strade, ferrovie, porti, aeroporti) confluiscono nel Piano nazionale dei trasporti e della logistica e nel Documento pluriennale di programmazione (Dpp), e la procedura approvativa sarà sempre quella “ordinaria”, in conferenza di servizi. Con le accelerazioni contenute nel Dlgs Madia, e cioè i tempi certi di chiusura (silenzio-assenso per chi non si esprime), chiusura sulla base dei “pareri prevalenti” e infine possibilità di scavalcare il dissenso anche di enti di tutela, con delibera del Consiglio dei ministri.
Addio senza rimpianti alla legge obiettivo, dunque, che ormai non accelerava più nulla e di fatto aveva creato una incomprensibile doppia programmazione nelle opere statali.
Quello che invece non scompare è il “braccio operativo” della legge obiettivo, e cioè il general contractor, l’affidamento ai privati “chiavi in mano” della progettazione e realizzazione dell’opera. Sia perché l'istituto resta in piedi anche nel nuovo Codice, sia soprattutto perché sul mercato restano in piedi, con lavori in corso o progetti approvati, opere per oltre 30 miliardi affidate a general contractor.
Il governo ha ritenuto di lasciare aperta la possibilità di affidare a soggetti con adeguate capacità tecniche, organizzative e finanziarie la «realizzazione con qualsiasi mezzo dell’opera», anche se con due profonde differenze rispetto all’istituto pensato da Berlusconi e il suo ministro Pietro Lunardi nel 2002. A gara dovrà andare il progetto almeno definitivo, e non più anche il preliminare, come accadde con ritardi e pesanti contenziosi, ad esempio, per alcuni maxi-lotti della Salerno-Reggio e per la metro C di Roma. E poi la direzione lavori (cioè il controllo dei cantieri) non sarà più affidata agli stessi privati (fu una vera assurdità) ma resterà in capo all’amministrazione appaltante.
In ogni caso sul mercato restano lavori per 36 miliardi di euro affidati a general contractor. Vediamo perché.
Primo: ci sono dieci appalti, per 10,3 miliardi, affidati con gara a general contractor negli anni della legge obiettivo (l’ultimo bando è stato nel 2009) e ancora in corso. Uno di questi è il Ponte sullo Stretto, 3,9 miliardi di euro, per ora congelato ma che il premier Renzi ha più volte fatto capire di volere (prima o poi) rimettere in pista. Tolto questo, i restanti 6,42 miliardi sono cantieri in corso: ad esempio i due maxi-lotti del quadrilatero stradale Marche-Umbria, il passante ferroviario di Palermo e un tratto della ferrovia Palermo-Messina, la metro C di Roma, il passante Fs di Firenze, un lotto della Ss Palermo-Agrigento e uno della Ss 640 Agrigento-Caltanissetta, un lotto della terza corsia della A4 (Tagliamento-Gonars) e un lotto della Ss 106 Ionica.
Poi ci sono cinque grandi opere, per 17,3 miliardi di euro, affidate senza gara a general contractors prima della direttiva appalti del 1993: dal Mose (5,5 miliardi, finirà nel 2018), al Terzo valico ferroviario ad alta velocità Genova-Milano (6,2 miliardi), sempre l’Av Treviglio-Brescia (2 miliardi), e le due linee del metrò di Napoli (linea 1, 2,4 miliardi; linea 6, 1,2 miliardi).
Infine ci sono due maxi-tratte dell’alta velocità, per 9,3 miliardi, che saranno affidate a breve, entro l’anno, sempre ai vecchi general contractors del 1991 (nelle cordate Saipem, Astaldi, Salini Impregilo, Pizzarotti, Condotte, Maltauro), i cui contratti sono “giuridicamente vincolanti”. La Brescia-Verona (3,9 miliardi, di cui 2,2 finanziati e 1,7 da finanziare) e la Verona-Vicenza-Padova (5,4 miliardi, di cui 1,9 finanziati e 3,5 da finanziare)
(articolo Il Sole 24 Ore del 04.03.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATARiforma Madia, su 8 decreti il «sì» di sindaci e governatori. Esame il 24 per partecipate, servizi pubblici e autorità portuali.
Pa. Intesa in Conferenza unificata anche sui licenziamenti - Giudizio sospeso sulla delegificazione.

Primo via libera della Conferenza unificata ad alcuni dei decreti attuativi della riforma della Pa (legge 124/2015).
L'intesa tra il Governo le Regioni e Comuni è stata raggiunta su otto degli 11 decreti. In particolare hanno incassato il parere positivo i testi di semplificazione della Conferenza dei servizi telematica e della Scia, le modifiche al Codice delle amministrazioni digitali, il decreto sulla trasparenza (il cosiddetto freedom of information act all'italiana, già all'esame anche delle Camere), le misure per i licenziamenti dei dipendenti in caso di falsa attestazione di presenza in ufficio con sanzioni rafforzate ai dirigenti che non fanno scattare la disciplinare accelerata e le nuove regole per il reclutamento dei direttori generali delle Asl.
Intesa raggiunta anche sul riordino delle forze di polizia e l'accorpamento della Guardia forestale con trasferimento di funzioni e personale all'Arma dei Carabinieri. Giudizio sospeso per un approfondimento politico, invece, sul regolamento di delegificazione che attribuisce poteri sostitutivi alla presidenza del Consiglio per tagliare il timing delle autorizzazioni di grandi opere o grandi impianti produttivi.
Soddisfatta la ministra Marianna Madia: «Il senso della Conferenza unificata, dopo l'incontro della scorsa settimana, è quello di lavorare insieme -ha spiegato- con la consapevolezza che al cittadino interessa avere un servizio di qualità con tempi e regole certe da parte della Repubblica». Riguardo al rinvio dell'intesa sul regolamento che accelera i tempi per gli insediamenti produttivi, Madia ha spiegato che c'è «un emendamento delle regioni. È un punto su cui fare un approfondimento e capire come vengono scelti gli investimenti strategici sapendo che l'obiettivo è velocizzare i grandi investimenti privati che portano sviluppo e innovazione».
Non erano all'ordine del giorno ieri i testi su autorità portuali, partecipate e servizi pubblici locali, anche perché quest’ultimo ha ricevuto solo all’inizio di questa settimana la «bollinatura» della Ragioneria generale. Questi testi, che completano il primo pacchetto attuativo della riforma della Pa, dovrebbero arrivare sui tavoli della prossima Conferenza, in programma per il 24 marzo.
Oltre ai tre provvedimenti, nell’ordine del giorno di quella riunione tornerà la questione Poste, e in particolare le obiezioni che stanno emergendo in molti dei piccoli Comuni per la consegna a giorni alterni. Ad annunciarlo è il ministro degli Affari regionali Enrico Costa, che ha esteso l’invito ai vertici di Poste per un tavolo di confronto sulla razionalizzazione in corso, che ha prodotto anche un ricco contenzioso davanti ai giudici amministrativi (l’ultima sentenza in materia, la 698/2016 del Consiglio di Stato, ha dato il via libera alla chiusura di un ufficio postale decisa contro le obiezioni dell’ente).
A breve, spiega sempre Costa, partirà anche il confronto con le Regioni sulle concessioni demaniali la cui proroga è in attesa della bocciatura Ue
(articolo Il Sole 24 Ore del 04.03.2016 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it).

APPALTI: Appalti, no al massimo ribasso. Procedure trasparenti e digitalizzate, misure premiali per le imprese virtuose, affidamento dei lavori sui progetti esecutivi, superpoteri all’Anac di Cantone.
Affidamenti diretti possibili fino a 40 mila euro, procedure tutte online, stop alle aggiudicazioni al massimo ribasso, premi alle aziende virtuose.
E ancora, commissioni di gara più trasparenti, qualificazione delle stazioni appaltanti, più spazio all’Anac (l’Autorità nazionale anticorruzione) che potrà proporre pareri di precontenzioso vincolanti. Sono alcuni punti del decreto di riordino degli appalti approvato ieri dal consiglio dei ministri.
Appalti, riforma al primo step. Affidamenti diretti fino a 40 mila , massimi ribassi ko. Lo schema di decreto approvato dal consiglio dei ministri. Iter online, premi ai virtuosi.
Primo passo per la rivoluzione degli appalti. Affidamenti diretti possibili fino a 40 mila euro, procedure tutte online, stop alle aggiudicazioni al massimo ribasso, premi alle aziende virtuose dotate di rating di legalità.
E ancora, riduzione delle stazioni appaltanti con una spinta centralizzazione degli affidamenti, commissioni di gara più trasparenti, qualificazione delle stazioni appaltanti, trattative private con invito a tre o a cinque fino a 150 mila euro per servizi e forniture e fino a un milione per i lavori, più spazio all'Anac (l'Autorità nazionale anticorruzione) che potrà proporre pareri di precontenzioso vincolanti, Avcpass (il sistema di verifica dei requisiti di partecipazione alle gare pubbliche) trasferito al ministero delle infrastrutture.

Sono questi alcuni punti dello schema di decreto di riordino della disciplina sui contratti pubblici che recepisce le direttive europee e riforma l'attuale codice dei contratti (il cosiddetto codice «De Lise»), approvato ieri dal Consiglio dei ministri
(Schema di decreto legislativo recante disposizioni per l'attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture - Atto del Governo n. 283 sottoposto a parere parlamentare).
Il testo adesso andrà alle commissioni parlamentari, alla Conferenza unificata e al Consiglio di stato per i previsti pareri. Si passa, ha detto il ministro delle infrastrutture Graziano Delrio, «dal vecchio codice da 660 articoli e 1.500 commi a 217 articoli con una scelta di grandissima semplificazione e recepimento delle direttive europee» (in realtà si passa da 253 articoli del decreto 163/2016 ai 213 attuali).
A questo codice non farà seguito un regolamento di esecuzione e di attuazione (l'attuale dpr 207/2010) ma saranno emanate linee guida di carattere generale, da approvarsi con decreto del ministro delle infrastrutture su proposta dell'Anac e previo parere delle competenti commissioni parlamentari. Si tratta della cosiddetta soft law che nelle intenzioni del governo dovrebbe assicurare maggiore trasparenza, omogeneità e speditezza delle procedure, fornendo criteri unitari a garanzia dell'utenza.
Viene dettata una disciplina specifica e dettagliata delle concessioni puntando al trasferimento del «rischio operativo» al concessionario, «cosa non scontata», ha sottolineato Delrio, che ha evidenziato anche l'aspetto della centralità del progetto e dell'innovazione tecnologica per l'ingegneria derivante dall'applicazione del Bim (Building information modeling, il processo di sviluppo, crescita e analisi di modelli multidimensionali virtuali generati in digitale per mezzo di programmi su computer).
Fra i tanti contenuti del decreto, emergono la riduzione del numero delle stazioni appaltanti attraverso la qualificazione Anac delle stazioni appaltanti, il graduale passaggio a procedure interamente gestite in maniera digitale, la riduzione degli oneri amministrativi mediante la dematerializzazione degli atti con l'introduzione del documento di gara unico europeo che autocertificherà i requisiti previsti dalle stazioni appaltanti nei bandi di gara. Una parte rilevante del decreto riguarda anche la definizione di modalità finalizzate al riassetto, revisione e semplificazione dei sistemi di garanzia per l'aggiudicazione e l'esecuzione degli appalti pubblici di lavori, servizi e forniture: viene soppresso il performance bond, sostituito da una garanzia che coprirà anche gli extra-costi a carico della stazione appaltante.
Per quel che riguarda i requisiti di accesso alle gare, la materia è largamente devoluta alle linee guida che proporrà l'Anac. Per la disciplina dei contratti sotto la soglia Ue si prevede l'affidamento diretto fino a 40 mila euro; la procedura negoziata con tre inviti da 40 mila a 150 mila; per i soli lavori da 150 mila a un milione, la procedura negoziata con cinque invitati.
Si precisa che fino a 150 mila euro le stazioni appaltanti verificheranno soltanto i requisiti di carattere generale, consultando il casellario informatico presso Anac. Tutto questo nel presupposto di un notevole rafforzamento dei poteri dell'Authority che dovrà gestore l'albo che qualifica le stazioni appaltanti, l'albo dei commissari di gara (che saranno scelti a sorteggio), definire linee guida vincolanti e effettuare la vigilanza.
Per quanto riguarda i pareri di precontenzioso emessi dall'Anac si prevede che su iniziativa della stazione appaltante o di una o più delle altre parti, essa esprima parere, se c'è accordo preventivo, vincolante, purché adeguatamente motivato. Finisce l'era del massimo ribasso e si aggiudicheranno sempre con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa i servizi di ingegneria e architettura e quelli «sociali», puntando molto sulla qualità e non sul prezzo (articolo ItaliaOggi del 04.03.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA: Scia unica a partire dal 01.01.2017. I pareri della conferenza unificata sui decreti della riforma Madia.
«Abbiamo ricevuto l'intesa sulla Scia unica mentre abbiamo rimandato quella sull'accelerazione dei procedimenti amministrativi, perché abbiamo la necessità di più tempo per un approfondimento politico. Su tutti gli altri provvedimenti ci sono degli emendamenti delle regioni ma i pareri sono tutti favorevoli».

Così il ministro della pubblica amministrazione Marianna Madia, al termine della Conferenza unificata di ieri che ha registrato l'intesa tra il governo, le regioni e i comuni su otto degli 11 decreti attuativi della riforma della pubblica amministrazione.
«La riforma procede a passo spedito grazie anche al concorso delle regioni», ha detto il presidente della Conferenza delle regioni Stefano Bonaccini. «Per quello che riguarda l'attività di molti imprenditori è fondamentale il fatto che si arrivi a una segnalazione certificata di inizio attività unica che abbia come riferimento uno sportello in ogni amministrazione. Abbiamo chiesto che si possa partire dal 01.01.2017». «Abbiamo espresso al governo l'auspicio di approfondire alcune questioni rimaste ancora irrisolte», annuncia il vicepresidente dell'Associazione nazionale dei comuni italiani e sindaco di Chieti, Umberto Di Primio.
«Siamo tornati a chiedere più attenzione sullo sblocco del turnover. Sullo schema di decreto che regolerà la nuova Scia, un miglior coordinamento tra le norme per evitare lungaggini che potrebbero derivare da diverse interpretazioni, laddove le sovrintendenze, per esempio, dovessero non adeguarsi alle procedure seguite dai comuni». Sullo schema di decreto sul Codice dell'amministrazione digitale, il vicepresidente Anci Roberto Pella ne rimarca «l'importanza, soprattutto per quanto riguarda la gratuità per i comuni che vorranno accedere alle banche dati della motorizzazione, finora a pagamento».
Sul tema piccoli comuni, accordo su due decreti attuativi riguardanti l'associazionismo comunale: individuazione per il 2016 dei criteri di ripartizione dei fondi (circa 20 milioni di euro) e percentuale di risorse da riservare all'associazionismo (6,5%). Sul decreto sulla prevenzione della corruzione nelle p.a. l'Anci ha chiesto «certezza di qualificazione del soggetto che accede agli atti e degli atti stessi, soprattutto se si tratta di sicurezza urbana» (articolo ItaliaOggi del 04.03.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATAOpere edilizie minori, stop l'accatastamento d'ufficio.
Per le opere edilizie minori, niente più accatastamento d'ufficio: dovrà pensarci l'interessato. Azzeramento in vista della semplificazione di appena un anno e mezzo fa, che prevedeva variazioni catastali a carico del comune: l'interessato si limitava a fare la comunicazione di inizio lavori (Cil) all'ufficio tecnico e questo valeva anche per l'aggiornamento al catasto. Quindi non c'erano da fare due pratiche (edilizia e catastale), ma una sola.

Un emendamento al ddl concorrenza (Atto Senato n. 2085), approvato mercoledì sera in commissione industria al Senato, se confermato nei successivi passaggi parlamentari, segnerà un ritorno al passato modificando l'articolo 6, comma 5, del Testo unico per l'edilizia (n. 380/2001).
Ma vediamo di illustrare l'emendamento e i suoi effetti.
Nella versione attuale, la norma (introdotta dal dl 133/2014) prevede un'agevolazione per gli interventi sottoposti a comunicazione di inizio lavori: manutenzione straordinaria, compresa l'apertura di porte interne o lo spostamento di pareti interne, sempre che non riguardino le parti strutturali dell'edificio; opere contingenti e temporanee; pannelli solari, fotovoltaici; aree ludiche senza fini di lucro e gli elementi di arredo delle aree pertinenziali degli edifici; modifiche interne sulla superficie coperta e modifiche della destinazione d'uso dei fabbricati adibiti d'impresa.
Per questi interventi la comunicazione di inizio lavori, integrata con la comunicazione di fine dei lavori, è valida anche per l'accatastamento: è il comune che deve mandarla agli uffici tributari.
Con l'emendamento in esame, invece, con riferimento a tutti gli interventi minori dell'articolo 6 del Testo unico edilizia, a dover fare le pratiche di aggiornamento catastale tornerà a essere l'interessato. Si ripristina, infatti, la formulazione anteriore al 2014, per la quale l'interessato deve provvedere alla presentazione degli atti di aggiornamento catastale (articolo 34-quinquies, comma 2, lettera b), del decreto legge 4/2006).
L'emendamento stabilisce una disposizione transitoria per il possessore degli immobili, nei quali si siano realizzate opere cui segue un aggiornamento catastale. Stoppata la procedura d'ufficio, l'interessato dovrà provvedere alle necessarie pratiche entro sei mesi.
In caso di inerzia viene richiamata in proposito la procedura prevista dall'articolo 1, comma 36, della legge 311/2004. Questo significa che i comuni richiederanno agli interessati la presentazione di atti di aggiornamento da predisporre entro novanta giorni: in mancanza si procederà d'ufficio alle relative variazione e al trasgressore saranno comminate sanzioni amministrative (articolo ItaliaOggi del 04.03.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATAAmianto, più flessibilità per smaltimento e riuso. Parere del consiglio di stato sulla gestione delle terre di scavo.
Più flessibili i limiti per lo smaltimento delle terre e rocce da scavo nei cantieri, ma il consiglio di stato contesta il limite massimo di presenza dell'amianto.

È questo il quadro che si ricava dalla lettura del parere 16.02.2016 n. 390 emesso dalla Sez. consultiva sugli atti normativi sullo schema di decreto del presidente della repubblica recante la «disciplina semplificata della gestione delle terre e rocce da scavo, ai sensi dell’articolo 8 del decreto legge 12.09.2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla legge 11.11.2014, n. 164» che attua l'articolo 8 della legge 164/2014.
Lo schema di decreto è di particolare interesse per chi opera nella realizzazione dei lavori perché definisce la gestione delle terre e rocce da scavo qualificate come sottoprodotti provenienti da cantieri di piccole dimensioni, di grandi dimensioni e di grandi dimensioni non assoggettati a valutazione di impatto ambientale o ad autorizzazione integrata ambientale, e definisce la disciplina relativa al deposito temporaneo delle terre e rocce da scavo qualificate come rifiuti nonché quella relativa alle terre e rocce da scavo nei siti oggetto di bonifica.
Il problema si pone sull'articolo 2 dello schema di decreto che, alla lettera b), reca uno specifico intervento in materia di amianto, stabilendo che le terre e rocce da scavo possono contenere questo materiale nel limite massimo di 100 mg/kg.
Il parere del consiglio di stato mette in evidenza che nella relazione ministeriale si precisa che inserendo questo limite è stato sostituito il divieto della presenza di amianto nelle terre e rocce da scavo (in realtà oggi, con il decreto n. 152/2006, si prevede un limite a 1.000 mg/kg).
Praticamente si passerebbe da un divieto assoluto di riutilizzo del materiale contenente amianto alla possibilità di riutilizzarlo senza doverlo smaltire appositamente secondo determinate (e costose) procedure.
La disciplina diventa così meno vincolistica dal momento che il limite previsto nel decreto corrisponde alla quantità di amianto «verificabile con l'applicazione delle migliori metodiche disponibili», così si legge nella relazione dello schema. Il consiglio di stato nota che il valore «è stato indicato dall'Istituto superiore di sanità in uno specifico parere trasmesso dal ministero della salute e si basa sull'esperienza operativa di alcune Arpa».
E qui il parere sottolinea che «quanto comunicato dall'amministrazione riferente non risulta documentato da alcun atto depositato presso la segreteria della sezione da cui possano evincersi i necessari elementi istruttori utilizzati dall'amministrazione stessa per raggiungere le succitate conclusioni».
Da questo il consiglio di stato fa discendere che «conseguentemente la scelta di superare il divieto della presenza di amianto non risulta adeguatamente motivata nella relazione ministeriale, che peraltro si è limitata a sostenere che tale modifica si è resa necessaria anche perché la formulazione pregressa, consistente nel divieto assoluto, non era verificabile in concreto».
Il parere è quindi netto laddove afferma che «non si può in alcun modo condividere la scelta normativa operata dall'amministrazione che, in assenza di motivazioni puntualmente e accuratamente documentate richieste dalla rilevanza della problematica in esame, va espunta dal testo del regolamento in esame» (articolo ItaliaOggi del 04.03.2016).

EDILIZIA PRIVATA - VARIIl bonus arredi non si lesina. Via libera all'agevolazione se si sostituisce la caldaia. Circolare delle Entrate con le risposte a una serie di quesiti del Coordinamento Caf.
Niente detrazione Irpef per la sostituzione della vasca da bagno con un box doccia. Si tratta di una semplice manutenzione ordinaria che, se non abbinata ad altri interventi maggiori ed al contrario di quanto affermato da media e imprese esecutrici, non dà diritto ad alcun beneficio fiscale.
La sostituzione della caldaia invece, in quanto manutenzione straordinaria, può aprire le porte anche al bonus arredi. Il garage acquistato in comproprietà da due distinti soggetti ed utilizzato da entrambi, può costituire pertinenza a servizio delle abitazioni principali sulla base delle rispettive quote di comproprietà.

Sono questi, in estrema sintesi, i chiarimenti forniti ieri dall'Agenzia delle entrate con la circolare 02.03.2016 n. 3/E in risposta da una serie di questioni interpretative prospettate dal Coordinamento nazionale dei centri di assistenza fiscale e da altri soggetti.
Tutti i quesiti ai quali l'Agenzia ha risposto con la circolare in argomento a sono relativi alle imposte sui redditi.
Spese sanitarie. Dopo aver ricordato il principio generale sulla base del quale non tutte le prestazioni rese da un medico o sotto la sua supervisione sono ammesse alla detrazione, ma solo quelle di natura sanitaria finalizzate alla cura di una patologia, la circolare in commento si è espressa in merito alla richiesta di detraibilità di alcune prestazioni sanitarie.
Nello specifico l'Agenzia ha escluso la possibilità per i contribuenti di portare in detrazione le spese sostenute per le prestazioni rese da un pedagogista perché tale attività non rientra nell'ambito delle professioni sanitarie.
Sono invece detraibili in quanto ascrivibili a trattamenti di natura sanitaria, le spese relative ai trattamenti di mesoterapia e ozonoterapia effettuati da personale medico o da personale abilitato dalle autorità competenti in materia sanitaria.
Bonus arredi e recupero patrimonio edilizio. Numerose le risposte fornite nella circolare in argomento in materia di bonus arredi ed interventi di recupero edilizio e risparmio energetico.
In particolare potranno accedere al bonus arredi anche i contribuenti che hanno effettuato la sostituzione della caldaia. Tale intervento infatti, precisa la circolare, in quanto intervento diretto a sostituire una componente essenziale dell'impianto di riscaldamento e come tale qualificabile come intervento di manutenzione straordinaria, costituisce il necessario presupposto per l'accesso al bonus arredi.
La sola sostituzione dei sanitari invece, in quanto semplice manutenzione ordinaria, non può dare accesso ad alcun beneficio fiscale per il contribuente.
Contrariamente a quanto asserito dai media e dalle imprese esecutrici dei lavori nemmeno la sostituzione della vasca da bagno con un box doccia può usufruire della detrazione Irpef attualmente fissata al 50%. Tale spesa, si legge nella circolare di ieri, non può considerarsi nemmeno agevolabile quale intervento diretto alla eliminazione delle barriere architettoniche, anche se in grado di ridurre, almeno in parte, gli ostacoli fisici fonti di disagio per la mobilità di chiunque e di migliorare la sicura utilizzazione delle attrezzature sanitarie.
La sostituzione della vasca da bagno e dei sanitari in genere potrà costituire intervento agevolabile ai fini Irpef solo se integrata o correlata con altri interventi edili di tipo maggiore aventi i requisiti per usufruire dei bonus fiscali in vigore.
Acquisto immobili destinati alla locazione. Per quanto riguarda il limite di 300 mila euro fissato dalla norma, la circolare di ieri precisa che lo stesso costituisce l'ammontare massimo di spesa su cui calcolare la deduzione del 20% anche nell'ipotesi di acquisto di più di una abitazione.
Ai fini della predetta agevolazione i contribuenti devono inoltre considerare che gli interessi passivi relativi ai contratti di mutuo stipulati per l'acquisto delle abitazioni da concedere in locazione, hanno un loro autonomo limite di deducibilità, ma vanno in ogni caso rapportati a una quota capitale non superiore a 300 mila euro. Ai fini della loro deducibilità gli interessi passivi rilevano secondo il principio di cassa, contano cioè gli importi effettivamente pagati, e non quelli maturati nel periodo d'imposta.
Condomini minimi. Ammessi alla detrazione per gli interventi di recupero edilizio e risparmio energetico anche i c.d. condomini minimi, quelli cioè non in possesso del codice fiscale. L'accesso alla detrazione trova, anche per queste tipologie di condomini, il suo presupposto nel fatto che i bonifici per i pagamenti dei lavori sulle parti comuni siano stati assoggettati alla ritenuta da parte delle banche e delle poste (articolo ItaliaOggi del 03.03.2016).

PUBBLICO IMPIEGODipendenti p.a.. Busta arancione in arrivo. In arrivo 150 mila «buste arancioni» ai dipendenti pubblici.
Lo spiega l'Inps nel messaggio 29.02.2016 n. 940. L'operazione fa parte del progetto consolidamento della banca dati delle posizioni assicurative dei dipendenti pubblici, avviato con la circolare 124/2015. Completate le attività preventive di sistemazione, l'Inps ha inviato le comunicazioni individuali al primo contingente di circa 150 mila iscritti e ai rispettivi datori di lavoro.
Per gli aspetti operativi e procedurali, l'istituto conferma quanto illustrato nella citata circolare 124/2015, anche relativamente alle modalità di accesso al servizio «Estratto Conto», alla presentazione di richieste di variazione della posizione assicurativa (Rvpa) e alle attività delle strutture territoriali. Anche per questo contingente di invii, l'Inps chiede agli enti datori di lavoro di fare da tramite nel far pervenire ai propri dipendenti le comunicazioni individuali relative alla disponibilità dell'estratto conto, utilizzando l'account di posta elettronica aziendale o istituzionale oppure con le altre modalità ritenute più opportune.
L'indirizzo e-mail è utilizzabile soltanto se riconducibile all'interessato (nome o iniziale e cognome); non saranno presi in considerazione indirizzi riferiti a uffici o a servizi. Gli iscritti che hanno comunicato all'Inps un indirizzo e-mail, o il cui recapito di posta elettronica è stato comunicato dall'ente di appartenenza, riceveranno la comunicazione della disponibilità del servizio estratto conto via posta elettronica.
Ciascun ente datore di lavoro riceverà, tramite pec (posta elettronica certificata), i seguenti documenti: lettera esplicativa dell'operazione con la richiesta di inoltrare ai dipendenti interessati la comunicazione relativa alla disponibilità dell'estratto conto; lettera standard per i dipendenti; copia del messaggio n. 940/2016; file Excel con l'elenco dei dipendenti interessati dall'invio (articolo ItaliaOggi del 02.03.2016).

PUBBLICO IMPIEGOPa, limitato al 2015 il congedo parentale. Welfare. Per la contribuzione figurativa secondo l’Inps.
Arrivano dopo otto mesi dall’entrata in vigore del Dlgs 80/2015 i chiarimenti dell’Inps in materia di congedo parentale per gli iscritti alla gestione dipendenti pubblici.
Con la
circolare 23.02.2016 n. 40, l’istituto di previdenza fornisce le indicazioni tecniche per la comunicazione dei dati necessari ai fini dell’accredito figurativo dei contributi per i periodi di congedo parentale.
Le novità consistono nella possibilità di fruire del congedo parentale (ex astensione facoltativa) fino ai dodici anni di vita del minore o di ingresso dello stesso in affidamento o in adozione nel nucleo familiare (prima gli anni erano otto), sempreché permanga la minore età.
Inoltre, anche in assenza di contrattazione di settore, il congedo parentale può essere fruito a ore. In realtà sarebbe necessario parlare di mezza giornata, poiché la norma prevede che, in assenza di previsioni contrattuali di settore, la fruizione su base oraria è consentita in misura pari alla metà dell’orario medio giornaliero del periodo di paga quadrisettimanale o mensile immediatamente precedente a quello nel corso del quale ha inizio il congedo parentale.
Vengono istituiti ulteriori codici di “Tipo servizio” utili ai fini della compilazione della “ListaPosPA”, cioè quella parte della denuncia mensile Uniemens che interessa gli iscritti all’ex Inpdap. Durante il periodo di fruizione del congedo parentale, la retribuzione viene ridotta al 30% e poi viene azzerata.
Per la tredicesima mensilità, l’istituto non aveva finora fornito i chiarimenti necessari, giunti con la circolare 40, in cui si afferma che i datori di lavoro dovranno denunciare la parte di tredicesima persa, indicando altresì il numero dei mesi di riferimento della tredicesima mensilità. Ciò crea problemi operativi in quegli enti che adottano il Ccnl Regioni-Autonomie locali dove la tredicesima viene corrisposta in 365esimi e pertanto non si può –in nessun caso– far riferimento alla tredicesima su base mensile (è il caso di segretari comunali, università, servizio sanitario nazionale).
La circolare precisa altresì che la fruizione del congedo parentale fra il 25.06.2015 e il 31.12.2015 è coperta da contribuzione 0figurativa fino al 12esimo anno di vita. Ciò appare in palese contrasto con le premesse della circolare dove si cita espressamente il Dlgs 148/2015 inerente allo stanziamento dei fondi necessari a dare copertura a tali misure di sostegno alla maternità anche dopo il 2015, considerato che il Dlgs 80/2015 ne prevedeva l’applicabilità solo al 2015.
Inoltre la circolare prevede che le ore fruite a titolo di congedo parentale debbano essere rapportate a giorni. Tuttavia, se la fruizione può avvenire solo a mezza giornata (o a giornata intera), non appare possibile denunciare valori decimali diversi dall’unità o da un cifra con decimale 0,50, come invece riportato nella circolare. A ciò deve aggiungersi che in fase di consultazione dell’estratto conto dei dipendenti, le retribuzioni figurative ancora non sono visualizzate
(articolo Il Sole 24 Ore dell'01.03.2016).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATADistacco dal centralizzato sempre più difficile. Molti dubbi dopo la legge 220 e le pronunce della Cassazione. Impianti comuni. La richiesta resta elevata anche se contraria al risparmio energetico.
Il «distacco» piace ancora molto. Nonostante l’approssimarsi della scadenza dell’obbligo di installare i contabilizzatori di calore, che renderanno più individuale il consumo, la Cassazione e la legge (da ultimo la riforma del 2012) si sono assiduamente dedicate al problema.
Anzitutto va richiamata l’attenzione sull’articolo 4 del Dpr 59/2009 che afferma «in tutti gli edifici esistenti con più di quattro unità abitative e in ogni caso per potenze nominali del generatore di calore dell’impianto centralizzato maggiore o uguale a 100 kW è preferibile il mantenimento di impianti centralizzati laddove esistenti».
La norma precisa anche che le cause tecniche o di forza maggiore per ricorrere a eventuali interventi finalizzati alla trasformazione dei centralizzati in impianti con generatore di calore separata per singola unità abitativa devono essere dichiarate nella relazione di cui al successivo comma 25 dello stesso Dpr 59/2009, cioè nella relazione attestante la rispondenza delle prescrizioni per il contenimento del consumo di energia degli edifici e relativi impianti termici che, come prescritto dall’articolo 28, comma 1, della legge 10/1991, il proprietario dell’edificio deve depositare presso le amministrazioni competenti insieme alla denuncia dell’inizio dei lavori relativi alle opere di cui agli articoli 25 e 26 della stessa legge n. 10/1991.
Nonostante tale esplicita dichiarazione legislativa di preferenza per il centralizzato, una successiva pronuncia della Cassazione (5331/2012) riaffermava il principio secondo cui «il condomino può legittimamente rinunciare all’uso del riscaldamento centralizzato e distaccare le proprie diramazioni della sua unità abitativa senza necessità di autorizzazione e approvazione degli altri condomini. Fermo restando il suo obbligo di pagamento delle spese per la conservazione dell’impianto, è tenuto a partecipare a quelle di gestione se e nei limiti in cui il suo distacco non si risolve in una diminuzione degli oneri del servizio di cui continuano a godere gli altri condomini». Veniva così affermato con questa pronuncia anche un altro principio: quello della possibilità del rinunciante a distaccarsi , anche in presenza di aggravi di spesa per gli altri utenti, previo accollo di tale maggior onere derivante dal distacco.
Tali principi, ispirati come già detto a un evidente favore per il “distaccante”, sembrano poi, sostanzialmente anche se non completamente, recepiti dalla legge 220/2012 che, modificando l’articolo 1118 del Codice civile, quarto comma, statuisce che: «il condomino può rinunciare all’utilizzo dell’impianto centralizzato di riscaldamento o di condizionamento se dal suo distacco non derivano notevoli squilibri o aggravi di spesa per gli altri condomini. In tal caso il rinunciante resta tenuto a concorrere al pagamento delle sole spese per la manutenzione straordinaria dell’impianto e per la sua conservazione e messa a norma».
Molti punti della norma sono tuttavia parsi subito poco chiari dando luogo a sostanziali contrasti interpretativi.
In primo luogo ci si è chiesti e ci si chiede se l’aggettivo «notevoli» si riferisca solo agli squilibri o anche agli aggravi di spesa: se l’aggettivo si riferisce solo agli squilibri, interpretazione che sarebbe preferibile alla luce dell’uso del disgiuntivo “o” anziché della congiunzione “e”, si arriverebbe a un’interpretazione che rende di fatto il distacco irrealizzabile o difficilmente realizzabile, poiché un aggravio qualsivoglia deriva sempre e comunque dal distacco del singolo.
Resta anche un altro dubbio sostanziale: se possa trovare applicazione anche oggi l’orientamento della Cassazione, formatosi quando non esisteva alcuna norma sul distacco, sul fatto che, in presenza di aggravi di spesa per gli altri condòmini, il distacco stesso possa ritenersi legittimo qualora l’aspirante ”distaccante” si accolli l’aggravio, di qualunque entità esso sia, notevole o minimo.
Va infine aggiunto che nel frattempo molte legislazioni regionali (per esempio la legge della Regione Piemonte 13/2007), accogliendo il suggerimento del legislatore del 2009 e mostrando di aderire in modo netto e incondizionato all’orientamento contrario all’installazione di impianti autonomi individuali (in quanto contrari alla finalità del risparmio energetico e del contenimento dei consumi), hanno emanato normative che vietano tale installazione quando le unità immobiliari nel condominio siano superiori a un certo numero, di volta in volta diverso, a seconda della legislazione regionale.
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Occorre la diagnosi energetica. L’incidenza dei costi. Un decreto impone calcoli che scoraggiano l’intervento.
Le difficoltà per chi intende abbandonare l’impianto centralizzato sono aumentate di recente con la normativa contenuta nel decreto dello Sviluppo economico del 26.06.2015 intitolato che, all’allegato 1, punto 5.3. prevede che , «nel caso di ristrutturazione o di nuova installazione di impianti termici di potenza tecnica monomiale del generatore maggiore o uguale a 100 kW e anche nel caso di distacco dall’impianto centralizzato di un solo utente/condomino deve essere eseguita una diagnosi energetica dell’edificio e dell’impianto che metta a confronto le diverse soluzioni impiantistiche compatibili e la loro efficacia sotto il profilo dei costi complessivi, cioè investimento, esercizio e manutenzione».
La disposizione introduce importanti elementi di novità rispetto al passato. Infatti, chi intenda distaccarsi dovrebbe preventivamente far eseguire a sue spese una diagnosi energetica (quindi non una mera perizia tecnica). Questa diagnosi (che deve riguardare non solo l’impianto ma anche l’edificio) avrebbe lo scopo di rendere evidente quanto il distacco possa incidere sui costi complessivi e se esso possa determinare o meno disfunzioni nell’impianto o spese eccessive per gli altri condomini. La norma precisa anche che la diagnosi energetica deve considerare una serie di soluzioni alternative come ad esempio quella dell’impianto centralizzato dotato di caldaia a condensazione con contabilizzazione e termoregolazione del calore per singola unità abitativa.
Il problema è, però, come possa un decreto ministeriale, norma secondaria, legittimamente introdurre modifiche di questa portata a una norma primaria quale l’articolo 1118, comma 4, del Codice civile, che non fa il benché minimo riferimento a diagnosi energetiche obbligatorie e tanto meno a diagnosi aventi a oggetto non solo l’impianto, ma addirittura l’intero edificio e introducendo quindi a carico dei cittadini obblighi e oneri non previsti dalla normativa primaria.
Va poi evidenziato che alcuni problemi in materia di distacco possono sorgere anche alla luce della nuova normativa contenuta nel Dlgs 102/2014. Secondo calcoli recentemente effettuati, la riqualificazione del centralizzato richiede a ogni condòmino investimenti inferiori a quelli necessari per operare il distacco e per la realizzazione dell’autonomo.
Al costo per l’investimento bisogna inoltre aggiungere la partecipazione alle spese condominiali per la qualificazione del centralizzato, che fanno ulteriormente salire il costo complessivo della soluzione dell’impianto autonomo. Circostanze che sembrano rendere il distacco meno conveniente, senza tener conto delle spese per le valvole termostatiche e la contabilizzazione, alle quali il distaccante dovrà comunque partecipare, come in genere a tutte le spese di messa a norma e straordinaria manutenzione e conservazione
(articolo Il Sole 24 Ore dell'01.03.2016).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Locali per spettacoli pubblici, autorizzazione valida solo se la commissione di vigilanza è al completo.
La commissione comunale (o provinciale) di vigilanza sui locali per gli spettacoli pubblici, disciplinata dall'articolo 80 del Tulps, è un collegio perfetto, per la cui valida costituzione delle sedute occorre la presenza fisica di tutti i componenti e il cui parere va reso per iscritto congiuntamente.
È, invece, possibile che i componenti titolari, in caso di impedimento temporaneo e non permanente, possano farsi sostituire da membri supplenti individuati nel provvedimento di nomina e non da ulteriori soggetti delegati da loro stessi, perché ciò renderebbe superfluo l'atto di nomina quale componente dell'organismo che ha validità triennale.
Infine, è rilevante in seno alla commissione il ruolo del rappresentante del Comando provinciale dei Vigili del Fuoco, legittimato non solo a rendere il parere quale componente del collegio ma anche a rilasciare il certificato di prevenzione contro gli incendi ex Dpr 151/2011.

Il caso sottoposto al ministero
A precisarlo, con il parere 11.12.2015 n. 557 di prot., è il Ministero dell'Interno - Dipartimento della Pubblica Sicurezza, interpellato da un Comune in ordine a quanto ottenuto in occasione di una seduta della Commissione, convocata dal Sindaco per l'esame di un'istanza volta a ottenere l'autorizzazione di pubblici spettacoli ex articolo 68 del Tulps (nella specie si trattava dello stadio).
Era accaduto che il referente dei Vigili del Fuoco non aveva materialmente preso parte alla seduta della Commissione, inviando tuttavia al Presidente una preventiva nota scritta recante il parere di competenza. Conseguentemente il Comune chiedeva al Viminale se la seduta fosse valida a causa dell'assenza fisica del soggetto convocato.
Per il Ministero evidentemente no.
Il parere
La presa di posizione ministeriale interviene su una delle numerose questioni aperte, spinose e spesso fonte di errate interpretazioni da parte degli addetti ai lavori nell'ambito della materia dei pubblici spettacoli, che richiedono per il loro svolgimento due autorizzazioni del Comune. Una ex articolo 68 del Tulps sullo spettacolo, che costituisce un'autorizzazione di tipo personale in quanto rilasciata all'organizzatore dell'evento previa verifica dei requisiti morali.
L'altra ex articolo 80 del Tulps, non sostituibile da Scia, sui locali o sui luoghi in cui si svolge la manifestazione, che costituisce un'autorizzazione di tipo reale, cioè sulla res e cioè il locale appunto, previo parere favorevole espresso dalla commissione di vigilanza composta dal Sindaco o suo delegato, dirigente della polizia locale o suo delegato, dirigente dell'ufficio tecnico comunale o suo delegato, dirigente dell'Asl o suo delegato, dirigente del Comando Provinciale dei Vigili del Fuoco o suo delegato, infine esperto di elettronica e, all'occorrenza, anche un esperto di acustica, oltre ai rappresentanti delle organizzazioni di categoria.
La Commissione è tenuta normalmente a riunirsi due volte: la prima sull'esame preventivo del progetto e l'altra, all'esito del montaggio della struttura e degli impianti, in sede di sopralluogo, salvo il caso di cui al Dpr 311/2001 per eventi fino a 200 posti in cui è sufficiente la relazione asseverata di un tecnico attestante la sussistenza delle condizioni tecnico-impiantistiche per lo svolgimento dell'evento.
Precisa il Viminale, essendo la commissione un collegio perfetto è richiesto per il quorum di validità delle sue sedute la presenza fisica totalitaria di tutti i componenti, infungibile con la trasmissione di un parere scritto in assenza di un confronto contestuale con tutti gli altri componenti.
Va inoltre aggiunto in materia che il membro effettivo può effettuare la delega al solo supplente e non ad altri. Per esempio, il dirigente del comando provinciale dei vigili del fuoco non può delegare il responsabile dell'ufficio tecnico comunale, ma solo un funzionario apicale della sua amministrazione.
Sul presupposto per cui la delega cui si riferisce il Dpr 311/2001, in assenza di diverse espresse disposizioni di legge, è solo quella interorganica, cioè all'interno dello stesso ente e non intersoggettiva, cioè fra enti diversi, che è invece possibile solo se espressamente previsto da una legge. Come per esempio accade per l'articolo 146 del Codice del paesaggio che prevede la delega nel rilascio dell'autorizzazione paesaggistica dalla Regione al Comune in possesso dei necessari requisiti (18.02.2016 - tratto da www.quotidianoentilocali.ilsole24ore.com).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATAStrada vicinale, quando sussiste il diritto di uso pubblico?
Le caratteristiche indispensabili della servitù di uso pubblico in una sentenza del Tar Lombardia-Milano.
La costante giurisprudenza amministrativa, che il Tar Lombardia condivide nella sentenza n. 507/2016, afferma che affinché il diritto di uso pubblico della strada possa ritenersi sussistente “occorre che il bene privato sia idoneo ed effettivamente destinato al servizio di una collettività indeterminata di soggetti considerati uti cives, ossia quali titolari di un pubblico interesse di carattere generale, e non uti singuli, ossia quali soggetti che si trovano in una posizione qualificata rispetto al bene gravato”.
Tale indirizzo è perfettamente conforme a quello della Cassazione, nel quale ha da ultimo ribadito che la servitù di uso pubblico è caratterizzata dall’utilizzazione da parte di una collettività indeterminata di persone del bene privato idoneo al soddisfacimento di un interesse della stessa.
Caratteristiche indispensabili di questo diritto sono:
1. il passaggio esercitato iure servitutis pubblicae, da una collettività di persone qualificate dall'appartenenza ad un gruppo territoriale;
2. la concreta idoneità del bene a soddisfare esigenze di carattere generale, anche per il collegamento con la pubblica via;
3. un titolo valido a sorreggere l’affermazione del diritto di uso pubblico, che può anche identificarsi nella protrazione dell’uso da tempo immemorabile.

La destinazione delle strade vicinali “ad uso pubblico”, imposta dal codice della strada di cui al d.lgs. n. 285/1992 (art. 3, comma 1, n. 52) fa sì che queste debbano necessariamente interessate da un transito generalizzato, tale per cui, a fronte della proprietà privata del sedime stradale e dei relativi accessori e pertinenze (spettante ai proprietari dei fondi latistanti), l’ente pubblico comunale possa vantare su di essa, ai sensi dell’art. 825 cod. civ., un diritto reale di transito, con correlativo dovere di concorrere alle spese di manutenzione della stessa (pro quota rispetto al consorzio privato di gestione ai sensi dell’art. 3 D.lgs.lgt. n. 1446/1918, “Facoltà agli utenti delle strade vicinali di costituirsi in Consorzio per la manutenzione e la ricostruzione di esse”), onde garantire la sicurezza della circolazione che su di essa si realizza.
Non è quindi sufficiente che l’utilizzo della strada avvenga in favore di proprietari di fondi vicini, né di personale dei consorzi irrigui incaricati della gestione del canale (commento tratto da www.casaeclima.com).
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Affinché il diritto di uso pubblico della strada possa ritenersi sussistente <<occorre che il bene privato sia idoneo ed effettivamente destinato al servizio di una collettività indeterminata di soggetti considerati uti cives, ossia quali titolari di un pubblico interesse di carattere generale, e non uti singuli, ossia quali soggetti che si trovano in una posizione qualificata rispetto al bene gravato.
L’indirizzo ora citato è perfettamente conforme a quello della Cassazione, nel quale ha da ultimo ribadito che la servitù di uso pubblico è caratterizzata dall’utilizzazione da parte di una collettività indeterminata di persone del bene privato idoneo al soddisfacimento di un interesse della stessa.
Caratteristiche indispensabili di questo diritto sono:
1. il passaggio esercitato iure servitutis pubblicae, da una collettività di persone qualificate dall'appartenenza ad un gruppo territoriale;
2. la concreta idoneità del bene a soddisfare esigenze di carattere generale, anche per il collegamento con la pubblica via;
3. un titolo valido a sorreggere l’affermazione del diritto di uso pubblico, che può anche identificarsi nella protrazione dell’uso da tempo immemorabile.
Va poi soggiunto che la destinazione delle strade vicinali “ad uso pubblico”, imposta dal codice della strada di cui al d.lgs. n. 285/1992 (art. 3, comma 1, n. 52) fa sì che queste debbano necessariamente interessate da un transito generalizzato, tale per cui, a fronte della proprietà privata del sedime stradale e dei relativi accessori e pertinenze (spettante ai proprietari dei fondi latistanti), l’ente pubblico comunale possa vantare su di essa, ai sensi dell’art. 825 cod. civ., un diritto reale di transito, con correlativo dovere di concorrere alle spese di manutenzione della stessa (pro quota rispetto al consorzio privato di gestione ai sensi dell’art. 3 D.lgs.lgt. n. 1446/1918, “Facoltà agli utenti delle strade vicinali di costituirsi in Consorzio per la manutenzione e la ricostruzione di esse”), onde garantire la sicurezza della circolazione che su di essa si realizza.
Non è dunque sufficiente che l’utilizzo della strada avvenga in favore di proprietari di fondi vicini, né di personale dei consorzi irrigui incaricati della gestione del canale>>
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... per l’annullamento
quanto al ricorso n. 3588 del 2014:
   - dell’ordinanza n. 95 dell’11.12.2014, notificata il 18.12.2014, con la quale il Sindaco di Teglio ha ordinato al ricorrente di astenersi da qualsiasi comportamento che possa recare ostacolo o comunque modificare l’originaria possibilità di pubblico transito lungo il tratto di strada vicinale indicato nelle premesse, rimuovendo ogni opera o segnaletica idonee a pregiudicare la piena fruizione pubblica della strada vicinale, il tutto entro il termine perentorio di 15 giorni decorrenti dal ricevimento dell’ordinanza, avvertendo che in caso di mancata ottemperanza entro il termine di cui sopra, il ripristino sarebbe stato attuato d’ufficio, ponendo le relative spese a carico degli inadempienti;
   - nonché di ogni altro atto o provvedimento alle stesse presupposto, conseguente o comunque connesso;
quanto al ricorso n. 868 del 2015:
   - del provvedimento 01.04.2015 prot. n. 2975, concernente il divieto di prosecuzione dell’attività e di rimozione di una recinzione in rete metallica e paletti;
   - nonché di ogni altro atto allo stesso presupposto, conseguente o comunque connesso ivi inclusa l’ordinanza 23.03.2015 n. 2356 e la comunicazione del Comune di Teglio 27.02.2015 n. 1737, nonché ogni norma contenuta nel PGT da cui possa emergere che la recinzione sia non conforme alla previsione del PGT stesso approvato in data 24.07.2013 e, occorrendo, specificamente, l’art. 13 delle NTA del PdS e relativa tavola inviata in data 13.04.2015 in risposta all’istanza di accesso agli atti inviata il 13.04.2015.
...
6. Passando all’esame del merito dei ricorsi, possono essere esaminate congiuntamente le censure aventi carattere assorbente, contenute in entrambi i gravami, attraverso le quali si eccepisce l’illegittimità dei provvedimenti comunali inibitori, in ragione della non classificabilità, quale strada vicinale ad uso pubblico, della fascia di terreno prospiciente l’abitazione del ricorrente.
6.1. Va premesso che i provvedimenti impugnati con entrambi i ricorsi –ovvero l’ordinanza sindacale n. 95 dell’11.12.2014, con cui si impone al ricorrente di rimuovere qualsiasi opera in grado di impedire il pubblico transito nella strada vicinale situata nel terreno di sua proprietà e il provvedimento comunale del 01.04.2015 prot. n. 2975, concernente il divieto di prosecuzione dell’attività e di rimozione di una recinzione in rete metallica e paletti– sono motivati sostanzialmente con la circostanza che la recinzione impedirebbe il transito su un’area destinata a strada di uso pubblico, non essendo state invece indicate le ragioni del contrasto della predetta recinzione con le previsioni del PGT, solo genericamente affermata nel secondo provvedimento.
A ciò consegue che non assume rilievo determinate la circostanza fattuale, su cui le parti sembrano in disaccordo, in ordine alla identità o meno della recinzione originaria con quella di cui alla SCIA del 27.03.2015 (c.d. intervento 1 e 2) e non appare nemmeno decisiva l’assenza di un titolo idoneo per realizzare la recinzione, visto che nel primo provvedimento comunale tale aspetto non viene in rilievo.
6.2. Il Comune di Teglio, per affermare la natura di strada vicinale ad uso pubblico del terreno di proprietà del ricorrente su cui è stata apposta la recinzione, ha evidenziato come il predetto tratto stradale risulterebbe notoriamente utilizzato dalla collettività –sia a piedi che con automezzi prevalentemente ad uso agricolo– da tempo immemore, come dimostrato altresì dalle numerose dichiarazioni di cittadini e confermato dalle risultanze documentali del sistema informativo territoriale della Regione Lombardia, in particolare dalla Carta tecnica regionale del 1981 e dai coevi rilievi aerofotogrammetrici.
Inoltre il tratto stradale in questione soddisferebbe esigenze di carattere generale giacché, oltre a collegare le strade comunali Via San Giacomo per Carona e Via delle Tavole, farebbe parte di un sistema di viabilità secondaria particolarmente importante per una realtà montana, avente caratteristiche morfologiche peculiari, e sarebbe destinato garantire la migliore fruizione possibile del territorio.
6.3. Come evidenziato dalla costante giurisprudenza amministrativa, che il Collegio condivide, affinché il diritto di uso pubblico della strada possa ritenersi sussistente <<occorre che il bene privato sia idoneo ed effettivamente destinato al servizio di una collettività indeterminata di soggetti considerati uti cives, ossia quali titolari di un pubblico interesse di carattere generale, e non uti singuli, ossia quali soggetti che si trovano in una posizione qualificata rispetto al bene gravato (Sez. V, 14.02.2012 n. 728; in senso conforme: Sez. IV, 15.05.2012, n. 2760; Sez. V, 05.12.2012, n. 6242, quest’ultima citata dall’appellante).
L’indirizzo ora citato è perfettamente conforme a quello della Cassazione, nel quale ha da ultimo ribadito che la servitù di uso pubblico è caratterizzata dall’utilizzazione da parte di una collettività indeterminata di persone del bene privato idoneo al soddisfacimento di un interesse della stessa (Sez. II, sentenza del 10.01.2011, n. 333).
Caratteristiche indispensabili di questo diritto sono:
1. il passaggio esercitato iure servitutis pubblicae, da una collettività di persone qualificate dall'appartenenza ad un gruppo territoriale;
2. la concreta idoneità del bene a soddisfare esigenze di carattere generale, anche per il collegamento con la pubblica via;
3. un titolo valido a sorreggere l’affermazione del diritto di uso pubblico, che può anche identificarsi nella protrazione dell’uso da tempo immemorabile.
Va poi soggiunto che la destinazione delle strade vicinali “ad uso pubblico”, imposta dal codice della strada di cui al d.lgs. n. 285/1992 (art. 3, comma 1, n. 52) fa sì che queste debbano necessariamente interessate da un transito generalizzato, tale per cui, a fronte della proprietà privata del sedime stradale e dei relativi accessori e pertinenze (spettante ai proprietari dei fondi latistanti), l’ente pubblico comunale possa vantare su di essa, ai sensi dell’art. 825 cod. civ., un diritto reale di transito, con correlativo dovere di concorrere alle spese di manutenzione della stessa (pro quota rispetto al consorzio privato di gestione ai sensi dell’art. 3 D.lgs.lgt. n. 1446/1918, “Facoltà agli utenti delle strade vicinali di costituirsi in Consorzio per la manutenzione e la ricostruzione di esse”), onde garantire la sicurezza della circolazione che su di essa si realizza.
Non è dunque sufficiente che l’utilizzo della strada avvenga in favore di proprietari di fondi vicini, né di personale dei consorzi irrigui incaricati della gestione del canale
>> (Consiglio di Stato, V, 19.04.2013, n. 2218).
Nel caso di specie, il Comune, pur evidenziando l’assenza di un elenco di strade ad uso pubblico, ha cercato di dimostrare la sussistenza dell’uso pubblico con le dichiarazioni rese da alcuni cittadini e con il riferimento alla documentazione ricavabile dal sistema cartografico regionale. Quanto a quest’ultimo aspetto va evidenziato come il riferimento risulti assolutamente generico e quindi inidoneo a fungere da prova dell’uso pubblico della strada.
Con riguardo invece alla dichiarazione resa da un gruppo di cittadini (all. 8 del Comune al ricorso R.G. n. 3588/2014) e prescindendo dalla loro concreta identificabilità (sul valore probatorio di tali dichiarazioni, cfr. TAR Lombardia, Brescia, I, 28.03.2015, n. 473), va evidenziato come nella stessa si afferma che “tale opera (ovvero la recinzione) impedisce ai proprietari di raggiungere i propri terreni percorrendo la strada interpoderale su cui, da più di 50 anni, esiste un passaggio mappato”. Ciò non sembra concretare il presupposto dell’utilizzo generalizzato della strada, quanto piuttosto un uso da parte dei proprietari dei fondi contigui. Inoltre, il ricorrente ha allegato al ricorso delle dichiarazioni di alcuni cittadini residenti o abitanti a Teglio che smentiscono quanto affermato dal Comune (all. 6 al ricorso R.G. n. 3588/2014).
Anche dalle fotografie prodotte in giudizio dal Comune (all. 6) non si è in grado di stabilire se la strada sia effettivamente oggetto di un transito generalizzato, vista la sua collocazione tra un fabbricato e altri manufatti, da cui potrebbero scaturire problemi di sicurezza sia per coloro che transitano sia per coloro che abitano in loco o lo frequentano (in tal senso, Consiglio di Stato, VI, 10.05.2013, n. 2544; sul contesto in cui dovrebbero essere collocate le strade ad uso pubblico, TAR Lombardia, Brescia, I, 28.03.2015, n. 473).
6.4. Pertanto, non può dirsi provato con certezza l’uso pubblico della strada e nemmeno l’esistenza stessa di un tratto viario idoneo a consentire il passaggio di automezzi (cfr. le fotografie allegate al ricorso R.G. n. 3588/2014; sulla necessità di una compiuta ed esauriente istruttoria in tali fattispecie, cfr. Consiglio di Stato, V, 23.09.2015, n. 4450; TAR Lombardia, Brescia, I, 28.03.2015, n. 473).
6.5. In senso contrario, non appaiono dirimenti nemmeno le ulteriori considerazioni contenute nella memoria del Comune resistente, attesa la loro non decisività e comunque configurabili alla stregua di una motivazione postuma, generalmente non ammessa in sede giurisdizionale (TAR Lombardia, Milano, III, 05.03.2015, n. 628).
6.6. Pertanto, le scrutinate censure devono ritenersi fondate (TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 11.03.2016 n. 507 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Il provvedimento impugnato –ossia l’ordinanza sindacale con cui si impone al ricorrente di rimuovere qualsiasi opera in grado di impedire il pubblico transito nella strada vicinale situata nei pressi della sua abitazione– non menziona alcuno specifico soggetto beneficiario dello stesso, quindi non ci si trova al cospetto di controinteressati in senso formale.
Nemmeno si può ritenere l’esistenza di soggetti controinteressati, intesi in senso sostanziale, visto che, secondo la consolidata giurisprudenza, tale qualità <<va riconosciuta non già a chi abbia un interesse, anche legittimo, a mantenere in vita il provvedimento impugnato e tanto meno a chi ne subisca conseguenze soltanto indirette o riflesse, ma solo a chi dal provvedimento medesimo riceva un vantaggio diretto e immediato, ossia un positivo ampliamento della propria sfera giuridica.
Secondo tale orientamento il riconoscimento della qualità di controinteressato non opera in relazione ad esigenze processuali, ma deve essere condotto sulla scorta del combinato di due elementi: quello cosiddetto “sostanziale”, che richiede l’individuazione della titolarità di un interesse analogo e contrario alla posizione legittimante del ricorrente e quello cosiddetto “formale”, che richiede l’indicazione nominativa nel provvedimento di colui che ne abbia un interesse qualificato alla conservazione.
La trasposizione alla materia edilizia di questo principio ha condotto la giurisprudenza ad affermare che in sede di impugnazione di provvedimenti sanzionatori “non sono configurabili controinteressati nei confronti dei quali sia necessario instaurare un contraddittorio, anche nel caso in cui sia palese la posizione di vantaggio che scaturirebbe per il terzo dall’esecuzione della misura repressiva ed anche quando il terzo avesse provveduto a segnalare all’amministrazione l’illecito edilizio da altri commesso”>>.

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... per l’annullamento
quanto al ricorso n. 3588 del 2014:
   - dell’ordinanza n. 95 dell’11.12.2014, notificata il 18.12.2014, con la quale il Sindaco di Teglio ha ordinato al ricorrente di astenersi da qualsiasi comportamento che possa recare ostacolo o comunque modificare l’originaria possibilità di pubblico transito lungo il tratto di strada vicinale indicato nelle premesse, rimuovendo ogni opera o segnaletica idonee a pregiudicare la piena fruizione pubblica della strada vicinale, il tutto entro il termine perentorio di 15 giorni decorrenti dal ricevimento dell’ordinanza, avvertendo che in caso di mancata ottemperanza entro il termine di cui sopra, il ripristino sarebbe stato attuato d’ufficio, ponendo le relative spese a carico degli inadempienti;
   - nonché di ogni altro atto o provvedimento alle stesse presupposto, conseguente o comunque connesso;
quanto al ricorso n. 868 del 2015:
   - del provvedimento 01.04.2015 prot. n. 2975, concernente il divieto di prosecuzione dell’attività e di rimozione di una recinzione in rete metallica e paletti;
   - nonché di ogni altro atto allo stesso presupposto, conseguente o comunque connesso ivi inclusa l’ordinanza 23.03.2015 n. 2356 e la comunicazione del Comune di Teglio 27.02.2015 n. 1737, nonché ogni norma contenuta nel PGT da cui possa emergere che la recinzione sia non conforme alla previsione del PGT stesso approvato in data 24.07.2013 e, occorrendo, specificamente, l’art. 13 delle NTA del PdS e relativa tavola inviata in data 13.04.2015 in risposta all’istanza di accesso agli atti inviata il 13.04.2015.
...
1. In via preliminare va disposta la riunione dei ricorsi, in quanto connessi oggettivamente e soggettivamente, trattandosi di una controversia relativa alla stessa questione fattuale, ovvero la posizione di una rete di recinzione a chiusura di una strada qualificata come vicinale ad uso pubblico, e intercorrente tra le stesse parti.
2. Nelle controversie de quibus sussiste certamente la giurisdizione di questo Tribunale, atteso che il giudice amministrativo può conoscere in via incidentale di diritti soggettivi quando tale sindacato è necessario per accertare la legittimità di un provvedimento amministrativo. Difatti, la verifica in ordine alla esistenza di una servitù di uso pubblico sulla strada in esame è finalizzata a stabilire se i provvedimenti comunali impugnati siano o meno legittimi (Consiglio di Stato, VI, 10.05.2013, n. 2544).
3. Sempre in via preliminare va esaminata l’eccezione di inammissibilità delle memorie, una per ogni ricorso, depositate dal Comune il 22.12.2015, in quanto non sarebbe stato rispettato il termine di cui all’art. 73, comma 1, cod. proc. amm..
3.1. L’eccezione è fondata.
Le memorie prodotte dalla difesa comunale, in vista dell’udienza del 21.01.2016, sono state depositate in data 22 dicembre, ossia non rispettando il termine di trenta giorni liberi prima dell’udienza di trattazione della controversia, come stabilito dall’art. 73, comma 1, cod. proc. amm., che consente, il deposito delle memorie fino a trenta giorni liberi prima dell’udienza e delle memorie di replica fino a venti giorni liberi antecedenti (TAR Lombardia, Milano, IV, 29.01.2013, n. 259).
3.2. Pertanto, tali memorie non possono essere prese in considerazione.
4. Ancora in via preliminare, va esaminata l’eccezione di inammissibilità del ricorso R.G. n. 3588 del 2014, formulata dalla difesa comunale, per mancata evocazione in giudizio di almeno un controinteressato, non risultando idonea l’integrazione successiva al termine di proposizione del ricorso.
4.1. L’eccezione è infondata.
Il provvedimento impugnato –ossia l’ordinanza sindacale n. 95 dell’11.12.2014, con cui si impone al ricorrente di rimuovere qualsiasi opera in grado di impedire il pubblico transito nella strada vicinale situata nei pressi della sua abitazione– non menziona alcuno specifico soggetto beneficiario dello stesso, quindi non ci si trova al cospetto di controinteressati in senso formale.
Nemmeno si può ritenere l’esistenza di soggetti controinteressati, intesi in senso sostanziale, visto che, secondo la consolidata giurisprudenza, tale qualità <<va riconosciuta non già a chi abbia un interesse, anche legittimo, a mantenere in vita il provvedimento impugnato e tanto meno a chi ne subisca conseguenze soltanto indirette o riflesse, ma solo a chi dal provvedimento medesimo riceva un vantaggio diretto e immediato, ossia un positivo ampliamento della propria sfera giuridica.
Secondo tale orientamento il riconoscimento della qualità di controinteressato non opera in relazione ad esigenze processuali, ma deve essere condotto sulla scorta del combinato di due elementi: quello cosiddetto “sostanziale”, che richiede l’individuazione della titolarità di un interesse analogo e contrario alla posizione legittimante del ricorrente e quello cosiddetto “formale”, che richiede l’indicazione nominativa nel provvedimento di colui che ne abbia un interesse qualificato alla conservazione.
La trasposizione alla materia edilizia di questo principio ha condotto la giurisprudenza ad affermare che in sede di impugnazione di provvedimenti sanzionatori “non sono configurabili controinteressati nei confronti dei quali sia necessario instaurare un contraddittorio, anche nel caso in cui sia palese la posizione di vantaggio che scaturirebbe per il terzo dall’esecuzione della misura repressiva ed anche quando il terzo avesse provveduto a segnalare all’amministrazione l’illecito edilizio da altri commesso”
>> (Consiglio di Stato, VI, 16.07.2015, n. 3553).
4.2. Ciò determina il rigetto della predetta eccezione (TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 11.03.2016 n. 507 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: Concreta esercizio abusivo di una professione, punibile a norma dell’art. 348 cod. pen., il compimento senza titolo, anche se posto in essere occasionalmente e gratuitamente, di atti da ritenere attribuiti in via esclusiva a una determinata professione.
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1. Il ricorso è inammissibile per le ragioni di seguito illustrate.
2. Manifestamente infondata è la censura relativa alla erronea applicazione dell'art. 348 cod. pen.
Il principio invocato dal ricorrente (Sez. U, n. 11545 del 15/12/2011, Cani, Rv. 251819) è stato invero affermato dalle Sezioni Unite in relazione alla configurabilità del reato di esercizio abusivo della professione in presenza del compimento di atti, che, pur di competenza di una determinata professione, non siano attribuiti ad essa in via esclusiva. In tal caso, il Supremo Consesso ha ritenuto dirimenti le modalità con cui tali atti siano realizzati: le stesse, per continuatività, onerosità e (almeno minimale) organizzazione, devono creare le oggettive apparenze di un'attività professionale svolta da soggetto regolarmente abilitato.
Le Sezioni Unite nella medesima sentenza hanno invece ribadito che concreta esercizio abusivo di una professione, punibile a norma dell'art. 348 cod. pen., il compimento senza titolo, anche se posto in essere occasionalmente e gratuitamente, di atti da ritenere attribuiti in via esclusiva a una determinata professione.
E tale è il caso in esame, nel quale l'imputato ha posto in essere atti tipici -come in premessa indicati- della professione forense, ad essa attribuiti in via esclusiva e quindi riservati a chi legittimamente tale professione può esercitare (Corte di Cassazione, Sez. VI, sentenza 10.03.2016 n. 9957).

EDILIZIA PRIVATA: La demolizione non è una sanzione. Cassazione. I giudici italiani in contrasto con la Corte dei diritti dell’uomo.
Un modesto intervento abusivo nell’isola d’Ischia è l’occasione per delimitare i confini tra la Corte di cassazione e la Corte europea dei diritti dell’uomo.
Con la sentenza 10.03.2016 n. 9949 (tratta da www.lexambiente.it) la III Sez. penale della Corte di Cassazione utilizza un banale abuso edilizio per rivendicare la generica possibilità che la magistratura penale possa disporre la demolizione di opere illegittime. Demolizione e confisca possono infatti essere disposte dal giudice penale anche senza una sentenza di condanna.
Spesso accade che i reati urbanistici, in quanto contravvenzioni (e non delitti) si prescrivano in termini brevi (4 anni, che diventano 5 se nei quattro anni inizia un procedimento penale). Il giudice penale, quindi, deve dichiarare estinto il reato, ma può sempre disporre la demolizione o la confisca (in caso di lottizzazione) dell’immobile abusivo.
Queste sanzioni, tuttavia, sembrano contrastare con la Convenzione sui diritti dell’uomo che, nell’articolo 7 e nell’articolo 1 del Protocollo n. 1 consentono pene afflittive solo se vi è una condanna penale. Se il reato è prescritto, osservano i giudici europei, non vi è condanna penale e, in conseguenza, non è possibile che il giudice penale intervenga sugli immobili. Avviene così che, tutte le volte che un magistrato penale ha disposto la confisca di immobili abusivi, i costruttori hanno utilizzato la scappatoia della prescrizione per sottrarsi all’eliminazione del bene. Un diverso potere sanzionatorio spetta ai Comuni, ma è nota l’inerzia di tali enti.
L’antagonismo tra l’autorità giudiziaria italiana e la Corte europea dei diritti dell’uomo è giunto a livelli incandescenti: la nostra Corte costituzionale nel marzo 2015 (sentenza 49) ha sottolineato che il giudice penale può confiscare immobili abusivi anche in presenza di reati prescritti, qualora la responsabilità penale sia stata accertata in tutti i suoi elementi (e quindi anche se manca una sentenza di condanna). In senso opposto, si è espressa la Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo sui ricorsi 19029/2011, 34163/2007 e 1828/2006.
I giudici nazionali, e in particolare la Cassazione (anche in questa sentenza), puntano ora sulla natura amministrativa della confisca, che quindi potrebbe avvenire anche senza una condanna penale. La confisca, secondo i giudici nazionali, è impermeabile a tutte le vicende estintive del reato e della pena: si confisca anche in caso di amnistia ed indulto, e finanche se muore il reo (dopo una sentenza irrevocabile).
Di fatto, quindi, i giudici penali intendono difendere a spada tratta l’assetto del territorio, compensando i brevi termini dell’estinzione del reato con la possibilità di confiscare o demolire l’immobile abusivo anche quando il reato è prescritto.
Ma altrettanto intransigente è la Corte dei diritti dell’uomo che non entra nel merito della pesantezza della sanzione penale, perché richiede che l’eliminazione dell’immobile sia la conseguenza di un accertamento effettivo, avvenuto con sentenza. L’abuso nell’isola d’Ischia sarà quindi demolito a meno che i giudici di Strasburgo non intervengano sul governo centrale
(articolo Il Sole 24 Ore dell'11.03.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).
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MASSIMA
In tema di reati edilizi, e specificamente in materia di ripristino o demolizione dello stato dei luoghi anteriore alla realizzazione del fabbricato abusivo, l’ordine di demolizione previsto dall’art. 31, ultimo comma, d.P.R. n. 380/2001 costituisce atto dovuto, espressivo di un potere autonomo e non meramente suppletivo del giudice penale.
Esso pertanto, ferma restando l’esigenza di coordinamento in fase esecutiva, non si pone in rapporto alternativo con l’ordine omologo impartito dalla pubblica amministrazione.
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4. Il quarto motivo è manifestamente infondato.
Invero, il ricorso censura l'omessa dichiarazione della prescrizione, ai sensi dell'art. 173 cod. pen., dell'ordine di demolizione, in quanto sanzione 'sostanzialmente penale', alla luce di una interpretazione 'convenzionalmente' conforme alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo.
La tesi è fondata, come noto, su una decisione, del tutto isolata, di un giudice di merito (Tribunale Asti, ordinanza del 03/11/2014, Delorier), che ha dichiarato l'estinzione per decorso del tempo dell'ordine di demolizione, sul presupposto che si trattasse non già di una sanzione amministrativa, bensì di una vera e propria "pena", nella declinazione 'sostanzialistica' fornita dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo; in tal senso, dunque, anche all'ordine di demolizione sarebbe applicabile l'art. 173 cod. pen. sulla prescrizione delle pene.
4.1. Ebbene, anche qualora si volesse accedere a tale ricostruzione, la censura proposta sarebbe palesemente infondata, in quanto non sarebbe decorso neppure il termine di cinque anni previsto per la prescrizione delle pene (principali).
Invero, se il dies a quo va individuato nella irrevocabilità della condanna (artt. 172, comma 3, e 173, comma 3, cod. pen.), che nella fattispecie è intervenuta il 20/04/2009, non risulta decorso il preteso termine di prescrizione dell'ordine di demolizione, in quanto l'ingiunzione è stata notificata il 13/01/2012.
4.2. In ogni caso, va evidenziato che la tesi della natura 'sostanzialmente penale' dell'ordine di demolizione, oltre ad essere, come si dirà, frutto di una applicazione del diritto eurounitario eccentrica rispetto al sistema costituzionale delle fonti, è infondata.
Al riguardo,
la giurisprudenza di legittimità ha elaborato una serie di principi che hanno costantemente ribadito la natura amministrativa della demolizione, quale sanzione accessoria oggettivamente amministrativa, sebbene soggettivamente giurisdizionale, esplicazione di un potere autonomo e non alternativo al quello dell'autorità amministrativa, con il quale può essere coordinato nella fase di esecuzione (ex multis, Sez. 3, n. 3685 del 11/12/2013 (dep. 2014), Russo, Rv. 258518; Sez. 3, n. 37906 del 22/05/2012, Mascia, non massimata; Sez. 6, n. 6337 del 10/03/1994, Sorrentino Rv. 198511; si vedano anche Sez. U, n. 15 del 19/06/1996, RM. in proc. Monter); in tale quadro, coerentemente è stata negata l'estinzione della sanzione per il decorso del tempo, ai sensi dell'art. 173 cod. pen., in quanto tale norma si riferisce alle sole pene principali, e comunque non alle sanzioni amministrative (Sez. 3, n. 36387 del 07/07/2015, Formisano, Rv. 264736; Sez. 3, n. 43006 del 10/11/2010, La Mela, Rv. 248670); ed altresì è stata negata l'estinzione per la prescrizione quinquennale delle sanzioni amministrative, stabilita dall'art. 28 l. 24.11.1981, n. 689, in quanto riguardante le sanzioni pecuniarie con finalità punitiva ("il diritto a riscuotere le somme ... si prescrive"), mentre l'ordine di demolizione integra una sanzione 'ripristinatoria', che configura un obbligo di fare, imposto per ragioni di tutela del territorio (Sez. 3, Sentenza n. 16537 del 18/02/2003, Filippi, Rv. 227176).
Ebbene,
la tesi della natura intrinsecamente penale della demolizione risulta fondata su una serie di indici 'diagnostici' della "materia penale", ovvero la pertinenzialità rispetto ad un fatto-reato, la natura penale dell'organo giurisdizionale che la adotta, l'indubbia gravità della sanzione e l'evidente finalità repressiva; sulla base di tali indici si afferma la natura penale, facendone poi discendere una disinvolta operazione di applicazione analogica dell'art. 173 cod. pen..
4.3. Nel solco di quanto già evidenziato da questa Corte di Cassazione (Sez. 3, n. 49331 del 10/11/2015, Delorier, non ancora massimata), nel sindacato di legittimità dell'ordinanza del Tribunale di Asti,
il quadro normativo che disciplina la demolizione delle opere abusive esclude, innanzitutto, che ricorra l'indice, indiziante la natura penale della misura, della pertinenzialità rispetto ad un fatto reato; invero, l'art. 27 d.P.R. 380 del 2001 disciplina la c.d. demolizione d'ufficio, disposta dall'organo amministrativo a prescindere da qualsivoglia attività finalizzata all'individuazione di responsabili, sul solo presupposto della presenza sul territorio di un immobile abusivo; una demolizione, dunque, che ha una finalità esclusivamente ripristinatoria dell'originario assetto del territorio.
L'art. 31 T.U. edil. disciplina l'ingiunzione alla demolizione delle opere abusive, adottata dall'autorità amministrativa nel caso non venga disposta la demolizione d'ufficio; in caso di inottemperanza, è prevista l'irrogazione di una sanzione amministrativa pecuniaria, e, comunque, l'acquisizione dell'opera abusiva al patrimonio del Comune, finalizzata alla demolizione 'in danno', a spese dei responsabili dell'abuso, salvo che con specifica deliberazione consiliare non venga dichiarata l'esistenza di prevalenti interessi pubblici, e sempre che l'opera non contrasti con rilevanti interessi urbanistici ed ambientali.
Il comma 9 del medesimo art. 31 prevede che la demolizione venga ordinata dal giudice con la sentenza di condanna, "se ancora non sia stata altrimenti eseguita".
Una lettura sistematica, e non solipsistica, della disposizione, dunque,
impone di ribadire la natura amministrativa, e la dimensione accessoria, ancillare, rispetto al procedimento penale, della demolizione, pur quando ordinata dal giudice penale; tant'è che, pur integrando un potere autonomo e non alternativo a quello dell'autorità amministrativa, nel senso che la demolizione deve essere ordinata dal giudice penale anche qualora sia stata già disposta dall'autorità amministrativa, l'ordine 'giudiziale' di demolizione coincide, nell'oggetto (l'opera abusiva) e nel contenuto (l'eliminazione dell'abuso), con l'ordine (o l'ingiunzione) 'amministrativo', ed è eseguibile soltanto "se ancora non sia stata altrimenti eseguita".
Pertanto,
se la 'demolizione d'ufficio' e l'ingiunzione alla demolizione sono disposte dall'autorità amministrativa, senza che venga revocata in dubbio la natura amministrativa, e non penale, delle misure, e senza che ricorra la pertinenzialità ad un fatto-reato, in quanto, come si è visto, la demolizione può essere disposta immediatamente, senza neppure l'individuazione dei responsabili, non può affermarsi che la 'demolizione giudiziale' -identica nell'oggetto e nel contenuto- muti natura giuridica solo in ragione dell'organo che la dispone.
Anche perché
è pacifico che l'ordine 'giudiziale' di demolizione è suscettibile di revoca da parte del giudice penale allorquando divenga incompatibile con provvedimenti amministrativi di diverso tenore (Sez. 3, n. 47402 del 21/10/2014, Chisci, Rv. 260972), in tal senso non mutuando il carattere tipico delle sanzioni penali, consistente nella irretrattabilità, ed è impermeabile a tutte le eventuali vicende estintive del reato e/o della pena (ad esso non sono applicabili l'amnistia e l'indulto, cfr. Sez. 3, n. 7228 del 02/12/2010 (dep.2011), D'Avino, Rv. 249309; resta eseguibile, qualora sia stato impartito con la sentenza di applicazione della pena su richiesta, anche nel caso di estinzione del reato conseguente al decorso del termine di cui all'art. 445, comma 2, cod. proc. pen., cfr. Sez. 3, n. 18533 del 23/03/2011, Abbate, Rv. 250291; non è estinto dalla morte del reo sopravvenuta all'irrevocabilità della sentenza, cfr. Sez. 3, n. 3861 del 18/1/2011, Baldinucci e altri, Rv. 249317).
Si tratta, dunque, della medesima sanzione amministrativa, adottabile parallelamente al procedimento amministrativo, la cui emissione è demandata (anche) al giudice penale all'esito dell'affermazione di responsabilità penale, al fine di garantire un'esigenza di celerità ed effettività del procedimento di esecuzione della demolizione.
Del resto,
anche la dottrina più consapevole ha sottolineato la differente finalità e natura delle misure amministrative previste a salvaguardia dell'assetto del territorio: la demolizione, infatti, è connotata da una finalità ripristinatoria, l'acquisizione gratuita del bene e dell'area di sedime e le sanzioni pecuniarie alternative alla demolizione hanno una finalità riparatoria dell'interesse pubblico leso, le sanzioni pecuniarie previste in caso di inottemperanza all'ingiunzione a demolire sono connotate da una finalità punitiva.
Viene, dunque, esclusa una natura punitiva della demolizione, che non può conseguire automaticamente dall'incidenza della misura sul bene. In tal senso, non sembra ricorrere neppure l'ulteriore 'indice diagnostico' della natura penale, ovvero la finalità repressiva, essendo pacifico che ciò che viene in rilievo è la salvaguardia dell'assetto del territorio, mediante il ripristino dello status quo ante
(Sez. 3, n. 36387 del 07/07/2015, Formisano, Rv. 264736: "In materia di reati concernenti le violazioni edilizie, l'ordine di demolizione del manufatto abusivo, avendo natura di sanzione amministrativa di carattere ripristinatorio, non è soggetto alla prescrizione stabilita dall'art. 173 cod. pen. per le sanzioni penali, né alla prescrizione stabilita dall'art. 28 legge n. 689 del 1981 che riguarda unicamente le sanzioni pecuniarie con finalità punitiva"); che non ricorra una finalità repressiva, del resto, è confermato altresì dalla possibilità di revoca della demolizione, allorquando gli interessi pubblici sottesi alla tutela del territorio siano diversamente ponderati dall'autorità amministrativa, divenendo incompatibili con l'esecuzione della misura ripristinatoria. L'attitudine di un interesse pubblico a paralizzare l'esecuzione della sanzione, dunque, sembra escluderne la asserita finalità repressiva.
4.4. L'altro profilo di perplessità che suscita l'interpretazione (asseritamente) conforme alla giurisprudenza 'eurounitaria' riguarda l'applicazione analogica della norma sulla prescrizione delle pene, che appare addirittura disinvolta.
4.4.1. L'applicazione analogica viene infatti fondata sulla sostanziale obliterazione ermeneutica dell'art. 14 delle Preleggi, sul rilievo che, poiché tale norma non può riferirsi a previsioni di favore, non occorre il presupposto dell'eadem ratio.
La delimitazione del divieto di analogia appare innanzitutto arbitraria, oltre che immotivatamente assertiva.
Se è vero, infatti, che il divieto di analogia in materia penale è considerato, dalla dottrina più attenta, relativo, concernente soltanto le norme penali sfavorevoli, nondimeno l'art. 14 Preleggi impedisce l'integrazione della norma mediante il procedimento analogico nei casi di norme eccezionali.
Al riguardo, la dottrina penalistica più accorta ritiene che il ricorso al procedimento analogico sia precluso rispetto alle cause di non punibilità (denominate anche "limiti istituzionali della punibilità") fondate su specifiche ragioni politico-criminali o su situazioni specifiche: in tal senso, l'analogia non sarebbe consentita rispetto alle immunità, alle cause di estinzione del reato e della pena, e alle cause speciali di non punibilità (ad es., il rapporto di famiglia rilevante ex art. 649 cod. pen.).
Già tale rilievo impedirebbe, dunque, l'applicazione analogica di una causa di esclusione della pena come la prescrizione disciplinata dall'art. 173 cod. pen..
4.4.2. Ma, in ogni caso, ciò che impedisce tale disinvolta operazione interpretativa è la carenza dei due presupposti dell'analogia, alla stregua della tradizionale e condivisa teoria generale del diritto: l'esistenza di una lacuna normativa e l'eadem ratio.
L'applicazione analogica, infatti, presuppone la carenza di un à norma nella indispensabile disciplina di una materia o di un caso (per riprendere la formula dell'art. 14 Prel.), che altrimenti la scelta di riempire un preteso vuoto normativo sarebbe rimesso all'esclusivo arbitrio giurisdizionale, con conseguente compromissione delle prerogative riservate al potere legislativo e del principio di divisione dei poteri dello Stato.
Nel caso di specie, non sembra scorgersi una lacuna normativa, non potendo ritenersi indefettibile la previsione di una causa estintiva della sanzione amministrativa della demolizione in conseguenza del decorso del tempo.
L'opzione di individuare una lacuna normativa, dunque, è del tutto arbitraria, e rimessa alle personali e soggettive scelte dell'interprete.
Del resto, l'assenza di una causa di estinzione è comune alla demolizione e ad altre sanzioni amministrative, e sarebbe irragionevole, e comunque arbitraria, un'applicazione analogica della prescrizione alla prima e non alle altre; anche perché mentre la prescrizione (del reato e della pena) in materia penale è legata alla tutela di interessi individuali (libertà personale e dignità umana) ed alla progressiva erosione dell'attitudine risocializzante della pena, in ragione del decorso del tempo (tempori cedere), nella materia lato sensu amministrativa il legislatore ragionevolmente può decidere di non dare rilevanza, in una o più fattispecie sanzionatorie, al decorso del tempo quale causa estintiva, in ragione della prevalenza di interessi pubblicistici oggetto di privilegiata considerazione normativa (nel caso di specie, la prevalenza è attribuita al ripristino dell'assetto del territorio).
Inoltre, manca anche l'eadem ratio, l'elemento di identità fra il "caso" previsto ed il "caso" non disciplinato, sulla quale la tesi della natura intrinsecamente penale della demolizione sorvola.
L'art. 173 cod. pen., infatti, disciplina l'"estinzione delle pene dell'arresto e dell'ammenda per decorso del tempo" (così come, analogamente, l'art. 172 cod. pen. disciplina la prescrizione delle pene della reclusione e della multa); la causa di estinzione, dunque, è limitata alle sole pene principali, non è una norma 'di favore' generale, applicabile, ad esempio, anche alle pene accessorie. A conferma, peraltro, della natura eccezionale della disposizione, già solo per tale motivo insuscettibile di applicazione analogica.
Non si scorge un motivo, ragionevole (inteso non già nella declinazione 'soggettiva', bensì costituzionale, di parità di trattamento di situazioni analoghe) e ancorato a criteri oggettivi, dunque, per applicare analogicamente la prescrizione alla sanzione della demolizione, e non alle pene accessorie -la cui natura penale, peraltro, oltre ad essere normativamente sancita, non è revocabile in dubbio- ovvero agli effetti penali della condanna.
La diversa natura e finalità delle pene principali, da un lato, e della demolizione, dall'altra, non consentono, infatti, di individuare un elemento di identità tra i due "casi" che consenta un'applicazione analogica della norma sulla prescrizione: è stato già evidenziato che mentre le pene 'principali' hanno una natura lato sensu 'repressiva', ed una finalità rieducativa (recte, risocializzante), ai sensi dell'art. 27, comma 3, Cost., la demolizione non ha una natura intrinsecamente 'repressiva', né persegue finalità risocializzanti, perseguendo invece una finalità ripristinatoria dell'assetto del territorio sulla quale le esigenze individuali legate all'oblio per il decorso del tempo risultano necessariamente soccombenti rispetto alla tutela collettiva di un bene pubblico (Sez. 3, n. 43006 del 10/11/2010, La Mela, Rv. 248670; Sez. 3, Sentenza n. 16537 del 18/02/2003, Filippi, Rv. 227176).
Alla stregua delle considerazioni che precedono, dunque, deve negarsi innanzitutto la natura intrinsecamente penale della demolizione, ed in secondo luogo la legittimità di un procedimento analogico, in assenza dei due presupposti della lacuna normativa e dell'eadem ratio.
4.5. Non ricorrendo gli estremi di una legittima analogia legis, secondo i canoni interpretativi tradizionalmente desunti dall'art. 14 Prel., si deve prendere in considerazione l'ipotesi che l'operazione 'interpretativa' a fondamento dell'applicazione analogica della prescrizione alla sanzione della demolizione sia in realtà frutto di una analogia iuris, nella quale si è proceduto alla (invero arbitraria) formulazione ed applicazione di principi generali dell'ordinamento, secondo i canoni desunti dall'art. 12 Prel..
E tuttavia anche tale procedimento interpretativo sarebbe frutto di una soggettiva ed arbitraria opzione politica dell'interprete, in assenza di una inequivocabile lacuna normativa.
Innanzitutto l'analogia iuris presupporrebbe la necessità di risolvere un "caso dubbio" -e non sembra il caso dell'estinzione della sanzione della demolizione-; in secondo luogo imporrebbe l'individuazione di un principio generale applicabile al 'caso dubbio': e non sembra che l'estinzione di una sanzione amministrativa (ma neppure penale) per il decorso del tempo possa plausibilmente integrare un principio generale dell'ordinamento, sia nazionale che sovranazionale.
Va al riguardo sempre rammentato che l'integrazione dell'ordinamento è solo residuale e succedanea all'interpretazione, e, se il caso non è dubbio, non è necessario ricorrere all'applicazione dei principi, in quanto è sufficiente l'applicazione della disposizione scritta.
4.6. Particolarmente attuale appare il monito, espresso anche da consapevole dottrina, che il diritto 'eurounitario', ed in particolare il diritto proveniente dalla giurisprudenza-fonte della Corte di Strasburgo, non venga adoperato dall'interprete alla stregua di un diritto à la carte, dal quale scegliere l'ingrediente ermeneutico ritenuto più adatto ad un'operazione di precomprensione interpretativa.
Il distorto utilizzo della giurisprudenza casistica delle Corti europee, infatti, può condurre, come nel caso dell'applicazione analogica della prescrizione alla demolizione, a compiere una "disanalogia", con la quale si universalizza arbitrariamente la portata di un principio affermato in un determinato contesto. In realtà, il principale ostacolo al procedimento analogico adoperato nell'applicazione della prescrizione alla demolizione risiede nel limite 'logico' del tenore lessicale della disposizione di cui all'art. 173 cod. pen.; una norma dall'univoco significato letterale, che non consente esiti ermeneutici contra legem, e che impedisce la (sovente malintesa) interpretazione conforme.
Per impedire forme di "normazione mascherata", infatti, il nostro sistema costituzionale delle fonti, come interpretato nel diritto vivente della Corte costituzionale, ha chiarito, fin dalle c.d. "sentenze gemelle" (n. 348 e 349 del 2007), che il diritto CEDU non è direttamente applicabile; il giudice comune, infatti, ha la sola alternativa di esperire una interpretazione "convenzionalmente conforme" della norma nazionale, ove percorribile, ovvero proporre una questione di legittimità costituzionale, adoperando il diritto CEDU quale parametro interposto di legittimità, ai sensi dell'art. 117 Cost. (Corte Cost. n. 80 del 2011).
Ebbene, nel caso di specie, poiché la norma sulla prescrizione delle pene non appare suscettibile né di applicazione analogica, né tanto meno di interpretazione 'convenzionalmente conforme', a tanto ostandovi l'univoco tenore lessicale (che limita la prescrizione alle pene 'principali'), il giudice comune, ove avesse avuto un fondato dubbio di costituzionalità della norma, per l'omessa previsione di una causa estintiva della demolizione, in virtù della ritenuta natura penale della stessa, avrebbe potuto percorrere l'unica strada della proposizione di una questione di costituzionalità.
5. Va dunque riaffermato il seguente principio di diritto: "
la demolizione del manufatto abusivo, anche se disposta dal giudice penale ai sensi dell'art. 31, comma 9, qualora non sia stata altrimenti eseguita, ha natura di sanzione amministrativa, che assolve ad un'autonoma funzione ripristinatoria del bene giuridico leso, configura un obbligo di fare, imposto per ragioni di tutela del territorio, non ha finalità punitive ed ha carattere reale, producendo effetti sul soggetto che è in rapporto con il bene, indipendentemente dall'essere stato o meno quest'ultimo l'autore dell'abuso. Per tali sue caratteristiche la demolizione non può ritenersi una «pena» nel senso individuato dalla giurisprudenza della Corte EDU e non è soggetta alla prescrizione stabilita dall'art. 173 cod. pen.".

PUBBLICO IMPIEGOL’assenza al controllo non giustifica il licenziamento. Cassazione. Il mancato rispetto delle fasce di reperibilità.
Non costituisce condotta inadempiente del lavoratore assente per malattia la circostanza di non essere stato presente alla visita di controllo domiciliare nelle fasce di reperibilità pomeridiana e di non essersi, quindi, presentato il giorno successivo alla visita ambulatoriale, in quanto il medesimo lavoratore era stato sottoposto a visita di controllo presso la Asl nella mattinata precedente.
È questa la conclusione alla quale è pervenuta la Corte di Cassazione -Sez. lavoro- con sentenza 10.03.2016 n. 4695, nella quale è stata censurata la decisione della Corte d'appello di Milano che aveva ritenuto legittimo il licenziamento disciplinare irrogato ad un lavoratore, tra l'altro, per essere stato assente dal domicilio nella fascia di reperibilità pomeridiana e per non aver adempiuto all'avviso del medico di presentarsi all'ambulatorio della Asl la mattina seguente.
Ad avviso della Cassazione, nonostante il dovere di presenza che incombe sul lavoratore in malattia nelle fasce di reperibilità, l'assenza dal domicilio accertata dal medico fiscale è priva di rilievo disciplinare nel caso in cui il medesimo dipendente si era già recato presso la struttura ospedaliera nello stesso giorno, a seguito di una assenza dal domicilio riscontrata dal medico fiscale il giorno immediatamente precedente.
Il caso sul quale è stata chiamata a pronunciarsi la Cassazione è relativo, in questo senso, a un lavoratore che il 06.04.2009 non era stato trovato presso l'abitazione dal medico fiscale, che aveva lasciato avviso nella cassetta postale di presentarsi il giorno successivo presso l'ambulatorio Asl per la visita di controllo.
La mattina seguente, 7 aprile, il lavoratore si era recato presso l'ambulatorio, dove era stata confermata la non idoneità a riprendere il lavoro. Quello stesso giorno, nel pomeriggio, una nuova visita fiscale era stata tentata presso l'abitazione del lavoratore, il quale ancora una volta non era stato trovato a casa.
Anche in questo caso, il medico fiscale aveva lasciato l'avviso di recarsi alla Asl la mattina dopo per la visita di controllo, ma il lavoratore non si era presentato. Alla luce di queste circostanze, il datore di lavoro aveva deciso di licenziare il dipendente per non essere stato rispettato, da un lato, l'obbligo di presenza durante le fasce di reperibilità pomeridiane e, d'altro lato, per non essersi presentato il lavoratore alla visita ambulatoriale di controllo la mattina successiva. La sanzione espulsiva era stata ritenuta giustificata sia in primo che in secondo grado.
La Corte di Cassazione non è dello stesso avviso e ritiene che, essendosi sottoposto il lavoratore alla visita ambulatoriale nel corso della mattina, nel pomeriggio dello stesso giorno non era più tenuto a sottoporsi a visita fiscale nelle fasce di reperibilità e, per la stessa ragione, neppure era tenuto ad effettuare la visita ambulatoriale di controllo il giorno dopo
(articolo Il Sole 24 Ore del 12.03.2016).
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MASSIMA
6. Nel valutare la proporzionalità della sanzione espulsiva in relazione alle predette violazioni, oggetto della contestazione disciplinare, la Corte di merito ha rilevato che il comportamento inadempiente del lavoratore da solo non era tale da giustificare la sanzione del licenziamento, ancorché con preavviso, ma che a tale conclusione doveva invece pervenirsi sulla base della recidiva, pure contestata, avente ad oggetto quattro (delle sei originarie) precedenti contestazioni.
La prima riguardava il comportamento irrispettoso tenuto nei confronti dei colleghi di lavoro ("il ricorrente cantava ad alta voce nei reparti produttivi"); la seconda l'utilizzo del telefono durante l'orario di lavoro ("guardava le foto"); la terza la tardiva consegna della certificazione medica riguardante un giorno di assenza; la quarta una condotta non consona al luogo di lavoro (aveva ripetutamente cantato e fischiato a voce alta per diversi minuti).
Sennonché,
secondo la giurisprudenza di questa Corte, in tema di licenziamento, la valutazione della gravità del fatto non va operata in astratto, ma con riferimento agli aspetti concreti afferenti alla natura e alla qualità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidabilità richiesto dalle singole mansioni, nonché alla portata soggettiva del fatto, ossia alle circostanze del suo verificarsi, ai motivi e all'intensità dell'elemento intenzionale e di quello colposo (Cass. 26.07.2011 n. 16283; Cass. 01.03.2011 n. 5019; Cass. 03.01.2011 n. 35).
Ed ancora,
la gravità dell'inadempimento deve essere valutata nel rispetto della regola generale della "non scarsa importanza" di cui all'art. 1455 c.c., sicché la sussistenza in concreto di una giusta causa di licenziamento va accertata in relazione sia della gravità dei fatti addebitati al lavoratore -desumibile dalla loro portata oggettiva e soggettiva, dalle circostanze nelle quali sono stati commessi nonché dall'intensità dell'elemento intenzionale-, sia della proporzionalità tra tali fatti e la sanzione inflitta (Cass. 10.12.2007 n. 25743; Cass. 04.03.2013 n. 5280; Cass. 16.10.2015 n. 21017).
La Corte di merito, nel ritenere la sanzione espulsiva proporzionata alla entità dei fatti, non ha sufficientemente dato conto del suo convincimento, non considerando che il ricorrente, dopo il primo accesso del medico fiscale, rimasto senza esito, si recò, per la visita di controllo, come da avviso immesso dallo stesso medico nella cassetta postale, presso l'ambulatorio di Laveno-Mombello, dove venne riscontrata la sua inidoneità a riprendere servizio.
Non ha altresì chiarito la Corte territoriale perché, una volta effettuata la visita fiscale, il ricorrente era tenuto a sottoporsi il pomeriggio dello stesso giorno o il giorno successivo ad una seconda visita fiscale.
Infine, non ha spiegato se nella condotta del ricorrente fosse ravvisabile l'elemento intenzionale, e cioè la volontà di sottrarsi alla visita fiscale, una volta che la mattina del secondo accesso del medico fiscale si era recato presso l'ambulatorio di Laveno-Mombello, sottoponendosi a visita.
Si impone pertanto la cassazione della sentenza impugnata, con rinvio al giudice indicato in dispositivo per un nuovo esame, dovendosi aggiungere che priva di rilevanza è la censura formulata con il quarto motivo, atteso che la Corte di merito non ha tenuto conto, ai fini della recidiva, delle due sanzioni disciplinari dichiarate illegittime dal Tribunale, ancorché tale statuizione, contenuta in motivazione, non sia stata riportata nel dispositivo della sentenza di primo grado.

EDILIZIA PRIVATAL’art. 36 del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380 dispone che il permesso in sanatoria è ottenibile soltanto «se l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda».
La domanda di sanatoria presuppone che la parte dimostri la conformità delle opere alle prescrizioni urbanistiche vigenti al momento della presentazione della domanda e al momento della realizzazione dell’opera. L’amministrazione valuta, poi, se la dichiarazione è conforme a legge.

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4.– Con un ulteriore motivo si assume l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui ha rigettato il terzo motivo del ricorso. A tale proposito, si deduce come il Tribunale amministrativo avrebbe “travisato” il contenuto del provvedimento impugnato, in quanto il Comune non ha accertato la mancanza della doppia conformità per contrasto con il nuovo piano adottato. Si aggiunge come sarebbe illegittimo il provvedimento impugnato nella parte in cui ha ritenuto necessario dimostrare la doppia conformità.
Il motivo non è fondato.
L’art. 36 del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia) dispone che il permesso in sanatoria è ottenibile soltanto «se l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda».
L’amministrazione ha, pertanto, correttamente ritenuto necessario che, al fine di potere considerare la domanda come variante in sanatoria, fosse necessario la dimostrazione della doppia conformità. Né varrebbe rilevare che tale regola non sarebbe applicabile in presenza di “varianti proprie” né che fosse onere dell’amministrazione dimostrare la doppia conformità.
In relazione al primo aspetto, l’art. 36 non pone limitazioni di sorta con riferimento all’ambito applicativo della regola della doppia conformità.
In relazione al secondo aspetto, la domanda di sanatoria presuppone che la parte dimostri la conformità delle opere alle prescrizioni urbanistiche vigenti al momento della presentazione della domanda e al momento della realizzazione dell’opera. L’amministrazione valuta, poi, se la dichiarazione è conforme a legge.
In questo contesto, dimostrata la legittimità della valutazione amministrativa basata su quanto esposto, il denunciato “travisamento” da parte del primo giudice del contenuto del provvedimento impugnato non assume rilievo (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 09.03.2016 n. 936 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sottotetti: è irrilevante l'altezza interna superiore di 1 cm alle N.T.A..
Il TAR Lombardia-Milano sottolinea come
la norma delle N.T.A. in forza della quale i locali sottotetto non debbano essere computati come abitabili quando l’altezza interna netta media sia inferiore a metri 2,10, sia da considerarsi rispettata quando la violazione è per un solo centimetro e in un solo locale.
Nella fattispecie i ricorrenti contestano la legittimità del titolo edilizio in quanto l’altezza dell’edificio non sarebbe di 12 metri -come previsto dalle norme locali-, bensì maggiore, in quanto il locale sottotetto sarebbe in realtà abitabile nella misura in cui non rispettoso della disposizione contenuta nelle N.T.A. in forza del quale i soppalchi e i sottotetti non sono computati ai fini della superficie lorda di pavimento (s.l.p.), se hanno un’altezza interna netta media inferiore a metri 2,10.
Evidenzia il il TAR, rigettando il ricorso, come nel caso di specie la contestazione secondo cui vi sarebbe una violazione delle NTA a fronte di un aumento di un solo centimetro rispetto al limite massimo (2,10 anziché 2,09 metri) e per un solo locale, sia:
• irrilevante nella misura in cui talmente minimale, in quanto riferita non a tutto il sottotetto ma solo ad uno dei locali, così da non poter portare all’annullamento dell’intero titolo edilizio;
• in ogni caso infondata, perché l’altezza massima inferiore a 2,10 metri deve essere calcolata tenendo conto della media di tutti i locali costituenti il sottotetto e non di un solo locale e per tale profilo, il limite previsto dall’art. 4 delle NTA è rispettato (commento tratto da http://studiospallino.blogspot.it  - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 09.03.2016 n. 482 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAToscana bacchettata sulla Scia. Dalla consulta.
Le regioni non possono esercitare poteri sanzionatori per la repressione degli abusi edilizi, oltre il termine di 30 giorni dalla presentazione della Scia, per un numero di ipotesi più ampio rispetto a quello previsto dalla normativa nazionale. Il «governo del territorio» costituisce infatti una materia di competenza concorrente stato-regioni in cui i principi fondamentali stabiliti dalla legislazione statale non possono essere derogati dalla normativa regionale.

Lo ha stabilito la Consulta nella sentenza 09.03.2016 n. 49, depositata ieri in cancelleria, che ha dichiarato illegittimo l'art. 84-bis, comma 2, lett. b), della legge regionale toscana n. 1/2005 (come modificata dalla lr n. 40/2011) nella parte in cui prevedeva che nei casi di Scia, decorso il termine di 30 giorni, possono essere adottati «provvedimenti inibitori e sanzionatori» in caso di «difformità dell'intervento dalle norme urbanistiche o dalle prescrizioni degli strumenti urbanistici generali, degli atti di governo del territorio o dei regolamenti edilizi».
A dubitare della legittimità della norma è stato il Tar Toscana che ha dovuto esaminare il ricorso di un privato contro l'ordinanza con cui il comune di Firenze, dopo aver dichiarato inefficace la Dia/Scia presentata dal ricorrente, aveva disposto la rimessione in pristino.
Secondo i giudici amministrativi la normativa regionale, che costituiva il presupposto giuridico dell'ordinanza, finiva per attribuire al comune un generale potere di controllo e non di autotutela come invece previsto dalla normativa statale (art. 19, comma 3, della legge 241/1990).
La Corte costituzionale ha condiviso i dubbi del Tar. I giudici delle leggi hanno infatti ricordato che «i titoli abilitativi agli interventi edilizi costituiscono oggetto di una disciplina che assurge a principio fondamentale e tale valutazione deve ritenersi valida anche per la Denuncia di inizio attività (Dia) e per la Scia
».
La regione Toscana, invece, secondo la Consulta, «ha introdotto una normativa sostitutiva dei principi fondamentali dettati dal legislatore statale», invadendo così la riserva di competenza statale» (articolo ItaliaOggi del 10.03.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTIAntimafia, l'alt non si estende in automatico. In un raggruppamento di imprese.
Se in un raggruppamento temporaneo di imprese una di esse viene colpita da una interdittiva antimafia non è automatico ritenere che vi sia un rischio di infiltrazione malavitosa anche per le altre imprese del raggruppamento.

È quanto chiarisce il Consiglio di Stato, Sez. III con la sentenza 07.03.2016 n. 923 che prende in considerazione una fattispecie concernente i commi 18 e 19 dell'articolo 37 del codice dei contratti.
Le due disposizioni prevedono che quando una misura interdittiva antimafia colpisce un'impresa mandante o mandataria di un raggruppamento la stazione appaltante può proseguire il rapporto contrattuale con l'impresa superstite a patto che siano soddisfatti i requisiti di qualificazione richiesti dal bando.
Il Consiglio di stato spiega che la ratio della norma risiede nel fatto che il legislatore ha voluto contemperare l'esigenza del prosieguo dell'iniziativa economica delle imprese in forma associata con quelle afferenti alla sicurezza e all'ordine pubblico connesse alla repressione dei fenomeni di stampo mafioso tutte le volte in cui, a seguito di misure interdittive si arriva all'allontanamento delle imprese in pericolo di condizionamento mafioso.
Ciò premesso la sentenza afferma anche che non può desumersi dalle norme vigenti l'applicazione di forme di esclusione «automatica» dell'intero raggruppamento e delle imprese raggruppate, in considerazione della sussistenza di rischi di infiltrazione mafiosa. Non è possibile argomentare in tale senso perché non può essere sufficiente il solo fatto che una impresa si fosse associata ad altra impresa ritenuta controindicata per ritenere automaticamente estesa anche agli altri concorrenti la situazione di infiltrazione.
Viceversa occorre, dicono i giudici, valutare caso per caso la «vicinanza» tra una impresa controindicata ed una impresa oggetto di valutazione nel procedimento volto alla definizione di un provvedimento interdittivo, facendo riferimento «alle concrete vicende collaborative tra le due imprese, che vanno adeguatamente approfondite allo scopo di accertare la sussistenza di fattori oggettivi di condizionamento, non della impresa controindicata rispetto a quella in valutazione, ma da parte delle medesime organizzazioni criminali che hanno compromesso la posizione della prima» (articolo ItaliaOggi dell'11.03.2016).
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16. Ciò posto, il Collegio ritiene che la sentenza appellata, riguardo all’accoglimento del ricorso introduttivo, meriti conferma.
16.1. Posto che EC.CA. aveva partecipato in r.t.i. con la Al.Pa. alla gara per l’affidamento del servizio di igiene urbana di Marcianise, appare fisiologica e corrispondente alla prassi aziendale la costituzione di una società consortile per l’esecuzione unitaria delle prestazioni appaltate.
Si tratta infatti di una “società strumento” o “società operativa”, riconducibile al modello tipizzato dagli artt. 93 (per i lavori) e 276 (per i servizi) del d.P.R. 207/2000, costituita da operatori economici riuniti in associazione temporanea, per assicurare una procedura coordinata e rapida per eseguire in modo unitario l’appalto.
16.2. Coglie pertanto un dato non decisivo, il rilievo –sul quale è incentrato l’appello dell’Amministrazione– che la società consortile comporta un vincolo associativo stabile e duraturo, risultando per contro plausibile che, in simili casi, qualora venga estromesso un componente del r.t.i. per i motivi consentiti dalla legge, parimenti lo stesso sia destinato ad essere escluso dalla società strumento.
16.3.
Ai sensi dell’art. 37, commi 18 e 19, del Codice dei contratti (nel testo integrato dal d.lgs. 113/2007), quando una misura interdittiva antimafia colpisce un’impresa mandante o mandataria di un r.t.i., è consentito all’Amministrazione di proseguire il rapporto di appalto con l’impresa superstite (naturalmente, alle condizioni del possesso dei necessari requisiti di qualificazione richiesti dal bando).
Dette disposizioni (mai modificate, nonostante le diverse novellazioni del Codice dei contratti successive al d.lgs. 159/2011) confermano la ratio, già insita nell’art. 12 del d.P.R. 252/1998, di contemperare il prosieguo dell’iniziativa economica delle imprese in forma associata con le esigenze afferenti alla sicurezza e all’ordine pubblico connesse alla repressione dei fenomeni di stampo mafioso, ogni volta che, a mezzo di pronte misure espulsive, si determini volontariamente l’allontanamento e la sterilizzazione delle imprese in pericolo di condizionamento mafioso
(cfr. Cons. Stato, VI, n. 7345/2010; per la giurisprudenza di primo grado, TAR Campania, I, n. 94/2015; n. 4815/2012).
16.4.
Sembra corretto desumere, da dette ultime disposizioni, l’esclusione di qualsiasi “automatica” considerazione della sussistenza di rischi di infiltrazione mafiosa in capo ad una impresa per il solo fatto che si fosse associata ad altra impresa ritenuta controindicata; e ritenere, conseguentemente, che la “vicinanza” tra una impresa controindicata ed una impresa oggetto di valutazione nel procedimento volto alla definizione di un provvedimento interdittivo vada apprezzata caso per caso, in relazione alle concrete vicende collaborative tra le due imprese, che vanno adeguatamente approfondite allo scopo di accertare la sussistenza di fattori oggettivi di condizionamento, non della impresa controindicata rispetto a quella in valutazione, ma da parte delle medesime organizzazioni criminali che hanno compromesso la posizione della prima.

ATTI AMMINISTRATIVIQuando la notificazione di un atto è effettuata nei confronti del legale rappresentante pro-tempore di un soggetto giuridico, presso la sua sede, non può determinare la nullità dell’atto l’errata indicazione nominativa (o l’errata qualifica) di tale rappresentante.
Infatti la notificazione è indirizzata al soggetto giuridico e non alla persona fisica che temporaneamente ricopre l’ufficio.

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12.- Con il secondo motivo di appello la società Do., dopo aver ricordato che le ordinanze di sospensione dei lavori, asseritamente valevoli come comunicazione di avvio del procedimento, erano state notificate al signor Mo.Fr., quale rappresentante legale della società (all’epoca già in fase di liquidazione), anziché alla liquidatrice dr.ssa Lu.Lo., ha sostenuto che erroneamente il TAR ha ritenuto infondato il motivo con il quale aveva lamentato che entrambe le ordinanze impugnate, quali provvedimenti finali dell’iter procedimentale, dovevano ritenersi illegittime a causa del vizio invalidante dell’erronea notificazione e della conseguente omessa comunicazione dell’avvio del procedimento.
Anche tale motivo non è fondato.
12.1.- Preliminarmente si deve osservare che quando la notificazione di un atto è effettuata nei confronti del legale rappresentante pro-tempore di un soggetto giuridico, presso la sua sede, non può determinare la nullità dell’atto l’errata indicazione nominativa (o l’errata qualifica) di tale rappresentante. Infatti la notificazione è indirizzata al soggetto giuridico e non alla persona fisica che temporaneamente ricopre l’ufficio (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 07.03.2016 n. 906 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPer giurisprudenza pacifica, i provvedimenti repressivi di abusi edilizi non necessitano della previa comunicazione di avvio del procedimento, di cui all’art. 7 della legge n. 241 del 1990, trattandosi di atti a contenuto vincolato.
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12.2.- Sempre, in via preliminare, si deve poi ricordare che, per giurisprudenza pacifica, i provvedimenti repressivi di abusi edilizi non necessitano della previa comunicazione di avvio del procedimento, di cui all’art. 7 della legge n. 241 del 1990, trattandosi di atti a contenuto vincolato (da ultimo, Consiglio di Stato, Sez. VI, 09.02.2016, n. 554).
12.3.- Ciò premesso, nella fattispecie, come emerge dagli atti di causa (e come ha affermato il TAR) non solo il Comune di Ficulle ha garantito la partecipazione di rappresentati della società appellante ai diversi atti del procedimento ma la stessa società ha dimostrato di avere avuto piena e tempestiva conoscenza di tali atti (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 07.03.2016 n. 906 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Offerta incompleta. Cauzione ne soffre.
L'impresa che presenta l'offerta incompleta per l'appalto perde parte della cauzione depositata anche se si ritira dalla gara. E ciò perché a far scattare la sanzione di cui agli articoli 38, comma 2-bis, e 46, comma 1-ter, del codice dei contratti pubblici basta che la documentazione risulti insufficiente, al di là dei successivi sviluppi della procedura, perché serve a evitare «inutili aggravi procedimentali»: l'impresa che non si avvale del soccorso istruttorio per mettersi in regola, dunque, deve rassegnarsi all'escussione parziale della polizza fideiussoria depositata a garanzia della cauzione quando si candidò all'appalto.

È quanto emerge dalla sentenza 29.02.2016 n. 66, pubblicata dalla I Sez. del TAR Emilia Romagna-Parma.
Sono dolori per l'azienda che non risulta a posto con l'autorità anticorruzione e con la normativa a tutela dei diversamente abili: nell'offerta manca il codice Passoe di registrazione presso il servizio Avcpass, il sistema di controllo dei requisiti per ottenere lavori pubblici targato Anac; la società paga la sanzione pecuniaria pari allo 0,5% dell'importo posto a base di gara.
E ciò benché in sede cautelare sia scattata la sospensione: la multa era stata ritenuta «inutilmente afflittiva» proprio perché l'impresa aveva deciso di abbandonare la gara, invece che servirsi del soccorso istruttorio introdotto dalla legge 114/2014 sulle semplificazioni amministrative.
Oggi i giudici spiegano invece che la sanzione serve solo a garantire «offerte serie e ponderate» negli appalti, al di là del perdurante interesse alla gara (articolo ItaliaOggi del 10.03.2016).
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MASSIMA
Il ricorso è infondato.
L’art. 38, comma 2-bis, del D.Lgs. n. 163/2006 dispone che “
la mancanza, l'incompletezza e ogni altra irregolarità essenziale degli elementi e delle dichiarazioni sostitutive di cui al comma 2 obbliga il concorrente che vi ha dato causa al pagamento, in favore della stazione appaltante, della sanzione pecuniaria stabilita dal bando di gara, in misura non inferiore all'uno per mille e non superiore all'uno per cento del valore della gara e comunque non superiore a 50.000 euro, il cui versamento è garantito dalla cauzione provvisoria. In tal caso, la stazione appaltante assegna al concorrente un termine, non superiore a dieci giorni, perché siano rese, integrate o regolarizzate le dichiarazioni necessarie, indicandone il contenuto e i soggetti che le devono rendere. … In caso di inutile decorso del termine di cui al secondo periodo il concorrente è escluso dalla gara”.
L’art. 46, comma 1-ter della medesima fonte normativa prevede che “
le disposizioni di cui all'articolo 38, comma 2-bis , si applicano a ogni ipotesi di mancanza, incompletezza o irregolarità degli elementi e delle dichiarazioni, anche di soggetti terzi, che devono essere prodotte dai concorrenti in base alla legge, al bando o al disciplinare di gara”.
L’attuale formulazione delle richiamate norme trova fonte nella L. n. 114/2014 che è intervenuta in materia di “soccorso istruttorio” prevedendo una procedimentalizzazione dell’istituto tesa a prevenire esclusioni determinate da mere omissioni documentali sanabili in corso di gara senza eccessivi aggravi, contemperando in tal modo i principi di massima partecipazione e di par condicio che, in ragione dell’altalenante prevalere dell’uno sull’altro, avevano determinato una posizione ondivaga della giurisprudenza.
Così individuata in estrema sintesi la ratio della novella occorre tuttavia individuare il presupposto al verificarsi del quale si legittima la misura sanzionatoria in questione.
La ricorrente lo riconosce nell’effettivo sfruttamento della riconosciuta possibilità di rimanere in gara nonostante l’irregolarità commessa; l’Amministrazione, invece, lo individua nella sola incompletezza documentale indipendentemente dalle successive vicende concorsuali legate alla permanenza o meno della concorrente in gara.
Il dato testuale della norma, a parere del collegio, depone chiaramente in favore della tesi della resistente.
La norma, infatti, come già evidenziato, prevede nel primo periodo che “la mancanza, l'incompletezza e ogni altra irregolarità essenziale … obbliga il concorrente che vi ha dato causa al pagamento…” palesando in tal modo la volontà del legislatore di ricollegare l’effetto sanzionatorio alla sola incompletezza documentale senza subordinarlo a successive valutazioni della concorrente in ordine alla persistenza di un proprio eventuale interesse a permanere in gara.
Diversamente opinando ne risulterebbe svilita la funzione della norma che, come correttamente eccepito dalla resistente, persegue, altresì, l’obiettivo di indurre i concorrenti alla presentazione di offerte serie e ponderate evitando inutili aggravi procedimentali.
La previsione contenuta nella seconda parte della disposizione normativa in commento (“In tal caso, la stazione appaltante assegna al concorrente un termine …” ammonendo che “In caso di inutile decorso del termine di cui al secondo periodo il concorrente e' escluso dalla gara”) disciplina la successiva fase della (eventuale) integrazione documentale da parte del concorrente i cui esiti determinano, in alternativa, l’ammissione o l’esclusione del medesimo dalla procedura.
In ogni caso si tratta di un segmento procedurale che segue l’accertata carenza documentale cui la disposizione normativa (primo periodo) ricollega l’effetto dell’applicazione della sanzione come, peraltro, riconosciuto dalla già richiamata giurisprudenza (v. sentenza n. 784/2015, cit.).
Per quanto precede il ricorso deve essere respinto.

APPALTI: Per gli appaltatori Durc regolare a partire dall’offerta. Consiglio di Stato. Niente regolarizzazioni postume.
L’adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con la sentenza 29.02.2016 n. 5 e sentenza 29.02.2016 n. 6, conferma l’irrilevanza della regolarizzazione postuma in caso di Durc negativo.
Anche dopo l’entrata in vigore dell’articolo 31, comma 8, del Decreto legge 21.06.2013 n. 69, (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia), convertito con modificazioni dalla Legge 09.08.2013, n. 98, non sono consentite regolarizzazioni postume della posizione previdenziale.
L’impresa, infatti, deve essere in regola con l’assolvimento degli obblighi previdenziali ed assistenziali fin dalla presentazione dell’offerta e conservare tale stato per tutta la durata della procedura di aggiudicazione e del rapporto con la stazione appaltante, restando dunque irrilevante, un eventuale adempimento tardivo dell’obbligazione contributiva.
L'istituto dell’invito alla regolarizzazione (il cosiddetto preavviso di Durc negativo), spiegano i giudici, «può operare solo nei rapporti tra impresa ed Ente previdenziale, ossia con riferimento al Durc chiesto dall’impresa e non anche al Durc richiesto dalla stazione appaltante per la verifica della veridicità dell’autodichiarazione resa ai sensi dell’art. 38, comma 1, lettera i), ai fini della partecipazione alla gara d’appalto»
L’adunanza plenaria del Consiglio di Stato risponde a due ordinanze della quarta sezione del 29 settembre e scioglie un contrasto giurisprudenziale. La plenaria conferma un precedente orientamento e afferma che l’assenza del requisito della regolarità contributiva e previdenziale alla data di presentazione dell’offerta costituisce causa di esclusione, dovendo l’impresa essere in regola con gli obblighi previdenziali e assistenziali fin dalla presentazione dell’offerta e conservare tale stato per tutta la durata della procedura di aggiudicazione e del rapporto con la stazione appaltante, restando dunque irrilevante, un eventuale adempimento tardivo dell’obbligazione contributiva
La Plenaria, inoltre, ribadisce nella sentenza n. 5 del 2016, il proprio orientamento secondo cui l'incameramento della cauzione provvisoria previsto dall'articolo 48 del Codice dei contratti pubblici, costituisce una conseguenza automatica del provvedimento di esclusione, conte tale non suscettibile di alcuna valutazione discrezionale con riguardo ai singoli casi concreti
(articolo Il Sole 24 Ore del 02.03.2016).

APPALTII requisiti dei concorrenti devono corrispondere. In un raggruppamento orizzontale.
In un appalto pubblico, se i concorrenti partecipano in raggruppamento orizzontale, deve esserci corrispondenza fra requisiti di partecipazione e le parti del servizio da svolgere.

Lo ha affermato il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 25.02.2016 n. 786 che affronta un tema molto delicato inerente la corrispondenza fra requisiti ed esecuzione delle prestazioni in caso di raggruppamenti cosiddetti orizzontali.
La delicatezza del caso deriva dal fatto che la legge vigente esclude la necessità di corrispondenza fra requisiti in possesso dei concorrenti raggruppati e parti del servizio che ogni soggetto deve svolgere.
Nel caso specifico la prestazione oggetto dell'appalto consisteva nell'effettuazione dei controlli sulla qualità delle acque erogate dagli acquedotti, una prestazione che i giudici definiscono «unica non frazionabile se non quantitativamente».
La sentenza afferma che ogni impresa riunita che dichiara, in percentuale, il possesso di tutti i requisiti è tenuta a svolgere le prestazioni nella misura in cui risulta qualificata. Se, dice la sentenza, si ammettesse la possibilità che non tutti i soggetti costituenti un raggruppamento orizzontale potessero eseguire, sia pure pro quota, la prestazione oggetto dell'appalto senza assicurare il rispettivo possesso dei requisiti tecnici richiesti dalla lex specialis, si avrebbe la conseguenza che una parte delle prestazioni non sarebbe eseguita nel rispetto di uno dei requisiti richiesti dalla lex specialis.
In particolare, la disciplina di gara richiedeva che le analisi venissero svolte presso laboratori accreditati, ma la mandante dell'associazione temporanea, pur avendo indicato una percentuale di tutti i requisiti, come la mandataria, non era dotata della necessaria qualificazione.
La tesi affermata dai giudici non viene ritenuta tale da determinare alcuna disparità di trattamento rispetto ad altre modalità di raggruppamento, perché una diversa disciplina del possesso dei requisiti discende dalla scelta dei concorrenti di partecipare in forma singola o associata, in modo orizzontale o verticale, alla procedura di gara (articolo ItaliaOggi del 04.03.20).
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MASSIMA
7. L’appello è infondato e non può essere accolto.
7.1. Quanto alla prima doglianza, il Tribunale amministrativo ha offerto puntuale risposta al primo motivo del ricorso introduttivo, con il quale l’odierna appellante denunciava l’illegittimità del provvedimenti di esclusione a suo carico e della lex specialis nell’interpretazione offerta dalla commissione di gara circa i requisiti tecnico organizzativi richiesti alle ATI orizzontali. Pertanto, non può essere positivamente apprezzata la prima doglianza dell’appello nella misura in cui paventa una violazione del principio dispositivo.
Allo stesso tempo risulta corretta l’assunto del primo giudice, secondo cui l’art. 1.6. del disciplinare di gara nel disporre che in relazione ai raggruppamenti temporanei “il soddisfacimento dei requisiti di cui ai paragrafi 1.4 e 1.5 sarà accertato con riferimento al raggruppamento nel suo complesso”, non può che riferirsi in ipotesi di raggruppamenti temporanei orizzontali ai requisiti frazionabili, tra i quali non può rientrare l’accreditamento del laboratorio di analisi.
Né può desumersi una contrarietà rispetto a quanto prescritto dall’art. 275, d.P.R. n. 207 del 2010, secondo il quale: “Per i soggetti di cui all'articolo 34, comma 1, lettere d), e), f), e f-bis), del codice, il bando individua i requisiti economico-finanziari e tecnico-organizzativi necessari per partecipare alla procedura di affidamento, nonché le eventuali misure in cui gli stessi devono essere posseduti dai singoli concorrenti partecipanti”.
Nella fattispecie in esame, infatti, la prestazione oggetto dell’appalto consiste nell’effettuazione dei controlli sulla qualità delle acque erogate sia dagli acquedotti esterni che dalle acque idriche interne, nonché delle acque reflue e delle acque di balneazione. Si tratta, quindi, di una prestazione unica non frazionabile se non quantitativamente, rispetto alla quale il bando richiede tra i requisiti di carattere tecnico professionale anche la disponibilità di un laboratorio di analisi accreditato.
Pertanto,
nell’ipotesi di mera indicazione della percentuale che le imprese componenti il suddetto raggruppamento intendono eseguire, non può che presumersi che ognuna dei membri del raggruppamento sia in possesso dei requisiti tecnici, per eseguire sia pure pro quota la prestazione oggetto dell’appalto.
In questo senso non va a favore dell’odierna appellante il richiamo alla pronuncia dell’Adunanza Plenaria, 28.04.2014, n. 27 che, diversamente da quanto argomentato dall’appellante, stabilisce in modo chiaro che, in caso di appalto di servizi sussiste l’obbligo per le imprese raggruppate d'indicare le parti del servizio o della fornitura facenti capo a ciascuna di esse, senza pretendere anche l'obbligo della corrispondenza fra quote di partecipazione e quote di esecuzione, fermo restando, però, che ciascuna impresa va qualificata per la parte di prestazioni che s'impegna ad eseguire, nel rispetto delle speciali prescrizioni e modalità contenute nella normativa di gara.
Non vi è dubbio che la disciplina di gara richieda che le analisi vengano svolte presso laboratori accreditati e che la mandante dell’associazione temporanea, odierna appellante, non sia dotata della necessaria qualificazione.

In questa situazione non è fondata la doglianza inerente una presunta disparità di trattamento a danno del concorrente costituito in raggruppamento di tipo orizzontale, rispetto al concorrente singolo ovvero al concorrente costituito in raggruppamento di tipo verticale.
Infatti,
posto che la composizione soggettiva della tipologia di concorrenti è ontologicamente distinta, se si ammettesse la possibilità che non tutti i soggetti costituenti un raggruppamento orizzontale potessero eseguire -sia pure pro quota- la prestazione oggetto dell’appalto senza assicurare il rispettivo possesso dei requisiti tecnici richiesti dalla lex specialis, si avrebbe la conseguenza che una parte delle prestazioni non sarebbe eseguita nel rispetto di uno dei requisiti richiesti dalla lex specialis.
Da ciò deriva che non vi è disparità di trattamento, ma una diversa disciplina del possesso dei requisiti che direttamente discende dalla scelta dei concorrenti di partecipare in forma singolo o associata in modo orizzontale o verticale alla procedura di gara.

7.2. Allo stesso modo non può convenirsi con l’appellante nel ritenere viziata la sentenza di primo grado nella parte in cui evidenzia l’assenza di un vizio della motivazione in capo al provvedimento di esclusione.
Risulta invero adeguato il rilievo secondo il quale il requisito de quo avrebbe dovuto essere posseduto da ciascuno dei componenti del raggruppamento escluso, dal momento che attraverso di esso la lex specialis assicura che ogni impresa svolga il servizio secondo determinati standard qualitativi accertati da organismi qualificati.
7.3. Da ultimo, non si ravvisa alcuna delle illegittimità denunciate dall’appellante, che infici l’esercizio del potere di autotutela da parte della stazione appaltante nel riammettere alla procedura di gara l’originaria controinteressata: infatti l’esercizio del ius poenitendi da parte della stessa stazione appaltante, posto in essere nel corso della procedura di gara, è giustificato dalla necessità di assicurare il rispetto del favor partecipationis e di prevenire futuri contenziosi.
Né uno stringente onere motivazionale può essere invocato dagli altri concorrenti che rispetto alla pregressa decisione della stessa amministrazione non possono vantare un affidamento tutelabile.
Nel merito, inoltre, la scelta dell’amministrazione non appare irragionevole e -in senso contrario rispetto a quanto sostenuto dall’appellante- valuta senza illogicità o incoerenze, nell’ambito dell’ambito di apprezzamento rimesso alla sua competenza, la possibilità dell’originaria controinteressata di poter eseguire correttamente le prestazioni oggetto dell’appalto de quo.

APPALTI: Ai sensi dell'art. 34 comma 2, c.p.a., in nessun caso il giudice amministrativo può pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati e tale regola vale anche quando il giudice, secondo quanto disposto dagli artt. 121 e 122 dello stesso c.p.a., dichiara l'inefficacia del contratto, potendo in tal caso disporre il subentro del ricorrente solo quando l'accoglimento del ricorso non renda necessaria una ulteriore attività procedimentale dell'Amministrazione per la individuazione del nuovo aggiudicatario della gara.
In secondo luogo va osservato che
risulta essere già stato sottoscritto il contratto tra il Comune e l’aggiudicataria e che è stata già eseguita una parte notevole dei lavori appaltati, ed in tale caso il giudice amministrativo, una volta che abbia annullata l'aggiudicazione definitiva dell'appalto oggetto del contendere, può, ex art. 122 del c.p.a., disporre il subentro della ricorrente nel contratto se lo stato di esecuzione dello stesso e la sua tipologia lo consentano.
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11.- Con il ricorso in appello è stata anche riproposta la richiesta di aggiudicazione dell’appalto e del relativo contratto in capo alla appellante, secondo l’offerta da questa proposta e, in subordine, di declaratoria di inefficacia del contratto eventualmente stipulato, nonché di aggiudicazione dell’appalto e di subentro del contratto. In subordine è stata chiesta la “condanna dell’Amministrazione al risarcimento del danno per equivalente, nonché del danno non patrimoniale”.
Dette richieste non sono suscettibili di accoglimento da parte del collegio, in primo luogo in quanto,
ai sensi dell'art. 34 comma 2, c.p.a., in nessun caso il giudice amministrativo può pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati e tale regola vale anche quando il giudice, secondo quanto disposto dagli artt. 121 e 122 dello stesso c.p.a., dichiara l'inefficacia del contratto, potendo in tal caso disporre il subentro del ricorrente solo quando l'accoglimento del ricorso non renda necessaria una ulteriore attività procedimentale dell'Amministrazione per la individuazione del nuovo aggiudicatario della gara (Consiglio di Stato, sez. V, 01.10.2015, n. 4585); invero nel caso che occupa non è stato dimostrato dalla parte appellante che detta attività non sia necessaria, avendo essa solo affermato di essersi classificata seconda in graduatoria, ma non che l’Amministrazione abbia svolto nei suoi confronti tutte le verifiche previste dalla normativa in materia e dalla lex specialis.
In secondo luogo va osservato che
risulta essere già stato sottoscritto il contratto tra il Comune e l’aggiudicataria e che è stata già eseguita una parte notevole dei lavori appaltati, come da memoria depositata il 06.11.2011 da parte del Comune di Lapio (non contestata sul punto dalle controparti), ed in tale caso il giudice amministrativo, una volta che abbia annullata l'aggiudicazione definitiva dell'appalto oggetto del contendere, può, ex art. 122 del c.p.a., disporre il subentro della ricorrente nel contratto se lo stato di esecuzione dello stesso e la sua tipologia lo consentano (Consiglio di Stato sez. V 25.06.2014 n. 3220); nel caso che occupa, trattandosi di attività di completamento ed adeguamento di rete fognaria e di impianto di depurazione ritiene il collegio che comunque la avanzata esecuzione dei lavori appaltati escluda la possibilità di subentro, stante la difficoltà di intervenire su opere già avviate ed in avanzato stato di esecuzione.
Quanto alla domanda di risarcimento per equivalente va osservato che la domanda risarcitoria formulata dalla parte appellante è limitata ad una generica richiesta di risarcimento in forma specifica o per equivalente, senza indicazione, neanche in termini assertivi, di quale sia la sostanza del pregiudizio di cui si chiede la riparazione e segnatamente se esso riguardi il danno emergente o il lucro cessante o entrambe le componenti; essa è pertanto inammissibile per assoluta genericità (Consiglio di Stato, sez. VI, 02.09.2003, n. 4871) (
Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 25.02.2016 n. 776 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: L'ordine di bonifica trasmesso agli eredi.
Nel caso di ordine di bonifica di un sito inquinato, l'obbligo ripristinatorio è trasmissibile agli eredi.

Lo ha precisato il Consiglio di Stato, Sez. V con la sentenza 25.02.2016 n. 765 .
Nel caso in esame dei proprietari di terreni avevano chiesto al Tar per la Lombardia l'annullamento dell'ordinanza del sindaco del Comune di Cerro al Lambro nella parte in cui si ordinava loro la messa in sicurezza, la bonifica e il ripristino ambientale della località denominata «Cascina Gazzera», ai sensi degli artt. 14 e 17 del dlgs 22/1997.
Il primo giudice aveva accolto il ricorso rilevando che per quanto concerneva i fenomeni di inquinamento sino al 1979, gli stessi non potevano essere imputabili ai ricorrenti, atteso che i terreni interessati non risultavano essere di loro proprietà, ma del defunto padre.
Per quanto riguarda gli eventi successivi, invece, il comune di Cerro al Lambro non aveva fornito la prova della «causazione dei fenomeni» in questione da parte di questi ultimi che lo avrebbero, invece, concesso in locazione ad una società.
Con appello il Comune di Cerro al Lambro aveva rivendicato la legittimità del suo provvedimento.
I giudici di Palazzo Spada accolgono la tesi.
Essi riconoscono, innanzi tutto, come i casi di inquinamento contestati nell'arco di oltre trent'anni siano da ricondurre agli odierni proprietari, che «in alcun modo hanno impedito lo sversamento dei rifiuti sui loro suoli, né hanno provveduto alla rimozione degli stessi, non attivandosi per impedire che l'attività di devastazione delle aree oggetto dell'ordinanza impugnata proseguisse nel corso degli anni». E non vi è dubbio, a questo proposito, che l'obbligo ripristinatorio sia trasmissibile agli eredi, trattandosi di obblighi di natura patrimoniale (cfr. Cons. St., sez. II, 06.03.2013, n. 2417).
Per quanto concerne, poi, l'ordine di bonifica del sito inquinato, è irrilevante la circostanza che sia intervenuto un contratto di locazione, atteso che va riconosciuta sia la responsabilità del proprietario di un terreno sul quale siano depositati rifiuti, ai sensi dell'art. 14, comma 3, del dlgs 05.02.1997 n. 22, nel caso in cui il terreno sia oggetto di un rapporto di locazione, sia la responsabilità di qualunque soggetto che si trovi con l'area interessata in un rapporto, anche di mero fatto, tale da consentirgli «di esercitare una funzione di protezione e custodia finalizzata ad evitare che l'area medesima possa essere adibita a discarica abusiva di rifiuti nocivi per la salvaguardia dell'ambiente» (articolo ItaliaOggi Sette del 14.03.2016).

TRIBUTIFabbricati rurali, l'annotazione catastale giustifica l'esenzione Imu.
Per i fabbricati rurali conta l'annotazione catastale sia per l'Ici sia per l'Imu. Se è stata presentata in catasto l'autocertificazione che attesta la sussistenza dei requisiti di legge entro il 30.09. 2012, al titolare dell'immobile rurale spetta l'esenzione Ici anche per i cinque anni precedenti. Alla stessa agevolazione hanno diritto i possessori di fabbricati strumentali censiti nella categoria D/10, perché l'inquadramento in questa categoria certifica la loro ruralità.

È quanto ha stabilito la Commissione tributaria regionale di Milano, Sez. staccata di Brescia, con la sentenza 22.02.2016 n. 1014.
Per i giudici d'appello, l'inserimento dell'annotazione di ruralità negli atti catastali attesta i requisiti «a decorrere dal quinto anno antecedente a quello di presentazione della domanda», se prodotta entro il 30.09.2012. Secondo la commissione regionale «per i fabbricati aventi funzioni produttive connesse alle attività agricole è acclarato il requisito della ruralità se censiti nella categoria D/10». Per gli immobili strumentali non accatastati nella suddetta categoria, invece, la ruralità va riconosciuta in presenza della «specifica annotazione ottenibile mediante domanda all'Agenzia del territorio».
La retroattività delle domande di variazione. Va sottolineato che la normativa sui fabbricati rurali è piuttosto confusa. Nel corso di questi ultimi anni ci sono stati vari interventi normativi e giurisprudenziali che hanno contribuito a creare dubbi e incertezze. Da ultimo l'articolo 2, comma 5-ter, del dl 102/2013, in sede di conversione in legge (124/2013), ha stabilito che le domande di variazione catastale, presentate dagli interessati per ottenere l'annotazione di ruralità degli immobili, hanno effetto retroattivo per i cinque anni antecedenti.
L'efficacia di questa disposizione di interpretazione autentica può arrivare fino all'anno d'imposta 2006, considerato che i contribuenti avrebbero potuto inoltrare le prime istanze di variazione entro il 30.09.2011. Il decreto del ministero dell'economia e delle finanze del 26.07.2012 ha chiarito quali adempimenti devono porre in essere i titolari dei fabbricati interessati a ottenere l'annotazione negli atti catastali della ruralità, al fine di fruire anche per l'Imu delle agevolazioni. Per quest'ultimo tributo sono escluse dai benefici le unità immobiliari utilizzate come abitazione. Il contrasto sulla categoria catastale.
Di recente, la commissione tributaria regionale di Cagliari, quarta sezione, con la sentenza n. 29 dell'01.02.2016, ha stabilito che per il riconoscimento dell'esenzione Ici per i fabbricati rurali strumentali non conta la categoria catastale. L'immobile va considerato rurale se utilizzato per la manipolazione, trasformazione, conservazione, valorizzazione o commercializzazione dei prodotti agricoli dei soci. La regola vale non solo per l'Ici ma anche per l'Imu. A conforto di questa interpretazione viene richiamata nella sentenza una pronuncia della Cassazione (16979/2015).
Sull'efficacia da attribuire alla categoria catastale, per fruire dell'esenzione dall'imposta municipale, non è però stata ancora trovata una soluzione condivisa nella giurisprudenza di legittimità e di merito, anche per via dei continui cambiamenti normativi riguardo al trattamento fiscale dei fabbricati rurali. In realtà, contrariamente a quanto affermato dalla Ctr di Cagliari, la posizione assunta dalla Cassazione dopo la pronuncia a sezioni unite (18565/2009) è stata sempre quella di legare l'esenzione Ici alla categoria catastale.
Da ultimo, anche con l'ordinanza 22195/2015 ha riconosciuto l'esenzione Ici solo per i fabbricati inquadrati catastalmente nelle categorie A/6, se destinati a abitazione, o D/10, se strumentali all'esercizio dell'attività agricola (articolo ItaliaOggi dell'11.03.2016).

PUBBLICO IMPIEGOVisite fiscali, occhio alla condotta. Non si deve accompagnare la moglie a fare la spesa. La Cassazione ha chiarito quando le assenze dal domicilio, in caso di malattia, sono ingiustificate.
Visite fiscali, intervengono i giudici.

Interessante sentenza in tema di assenza del lavoratore alla visita fiscale di controllo quella pronunciata dai giudici della Corte di Cassazione, Sez. lavoro – presidente Manna e relatore Borghetich, sentenza 19.02.2016 n. 3294, interessante soprattutto perché fornisce preziose indicazioni sulla valutazione da dare alle assenze del lavoratore dalla propria abitazione al momento della visita fiscale di controllo della malattia.
I giudici della sezione lavoro della Suprema Corte erano stati chiamati a decidere nel merito di un ricorso presentato da un lavoratore in malattia che essendo risultato assente dal proprio domicilio al momento delle visita fiscale di controllo aveva subito le penalizzazioni previste dall'art. 5, comma quattordicesimo, del decreto legge n. 463/1983 (convertito in legge n. 638/1983) e successive modificazioni e integrazioni (decadenza dal diritto al trattamento economico di malattia).
Avverso il provvedimento di penalizzazione il lavoratore aveva presentato ricorso, prima in Tribunale e poi in Corte di Appello, sostenendone l'illegittimità, nonostante avesse potuto dimostrare che l'assenza era dovuta a imprevisti gravi motivi familiari. Entrambi i ricorsi erano stati respinti. Stessa sorte ha avuto anche quello presentato alla Corte di Cassazione.
Di quest'ultima sentenza la parte che, seppure indirettamente, può interessare anche il personale della scuola è certamente quella relativa alle motivazioni che hanno indotto i giudici della sezione lavoro a condividere il giudizio espresso in precedenza dai giudici del Tribunale e della Corte di Appello che se ne erano occupati.
Con la sentenza i giudici hanno infatti rafforzato il principio, peraltro condiviso da una buona parte della giurisprudenza in materia, ma non sempre applicato dal datore di lavoro o dall'ente previdenziale, secondo cui l'assenza del lavoratore alla visita di controllo può essere ritenuta ingiustificata e comportare le penalizzazioni previste dalla normativa vigente indicata in premessa, non solo a causa dell'assenza dalla propria abitazione nelle fasce orarie di reperibilità, ma anche a causa della condotta tenuta dallo stesso lavoratore –pur presente in casa– condotta che sia valsa ad impedire l'esecuzione del controllo sanitario per incuria, negligenza o ogni altro motivo non apprezzabile sul piano giuridico e sociale, quale ad esempio la mancanza del nominativo del lavoratore sul citofono, il non funzionamento del citofono o del campanello, la mancata o incompleta comunicazione della variazione di domicilio o del luogo di reperibilità, l'espletamento di incombenze effettuabili in orari diversi (es. accompagnare in auto la moglie, sprovvista di patente, a fare spesa).
Nel contesto della sentenza in esame merita anche di essere riportato un passaggio relativo all'Inps nel quale si sostiene che l'obbligo dell'istituto di previdenza di erogare l'indennità di malattia permane invece anche a fronte di un comportamento del lavoratore che si sottragga alla visita sanitaria, solamente ove concorrano serie e motivate ragioni, quali l'indifferibile necessità di recarsi presso un luogo diverso da quello dal proprio domicilio (articolo ItaliaOggi del 15.03.2016).

ESPROPRIAZIONEBocciato l’esproprio che favorisce un privato. Tar Venezia.
Poiché la cosiddetta “acquisizione sanante” deve essere usata dalla Pa solo per «attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico» e per rimediare a un atto d’esproprio già emesso, ma in modo non «valido ed efficace», la stessa non può essere usata per creare una servitù di pubblico passaggio su un’area privata se su quest’ultima la Pa non ha mai adottato procedure ablatorie e per di più se soddisfa solo l’interesse privato.
Il TAR Veneto, Sez. II, sentenza 16.02.2016 n. 170, ha annullato così l’«utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico» (articolo 42-bis, Dpr 327/2001, Testo unico espropri) disposta da un Comune per creare un passaggio pubblico su una strada chiusa di proprietà privata e su cui un albergo adiacente aveva aperto un accesso secondario.
A contestarla alcuni proprietari residenti secondo cui l’atto era ad esclusivo interesse privato, posto che l’«inidoneità» della strada all’uso pubblico era stata provata da una sentenza esecutiva del giudice civile. Accogliendo il ricorso, il Tar ha spiegato che questo tipo di acquisizione «per giustificarsi anche dal punto di vista costituzionale, richiede l’esercizio di un potere di carattere necessariamente “rimediale”, che presuppone la necessità di ovviare ad una situazione di fatto che contrasta con quella di diritto a causa del pregresso difettoso esercizio del potere ablatorio».
Ciò, una volta rispettati gli altri «stringenti» requisiti di legge: che vi siano «attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico», e che queste siano «valutate comparativamente con i contrapposti interessi privati» in assenza di ragionevoli alternative
(articolo Il Sole 24 Ore del 03.03.2016).
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MASSIMA
L’eccezione di inammissibilità per carenza di interesse del ricorso introduttivo con il quale è impugnata la deliberazione consiliare n. 51 del 05.11.2014, basato sull’assunto che tale deliberazione costituirebbe una mera comunicazione di avvio del procedimento, non è fondata.
Infatti nonostante l’oggetto della medesima rechi l’indicazione “atto fondamentale per l’avvio del procedimento per la costituzione di una servitù di pubblico passaggio”, e al punto 2) del dispositivo affermi di disporre l’avvio del procedimento per l’imposizione di una servitù di pubblico passaggio, in realtà non contiene gli elementi tipici all’atto di cui all’art. 8 della legge 07.08.1990, n. 241, ma provvede direttamente in ordine ad alcuni dei contenuti previsti dall’art. 42-bis del DPR 08.06.2001, n. 327, accertando l’attualità e la prevalenza dell’interesse pubblico a disporre l’imposizione della servitù di passaggio, e demandando a successivi atti della Giunta e del dirigente la valutazione in contraddittorio dei contrapposti interessi privati, ed il permanere di ragionevoli alternative all’adozione dell’atto finale.
Per questi profili, autonomamente e direttamente lesivi della posizione giuridica dei ricorrenti, si giustifica l’immediata impugnazione della deliberazione, e l’eccezione deve pertanto essere respinta.
Nel merito il ricorso ed i motivi aggiunti sono fondati e devono essere accolti per molteplici profili.
In primo luogo è fondata la censura proposta nell’ambito del primo motivo del ricorso introduttivo con la quale
i ricorrenti lamentano la mancata acquisizione del loro apporto procedimentale prima della dichiarazione di attualità e prevalenza dell’interesse pubblico disposta con la menzionata deliberazione consiliare n. 51 del 05.11.2014.
Una tale determinazione resa nell’ambito della procedura di cui all’art. 42-bis del DPR 08.06.2001, n. 327 (così come la procedura di acquisizione sanante di cui all’art. 43), è infatti connotata da un’amplissima e rilevante discrezionalità che non può prescindere dalla comunicazione di avvio del procedimento quando, come nel caso di specie, sia iniziata d’ufficio
(cfr. Tar Abruzzo, L'Aquila, Sez. I, 06.11.2014, n. 763; Tar Toscana, Sez. I 23.01.2014, n. 148).
In secondo luogo
sono fondate e devono essere accolte le censure, proposte nell’ambito del primo motivo del ricorso introduttivo e con il secondo motivo dei secondi motivi aggiunti, di incompetenza del dirigente a compiere valutazioni inerenti l’interesse pubblico all’ampliamento del patrimonio comunale comprendenti la comparazione tra interesse pubblico e privato e il permanere o meno dell’assenza di ragionevoli alternative all’adozione dell’atto di acquisizione finale.
Infatti
ai sensi dell’art. 42, comma 2, lett. l), del Dlgs. 18.08.2000, n. 267, rientrano nella competenza del Consiglio gli acquisti immobiliari e, secondo l’interpretazione che appare preferibile, la particolare natura dell’acquisizione sanante, riconducibile nell’alveo dell’amplissima discrezionalità propria dell’organo di indirizzo, richiede una formale, specifica e compiuta espressione di volontà dell'ente manifestata necessariamente dal Consiglio comunale potendo in tale ambito essere demandati ai dirigenti o ai responsabili dei servizi dell’Ente solo compiti strettamente esecutivi delle determinazioni discrezionali adottate dall’organo consiliare (cfr. Tar Campania, Sez. V, 15.01.2016, n. 219; Tar Lazio, Latina, 28.07.2015, n. 575; Tar Puglia, Lecce, Sez. I, 21.06.2013, n. 1500; Tar Veneto, Sez. I, 31.01.2012, n. 96; Consiglio di Stato, Sez. V, 13.10.2010, n. 7472).
Pertanto sono fondate e devono essere accolte anche le censure di incompetenza.
Parimenti fondate e meritevoli di accoglimento risultano le censure di cui al terzo motivo del ricorso introduttivo, e dal quarto al decimo dei secondi motivi aggiunti, con le quali i ricorrenti contestano in radice e sotto molteplici profili la carenza dei presupposti per l’esercizio del potere di cui all’art. 42-bis del DPR 08.06.2001, n. 327, e lo sviamento.
Infatti
l’istituto di cui all’art. 42 bis del DPR 08.06.2001, n. 327, per giustificarsi anche dal punto di vista costituzionale, richiede l’esercizio di un potere di carattere necessariamente “rimediale”, che presuppone la necessità di ovviare ad una situazione di fatto che contrasta con quella di diritto a causa del pregresso difettoso esercizio del potere ablatorio.
Solo in quest’ottica può ritenersi giustificato il ricorso all’acquisizione del bene mediante tale istituto, che costituisce una “sorta di procedimento espropriativo semplificato, che assorbe in sé sia la dichiarazione di pubblica utilità, sia il decreto di esproprio, e quindi sintetizza uno actu lo svolgimento dell’intero procedimento
(cfr. Corte Costituzionale, 30.04.2015, n. 71) ferma restando la necessaria ricorrenza degli stringenti ulteriori requisiti previsti dalla norma, quali le “attuali ed eccezionali” ragioni di interesse pubblico che giustificano l’emanazione dell’atto, “valutate comparativamente con i contrapposti interessi privati”, e “l’assenza di ragionevoli alternative alla sua adozione”.
Nel caso all’esame, come osservato nella motivazione dell’ordinanza del Consiglio di Stato, Sez. IV, 18.11.2015, n. 5139, che ha confermato in sede di appello l’ordinanza cautelare di primo grado, difettano in radice tali presupposti, dato che precedentemente non era stata esperita alcuna procedura di carattere ablatorio.
Inoltre va osservato che il decreto del dirigente prot. n. 26261 del 09.07.2015, impugnato con i secondi motivi aggiunti, afferma l’esistenza di un protratto utilizzo del tratto di strada da parte della collettività, la sussistenza di un collegamento alla pubblica via e la trasformazione in via di fatto del bene a causa di tale utilizzo.
Orbene
il Collegio ritiene che sia da escludere la possibilità di applicare l’istituto di cui all’art. 42-bis del DPR 08.06.2001, n. 327, ad una servitù di passaggio pubblico, motivando l’acquisizione prevista da tale norma sulla base di quegli stessi requisiti che, ove sussistenti, avrebbero comportato anche in via di fatto la costituzione della servitù di pubblico passaggio pur in assenza di un apposito titolo.
Peraltro nel caso all’esame, come riconosciuto anche dal giudice civile in due gradi di giudizio, in realtà e contrariamente a quanto afferma il Comune, è da escludersi la ricorrenza di tali presupposti, dato che oggetto degli atti impugnati è un tratto di strada isolato dalla via pubblica da un altro tratto di strada privato che rimane escluso dal provvedimento del Comune, che non è fruibile dalla collettività perché a fondo cieco e che è utilizzato da una cerchia limitata di soggetti uti singuli in quanto gravato da una servitù di passaggio di diritto privato costituita a favore di un immobile diverso da quello dei controinteressati.
Pertanto in carenza dei presupposti intrinseci necessari per affermare l’esistenza e la costituzione in via di fatto di una servitù pubblica di passaggio e in assenza di qualsivoglia autonomo e antecedente titolo costitutivo, sono da escludersi sia la pregressa esistenza della medesima, sia la possibilità di costituirla ex novo mediante l’istituto di cui all’art. 42-bis del DPR 08.06.2001, n. 327.
Inoltre va osservato che dalla documentazione versata in atti risulta che la Società controinteressata possiede diversi accessi alla struttura alberghiera, uno dall’entrata principale sita in via Flacco, e altri due da strade secondarie che, seppure in modo non agevole perché lunghe e strette, consentono comunque di raggiungere il retro della struttura.
In tale contesto risulta pertanto un'effettiva e comprovata divergenza tra gli atti impugnati, forzatamente ricondotti dall’Amministrazione comunale nell’ambito della procedura di cui all’art. 42-bis del DPR 08.06.2001, n. 327, e la funzione tipica dell’atto previsto da tale norma, che è quella di porre rimedio ad un difettoso esercizio del potere ablatorio nel caso di specie prima mai esercitato, con la conseguenza che l'esercizio del potere risulta perseguire finalità diverse da quelle enunciate dalla norma attributiva dello stesso in favore dell’interesse economico imprenditoriale della struttura ricettiva privata gestita dalla Società controinteressata volto a conseguire un più comodo accesso ai servizi accessori della struttura alberghiera, e risulta pertanto fondata anche la censura di sviamento.
L’accoglimento di tali censure travolge tutti gli atti della procedura posta in essere, ivi compresa l’ordinanza di autotutela possessoria impugnata con i primi motivi aggiunti, per la quale difetta il presupposto della natura pubblica della strada o dell’esistenza di una servitù di pubblico passaggio.
In definitiva per tali ragioni, con assorbimento delle censure non espressamente esaminate, il ricorso ed i motivi aggiunti devono essere accolti.

AMBIENTE-ECOLOGIA - CONDOMINIOPer i danni da rumore basta la prova testimoniale. Cassazione. Quando non sono riproducibili scientificamente.
Con la recentissima sentenza 12.02.2016 n. 2864 della Corte di Cassazione, Sez. II civile, i giudici hanno assegnato ai testimoni un ruolo chiave in tema di risarcimento del danno derivante dalle immissioni rumorose.
Il Codice civile, in materia di immissioni, con l’articolo 844 stabilisce che «il proprietario di un fondo non può impedire le immissioni di fumo o di calore, le esalazioni, i rumori, gli scuotimenti, e simili propagazioni derivanti dal fondo del vicino se non superano la normale tollerabilità, avuto anche riguardo alla condizione dei luoghi. Nell’applicare questa norma l’autorità giudiziaria deve contemperare le esigenze della produzione con le ragioni della proprietà. Può tener conto della priorità di un determinato uso».
Sulla scorta di tale previsione normativa, l’accertamento del limite di tollerabilità viene normalmente riconosciuto all’esito di un attento e scrupoloso accertamento peritale. In particolare, al consulente tecnico il giudice chiede di utilizzare una apposita strumentazione idonea a rilevare se le immissioni rumorose superino la soglia di decibel che rappresenta il limite tollerabile, in considerazione del rumore di fondo.
Ma è pur vero che, in più riprese, la Corte ha affermato che, in tema di immissioni rumorose, i mezzi di prova per accertare il livello di normale tollerabilità previsto dall’articolo 844 del Codice civile non devono essere necessariamente di natura tecnica.
Più precisamente, la Corte di Cassazione con la sentenza 2166/2006, richiamando una decisione un po’ datata (la 5695/1978) confermata di recente dalle Sezioni Unite (4848/2013) ha dichiarato che «è ammissibile la prova testimoniale quando la stessa, avendo a oggetto fatti accaduti sotto la diretta percezione sensoriale dei deponenti, non può ritenersi espressione di giudizi valutativi (come tali vietati ai testi), e ciò tanto più nell’ipotesi in cui –trattandosi di emissioni discontinue e spontanee– le stesse difficilmente sarebbero riproducibili e verificabili su un piano sperimentale» .
E proprio su questo filone la recentissima sentenza 2864/2016 ci dice che «nulla vieta, quindi, che l’entità delle immissioni rumorose e il superamento del limite della normale tollerabilità possa essere oggetto di deposizione testimoniale, anche in relazione agli orari e alle caratteristiche delle emissioni stesse», rimandando poi al giudice di valutarne l’attendibilità e la congruità.
Questa sentenza ci dice anche che «quando viene accertata la non tollerabilità delle immissioni, l’esistenza del danno è in re ipsa». Il risarcimento, quindi, è dovuto, senza necessità di ulteriore prova, in base all’articolo 2043 del Codice civile sino a quando il pregiudizio derivante dalle immissioni intollerabili non verrà eliminato
(articolo Il Sole 24 Ore dell'01.03.2016).
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2. — Il ricorso va rigettato.
Invero, le censure di cui ai precedenti nn. 1, 4, 5 e 7 sono inammissibili, in quanto attengono ad apprezzamenti discrezionali del giudice di merito che sono insindacabili in cassazione quando —come nella specie— la motivazione è esente da vizi logici e giuridici.
Sul punto va precisato che
nulla esclude —in astratto— che l'entità delle immissioni rumorose e il superamento del limite della normale tollerabilità possa essere oggetto di deposizione testimoniale (anche in relazione agli orari e alle caratteristiche delle immissioni stesse), spettando poi al giudice valutare, oltre l'attendibilità, anche la congruità delle dichiarazioni rese rispetto al thema probandum.
Le censure di cui ai nn. 2 e 3 sono infondate. L'art. 246 cod. proc. civ. prevede la incapacità a testimoniare delle persone aventi nella causa un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio.
Nel caso di specie, non risulta che le testimoni assunte, condomine del medesimo edificio, abbiano un tale interesse; interesse che potrebbe sussistere solo ove gli appartamenti da esse abitati si trovassero nella medesima posizione —rispetto all'appartamento dal quale provengono le immissioni rumorose— dell'appartamento dell'attrice ovvero in una posizione assimilabile, tale da consentire di percepire le immissioni rumorose con la medesima intensità.
Ciò nel caso di specie non risulta essere stato dedotto. Irrilevante è l'esposto presentato da una delle testimoni alla Questura, diversi essendo i presupposti dell'illecito denunciato con l'esposto rispetto a quello per cui è causa (riferibile alla fattispecie di cui all'art. 844 cod. civ.).
Da ultimo, anche la doglianza di cui al n. 6 è priva di fondamento.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, dalla quale non v'è ragione di discostarsi,
quando venga accertata la non tollerabilità delle immissioni, l'esistenza del danno è in re ipsa e, pertanto, il vicino, fino a quando il pregiudizio derivante dalle immissioni intollerabili non venga eliminato, ha diritto ad ottenere il risarcimento del danno a norma dell'art. 2043 cod. civ. (Sez. 2, Sentenza n. 4693 del 18/10/1978, Rv. 394378; Sez. 2, Sentenza n. 2580 del 12/03/1987, Rv. 451713; Sez. 3, Sentenza n. 5844 del 13/03/2007, Rv. 597527).

AMBIENTE-ECOLOGIAVegetali, combustione rischiosa. Bruciare i residui senza regole precise è gestione illecita. I chiarimenti della Corte di cassazione sull'utilizzo dei materiali agricoli o forestali.
Integra il vero e proprio reato di gestione illecita di rifiuti l'abbruciamento di residui agricoli o forestali senza l'osservanza di tutte le specifiche condizioni dettate in materia dal Codice ambientale.

A chiarire i confini della complessa e più volte novellata disciplina ex dlgs 152/2006 sull'utilizzo dei materiali vegetali è la sentenza 10.02.2016 n. 5504 della Corte di Cassazione, Sez. III penale.
Il contesto normativo. La pronuncia del giudice di legittimità verte sulle attuali norme del dlgs 152/2006 che consentono l'abbruciamento degli scarti vegetali fuori dal regime dei rifiuti (comma 6-bis dell'articolo 182, introdotto nel 2014) e il loro rapporto sia con il reato di combustione illecita di residui (articolo 256-bis, introdotto nel 2013 e riformulato nel 2014) che con la più generale disciplina sulla gestione illecita degli stessi (articolo 256).
Ai sensi dell'articolo 182 del dlgs 152/2006, lo ricordiamo, non costituiscono attività di gestione rifiuti, ma normali pratiche agricole, l'abbruciamento in piccoli cumuli e quantità giornaliere non superiori a tre metri steri per ettaro dei materiali vegetali ex articolo 185, comma 1, lettera f (ossia: paglia, sfalci e potature, altro materiale agricolo o forestale naturale non pericoloso) effettuato nel luogo di produzione e finalizzato al loro reimpiego come concimanti o ammendanti; la combustione (aggiunge la disposizione in parola) è vietata nei periodi «di rischio» dichiarati da regioni, comuni e altre amministrazioni competenti in materia ambientale.
Il principio di diritto. Con la sentenza 5504/2016 la Cassazione ha chiarito che l'attività di abbruciamento dei materiali in questione effettuata in difetto di una delle suddette condizioni integra pienamente il reato di gestione di rifiuti non autorizzata ex articolo 256, comma 1, lettera a), dello Codice ambientale.
Dal tenore della sentenza, vertente sullo smaltimento tramite combustione di ingenti cumuli di residui da trebbiatura di riso, appare emergere un parziale mutamento rispetto all'orientamento configurato dalla precedente pronuncia 76/2015 (sul punto richiamata) con cui la stessa Corte aveva invece ritenuto applicabili le sanzioni amministrative dettate dagli enti territoriali in caso di violazione dei temporanei e citati divieti locali di abbruciamento.
Le novità in arrivo. Fulcro su cui ruota la deroga al regime dei rifiuti accordata ai residui vegetali è la più generale disposizione ex citato articolo 185, comma 1, lettera f), del dlgs 152/2006 che esclude dalla severa disciplina «paglia, sfalci e potature, nonché altro materiale agricolo o forestale naturale non pericoloso utilizzati in agricoltura, nella selvicoltura o per la produzione di energia da tale biomassa mediante processi o metodi che non danneggiano l'ambiente né mettono in pericolo la salute umana».
Sulla disposizione in parola promette di incidere radicalmente, riducendo ulteriormente il campo di applicazione della disciplina sui rifiuti, il ddl recante norme semplificatorie per il settore agricolo approvato dalla camera il 16.02.2016. In base al provvedimento in itinere tra i materiali vegetali esclusi (purché destinati al riutilizzo) dalle norme sui rifiuti vi saranno infatti anche quelli provenienti da aree verdi, quali giardini, parchi ed aree cimiteriali.
In base allo stesso disegno di legge, ora di nuovo all'esame del senato, il riutilizzo dei residui vegetali tutti (agricoli e non) potrà altresì avvenire fuori dal luogo di produzione, e anche mediante cessione a terzi (articolo ItaliaOggi Sette del 07.03.2016).
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3. Quanto al secondo motivo, posto che il fuoco fu appiccato dall'imputato, proprietario dell'azienda (recintata) ed unica persona presente al momento dell'arrivo dei Vigili del fuoco (l'intervento era stato richiesto da un terzo), il tribunale ha ritenuto che l'attività di incenerimento in questione andasse senz'altro considerata come attività di smaltimento dei rifiuti, essendo volta a eliminare (impropriamente) degli scarti, peraltro di quantità significativa, tanto che il fatto storico era ampiamente sussumibile nella fattispecie astratta descritta dalla norma incriminatrice, non potendosi ritenere che, nel caso in esame, i residui vegetali bruciati fossero dei sottoprodotti. Infatti la condotta di bruciare tali materiali denotava la chiara intenzione del detentore di disfarsene (secondo la nozione di cui all'articolo 183 decreto legislativo 152 del 2006).
Pur essendo possibile che in altre occasioni il ricorrente avesse fatto diverso uso di tali materiali (spargendoli nei campi come concime, senza bruciarli preventivamente), nel caso in esame egli aveva invece inteso smaltirli (illecitamente). Il tribunale ha, tra l'altro, osservato che, secondo quanto riferito dall'imputato e dal teste Baretta, il cumulo era stato formato in ottobre per essere utilizzato non appena i terreni fossero liberi, prima della semina, verso maggio giugno.
Tale assunto non è stato tuttavia ritenuto (e motivatamente) coerente con il periodo dei fatti in esame (agosto-settembre): il periodo della semina era già infatti ampiamente decorso e i residui vegetali non erano stati utilizzati nei campi (bensì smaltiti mediante combustione).
Infine, il tribunale ha escluso che l'abbruciamento in questione fosse penalmente irrilevante ai sensi dell'articolo 185, lettera f), decreto legislativo 152 del 2006 in quanto tale norma, ai fini dell'esclusione dal campo di applicazione della disciplina dei rifiuti, richiede, tra l'altro, che i residui vegetali siano destinati al reimpiego in agricoltura, circostanza esclusa nel caso concreto dal fatto, già in precedenza evidenziato, che il periodo della concimazione della semina era già ampiamente decorso) e che i metodi di utilizzo non danneggino l'ambiente e non mettano in pericolo la salute umana (ed il rispetto di tale requisito è escluso posto che la combustione è avvenuta nei pressi di un edificio ed in periodo in cui l'accensione dei fuochi era vietata sul territorio regionale); nel caso in esame, viceversa, la destinazione era proprio quella dello smaltimento (lo stesso imputato aveva dichiarato infatti che la pula andava sparsa sui terreni come concime senza essere previamente bruciata).
3.1. Il ricorrente insiste, con il motivo di ricorso, sulla natura di sottoprodotto della pula di riso.
Sul punto, il Procuratore generale ha opportunamente segnalato gli approdi cui è giunta la giurisprudenza di legittimità che, in materia di gestione dei rifiuti, è ferma nel ritenere che,
ai fini della qualificazione come sottoprodotto di sostanze e materiali, incombe sull'interessato l'onere di fornire la prova che un determinato materiale sia destinato con certezza ed effettività, e non come mera eventualità, ad un ulteriore utilizzo (Sez. 3, n. 3202 del 02/10/2014, dep. 2015, Giaccari, Rv. 262129).
Questo perché l'art. 184-bis digs. n. 152 del 2006, definendo come sottoprodotto qualsiasi sostanza od oggetto che soddisfi "tutte" le condizioni dettagliatamente indicate nella disposizione normativa (art. 184-bis) alle lettere a), b), c) e d), sottrae il regime dei sottoprodotti a quello dei rifiuti, introducendo una disciplina avente natura eccezionale e derogatoria rispetto a quella ordinaria, con la conseguenza che spetta a colui che voglia farla valere di fornire la prova della sussistenza di tutte le condizioni, che dunque devono sussistere congiuntamente, previste per la sua operatività.
Nel caso di specie, non solo il ricorrente non ha fornito la prova certa che la sostanza (pula di riso) fosse utilizzata "nel corso dello stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi" (art. 184-ter, comma 1, lett. b), d.lgs. n. 152 del 2006) ma il Giudice del merito, con congrua motivazione, ha evidenziato l'esistenza della prova contraria in quanto il periodo della semina era già ampiamente decorso e i residui vegetali non erano stati utilizzati nei campi (in altre occasioni il ricorrente ne aveva fatto un diverso uso spargendo la sostanza nei campi come concime), né tali residui potevano essere successivamente utilizzati perché la condotta di bruciarli denotava, di fatto, la chiara intenzione del detentore di disfarsene, trattandoli non come sottoprodotto ma come rifiuto (secondo la nozione di cui all'articolo 183, comma 1, lettera a), d.lgs. n. 152 del 2006), attraverso lo smaltimento di essi mediante combustione.
3.2. Sul condivisibile rilievo che trattasi di questione rilevabile d'ufficio nel  giudizio di cassazione, in quanto anch'essa concernente lo ius superveniens, il Procuratore Generale ha correttamente osservato che i fatti, così come ricostruiti nella sentenza impugnata, inducono a ritenere non sussistenti nel caso di specie le ulteriori condizioni di esclusione dalla disciplina dei rifiuti previste dall'articolo 182, comma 6-bis, d.lgs. n. 152 del 2006 introdotto dall'art.14, comma 8, lettera b) decreto-legge 24.06.2014, n. 91, convertito, con modificazioni, dalla legge 11.08.2014, n. 116, svolgendo in proposito due considerazioni:
a) che nella stessa sentenza impugnata si dà atto che i pompieri, sopraggiunti sul posto, rinvenivano all'interno dell'azienda un cumulo di circa 80 m 3 di pula di riso che stava bruciando, per cui era stato superato il limite di 3 metri steri per ettaro che l'articolo 182, comma 6-bis, fissa per la irrilevanza penale del fatto, e
h) perché la stessa sentenza dà atto che nel periodo interessato l'accensione dei fuochi era vietata sul territorio regionale.
3.3. La disposizione richiamata (articolo 182, comma 6-bis) stabilisce che "le attività di raggruppamento e abbruciamento in piccoli cumuli e in quantità giornaliere non superiori a tre metri steri per ettaro dei materiali vegetali di cui all'articolo 185, comma 1, lettera f), effettuate nel luogo di produzione, costituiscono normali pratiche agricole consentite per il reimpiego dei materiali come sostanze concimanti o ammendanti, e non attività di gestione dei rifiuti. Nei periodi di massimo rischio per gli incendi boschivi, dichiarati dalle regioni, la combustione di residui vegetali agricoli e forestali è sempre vietata. I comuni e le altre amministrazioni competenti in materia ambientale hanno la facoltà di sospendere, differire o vietare la combustione del materiale di cui al presente comma all'aperto in tutti i casi in cui sussistono condizioni meteorologiche, climatiche o ambientali sfavorevoli e in tutti i casi in cui da tale attività possano derivare rischi per la pubblica e privata incolumità e per la salute umana, con particolare riferimento al rispetto dei livelli annuali delle polveri sottili (PM10)".
Si tratta, con tutta evidenza, di una disciplina in deroga che ha ad oggetto i materiali vegetali di cui all'articolo 185, comma 1, lettera f), d.lgs. n. 152 del 2006 (richiamato dal nuovo comma 6-bis dell'art. 182) ossia: "(...) paglia, sfalci e potature, nonché altro materiale agricolo o forestale naturale non pericoloso utilizzati in agricoltura, nella selvicoltura o per la produzione di energia da tale biomassa mediante processi o metodi che  non danneggiano l'ambiente né mettono in pericolo la salute umana".
Le attività di raggruppamento e abbruciamento in piccoli cumuli e in quantità giornaliere non superiori a tre metri steri per ettaro dei materiali vegetali, di cui all'art. 185, comma 1, lettera f), effettuate nel luogo di produzione, sono, quindi, sottratte, dalla disciplina sui rifiuti, poiché sono considerate (costituiscono) normali pratiche agricole consentite per il reimpiego dei materiali come sostanze concimanti o ammendanti, e non costituiscono più attività di gestione di rifiuti.
Quindi il loro "raggruppamento" ed "abbruciannento", se eseguito nel rispetto delle condizioni imposte dal comma 6-bis dell'art. 182, non costituisce attività di gestione di rifiuti, e conseguentemente non può integrare alcun illecito previsto dalla normativa di riferimento, per la fondamentale ragione che, a condizioni esatte, le sostanze non rientrano ope legis nel novero dei rifiuti (Sez. 3, n. 47663 del 08/10/2014, De Santis, non mass.).
Infatti,
letta "in controluce", la disposizione stabilisce che costituisce invece attività di gestione di rifiuti, esulando dalle normali pratiche agricole, ogni attività di raggruppamento e abbruciamento dei materiali vegetali di cui all'articolo 185, comma 1, lettera f), eseguita fuori dal luogo di produzione o, se eseguita nel luogo di produzione, per una finalità diversa dal reimpiego dei materiali come sostanze concimanti o ammendanti; ovvero che sia eseguita nel luogo di produzione, per il reimpiego dei materiali come sostanze concimanti o ammendanti, ma in cumuli non piccoli o, se in cumuli piccoli, in quantità giornaliere superiori a tre metri steri per ettaro.
Da ciò si ricava che
la disposizione ex art. 182, comma 6-bis, va coordinata con la disciplina, che già conteneva in nuce il medesimo principio, di cui all'art. 185, comma 1, lett. f), TUA il quale dispone che gli stessi materiali non rientrano nel campo di applicazione della normativa sui rifiuti qualora siano "utilizzati in agricoltura, nella selvicoltura o per la produzione di energia da tale biomassa mediante processi o metodi che non danneggiano l'ambiente né mettono in pericolo la salute umana", richiedendosi pertanto un reimpiego finalisticamente orientato ("come sostanze concimanti o ammendanti" e quindi l'utilizzazione in agricoltura che è realisticamente fattibile se le attività sono eseguite nei luoghi di produzione), nonché richiedendo processi o metodi ambientalmente salubri e non pericolosi (interessi, entrambi, compromessi da incendi indiscriminati di enormi quantità di materiali, non controllabili), e in tal senso spiegandosi, cioè nell'intima connessione esistente tra l'art. 182, comma 6-bis, TUA e l'art. 185, comma 1, lett. f), TUA, il secondo periodo inserito nella prima norma, apparentemente sganciato dalla disciplina di deroga dettata dalla prima parte della medesima disposizione ex 182, comma 6-bis, TUA secondo cui "nei periodi di massimo rischio per gli incendi boschivi, dichiarati dalle regioni, la combustione di residui vegetali agricoli e forestali è sempre vietata. I comuni e le altre amministrazioni competenti in materia ambientale hanno la facoltà di sospendere, differire o vietare la combustione del materiale di cui al presente comma all'aperto in tutti i casi in cui sussistono condizioni meteorologiche, climatiche o ambientali sfavorevoli e in tutti i casi in cui da tale attività possano derivare rischi per la pubblica e privata incolumità e per la salute umana, con particolare riferimento al rispetto dei livelli annuali delle polveri sottili (PM10)".
Pur nell'oggettiva difficoltà interpretativa, originata da interventi normativi, in materia, cronologicamente stratificati e sistematicamente non omogenei,
deve ritenersi che -quando il materiale (non pericoloso) di cui all'art. 185, comma 1, lett. f), TUA viene bruciato al di fuori delle condizioni previste dall'art. 182, comma 6-bis, primo e secondo periodo, TUA e, quindi, quando mancano le condizioni richieste per l'esclusione dell'abbruciamento dalle attività di gestione di rifiuti- è configurabile, contrariamente all'approdo cui è giunta in parte qua una precedente decisione (Sez. 3, n. 76 del 07/10/2014, dep. 2015, Urcioli, in motiv.), il reato di cui all'art. 256, comma 1, lett. a), TUA relativo alle attività di gestione di rifiuti non autorizzate e non invece la disciplina sanzionatoria di cui all'art. 256-bis TUE, in conformità all'approdo cui è giunta in parte qua la richiamata pronuncia di questa Sezione (Sez. 3, n. 76 del 07/10/2014, cit., in motiv.), in virtù della clausola di riserva espressa nel secondo periodo del comma 6 dell'art. 256-bis TUE secondo il quale "fermo restando quanto previsto dall'articolo 182, comma 6-bis, le disposizioni del presente articolo (ossia dell'art. 256-bis) non si applicano all'abbruciamento di materiale agricolo o forestale naturale, anche derivato da verde pubblico o privato".
3.4. Nel caso di specie, il ricorrente ha ampiamente superato (bruciando circa 80 metri cubi di pula di riso) il limite di 3 metri steri per ettaro, che la norma fissa per la irrilevanza penale del fatto (come noto, un metro stero rappresenta l'unità di volume apparente, cioè comprendente il materiale vegetale e gli spazi vuoti, che corrisponde ad una catasta delle dimensioni di 1 metro x 1 metro x 1 metro), avendo inoltre svolto l'attività di abbruciamento nel periodo in cui, come emerge dal testo della sentenza impugnata, l'accensione dei fuochi era vietata sul territorio regionale.
Peraltro, allo stesso modo che per la disciplina dei sottoprodotti, va chiarito che, siccome l'art. 182, comma 6-bis, TUE è da considerarsi norma che deroga alla disciplina ordinaria dei rifiuti, introducendo una regolamentazione avente natura eccezionale, l'onere della prova circa la sussistenza delle condizioni di legge per la sua applicazione deve essere assolto da colui che la deroga invoca.
Ne consegue l'infondatezza anche del secondo motivo.

PUBBLICO IMPIEGO: Niente mobbing se c’è negligenza. Cassazione. Provvedimenti disciplinari giustificati.
Con la sentenza 03.02.2016 n. 2116 la Corte di Cassazione -Sez. lavoro- è nuovamente intervenuta sul tema del mobbing, nell’ambito di un procedimento instaurato da un portalettere.
Nel caso in esame, il lavoratore –che era anche «responsabile del sindacato»- ha sostenuto di essere stato vittima di un «atteggiamento persecutorio» sul posto di lavoro, atteso che sarebbe stato insultato più volte dal direttore dell’ufficio postale e da questi sottoposto a continue richieste ingiustificate (nello specifico prestazioni di lavoro straordinario non dovuto e rifiuto di ferie), nonché soggetto a plurimi procedimenti disciplinari per l’abnorme quantitativo corrispondenza in giacenza.
Il tribunale di Bergamo ha accolto parzialmente la domanda del dipendente, ritenendo sussistente un danno biologico e morale connesso a una condotta del datore di lavoro, in relazione al quale è tuttavia stato accertato un concorso del lavoratore nel causare il danno stesso nella misura del 50 per cento. La Corte d’appello di Brescia, di contro, ha accertato l’illegittimità del comportamento del lavoratore nel suo complesso, rigettando così la sua domanda.
La Cassazione ha ripercorso la motivazione della Corte d’appello che, in modo del tutto logico e coerente, ha accertato, da un lato, come tutte le sanzioni disciplinari irrogate al lavoratore (tranne una) fossero state poi confermate in sede giudiziaria e, dall’altro lato, come le prestazioni di lavoro straordinario fossero del tutto legittime e l’ingente quantitativo di corrispondenza giacente non giustificato.
Non solo. La Corte d’appello –precisa la Cassazione– ha anche accertato come fosse proprio il dipendente a essere «poco collaborativo, negligente e restio a seguire direttive e ordini dei superiori, avvelenando il clima dell’ufficio», con la conseguenza che i procedimenti disciplinari instaurati e le relative sanzioni non potevano essere considerati come discriminatori né motivati da una sorta di «guerra psicologica» nei confronti del dipendente.
Parimenti, le frasi pronunciate dal direttore non erano rivelatrici di alcuna volontà persecutoria, anche considerando che il datore di lavoro aveva dato ben cinque anni di tempo al dipendente per «ravvedersi», irrogando durante tale periodo solo sanzioni conservative nonostante il lavoratore fosse recidivo.
La sentenza della Corte di cassazione si segnala, oltre che per la correttezza delle conclusioni, anche perché -pur senza enunciare alcun principio di diritto in materia di mobbing- implicitamente conferma il proprio indirizzo giurisprudenziale, ribadito anche recentemente, secondo cui il mobbing costituisce «un complesso fenomeno consistente in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all’obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo» (si veda Cassazione 05.11.2015, n. 22635)
(articolo Il Sole 24 Ore del 03.03.2016).

PUBBLICO IMPIEGO: Gli oneri riflessi sono sempre dovuti.
In un giudizio davanti al giudice amministrativo, anche nel caso in cui risulti vittoriosa un'amministrazione pubblica difesa da un avvocato di un ente pubblico iscritto all'elenco speciale, dovranno essere corrisposti i c.d. «oneri riflessi» nella misura di legge.
Lo ha precisato il TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II con la sentenza 03.02.2016 n. 151.
Nella controversia in esame, avente ad oggetto un provvedimento di condono edilizio, si è affrontato il tema dibattuto della ripetibilità degli oneri riflessi dalla parte soccombente, quando la difesa sia svolta da un avvocato iscritto all'elenco speciale.
Più precisamente si è discusso sull'interpretazione dell'art. 1, comma 208, introdotto dalla legge 266/2005 titolata: «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato», che ha dato subito vita ad un interessante polemica in ordine alla debenza dei cosiddetti «oneri riflessi», per la parte di spettanza del datore di lavoro, sui compensi professionali.
Tale norma prevede che «le somme finalizzate alla corresponsione di compensi professionali comunque dovuti al personale dell'avvocatura interna delle amministrazioni pubbliche sulla base di specifiche disposizioni contrattuali sono da considerare comprensive degli oneri riflessi a carico del datore di lavoro».
Muovendo dalla considerazione che la norma citata fosse finalizzata al contenimento della spesa pubblica, si riteneva che con l'espressione «oneri riflessi» il legislatore volesse riferirsi sia agli oneri previdenziali ed assistenziali, sia agli oneri fiscali (Irap), con la conseguenza che le somme finalizzate alla corresponsione di compensi professionali dovevano essere erogate al singolo avvocato dipendente dell'Ente al netto dei suddetti oneri.
Ebbene, il collegio rifiuta questa interpretazione e ritiene che risponda a criteri di ragionevolezza equiparare gli avvocati dell'avvocatura pubblica a quelli del libero foro, per quanto riguarda l'attività da essi svolta in giudizio, fermi restando i rapporti interni tra l'avvocato pubblico e l'ente datore di lavoro.
Per questo motivo, così come l'avvocato del libero foro in caso di esito vittorioso del proprio cliente, chiederà alla p.a. le spese liquidate oltre gli oneri di legge, che notoriamente sono Iva (22%), Cassa previdenziale avvocati (4%) e spese generali (15%), altrettanto la p.a. vittoriosa potrà richiedere al soccombente le spese liquidate dal giudice con l'aggiunta degli oneri di legge, che per la p.a. sono gli «oneri riflessi» (23,80% e spese generali) che la medesima dovrebbe altrimenti sostenere (non il dipendente avvocato) (articolo ItaliaOggi Sette del 14.03.2016).
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Conclusivamente il secondo ricorso per motivi aggiunti deve essere respinto.
Le spese del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
A tale ultimo proposito, per completezza espositiva, merita un cenno la questione, discussa in pubblica udienza, circa la liquidabilità degli oneri riflessi a carico della parte soccombente, laddove risulti vittoriosa, come nel caso di specie, un’amministrazione pubblica difesa da un avvocato iscritto all’elenco speciale.
Il Collegio ritiene che risponda a criteri di ragionevolezza equiparare gli avvocati dell’avvocatura pubblica a quelli del libero foro, per quanto riguarda l’attività da essi svolta in giudizio, fermi restando i rapporti interni tra l’avvocato pubblico e l’ente datore di lavoro.
Di conseguenza
laddove, come nel caso di specie, risulti vittoriosa un’amministrazione pubblica difesa da un avvocato iscritto all’elenco speciale, la formula comunemente utilizzata nella parte dispositiva “oltre oneri accessori di legge”, deve essere intesa nel senso che devono essere corrisposti, dalla parte soccombente, i cd. “oneri riflessi” nella misura di legge, in luogo del CAP e dell’IVA dovuti nella misura di legge all’avvocato del libero foro.

TRIBUTI: Ruolo nullo se manca il visto di esecutività.
Quando la riscossione dei tributi comunali sia affidata a terzi, il ruolo è nullo se manca il visto di esecutività, che deve essere apposto dal funzionario comunale responsabile della relativa gestione. Il ruolo non vistato è illegittimo e, di conseguenza, sono nulli tutti gli atti formati dal concessionario sulla base del ruolo medesimo.

Sono le conclusioni che si leggono nella sentenza 27.01.2016 n. 302/03/16 della Ctp di Taranto.
La vertenza prende le mosse dal ricorso proposto contro una ingiunzione di pagamento emessa da una società concessionaria del servizio di riscossione dei tributi, per contro del comune di Massafra. Tra le varie doglianze eccepite, la difesa di parte ricorrente sosteneva la violazione dell'articolo 52, comma 5, del dlgs 446/1997, sotto il profilo della mancata apposizione del visto di esecutività sul ruolo sotteso all'ingiunzione.
Il motivo ha fatto breccia nel pensiero della giudicante Ctp di Taranto, che ha accolto il ricorso e annullato l'ingiunzione di pagamento. In tema di riscossione delle imposte comunali, l'articolo 52 del dlgs 446/1997 detta delle regole ben precise e, sebbene al comma 5, lettera b), esso consenta «di affidare a terzi, anche disgiuntamente, l'accertamento e la riscossione dei tributi e di tutte le entrate», la stessa norma, al comma 5, lettera d), prevede espressamente che «il visto di esecutività sui ruoli per la riscossione dei tributi e delle altre entrate è apposto, in ogni caso, dal funzionario designato quale responsabile della relativa gestione».
Dunque, condizione di legittimità del ruolo, la cui riscossione sia affidata a una società esterna, è che sullo stesso sia apposto il visto di esecutività, a onere del funzionario comunale responsabile della gestione dei tributi. Detto adempimento, lungi dal poter essere considerato quale un mero formalismo, «costituisce garanzia di regolarità sia per il contribuente debitore che per lo stesso Concessionario della riscossione»; la mancanza del visto, prosegue il collegio, «fa mancare all'ingiunzione un requisito sostanziale essenziale, forma un atto difettoso e quindi illegittimo».
A fronte della contestazione mossa dal ricorrente, la società concessionaria avrebbe dovuto dimostrare l'esistenza e la regolare apposizione del visto di esecutività; dimostrazione rimasta inadempiuta, così che la Commissione ha ritenuto fondato il motivo di ricorso, condannando anche la parte soccombente al pagamento delle spese del giudizio.
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
Il ricorso è stato proposto contro l'ingiunzione di pagamento n del 09/01/2015 con la quale Soget spa per conto del comune di Massafra richiede Tarsu anno 2009 su avviso di accertamento n. ... notificato il 31/05/2014. Il ricorrente contesta l'atto e la richiesta riportando una serie di contestazioni e sottolineando che l'immobile de quo (garage annesso ad abitazione) è inoccupato e inutilizzato dal 13/02/2002 data nella quale fu inoltrata al comune una istanza di cessazione dell'uso.
Il ricorrente espone numerose argomentazioni a suo favore e conclude chiedendo l'annullamento dell'atto impugnato e della pretesa. Soget spa è costituita in giudizio e, dichiarando la piena legittimità del proprio operato chiede il rigetto del ricorso. All'udienza odierna la causa è stata chiamata per discutere sulla richiesta sospensione cautelare ma le parti concordemente hanno richiesto che si potesse discutere e decidere per il merito.
Pertanto sono state sentite le parti sulle questioni di merito e la Commissione ha ritenuto di trattenere la causa per la decisione. Esaminati gli atti, la commissione deve osservare che tra tutti quelli evidenziati dal ricorrente ve ne sono alcuni che sono meritevoli delle seguenti annotazioni. [omissis]
Visto di esecutorietà del funzionario comunale responsabile della Tarsu
Il citato visto, previsto dal dlgs 466/1997 –art. 52 – comma 5) punto 4 è espressamente previsto dalla norma ed è obbligatorio per ognuno degli atti emessi dall'Agente della riscossione. L'importanza di tale visto è evidente in quanto esso costituisce garanzia di regolarità sia per il contribuente debitore che per lo stesso concessionario della riscossione e la mancanza del visto medesimo oltre a far mancare all'ingiunzione un requisito sostanziale essenziale, forma un atto difettoso e quindi illegittimo. Alcun valore può essere riconosciuto a un atto così formato e lo stesso privo di validità giuridica deve essere posto nel nulla. [omissis]
La terza sezione della Ctp di Taranto, così dispone:
In accoglimento del ricorso: dichiara nulla la pretesa per Tarsu anno 2009 così come riportata a tergo dell'ingiunzione di pagamento impugnata; liquida in favore del ricorrente le spese di questo giudizio quantificate in euro seicento oltre Iva e Cap se dovuti e oltre all'importo del contributo unificato pagato e pone le stesse a completo carico della Soget spa (articolo ItaliaOggi Sette del 14.03.2016).

EDILIZIA PRIVATA: Immobili. Superati i 240 mq è lusso.
È escluso dall'agevolazione prima casa l'acquisto di immobili di lusso, per tali dovendosi intendere le unità immobiliari aventi superficie utile complessiva superiore a mq 240, esclusi i balconi, le terrazze, le cantine, le soffitte, le scale e posto macchine. La disposizione, in quanto norma agevolativa, è di stretta d'interpretazione.

Così si è pronunciata la Corte di Cassazione, Sez. V civile, con la sentenza 22.01.2016 n. 1178.
La Ctp aveva accolto il ricorso, limitatamente alla non debenza delle sanzioni. L'Agenzia impugnò allora la sentenza, assumendo l'erroneità della decisione nella parte in cui, con valutazione equitativa, aveva ritenuto non dovute le sanzioni. I contribuenti invece proponevano appello incidentale, poi accolto dalla Ctr, con il quale chiedevano l'annullamento integrale dell'avviso.
L'Agenzia proponeva infine ricorso per cassazione, sostenendo l'erroneità della pronuncia nella parte in cui, in forza di un'interpretazione estensiva dell'art. 6 del dm 02/08/1969, aveva escluso dal calcolo della superficie utile al fine dell'attribuzione all'immobile della qualità di lusso, parti non comprese nell'elenco tassativo della norma. Il motivo di impugnazione, secondo la Corte, era fondato.
La sentenza aveva infatti erroneamente accolto la tesi dei contribuenti, secondo cui dal calcolo della superficie utile complessiva dovesse escludersi non solo la superficie di alcuni locali del piano seminterrato, concretamente adibiti a cantina, ma anche due disimpegni realizzati a servizio sia dei locali cantina che di altri locali, in particolare del locale taverna e del locale lavanderia. Solo grazie ad una tale interpretazione estensiva era stato possibile giungere alla determinazione del calcolo della superficie utile complessiva in misura inferiore ai 240 mq.
Per stabilire però se un'abitazione sia di lusso, la superficie utile deve corrispondere a quella che residua una volta detratta la superficie di balconi, terrazze, cantine, soffitte, scale e posto macchina, dall'estensione globale riportata nell'atto di acquisto. Altre interpretazioni non sono consentite (articolo ItaliaOggi del 09.03.2016).
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MASSIMA
3. Il primo motivo è fondato e va accolto.
La sentenza impugnata ha accolto la tesi dei contribuenti secondo cui dal calcolo della superficie utile complessiva dovesse escludersi non solo la superficie di alcuni locali del piano seminterrato concretamente adibiti a cantina, ma anche due disimpegni realizzati a servizio sia dei locali cantina che di altri locali, in particolare del locale taverna e del locale lavanderia, ciò che ha consentito di giungere alla determinazione del calcolo della superficie utile complessiva in misura inferiore ai mq 240.
Giova in proposito ricordare che l'art. 6 del d.m. 02.08.1969, in combinato disposto con l'art. 1, nota H-bis, della Tariffa, parte I, allegata al D.P.R. n. 131/1986, esclude dall'agevolazione cd. prima casa l'acquisto per destinazione abitativa di immobili di lusso, per tali dovendosi intendere -per quanto stabilito dal succitato art. 6- "le singole unità immobiliari aventi superficie utile complessiva superiore a mq 240 (esclusi i balconi, le terrazze, le cantine, le soffitte, le scale e posto macchine)".
Detta disposizione, in quanto norma tributaria che prevede un'agevolazione fiscale, è norma di stretta d'interpretazione, la cui previsione non è dunque suscettibile di un'interpretazione che ne ampli la sfera applicativa.
La sentenza impugnata, che ha escluso dal calcolo della superficie utile complessiva dell'unità immobiliare non solo i locali adibiti a cantina, ma anche i disimpegni realizzati al servizio degli stessi e di altri locali, quello adibito a taverna e quello destinato a lavanderia, si pone dunque in contrasto con il principio di diritto più volte affermato da questa Corte in controversie similari e che va in questa sede ribadito, secondo cui "
in tema d'imposta di registro, ipotecaria e catastale, per stabilire se un'abitazione sia di lusso e, quindi, esclusa dai benefici per l'acquisto della prima casa ai sensi della Tariffa parte I, art. I nota II-bis, del D.P.R. 26.04.1986, n. 131, la sua superficie utile —complessivamente superiore a mq 240— va calcolata alla stregua del d.m. Lavori Pubblici 02.08.1969, n. 1072, che va determinata in quella che, dall'estensione globale riportata dall'atto di acquisto sottoposto all'imposta, residua una volta detratta la superficie di balconi, terrazze, cantine, soffitte, scale del posto macchina, senza che le suddette previsioni, relative ad agevolazioni o benefici fiscali, siano suscettibili di un'interpretazione che ne ampli la sfera applicativa" (cfr., tra le molte, Cass. civ. sez. VI — V ord. 17.06.2015, n. 12471; Cass. civ. sez. V 17.01.2014, n. 861; Cass. civ. sez. V 26.10.2011, n. 22279).
La sentenza impugnata, che non si è attenuta a detto principio, va dunque cassata, con rinvio per nuovo esame a diversa sezione della CTR della Lombardia, che si atterrà al principio di diritto sopra enunciato, decidendo anche in ordine alla disciplina delle spese del presente giudizio di legittimità.

VARI: Troppi gatti, l'area va tenuta pulita.
Chi si occupa di ospitare una colonia felina nel cortile di casa deve fare i conti anche con le legittime aspettative dei vicini. Quindi dovrà tenere pulito e limitare al massimo anche i rumori e i danneggiamenti.

Lo ha chiarito il TAR Sicilia-Catania, Sez. III, con la sentenza 12.01.2016 n. 3.
Un appassionato di gatti ha iniziato a radunare numerosi animali in prossimità di casa offrendo loro cibo ed acqua. Stanchi dell'inevitabile degrado conseguente al progressivo aumento degli ospiti a quattro zampe, alcuni residenti hanno richiesto l'intervento degli organi di vigilanza che dopo un sopralluogo effettuato con la polizia municipale hanno proposto al sindaco di disporre con ordinanza il ripristino di adeguate condizioni igienico-sanitarie.
Contro questa determinazione l'interessato ha proposto senza successo ricorso al collegio. Il tenutario di una colonia felina, ai sensi della convenzione del consiglio d'Europa del 1987, recepita in Italia con la legge 201/2010, è di fatto chiunque detenga animali o abbia accettato di occuparsene. Dunque è sufficiente offrire del cibo puntualmente sul proprio terrazzo a dei gatti randagi per diventare in qualche modo responsabili del loro benessere.
Ma se poi le condizioni igieniche dell'area privata degradano per cattiva manutenzione o per la presenza di un numero insostenibile di animali, allora il sindaco ha facoltà di intervento. Ordinando anche di ridurre la presenza dei gatti in sovrannumero sul terrazzo (articolo ItaliaOggi del 10.03.2016).

TRIBUTI: Niente Ici sulle aree destinate a parco.
Non è dovuta l'imposta comunale sugli immobili, per un area edificabile che sia stata destinata a «parco pubblico», anche se il comune abbia previsto per le stesse la c.d. «compensazione edificatoria», trasferendo la capacità edificatoria su altre aree di «atterraggio»; l'area destinata a verde pubblico attrezzato, infatti, non può comunque essere qualificata come fabbricabile, non risultando integrato il presupposto per l'applicazione dell'imposta.

È quanto si legge nella sentenza 08.01.2016 n. 1/29/16 della Ctr Lazio-Roma. La vertenza nasce dall'impugnazione di un avviso di accertamento emesso dal comune di Roma, per il recupero dell'Ici su delle aree edificabili, relativamente all'anno 2007. Nel ricorso proposto all'attenzione della Ctp di Roma, la società sosteneva che quelle aree fosse intervenuto un vincolo di inedificabilità assoluta, poiché le stesse erano state destinate a parco pubblico.
Il resistente comune osservava, però, di aver dato luogo alla procedura di compensazione, trasferendo la sottratta capacità edificatoria su altre aree di atterraggio. Trattasi di uno strumento di perequazione urbanistica, che si sostanzia nel fatto che qualora un'area, suscettibile di edificabilità in forza di uno strumento urbanistico generale, venga sottratta all'uso privato per essere destinata alla collettività (per effetto di un'apposizione di vincolo per sopravvenute esigenze pubbliche) la capacità edificatoria dell'area possa non essere azzerata, con conseguente obbligo dell'Amministrazione di indennizzare il proprietario, ma, non potendo essere esercitata in situ, possa essere esercitata su altre aree individuate tra quelle già in possesso dello stesso proprietario ovvero in altre aree individuate dalla stessa Amministrazione.
Per tale ragione, secondo il comune, l'Ici sulle aree destinate a verde pubblico rimane comunque dovuta, perché la capacità edificatoria viene conservata e trasferita in seno ad altre aree. La Ctp di Roma aderiva a tale interpretazione e contro la sentenza di prime cure veniva proposto appello dalla società.
La Ctr Lazio ha ribaltato l'esito del primo grado, rilevando che l'apposizione del vincolo di destinazione a verde pubblico esclude a priori che l'area possa qualificarsi come fabbricabile, facendo venir meno il presupposto per l'applicazione dell'imposta. L'appello della società è stato quindi accolto, con compensazione delle spese di giudizio tra le parti in causa.
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
[omissis] risulta in atti che la C. 2005 srl è proprietaria di un'area ricadente nel comprensorio di «Tor Marancia», il quale con la L.R. Lazio 31.05.2002, n. 14 è stato inserito nel Parco Regionale dell'Appia Antica con la conseguenza che le aree in esso ricomprese hanno perso la qualità di aree edificabili e assunto la natura di «parco pubblico».
Il comune di Roma Capitale insiste sulla legittimità del suo operato sul rilievo dell'irrilevanza della perdita del carattere edificatorio nelle aree site in località Tor Marancia dal momento che tale capacità edificatoria è stata trasferita in altre aree cd. di «atterraggio» attraverso il meccanismo della compensazione.
Così individuato il «thema decidendum» va rimarcato il principio dei giudici di legittimità secondo cui «In tema di imposta comunale sugli immobili (Ici), un'area compresa in una zona destinata dal Prg a verde pubblico attrezzato, è sottoposta a un vincolo di destinazione che preclude ai privati tutte quelle trasformazioni del suolo che sono riconducibili alla nozione tecnica di edificazione. Ne deriva che un'area con tali caratteristiche non può essere qualificata come fabbricabile, ai sensi dell'art. 1, comma 2, dlgs n. 504 del 1992, e, quindi, il possesso della stessa non può essere considerato presupposto dell'imposta comunale in discussione
» (cfr. Cass. n. 25672/2008; Cass. n. 5992/2015).
Nel caso di specie, esaminato anche l'allegato tecnico all'avviso di accertamento impugnato, è pacifico in atti che i terreni oggetto del predetto avviso di accertamento sono soggetti al vincolo di inedificabilità assoluta in quanto inseriti nel Parco Pubblico di Appia Antica, come riconosciuto dalla stessa difesa dell'appellato e pertanto sono precluse all'appellante tutte quelle forme di trasformazione del suolo che sono riconducibili alla nozione tecnica di edificazione (Cass. 14.06.2007 n. 13917).
Le compensazioni edificatorie sulle quali Roma Capitale fonda la legittimità della sua pretesa creditoria, non rientrano ancora al 01.01.2007 nel patrimonio della società appellante poiché non risultano assegnati i terreni sui quali dovranno «atterrare» le volumetrie già previste con riferimento ai terreni di proprietà dell'appellante in «Tor Marancia», onere incombente sull'appellato non assolto.
La tesi dell'appellato secondo sussisterebbe il presupposto impositivo stante il cd. «credito edificatorio» su aree diverse da quelle oggetto dell'avviso in presenza della compensazione urbanistica va disattesa per l'assorbente rilievo che la irreversibile destinazione dei terreni facenti parte del Comprensorio di Tor Marancia ha azzerato il valore di mercato delle aree.
Né, in assenza di atti che comprovano il permanere del possesso di tali aree in capo all'appellato può trovare applicazione l'art. 3 Dlgs n. 405 del 1992 richiamato dal comune appellato. [omissis] (articolo ItaliaOggi Sette del 07.03.2016).

EDILIZIA PRIVATACondanna per il reato di cui all'art. 44, lett. a), del d.P.R. n. 380 del 2001 per omessa esposizione del cartello di cantiere in relazione a lavori di costruzione di edificio bifamiliare.
La violazione, da parte del titolare del permesso a costruire, del committente, del costruttore o del direttore dei lavori, dell'obbligo della esposizione di un cartello contenente gli estremi della concessione e degli autori dell'attività costruttiva è penalmente sanzionata a condizione che lo stesso sia espressamente previsto dai regolamenti edilizi o dalla concessione.
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1. Za.Cr. e Za.Ma. hanno proposto ricorso avverso la sentenza del Tribunale di Udine, sez. dist. di Palmanova, che li ha condannati per il reato di cui all'art. 44, lett. a), del d.P.R. n. 380 del 2001 per omessa esposizione del cartello di cantiere in relazione a lavori di costruzione di edificio bifamiliare.
2. Con un primo motivo lamentano violazione di legge deducendo che la giurisprudenza di legittimità, con la pronuncia n. 1524 del 1992, ha ritenuto la condotta de qua integrante unicamente illecito amministrativo in quanto non avente carattere urbanistico e conseguentemente non rientrante nello spettro dell'art. 44, lett. a), cit..
Rilevano altresì che tale fatto è espressamente considerato come illecito amministrativo da parte dell'art. 55, comma 1, della legge regionale Friuli n. 19 del 11/11/2009, del resto richiamata dal regolamento edilizio comunale di Lignano Sabbiadoro. Oltre a ciò rilevano che la Regione Friuli esercita la propria potestà legislativa in materia edilizia in via esclusiva e non concorrente con quella statale come indirettamente confermato anche dall'art. 22, comma 4, del d.P.R. n. 380 del 2001.
3. Con un secondo motivo censurano poi l'erronea applicazione della legge penale posto che l'art. 44, lett. a), del d.P.R. n. 380 del 2001 riguarda provvedimenti di natura strettamente urbanistica-edilizia, ovverossia le ipotesi di violazione delle sole norme aventi rilevanza sotto il profilo tecnico-costruttivo e non la violazione di adempimenti formali non attinenti alla perfezione dell'atto amministrativo.
CONSIDERATO IN DIRITTO
4. Entrambi i motivi, da valutare unitariamente perché relativi ad una medesima complessiva censura, ovvero la non rilevanza penale della condotta di omessa esposizione del cartello di cantiere, sono infondati.
Va in primo luogo rilevato che, per giungere alla invocata conclusione della natura di mero illecito amministrativo della condotta in questione, il ricorso richiama un risalente indirizzo, esemplificato dalle pronunce della Sez. 3, n. 13086 del 17/07/1987, Carraro, Rv. 177314, e n. 11 del 08/01/1992, P.M. in proc. Bazzi, Rv. 189624, già contraddetto da pronuncia delle Sezioni Unite e, da allora, rimasto isolato pur a seguito della nel frattempo intervenuta formale modifica delle norme interessate.
Infatti il costante orientamento di questa Corte si è posto, sin appunto dalla pronuncia delle Sez. U., n. 7978 del 29/05/1992, P.M. in proc. Aramini ed altro, Rv. 191176, riferita alla previgente, omologa, disposizione di cui all'art. 20, lett. a), della l. n. 47 del 1985, per giungere fino ad oggi, nel senso di ritenere che
la violazione, da parte del titolare del permesso a costruire, del committente, del costruttore o del direttore dei lavori, dell'obbligo della esposizione di un cartello contenente gli estremi della concessione e degli autori dell'attività costruttiva è penalmente sanzionata a condizione che lo stesso sia espressamente previsto dai regolamenti edilizi o dalla concessione (cfr., tra le altre, Sez. 3, n. 29730 del 04/06/2013, Stroppini ed altri, Rv. 255836; Sez. 3, n. 46832 del 15/10/2009, Thabet ed altro, Rv. 245613; Sez. 3, n. 16037 del 07/04/2006, Bianco, Rv. 234330).
In particolare
le Sezioni Unite, con la pronuncia menzionata appena sopra, hanno posto l'accento, nel contesto normativo in allora rappresentato dalla legge n. 47 del 1985, sull'art. 4 della stessa che, intitolato "vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia nel territorio comunale per assicurarne la rispondenza alle norme di legge e di regolamento alle prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle modalità esecutive fissate nella concessione o nell'autorizzazione", prevedeva, all'ultimo comma, che gli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria dessero immediata comunicazione all'autorità giudiziaria, al presidente della giunta regionale ed al sindaco ove nei luoghi di realizzazione delle opere non fosse esibita la concessione ovvero non fosse stato apposto il prescritto cartello, "ovvero in tutti gli altri casi di presunta violazione urbanistico-edilizia", da qui testualmente desumendo, in particolare, come anche la sola violazione dell'obbligo di apposizione del cartello fosse appunto considerata dal legislatore come ipotesi di presunta violazione urbanistico-edilizia e, come tale, di particolare rilevanza ai suindicati fini; aveva aggiunto, a riprova, come la sistemazione del prescritto cartello, contenente gli estremi della concessione edilizia e degli autori dell'attività costruttiva presso il cantiere, consentisse una vigilanza rapida, precisa ed efficiente dell'attività rispondendo allo scopo di permettere ad ogni cittadino di verificare se i lavori fossero o meno stati autorizzati dall'autorità competente.
Di qui, dunque, la riconducibilità della condotta omissiva in questione all'interno dell'allora precetto dell'art. 20, lett. a), della l. n. 47 del 1985 in relazione alla inosservanza delle norme di cui alla stessa legge.
Né tali conclusioni possono mutare ove si abbia riguardo alla sopravvenuta normativa rappresentata dal d.P.R. n. 380 del 2001, posto che l'art. 27, comma 4, del d.P.R. stesso ha riprodotto la previsione del previgente art. 4 cit. relativa alla immediata comunicazione agli enti competenti da parte degli ufficiali ed agenti di p.g. della mancata apposizione del cartello così come di "tutti gli altri casi di presunta violazione urbanistico-edilizia", restando quindi confermata, contrariamente all'assunto sul punto del ricorrente esposto in entrambi i motivi, l'appartenenza della violazione in questione alla attività edilizio-urbanistica e, dunque, la sanzionabilità della stessa all'interno delle ipotesi di cui all'art. 44, lett. a), del d.P.R. cit., così acquistando rilievo determinante la previsione di essa all'interno dei regolamenti edilizi o della concessione.
E, nella specie, neppure i ricorrenti contestano che, per quanto riguarda il regolamento edilizio di Lignano Sabbiadoro vigente all'epoca dei fatti, quest'ultimo contenesse all'art. 22, come contestato in imputazione e come affermato in sentenza, l'obbligo di esposizione del cartello.
5. Va solo aggiunto che a diverse conclusioni non può condurre l'ulteriore argomentazione in ordine alla specifica previsione quale illecito amministrativo dell'omissione in questione da parte dell'art. 55 della Legge Regionale del Friuli Venezia Giulia, previsione che, anche in forza della pretesa esclusiva potestà legislativa di detta Regione in materia di edilizia, finirebbe per escludere ogni residua valenza penale.
Infatti, oltre a doversi ribadire che
in materia di legislazione edilizia nelle regioni a statuto speciale, pur spettando alla Regione una competenza legislativa esclusiva in materia, la relativa legislazione deve non solo rispettare i principi fondamentali stabiliti dalla legislazione statale, ma deve anche essere interpretata in modo da non collidere con i medesimi (cfr., tra le tante, Sez. 3, n. 28560 del 26/03/2014, Alonzo, Rv. 259938; Sez. 3, n. 2017 del 25/10/2007, Giangrasso, Rv. 238555), va osservato che alla stregua dell'art. 9, comma 2, della l. n. 689 del 1981, espressivo del principio di specialità, quando uno stesso fatto è punito da una disposizione penale e da una disposizione regionale che preveda una sanzione amministrativa, si applica in ogni caso la disposizione penale, salvo che quest'ultima sia applicabile solo in mancanza di altre disposizioni penali (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.03.2015 n. 10713 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATALa sostituzione del tetto di copertura con altra modalità costruttiva necessita di permesso di costruire quando, implicando aumento della volumetria dell’immobile, non può essere considerata alla stregua di un intervento di manutenzione straordinaria.
Né è possibile giustificare l’incremento di volumetria, realizzato nel caso di specie, per effetto della nuova realizzazione della copertura, ricorrendo al concetto di volume tecnico, come tale da non considerare nel calcolo della volumetria complessivamente realizzata, atteso che la nozione di 'volume tecnico' non computabile nella volumetria non ricorre se non quando non sussistano modalità alternative di costruzione non implicanti aumenti di volumetria o comunque incrementi volumetrici del tutto contenuti.
In altri termini, il richiamo al concetto di volume tecnico non può giustificare qualsiasi incremento di volumetria, rispetto a quella originariamente assentita, connesso all’adozione di diverse modalità di realizzazione della copertura dell’immobile rispetto a quella del progetto originario.

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2. Le censure spiegate avverso l’ordinanza di demolizione, impugnata con il quinto atto per motivi aggiunti sono infondate e vanno rigettate alla stregua delle osservazioni che seguono.
2.1 In esito alla disposta verificazione, è emerso, come da relazione del verificatore, che anche rispetto alla volumetria complessivamente assentita con la concessione in sanatoria, così come rettificata e pari a mc. 444,71, risulta realizzato un maggior volume di mc 29,53, pari al 6,64%.
Detto incremento di volumetria è in difformità anche rispetto ai nulla osta rilasciati dall’Ente Parco di Veio (trattandosi di immobile in area soggetta a vincolo paesistico) e allegati alla D.I.A. limitati al rivestimento dell’edificio con intonaco civile e con obbligo di mantenimento della cubatura preesistente.
Assume il verificatore che detto incremento di cubatura sarebbe riferibile esclusivamente alle modifiche apportate al tetto (nuova struttura costituita da trave portante, morale, tavola) e quindi non sarebbe qualificabile come variazione essenziale secondo quanto previsto nel comma 3 dell’art. 17 della legge reg. 15/2008 in quanto cubatura riferibile interamente ad un volume tecnico.
2.2 La tesi non può essere condivisa.
La sostituzione del tetto di copertura con altra modalità costruttiva necessita di permesso di costruire quando, implicando aumento della volumetria dell’immobile, non può essere considerata alla stregua di un intervento di manutenzione straordinaria.
Né è possibile giustificare l’incremento di volumetria, realizzato nel caso di specie, per effetto della nuova realizzazione della copertura, ricorrendo al concetto di volume tecnico, come tale da non considerare nel calcolo della volumetria complessivamente realizzata, atteso che la nozione di 'volume tecnico' non computabile nella volumetria non ricorre se non quando non sussistano modalità alternative di costruzione non implicanti aumenti di volumetria o comunque incrementi volumetrici del tutto contenuti.
In altri termini, il richiamo al concetto di volume tecnico non può giustificare qualsiasi incremento di volumetria, rispetto a quella originariamente assentita, connesso all’adozione di diverse modalità di realizzazione della copertura dell’immobile rispetto a quella del progetto originario.
La realizzazione del cordolo perimetrale sovrastante le murature portanti del fabbricato, con modifiche delle altezze, costituisce modalità di realizzazione diversa da quanto progettato, rispondente ad una delle possibili scelte costruttive e in quanto tale non riconducibile, per quanto detto, alla nozione di volume tecnico (la stessa soluzione realizzativa avrebbe verosimilmente potuto essere conseguita mediante riduzione dell’altezza delle murature perimetrali e mantenimento delle altezze complessive medie e della volumetria preesistente).
La maggiore volumetria realizzata, sebbene inferiore a quanto indicato nel provvedimento impugnato, è comunque superiore al 2% del volume complessivamente assentito, rientrando quindi nella previsione di cui all’art. 17, comma 1, lett. c), della legge reg. 15/2008, e legittima parimenti la misura sanzionatoria applicata dal Comune di Sacrofano.
2.3 A seguito dei chiarimenti resi dal verificatore in ottemperanza all’ordinanza n. 5069/2014, resta confermato che anche gli aumenti delle altezze medie sono riferibili alla realizzazione della nuova copertura, considerato che, anche a prescindere dalla correttezza del computo metrico dell’altezza alla gronda del bene in 2,40 mt, e quindi anche computando un’altezza alla gronda del bene pari a 2,46 mt, la maggiore altezza delle pareti perimetrali sarebbe comunque da ritenersi adeguamento tecnico connesso alla modalità di realizzazione della struttura soprastante (gettata di cordoli perimetrali per legare le mura portanti alla copertura anche per ripianare i carichi derivanti dalle strutture sovrastanti).
Ne consegue che l’intero incremento di volume è riferibile alle modalità di realizzazione della nuova copertura dell’immobile che, nella sua considerazione complessiva, supera il limite del 2% rispetto alla volumetria assentita, implicando quindi intervento in difformità dal titolo abilitativo, atteso che l’immobile de quo è soggetto a vincolo paesaggistico.
2.4 Va infatti rilevato che, ai sensi dell’art. 17, comma 4, della legge reg. 15/2008, tutti gli interventi di cui al comma 1 (ivi compresi gli aumenti di cubatura superiori al limite del 2%), ove realizzati su immobile vincolato, sono da considerarsi in totale difformità dal titolo abilitativo ai fini dell’applicazione del relativo regime sanzionatorio, con conseguente impossibilità di applicazione della sanzione pecuniaria di cui all’art. 19 della legge reg. 15/2008.
2.5 La stessa disposizione stabilisce poi che tutti gli altri interventi edilizi diversi da quelli di cui al comma 1, se realizzati su immobili vincolati, comportano variazioni essenziali.
In base ad una lettura combinata dei commi 1, 3 e 4 dell’art. 17 menzionato si ha quindi, per quanto rileva in questa sede, che mentre gli interventi edilizi su cubature accessorie o volumi tecnici, sebbene implicanti aumenti di volumetria superiori al 2%, non sono da considerarsi come variazioni essenziali, nel caso in cui i medesimi interventi riguardino beni vincolati sono da considerarsi comunque variazioni essenziali, non potendosi giustificare, in relazione ad immobili vincolati, interventi modificativi della cubatura in assenza del nulla osta degli organi preposti alla tutela del bene diversamente consentiti nei limiti sopra detti per gli immobili non vincolati.
Ne consegue che, anche a prescindere dalla sopra rilevata impossibilità di considerare l’intervento de quo come riguardante esclusivamente un volume tecnico, atteso il regime vincolistico cui il bene è sottoposto, l’incremento di volumetria realizzato andrebbe comunque considerato come variazione essenziale; cosicché il provvedimento sanzionatorio impugnato sarebbe ugualmente legittimo e non sarebbe ugualmente applicabile la mera sanzione pecuniaria (cfr. sul punto Tar Lazio I-quater 06.09.2013 n. 8155) (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 10.01.2015 n. 291 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il privato sanzionato con l'ordine di demolizione per la costruzione di un'opera edilizia abusiva non può invocare l'applicazione a suo favore della disposizione contenuta nell'art. 34, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001 se non fornisce seria ed idonea dimostrazione del pregiudizio stesso sulla struttura e sull'utilizzazione del bene residuo, con la precisazione che un eventuale pregiudizio può avere rilievo solo in sede di esecuzione e non rileva ai fini della legittimità dell'ordine demolitorio.
Il ricorrente non ha fornito detta prova, a nulla valendo che la demolizione implicherebbe una notevole spesa o potrebbe incidere sulla funzionalità del manufatto, perché per impedire l'applicazione della sanzione demolitoria occorre un effettivo pregiudizio alla restante parte dell'edificio, consistente in una menomazione dell'intera stabilità del manufatto.
Inoltre, come rilevato dal Comune resistente, la copertura del tetto è in legno e non appare verosimile che la sua demolizione e rifacimento con conservazione della volumetria originariamente assentita possa recare pregiudizio irreparabile alla stabilità dell’immobile.

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3. Quanto alle censure di cui agli altri motivi aggiunti, e inerenti la mancata applicazione del regime di cui all’art. 34 del d.p.r. 380/2001, è sufficiente ribadire che la norma richiamata non è applicabile alle sanzioni demolitorie comminate per opere insistenti su zona vincolata (art. 27 del medesimo D.P.R. 380 del 2001)
Inoltre, come sopra detto, gli interventi in questione non possono essere considerati "interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire", contemplati nel citato art. 34, trattandosi di interventi in totale difformità al titolo edilizio.
Ad ogni buon conto, va rilevato che, secondo costante orientamento giurisprudenziale, il privato sanzionato con l'ordine di demolizione per la costruzione di un'opera edilizia abusiva non può invocare l'applicazione a suo favore della disposizione contenuta nell'art. 34, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001 se non fornisce seria ed idonea dimostrazione del pregiudizio stesso sulla struttura e sull'utilizzazione del bene residuo, con la precisazione che un eventuale pregiudizio può avere rilievo solo in sede di esecuzione e non rileva ai fini della legittimità dell'ordine demolitorio (cfr. C.d.S., sez. V, 05.09.2011, n. 4982; TAR Campania, Napoli, sez. IV, 05.08.2013, n. 4056).
Il ricorrente non ha fornito detta prova, a nulla valendo che la demolizione implicherebbe una notevole spesa o potrebbe incidere sulla funzionalità del manufatto, perché per impedire l'applicazione della sanzione demolitoria occorre un effettivo pregiudizio alla restante parte dell'edificio, consistente in una menomazione dell'intera stabilità del manufatto.
Inoltre, come rilevato dal Comune resistente, la copertura del tetto è in legno e non appare verosimile che la sua demolizione e rifacimento con conservazione della volumetria originariamente assentita possa recare pregiudizio irreparabile alla stabilità dell’immobile (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 10.01.2015 n. 291 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l'ordinanza di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non vi è spazio per momenti partecipativi del destinatario dell'atto (per es. non è necessario l'invio della comunicazione di avvio del procedimento), ivi compresa la partecipazione al procedimento di autotutela su atti repressivi di abusi edilizi.
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3.1 Quanto alle censure relative alla violazione delle regole sulla partecipazione dell’interessato al procedimento, va rammentato il costante orientamento giurisprudenziale, anche della Sezione, secondo il quale l'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l'ordinanza di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non vi è spazio per momenti partecipativi del destinatario dell'atto (per es. non è necessario l'invio della comunicazione di avvio del procedimento), ivi compresa la partecipazione al procedimento di autotutela su atti repressivi di abusi edilizi (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 10.01.2015 n. 291 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Integra il reato previsto dall'art. 44, lett. a), d.P.R. 06.06.2001, n. 380, anche l'esposizione, in maniera non visibile, del cartello indicante il titolo abilitativo e i nominativi dei responsabili, ancorché esso risulti presente all'interno del cantiere.
La circostanza che lo stesso cartello fosse presente all'inizio dei lavori, peraltro, non esclude la configurabilità del reato in quanto ciò che rileva è che lo stesso non fosse esposto al momento del controllo da parte del personale di vigilanza, in quanto funzione del cartello è proprio quello di rendere edotti gli organi di vigilanza dell'esistenza in loco di interventi edilizi, al fine di consentire l'espletamento di tutte quelle attività di verifica dell'osservanza della normativa edilizia e di corrispondenza dell'assentito al realizzato.

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1. VE.BR. ha proposto ricorso, a mezzo del difensore fiduciario cassazionista, avverso la sentenza del Tribunale di ACQUI TERME, emessa in data 11/03/2013, depositata in data 10/04/2013, con cui il ricorrente è stato condannato alla pena di 1.000,00 di ammenda per il reato di cui all'art. 27, comma 4, e 44, comma 1, lett. a), d.P.R. n. 380/2001, perché, quale esecutore dei lavori, ometteva (unitamente a Ro.Br., titolare del p.d.c. e committente, non ricorrente in questa sede) di esporre nel cantiere sito in Acqui Terme, via ..., il prescritto cartello riportante i dati del cantiere (accertato in Acqui Terme, il 23/05/2009).
...
3. Il ricorso dev'essere dichiarato inammissibile per manifesta infondatezza.
4. Ed invero, seguendo l'ordine logico e cronologico, quanto al primo motivo di ricorso, con cui si censura la violazione di legge per la erronea valutazione dell'art. 27, d.P.R. n. 380/2001, la manifesta infondatezza del medesimo discende dal
pacifico orientamento giurisprudenziale secondo cui integra il reato previsto dall'art. 44, lett. a), d.P.R. 06.06.2001, n. 380, anche l'esposizione, in maniera non visibile, del cartello indicante il titolo abilitativo e i nominativi dei responsabili, ancorché esso risulti presente all'interno del cantiere (Sez. 3, n. 40118 del 22/05/2012 - dep. 11/10/2012, Zago ed altri, Rv. 253673).
Dallo stesso ricorso, peraltro, emerge che il cartello non era visibile per esigenza momentanee, in quanto era stato rimosso e posizionato all'interno del cantiere medesimo al fine di consentire alla ditta Co. di effettuare alcuni lavori all'oleodotto.
La circostanza che lo stesso fosse presente all'inizio dei lavori, peraltro, non esclude la configurabilità del reato in quanto ciò che rileva è che lo stesso non fosse esposto al momento del controllo da parte del personale di vigilanza, in quanto funzione del cartello è proprio quello di rendere edotti gli organi di vigilanza dell'esistenza in loco di interventi edilizi, al fine di consentire l'espletamento di tutte quelle attività di verifica dell'osservanza della normativa edilizia e di corrispondenza dell'assentito al realizzato (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 30.04.2014 n. 28123 - data udienza).

EDILIZIA PRIVATALa presentazione dell'istanza di sanatoria successivamente alla impugnazione dell'ordinanza di demolizione -o alla notifica del provvedimento di irrogazione delle altre sanzioni per gli abusi edilizi- produce l'effetto di rendere inefficace tale provvedimento e, quindi, improcedibile l'impugnazione stessa, per sopravvenuta carenza di interesse, in quanto il riesame dell'abusività dell'opera, sia pure al fine di verificarne la eventuale sanabilità, provocato da detta istanza, comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento (di accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa.
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... per l'annullamento:
- della disposizione dirigenziale n. 1037 del 31.08.2005 notificata il 03.07.2009 di demolizione di una sopraelevazione di circa 90 mq con struttura portante in legno e copertura a quattro falde, altezza al colmo di mt 4 ed alla gronda mt 2,30;
- della disposizione dirigenziale n. 472 del 24.06.2009 notificata il 03.07.2009 di acquisizione gratuita al patrimonio comunale, relativamente ad opere abusive eseguire alla via ... n. 49;
- dei verbali di sopralluogo, di estremi ignoti, e di quello del 03.07.2004;
...
Il ricorso principale verte sulla impugnativa della ingiunzione a demolire e della determinazione di acquisizione spedite ai ricorrenti a fronte della abusiva edificazione da parte degli stessi, su un preesistente immobile sito alla via ... n. 49, di un piano in sopraelevazione della superficie di circa 90 mq, con altezza al colmo di mt 4 ed alla gronda di mt 2,30.
Con i motivi aggiunti successivamente notificati in data 07.05.2010, parte ricorrente ha impugnato il diniego di accertamento di conformità di cui alla disposizione dirigenziale n. 56/2010.
Va preliminarmente rilevato che il ricorso principale è improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse, poiché la parte ha presentato domanda di accertamento di conformità, che risulta successivamente denegata, e che è stata impugnata con i motivi aggiunti.
Invero, secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale, anche di questo tribunale, la presentazione dell'istanza di sanatoria successivamente alla impugnazione dell'ordinanza di demolizione -o alla notifica del provvedimento di irrogazione delle altre sanzioni per gli abusi edilizi- produce l'effetto di rendere inefficace tale provvedimento e, quindi, improcedibile l'impugnazione stessa, per sopravvenuta carenza di interesse, in quanto il riesame dell'abusività dell'opera, sia pure al fine di verificarne la eventuale sanabilità, provocato da detta istanza, comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento (di accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa (cfr. Cons. Stato, sez. V, 21.04.1997, n. 3563; sez. IV, 11.12.1997, n. 1377; C.G.A. 27.05.1997, n. 187; TAR Sicilia, sez. II, 05.10.2001, n. 1392; TAR Liguria, sez. II, 14.12.2000, n. 1310; TAR Toscana, sez. III, 18.12.2001, n. 2024; TAR Puglia, Bari, sez. II, 11.01.2002, n. 154; TAR Campania, Sez. IV, 25.05.2001, n. 2340, 11.12.2002, n. 7994, 30.06.2003, n. 7902, 02.02.2004, n. 1239, 13.09.2004, n. 11983).
Nella specie, infatti, l’amministrazione ha emesso il diniego esplicito sulla istanza di parte, che risulta impugnato con motivi aggiunti, nel quale è stata reiterata la diffida a demolire.
Alla stregua di quanto osservato, deve rilevarsi che gli originari ricorrenti non hanno più alcuna utilità ad ottenere una decisione di merito sulle domande giudiziali proposte avverso gli atti sanzionatori –demolizione ed acquisizione- aventi ad oggetto le medesime opere ed emessi in data antecedente alla richiesta di sanatoria edilizia, spostandosi il loro interesse processuale sull’impugnativa della determinazione reiettiva delle domande di accertamento di conformità e sull’ulteriore ingiunzione ripristinatoria contestualmente emessa dall’amministrazione. Deve pertanto dichiararsi l’improcedibilità del ricorso principale.
Può reputarsi, invece, persistente l’interesse con riguardo all’impugnazione del provvedimento del 11.02.2010 di diniego dell’istanza di accertamento di conformità urbanistica per gli stessi interventi.
Per tale parte il ricorso è infondato e va respinto (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 05.08.2013 n. 4056 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATACon riferimento alla presentata istanza di accertamento di conformità urbanistica ed a fronte della chiara motivazione posta a base del rigetto –ove si precisa che la tipologia delle opere realizzate, che hanno comportato un aumento volumetrico, è in contrasto con le disposizioni di cui agli artt. 31 e 33 della variante generale al PRG, che non consentono interventi ulteriori rispetto alla conservazione dei volumi legittimi esistenti– gli istanti si sono limitati ad assumere genericamente, con argomentazioni del tutto inconferenti, che l'abuso sarebbe stato realizzato in zona che è stata interessata di fatto da un processo di edificazione ed urbanizzazione.
Al riguardo, è agevole osservare che le prescrizioni urbanistiche che precludono l’ammissibilità del tipo di intervento eseguito non possono, con tutta evidenza, ritenersi superate dalla situazione di urbanizzazione della zona, che non può, per ciò solo, giustificare la realizzazione di illeciti edilizi e paralizzare la potestà sanzionatoria attribuita all’amministrazione comunale riguardo ad ulteriori compromissioni del proprio territorio.
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... per l'annullamento:
- della disposizione dirigenziale n. 1037 del 31.08.2005 notificata il 03.07.2009 di demolizione di una sopraelevazione di circa 90 mq con struttura portante in legno e copertura a quattro falde, altezza al colmo di mt 4 ed alla gronda mt 2,30;
- della disposizione dirigenziale n. 472 del 24.06.2009 notificata il 03.07.2009 di acquisizione gratuita al patrimonio comunale, relativamente ad opere abusive eseguire alla via ... n. 49;
- dei verbali di sopralluogo, di estremi ignoti, e di quello del 03.07.2004;
...
Il ricorso principale verte sulla impugnativa della ingiunzione a demolire e della determinazione di acquisizione spedite ai ricorrenti a fronte della abusiva edificazione da parte degli stessi, su un preesistente immobile sito alla via ... n. 49, di un piano in sopraelevazione della superficie di circa 90 mq, con altezza al colmo di mt 4 ed alla gronda di mt 2,30.
Con i motivi aggiunti successivamente notificati in data 07.05.2010, parte ricorrente ha impugnato il diniego di accertamento di conformità di cui alla disposizione dirigenziale n. 56/2010.
Va preliminarmente rilevato che il ricorso principale è improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse, poiché la parte ha presentato domanda di accertamento di conformità, che risulta successivamente denegata, e che è stata impugnata con i motivi aggiunti.
...
Invero, a fronte della chiara motivazione posta a base del rigetto –ove si precisa che la tipologia delle opere realizzate, che hanno comportato un aumento volumetrico, è in contrasto con le disposizioni di cui agli artt. 31 e 33 della variante generale al PRG, che non consentono interventi ulteriori rispetto alla conservazione dei volumi legittimi esistenti– gli istanti si sono limitati ad assumere genericamente, con argomentazioni del tutto inconferenti, che l'abuso sarebbe stato realizzato in zona che è stata interessata di fatto da un processo di edificazione ed urbanizzazione.
Al riguardo, è agevole osservare che le prescrizioni urbanistiche che precludono l’ammissibilità del tipo di intervento eseguito non possono, con tutta evidenza, ritenersi superate dalla situazione di urbanizzazione della zona, che non può, per ciò solo, giustificare la realizzazione di illeciti edilizi e paralizzare la potestà sanzionatoria attribuita all’amministrazione comunale riguardo ad ulteriori compromissioni del proprio territorio (cfr., in termini, TAR Campania, Sezione II, 29.06.2007 n. 6394) (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 05.08.2013 n. 4056 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai fini dell'emanazione dell’ordine di demolizione di un'opera edilizia abusiva, l’amministrazione non è tenuta ad accertare e dimostrare l'epoca in cui la stessa è stata realizzata, essendo sufficiente l'accertamento della permanenza dell'opera abusiva nel momento in cui il provvedimento è adottato, mentre la determinazione di una data diversa da quella della sua commissione, rispetto alla contestazione dell'amministrazione, può essere conseguente solo ad una specifica produzione di elementi probatori da parte degli interessati, idonei a superare la presunzione per la quale l'abuso è stato realizzato in data prossima all'accertamento.
Per giurisprudenza oramai costante, inoltre, i poteri sanzionatori in materia edilizia possono essere adottati anche a distanza di anni dalla realizzazione dell'abuso e non necessitano di particolare motivazione in ordine all'attualità dell'interesse pubblico in quanto gli abusi edilizi sono illeciti a carattere permanente.
In proposito, peraltro, si è precisato che i poteri repressivi del Comune in materia urbanistica non si estinguono per decadenza o prescrizione, con la conseguenza che i relativi provvedimenti possono essere emanati in qualsiasi tempo, in quanto il potere sanzionatorio del Comune non incontra nella materia in questione limiti temporali.

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... per l'annullamento:
- della disposizione dirigenziale n. 1037 del 31.08.2005 notificata il 03.07.2009 di demolizione di una sopraelevazione di circa 90 mq con struttura portante in legno e copertura a quattro falde, altezza al colmo di mt 4 ed alla gronda mt 2,30;
- della disposizione dirigenziale n. 472 del 24.06.2009 notificata il 03.07.2009 di acquisizione gratuita al patrimonio comunale, relativamente ad opere abusive eseguire alla via ... n. 49;
- dei verbali di sopralluogo, di estremi ignoti, e di quello del 03.07.2004;
...
Il ricorso principale verte sulla impugnativa della ingiunzione a demolire e della determinazione di acquisizione spedite ai ricorrenti a fronte della abusiva edificazione da parte degli stessi, su un preesistente immobile sito alla via ... n. 49, di un piano in sopraelevazione della superficie di circa 90 mq, con altezza al colmo di mt 4 ed alla gronda di mt 2,30.
Con i motivi aggiunti successivamente notificati in data 07.05.2010, parte ricorrente ha impugnato il diniego di accertamento di conformità di cui alla disposizione dirigenziale n. 56/2010.
Va preliminarmente rilevato che il ricorso principale è improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse, poiché la parte ha presentato domanda di accertamento di conformità, che risulta successivamente denegata, e che è stata impugnata con i motivi aggiunti.
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Nemmeno convince il motivo con il quale si deduce la lesione dell’affidamento ingeneratosi nella parte a causa del lungo lasso di tempo trascorso tra la realizzazione dell’abuso e l’ingiunzione demolitoria.
Al riguardo si deve innanzitutto osservare che secondo un ormai consolidato principio, ai fini dell'emanazione dell’ordine di demolizione di un'opera edilizia abusiva, l’amministrazione non è tenuta ad accertare e dimostrare l'epoca in cui la stessa è stata realizzata, essendo sufficiente l'accertamento della permanenza dell'opera abusiva nel momento in cui il provvedimento è adottato, mentre la determinazione di una data diversa da quella della sua commissione, rispetto alla contestazione dell'amministrazione, può essere conseguente solo ad una specifica produzione di elementi probatori da parte degli interessati, idonei a superare la presunzione per la quale l'abuso è stato realizzato in data prossima all'accertamento (fra le tante: TAR Campania, Napoli, sez. IV n. 4703 del 26.10.2001, TAR Trentino Alto Adige–Bolzano n. 283 del 09.11.2001).
Per giurisprudenza oramai costante, inoltre, i poteri sanzionatori in materia edilizia possono essere adottati anche a distanza di anni dalla realizzazione dell'abuso e non necessitano di particolare motivazione in ordine all'attualità dell'interesse pubblico in quanto gli abusi edilizi sono illeciti a carattere permanente (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 06.09.1999, n. 1015, TAR Campania, Napoli, sez. IV, n. 1909 del 01.03.2003, TAR Lazio, sez. II n. 5630 del 25.06.2003).
In proposito, peraltro, si è precisato che i poteri repressivi del Comune in materia urbanistica non si estinguono per decadenza o prescrizione, con la conseguenza che i relativi provvedimenti possono essere emanati in qualsiasi tempo, in quanto il potere sanzionatorio del Comune non incontra nella materia in questione limiti temporali (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 2045 del 02.05.2005).
I fatti sono stati adeguatamente descritti nell’atto impugnato: è perciò infondato il motivo di ricorso, che lamenta difetto di motivazione; peraltro l’atto sanzionatorio di abuso edilizio ha natura dovuta e contenuto vincolato: esso non va dunque motivato con riferimento all’interesse pubblico leso.
È perciò inoltre infondato il motivo di ricorso, nella parte in cui lamenta difetto di motivazione sulla scelta della sanzione da irrogare, posto che il Comune non gode di alcuna discrezionalità amministrativa sul punto (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 05.08.2013 n. 4056 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il privato sanzionato con l'ordine di demolizione per la costruzione di un'opera edilizia abusiva, non può invocare l'applicazione a suo favore dell'art. 12, comma 2, della l. n. 47/1985 (oggi: art. 34, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001), che comporta l'applicazione della sola sanzione pecuniaria nel caso in cui l'ingiunta demolizione non possa avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, se non fornisce seria ed idonea dimostrazione del pregiudizio stesso sulla struttura e sull'utilizzazione del bene residuo, a nulla valendo che la demolizione implicherebbe una notevole spesa e potrebbe incidere sulla funzionalità del manufatto, perché per impedire l'applicazione della sanzione demolitoria occorre un effettivo pregiudizio alla restante parte dell'edificio, consistente in una menomazione della intera stabilità del manufatto.
L’applicazione della sanzione pecuniaria ha carattere del tutto residuale, e viene innescata non già da una verifica tecnica di cui la parte pubblica non può venire ragionevolmente gravata, ma da un’istanza presentata a tal fine dalla parte privata ad essa interessata.
L’amministrazione è tenuta al solo accertamento che l’opera sia abusiva, posto che ulteriori adempimenti, relativi all’eseguibilità dell’ordine senza pregiudizio per la parte conforme, richiederebbero sopralluoghi ed accertamenti incompatibili con il breve termine di 45 giorni concesso dalla legge ai fini della sospensione dei lavori in corso (art. 27, comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001).
Ne segue l’impercorribilità di un processo interpretativo che oneri la parte pubblica di verifiche tecniche, anche complesse, in una fase anteriore all’emissione dell’ordine di demolizione, a rischio di compromettere gli effetti della ordinanza sospensiva dei lavori, e dunque di tollerare una ulteriore compromissione dell’assetto urbanistico-edilizio. Del resto, è proprio la parte privata, autrice dell’opera e del progetto, ad essere a conoscenza di come esso è stato eseguito, e di quali danni potrebbero prodursi, a seguito di demolizione, in pregiudizio della parte conforme.
Si deve perciò ritenere che l’ordine di demolizione vada adottato anche in assenza di una verifica di tale profilo, la cui rilevanza va invece segnalata, e comprovata, dalla parte che vi abbia interesse durante la fase esecutiva. A tale principio va dunque ascritto il prevalente, per quanto non univoco, orientamento giurisprudenziale, che colloca in detta fase l’accertamento della ineseguibilità dell’ordine di demolizione.
Tale assetto, del resto, non lede in alcun modo il diritto di difesa del privato, né ne sacrifica gli interessi.
Difatti, a fronte di un ordine di demolire, quest’ultimo, entro il termine concessogli ai sensi degli artt. 33 e 34 del d.P.R. n. 380 del 2001, ben può rappresentare all’amministrazione procedente l’impossibilità tecnica ad eseguire quanto prescritto, purché congruamente comprovata. In tal caso, è obbligo dell’ufficio tecnico comunale attivarsi per le verifiche del caso, con la conseguenza che, nelle more, il termine non può decorrere e la demolizione d’ufficio è preclusa. Ove emerga la dedotta impossibilità, la legge fa divieto di procedere alla demolizione d’ufficio, sicché sarà cura del Comune adottare l’atto applicativo della sanzione pecuniaria alternativamente prevista, con tacita revoca dell’ordine demolitorio.

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... per l'annullamento:
- della disposizione dirigenziale n. 1037 del 31.08.2005 notificata il 03.07.2009 di demolizione di una sopraelevazione di circa 90 mq con struttura portante in legno e copertura a quattro falde, altezza al colmo di mt 4 ed alla gronda mt 2,30;
- della disposizione dirigenziale n. 472 del 24.06.2009 notificata il 03.07.2009 di acquisizione gratuita al patrimonio comunale, relativamente ad opere abusive eseguire alla via ... n. 49;
- dei verbali di sopralluogo, di estremi ignoti, e di quello del 03.07.2004;
...
Il ricorso principale verte sulla impugnativa della ingiunzione a demolire e della determinazione di acquisizione spedite ai ricorrenti a fronte della abusiva edificazione da parte degli stessi, su un preesistente immobile sito alla via ... n. 49, di un piano in sopraelevazione della superficie di circa 90 mq, con altezza al colmo di mt 4 ed alla gronda di mt 2,30.
Con i motivi aggiunti successivamente notificati in data 07.05.2010, parte ricorrente ha impugnato il diniego di accertamento di conformità di cui alla disposizione dirigenziale n. 56/2010.
Va preliminarmente rilevato che il ricorso principale è improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse, poiché la parte ha presentato domanda di accertamento di conformità, che risulta successivamente denegata, e che è stata impugnata con i motivi aggiunti.
...
Con un ulteriore, si lamenta violazione dell’art. 33 del d.P.R. n. 380 del 2001, posto che la demolizione arrecherebbe pregiudizio alla parte conforme.
Il Tribunale osserva, in primo luogo, che “il privato sanzionato con l'ordine di demolizione per la costruzione di un'opera edilizia abusiva, non può invocare l'applicazione a suo favore dell'art. 12, comma 2, della l. n. 47/1985 (oggi: art. 34, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001), che comporta l'applicazione della sola sanzione pecuniaria nel caso in cui l'ingiunta demolizione non possa avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, se non fornisce seria ed idonea dimostrazione del pregiudizio stesso sulla struttura e sull'utilizzazione del bene residuo, a nulla valendo che la demolizione implicherebbe una notevole spesa e potrebbe incidere sulla funzionalità del manufatto, perché per impedire l'applicazione della sanzione demolitoria occorre un effettivo pregiudizio alla restante parte dell'edificio, consistente in una menomazione della intera stabilità del manufatto” (così Cons. Stato, sez. V, n. 4982 del 2011).
L’applicazione della sanzione pecuniaria ha carattere del tutto residuale (in termini, Cons. Stato, sez. VI, n. 1793 del 2012), e viene innescata non già da una verifica tecnica di cui la parte pubblica non può venire ragionevolmente gravata, ma da un’istanza presentata a tal fine dalla parte privata ad essa interessata. L’amministrazione è tenuta al solo accertamento che l’opera sia abusiva, posto che ulteriori adempimenti, relativi all’eseguibilità dell’ordine senza pregiudizio per la parte conforme, richiederebbero sopralluoghi ed accertamenti incompatibili con il breve termine di 45 giorni concesso dalla legge ai fini della sospensione dei lavori in corso (art. 27, comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001).
Ne segue l’impercorribilità di un processo interpretativo che oneri la parte pubblica di verifiche tecniche, anche complesse, in una fase anteriore all’emissione dell’ordine di demolizione, a rischio di compromettere gli effetti della ordinanza sospensiva dei lavori, e dunque di tollerare una ulteriore compromissione dell’assetto urbanistico-edilizio. Del resto, è proprio la parte privata, autrice dell’opera e del progetto, ad essere a conoscenza di come esso è stato eseguito, e di quali danni potrebbero prodursi, a seguito di demolizione, in pregiudizio della parte conforme.
Si deve perciò ritenere che l’ordine di demolizione vada adottato anche in assenza di una verifica di tale profilo, la cui rilevanza va invece segnalata, e comprovata, dalla parte che vi abbia interesse durante la fase esecutiva. A tale principio va dunque ascritto il prevalente, per quanto non univoco, orientamento giurisprudenziale, che colloca in detta fase l’accertamento della ineseguibilità dell’ordine di demolizione (da ultimo, Tar Napoli, n. 2635 del 2012; Tar Toscana, n. 946 del 2012; Tar Puglia, n. 270 del 2011; Tar Valle d’Aosta, n. 23 del 2009).
Tale assetto, del resto, non lede in alcun modo il diritto di difesa del privato, né ne sacrifica gli interessi.
Difatti, a fronte di un ordine di demolire, quest’ultimo, entro il termine concessogli ai sensi degli artt. 33 e 34 del d.P.R. n. 380 del 2001, ben può rappresentare all’amministrazione procedente l’impossibilità tecnica ad eseguire quanto prescritto, purché congruamente comprovata. In tal caso, è obbligo dell’ufficio tecnico comunale attivarsi per le verifiche del caso, con la conseguenza che, nelle more, il termine non può decorrere e la demolizione d’ufficio è preclusa. Ove emerga la dedotta impossibilità, la legge fa divieto di procedere alla demolizione d’ufficio, sicché sarà cura del Comune adottare l’atto applicativo della sanzione pecuniaria alternativamente prevista, con tacita revoca dell’ordine demolitorio.
La domanda va conclusivamente in parte dichiarata improcedibile ed in parte respinta (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 05.08.2013 n. 4056 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La mancata esposizione del cartello indicante gli estremi del titolo abilitativo edilizio ove prescritto dal regolamento edilizio o dal provvedimento concessorio, integra il reato di cui agli artt. 27, comma 4° e 44, lett. a) del D.P.R. 380/2001, così come lo integra l'esposizione in modo non visibile del cartello medesimo.
La ragione della valenza penale della condotta deriva dalla continuità normativa in cui si pone l'art. 29 del D.P.R. 380/2001 rispetto all'ormai abrogato art. 6 della L. 47/1985 che prevedeva e sanzionava ab origine la condotta vietata di cui si parla.

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1.1 Con sentenza del 25.03.2009 il Tribunale di Salerno -Sezione Distaccata di Eboli- dichiarava ST.Ge. e SO.Lu., (imputati, in concorso tra loro, del reato di cui all'art. 44, lett. a), del D.P.R. 380/01 - fatto accertato il 21.07.2006 e commesso antecedentemente a tale data) colpevoli del reato loro ascritto e li condannava, ciascuno, alla pena di € 2.000,00 di ammenda.
...
2. Per ciò che concerne, invece, l'attribuibilità della condotta contestata (consistente nella esecuzione di lavori in difformità della concessione a causa della mancata esposizione del cartello indicante il titolo edilizio abilitativo e le figure professionali e imprese addette ai lavori), le censure contenute nei due ricorsi sono manifestamente infondate.
2.1 E' anzitutto, inconsistente la tesi prospettata nell'interesse del ricorrente ST. (soggetto proprietario dell'area e del manufatto interessato dai lavori edilizi) secondo la quale, stante la natura di reato proprio, il proprietario è esonerato da responsabilità, gravante invece su altri soggetti indicati dalla norma incriminatrice di cui all'art. 29 del D.P.R. 380/2001: come più volte precisato dalla giurisprudenza di questa Corte in materia di illeciti urbanistici,
il reato previsto dall'art. 20 della legge fondamentale urbanistica, oggi trasfuso nell'art. 44 del D.P.R. 380/2001, pur potendosi definire "proprio", (anche se non mancano tesi contrarie che attribuiscono a tali reati la veste di illeciti "comuni" - vds. Sez. 3^ 22.11.2007 n. 47083, Tartaglia, Rv. 238471) non esclude che soggetti diversi da quelli individuati dall'art. 6 del D.P.R. 380/2001, possano concorrere nella loro consumazione, nella misura in cui apportino, nella realizzazione dell'evento, un proprio contributo causale rilevante e consapevole (in termini tra le tante, Sez. 3^ 23.03.2011 n. 16571, Iacono e altri, Rv. 2501247; idem, 12.01.2007 n. 8667, Forletti e altri, Rv. 236081, con specifico riferimento al ruolo del proprietario non formalmente committente).
2.2 La decisione impugnata ha correttamente individuato nello ST., proprietario del manufatto, uno dei soggetti responsabili dell'abuso anche perché committente e, dunque, formalmente incluso nel novero dei soggetti imputabili ai sensi dell'art. 6 del D.P.R. 380/2001: la motivazione resa sul punto si sottrae a qualsiasi censura, anche perché basata su un ruolo attivo svolto dallo STABILE intento -secondo quanto è dato leggere nella sentenza impugnata- ad effettuare degli scavi con mezzi propri.
2.3 I rilievi difensivi contenuti nell'atto di impugnazione sono, sul punto, oltre che inconsistenti, anche generici in quanto non indicano elementi dai quali trarre il convincimento di una totale estraneità dello ST. all'attività edilizia
3. Parimenti inconsistente la tesi enunciata da entrambi i ricorrenti della irrilevanza sotto il profilo penale della mancata esposizione del cartello indicante il titolo abilitativo e i nominativi dei soggetti professionali incaricati dell'esecuzione delle opere: diversamente da quanto sostenuto dagli imputati,
la mancata esposizione del cartello indicante gli estremi del titolo abilitativo edilizio ove prescritto dal regolamento edilizio o dal provvedimento concessorio, integra il reato di cui agli artt. 27, comma 4° e 44, lett. a) del D.P.R. 380/2001, così come lo integra l'esposizione in modo non visibile del cartello medesimo. La ragione della valenza penale della condotta deriva dalla continuità normativa in cui si pone l'art. 29 del D.P.R. 380/2001 rispetto all'ormai abrogato art. 6 della L. 47/1985 che prevedeva e sanzionava ab origine la condotta vietata di cui si parla (vds. sul punto, tra le tante, Sez. 3^ 07.04.2006 n. 16037, Bianco, Rv. 234330; idem, 22.05.2012 n. 40118, Zago e altri, Rv. 253673) (
Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.06.2013 n. 1784 - data udienza).

EDILIZIA PRIVATA: Il comma 2 dell'art. 33 dpr 380/2001 dispone che: «Qualora, sulla base di motivato accertamento dell’ufficio tecnico comunale, il ripristino dello stato dei luoghi non sia possibile, il dirigente o il responsabile dell'ufficio irroga una sanzione pecuniaria pari al doppio dell’aumento di valore dell'immobile, conseguente alla realizzazione delle opere[…]», di cui vengono indicate le modalità di realizzazione.
La disposizione di esordio del comma 2, testé riportata (che ripete l’art. 9 della legge 28.02.1985 n. 47), va intesa, quanto al “ripristino dello stato dei luoghi” che “non sia possibile”, nel senso che soltanto nel caso in cui risulti oggettivamente impossibile il ripristino dello stato dei luoghi va irrogata una sanzione pecuniaria.

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3.1.– Con un primo motivo si assume l’erroneità della sentenza nella parte in cui non ha rilevato la violazione dell’art. 34 (Interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire) del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 del 2001 anche in relazione all’art. 7 della legge 07.08.1990, n. 241. L’amministrazione, infatti, non avrebbe consentito all’odierno appellante la partecipazione procedimentale al fine di dimostrare che la demolizione avrebbe «arrecato un pregiudizio alla struttura già esistente da tempo immemorabile».
In particolare, l’art. 34 imporrebbe all’amministrazione, nella scelta tra sanzione demolitoria e sanzione pecuniaria, di valutare «preventivamente se la demolizione possa avvenire senza pregiudizio della parte del fabbricato eseguita in conformità».
Il motivo non è fondato.
In via preliminare, è bene chiarire che la fattispecie in esame si caratterizza per la realizzazione di opere abusive, incidenti su un preesistente fabbricato, realizzate senza alcun titolo abilitativo. Ne consegue che non ricade nell’ambito applicativo dell’art. 34 –il quale presuppone l’esistenza di un permesso di costruire e della realizzazione di opere in parziale difformità da esso– bensì rientra nel campo di applicazione dell’art. 33 (Interventi di ristrutturazione edilizia in assenza di permesso di costruire o in totale difformità).
Tale disposizione, infatti, prevede, al comma 1, che gli interventi e le opere di ristrutturazione edilizia (che, ai sensi dell’art. 10, sono quelli che «portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici») «eseguiti in assenza di permesso o in totale difformità da esso, sono rimossi ovvero demoliti e gli edifici sono resi conformi alle prescrizioni degli strumenti urbanistico-edilizi entro il congruo termine stabilito dal dirigente o dal responsabile del competente ufficio comunale con propria ordinanza, decorso il quale l’ordinanza stessa è eseguita a cura del comune e a spese dei responsabili dell’abuso».
Il comma 2 del medesimo art. 33 dispone che: «Qualora, sulla base di motivato accertamento dell’ufficio tecnico comunale, il ripristino dello stato dei luoghi non sia possibile, il dirigente o il responsabile dell'ufficio irroga una sanzione pecuniaria pari al doppio dell’aumento di valore dell'immobile, conseguente alla realizzazione delle opere[…]», di cui vengono indicate le modalità di realizzazione.
La disposizione di esordio del comma 2, testé riportata (che ripete l’art. 9 della legge 28.02.1985 n. 47), va intesa, quanto al “ripristino dello stato dei luoghi” che “non sia possibile”, nel senso che soltanto nel caso in cui risulti oggettivamente impossibile il ripristino dello stato dei luoghi va irrogata una sanzione pecuniaria.
Nel caso in esame, dalla valutazione della natura delle opere quale risulta dagli atti del processo, consistenti nell’ampliamento di un fabbricato preesistente e nella tamponatura di una vecchia tettoia, non emerge alcun dato che possa indurre a ritenere che non fosse materialmente possibile ripristinare lo stato originario dei luoghi. L’appellante non ha del resto dedotto alcun elemento probatorio idoneo a condurre ad un diverso giudizio (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 29.11.2012 n. 6071 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l’ordinanza di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario l’invio della comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell’atto.
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3.2.– Con un secondo motivo si deduce la violazione degli artt. 7 e 8 della legge n. 241 del 1990, per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento, e il difetto di istruttoria per non avere l’amministrazione valutato il «carico urbanistico presente nella zona interessata».
Il motivo non è fondato.
La giurisprudenza del Consiglio di Stato, da cui non vi è ragione di discostarsi, è costante nel considerare che l’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l’ordinanza di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario l’invio della comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell’atto (tra gli altri Cons. Stato, IV, 18.09.2012; 10.08.2011, n. 4764; IV, 20.07.2011, n. 4403; VI, 24.09.2010, n. 7129).
Per quanto attiene, poi, all’assunta mancata valutazione del «carico urbanistico presente nella zona», la stessa -ammesso che non vi sia effettivamente stata- non ha, avuto riguardo alla normativa del settore, alcuna incidenza o valenza invalidante del provvedimento sanzionatorio, perché il doveroso ripristino della situazione antecedente l’abuso prescinde da un siffatto accertamento. Questo profilo è, pertanto, irrilevante nel giudizio di abusività delle opere (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 29.11.2012 n. 6071 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'art. 27  DPR 380/2001 prevede che il dirigente o il responsabile dell’ufficio ordina, qualora accerti la violazione delle norme in materia edilizia, «l’immediata sospensione dei lavori, che ha effetto fino all’adozione dei provvedimenti definitivi[…],da adottare e notificare entro quarantacinque giorni dall’ordine di sospensione dei lavori».
La norma attribuisce all’amministrazione un potere cautelare discrezionale che, in quanto tale, non rappresenta una fase necessaria del procedimento sanzionatorio orientato alla demolizione. La sua omissione, pertanto, non inficia la validità del provvedimento finale adottato dall’amministrazione comunale.
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3.2.– Con un terzo motivo si deduce la violazione dell’art. 27 (Vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia) del d.P.R. n. 380 del 2001 per non avere l’amministrazione adottato e comunicato l’ordine di sospensione dei lavori.
Il motivo non è fondato.
Il citato art. 27 prevede che il dirigente o il responsabile dell’ufficio ordina, qualora accerti la violazione delle norme in materia edilizia, «l’immediata sospensione dei lavori, che ha effetto fino all’adozione dei provvedimenti definitivi[…],da adottare e notificare entro quarantacinque giorni dall’ordine di sospensione dei lavori».
La norma attribuisce all’amministrazione un potere cautelare discrezionale che, in quanto tale, non rappresenta una fase necessaria del procedimento sanzionatorio orientato alla demolizione. La sua omissione, pertanto, non inficia la validità del provvedimento finale adottato dall’amministrazione comunale.
4.– Per le ragioni sin qui esposte, l’appello deve essere rigettato (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 29.11.2012 n. 6071 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATACirca la realizzazione abusiva di un ampliamento del magazzino residenziale per una superficie complessiva di mq. 12,96 e altezza interna di m. 3,50, con sovrastante copertura a terrazzo, asseritamente pertinenziale al fabbricato principale di civile abitazione di proprietà del ricorrente medesimo, ove lo stesso risiede, v'è da dire che:
- la nozione di "ampliamento" non assurge ad autonoma tipologia di intervento edilizio, ma confluisce nel genus di "nuova costruzione", che trova la sua disciplina nell'art. 3 del D.P.R. 06/06/2001 n. 380;
- l'ampliamento, per il quale si prospetta la necessità di titolo edilizio, consiste in una modifica del manufatto tale da determinarne un aumento di sagoma;
- è noto, del resto, che la nozione di costruzione, ai fini del rilascio del permesso di costruire, si configura in presenza di opere che attuino un'evidente trasformazione del tessuto urbanistico ed edilizio e le opere siano preordinate a soddisfare esigenze non precarie sotto il profilo funzionale;
- applicando le coordinate su indicate al caso di specie, si può affermare che l’ampliamento realizzato sia tale da configurare una nuova costruzione, dato –tra l’altro- che non appare condivisibile la riduttiva definizione dell’intervento sopra descritto come mera pertinenza, atteso che, per principio pacifico, la nozione di pertinenza in materia edilizia è più ristretta di quella civilistica ed è riferibile ai soli manufatti di dimensioni tanto modeste e ridotte rispetto alla cosa cui ineriscono da potersi considerare sostanzialmente irrilevanti sotto il profilo edilizio, non potendosi, conseguentemente, attribuire carattere pertinenziale ai fini edilizi ad opere di rilevante consistenza, anche se destinate al servizio od ornamento del bene principale;
- il magazzino oggetto dell’intervento in questione, pur potendo essere qualificato come bene pertinenziale secondo la normativa privatistica, assume tuttavia una funzione autonoma rispetto alla costruzione principale, non essendo ad essa coessenziale e potendo, anzi, per idoneità oggettiva e funzionale, essere utilizzato separatamente, evidenziando, quindi, caratteristiche tali da comportare una incidenza sul carico urbanistico ed una modifica permanente del territorio nel quale si inserisce, peraltro vincolato sotto il profilo paesaggistico;
-  ai fini della qualificazione di una costruzione, rilevano le caratteristiche oggettive della stessa, prescindendosi dall’intento dichiarato dal privato di voler destinare l’opera ad utilizzazioni più ristrette di quelle alle quali il manufatto potenzialmente si presta.

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- Considerato che il dirigente del Progetto finalizzato condono edilizio della Divisione Urbanistica ed Edilizia del Comune di Torino, con provvedimento in data 28.08.2008, previo invio del preavviso di diniego ai sensi dell’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990 e s.m.i., ha rigettato l’istanza del signor Ac.Mu. tesa ad ottenere, ai sensi dell’art. 32 del D.L. 30.09.2003, n. 269, convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1 della L. 24.11.2003, n. 326, il condono edilizio per la realizzazione abusiva di un ampliamento del magazzino residenziale per una superficie complessiva di mq. 12,96 e altezza interna di m. 3,50, con sovrastante copertura a terrazzo, asseritamente pertinenziale al fabbricato principale di civile abitazione di proprietà del ricorrente medesimo, ove lo stesso risiede;
- Considerato che il condono è stato denegato sull’assunto che le opere realizzate non siano suscettibili di sanatoria “per contrasto con l’art. 32, comma 26, lett. a), e comma 27, lett. d), della legge 24.11.2003, n. 326, in quanto opere appartenenti a tipologia di abuso non ammessa, realizzate su immobili soggetti a vincoli imposti sulla base di leggi statali e regionali a tutela dei beni ambientali e paesistici, istituiti prima della esecuzione di dette opere, in assenza del titolo abilitativo edilizio e non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici”;
- Considerato, in particolare, che il competente dirigente comunale ha verificato che:
   - le opere insistono su area sottoposta a vincolo ambientale e paesistico dal D.Lgs. 42 del 22/01/2004 (inclusa tra i “beni paesaggistici indicati alla lett. b), del comma 1, dell’art. 134 e all’art. 136 del decreto citato"), in contrasto con l’art. 32, comma 27, lett. d), della legge 326/2003 e s.m.i., istituito in data antecedente alla realizzazione delle opere medesime;
   - l’intervento realizzato rientra nella tipologia 1 “Intervento di nuova costruzione”, come definito dall’art. 3, comma 1, lett. e), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, realizzato in assenza o in difformità del titolo abilitativo edilizio, dall’allegato A di cui all’art. 32, comma 26, della legge 24.11.2003, n. 326, nonché dalle Norme Urbanistico Edilizie di Attuazione del Piano Regolatore Generale della Città di Torino all’art. 4, lett. f), come intervento di completamento (ampliamento);
   - in tali contesti sono unicamente ammessi interventi ricadenti nelle tipologie 4, 5 e 6 se conformi agli strumenti urbanistici, laddove il vincolo sia stato istituito prima delle opere, previo parere dell’ente competente, come disposto dalla deliberazione della Giunta comunale del 14.01.2004 ad oggetto “Indirizzi interpretativi per l’applicazione della normativa in materia di condono edilizio”;
   - l’intervento edilizio realizzato non rientra tra quelli per i quali è consentito il condono edilizio, trattandosi di intervento di ampliamento (tipologia 1) e quindi eccedente l’intervento di restauro e risanamento conservativo, massimo consentito nelle aree soggette a vincolo;
- Considerato, inoltre, che il dirigente del Settore Coordinamento Interventi Convenzionati e Vigilanza Edilizia della Divisione Urbanistica ed Edilizia Privata, con ordinanza in data 30.03.2009, n. 214, preceduta da comunicazione di avvio del procedimento, ha ingiunto al proprietario la demolizione dell’opera in questione e il ripristino dello stato dei luoghi entro 90 giorni dalla sua notifica;
- Considerato che il signor Mu., con ricorso depositato in data 12.11.2008 e successivo ricorso per motivi aggiunti depositato in data 10.07.2009 ha impugnato innanzi a questo Tribunale Amministrativo tutti gli atti e i provvedimenti su indicati, invocandone l’annullamento, previa sospensione cautelare;
- Considerato che il Comune di Torino si è costituito in giudizio per resistere ai ricorsi, contestandone la fondatezza;
- Considerato che la Sezione, con ordinanza in data 24.07.2009, n. 624, ravvisando la sussistenza dei necessari requisiti di fumus boni juris del ricorso ed irreparabilità del pregiudizio lamentato in riferimento all’ordinanza di demolizione impugnata, ne ha disposto la sospensione, in accoglimento dell’istanza cautelare avanzata dal ricorrente;
- Considerato che la causa è stata chiamata alla pubblica udienza del 22.02.2012 e, quindi, trattenuta per la decisione;
- Considerato che appaiono sussistenti i presupposti di legge per definire il giudizio con sentenza in forma semplificata ai sensi dell’art. 74 del c.p.a.;
- Considerato, in punto di diritto, che le disposizioni della legge n. 326 del 2003 subordinano il rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria –tra l’altro- alla:
   - riconducibilità delle opere realizzate alle tipologie d’illecito descritte nell’allegato 1, con la precisazione, contenuta nell’art. 32, comma 26, lett. a), della legge n. 326 del 2003, che, nell'ambito degli immobili soggetti a vincolo di cui all'articolo 32 della legge 28.02.1985, n. 47, sono ammesse (unicamente) le tipologie descritte ai numeri 4, 5 e 6 ovvero:
a) opere di restauro e risanamento conservativo come definite dall'articolo 3, comma 1, lettera c) del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, realizzate in assenza o in difformità dal titolo abilitativo edilizio, nelle zone omogenee A di cui all'articolo 2 del decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444;
b) opere di restauro e risanamento conservativo come definite dall'articolo 3, comma 1, lettera c) del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, realizzate in assenza o in difformità dal titolo abilitativo edilizio;
c) opere di manutenzione straordinaria, come definite all'articolo 3, comma 1, lettera b) del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, realizzate in assenza o in difformità dal titolo abilitativo edilizio; opere o modalità di esecuzione non valutabili in termini di superficie o di volume;
   - insussistenza di preclusioni alla sanatoria ai sensi dell’art. 32, comma 27, della legge medesima e degli artt. 32 e 33 della L. 28.02.1985, n. 47;
- Considerato che il punto nodale della vicenda oggetto di contenzioso consiste, ad avviso del Collegio, nello stabilire se le opere per le quali il ricorrente ha invocato il condono siano da considerarsi “nuova costruzione”, dato che la riconducibilità o meno a tale categoria appare dirimente ai fini della valutazione in ordine alla loro condonabilità, anche avuto riguardo a quanto stabilito dall’art. 2 della L.R. 10.11.2004, n. 33, recante disposizioni regionali per l’attuazione della sanatoria edilizia degli abusi edilizi prevista dall'articolo 32 del decreto-legge 30.09.2003, n. 269, convertito, con modificazioni, dalla legge 24.11.2003, n. 326, che precisa, per l’appunto, che “ai fini della presente legge si intende per nuova costruzione il manufatto che risulti realizzato in forma autonoma non connesso o pertinente ad altro manufatto esistente”, lasciando, conseguentemente, intendere che la sola “nuova costruzione” incontra i limiti imposti dalla normativa sul condono;
- Considerato che la nozione di "ampliamento" non assurge ad autonoma tipologia di intervento edilizio, ma confluisce nel genus di "nuova costruzione", che trova la sua disciplina nell'art. 3 del D.P.R. 06/06/2001 n. 380;
- Considerato, inoltre, che l'ampliamento, per il quale si prospetta la necessità di titolo edilizio, consiste in una modifica del manufatto tale da determinarne un aumento di sagoma;
- Considerato che è noto, del resto, che la nozione di costruzione, ai fini del rilascio del permesso di costruire, si configura in presenza di opere che attuino un'evidente trasformazione del tessuto urbanistico ed edilizio e le opere siano preordinate a soddisfare esigenze non precarie sotto il profilo funzionale (TAR Campania Napoli, sez. II, 26.09.2008, n. 11309; Consiglio Stato, sez. IV, n. 2705 del 2008);
- Considerato che, applicando le coordinate su indicate al caso di specie, si può affermare che l’ampliamento realizzato sia tale da configurare una nuova costruzione, dato –tra l’altro:
   - che non appare condivisibile la riduttiva definizione dell’intervento sopra descritto come mera pertinenza, atteso che, per principio pacifico, la nozione di pertinenza in materia edilizia è più ristretta di quella civilistica ed è riferibile ai soli manufatti di dimensioni tanto modeste e ridotte rispetto alla cosa cui ineriscono da potersi considerare sostanzialmente irrilevanti sotto il profilo edilizio, non potendosi, conseguentemente, attribuire carattere pertinenziale ai fini edilizi ad opere di rilevante consistenza, anche se destinate al servizio od ornamento del bene principale (fra le tante, TAR Lombardia Milano, sez. II, 17.06.2008, n. 2045);
- Considerato, in particolare, che il magazzino oggetto dell’intervento in questione, pur potendo essere qualificato come bene pertinenziale secondo la normativa privatistica, assume tuttavia una funzione autonoma rispetto alla costruzione principale, non essendo ad essa coessenziale e potendo, anzi, per idoneità oggettiva e funzionale, essere utilizzato separatamente, evidenziando, quindi, caratteristiche tali da comportare una incidenza sul carico urbanistico ed una modifica permanente del territorio nel quale si inserisce, peraltro vincolato sotto il profilo paesaggistico;
- Considerato che la nozione di "ampliamento" non assurge ad autonoma tipologia di intervento edilizio, ma confluisce nel genus di "nuova costruzione", che trova la sua disciplina nell'art. 3 del D.P.R. 06/06/2001 n. 380;
- Considerato, inoltre, che l'ampliamento, per il quale si prospetta la necessità di titolo edilizio, consiste in una modifica del manufatto tale da determinarne un aumento di sagoma;
- Considerato che è noto, del resto, che la nozione di costruzione, ai fini del rilascio del permesso di costruire, si configura in presenza di opere che attuino un'evidente trasformazione del tessuto urbanistico ed edilizio e le opere siano preordinate a soddisfare esigenze non precarie sotto il profilo funzionale (TAR Campania Napoli, sez. II, 26.09.2008, n. 11309; Consiglio Stato, sez. IV, n. 2705 del 2008);
- Considerato che, applicando le coordinate su indicate al caso di specie, si può affermare che l’ampliamento realizzato sia tale da configurare una nuova costruzione, dato –tra l’altro:
   - che non appare condivisibile la riduttiva definizione dell’intervento sopra descritto come mera pertinenza, atteso che, per principio pacifico, la nozione di pertinenza in materia edilizia è più ristretta di quella civilistica ed è riferibile ai soli manufatti di dimensioni tanto modeste e ridotte rispetto alla cosa cui ineriscono da potersi considerare sostanzialmente irrilevanti sotto il profilo edilizio, non potendosi, conseguentemente, attribuire carattere pertinenziale ai fini edilizi ad opere di rilevante consistenza, anche se destinate al servizio od ornamento del bene principale (fra le tante, TAR Lombardia Milano, sez. II, 17.06.2008, n. 2045);
- Considerato, in particolare, che il magazzino oggetto dell’intervento in questione, pur potendo essere qualificato come bene pertinenziale secondo la normativa privatistica, assume tuttavia una funzione autonoma rispetto alla costruzione principale, non essendo ad essa coessenziale e potendo, anzi, per idoneità oggettiva e funzionale, essere utilizzato separatamente, evidenziando, quindi, caratteristiche tali da comportare una incidenza sul carico urbanistico ed una modifica permanente del territorio nel quale si inserisce, peraltro vincolato sotto il profilo paesaggistico;
- Considerato, in ogni caso, che non sono stati offerti in questa sede elementi per poter verificare la sussumibilità dell’ampliamento realizzato tra gli interventi pertinenziali non costituenti nuova costruzione, secondo la definizione ritraibile dalla lettura “a contrario” dell’art. 3, comma 1, lett. e.6), del d.P.R. n. 380 del 2001, dato che il ricorrente non ha ritenuto di portare a conoscenza di questo giudice il volume dell’edificio principale, sì da consentire di accertare che quello dell’ampliamento abusivo realizzato è effettivamente inferiore al 20% del primo, come dallo stesso, invero, solo ripetutamente affermato;
- Considerato, inoltre, che, nella zona ove è stata realizzata l’opera, il PRGC non consente la realizzazione di nuove costruzioni;
- Considerato, altresì, che, ai fini della qualificazione di una costruzione, rilevano le caratteristiche oggettive della stessa, prescindendosi dall’intento dichiarato dal privato di voler destinare l’opera ad utilizzazioni più ristrette di quelle alle quali il manufatto potenzialmente si presta (fra le tante TAR Campania-Napoli, sez. II, sentenza 31.10.2011 n. 5093);
- Ritenuto, conseguentemente, che, alla luce delle considerazioni innanzi svolte, debba ritenersi corretta la qualificazione dell’illecito quale nuova costruzione, riconducibile alla tipologia n. 1 (“opere realizzate in assenza o in difformità del titolo abilitativo edilizio e non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici”) dell’allegato 1 alla legge n. 326 del 2003, in quanto tale non suscettibile di sanatoria edilizia ai sensi dell’art. 32, comma 26, lett. a), della legge medesima, data la sottoposizione della zona nell’ambito della quale è ubicato il manufatto abusivo a vincolo ambientale e paesaggistico ai sensi del D.Lgs. n. 42/2004, ove sono ammesse a sanatoria solo le tipologie di illecito 4, 5 e 6 descritte nel medesimo allegato 1;
- Ritenuto, invero, che le censure svolte dal ricorrente (“Violazione e/o falsa applicazione di legge con rifermento all’art. 3 e ss. della legge 07.08.1990, n. 241 e s.m.i.; all’art. 4 della L.R. Piemontese 08.07.1999, n. 19; all’art. 4 della L.R. Piemontese 10.11.2004, n. 33; nonché all’art. 1, commi 37 e 39, della legge 15.12.2004, n. 308 e s.m.i.; violazione del principio del giusto procedimento e del legittimo affidamento. Eccesso di potere per travisamento dei fatti ed erronea valutazione dei presupposti; difetto e/o insufficienza di istruttoria e di motivazione; irragionevolezza, contraddittorietà, ingiustizia grave e manifesta; illogicità, perplessità, sviamento”) non siano in grado di inficiare la legittimità del diniego di condono edilizio (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 11.04.2012 n. 440 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per costante indirizzo giurisprudenziale, è stato sempre ed univocamente ritenuto che la specialità del procedimento di condono edilizio rispetto all'ordinario procedimento di rilascio della concessione ad edificare e l'assenza di una specifica previsione in ordine alla sua necessità rendono, per il rilascio della concessione in sanatoria c.d. straordinaria (o condono), il parere della Commissione edilizia non obbligatorio, ma, tutt'al più, facoltativo, in quelle specifiche ipotesi in cui l'amministrazione ritenga discrezionalmente di acquisire eventuali informazioni e valutazioni con riguardo a particolari e sporadici casi incerti e complessi. In assenza dei predetti casi di acquisizione facoltativa del parere dell'organo collegiale, il rilascio della concessione in sanatoria è subordinato alla semplice verifica dei (pur numerosi) presupposti e condizioni espressamente e chiaramente fissati dal legislatore.
Non va sottaciuto, inoltre, che l'art. 4 d.P.R. n. 380/2001, nel rendere per i comuni facoltativa l'istituzione della commissione edilizia, ha introdotto un principio fondamentale in materia di governo del territorio, al quale deve sottostare la normativa regionale, ai sensi dell'art. 117 Cost., conseguendone che le norme regionali in materia devono essere interpretate in senso costituzionalmente coerente con i principi generali introdotti in materia dal predetto Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia n. 380 e, dunque, devono ritenersi implicitamente abrogate ai sensi dell’art. 10 della L.n. 62/1953 laddove, eventualmente, prevedano ancora l’obbligatorietà del parere della CEC.

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- Considerato che il dirigente del Progetto finalizzato condono edilizio della Divisione Urbanistica ed Edilizia del Comune di Torino, con provvedimento in data 28.08.2008, previo invio del preavviso di diniego ai sensi dell’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990 e s.m.i., ha rigettato l’istanza del signor Ac.Mu. tesa ad ottenere, ai sensi dell’art. 32 del D.L. 30.09.2003, n. 269, convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1 della L. 24.11.2003, n. 326, il condono edilizio per la realizzazione abusiva di un ampliamento del magazzino residenziale per una superficie complessiva di mq. 12,96 e altezza interna di m. 3,50, con sovrastante copertura a terrazzo, asseritamente pertinenziale al fabbricato principale di civile abitazione di proprietà del ricorrente medesimo, ove lo stesso risiede;
- Considerato che il condono è stato denegato sull’assunto che le opere realizzate non siano suscettibili di sanatoria “per contrasto con l’art. 32, comma 26, lett. a), e comma 27, lett. d), della legge 24.11.2003, n. 326, in quanto opere appartenenti a tipologia di abuso non ammessa, realizzate su immobili soggetti a vincoli imposti sulla base di leggi statali e regionali a tutela dei beni ambientali e paesistici, istituiti prima della esecuzione di dette opere, in assenza del titolo abilitativo edilizio e non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici”;
...
- Ritenuto, in particolare, che:
   - l’eventuale ottenimento dell’accertamento della compatibilità ambientale dell’intervento non fa venire meno il vincolo esistente, ma attesta, unicamente, la compatibilità del primo con il secondo. Non incide, dunque, né sulla qualificazione dell’intervento medesimo, posto che sempre di nuova opera abusiva realizzata in area soggetta a vincolo si tratta, né sulle tipologie di interventi che la legge ammette a sanatoria in tale aree;
   - la verifica della sussumibilità dell’opera realizzata tra le tipologie ammesse a sanatoria deve, necessariamente, precedere ogni ulteriore valutazione, inclusa quella della sua compatibilità con gli eventuali vincoli da cui è gravata l’area, dato che la sua riconducibilità all’astratta previsione normativa costituisce pre-requisito fondamentale del condono;
   - risultano, conseguentemente, del tutto condivisibili le ragioni, rappresentate dalla difesa del Comune, che hanno indotto il competente dirigente ad omettere di svolgere le valutazioni in ordine alla compatibilità dell’opera con il vincolo ambientale e paesistico insistente sull’area, dato che le stesse si sarebbero tradotte in un inutile aggravio istruttorio-procedimentale;
   - correttamente, dunque, il Comune ha omesso di avviare il procedimento di cui all’art. 4 della L.R. 33/2004 e di sentire la commissione edilizia integrata, ai fini del rilascio del parere di cui all'articolo 32 della legge 28.02.1985, n. 47;
   - per costante indirizzo giurisprudenziale, espresso dal Consiglio di Stato (ex multis sez. IV, 30.06.2010, n. 4178) e da una cospicua giurisprudenza del Giudice di primo grado, è stato sempre ed univocamente ritenuto che la specialità del procedimento di condono edilizio rispetto all'ordinario procedimento di rilascio della concessione ad edificare e l'assenza di una specifica previsione in ordine alla sua necessità rendono, per il rilascio della concessione in sanatoria c.d. straordinaria (o condono), il parere della Commissione edilizia non obbligatorio, ma, tutt'al più, facoltativo, in quelle specifiche ipotesi in cui l'amministrazione ritenga discrezionalmente di acquisire eventuali informazioni e valutazioni con riguardo a particolari e sporadici casi incerti e complessi. In assenza dei predetti casi di acquisizione facoltativa del parere dell'organo collegiale, il rilascio della concessione in sanatoria è subordinato alla semplice verifica dei (pur numerosi) presupposti e condizioni espressamente e chiaramente fissati dal legislatore (cfr. C.d.S.,. IV, 12.02.2010, n. 772 ; id., IV, 15.05.2009, n. 3010; id., VI, 27.06.2008, n. 3282; id., V, 04.10.2007, n. 5153);
   - non va sottaciuto, inoltre, che l'art. 4 d.P.R. n. 380/2001, nel rendere per i comuni facoltativa l'istituzione della commissione edilizia, ha introdotto un principio fondamentale in materia di governo del territorio, al quale deve sottostare la normativa regionale, ai sensi dell'art. 117 Cost. (cfr. C.d.S., IV, 02.10.2008, n. 4793), conseguendone che le norme regionali in materia devono essere interpretate in senso costituzionalmente coerente con i principi generali introdotti in materia dal predetto Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia n. 380 (cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 02.10.2008, n. 4793) e, dunque, devono ritenersi implicitamente abrogate ai sensi dell’art. 10 della L.n. 62/1953 laddove, eventualmente, prevedano ancora l’obbligatorietà del parere della CEC (cfr. C.d.S., IV, 23.02.2012, n. 974);
- Ritenuto, inoltre, che alla constatata infondatezza dei vizi tutti dedotti dal ricorrente avverso il diniego di condono edilizio non possa che derivare il rigetto del ricorso introduttivo dallo stesso proposto, nonché delle medesime doglianze riproposte, in via derivata, avverso l’ordine di demolizione impugnato col ricorso per motivi aggiunti (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 11.04.2012 n. 440 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Pur essendo l’ordinanza di demolizione di opere abusive, di regola, sufficientemente motivata con l’affermazione dell’accertata abusività dell’opera, nella fattispecie è fondata e meritevole di accoglimento la dedotta violazione dell’art. 34, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, dato che tale norma è da ritenersi espressione di un principio generale, applicabile, dunque, anche ai procedimenti di demolizione conseguenti a diniego di condono edilizio.
Invero, "in presenza di una situazione incerta circa la riduzione in pristino di opere abusive, in termini di possibile pregiudizio alla parte di manufatto legittimamente realizzata, l’Amministrazione è tenuta a compiere una propria valutazione discrezionale, individuando e soppesando le ragioni di interesse pubblico che possono indurre a non affrontare il rischio del paventato pregiudizio. Essa deve valutare le possibili conseguenze a suo carico, connesse all’assunzione degli obblighi (e relativi oneri) dell’eventuale ripristino del bene danneggiato e/o della sua piena funzionalità”, con la precisazione che la situazione di pregiudizio sussiste allorché la stabilita dell’edificio viene, in qualche modo, compromessa, anche solamente sotto il profilo della ridotta funzionalità interna dei locali preesistenti o della possibile inagibilità dei locali stessi.

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- Considerato che il dirigente del Progetto finalizzato condono edilizio della Divisione Urbanistica ed Edilizia del Comune di Torino, con provvedimento in data 28.08.2008, previo invio del preavviso di diniego ai sensi dell’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990 e s.m.i., ha rigettato l’istanza del signor Ac.Mu. tesa ad ottenere, ai sensi dell’art. 32 del D.L. 30.09.2003, n. 269, convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1 della L. 24.11.2003, n. 326, il condono edilizio per la realizzazione abusiva di un ampliamento del magazzino residenziale per una superficie complessiva di mq. 12,96 e altezza interna di m. 3,50, con sovrastante copertura a terrazzo, asseritamente pertinenziale al fabbricato principale di civile abitazione di proprietà del ricorrente medesimo, ove lo stesso risiede;
- Considerato che il condono è stato denegato sull’assunto che le opere realizzate non siano suscettibili di sanatoria “per contrasto con l’art. 32, comma 26, lett. a), e comma 27, lett. d), della legge 24.11.2003, n. 326, in quanto opere appartenenti a tipologia di abuso non ammessa, realizzate su immobili soggetti a vincoli imposti sulla base di leggi statali e regionali a tutela dei beni ambientali e paesistici, istituiti prima della esecuzione di dette opere, in assenza del titolo abilitativo edilizio e non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici”;
...
- Ritenuto, invece, con riguardo alle doglianze svolte dal ricorrente in via diretta avverso l’ordine di demolizione, che, pur essendo l’ordinanza di demolizione di opere abusive, di regola, sufficientemente motivata con l’affermazione dell’accertata abusività dell’opera, sia fondata e meritevole di accoglimento la dedotta violazione dell’art. 34, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, dato che tale norma è da ritenersi espressione di un principio generale, applicabile, dunque, anche ai procedimenti di demolizione conseguenti a diniego di condono edilizio;
- Ritenuto, in particolare, che “in presenza di una situazione incerta circa la riduzione in pristino di opere abusive, in termini di possibile pregiudizio alla parte di manufatto legittimamente realizzata, l’Amministrazione è tenuta a compiere una propria valutazione discrezionale, individuando e soppesando le ragioni di interesse pubblico che possono indurre a non affrontare il rischio del paventato pregiudizio. Essa deve valutare le possibili conseguenze a suo carico, connesse all’assunzione degli obblighi (e relativi oneri) dell’eventuale ripristino del bene danneggiato e/o della sua piena funzionalità” (ex multis TAR Lazio, Roma, sez. II, 02.03.2001, n. 1726), con la precisazione che la situazione di pregiudizio sussiste allorché la stabilita dell’edificio viene, in qualche modo, compromessa, anche solamente sotto il profilo della ridotta funzionalità interna dei locali preesistenti o della possibile inagibilità dei locali stessi (cfr. C.d.S., sez. V, 12.11.1999, n. 1876) (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 11.04.2012 n. 440 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza afferma che nel percorso argomentativo dell’ordine di demolizione non è necessaria alcuna specificazione ulteriore rispetto alla presa d'atto dell'abusività dell'opera.
Invero, "i provvedimenti di demolizione di opere abusive sono atti dovuti, sufficientemente motivati con l’affermazione dell’accertata realizzazione di interventi edilizi in carenza del titolo abilitativo richiesto dalla legge. Di conseguenza, in relazione a provvedimenti di tal genere, l’obbligo di motivazione è da intendere nella sua essenzialità ovvero è da intendere assolto con l’indicazione dei meri presupposti di fatto (constatazione dell’esecuzione di opere edilizie in difformità del permesso di costruire o in assenza del medesimo), che poi determinano l’applicazione dovuta delle misure ripristinatorie previste".

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- Considerato che il dirigente del Progetto finalizzato condono edilizio della Divisione Urbanistica ed Edilizia del Comune di Torino, con provvedimento in data 28.08.2008, previo invio del preavviso di diniego ai sensi dell’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990 e s.m.i., ha rigettato l’istanza del signor Ac.Mu. tesa ad ottenere, ai sensi dell’art. 32 del D.L. 30.09.2003, n. 269, convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1 della L. 24.11.2003, n. 326, il condono edilizio per la realizzazione abusiva di un ampliamento del magazzino residenziale per una superficie complessiva di mq. 12,96 e altezza interna di m. 3,50, con sovrastante copertura a terrazzo, asseritamente pertinenziale al fabbricato principale di civile abitazione di proprietà del ricorrente medesimo, ove lo stesso risiede;
- Considerato che il condono è stato denegato sull’assunto che le opere realizzate non siano suscettibili di sanatoria “per contrasto con l’art. 32, comma 26, lett. a), e comma 27, lett. d), della legge 24.11.2003, n. 326, in quanto opere appartenenti a tipologia di abuso non ammessa, realizzate su immobili soggetti a vincoli imposti sulla base di leggi statali e regionali a tutela dei beni ambientali e paesistici, istituiti prima della esecuzione di dette opere, in assenza del titolo abilitativo edilizio e non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici”;
...
- Ritenuto che siano, invece, prive di pregio le ulteriori doglianze svolte in via diretta avverso il provvedimento in esame, in quanto:
   - l’omessa ulteriore considerazione del contributo partecipativo offerto dal ricorrente, peraltro volto unicamente ad evidenziare l’avvenuta presentazione della “domanda di accertamento di compatibilità paesaggistica” e, dunque, in ogni caso non idoneo ad incidere sulla qualificazione data all’intervento dal Comune e di cui, in ogni caso, il dirigente competente ha dato conto nel provvedimento con cui ha denegato il condono edilizio, non può inficiare in alcun modo la legittimità di un provvedimento che costituisce conseguenza vincolata in presenza di un diniego di condono;
   - la giurisprudenza afferma che nel percorso argomentativo dell’ordine di demolizione non è necessaria alcuna specificazione ulteriore rispetto alla presa d'atto dell'abusività dell'opera [ex plurimis, TAR Lazio, I-quater, 14.01.2008 n. 174: "i provvedimenti di demolizione di opere abusive sono atti dovuti, sufficientemente motivati con l’affermazione dell’accertata realizzazione di interventi edilizi in carenza del titolo abilitativo richiesto dalla legge. Di conseguenza, in relazione a provvedimenti di tal genere, l’obbligo di motivazione è da intendere nella sua essenzialità ovvero è da intendere assolto con l’indicazione dei meri presupposti di fatto (constatazione dell’esecuzione di opere edilizie in difformità del permesso di costruire o in assenza del medesimo), che poi determinano l’applicazione dovuta delle misure ripristinatorie previste"]; nello stesso senso TAR Campania, Napoli, II, 13.10.2008 n. 15498) (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 11.04.2012 n. 440 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: MANCATA ESPOSIZIONE DEL CARTELLO DI CANTIERE: E' ANCORA REATO.
Dall’art. 27, comma 4, del D.P.R. n. 280/2001 si ricava che l’obbligo di esposizione del cartello di cantiere continua ad essere penalmente sanzionato anche in base al predetto Testo unico se tale prescrizione è imposta dal regolamento comunale o dal permesso di costruire.
Il ricorrente, già condannato per il reato di cui alla lett. a) dell’art. 44 T.U. edilizia, per non avere affisso -in qualità di committente di alcune opere edilizie assistite da regolare permesso di costruire- il prescritto cartello contenente le indicazioni sul cantiere, lamenta l’erronea applicazione della legge penale, giacché il reato in discorso sarebbe stato abrogato con il passaggio dalla L. n. 47/1985 al Testo unico del 2001.
La Corte rigetta tuttavia il ricorso, ritenendo che l’obbligo in esame sia ancora stabilito e penalmente sanzionato dalle norme del Testo unico.
In effetti, nella L. n. 47/1985, detto obbligo era espressamente stabilito dall’art. 4, comma 4, e sanzionato dalla lett. a) dell’art. 20, comma 1, e dette norme sono state abrogate dall’art. 146 del citato T.U. Cionondimeno la persistenza sostanziale del medesimo obbligo risulta dall’art. 27, comma 4, del nuovo testo legislativo, il quale espressamente stabilisce che la P.G. debba dare immediata comunicazione all’A.G. qualora, nel contesto delle attività di controllo di un cantiere edilizio, ad essa non sia esibito il permesso di costruire ovvero si verifichi la mancata apposizione del prescritto cartello.
Da ciò deriva che, qualora l’obbligo di affissione sia comunque stabilito dal regolamento comunale o dal titolo abilitativo, l’inottemperanza resta punita dalla lett. a) dell’art. 44 citato (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.12.2009 n. 46832 - Urbanistica e appalti n. 6/2010).

EDILIZIA PRIVATA: Mancata esposizione del cartello di cantiere.
L’articolo 4, comma 4 della legge 47/1985 è stato abrogato dal TU edilizia, ma la violazione dell’obbligo di esposizione del cartello di cantiere e di esibizione della concessione edilizia (ora permesso di costruire) ma il suo contenuto è stato sostanzialmente riprodotto nell’articolo 27, comma quarto del predetto TU dal contenuto del quale emerge che la violazione continua ad essere sanzionata ove gli obblighi predetti siano imposti dal regolamento edilizio o dal permesso di costruire.
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Il ricorso è infondato.
Invero la L. n. 47 del 1985, art. 20, comma 1, lettera a), riprodotto nella D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, ferma restando l'applicazione di eventuali sanzioni amministrative, sanziona con l'ammenda l'inosservanza delle norme, prescrizioni e modalità esecutive previste dalla legge nonché dai regolamenti edilizi, dagli strumenti urbanistici e dalla concessione.
Secondo le Sezioni unite di questa Corte la previsione contenuta nella norma citata configura un'ipotesi di norma penale in Bianco, posto che per la determinazione del precetto viene fatto rinvio a dati prescrittivi, tecnici e provvedimentali di fonte extrapenale. Il precetto infatti comprende oltre alle parziali difformità delle opere eseguite, anche la violazione del regolamento edilizio nonché l'inosservanza delle prescrizioni della concessione edilizia e delle modalità esecutive (Cass. Sez. Un. 21.12.1993 n. 11635).
La L. 28.02.1985, n. 47, art. 4, comma 4, prevedeva due obblighi a carico di coloro che costruivano: la tenuta in cantiere della concessione edilizia e l'esposizione di un cartello contenente gli estremi della concessione e degli autori dell'attività costruttiva. La violazione di tale obbligo era sanzionata penalmente dalla legge anzidetta, art. 20, comma 1, lettera a), (Cass. Sez. Un. 14.07.1992 n. 7978; Cass. Sez. 3^, 05.10.1994 n. 10435). Tale norma è stata abrogata, con decorrenza dalla data di entrata in vigore del testo unico dell'edilizia, dal citato testo unico, art. 146, ma il suo contenuto è stato riprodotto sostanzialmente nel testo unico, art. 27, comma 4. Quest'ultima norma dispone infatti: "Gli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria, ove nei luoghi in cui vengono realizzate le opere non sia esibito il permesso di costruire ovvero non sia apposto il prescritto cartello.........ne danno immediata comunicazione all'autorità giudiziaria,......".
Orbene da tale disposizione emerge che l'obbligo di esposizione del cartello continua ad essere penalmente sanzionato anche in base al testo unico se tale prescrizione è imposta dal regolamento o dal permesso di costruire. I soggetti responsabili dell'apposizione del cartello, che nella fattispecie era prevista, sia dal regolamento edilizio che dalla stessa concessione che richiamava il regolamento, sono quelli già indicati nella L. n. 47 del 1985, articolo 6, comma 1, della ossia il titolare della concessione, il committente, il costruttore ed il direttore dei lavori.
La sentenza citata dal ricorrente (la n. 5149 del 2003) non limita la responsabilità al solo direttore dei lavori, come erroneamente ritenuto dal ricorrente. Si legge invero alla pag. 2 della citata sentenza "Ai sensi della L. n. 47 del 1985, art. 6, comma 1, il direttore dei lavori, unitamente agli altri destinatari del precetto in Bianco (il titolare della concessione, il committente, il costruttore) risponde penalmente ai sensi dell'articolo 20, lettera a), del rispetto delle prescrizioni della concessione e delle relative modalità esecutive,tra le quali rientra,ove previsto nell'atto amministrativo o nelle disposizioni regolamentari locali (come nella specie non si contesta), l'obbligo di esposizione del cartello in questione".
Il regolamento comunale, quale atto amministrativo, non poteva abrogare norme penali limitando la responsabilità dell'apposizione del cartello a carico del solo direttore dei lavori (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 11.05.2006 n. 16037 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Obbligo di esposizione del cartello con gli estremi della concessione edilizia - Sul luogo di una costruzione - Violazione - Reato configurabile - Condizioni - Fattispecie.
La violazione dell'obbligo di esposizione, sul luogo di una costruzione, del cartello indicante gli estremi della concessione edilizia integra il reato di cui all'art. 20, lett. a), legge 28.02.1985, n. 47, qualora il regolamento edilizio o la concessione lo prescrivano espressamente.
Nella specie, relativa a rigetto di ricorso del P.M. avverso sentenza di assoluzione, il Pretore aveva osservato che mancava la prova della contestata violazione non avendo l'accusa prodotto in atti la concessione edilizia di cui si assumeva violata la prescrizione relativa alla mancata esposizione (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 28.06.1994 n. 10435).

EDILIZIA PRIVATA: Mancata esposizione in cantiere del cartello.
L'art. 4, quarto comma, L. 28.02.1985, n. 47 prevede due obblighi a carico di coloro che costruiscono: la tenuta in cantiere della concessione edilizia e la esposizione di un cartello contenente gli estremi della concessione e degli autori dell'attività costruttiva.
La violazione di tali obblighi è penalmente sanzionata a norma dell'art. 20, primo comma, lett. a, della detta legge, ma solo a condizione che gli stessi siano espressamente previsti dai regolamenti edilizi o dalla concessione.

Nell'affermare il principio di cui in massima, la Cassazione ha altresì evidenziato che l'art. 20, primo comma, lett. a, legge n. 47 del 1985 è una cosiddetta norma penale in bianco, in quanto mentre la sanzione è determinata, il precetto ha un carattere generico, stante il rinvio ad un dato esterno - concessione, regolamento edilizio) (Corte di Cassazione, Sezz. Unite penali, sentenza 29.05.1992 n. 7978).

AGGIORNAMENTO AL 09.03.2016

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Acquisti al di fuori di CONSIP piuttosto che delle centrali di committenza regionali:
chi è l'
organo di vertice amministrativo che deve rilasciare apposita preventiva autorizzazione specificatamente motivata??

     La legge di stabilità per il 2016 (Legge 28.12.2015 n. 208, in vigore dal 1° gennaio 2016) dispone all'art. 1, comma 510, quanto segue:

510. Le amministrazioni pubbliche obbligate ad approvvigionarsi attraverso le convenzioni di cui all'articolo 26 della legge 23.12.1999, n. 488, stipulate da Consip SpA, ovvero dalle centrali di committenza regionali, possono procedere ad acquisti autonomi esclusivamente a seguito di apposita autorizzazione specificamente motivata resa dall'organo di vertice amministrativo e trasmessa al competente ufficio della Corte dei conti, qualora il bene o il servizio oggetto di convenzione non sia idoneo al soddisfacimento dello specifico fabbisogno dell'amministrazione per mancanza di caratteristiche essenziali.

     All'indomani dell'entrata in vigore nella nuova normativa di cui sopra, ci sono stati i primi commenti che riproponiamo a seguire:

APPALTI: L. Oliveri, Deroghe agli acquisti centralizzati: garbuglio della competenza (23.01.2016 - link a https://rilievoaiaceblogliveri.wordpress.com).

APPALTI: L. Oliveri, Autorizzazioni per acquisti extra Consip: quando non sono necessarie? (21.01.2016 - link a www.leggioggi.it).

APPALTI: Centralizzazione degli acquisti, per le deroghe serve il via libera del «vertice amministrativo» (nei Comuni è il segretario).
Gli acquisti di beni e servizi in deroga agli obblighi di utilizzo delle convenzioni stipulate da Consip e dai soggetti aggregatori regionali devono essere autorizzati dagli organi amministrativi di vertice delle pubbliche amministrazioni e sono assoggettati a specifiche comunicazioni.
L'intervento della manovra
La legge n. 208/2015 ha definito norme molto rigorose sul possibile approvvigionamento autonomo da parte delle amministrazioni, quando il prodotto o il servizio disponibile con le convenzioni centralizzate non sia idoneo al soddisfacimento del loro specifico fabbisogno per mancanza di caratteristiche essenziali.
La regolamentazione della deroga è prevista sia in termini generali (comma 510) sia con riferimento specifico a beni e servizi informatici (comma 516), ma le disposizioni della legge di stabilità 2016 devono essere connesse con l'articolato quadro normativo vigente in tema di razionalizzazione degli acquisti per individuare i presupposti applicativi, soprattutto con riguardo agli enti locali.
Il quadro delle regole
Gli obblighi di utilizzo delle convenzioni stipulate da Consip e dai soggetti aggregatori regionali in base all'art. 26 della legge n. 488/1999 sono definiti:
• dall'articolo 1, comma 450, della legge 296/2006, che prevede un obbligo assoluto per le amministrazioni statali e per gli enti del servizio sanitario nazionale, nonché una facoltà di utilizzo da parte delle altre amministrazioni, tuttavia con obbligo relativo di fare riferimento ai parametri qualità-prezzo per gli acquisti gestiti in autonomia;
• dall'articolo 1, comma 7, del Dl 95/2012 convertito nella legge 135/2012, che stabilisce l'obbligo di ricorso alle convenzioni stipulate da Consip e dai soggetti aggregatori regionali per alcune categorie merceologiche di beni e servizi (telefonia, energia elettrica, gas, carburanti, eccetera), riferendolo a tutte le pubbliche amministrazioni;
• dall'articolo 9, comma 3, del Dl 66/2014 convertito nella legge 89/2014, il quale prevede l'obbligo di utilizzo delle convenzioni stipulate dai soggetti aggregatori (Consip e centrali di committenza regionali) per alcune tipologie di beni e servizi di valore superiore a una determinata macro-soglia.
La previsione del decreto "spending review" del 2012 è stata peraltro recentemente modificata dall'articolo 1, comma 494 nella parte in cui consente alle amministrazioni di procedere autonomamente, a condizione di sviluppare procedure a evidenza pubblica e con una base d'asta inferiore del 3 o del 10 per cento ai valori delle convenzioni.
Rispetto a questo quadro, il comma 510 della legge di stabilità 2016 ha stabilito una regola generale per disciplinare le eventuali procedure autonome di approvvigionamento da parte delle amministrazioni pubbliche assoggettate agli obblighi di utilizzo delle convenzioni stipulate da Consip o dai soggetti aggregatori.
Le condizioni
Il presupposto oggettivo in base al quale può essere esperita questa possibilità si determina quando il bene o il servizio oggetto di convenzione non sia idoneo al soddisfacimento dello specifico fabbisogno dell'amministrazione per mancanza di caratteristiche essenziali.
La procedura autonoma di acquisto, però, è sviluppabile esclusivamente a seguito di autorizzazione specificamente motivata resa dall'organo di vertice amministrativo e trasmessa al competente ufficio della Corte dei conti (la sezione regionale di controllo, deputata a queste attività di verifica anche da altre disposizioni di legge). L'eccezionalità del processo di acquisto autonomo rispetto all'obbligo di utilizzo delle convenzioni centralizzate (su base nazionale o regionale) è sottoposta al vaglio autorizzativo dell'organo di vertice amministrativo.
Questa definizione esclude gli organi politici (in altre disposizioni, il legislatore ha specificato il riferimento all'organo di indirizzo politico-amministrativo) e risulta assimilabile a quella di contenuto analogo, esplicitata nell'articolo 1, comma 2, lettera i), del Dlgs 39/2013 con riferimento agli incarichi amministrativi di vertice, intesi come gli incarichi di livello apicale, quali quelli di segretario generale, direttore generale o posizioni assimilate nelle pubbliche amministrazioni conferiti a soggetti interni o esterni all'amministrazione o all'ente che conferisce l'incarico, che non comportano l'esercizio in via esclusiva delle competenze di amministrazione e gestione.
I compiti del segretario
Nei comuni, ad esempio, l'organo di vertice amministrativo è individuabile, secondo questo schema comparativo, nel segretario generale e sembra connettersi ai ruolo dallo stesso svolti come figura di riferimento del sistema dei controlli interni e come responsabile della prevenzione della corruzione, in una prospettiva di verifica a spettro ampio su scelte di acquisto derogatorie, quindi rischiose sia sotto il profilo legittimistico sia, potenzialmente, sotto quello dei possibili fenomeni corruttivi.
Lo schema autorizzativo in capo all'organo di vertice amministrativo è replicato dal comma 516 della legge 208/2015, che lo prevede per approvvigionamenti di beni e servizi informatici al di fuori dell'obbligo di ricorso a Consip e ai soggetti aggregatori, sempre sulla base del presupposto oggettivo di inidoneità del bene o servizio disponibile in convenzione rispetto agli specifici fabbisogni dell'amministrazione.
La disposizione, tuttavia, prevede un ulteriore presupposto oggettivo che può permettere l'esperimento della procedura autonoma, rilevabile nei casi di necessità e urgenza, quando gli acquisti siano funzionali ad assicurare la continuità della gestione amministrativa. La decisione di acquisto in autonomia per i beni e i servizi informatici deve essere comunicata all'Anac e all'Agid.
In entrambe i casi (la disposizione generale del comma 510 e quella specifica del comma 516) l'autorizzazione al processo di acquisizione deve essere specificamente motivata, quindi con una dettagliata analisi della sussistenza dei presupposti oggettivi, supportata da un confronto sulle specifiche tecniche tale da consentire l'evidenziazione della radicale difformità rispetto al fabbisogno dell'amministrazione (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 20.01.2016 - tratto da www.elenafissore.it).

APPALTI: Per tutti i comuni acquisti in autonomia sotto i 40 mila euro.
Facoltà per tutti i comuni di procedere in autonomia sotto la soglia dei 40.000 euro. Facoltà di derogare alle convenzioni Consip o delle centrali di committenza regionali quando il bene, o il servizio, offerto non sia idoneo a soddisfare i fabbisogni dell'amministrazione. Facoltà di bypassare il MePa fino a 1.000 euro.

Sono queste le principali novità in materia di acquisti degli enti locali previste dalla legge di stabilità 2016 (legge 208/2015). Tutte, pur confermando la generale tendenza alla centralizzazione, puntano a rendere l'obbligo meno rigido per le commesse di importo modesto o quando vi siano esigenze particolari non standardizzabili.
In questa direzione si muove innanzitutto il comma 501, che estende a tutti i comuni la possibilità di effettuare acquisti in via autonoma sotto la soglia dei 40.000 euro. In precedenza, la deroga era consentita ai soli municipi con popolazione superiore a 10.000 abitanti.
Restano ferme, peraltro, le norme che impongono di fare ricorso alle convenzioni Consip e a quelle stipulate dalla centrali di committenza regionali. Per quanto riguarda gli enti locali, tuttavia, tale obbligo riguarda solo le fattispecie previste dall'art. 9, comma 3, del dl 66/2014 (che prevede l'individuazione ogni anno di categorie di beni e servizi e relative soglie di valore al superamento delle quali è comunque obbligatorio ricorrere a Consip o ad altri soggetti aggregatori), dall'art. 1, comma 512, della stessa legge 208 (per i beni e servizi informatici) e dall'art. 1, comma 7, del dl 95/2012 (per le categorie merceologiche energia elettrica, gas, carburanti rete e carburanti extra rete, combustibili per riscaldamento, telefonia fissa e telefonia mobile).
Rispetto a quest'ultima norma, peraltro, sempre la legge 208 ha previsto, al comma 494, la possibilità di derogare alle convenzioni se si spuntano corrispettivi inferiori almeno del 10% per telefonia fissa e mobile e del 3% per carburanti extra rete, carburanti rete, energia elettrica, gas e combustibili per il riscaldamento. I contratti stipulati in deroga devono essere inviati all'Anac.
Inoltre, il comma 510 ha previsto un'altra possibilità di dribblare le convenzioni, allorché il bene, o il servizio, da esse offerto non sia idoneo al soddisfacimento dello specifico fabbisogno dell'amministrazione per mancanza di caratteristiche essenziali. A tal fine, occorre un'apposita autorizzazione specificamente motivata resa dall'organo di vertice amministrativo (non è chiaro se ci si riferisca al segretario o direttore generale, ovvero, secondo altre letture, alla giunta) e trasmessa alla Corte dei conti.
Si può ritenere, tuttavia, che l'autorizzazione non sia necessaria se l'acquisto riguarda categorie merceologiche che non sono presenti nelle convenzioni. Negli altri casi, occorrerà motivare il provvedimento confrontando in modo tecnicamente rigoroso le caratteristiche essenziali dei beni o servizi oggetto della convenzione e le caratteristiche essenziali dei beni, o servizi, necessari per soddisfare il fabbisogno dell'ente.
Infine, ricordiamo che il comma 450 della legge 296/2006 impone di fare ricorso al MePa, ma a seguito della modifica introdotta dal comma 502 della legge 208 solo per acquisti sopra i 1.000 euro. Trattandosi di un acquisto autonomo, anche in tal caso sembra necessaria l'autorizzazione, salvo il caso di assenza di convenzioni idonee (articolo ItaliaOggi del 15.01.2016).

     Ebbene, fresco fresco di questi giorni, ecco pervenire -sull'interrogativo di che trattasi- un 1° autorevole pronunciamento -guarda caso- della Corte dei Conti (per quanto di nostra conoscenza) il quale statuisce che "spetta al dirigente apicale, e non alla Giunta comunale, adottare il provvedimento autorizzatorio". Detto altrimenti, è il segretario comunale che risulta investito del suddetto obbligo normativo.
     A seguire il recentissimo parere della Corte dei Conti, Sez. controllo Liguria:

APPALTI: La Sezione regionale di controllo è competente ad esaminare, anche se solo in via successiva, la sussistenza di eventuali illegittimità o irregolarità degli atti di autorizzazione a procedere ad acquisti di beni o servizi in deroga alle convenzioni CONSIP/MEPA, ai sensi dell’art. 1, comma 510, della legge 28.12.2015, n. 208 (legge di stabilità 2016).
Spetta al dirigente apicale, e non alla Giunta comunale, adottare il provvedimento autorizzatorio trasmesso. Per ricondurre la vicenda nei parametri della regolarità amministrativa, ben potrà, comunque, il dirigente apicale competente ratificare il contenuto della deliberazione della Giunta comunale.

L’esame delle varie ed eterogenee disposizioni normative succedutesi nel tempo, che per comodità espositiva si è ritenuto di esporre, permette di rilevare, sia pure con uno sforzo sistematico, come la volontà del legislatore sia nel senso di attribuire tutte le competenze relative agli enti locali alle Sezione regionale di controllo, anche se tale devoluzione non è sempre stata espressamente richiamata nei vari articoli di legge.
Non si può non rilevare come la Sezione regionale di controllo sia l’ufficio che possa avere maggiore contezza di tutte le diverse problematiche che possono insorgere dall’analisi dei singoli provvedimenti.
Infatti la medesima ha il compito di verificare non solo, sotto il profilo gestorio, il rispetto dei meri parametri di efficacia e di efficienza, ma anche, nell’ambito del controllo finanziario, la conformità dell’azione amministrativa ai parametri di legalità–regolarità, arrivando financo all’obbligo di trasmissione all’organo competente delle notizie specifiche di danno erariale.

Sulla base di questi elementi, questa Sezione regionale si ritiene competente ad esaminare e valutare l’atto di autorizzazione trasmesso dal Comune.
Peraltro,
occorre ritenere che l’ambito prospettico del controllo della Corte dei conti non possa essere limitato ai meri parametri dell’efficienza, dell’efficacia e dell’economicità, tipici del controllo sulla gestione, ma debba estendersi, naturalmente, anche ai profili di legalità e di regolarità dell’azione amministrativa.
Ciò risulta implicitamente dal disposto dell’art. 1 della legge n. 208 del 2015 il quale, a differenza di quanto prevede espressamente l’art. 1, comma 173, della legge n. 266 del 2005, non ha ritenuto di qualificare la competenza della Corte come controllo sulla gestione. Si può pertanto ragionevolmente ritenere come si sia voluto conferire alla Corte dei conti un controllo “a tutto campo”, ancorché non incidente in alcun modo sull’efficacia dell’atto, operando solo successivamente alla produzione degli effetti.
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Il Comune ha ritenuto di autorizzare il Responsabile del Servizio Tecnico ad affidare gli incarichi per la fornitura del servizio assistenza tecnica per la tv via cavo e della caldaia per il Palazzo Comunale a fornitori esterni al mercato CONSIP/MEPA, sulla base dei corrispondenti presupposti:
a) assenza di disponibilità del servizio tv via cavo sul mercato elettronico;
b) sovradimensionamento delle caldaie presenti sul mercato elettronico rispetto all’immobile da riscaldare, con conseguente lesione del principio di economicità dell’azione amministrativa.

Sotto questo aspetto,
la Sezione ritiene sussistenti i presupposti di legge per procedere all’acquisto sul mercato esterno, osservando che il rispetto dell’obbligo di ricorrere al mercato elettronico non possa giungere fino a dovere imporre impegni di spesa diseconomici e inconferenti rispetto alle esigenze da soddisfare.
Tuttavia
si rileva come il provvedimento autorizzatorio sia stato emesso dalla Giunta comunale e non dal dirigente apicale, come invece richiesto dall’art. 1, comma 510, della legge citata.
Il Comune ha precisato di avere ritenuto di individuare l’organo di vertice amministrativo nell’organo politico.
La valutazione operata non è condivisibile in quanto, come afferma costantemente la giurisprudenza amministrativa
, l’art. 107, comma 5, TUEL prevede che i dirigenti abbiano competenza esclusiva e inderogabile per tutti i compiti gestionali, ivi compresi gli atti discrezionali, laddove gli organi di governo, Consiglio e Giunta comunale, possano operare con i soli poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo.
Alla luce dei menzionati orientamenti, pertanto,
spettava al dirigente apicale, e non alla Giunta comunale, adottare il provvedimento autorizzatorio regolarmente trasmesso alla Sezione regionale.
Per ricondurre la vicenda nei parametri della regolarità amministrativa, ben potrà, comunque, il dirigente apicale competente ratificare il contenuto della deliberazione n. 2 del 2016 della Giunta comunale.
L’assenza dei profili di danno erariale, risolvendosi la questione in una mera illegittimità formale, induce a ritenere che non ricorrano i presupposti per dover procedere alla trasmissione della presente deliberazione alla Procura regionale eventualmente competente.
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In data 13.01.2016, è pervenuta alla Sezione la deliberazione giuntale n. 2 del 05.01.2016, con la quale il Comune di Riomaggiore (SP) ha autorizzato il proprio Responsabile del Servizio Tecnico a procedere ad affidamenti esterni, in deroga al mercato CONSIP/MEPA, in presenza dei presupposti di legge.
Il Comune, richiesto di chiarimenti sulla circostanza in base alla quale il provvedimento autorizzatorio fosse stato emanato dalla Giunta comunale, invece che dal dirigente apicale, ha chiarito che “mancando una specifica indicazione normativa o di prassi, che per la corretta individuazione dell’organo di vertice si è fatto riferimento ai commenti della dottrina (vedi il Sole 24 ore) che hanno individuato l’organo di vertice amministrativo nell’organo politico.
...
1. L’art. 1, comma 510, della legge 28.12.2015, n. 208 (legge di stabilità 2016) prevede che “le amministrazioni pubbliche obbligate ad approvvigionarsi attraverso le convenzioni di cui all’articolo 26 della legge 23.12.1999, n. 488, stipulate da Consip S.p.A., ovvero dalle centrali di committenza regionali, possono procedere ad acquisti autonomi esclusivamente a seguito di apposita autorizzazione specificamente motivata resa dall’organo di vertice amministrativo e trasmessa al competente ufficio della Corte dei conti, qualora il bene o il servizio oggetto di convenzione non sia idoneo al soddisfacimento dello specifico fabbisogno dell’amministrazione per mancanza di caratteristiche essenziali”.
L’art. 26, comma 3, della legge 23.12.1999, n. 488 dispone che “Le amministrazioni pubbliche possono ricorrere alle convenzioni stipulate ai sensi del comma 1 [oggi convenzioni CONSIP], ovvero ne utilizzano i parametri di prezzo-qualità, come limiti massimi, per l'acquisto di beni e servizi comparabili oggetto delle stesse, anche utilizzando procedure telematiche per l'acquisizione di beni e servizi ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 04.04.2002, n. 101 [oggi MEPA]. La stipulazione di un contratto in violazione del presente comma è causa di responsabilità amministrativa; ai fini della determinazione del danno erariale si tiene anche conto della differenza tra il prezzo previsto nelle convenzioni e quello indicato nel contratto”.
2. In via preliminare, questa Sezione ritiene di valutare la sussistenza della propria competenza a svolgere eventuali controlli e verifiche sugli atti di autorizzazione ad acquistare beni o servizi al di fuori del sistema CONSIP, come previsto dall’art. 1, comma 510, della legge n. 208 del 2015, il quale si limita a prevedere la trasmissione del relativo atto “al competente ufficio della Corte dei conti”.
La disposizione si pone nell’alveo di una tendenza normativa che ha assegnato agli uffici di controllo della Corte dei conti, ed in particolare alle Sezioni regionali di controllo, competenze sempre più pregnanti in ordine alle verifiche di legalità e di regolarità su atti di spesa e bilanci pubblici, comunque incidenti sui profili di sana gestione finanziaria, con la finalità non solo di un pieno rispetto dei principi dettati dall’art. 97 Cost., ma anche, e soprattutto, delle esigenze del coordinamento della finanza pubblica.
Sotto questo profilo, si possono menzionare:
- l’art. 1, comma 42, della legge 30.12.2004, n. 311, che prescrive la trasmissione alla Corte dei conti degli atti di affidamento di incarichi di studio, di ricerca, o comunque di consulenza, conferiti dagli enti locali a soggetti estranei all’Amministrazione;
- l’art. 1, comma 168, della legge 23.12.2005, n. 266, che prevede la trasmissione, da parte degli enti locali di relazioni sui propri bilanci, preventivi e consuntivi, “alle competenti sezioni regionali di controllo della Corte dei conti”, con compito, a carico di queste ultime, di accertare, con pronuncia specifica, “comportamenti difformi dalla sana gestione finanziaria o il mancato rispetto degli obiettivi posti con il patto [di stabilità]” (tale controllo, come è noto, è stato successivamente rafforzato dall’art. 3, comma 1, del decreto-legge 10.10.2012, n. 174, convertito dalla legge 07.12.2012, n. 213);
- l’art. 1, comma 173, della medesima legge n. 266 del 2005, che impone la trasmissione degli atti di spesa per incarichi di consulenza, relazioni pubbliche, convegni, mostre, pubblicità e rappresentanza, di importo superiore a 5.000 euro “alla competente sezione della Corte dei conti per l’esercizio del controllo successivo sulla gestione”; (unica disposizione che esplicita, limitandola, la modalità del controllo posto in essere dalla Corte dei conti);
- l’art. 3, comma 28, della legge 24.12.2007, n. 244 (legge finanziaria 2008), che stabilisce la trasmissione alla sezione competente della Corte dei conti delle deliberazioni che autorizzano l'assunzione di nuove partecipazioni societarie e il mantenimento di quelle già possedute, da parte delle Pubbliche Amministrazioni;
- l’art. 3, comma 57, della medesima legge n. 244 del 2007, che dispone la trasmissione “alla sezione regionale di controllo della Corte dei conti” dei regolamenti che fissano limiti, criteri e modalità per l’affidamento di incarichi di collaborazione autonoma;
- l’art. 16, comma 26, del decreto-legge 13.08.2011, n. 138, convertito dalla legge 14.09.2011, n. 148, che dispone l’obbligo di trasmissione del prospetto delle spese di rappresentanza sostenute dagli organi di governo degli enti locali “alla sezione regionale di controllo della Corte dei conti”;
- l’art. 1, comma 612, della legge 23.12.2014, n. 190 (legge di stabilità 2015) che introduce l’obbligo di trasmissione “alla competente sezione regionale di controllo della Corte dei conti” dei piani operativi di razionalizzazione delle società e delle partecipazioni societarie direttamente o indirettamente possedute da Regioni, Enti locali, Camere di commercio, Università e Autorità portuali, con relativa relazione tecnica, nonché una successiva relazione attestante i risultati effettivamente conseguiti.
3.
L’esame delle varie ed eterogenee disposizioni normative succedutesi nel tempo, che per comodità espositiva si è ritenuto di esporre, permette di rilevare, sia pure con uno sforzo sistematico, come la volontà del legislatore sia nel senso di attribuire tutte le competenze relative agli enti locali alle Sezione regionale di controllo, anche se tale devoluzione non è sempre stata espressamente richiamata nei vari articoli di legge.
Non si può non rilevare come la Sezione regionale di controllo sia l’ufficio che possa avere maggiore contezza di tutte le diverse problematiche che possono insorgere dall’analisi dei singoli provvedimenti.
Infatti la medesima ha il compito di verificare non solo, sotto il profilo gestorio, il rispetto dei meri parametri di efficacia e di efficienza, ma anche, nell’ambito del controllo finanziario, la conformità dell’azione amministrativa ai parametri di legalità–regolarità, arrivando financo all’obbligo di trasmissione all’organo competente delle notizie specifiche di danno erariale.

Sulla base di questi elementi, questa Sezione regionale si ritiene competente ad esaminare e valutare l’atto di autorizzazione trasmesso dal Comune di Riomaggiore.
4. Peraltro,
occorre ritenere che l’ambito prospettico del controllo della Corte dei conti non possa essere limitato ai meri parametri dell’efficienza, dell’efficacia e dell’economicità, tipici del controllo sulla gestione, ma debba estendersi, naturalmente, anche ai profili di legalità e di regolarità dell’azione amministrativa.
Ciò risulta implicitamente dal disposto dell’art. 1 della legge n. 208 del 2015 il quale, a differenza di quanto prevede espressamente l’art. 1, comma 173, della legge n. 266 del 2005, non ha ritenuto di qualificare la competenza della Corte come controllo sulla gestione. Si può pertanto ragionevolmente ritenere come si sia voluto conferire alla Corte dei conti un controllo “a tutto campo”, ancorché non incidente in alcun modo sull’efficacia dell’atto, operando solo successivamente alla produzione degli effetti.
Ritiene il Collegio, quindi, che sia possibile esaminare, anche se solo in via successiva, la sussistenza di eventuali illegittimità o irregolarità degli atti trasmessi.
5. Nella specie,
il Comune di Riomaggiore ha ritenuto di autorizzare il Responsabile del Servizio Tecnico ad affidare gli incarichi per la fornitura del servizio assistenza tecnica per la tv via cavo e della caldaia per il Palazzo Comunale a fornitori esterni al mercato CONSIP/MEPA, sulla base dei corrispondenti presupposti:
a) assenza di disponibilità del servizio tv via cavo sul mercato elettronico;
b) sovradimensionamento delle caldaie presenti sul mercato elettronico rispetto all’immobile da riscaldare, con conseguente lesione del principio di economicità dell’azione amministrativa.

Sotto questo aspetto,
la Sezione ritiene sussistenti i presupposti di legge per procedere all’acquisto sul mercato esterno, osservando che il rispetto dell’obbligo di ricorrere al mercato elettronico non possa giungere fino a dovere imporre impegni di spesa diseconomici e inconferenti rispetto alle esigenze da soddisfare.
Tuttavia
si rileva come il provvedimento autorizzatorio sia stato emesso dalla Giunta comunale e non dal dirigente apicale, come invece richiesto dall’art. 1, comma 510, della legge citata.
Il Comune ha precisato di avere ritenuto di individuare l’organo di vertice amministrativo nell’organo politico.
La valutazione operata non è condivisibile in quanto, come afferma costantemente la giurisprudenza amministrativa
(ex multis, C.d.S., Sez. V, 30.04.2015, n. 2194; TAR Lazio, Sez. II, 03.11.2015, n. 12404; C.d.S., Sez. V, 30.04.2015, n. 2194; TAR Campania, Sez. III, 13.01.2016, n. 143), l’art. 107, comma 5, TUEL prevede che i dirigenti abbiano competenza esclusiva e inderogabile per tutti i compiti gestionali, ivi compresi gli atti discrezionali, laddove gli organi di governo, Consiglio e Giunta comunale, possano operare con i soli poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo.
Alla luce dei menzionati orientamenti, pertanto,
spettava al dirigente apicale, e non alla Giunta comunale, adottare il provvedimento autorizzatorio regolarmente trasmesso alla Sezione regionale.
Per ricondurre la vicenda nei parametri della regolarità amministrativa, ben potrà, comunque, il dirigente apicale competente ratificare il contenuto della deliberazione n. 2 del 2016 della Giunta comunale.
L’assenza dei profili di danno erariale, risolvendosi la questione in una mera illegittimità formale, induce a ritenere che non ricorrano i presupposti per dover procedere alla trasmissione della presente deliberazione alla Procura regionale eventualmente competente (Corte dei Conti, Sez. controllo Liguria, deliberazione 24.02.2016 n. 14).

     Volenti o nolenti, non è azzardabile disattendere quanto stabilisce la Corte dei Conti poiché, diversamente, si dovrà comparire dinanzi alla competente Procura regionale (della medesima Corte).
09.03.2016 - LA SEGRETERIA PTPL

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Circa l'installazione di un ascensore esterno ad un edificio quale "bene culturale", sono illegittime le motivazioni espresse dalla Soprintendenza laddove non fanno emergere l’esistenza di un pregiudizio al bene tutelato tanto “serio” da poter impedire, la realizzazione, con le necessarie prescrizioni, del progettato ascensore.
In una valutazione comparativa fra diversi interessi di forte rilevanza sociale, il legislatore ha ritenuto che gli interventi di natura edilizia volti a favorire il superamento e l'eliminazione delle barriere architettoniche, negli edifici privati che sono sottoposti a disposizioni di tutela per il loro particolare interesse paesaggistico o storico artistico, possono essere non consentiti, dalle amministrazioni cui spetta l’esercizio delle funzioni di tutela, solo se recano un «serio pregiudizio» al bene tutelato.
Per effetto delle indicate disposizioni (artt. 4 e 5 L. 13/1989) può essere, pertanto, anche ammesso un pregiudizio ad un bene che è tutelato, per il suo particolare valore paesaggistico o storico-artistico, tenuto conto del rilievo sociale che assumono (anche) le opere necessarie ad eliminare le barriere architettoniche, purché tale pregiudizio non sia serio e quindi non comprometta in modo rilevante il bene tutelato.
Alle amministrazioni che esercitano le funzioni di tutela spetta quindi il delicato compito di valutare la rilevanza del pregiudizio che il bene tutelato potrebbe subire per effetto dell’intervento edilizio progettato al fine di eliminare le barriere architettoniche.
Tale attività valutativa si connota peraltro di una sua peculiarità rispetto alle valutazioni che sono da tali amministrazioni normalmente compiute nell’esercizio del loro potere/dovere di tutela, perché, quando l’intervento edilizio è progettato al fine di eliminare le barriere architettoniche, le amministrazioni di tutela possono ritenere possibili anche interventi in grado di arrecare un pregiudizio (purché non sia rilevante) al bene tutelato e consentire, quindi, anche una parziale alterazione di un bene che altrimenti non potrebbe essere alterato.
L'indicata normativa, per rafforzare tale previsione, prevede quindi che l’Amministrazione, quando si esprime in modo negativo sulla autorizzazione richiesta deve indicare gli elementi che caratterizzano il pregiudizio e la sua serietà, in concreto e in rapporto alle caratteristiche proprie del bene culturale in cui l'intervento andrebbe a collocarsi.
Per mitigare gli effetti degli interventi resi necessari per eliminare le barriere architettoniche e per rendere ancora più lieve la (non seria) alterazione del bene tutelato, il legislatore, per i beni di interesse storico-artistico, ha assegnato agli organi di tutela anche il potere di imporre «apposite prescrizioni» sulle opere da realizzare (art. 5, comma 1, della legge n. 13 del 1989).
Pur mancando un richiamo a tale espressa previsione nel precedente comma 4, il potere di imporre prescrizioni per mitigare gli effetti di un pregiudizio (non serio) al bene tutelato, determinato da un intervento edilizio progettato al fine di eliminare le barriere architettoniche, deve ritenersi pacificamente consentito, facendo applicazione dei principi generali in materia, anche alle amministrazioni cui spetta l’esercizio delle funzioni di tutela paesaggistica.

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9.- Ciò premesso, si deve ricordare che la legge n. 13 del 09.01.1989, nel dettare “Disposizioni per favorire il superamento e l'eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici privati”, ha disciplinato, agli articoli 4 e 5, anche il caso in cui i relativi interventi riguardino i beni sottoposti a disposizioni di tutela per il loro valore paesaggistico o per l’esistenza di un vincolo di natura storico ed artistico.
9.1.- In particolare, l’art. 4 della citata legge, oltre a dettare i tempi per il rilascio dei necessari atti autorizzativi, ha previsto che «l'autorizzazione può essere negata solo ove non sia possibile realizzare le opere senza serio pregiudizio del bene tutelato» (comma 4) e che «il diniego deve essere motivato con la specificazione della natura e della serietà del pregiudizio, della sua rilevanza in rapporto al complesso in cui l'opera si colloca e con riferimento a tutte le alternative eventualmente prospettate dall'interessato» (comma 5).
9.2.- L’art. 5 della legge n. 13 del 1989 prevede poi che, per gli immobili sottoposti alle disposizioni di tutela per il loro valore storico ed artistico, si «applicano le disposizioni di cui all'articolo 4, commi 2, 4 e 5» e che la «competente soprintendenza è tenuta a provvedere entro centoventi giorni dalla presentazione della domanda, anche impartendo, ove necessario, apposite prescrizioni».
10.- In una valutazione comparativa fra diversi interessi di forte rilevanza sociale, il legislatore ha ritenuto, quindi, che gli interventi di natura edilizia volti a favorire il superamento e l'eliminazione delle barriere architettoniche, negli edifici privati che sono sottoposti a disposizioni di tutela per il loro particolare interesse paesaggistico o storico artistico, possono essere non consentiti, dalle amministrazioni cui spetta l’esercizio delle funzioni di tutela, solo se recano un «serio pregiudizio» al bene tutelato.
Per effetto delle indicate disposizioni può essere, pertanto, anche ammesso un pregiudizio ad un bene che è tutelato, per il suo particolare valore paesaggistico o storico-artistico, tenuto conto del rilievo sociale che assumono (anche) le opere necessarie ad eliminare le barriere architettoniche, purché tale pregiudizio non sia serio e quindi non comprometta in modo rilevante il bene tutelato.
11.- Alle amministrazioni che esercitano le funzioni di tutela spetta quindi il delicato compito di valutare la rilevanza del pregiudizio che il bene tutelato potrebbe subire per effetto dell’intervento edilizio progettato al fine di eliminare le barriere architettoniche.
Tale attività valutativa si connota peraltro di una sua peculiarità rispetto alle valutazioni che sono da tali amministrazioni normalmente compiute nell’esercizio del loro potere/dovere di tutela, perché, quando l’intervento edilizio è progettato al fine di eliminare le barriere architettoniche, le amministrazioni di tutela possono ritenere possibili anche interventi in grado di arrecare un pregiudizio (purché non sia rilevante) al bene tutelato e consentire, quindi, anche una parziale alterazione di un bene che altrimenti non potrebbe essere alterato.
12.- L'indicata normativa, per rafforzare tale previsione, prevede quindi che l’Amministrazione, quando si esprime in modo negativo sulla autorizzazione richiesta deve indicare gli elementi che caratterizzano il pregiudizio e la sua serietà, in concreto e in rapporto alle caratteristiche proprie del bene culturale in cui l'intervento andrebbe a collocarsi (in termini, Consiglio di Stato, Sez. VI, 12.02.2014, n. 682).
13.- Per mitigare gli effetti degli interventi resi necessari per eliminare le barriere architettoniche e per rendere ancora più lieve la (non seria) alterazione del bene tutelato, il legislatore, per i beni di interesse storico-artistico, ha assegnato agli organi di tutela anche il potere di imporre «apposite prescrizioni» sulle opere da realizzare (art. 5, comma 1, della legge n. 13 del 1989).
13.1- Pur mancando un richiamo a tale espressa previsione nel precedente comma 4, il potere di imporre prescrizioni per mitigare gli effetti di un pregiudizio (non serio) al bene tutelato, determinato da un intervento edilizio progettato al fine di eliminare le barriere architettoniche, deve ritenersi pacificamente consentito, facendo applicazione dei principi generali in materia, anche alle amministrazioni cui spetta l’esercizio delle funzioni di tutela paesaggistica.
14.- Facendo applicazione di tali principi l’appello proposto avverso la sentenza, n. 11008 del 03.11.2014, con la quale il TAR per il Lazio, Sede di Roma, Sezione II-quater, ha accolto il ricorso proposto dai signori Fr.Pi., Ma.Sa. e Mi.Sa. ed ha, quindi, annullato il (secondo) parere negativo espresso dalla Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici per il Comune di Roma sul progetto presentato per la realizzazione di un ascensore esterno nel cortile dello stabile sito in Roma, via di Torre Argentina, n. 47, deve essere confermata, sia pure in parte con diversa motivazione.
15.- Si deve, infatti, preliminarmente condividere quanto affermato dall’Amministrazione appellante quando ha sostenuto che dal testo e dalla ratio della legge n. 13 del 1989 non può desumersi la vigenza di un principio di superabilità e derogabilità assoluta ed automatica dei vincoli posti sugli immobili per finalità di tutela storico culturale o paesistico ambientale che permangono anche quando vi sono esigenze di tutela di soggetti portatori di minorazioni fisiche se la realizzazione delle opere rechi un serio pregiudizio all’interesse culturale protetto.
15.1.- In conseguenza la sentenza appellata non può essere condivisa, nella sua motivazione, quando, in diversi punti, ha affermato che il legislatore ha assegnato una (generale) «prevalenza» alla eliminazione delle barriere architettoniche anche rispetto ai beni vincolati, per il loro valore storico artistico o paesaggistico, «relegando» il diniego di autorizzazione ai soli casi di accertato e motivato serio pregiudizio al bene vincolato.
Si è, infatti, prima chiarito che non vi è una generale prevalenza per le opere necessarie alla eliminazione delle barriere architettoniche, (anche) quando da effettuarsi su beni sottoposti a disposizioni di tutela per il loro interesse paesaggistico o storico artistico, dovendo in ogni caso essere valutato l’impatto di tali opere sui beni in questione e potendo tali opere essere consentite solo se non arrecano un serio pregiudizio ai beni vincolati.
16.- Ciò precisato, nella fattispecie, come ha ritenuto il TAR, le motivazioni espresse dalla Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici per il Comune di Roma (e l’esame degli atti di causa) non fanno emergere l’esistenza di un pregiudizio al bene tutelato tanto “serio” da poter impedire, la realizzazione, con le necessarie prescrizioni, del progettato ascensore.
17.- Preliminarmente, si deve osservare che dagli atti (ed anche dal parere impugnato) non si evincono ragioni di particolare tutela dell’immobile per le sue caratteristiche storico artistiche ed architettoniche.
Come anche la Soprintendenza ha ricordato, infatti, l’immobile oggetto dell’intervento, pur collocato in una zona di assoluta rilevanza storica, è di costruzione ottocentesca e non è sottoposto ad un vincolo specifico per le sue caratteristiche di pregio ma è oggetto di tutela solo per la sua collocazione all’interno del perimetro delle mura aureliane della città storica e per essere il risultato ottocentesco di successivi interventi che prendono origine fin dall’alto medioevo.
18.- In effetti, l’asserita rilevanza del pregiudizio al bene tutelato, come emerge dalle motivazioni del parere impugnato (che si sono prima sinteticamente esposte), risulta essenzialmente dovuta alla collocazione dell’immobile in via di Torre Argentina, in un’area che è di assoluto valore storico ed artistico, e che per questo è sottoposta alla necessaria tutela, e dalla (parziale) visibilità del progettato impianto dalla pubblica via.
Secondo la Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici per il Comune di Roma il progettato ascensore, come si è già ricordato, altera, infatti, significativamente l’impianto architettonico del primo cortile di accesso al palazzo, il più visibile dall’esterno, con la creazione di un manufatto che percorre in verticale uno dei prospetti, aggettandosi in modo significativo all’interno del cortile e impegnando visivamente anche una parte dell’arco a piano terra che segna l’ingresso al cortile stesso, ciò che rende l’impianto progettato parzialmente visibile dalla pubblica strada, oltre a modificare la prospettiva.
19.- Tuttavia, in concreto, gli elaborati (in atti) dimostrano, da un lato, che il progetto risulta scarsamente visibile dalla strada, essendo stata progettata la realizzazione dell’ascensore su una delle pareti interne del cortile (dal lato della strada), tanto che, come risulta dalla simulazione fotografica in atti, dalla via di Torre Argentina sarebbe visibile solo una parete laterale del manufatto, e, dall’altro, che non risultano particolarmente significative le previste alterazioni dell’impianto architettonico (peraltro privo di particolare pregio).
20.- Tenuto conto di tali elementi si devono ritenere esenti da censure le conclusioni raggiunte dal TAR per il Lazio che ha ritenuto illegittimo il diniego di assenso al progetto in questione non risultando insuperabile (anche mediante idonee prescrizioni) il reale pregiudizio che la Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici per il Comune di Roma ha ritenuto sarebbe stato arrecato all’immobile tutelato (essenzialmente determinato dalla visibilità del manufatto dalla pubblica via in un’area di altissimo valore storico ed artistico).
21.- La Soprintendenza, invece di negare il suo assenso al progetto, tenuto conto dell’esigenza manifestata dai richiedenti di realizzare l’ascensore sulla base di disposizioni normative che sono state dettate per consentire il superamento delle barriere architettoniche, (quando possibile) anche in immobili sottoposti a disposizioni di tutela, avrebbe potuto piuttosto prevedere, utilizzando il suo potere di dettare prescrizioni (art. 5, comma 1, della legge n. 13 del 1989), un riposizionamento dell’ascensore sulla parete occupata (o un suo ridimensionamento), tale da renderlo praticamente non visibile dalla strada. Ed avrebbe potuto poi dettare anche altre prescrizioni sull’uso dei materiali e dei colori per mitigare, anche all’interno del cortile, l’impatto del manufatto e degli interventi resi necessari per la realizzazione dell’ascensore e rendere, quindi, ancora meno evidente l’alterazione del bene tutelato.
22.- Si devono quindi condividere le conclusioni raggiunte dal TAR che ha ritenuto che, nella fattispecie, non risultava dimostrato un pregiudizio al bene tutelato tale da poter impedire la realizzazione di un’opera volta al superamento delle barriere architettoniche.
23.- In conclusione, per tutto gli esposti motivi, deve essere dichiarato improcedibile, per sopravvenuta carenza di interesse, l’appello proposto avverso la sentenza del TAR per il Lazio, Sede di Roma, Sezione II-quater, n. 9321 del 13.11.2012, e deve essere respinto l’appello proposto avverso la sentenza del TAR per il Lazio, Sede di Roma, Sezione II-quater, n. 11008 del 03.11.2014 che deve essere confermata, in parte con diversa motivazione.
24.- Sono fatti salvi gli ulteriori provvedimenti dell’Amministrazione finalizzati, in particolare, ad imporre le necessarie prescrizioni volte a mitigare il pregiudizio per il bene tutelato del progettato intervento (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 07.03.2016 n. 905 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L’invito alla regolarizzazione (il c.d. preavviso di DURC negativo) può operare solo nei rapporti tra impresa ed Ente previdenziale, ossia con riferimento al DURC chiesto dall’impresa e non anche al DURC richiesto dalla stazione appaltante per la verifica della veridicità dell’autodichiarazione.
L’invito alla regolarizzazione è, pertanto, un istituto estraneo alla disciplina dell’aggiudicazione e dell’esecuzione dei contratti pubblici.
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III) Il contrasto giurisprudenziale in atto
10. La Sezione rimettente evidenzia come sulla questione si sia formato un contrasto giurisprudenziale che può essere così sintetizzato.
10.1. Un primo orientamento, che la stessa Sezione rimettente considera prevalente, ritiene che:
a) per l’accertamento del requisito, oggetto di dichiarazioni sostitutive degli offerenti, debba aversi riguardo al DURC richiesto dalla stazione appaltante in sede di controlli, con riferimento, appunto, all’esatta data della domanda di partecipazione, con conseguente insufficienza, ai fini della prova, di eventuali DURC in possesso degli offerenti ed ancora in corso di validità (sul punto Cons. Stato, sez. IV, 12.03.2009, n. 1458; sez. V, 10.08.2010, n. 5556; sez. IV, 15.09.2010, n. 6907; sez. V, 12.10.2011, n. 5531);
b) l’invito alla regolarizzazione (c.d. preavviso di DURC negativo) non si applica in caso di DURC richiesto dalla stazione appaltante, atteso che, l’obbligo dell’INPS di attivare la procedura di regolarizzazione prevista dall’art. 7, comma 3, del D.M. 24.10.2007 si scontra con i principi in tema dì procedure di evidenza pubblica che non ammettono regolarizzazioni postume (o, detto diversamente, l’eventuale regolarizzazione postuma non sarebbe comunque idonea ad elidere il dato dell’irregolarità alla data di presentazione dell’offerta).
In tal senso, fra le altre, si sono pronunciate: Cons. Stato, Ad. Plen. 04.05.2012, n. 8; indirettamente anche Adunanza Plenaria, 20.08.2013, n. 20; Cons. Stato, Cons. Stato, IV, 12.03.2009 n. 1458; Cons. stato VI, 11.08.2009, n. 4928; 06.04.2010, n. 1934; 05.07.2010, n. 4243; sez. V, 16.09.2011, n.5194).
10.2. Un secondo, più recente, ma ancora minoritario orientamento, afferma, invece, che l’obbligo degli Istituti previdenziali di invitare l’interessato alla regolarizzazione sussiste anche ove la richiesta sia fatta in sede di verifica dalla stazione appaltante (Cfr. Cons. Stato, Sez. V, 14.10.2014, n. 5064); Cons. Stato, sez. VI 16.02.2015 n. 78).
A sostegno di tale conclusione si valorizza la “novità” rappresentata dall’art. 31, comma 8, del decreto legge n. 69 del 2013, che secondo la tesi in esame avrebbe implicitamente ma sostanzialmente modificato, l’art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006, con la conseguenza che l’irregolarità contributiva potrebbe considerarsi definitivamente accertata solo alla scadenza del termine di quindici giorni assegnato dall’ente previdenziale per la regolarizzazione della posizione contributiva.
IV) La soluzione proposta dall’ordinanza di rimessione
11. Così delineato il contrasto giurisprudenziale, la Sezione rimettente mostra di condividere la tesi secondo cui l’obbligo del preavviso di regolarizzazione, previsto sin dal 2007 in via regolamentare (art. 7 del D.M. 24.10.2007) e dal 2013 in forza di disposizione i legge (art. 31, comma 8, del d.l. n. 69 del 2013), debba intendersi sussistente anche per il caso di richiesta proveniente dalla stazione appaltante.
Ciò poiché –si legge nell’ordinanza di rimessione– «in mancanza di avviso non solo si pone nel nulla il sistema della certificazione di regolarità conseguita dal privata ed in corso di validità, in violazione del d.m. 24.10.2007, che non distingue in punto di efficacia degli atti di certazione a seconda della natura pubblica o privata del richiedente, ma si violazione il principio di affidamento dei privati, costituzionalmente e comunitariamente fondato, riconoscendo carattere di definitività ad una violazione previdenziale che non risulta dal “durc” privato, né è mai stata previamente comunicata a ricorrente».
La Sezione rimettente evidenzia come tale soluzione interpretativa sia stata recepita dall’art. 4 D.M. 30.01.2015 e, soprattutto, da una successiva circolare interpretativa del Ministero del Lavoro (n. 19/2015) nella quale si afferma espressamente che «le Amministrazioni aggiudicatrici procederanno, pertanto, a decorrere dal 01.07.2015, alla verifica delle dichiarazioni sostitutive con le stesse modalità di cui all’art. 6 del D.M. restando precluso, pertanto, dalla medesima data, come precisato nella circolare ministeriale, la possibilità per le Amministrazioni in fase d richiesta di specificare la data nella quale ciascuna dichiarazione è stata resa. Ciò stante l’obbligo generale di invito alla regolarizzazione, previsto dall’art. 4 del DM, anche ai fini di qualificare come definitivamente accertate le violazioni gravi alle norme in materia di contributi previdenziali ai sensi dell’art. 38, comma 1, lettera i), del d.lgs. n. 163/2006».
Proprio alla luce di tale circolare, non vi sarebbe dubbio, quindi, secondo la Sezione rimettente, che dal 1° luglio (data di entrata in vigore del D.M. 30.01.2015), in ragione delle nuove previsioni normative e delle modalità applicative, il concetto di definitivo accertamento (proprio dell’ordinamento previdenziale) sia subordinato all’invito a regolarizzare anche se l’interrogazione sia compiuto dalla stazione appaltante in funzione di verifica della dichiarazione resa ai sensi dell’art. 38 d.lgs. n. 163 del 2006.
Il dubbio esegetico, quindi, secondo l’impostazione accolta dall’ordinanza di rimessione, sarebbe circoscritto al periodo antecedente all’entrata in vigore del D.M. 30.01.2015 2015 e dovrebbe, comunque, risolversi ritenendo applicabile il preavviso di DURC negativo anche nell’ambito delle procedure di gara.
V) La questione pregiudiziale dei limiti della cognizione del giudice amministrativo a fronte di un provvedimento di esclusione fondato su un DURC negativo non impugnato
12. In via pregiudiziale, prima di affrontare nel merito la questione rimessa dalla Quarta Sezione, deve essere esaminata l’eccezione di inammissibilità del ricorso di primo grado riproposto da Ca. con apposito motivo di appello.
Ca. ha dedotto l’inammissibilità del ricorso di primo grado in ragione della mancata impugnazione del DURC negativo da parte del Consorzio GOP.
Il Tribunale amministrativo regionale in primo grado ha disatteso l’eccezione affermando che il DURC «è un’attestazione concernente il rapporto obbligatorio previdenziale, che non costituisce espressione di poteri autoritativi pubblicistici e che non ha, quindi, valenza provvedimentale, con conseguente insussistenza della giurisdizione rispetto ad esso del giudice amministrativo».
13. L’eccezione di inammissibilità del ricorso di primo grado è infondata.
14. Va precisato che la questione dei limiti entro i quali sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo sulla legittimità del DURC è, a sua volta, oggetto di un contrasto giurisprudenziale, tanto che recentemente la Quinta Sezione del Consiglio di Stato ne ha rimesso la risoluzione all’Adunanza Plenaria (cfr. ordinanza 21.10.2015, n. 4799), insieme, peraltro, a questioni di diritto sostanziale (sulla corretta interpretazione dell’art. 31, comma 8, decreto legge n. 69 del 2013), in gran parte corrispondenti a quelle oggetto del presente giudizio.
Ai fini del presente giudizio, nel cui ambito la citata questione processuale non è oggetto di rimessione ma viene in rilievo al solo fine di decidere sulla pregiudiziale eccezione di inammissibilità del ricorso di primo grado, è sufficiente richiamare quanto affermato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (cfr. Corte di Cassazione, Sezioni Unite, 11.12.2007, n. 25818 e 09.02.2011, n. 3169), secondo cui la produzione della certificazione attestante la regolarità contributiva dell'impresa partecipante alla gara di appalto costituisce uno dei requisiti posti dalla normativa di settore ai fini dell'ammissione alla gara, sicché il giudice amministrativo ben può verificare la regolarità di tale certificazione, sia pure incidenter tantum, cioè con accertamento privo di efficacia di giudicato nel rapporto previdenziale, ai sensi dell'art. 8 del Cod. proc. amm..
Deve rilevarsi, invero, che il sindacato del giudice amministrativo ha come oggetto principale la questione relativa alla legittimità dell’atto amministrativo adottato dalla stazione appaltante sulla base delle risultante del DURC negativo; rispetto a tale questione, il sindacato sulla regolarità della posizione contributiva quale attestata dal DURC viene effettuato in via meramente incidentale e senza efficacia di giudicato, al solo fine di statuire sulla questione principale, in conformità allo schema decisorio delineato dall’art. 8 Cod. proc. amm..
In tal modo si riesce ad assicurare l’effettività della tutela (che esclude che ci possano essere profili dell’azione amministrativi sottratti al sindacato giurisdizionale), senza invadere i confini della giurisdizione ordinaria, quali delineati dagli artt. 442, comma 1, e 444, comma 3, del Cod. proc. civ. che devolvono alla giurisdizione civile le controversie relative agli obblighi dei datori di lavoro e all'applicazione delle sanzioni civili per l'inadempimento di tali obblighi.
Diverso è, in definitiva, lo scrutinio compiuto dal giudice ordinario sui diritti previdenziali del lavoratore che si assumono violati, rispetto al sindacato effettuato dal giudice amministrativo sul loro corretto adempimento, attestato dal certificato di regolarità contributiva che le imprese affidatarie di un appalto pubblico devono presentare alla stazione appaltante, a pena di esclusione.
Nell'accertare il mancato versamento di contributi dovuti all'Ente di previdenza, il sindacato del giudice ha per oggetto la sussistenza del diritto del lavoratore dipendente alla contribuzione in relazione all'attività prestata ed al diritto al trattamento di quiescenza, mentre, nelle controversie relative a procedure di affidamento di lavori, servizi o forniture da parte di soggetti tenuti al rispetto dei procedimenti di evidenza pubblica, oggetto di indagine del giudice è la mera regolarità della certificazione prodotta, attestante la regolarità contributiva dell'impresa partecipante alla gara di appalto, che rappresenta un requisito di partecipazione.
In quest’ottica, il giudice amministrativo può conoscere, senza travalicare i limiti della propria giurisdizione, la questione relativa alla sussistenza del requisito della regolarità contributiva, senza che occorra l’espressa impugnazione del DURC, oggetto solo di un sindacato incidenter tantum ai sensi dell’art. 8 Cod. proc. amm..
15. Il ricorso deve, dunque, essere esaminato nel merito.
VI) La decisione dell’Adunanza Plenaria sulla questione di merito oggetto di rimessione
16. La questione sottoposta dall’ordinanza di rimessione deve essere risolta dando continuità, anche dopo l’entrata in vigore dell’art. 31, comma 8, del decreto legge n. 69 del 2013, all’indirizzo interpretativo secondo cui non sono consentite regolarizzazioni postume della posizione previdenziale, dovendo l’impresa deve essere in regola con l’assolvimento degli obblighi previdenziali ed assistenziali fin dalla presentazione dell’offerta e conservare tale stato per tutta la durata della procedura di aggiudicazione e del rapporto con la stazione appaltante, restando, dunque, irrilevante, un eventuale adempimento tardivo dell’obbligazione contributiva.
Tale principio, già chiaramente espresso dall’Adunanza Plenaria nella sentenza 04.05.2012, n. 8, non risulta superato dalla norma, più volta richiamata dall’ordinanza di rimessione, introdotta con l’articola 31, comma 8, del decreto legge n. 69 del 2013.
La disposizione in esame testualmente prevede, sotto la rubrica «Semplificazioni in materia di DURC»: «Ai fini della verifica per il rilascio del documento unico di regolarità contributiva (DURC), in caso di mancanza dei requisiti per il rilascio di tale documento gli Enti preposti al rilascio, prima dell’emissione del DURC o dell’annullamento del documento già rilasciato, invitano l’interessato, mediante posta elettronica certificata o con lo stesso mezzo per il tramite del consulente del lavoro ovvero degli altri soggetti di cui all’articolo 1 della legge 11.01.1979, n. 12, a regolarizzare la propria posizione entro un termine non superiore a quindici giorni, indicando analiticamente le cause della irregolarità»
Tale disposizione, contrariamente a quanto sostenuto nell’ordinanza di rimessione, non può interpretarsi nel senso di subordinare il carattere definitivo della violazione previdenziale (che ai sensi dell’art. 38 d.lgs. n. 163 del 2006 rappresenta un elemento ostativo alla partecipazione alle gare d’appalto) alla condizione che l’impresa che versi in stato di irregolarità contributiva al momento della presentazione dell’offerta venga previamente invitata a regolarizzare la propria posizione previdenziale e che, nonostante tale invito, perseveri nell’inadempimento dei propri obblighi contributivi.
L’Adunanza Plenaria ritiene, al contrario, che l’art. 31, comma 8, del decreto legge n. 69 del 2013 non abbia in alcun modo modificato la disciplina dettata dall’art. 38 d.lgs. n. 163 del 2006 e che, pertanto, la regola del previo invito alla regolarizzazione non trovi applicazione nel caso di DURC richiesto dalla stazione appaltante ai fini della verifica delle dichiarazioni rese dall’impresa ai fini della partecipazione alla gara.
L’istituto dell’invito alla regolarizzazione (il c.d. preavviso di DURC negativo) può, dunque, operare solo nei rapporti tra impresa ed Ente previdenziale, ossia con riferimento al DURC chiesto dall’impresa e non anche al DURC richiesto dalla stazione appaltante per la verifica della veridicità dell’autodichiarazione.
17. Depongono a favore di tale conclusione, una pluralità di argomenti di carattere letterale, storico e sistematico.
VI) Gli argomenti fondati sul dato letterale
18. Da un punto di vista letterale, risulta significativo il confronto tra la formulazione del comma 8 dell’articolo 31 e quella dei commi che lo precedono (in particolare quelli che vanno dal comma 2 al comma 7).
Nel comma 8 (quello oggetto della questione interpretativa rimessa all’esame dell’Adunanza Plenaria) manca qualsiasi riferimento alla disciplina dell’evidenza pubblica o dei contratti pubblici e questa mancanza è tanto più significativa se si considera che, invece, nei commi precedenti (in tutti quelli che vanno dal comma 2 al comma 7) vi è un rifermento esplicito a tale disciplina, riferimento enfatizzato anche dalla relativa collocazione, sempre all’inizio della disposizione.
Più nel dettaglio:
- i commi 3, 4, 6 e 7 si aprono tutti con la stessa locuzione: «Nei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture […]»;
- il comma 2 si apre con la formula: «Al codice di cui al decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, sono apportate le seguenti modificazioni: […]»;
- il comma 7 si apre, a sua volta, con uno specifico rifermento proprio al «documento unico di regolarità contributiva (DURC) rilasciato per i contratti pubblici di lavori, servizi e forniture».
Già il dato letterale, rafforzato dal confronto tra i vari commi che compongono l’articolo in esame, supporta, quindi, la conclusione che laddove il legislatore del 2013 ha inteso occuparsi dei contratti pubblici, apportando modifiche alla relativa disciplina, lo ha detto espressamente, attraverso un richiamo esplicito.
19. L’argomento letterale è rafforzato dalla considerazione che ai sensi dell’art. 255 d.lgs. 163 del 2006 «[o]gni intervento normativo incidente sul codice, o sulle materie dallo stesso disciplinate, va attuato mediante esplicita modifica, integrazione, deroga o sospensione delle specifiche disposizioni in esso contenute» (c.d. clausola di abrogazione esplicita).
Conformemente a tale previsione normativa, che impone l’abrogazione o la modifica esplicita delle norme del codice dei contratti pubblici (o delle norme che incidono sulle materie dallo stesso regolate), l’art. 31, comma 2, come si è già accennato, contiene l’elenco esplicito delle disposizioni del decreto legislativo n. 163 del 2006 che sono state modificate.
In questo elenco non è menzionato l’art. 38, comma 1, lettera i), ovvero la disposizione che prevede come causa ostativa della partecipazione l’aver commesso «violazioni gravi e definitivamente accertate, alle norme in materia di contributi previdenziali e assistenziali».
Non è allora sostenibile che una modifica così rilevante come quella che l’ordinanza di rimessione vorrebbe trarre dal decreto legge n. 69 del 2013 (ossia, la modifica della nozione di “definitivo accertamento” quale fatta propria dal c.d. diritto vivente di cui è certamente espressione la sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 8 del 2012) possa discendere, in violazione della clausola dell’abrogazione esplicita, da una disposizione che non solo non lo dispone espressamente, ma che non contiene nemmeno alcun esplicito riferimento alla materia dei contratti pubblici ed è per di più inserita in un articolo che in un diverso comma (il comma 5) elenca in maniera analitica e puntuale le modifiche apportate alla disciplina dei contratti pubblici.
20. Sempre sotto il profilo letterale, giova evidenziare che il comma 8 dell’art. 31, nel prevedere l’onere del previo invito alla regolarizzazione fa testualmente riferimento all’attività di «verifica per il rilascio del documento unico di regolarità contributiva (DURC)» richiesto dal datore di lavoro. Ben diversa è l’attività che l’Ente previdenziale compie non per rilasciare il DURC su richiesta dell’impresa, ma per verificare, su richiesta della stazione appaltante, la veridicità della dichiarazione sostitutiva relativa al requisito di cui all’articolo 38, comma 1, lettera i), del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163.
La netta distinzione tra le due fattispecie di DURC –quello rilasciato su richiesta di parte e quello acquisito d’ufficio dalla stazione appaltante nell’ambito delle procedure di gara (o della successiva fase di esecuzione del contratto)– trova ancora conferma nel testo dell’articolo 33 del decreto legge n. 69 del 2103.
Nell’ambito di tale articolo, il DURC relativo all’aggiudicazione e all’esecuzione dei contratti pubblici è fatto oggetto di specifica disciplina nei commi 3, 4 e 5, 6 e 7. In questi commi, il legislatore non prevede mai, neanche implicitamente o indirettamente, la possibilità di regolarizzazione postuma dell’eventuale inadempienza contributiva che dovesse essere riscontrata in capo all’impresa che ha partecipato alla gara o che sta eseguendo il contratto.
Solo il comma 8, che si riferisce però al DURC rilasciato su richiesta di parte, prevede il previo invito alla regolarizzazione.
La conclusione che si trae, anche alla luce del fondamentale canone interpretativo ubi lex voluit dixit, ubi nolit tacuit, è univoca: l’invito alla regolarizzazione è un istituto estraneo alla disciplina dell’aggiudicazione e dell’esecuzione dei contratti pubblici.
Tale risultato interpretativo è ulteriormente confermato dalla considerazione che l’art. 38, comma 2, del decreto legislativo n. 163 del 2006 rinvia alle norme dell’ordinamento previdenziale solo per stabilire quando l’irregolarità contributiva deve considerarsi “grave” (prevedendo letteralmente che, «ai fini del comma 1, lettera i), si intendono gravi le violazioni ostative al rilascio del documento unico di regolarità contributiva»).
Analogo rinvio non è presente, invece, per quanto riguarda l’altra caratteristica che la violazione contributiva deve avere affinché rilevi come causa ostativa alla partecipazione alle gare d’appalto (essere appunto “definitivamente accertata”). Da qui la conclusione che la nozione di “definitivo accertamento” che viene in rilievo nell’ambito del Codice dei contratti pubblici debba essere ricostruita in maniera autonoma rispetto alla disciplina dell’ordinamento previdenziale, e prescinda, pertanto, dalla necessità della previa attivazione di meccanismi di regolarizzazione postuma, come quelli di cui si discute nel presente giudizio.
VII) Gli argomenti di sistema
21. Anche da un punto di vista sistematico, non può non considerarsi che il c.d. invito alla regolarizzazione costituisce una sorte di preavviso di rigetto (si parla non a caso di preavviso di DURC negativo).
Esso evoca, pertanto, un istituto (la comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza) previsto in via generale dall’art. 10-bis legge 07.08.1990, n. 241.
Si tratta di un istituto che, come è noto, è stato previsto, nell’ambito della disciplina del procedimento amministrativo, solo con riferimento ai procedimenti ad istanza di parte, risultando incompatibile con i procedimenti d’ufficio, dove, in effetti, non vi è un’istanza di parte e, quindi, non vi è un onere di preventiva comunicazione dei motivi ostativi al suo accoglimento.
Merita considerazione anche il rilievo che lo stesso art. 10-bis della legge n. 241 del 1990, introduce due deroghe espresse alla regola del c.d. preavviso di rigetto. Le deroghe si riferiscono: 1) alle procedure concorsuali; 2) ai procedimenti in materia previdenziale e assistenziale sorti a seguito di istanza di parte e gestiti dagli enti previdenziali.
Entrambe le deroghe offrono elementi d’interesse ai fini della risoluzione della questione oggetto del presente giudizio.
La deroga alle procedure concorsuali (a prescindere dalla difficoltà di considerare, a rigore, la procedura concorsuale un procedimento ad istanza di parte) si riferisce a tutte le procedure caratterizzate dal principio della concorsualità e, quindi, anche alle procedure di evidenza pubblica per l’aggiudicazione di contratti pubblici.
La deroga relativa ai procedimenti previdenziali fa specifico riferimento a quelli sorti a seguito ad istanza di parte. Se il procedimento previdenziale inizia d’ufficio (come è nel caso di cui ci si occupa nel presente giudizio) l’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990 non ha nemmeno previsto la deroga, sul presupposto che tali procedimenti sono, per la loro stessa natura, estranei all’ambito di applicazione del c.d. preavviso di rigetto.
Rispetto alle previsioni dell’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990, l’art. 31, comma 8, del decreto legge n. 69 del 2013, introduce un elemento di novità: una sorta di “deroga alla deroga” per effetto della quale un meccanismo analogo al preavviso di rigetto è ora previsto per un particolare procedimento previdenziale: quello ad istanza di parte per il rilascio del DURC.
Al di fuori di questa specifica ipotesi, tuttavia, torna ad operare la disciplina generale, che appunto esclude il preavviso di rigetto nell’ambito sia delle procedure concorsuali sia dei procedimenti previdenziali che iniziano d’ufficio.
22. Sempre da un punto di vista sistematico, l’esclusione del c.d. preavviso di DURC negativo nell’ambito del procedimento d’ufficio per la verifica della veridicità delle dichiarazioni sostitutive rese in sede ai fini della partecipazione alla gara, si pone in linea con alcuni principi fondamentali che governano appunto le procedure di gara: i principi di parità di trattamento e di autoresponsabilità e il principio di continuità nel possesso dei requisiti di partecipazione alla gara.
22.1. Per quanto riguarda il principio della parità di trattamento e dell’autoresponsabilità (per i quali si rinvia alla fondamentale sentenza di questa Adunanza Plenaria 25.02.2014, n. 9), è fin troppo evidente che l’applicazione della “regolarizzazione postuma” finirebbe per consentire ad una impresa di partecipare alla gara senza preoccuparsi dell’esistenza a proprio carico di una irregolarità contributiva, potendo essa confidare sulla possibilità di sanare il proprio inadempimento in caso di aggiudicazione (e, dunque, a seconda della convenienza).
Si arriverebbe, in tal modo, a consentire all’offerente –che pur a conoscenza di una irregolarità contributiva abbia reso una dichiarazione volta ad attestare falsamente il contrario– di beneficiare di una facoltà di regolarizzazione postuma della sua posizione, andando così a sanare, non una mera irregolarità formale, ma la mancanza di un requisito sostanziale, mancanza aggravata dall’aver reso una dichiarazione oggettivamente falsa in ordine al possesso del requisito.
Una simile generalizzata possibilità di sanatoria –della dichiarazione falsa e della mancanza del requisito sostanziale– darebbe vita ad una palese violazione del principio della parità di trattamento e dell’autoresponsabilità dei concorrenti, in forza del quale ciascuno di essi sopporta le conseguenze di errori, omissione e, a fortiori, delle falsità, commesse nella formulazione dell’offerta e nella presentazione delle dichiarazioni (cfr. ancora Ad. Plen. 25.02.2014, n. 9).
Va richiamato a tale proposto anche quanto autorevolmente e condivisibilmente affermato dall’Autorità nazionale anticorruzione (ANAC) nella Determinazione n. 1 dell’08.01.2015 (Criteri interpretativi in ordine alle disposizioni dell’art. 38, comma 2-bis e dell’art. 46, comma 1-ter del D.Lgs. 12.04.2006, n. 163).
In quella sede l’ANAC, proprio delimitando il campo di applicazione dell’istituto del soccorso istruttorio in materia di appalti pubblici [in seguito alla modifiche apportate al Codice dei contratti pubblici dal decreto-legge 24.06.2014, n. 90 (Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari), convertito, con modificazioni in legge 11.08.2014, n. 114] ha giustamente precisato che il nuovo istituto del soccorso istruttorio «non può, in ogni caso, essere strumentalmente utilizzato per l’acquisizione, in gara, di un requisito o di una condizione di partecipazione, mancante alla scadenza del termine di presentazione dell’offerta. Resta fermo, in sostanza, il principio per cui i requisiti di partecipazione devono essere posseduti dal concorrente - che deve essere, altresì, in regola con tutte le altre condizioni di partecipazioni - alla scadenza del termine fissato nel bando per la presentazione dell’offerta o della domanda di partecipazione, senza possibilità di acquisirli successivamente».
E con particolare riferimento alle dichiarazioni false, la citata determinazione precisa che «La novella in esame, infatti, non incide sulla disciplina delle false dichiarazioni in gara, che resta confermata. Pertanto ai sensi dell’art. 38, comma 1-ter, del Codice, ove la stazione appaltante accerti che il concorrente abbia presentato una falsa dichiarazione o una falsa documentazione, si dà luogo al procedimento definito nel citato comma 1-ter dell’art. 38 ed alla comunicazione del caso all’Autorità per l’applicazione delle sanzioni interdittive e pecuniarie fissate nella disciplina di riferimento (art. 38, comma 1-ter e art. 6, comma 11, del Codice)».
L’Adunanza Plenaria condivide e fa proprie tali conclusioni, dovendosi ribadire anche in questa sede l’inammissibilità di qualsiasi forma di regolarizzazione postuma della carenza del requisito sostanziale o della falsa dichiarazione.
22.2. Deve, inoltre, richiamarsi il principio di continuità nel possesso dei requisiti (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen. 20.07.2014, n. 8), che non possono essere persi dal concorrente neanche temporaneamente nel corso della procedura. A voler seguire, invece, il principio della regolarizzazione postuma dovrebbe allora sostanzialmente consentirsi al soggetto che abbia perso e poi riacquisito il requisito di conseguire l’aggiudicazione, in netto contrasto con quanto chiaramente affermato da questa Adunanza Plenaria nella sentenza n. 8 del 2015.
VIII) Gli argomenti legati all’evoluzione storico-normativa e alla relativa interpretazione giurisprudenziale
23. L’asserita portata innovativa che si vorrebbe riconoscere all’art. 31, comma 8, del decreto legge n. 69 del 2013 risulta sensibilmente ridimensionata anche da considerazioni legate all’osservazione dell’evoluzione storico-normativa e della relativa interpretazione giurisprudenziale.
Deve osservarsi, invero, che una regola di portata analoga a quella ora recepita a livello legislativo dall’art. 31, comma 8, del decreto legge n. 69 del 2013, già esisteva nell’ordinamento, sia pure posta da una fonte regolamentare.
Si fa riferimento all’art. 7, comma 3, del D.M. 24.10.2007 (peraltro applicabile ratione temporis alla procedura di gara oggetto del presente giudizio) il quale, appunto prevedeva: «In mancanza dei requisiti di cui all’art. 5 gli Istituti, le Casse edili e gli Enti bilaterali, prima dell’emissione del DURC o dell’annullamento del documento già rilasciato ai sensi dell’art. 3, invitano l’interessato a regolarizzare la propria posizione entro un termine non superiore a quindici giorni.».
Nell’interpretazione di questa norma non si è mai dubitato che la regola del previo invito alla regolarizzazione non trovasse applicazione nel caso di richiesta della certificazione preordinata alle verifiche effettuate dalla stazione appaltante ai fini della partecipazione alle gare d’appalto.
Vanno riportare sotto tale profilo i chiarissimi principi enunciati da questa Adunanza Plenaria nella già citata sentenza 20.05.2012, n. 8, in cui si legge: «
Quanto alla questione del momento in cui deve sussistere la regolarità contributiva e della possibile sanatoria dell’irregolarità in corso di gara, la giurisprudenza di questo Consesso ha affermato che l’assenza del requisito della regolarità contributiva, costituendo condizione di partecipazione alla gara, se non posseduto alla data di scadenza del termine di presentazione dell’offerta, non può che comportare la esclusione del concorrente non adempiente, non potendo valere la regolarizzazione postuma.
L’impresa infatti deve essere in regola con i relativi obblighi fin dalla presentazione della domanda e conservare tale regolarità per tutto lo svolgimento della procedura. Costituisce principio pacifico che poiché il momento in cui va verificata la sussistenza del requisito della regolarità contributiva e previdenziale è quello di presentazione della domanda di partecipazione alla gara, la eventuale regolarizzazione successiva, se vale a eliminare il contenzioso tra l’impresa e l’ente previdenziale non può comportare ex post il venir meno della causa di esclusione
[Cons. St., sez. IV, 12.04.2011, n. 2284; Id., sez. V, 23.10.2007, n. 5575]
Deve escludersi la rilevanza di un eventuale adempimento tardivo dell’obbligazione contributiva, quand’anche ricondotto retroattivamente, quanto ad efficacia, al momento della scadenza del termine di pagamento [Cons. St., sez. IV, n. 1458/2009].
S
i tratta, del resto, di un corollario del più generale principio (già affermato nella giurisprudenza della Corte di giustizia UE con la pronuncia del 09.02.1996, in cause riunite C-226/04 e C-228/04) secondo cui la sussistenza del requisito della regolarità fiscale e contributiva (che, pure, può essere regolarizzato in base a disposizioni nazionali di concordato, condono o sanatoria) deve comunque essere riguardata con riferimento insuperabile al momento ultimo per la presentazione delle offerte, a nulla rilevando una regolarizzazione successiva la quale, pertanto, non potrà in alcun modo incidere sul dato dell’irregolarità ai fini della singola gara [Cons. St., sez. VI, 05.07.2010, n. 4243].
La mancanza del requisito della regolarità contributiva alla data di scadenza del termine previsto dal bando per la presentazione delle offerte, in definitiva, non é sanato dall’eventuale adempimento tardivo dell’obbligazione contributiva, atteso che tale tardivo adempimento può rilevare nelle reciproche relazioni di credito e di debito fra i soggetti del rapporto obbligatorio e non anche nei confronti dell’Amministrazione aggiudicatrice che debba accertare la sussistenza del requisito della regolarità contributiva ai fini dell’ammissione alla gara [Cons. St., sez. VI, 12.01.2011, n. 104]
.».
L’art. 31, comma 8, del decreto legge n. 69 del 2013 ha determinato una sorta di “novazione” della fonte della previsione normativa già contenuta nel decreto ministeriale del 24.10.2007, conferendole rango legislativo. Ma non vi sono nella disposizione che ora ha rango legislativo elementi di novità che consentano di superare l’interpretazione “storica” della precedente norma regolamentare.
24. Nessun argomento in senso contrario può trarsi, diversamente da quanto ipotizzato nell’ordinanza di rimessione, dal decreto ministeriale 30.01.2015 (comunque inapplicabile ratione temporis perché entrato in vigore il 01.07.2015) e dalla successiva circolare interpretativa del Ministero del Lavoro – Direzione generale per l’attività ispettiva dell’08.06.2015, n. 19.
Appurato, infatti, che a livello di normativa primaria, la disciplina dell’affidamento degli appalti pubblici non consente la regolarizzazione postuma della irregolarità contributiva, deve certamente escludersi che tale forma di regolarizzazione possa essere stata introdotta da una fonte di rango regolamentare, quale è il decreto ministeriale 30.01.2015.
È fin troppo evidente che il generale principio di gerarchia delle fonti normative non permette ad una norma regolamentare di introdurre una forma di regolarizzazione incompatibile con la disciplina di rango legislativo.
Una simile interpretazione (dando luogo ad una inammissibile inversione della gerarchia delle fonti) deve, pertanto, essere disattesa.
IX) La presunta incompatibilità comunitaria
25. In senso contrario alla tesi qui accolta non possono essere invocati neanche presunti profili di incompatibilità con i principi dell’ordinamento comunitario.
25.1. Non viene, in rilievo, innanzitutto, il principio di tutela del legittimo affidamento, che trova le sue radici anche nell’ordinamento nazionale.
La tutela dell’affidamento incontra, infatti, il limite dell’autoresponsabilità e non può allora essere invocato dall’impresa che volontariamente o colpevolmente si trovi in una situazione di irregolarità contributiva. In base al già richiamato principio di auto responsabilità (in forza del quale ciascuno risponde degli errori commessi) non si può pretendere di superare l’inadempimento storicamente verificatosi in nome dell’apparenza ingenerata dal precedente rilascio di un documento unico di regolarità contributiva che va a “fotografare” una situazione di regolarità non più attuale a causa di errori imputabili alla stessa impresa.
L’affidamento sulle risultanze del precedente DURC in questo caso è colpevole perché la discrasia tra il DURC e la realtà dipende da omissioni od errori imputabili proprio all’impresa che tale affidamento invoca.
25.2. Non risulta pertinente neanche il richiamo alle motivazioni sulla cui base la Quarta Sezione del Consiglio di Stato, con ordinanza 11.03.2015, n. 1236 ha rimesso alla Corte di Giustizia dell’Unione europea una questione pregiudiziale circa la compatibilità tra l’articolo 45 della direttiva 18/2004 –interpretato alla luce del principio di ragionevolezza nonché degli articoli 49 e 56 del TFUE– e una normativa nazionale (quale quella italiana) che, nell’ambito di una procedura d’appalto sopra soglia, consente alle stazioni d’appaltanti di richiedere d’ufficio agli istituti previdenziali il documento unico di regolarità contributiva (DURC) ed obbliga le medesime stazioni appaltanti ad escludere dalla gara quegli operatori economici dalla cui certificazione si evince una violazione contributiva sussistente al momento della partecipazione –anche se da essi non conosciuta in quanto hanno partecipato in forza di un DURC positivo in corso di validità– e non più presente al momento dell’aggiudicazione o della verifica d’ufficio.
In primo luogo, le differenze che si colgono, sul piano fattuale, tra le relative fattispecie concrete (quella oggetto del presente giudizio e quella con riferimento alla quale è stata sollevata la questione pregiudiziale), già esclude la possibilità di “trasferire” automaticamente i medesimi dubbi di compatibilità comunitaria nell’ambito del presente giudizio.
In ogni caso è dirimente, ed esclude la necessità di una ulteriore rimessione alla Corte di Giustizia o di una sospensione c.d. impropria del presente giudizio in attesa della decisione sulla questione pregiudiziale rimessa dalla Quarta Sezione, la constatazione che la Corte di Giustizia ha già avuto modo di occuparsi della compatibilità comunitaria della disciplina legislativa nazionale che preclude rigidamente la partecipazione alle gare di appalto alle imprese che versino in una situazione grave e definitivamente accertata di irregolarità contributiva (e delle relative nozioni di “gravità” e “definitivo accertamento”).
Già nella sentenza 10.07.2014, C-358/12, Consorzio Stabile Libor Lavori Pubblici, la Corte di giustizia, occupandosi anche della presunta incompatibilità tra la causa di esclusione prevista l’art. 38, comma 1, lettera i) e l’art. 45, paragrafo 2, della direttiva n. 18/2014 ha statuito (paragrafi 32 e seguenti della motivazione) che:
- l’obiettivo perseguito dalla causa di esclusione dagli appalti pubblici definita dall’articolo 38, paragrafo 1, lettera i), del decreto legislativo n. 163/2006 consiste nell’accertarsi dell’affidabilità, della diligenza e della serietà dell’offerente nonché della correttezza del suo comportamento nei confronti dei suoi dipendenti;
- accertarsi che un offerente possieda tali qualità costituisce un obiettivo legittimo di interesse generale;
- una causa di esclusione come quella prevista dall’articolo 38, paragrafo 1, lettera i), del decreto legislativo n. 163/2006 è idonea a garantire il conseguimento dell’obiettivo perseguito, dato che il mancato versamento delle prestazioni previdenziali da parte di un operatore economico tende a indicare assenza di affidabilità, di diligenza e di serietà di quest’ultimo quanto all’adempimento dei suoi obblighi legali e sociali;
- per quanto riguarda la necessità di una tale misura, la definizione, da parte della normativa nazionale, di una soglia precisa di esclusione alla partecipazione agli appalti pubblici, vale a dire uno scostamento tra le somme dovute a titolo di prestazioni sociali e quelle versate è di un importo superiore, al contempo, a EUR 100 e al 5% delle somme dovute, garantisce non solo la parità di trattamento degli offerenti ma anche la certezza del diritto, principio il cui rispetto costituisce una condizione della proporzionalità di una misura restrittiva (v., in tal senso, sentenza Itelcar, C‑282/12, EU:C:2013:629, punto 44);
- per quanto riguarda il livello di tale soglia di esclusione, quale definito dalla normativa nazionale, occorre ricordare che, riguardo agli appalti pubblici che ricadono nella sfera di applicazione della direttiva 2004/18, l’articolo 45, paragrafo 2, di tale direttiva lascia l’applicazione dei casi di esclusione che menziona alla valutazione degli Stati membri, come risulta dall’espressione «può venire escluso dalla partecipazione ad un appalto», che figura all’inizio di detta disposizione, e rinvia esplicitamente, in particolare alle lettere e) e f), alle disposizioni legislative nazionali [v., per quanto riguarda l’articolo 29 della direttiva 92/50/CEE del Consiglio, del 18.06.1992 che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di servizi (GU L 209, pag. 1), sentenza La Cascina e a., C‑226/04 e C‑228/04, EU:C:2006:94, punto 21].
Inoltre, ai sensi del secondo comma di detto articolo 45, paragrafo 2, gli Stati membri precisano, conformemente al rispettivo diritto nazionale e nel rispetto del diritto dell’Unione, le condizioni di applicazione del paragrafo stesso;
- di conseguenza, l’articolo 45, paragrafo 2, della direttiva 2004/18 non prevede una uniformità di applicazione delle cause di esclusione ivi indicate a livello dell’Unione, in quanto gli Stati membri hanno la facoltà di non applicare affatto queste cause di esclusione o di inserirle nella normativa nazionale con un grado di rigore che potrebbe variare a seconda dei casi, in funzione di considerazioni di ordine giuridico, economico o sociale prevalenti a livello nazionale.
In tale ambito, gli Stati membri hanno il potere di attenuare o di rendere più flessibili i criteri stabiliti da tale disposizione (v., per quanto riguarda l’articolo 29 della direttiva 92/50, sentenza La Cascina e a., EU:C:2006:94, punto 23);
- l’articolo 45, paragrafo 2, lettera e), della direttiva 2004/18 consente agli Stati membri di escludere dalla partecipazione a un appalto pubblico ogni operatore economico che non sia in regola con gli obblighi relativi al pagamento dei contributi previdenziali e assistenziali, senza che sia previsto un qualsivoglia importo minimo di contributi arretrati. In tale contesto, il fatto di prevedere un siffatto importo minimo nel diritto nazionale costituisce un’attenuazione del criterio di esclusione previsto da tale disposizione e non può, pertanto, ritenersi che vada oltre il necessario.
- gli Stati membri sono liberi di integrare le cause di esclusione previste, in particolare, dall’articolo 45, paragrafo 2, lettere e) e f), di detta direttiva nella normativa nazionale con un grado di rigore che potrebbe variare a seconda dei casi, in funzione di considerazioni di ordine giuridico, economico o sociale prevalenti a livello nazionale.
Alla luce dell’insieme delle considerazioni che precedono, la Corte di giustizia ha, quindi, affermato dichiarato che
gli articoli 49 TFUE e 56 TFUE nonché il principio di proporzionalità vanno interpretati nel senso che non ostano a una normativa nazionale che, riguardo agli appalti pubblici di lavori il cui valore sia inferiore alla soglia definita all’articolo 7, lettera c), della direttiva 2004/18, obblighi l’amministrazione aggiudicatrice a escludere dalla procedura di aggiudicazione di un tale appalto un offerente responsabile di un’infrazione in materia di versamento di prestazioni previdenziali se lo scostamento tra le somme dovute e quelle versate è di un importo superiore, al contempo, a EUR 100 e al 5% delle somme dovute.
A ciò si deve aggiungere il principio generale affermato nella giurisprudenza della Corte di giustizia Ce con la pronuncia del 09.021996, in cause riunite C-226/04 e C-228/04, secondo cui: «la sussistenza del requisito della regolarità fiscale e contributiva (che, pure, può essere regolarizzato in base a disposizioni nazionali di concordato, condono o sanatoria) deve comunque essere riguardata con riferimento insuperabile al momento ultimo per la presentazione delle offerte, a nulla rilevando una regolarizzazione successiva la quale, pertanto, non potrà in alcun modo incidere sul dato dell’irregolarità ai fini della singola gara».
Nemmeno gli argomenti fondati sul diritto comunitario impongono, quindi, di dare spazio ad una generalizzata regolarizzazione postuma come quella prospettata dall’ordinanza di rimessione.
X) Il principio di diritto sulla questione interpretativa rimessa all’Adunanza Plenaria
26. Alla luce delle considerazioni che precedono, la questione interpretativa sottoposta dall’Adunanza Plenaria deve, pertanto, essere risolta enunciando il seguente principio di diritto: «
Anche dopo l’entrata in vigore dell’art. 31, comma 8, del decreto legge 21.06.2013 n. 69, (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia), convertito con modificazioni dalla legge 09.08.2013, n. 98, non sono consentite regolarizzazioni postume della posizione previdenziale, dovendo l’impresa deve essere in regola con l’assolvimento degli obblighi previdenziali ed assistenziali fin dalla presentazione dell’offerta e conservare tale stato per tutta la durata della procedura di aggiudicazione e del rapporto con la stazione appaltante, restando dunque irrilevante, un eventuale adempimento tardivo dell’obbligazione contributiva.
L’istituto dell’invito alla regolarizzazione (il c.d. preavviso di DURC negativo), già previsto dall’art. 7, comma 3, del decreto ministeriale 24.10.2007 e ora recepito a livello legislativo dall’art. 31, comma 8, del decreto legge 21.06.2013 n. 69 può operare solo nei rapporti tra impresa ed Ente previdenziale, ossia con riferimento al DURC chiesto dall’impresa e non anche al DURC richiesto dalla stazione appaltante per la verifica della veridicità dell’autodichiarazione resa ai sensi dell’art. 38, comma 1, lettera i), ai fini della partecipazione alla gara d’appalto
».
XI) L’applicazione del principio al caso di specie
27. L’applicazione dell’enunciato principio al caso oggetto del presente giudizio comporta l’accoglimento dell’appello proposto dalle società Ca. e Gr..
Nel caso di specie è pacifico, infatti, che la posizione MAS C. nel momento in chi ha reso la dichiarazione ai fini della partecipazione alla gara non era regolare (cfr. nota Inail del 09.12.2014 che conferma l’irregolarità contributiva dell’impresa MAS alla data del 27.08.2014).
Risulta accertato, quindi, che la concorrente in sede di gara ha attestato, contrariamente al vero, la regolarità della posizione contributiva e che solo successivamente alla conoscenza dell’aggiudicazione ha proceduto alla relativa regolarizzazione.
Nel caso di specie, peraltro, MAS C. era certamente consapevole della propria irregolarità contributiva, trattandosi di contributi dovuti in autoliquidazione, rispetto ai quali l’impresa ha prima chiesto la rateizzazione, senza poi corrispondere quanto dovuto.
La dichiarazione ex art. 38, comma 1, lettera i), del decreto legislativo n. 163 del 2006 è stata, quindi, resa nella piena consapevolezza della non corrispondenza al vero.
28. L’appello principale deve, quindi, essere accolto e, per l’effetto, in riforma della sentenza appellata deve essere respinto il ricorso proposto in primo grado contro la revoca dell’aggiudicazione (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 29.02.2016 n. 6 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Va ricordato che l’art. 38, comma 2, in combinato disposto con il comma 1, lett. c), del d.lgs. n. 163 del 2006, impone di dichiarare l’assenza di sentenze di condanna per una serie di reati la cui gravità ostativa, in taluni casi, deve essere apprezzata in concreto dalla S.A., in altri è presunta.
Ne consegue che i concorrenti non possono effettuare alcun filtro in ordine all’importanza od all’incidenza della condanna subita sulla moralità professionale, avendo l’obbligo di menzionare tutte le sentenze penali di condanna (ed i provvedimenti equiparati). Sono fatti salvi gli effetti dei provvedimenti formali, annotati nel casellario giudiziale, di estinzione del reato, depenalizzazione, revoca della condanna e riabilitazione, esclusivamente in relazione ai quali i concorrenti non devono rendere alcuna dichiarazione.
Ne consegue che l’omessa dichiarazione di condanna costituisce una dichiarazione non veritiera, e rappresenta di per sé causa di esclusione del concorrente, anche alla stregua di quanto disposto in via generale dall’art. 75 del d.P.R. n. 445 del 2000 (in tema di decadenza dai benefici in caso di non veridicità del contenuto della dichiarazione), a prescindere dall’incidenza della stessa sulla moralità professionale e dalle prescrizioni contenute nella lex specialis.
Ciò tanto più nel caso di specie ove il modello di “domanda di partecipazione e dichiarazione a corredo dell’offerta”, alla pagina 4, sottolineava, anche in nota, la necessità di dichiarate tutti i provvedimenti di condanna definitivi, specificando che, in difetto, si procederà all’esclusione dalla gara per -OMISSIS- dichiarazione ed alla successiva segnalazione all’ANAC, peraltro in coerenza con la lex specialis di gara.
Né può essere utilmente invocato l’art. 46, comma 1, del d.lgs. n. 163 del 2006, in quanto nelle gare pubbliche è da escludere ogni possibilità di soccorso istruttorio in caso di non veridicità della dichiarazione autocertificativa sui requisiti.
In ogni caso, il potere di soccorso istruttorio, anche nella sua forma di estensione massima del soccorso “integrativo”, quale prefigurato dalla pronuncia di Cons. Stato, Ad. Plen., 25.02.2014, n. 9, e dalla novella del 2014 al codice dei contratti pubblici, si applica al segmento di gara dell’ammissione delle offerte, e non anche a quello di verifica delle medesime.

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L’ambito di applicazione dell’istituto del soccorso istruttorio non è compatibile con la dichiarazione mendace, potendo essere invocato in caso di dichiarazione incompleta, irregolare, al limite estremo anche mancante, ma non già nell’ipotesi, totalmente diversa, di una dichiarazione esistente, ma, anche parzialmente, difforme dalla realtà.
In tale evenienza non ha dunque senso indugiare sulla nozione di “irregolarità essenziale”, inferibile dall’art. 38, comma 2-bis, in quanto la stessa si colloca nella prospettiva della procedimentalizzazione del potere di soccorso istruttorio, mentre, come si è precedentemente osservato, con la dichiarazione -OMISSIS- (a prescindere dal fatto che essa dipenda da dolo o colpa) si è al di fuori del campo della sanabilità delle mancanze, incompletezze od irregolarità. E ciò, lo si ripete, in quanto il soccorso istruttorio sovviene allorché l’Amministrazione ha la disponibilità di intervenire su dichiarazioni comunque fornite, ma non anche quando non c’è nulla ab initio, e quindi in presenza di dati non conosciuti perché omessi.
Occorre aggiungere come la circostanza che una -OMISSIS- non sposta la prospettiva ermeneutica, in quanto ciascuna delle omissioni dichiarative è autonomamente idonea a giustificare l’esclusione, e, dunque, la revoca dell’aggiudicazione.
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1. - Con i primi due motivi di ricorso, che possono essere trattati congiuntamente in quanto tra loro complementari, si deduce la violazione degli artt. 38 e 46 del codice dei contratti pubblici, contestandosi l’impugnata revoca dell’aggiudicazione, in quanto disposta a seguito di una mera irregolarità dichiarativa, consistente -OMISSIS-, la quale è stata invece posta a presupposto della esclusione dal procedimento di evidenza pubblica alla stregua di dichiarazione -OMISSIS-, in contrasto con il principio di tassatività delle cause di esclusione dalla gara, non essendo contemplata come tale neppure dalla lex specialis, mentre doveva al contrario essere esercitato, da parte della Stazione appaltante, il potere di soccorso istruttorio.
I motivi non appaiono meritevoli di positiva valutazione.
A livello sistematico, va ricordato che l’art. 38, comma 2, in combinato disposto con il comma 1, lett. c), del d.lgs. n. 163 del 2006, impone di dichiarare l’assenza di sentenze di condanna per una serie di reati la cui gravità ostativa, in taluni casi, deve essere apprezzata in concreto dalla S.A., in altri è presunta.
Ne consegue che i concorrenti non possono effettuare alcun filtro in ordine all’importanza od all’incidenza della condanna subita sulla moralità professionale, avendo l’obbligo di menzionare tutte le sentenze penali di condanna (ed i provvedimenti equiparati). Sono fatti salvi gli effetti dei provvedimenti formali, annotati nel casellario giudiziale, di estinzione del reato, depenalizzazione, revoca della condanna e riabilitazione, esclusivamente in relazione ai quali i concorrenti non devono rendere alcuna dichiarazione.
Ne consegue che l’omessa -OMISSIS- costituisce una dichiarazione non veritiera, e rappresenta di per sé causa di esclusione del concorrente, anche alla stregua di quanto disposto in via generale dall’art. 75 del d.P.R. n. 445 del 2000 (in tema di decadenza dai benefici in caso di non veridicità del contenuto della dichiarazione), a prescindere dall’incidenza della stessa sulla moralità professionale e dalle prescrizioni contenute nella lex specialis.
Ciò tanto più nel caso di specie ove il modello di “domanda di partecipazione e dichiarazione a corredo dell’offerta”, alla pagina 4, sottolineava, anche in nota, la necessità di dichiarate tutti i provvedimenti di condanna definitivi, specificando che, in difetto, si procederà all’esclusione dalla gara per -OMISSIS- dichiarazione ed alla successiva segnalazione all’ANAC, peraltro in coerenza con la lex specialis di gara.
Né può essere utilmente invocato l’art. 46, comma 1, del d.lgs. n. 163 del 2006, in quanto nelle gare pubbliche è da escludere ogni possibilità di soccorso istruttorio in caso di non veridicità della dichiarazione autocertificativa sui requisiti (Cons. Stato, Sez. IV, 20.01.2015, n. 140; indirettamente anche Cons. Stato, Sez. IV, 15.09.2015, n. 4315).
In ogni caso, il potere di soccorso istruttorio, anche nella sua forma di estensione massima del soccorso “integrativo”, quale prefigurato dalla pronuncia di Cons. Stato, Ad. Plen., 25.02.2014, n. 9, e dalla novella del 2014 al codice dei contratti pubblici, si applica al segmento di gara dell’ammissione delle offerte, e non anche a quello di verifica delle medesime.
2. - Le osservazioni da ultimo svolte inducono a disattendere anche il terzo mezzo con cui si deduce l’eccesso di potere, nelle figure sintomatiche del difetto di istruttoria, della contraddittorietà ed ingiustizia manifesta, assumendosi che, se l’art. 38-bis consente l’integrazione postuma della dichiarazione mancante, a fortiori deve consentire l’integrazione della dichiarazione parziale.
Ed invero l’ambito di applicazione dell’istituto del soccorso istruttorio non è compatibile con la dichiarazione mendace, potendo essere invocato in caso di dichiarazione incompleta, irregolare, al limite estremo anche mancante, ma non già nell’ipotesi, totalmente diversa, di una dichiarazione esistente, ma, anche parzialmente, difforme dalla realtà (in termini, da ultimo, TAR Toscana, Sez. I, 13.01.2016, n. 11).
In tale evenienza non ha dunque senso indugiare sulla nozione di “irregolarità essenziale”, inferibile dall’art. 38, comma 2-bis, in quanto la stessa si colloca nella prospettiva della procedimentalizzazione del potere di soccorso istruttorio, mentre, come si è precedentemente osservato, con la dichiarazione -OMISSIS- (a prescindere dal fatto che essa dipenda da dolo o colpa) si è al di fuori del campo della sanabilità delle mancanze, incompletezze od irregolarità. E ciò, lo si ripete, in quanto il soccorso istruttorio sovviene allorché l’Amministrazione ha la disponibilità di intervenire su dichiarazioni comunque fornite, ma non anche quando non c’è nulla ab initio, e quindi in presenza di dati non conosciuti perché omessi.
Occorre aggiungere come la circostanza che una -OMISSIS- non sposta la prospettiva ermeneutica, in quanto ciascuna delle omissioni dichiarative è autonomamente idonea a giustificare l’esclusione, e, dunque, la revoca dell’aggiudicazione (in termini Cons. Stato, Sez. V, 16.02.2015, n. 775).
3. - Per lo stesso ordine di ragioni deve essere disatteso il quarto mezzo, con cui si deduce l’illegittimità della segnalazione all’ANAC.
Ed invero, anche ad ammettere che sia ammissibile, sotto il profilo dell’interesse al ricorso, l’impugnativa della segnalazione, la quale non ha natura provvedimentale, ma di mera comunicazione a fini informativi (sì che la eventuale sanzione si correla solamente alle determinazioni dell’Autorità), deve ritenersi che l’omessa dichiarazione circa le -OMISSIS- comporta la segnalazione (in termini, ex multis, Cons. Stato, Sez. III, 08.09.2014, n. 4543; Cons. Stato, Ad. Plen., 04.05.2012, n. 8), trattandosi di un atto dovuto per la Stazione appaltante (Cons. Stato, Sez. VI, 03.02.2011, n. 782).
4. - In conclusione, alla stregua di quanto esposto, il ricorso deve essere respinto in ragione dell’infondatezza delle censure dedotte (TAR Umbria, sentenza 26.02.2016 n. 201 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICIÈ illegittima l’esclusione di una società che ha presentato un progetto con una variante che prevedeva l’allargamento della sezione stradale di 3,40 metri.
La sentenza ha motivato che tale variante era prevista dal disciplinare di gara che stabiliva che si dovesse garantire “il rispetto della legislazione in ogni suo aspetto tecnico”, e ciò avrebbe costituito un elemento positivo per l’attribuzione dei punteggi tecnici.

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1. L’appello della Do.Co. è fondato nella parte diretta a censurare l’accoglimento dell’impugnativa della Sp.Co..
2. Deve al riguardo premettersi che i presupposti di fatto rilevanti ai fini della censura accolta dal Tribunale amministrativo non sono contestati da alcuna delle parti ed in particolare non è in discussione che l’odierna appellante ha offerto di aumentare la sezione stradale da realizzare, portandola dalla misura di 18,60 a quella di 22 metri.
Deve ancora precisarsi che le due misure sono corrispondenti a quelle previste da altrettante normative tecniche sulle caratteristiche geometriche delle strade extraurbane succedutesi nel tempo: rispettivamente, quella più ridotta alle norme elaborate dal Consiglio nazionale delle ricerche nel 1980 ed alle quali il progetto preliminare opera un preciso richiamo attraverso l’espressione «tipo III C.N.R.» (così in particolare nella relazione illustrativa); quella più estesa invece alla misura minima prevista per tale tipologia di strade dal d.m. Infrastrutture e Trasporti del 05.11.2001 (Norme funzionali e geometriche per la costruzione delle strade) attualmente vigente, ad al quale l’odierna appellante ha inteso dichiaratamente adeguarsi.
3. Ciò premesso, il giudice di primo grado ha esattamente colto la natura della soluzione progettuale in questione. E’ infatti altrettanto incontestabile che l’allargamento della sezione stradale offerto dall’aggiudicataria consista in una variante rispetto al progetto preliminare elaborato dall’amministrazione. Tale è in primo luogo qualificata dallo stesso progettista della Do.Co. (in particolare: a pag. 3 della “relazione d’offerta”, tavola eg02), ed in ogni caso non può negarsi che una maggiore larghezza della sezione stradale (nel caso di specie di oltre un sesto) comporta una ontologica differenza tra l’idea progettuale elaborata dall’amministrazione e quella offerta dall’odierna appellante, con incidenza non trascurabile sulla complessiva superficie da asfaltare (come sottolineato dalla Sposato Costruzioni in memoria di replica).
4. Il punto decisivo è tuttavia stabilire se tale diversità corrisponda a una variante vietata. Al quesito deve essere data risposta negativa, trattandosi di diversità giustificata in base alla stessa lex specialis.
È certamente vero che –come rilevato dal Tribunale amministrativo– nella relazione illustrativa al progetto preliminare fosse richiesta una sezione stradale conforme alla normativa tecnica del 1980. Nel documento in esame specifica infatti che il tratto interessato dai lavori da affidare, «essendo ricompreso tra due tratti di strada classificati III C.N.R., dovrà avere, per problematiche di contiguità di tracciato e tipologia di traffico servito, una piattaforma stradale di tipo III C.N.R.», ponendosi quindi in evidenza che le situazioni di pericolo per la circolazione sono «molto spesso dovute anche alle situazioni di discontinuità della sezione stradale esistente».
5. Sennonché, il disciplinare di gara prevede che, oltre a rispettare le «caratteristiche minime inderogabili previste dal progetto preliminare», il progetto definitivo da presentare in sede di gara debba garantire anche «il rispetto della vigente legislazione in ogni suo aspetto tecnico» [art. 3, relativo all’offerta tecnica, punto a)]. Quindi, nel definire i criteri di valutazione dell’offerta tecnica il medesimo disciplinare precisa che ai fini dell’elemento consistente nelle «caratteristiche qualitative e funzionali dovute a varianti» sarebbero state valutate le soluzioni progettuali in grado di fare conseguire all’infrastruttura viaria «un miglioramento delle caratteristiche qualitative e funzionali (…)ivi comprese quelle che consentono l’elevazione degli standards di sicurezza per l’utenza»; e inoltre che pur venendo ammesse «eventuali proposte progettuali in variante» sarebbero state escluse quelle «comportanti sostanziali alterazioni plano-altimetriche e di tracciato» (punto a.1 del citato art. 3).
6. Dalla normativa di lex specialis ora esaminata si evince quindi che l’adeguamento alla normativa tecnica in vigore, tra cui il citato d.m. 05.11.2001, non solo era richiesto dalla stazione appaltante quale requisito di idoneità minima dei progetti da presentare in sede di gara, ma avrebbe addirittura costituito elemento di valorizzazione di questi ultimi ai fini dell’attribuzione dei punteggi tecnici.
7. Il Tribunale amministrativo ha nondimeno affermato che l’applicabilità delle norme tecniche sulle caratteristiche delle strade del 2001 sarebbe paralizzata dalle prescrizioni contenute nella relazione illustrativa al progetto preliminare della tangenziale. Il giudice di primo grado ha infatti ritenuto che in virtù di queste ultime ricorrano le deroghe previste dagli artt. 3 e 4 del citato decreto ministeriale, e cioè sussistano le «particolari condizioni locali, ambientali, paesaggistiche, archeologiche ed economiche che non ne consentano il pieno rispetto», ed inoltre che i lavori in questione consistono in «interventi riguardanti la rettifica di strade esistenti» per i quali il rispetto della normativa in questione determinerebbe «pericolose ed inopportune discontinuità».
8. Le conclusioni del giudice di primo grado non possono essere condivise.
Il completamento della tangenziale oggetto dell’appalto in contestazione non può innanzitutto essere ricondotto alla rettifica del tracciato di strade esistenti ai sensi del citato art. 4, consistendo in realtà nella realizzazione di un nuovo tronco stradale, per il quale l’art. 2 del medesimo decreto ministeriale impone il rispetto delle norme in esso contenute.
Inoltre, nessuna delle condizioni ostative previste dall’art. 3 è configurabile nel caso di specie. Questa norma -e quella primaria che ne costituisce il fondamento, contenuta nell’art. 13, comma 2, cod. strada- si riferisce a fattori che esulano dalle caratteristiche della strada ed attengono invece al contesto geografico nel quale questa è destinata ad essere localizzata o all’assenza di risorse finanziarie necessarie a sostenere i costi per la relativa realizzazione. In questi casi sono quindi ammesse «soluzioni progettuali diverse», purché «supportate da specifiche analisi di sicurezza», previa acquisizione del parere del Consiglio superiore dei lavori pubblici (per le strade extraurbane).
La disposizione regolamentare in esame muove dunque dal presupposto dell’applicabilità generalizzata della normativa tecnica del 2001, consentendo tuttavia una deroga per ragioni obiettivamente impeditive, a fronte delle quali è richiesta comunque una verifica sulla conformità delle soluzioni alternative adottate rispetto ai requisiti minimi di sicurezza previsti dalla medesima normativa. Si tratta dunque di un’ipotesi affatto diversa da quella verificatasi nella presente fattispecie contenziosa, in cui la scelta dei progettisti della Provincia è stata dettata dalle caratteristiche intrinseche della strada, nel presupposto che solo quelle corrispondenti ai tronconi già esistenti assicurano adeguate condizioni di sicurezza.
9. Come sopra rilevato questo presupposto è tuttavia contraddetto dalla normativa di gara ed è inoltre indimostrato, mentre è dall’altro lato pacifico che –come sottolinea l’appellante- le attuali norme tecniche sulle caratteristiche delle strade sono coerenti con l’aumento dimensionale degli autoveicoli registratosi negli anni successivi agli ’80, e sotto questo profilo offrono dunque maggiori garanzie di sicurezza rispetto alle norme risalenti a quegli anni.
Del resto, sul piano generale, se le caratteristiche preesistenti delle strade potessero di per sé costituire ragioni sufficienti per applicare normative tecniche ormai superate queste ultime beneficerebbero di un’ultrattività in grado di vanificare le acquisizioni del progresso nella materia dalle stesse disciplinata e trasfusa nelle norme successive. Ed è proprio in questa prospettiva che il d.m. del 2001 circoscrive entro limiti rigorosi le deroghe, sopra esaminate, alla previsione generale secondo cui le norme in esso contenute «si applicano per la costruzione di nuovi tronchi stradali e per l’adeguamento di tronchi stradali esistenti» (art. 2 citato).
Inoltre, depone nella medesima direzione anche la norma transitoria contenuta nell’art. 5 del decreto ministeriale in esame, secondo cui i progetti preliminari già approvati al momento dell’entrata in vigore del decreto devono essere adeguati alla normativa tecnica con esso introdotta, mediante le necessarie «varianti» in sede di progettazione definitiva.
10. Per concludere sul punto, non è condivisibile nemmeno l’assunto della Sposato Costruzioni, fatto proprio dal Tribunale amministrativo, secondo cui l’allargamento a 22 metri della sezione stradale proposto dalla Doronzo Infrastrutture al fine di rispettare i vigenti standard tecnici comporterebbe una modifica del progetto espressamente vietata dalle citate previsioni del disciplinare di gara, poiché comportante «sostanziali alterazioni plano-altimetriche e di tracciato».
Al riguardo va evidenziato che il solo parametro modificato tra quelli richiamati dalla norma di lex specialis in questione è quello planimetrico, ma in misura tale da non comportare di certo alcuna alterazione «sostanziale» del progetto predisposto dalla stazione appaltante. Questo aggettivo è infatti indicativo di un margine di elasticità riconosciuto ai concorrenti, coerentemente con la funzione tipica dell’appalto integrato, quale modalità di gara nel quale l’amministrazione acquisisce dalle imprese concorrenti soluzioni tecniche in grado di sviluppare in senso migliorativo quelle di massima da essa elaborate nel progetto preliminare posto a gara e le offerenti dispongono di significativi margini di scelta, con il solo limite di non stravolgere l’idea progettuale elaborate dalla stazione appaltante.
La conseguenza di quanto sopra è che la diversità in questione trovava piena giustificazione e plausibilità (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 25.02.2016 n. 779 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI: Questo Consiglio di Stato ha attenuato il rigore degli obblighi dichiarativi concernenti i requisiti di ordine generale (ex art. 38 d.lgs. n. 163 del 2006) affermando che la mancata indicazione nominativa dei soggetti appartenenti alla compagine societaria ai quali si riferiscono i requisiti di moralità personale genericamente attestati non può comportare l’esclusione dalla gara, quando i soggetti tenuti al rispetto di questi siano comunque individuabili.
Ebbene, in questa ipotesi rientra certamente quella del socio di società di persone, come nel caso di specie comprovato dal fatto che la sua esistenza è stata ricavata dalla dichiarazione sostitutiva di certificazione camerale esibita in sede di gara dall’ausiliaria medesima (ed in particolare dal relativo allegato).
Inoltre, in disparte questa considerazione pur di carattere assorbente, deve sottolinearsi che con riguardo all’impresa partecipante alla gara in veste non già di concorrente ma di ausiliaria la costante giurisprudenza di questa V Sezione ha ritenuto che gli obblighi dichiarativi di quest’ultima siano attenuati rispetto alla prima.
Ciò sulla base del dato letterale dell’art. 49 (Avvalimento), comma 2, lett. b), d.lgs. n. 163 del 2006, secondo cui il concorrente deve semplicemente allegare «una dichiarazione sottoscritta dall’impresa ausiliaria attestante il possesso da parte di quest'ultima dei requisiti generali di cui all'art. 38», nonché della diversa posizione rispetto al contratto tra ausiliaria e concorrente poi aggiudicataria del contratto, la quale è tenuta ai sensi del successivo comma 10 ad eseguire il servizio e solo ad essa è rilasciato il certificato di esecuzione.

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16. Rimane da esaminare la censura contenuta nel motivo aggiunto svolto davanti al Tribunale amministrativo, con cui la Sp.Co. ha sostenuto che la controinteressata doveva essere esclusa perché la sua ausiliaria De Lu.Sa. s.n.c. aveva omesso di attestare di possedere i requisiti ex art. 38 d.lgs. n. 163 del 2006 della socia al 35% sig.ra Mi.Bu..
17. Anche questo motivo è infondato.
Con sentenza Cons. Stato, Ad. plen., 30.07.2014, n. 16, questo Consiglio di Stato ha attenuato il rigore degli obblighi dichiarativi concernenti i requisiti di ordine generale ai sensi della disposizione da ultimo citata, affermando che la mancata indicazione nominativa dei soggetti appartenenti alla compagine societaria ai quali si riferiscono i requisiti di moralità personale genericamente attestati non può comportare l’esclusione dalla gara, quando i soggetti tenuti al rispetto di questi siano comunque individuabili.
Ebbene, in questa ipotesi rientra certamente quella del socio di società di persone, come nel caso di specie comprovato dal fatto che la sua esistenza è stata ricavata dalla dichiarazione sostitutiva di certificazione camerale esibita in sede di gara dall’ausiliaria medesima (ed in particolare dal relativo allegato).
18. Inoltre, in disparte questa considerazione pur di carattere assorbente, deve sottolinearsi che con riguardo all’impresa partecipante alla gara in veste non già di concorrente ma di ausiliaria la costante giurisprudenza di questa V Sezione ha ritenuto che gli obblighi dichiarativi di quest’ultima siano attenuati rispetto alla prima.
Ciò sulla base del dato letterale dell’art. 49 (Avvalimento), comma 2, lett. b), d.lgs. n. 163 del 2006, secondo cui il concorrente deve semplicemente allegare «una dichiarazione sottoscritta dall’impresa ausiliaria attestante il possesso da parte di quest'ultima dei requisiti generali di cui all'art. 38», nonché della diversa posizione rispetto al contratto tra ausiliaria e concorrente poi aggiudicataria del contratto, la quale è tenuta ai sensi del successivo comma 10 ad eseguire il servizio e solo ad essa è rilasciato il certificato di esecuzione (Cons. Stato, V, 14.02.2013, n. 911, cui aderisce la successiva Cons. Stato, V, 01.08.2015, n. 3769).
Pertanto, nessuna causa di esclusione dalla gara può ricavarsi dall’omessa attestazione riferita in modo specifico ad una socia dell’impresa ausiliaria
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 25.02.2016 n. 779 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa rateizzazione del pagamento degli oneri di urbanizzazione è prevista all’art. 16 d.P.R. n. 380 del 2001 laddove, oltre a stabilire il carattere di regola oneroso del permesso di costruire, concede al privato la facoltà di richiedere il pagamento rateizzato.
A sua volta l’art. 42 d.P.R. n. 380/2001, intitolato “Ritardato od omesso versamento del contributo di costruzione”, riproduttivo dell’art. 3 l. 28.02.1985 n. 47, attribuisce alle regioni la potestà di determinare “le sanzioni per il ritardato o mancato versamento del contributo di costruzione" (cfr. comma 1) in misura non inferiore a quanto previsto dalla stessa norma, estendendo, nel caso di pagamento rateizzato, la disciplina al ritardo (cfr. comma 4) “nei pagamenti delle singole rate”.
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Mentre il rilascio della garanzia (nel caso che ne occupa fideiussoria) opera su un piano paritetico disciplinato dal diritto civile, la determinazione e la riscossione dei ratei tardivamente versati ha un connotazione pubblicistica, insita nel suo essere concepita per operare in un contesto nel quale si ha esercizio di una potestà sanzionatoria, e dunque comporta l’esigenza di osservare garanzie e formalità affatto diverse da quelle che soprassiedono all’attività negoziale.
L’irrogazione delle sanzioni serve a rafforzare norme di condotta il cui rispetto appare essenziale per l’ordinato sviluppo del territorio ed assicurare la celere esecuzione delle opere di urbanizzazione destinate alla collettività (cfr., testualmente, art. 3 l. n. 47/1985).
In definitiva, l’ambito negoziale sito a monte, costituente il presupposto della rateizzazione, e l’ambito pubblicistico-sanzionatorio posto a valle, relativo all’esatto e tempestivo adempimento dei pagamenti, vanno tenuti distinti, avendo statuti normativi (strutturalmente e funzionalmente) eterogenei.
Conseguentemente, in forza di una serie di argomenti di seguito espressi, va rivisto l’indirizzo, fatto proprio da un precedente arresto giurisprudenziale che, valorizzando in funzione assiologia il principio d’imparzialità dell’azione amministrativa, giunge a diversa conclusione.
Innanzitutto nella dinamica contrattuale il rilascio della fideiussione a prima richiesta è prestata nell’esclusivo interesse dell’amministrazione che non è affatto gravata dall’obbligo di attivarla “a vantaggio della parte inadempiente”.
Aggiungasi che, nel caso in esame, trattandosi di fideiussione con la clausola a prima richiesta non alterante il tipo normativo, ossia di garanzia fideiussoria in senso stretto non assimilabile alla garanzia autonoma, trova piena applicazione l’art. 1942 c.c. a mente del quale la fideiussione si estende “a tutti gli accessori del debito principale”, con implicita esclusione delle somme dovute ad altro titolo, quali (ed a più forte ragione) le sanzioni amministrative dovute ex lege per il ritardato versamento dei ratei del contributo di urbanizzazione.
Sicché il Comune, prima della scadenza del termine di pagamento del rateo, non poterebbe azionare la garanzia; una volta scaduto il termine, escussa la garanzia, si vedrebbe opporre, ex art. 1942 c.c., dall’istituto fideiubente l’inefficacia della garanzia relativamente ad una pretesa patrimoniale (pari al rateo maggiorato della sanzione) non ricompreso nel debito garantito, oggetto di fideiussione.
Né è revocabile in dubbio che l’azione amministrativa iure privatorum, seppure tenuta ad osservare il principio immanente d’imparzialità e buon andamento, è governata dalle regole di diritto comune: la buona fede ex art. 1375 c.c. disciplina le modalità di esercizio del diritto sul piano procedurale, non genera affatto nuove obbligazioni.
Non impone all’amministrazione –come invece sostenuto dal Tar in un’anomala concezione poietico-normativa della buona fede in excutivis– di costituire in mora il debitore inadempiente nell’obbligazione di pagamento portable anche se l’art. 1219, comma 1, n. 3, c.c. esonera espressamente il creditore dall’incombente e, in aggiunta, ad attivare la garanzia fideiussoria per agevolare nell’interesse del debitore l’adempimento anziché per tutelare l’interesse del Comune al pagamento di un’entrata di diritto pubblico.
Alla medesima stregua l’estensione dell’art. 1227, comma 2, c.c., predicativo della ripartizione del risarcimento dei danni conseguenti all’inadempimento secondo il criterio della causalità giuridica, con esclusione del risarcimento dei danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza, incontra l’insormontabile ostacolo della natura punitivo-sanzionatoria (e non risarcitoria) di quanto dovuto ex lege per il tardivo versamento delle singole quote nei termini prescritti.

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L’appello è fondato.
La rateizzazione del pagamento degli oneri di urbanizzazione è prevista all’art. 16 d.P.R. n. 380 del 2001 laddove, oltre a stabilire il carattere di regola oneroso del permesso di costruire, concede al privato la facoltà di richiedere il pagamento rateizzato.
A sua volta l’art. 42 d.P.R. n. 380/2001, intitolato “Ritardato od omesso versamento del contributo di costruzione”, riproduttivo dell’art. 3 l. 28.02.1985 n. 47, attribuisce alle regioni la potestà di determinare “le sanzioni per il ritardato o mancato versamento del contributo di costruzione" (cfr. comma 1) in misura non inferiore a quanto previsto dalla stessa norma, estendendo, nel caso di pagamento rateizzato, la disciplina al ritardo (cfr. comma 4) “nei pagamenti delle singole rate”.
La legge Regione Veneto 27.06.1985 n. 61 ha dato applicazione (all’allora art. 3 l. n. 47/1985), ed ha previsto all’art. 81 la rateizzazione degli oneri di urbanizzazione subordinatamente alla prestazione di “opportune garanzie secondo le modalità previste dall’art. 13 l. 03.01.1978 n. 1”; nonché le conseguenze per il mancato versamento delle singole quote nei termini previsti stabilendo –in chiave sanzionatoria del ritardato versamento– l’aumento percentuale di esse a secondo del ritardo di quanto dovuto.
La norma ha altresì cura di precisare che decorso il termine di cui alla lettera e), ossia 240 giorni dal termine di pagamento della rata, “il Sindaco provvede alla riscossione coattiva del complessivo credito a norma del R.D. 14.04.1910 n. 639”.
Sicché la disciplina regionale, in sintonia con quella statale, opera una netta distinzione fra la prestazione della garanzia, necessaria per ottenere la rateizzazione degli oneri di urbanizzazione, e la determinazione delle sanzioni per il ritardato versamento dei singoli ratei.
Mentre il rilascio della garanzia (nel caso che ne occupa fideiussoria) opera su un piano paritetico disciplinato dal diritto civile, la determinazione e la riscossione dei ratei tardivamente versati ha un connotazione pubblicistica, insita nel suo essere concepita per operare in un contesto nel quale si ha esercizio di una potestà sanzionatoria, e dunque comporta l’esigenza di osservare garanzie e formalità affatto diverse da quelle che soprassiedono all’attività negoziale.
L’irrogazione delle sanzioni serve a rafforzare norme di condotta il cui rispetto appare essenziale per l’ordinato sviluppo del territorio ed assicurare la celere esecuzione delle opere di urbanizzazione destinate alla collettività (cfr., testualmente, art. 3 l. n. 47/1985).
In definitiva, l’ambito negoziale sito a monte, costituente il presupposto della rateizzazione, e l’ambito pubblicistico-sanzionatorio posto a valle, relativo all’esatto e tempestivo adempimento dei pagamenti, vanno tenuti distinti, avendo statuti normativi (strutturalmente e funzionalmente) eterogenei.
Conseguentemente, in forza di una serie di argomenti di seguito espressi, va rivisto l’indirizzo, fatto proprio da un precedente arresto giurisprudenziale (cfr. Cons. St., sez. V, 21.11.2014 n. 5734, in antitesi all’orientamento qui condiviso di cui a Cons. St. sez. IV, 17.02.2014 n. 731) che, valorizzando in funzione assiologia il principio d’imparzialità dell’azione amministrativa, giunge a diversa conclusione.
Innanzitutto nella dinamica contrattuale il rilascio della fideiussione a prima richiesta è prestata nell’esclusivo interesse dell’amministrazione che non è affatto gravata dall’obbligo di attivarla “a vantaggio della parte inadempiente”.
Aggiungasi che, nel caso in esame, trattandosi di fideiussione con la clausola a prima richiesta non alterante il tipo normativo, ossia di garanzia fideiussoria in senso stretto non assimilabile alla garanzia autonoma, trova piena applicazione l’art. 1942 c.c. a mente del quale la fideiussione si estende “a tutti gli accessori del debito principale”, con implicita esclusione delle somme dovute ad altro titolo, quali (ed a più forte ragione) le sanzioni amministrative dovute ex lege per il ritardato versamento dei ratei del contributo di urbanizzazione (cfr., testualmente, Cass. 12.06.2001 n. 7885).
Sicché il Comune, prima della scadenza del termine di pagamento del rateo, non poterebbe azionare la garanzia; una volta scaduto il termine, escussa la garanzia, si vedrebbe opporre, ex art. 1942 c.c., dall’istituto fideiubente l’inefficacia della garanzia relativamente ad una pretesa patrimoniale (pari al rateo maggiorato della sanzione) non ricompreso nel debito garantito, oggetto di fideiussione.
Né è revocabile in dubbio che l’azione amministrativa iure privatorum, seppure tenuta ad osservare il principio immanente d’imparzialità e buon andamento, è governata dalle regole di diritto comune: la buona fede ex art. 1375 c.c. disciplina le modalità di esercizio del diritto sul piano procedurale, non genera affatto nuove obbligazioni.
Non impone all’amministrazione –come invece sostenuto dal Tar in un’anomala concezione poietico-normativa della buona fede in excutivis– di costituire in mora il debitore inadempiente nell’obbligazione di pagamento portable anche se l’art. 1219, comma 1, n. 3, c.c. esonera espressamente il creditore dall’incombente e, in aggiunta, ad attivare la garanzia fideiussoria per agevolare nell’interesse del debitore l’adempimento anziché per tutelare l’interesse del Comune al pagamento di un’entrata di diritto pubblico.
Alla medesima stregua l’estensione dell’art. 1227, comma 2, c.c., predicativo della ripartizione del risarcimento dei danni conseguenti all’inadempimento secondo il criterio della causalità giuridica, con esclusione del risarcimento dei danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza, incontra l’insormontabile ostacolo della natura punitivo-sanzionatoria (e non risarcitoria) di quanto dovuto ex lege per il tardivo versamento delle singole quote nei termini prescritti.
Venendo alle censure non espressamente esaminate dal Tar, qui riproposte dalla ricorrente appellata, mette conto rilevare che la natura vincolata nell’an e nel quantum degli atti, adottati per giunta sulla scorta del procedimento di rateizzazione promosso –va sottolineato– ad istanza di parte, esonerava, ex artt. e 21-octies l. 241/1990, il Comune dalla comunicazione dell’avvio del procedimento.
Né sussiste il dedotto contrasto dell’art. 81 l.r. Veneto n. 61 del 1985 con i principi fondamentali dettati in materia dalla disciplina statale, posto che l’art. 42 t.u.ed., riproduttivo dell’art. 3 l. 47/1985, demanda espressamente alle regioni l’esercizio del potere per cui è causa.
Conclusivamente l’appello deve essere accolto (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 25.02.2016 n. 778 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI - LAVORI PUBBLICIL'art. 48, del d.lgs. n. 163 del 2006, che prevede la sanzione dell'escussione della cauzione provvisoria e della segnalazione all'Autorità di Vigilanza come conseguenza dell'esclusione dalla gara, si riferisce testualmente alla mancanza dei soli requisiti di capacità economico-finanziaria e tecnico-organizzativa, e la disposizione, in considerazione della sua funzione sanzionatoria, deve ritenersi che abbia carattere tassativo; pertanto, la stessa non può essere estesa ad ipotesi diverse.
Tuttavia va rilevato che la possibilità di segnalare all'Autorità di vigilanza tutte le false dichiarazioni rese in sede di gara, ivi comprese quelle relative ai requisiti di carattere generale, anche con riferimento alla disponendo escussione, discende, non da detto art. 48, ma direttamente dall'art. 75, comma 6, del d.lgs. n. 163 del 2006, il quale dispone che la cauzione sia posta a garanzia della sottoscrizione del contratto da parte dell'aggiudicatario e ne prevede lo svincolo solo al momento dell'avvenuta sottoscrizione, con ciò implicitamente statuendo l'escussione in caso di mancata sottoscrizione per fatto dell'aggiudicatario, perché riguarda tutte le ipotesi di mancata sottoscrizione del contratto per fatto dell'affidatario, intendendosi per fatto dell'affidatario qualunque ostacolo alla stipulazione a lui riconducibile, dunque non solo il rifiuto di stipulare o il difetto di requisiti speciali, ma anche il difetto di requisiti generali di cui all'art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006.
L'incameramento della cauzione provvisoria può quindi essere disposto anche a fronte di dichiarazioni non veritiere rese a norma dell'art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006, dovendosi privilegiare l'altra funzione della cauzione, intesa come garanzia del rispetto dell'ampio patto d'integrità cui si vincola chi partecipa a gare pubbliche.
Con sentenza n. 2232 del 18.04.2012, di questa Sezione, sono stati affermati i seguenti, condivisibili, principi:
a) l'escussione della cauzione provvisoria non presuppone in via esclusiva il fatto dell'aggiudicatario ovvero la falsità delle dichiarazioni concernenti i soli requisiti generali o speciali di partecipazione alla procedura;
b) essa, al contrario, trova spazio applicativo anche quando il concorrente, pur se non aggiudicatario, dichiari il falso in occasione della rappresentazione di elementi costitutivi dell'offerta;
c) è legittima la previsione del bando di gara che ammette l'escussione della garanzia per qualsivoglia ipotesi di falsità nelle dichiarazioni -ovvero anche nei confronti della concorrente non aggiudicataria– e anche in caso di mancato adempimento di ogni altro obbligo derivante dalla partecipazione alla gara;
d) La cauzione provvisoria costituisce parte integrante dell'offerta e non mero elemento di corredo della stessa; la finalità della cauzione è quella di responsabilizzare i partecipanti in ordine alle dichiarazioni rese, di garantire la serietà e l'affidabilità dell'offerta, nonché di escludere da subito i soggetti privi delle richieste qualità volute dal bando;
e) l'escussione costituisce conseguenza della violazione dell'obbligo di diligenza gravante sull'offerente.
In senso diverso rispetto alla tesi più restrittiva, si era già espressa la Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con sentenza n. 8 del 04.05.2012, affermando, sia pure in un contesto più ampio, dedicato in modo centrale alla questione della gravità delle irregolarità contributive, che la possibilità di incamerare la cauzione provvisoria (che discende direttamente dall'art. 75 codice contratti pubblici) riguarda tutte le ipotesi di mancata sottoscrizione del contratto per fatto dell'affidatario, intendendosi per fatto dell'affidatario qualunque ostacolo alla stipulazione a lui riconducibile; dunque non solo il rifiuto di stipulare o il difetto di requisiti speciali, ma anche il difetto di requisiti generali di cui all'art. 38 codice citato.
La affermazione della sentenza della Adunanza Plenaria n. 8 del 2012, nel senso sopra riportato, costituisce oramai un dato acquisito della giurisprudenza di secondo grado.
Al riguardo, con sentenza della Adunanza Plenaria 10.12.2014, n. 34 è stato anche affermato che -oltre ad una lettura evolutiva dell'art. 75 nel senso sopra riportato di far riferimento anche ai concorrenti e non solo all'aggiudicatario e non solo ai requisiti speciali di cui all'art. 48 ma anche ai requisiti generali di cui all'art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006- porta e concludere nel senso sopra sostenuto anche la previsione contenuta nell'art. 49 del medesimo d.lgs., che, sia pure nell'ambito della disciplina dell'avvalimento, ma con valenza sistematica (ai sensi degli articoli 1362 e seguenti codice civile) dal punto di vista interpretativo, al comma 3, prevede che "nel caso di dichiarazioni mendaci, ferma restando l'applicazione dell'articolo 38, lettera h, nei confronti dei sottoscrittori, la stazione appaltante esclude il concorrente (non già il solo aggiudicatario) e escute la garanzia".
Aggiungasi che con detta sentenza della Adunanza Plenaria n. 34 del 2014 è stata ritenuta legittima pure la clausola, contenuta in atti di indizione di procedure di affidamento di appalti pubblici, che preveda l'escussione della cauzione provvisoria anche nei confronti di imprese non risultate aggiudicatarie, ma solo concorrenti, in caso di riscontrata assenza del possesso dei requisiti di carattere generale di cui all'art. 38, del d.lgs. n. 163 del 2006.
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Nel caso che occupa il patto di integrità allegato al contratto e sottoscritto dalla concorrente prevedeva espressamente che, in caso di mancato rispetto degli impegni assunti, avrebbe potuto essere applicata, tra l’altro, la sanzione della escussione della cauzione di validità dell’offerta, sicché, in linea con la ormai prevalente giurisprudenza, la segnalazione all'Autorità è stata legittimamente effettuata a seguito di accertamento negativo sul possesso dei requisiti di ordine generale.
Detta soluzione trova conferma nel nuovo regolamento di esecuzione del Codice dei contratti pubblici, che, nell'indicare i dati da iscrivere nel casellario informatico, sia per le imprese qualificate con il sistema S.O.A., sia per le altre imprese, menziona i provvedimenti di esclusione dalle gare.

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A prescindere dalla circostanza che l'annullamento dell'aggiudicazione si sensi dell'art. 75 del d.P.R. n. 445 del 2000 non lascia alcun margine di discrezionalità alle Amministrazioni che riscontrano la non veridicità delle dichiarazioni e prescinde, per la sua applicazione, dalla condizione soggettiva del dichiarante, attestandosi sul dato oggettivo della non veridicità delle dichiarazioni effettuate in sede di gara, il patto di integrità allegato al bando di gara e sottoscritto dai concorrenti prevedeva che, in caso di mancato rispetto degli impegni assunti, avrebbero potuto essere applicate le ulteriori sanzioni:
- della risoluzione o perdita del contratto,
- della escussione della cauzione di validità dell’offerta,
- della escussione della cauzione di buona esecuzione del contratto,
- della responsabilità per danno nella misura dell’8% del valore del contratto,
- della responsabilità per danno arrecato agli altri concorrenti nella misura dell’1% del valore del contratto per ogni partecipante e
- della esclusione del concorrente dalle gare indette dal Comune per cinque anni.
E’ evidente che l’adozione della sola sanzione della escussione della cauzione di validità dell’offerta ha costituito esercizio del potere di apprezzamento e graduazione da parte del Comune, che si è astenuto dall’applicare le ulteriori sanzioni consentite.
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Il Consiglio di Stato, con la sentenza della Adunanza Plenaria n. 8 del 2012, ha asserito che in tema di garanzie partecipative relative al procedimento di iscrizione nel casellario informatico presso l'Autorità di vigilanza, dell'avvio del procedimento di iscrizione deve essere data notizia all'interessato; ciò anche quando la trasmissione di atti al casellario, da parte delle stazioni appaltanti, è dovuta in adempimento di disposizioni di legge, attese le conseguenze rilevanti che derivano da tale iscrizione e l'indubbio interesse del soggetto all'esattezza delle iscrizioni.
In relazione ad una gara per l'affidamento di un appalto di lavori pubblici, la decisione di escutere la garanzia provvisoria e di effettuare la segnalazione all'Autorità di Vigilanza non costituisce l'esito di un procedimento ulteriore e diverso rispetto a quello della gara, sicché non sussiste l'obbligo di comunicare l'avvio del procedimento amministrativo.
Diversamente opinando, il ricorso proposto avverso la segnalazione, da parte della stazione appaltante, all'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici della condotta tenuta da una impresa partecipante a gara pubblica e da essa esclusa, ai fini dell'eventuale iscrizione nel Casellario informatico dei contratti pubblici, deve ritenersi che sia comunque sia inammissibile, per difetto d'interesse, trattandosi di mero atto di avvio del procedimento privo, come tale, di carattere lesivo.
Aggiungasi che, quando la legge prescrive in via automatica la segnalazione di determinati dati, senza alcuna possibilità di valutazione discrezionale in ordine al se della comunicazione e al contenuto della stessa, si possono, come regola generale, individuare equipollenti dell'avviso di avvio del procedimento di iscrizione.
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10.- Nel merito l’appello è fondato.
11.- Va preliminarmente osservato che con la sentenza impugnata, dopo che è stata respinta l’eccezione di inammissibilità del ricorso e respinti i motivi volti all’annullamento della disposta esclusione dalla gara de qua della Le.Co. s.r.l., sono state ritenute fondate le censure volte all’annullamento delle preannunciate escussione della cauzione provvisoria e segnalazione all’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici del provvedimento di esclusione.
11.1.- Quanto alla preannunciata escussione, il TAR ha ritenuto di andare di contrario avviso rispetto all’orientamento giurisprudenziale seguito dalla stazione appaltante (secondo il quale l’escussione è conseguenza automatica dell’inadempimento trovando fondamento nella violazione del patto di integrità), assumendo che la s.a. aveva rilevato un comportamento improntato a buona fede della società e che ciò potesse fungere da esimente ai fini dell’applicazione dei provvedimenti in questione in quanto l’interpretazione dell’art. 10, comma 1-quater, della l. n. 109 del 1994, applicabile ratione temporis, deve essere effettuata secondo un criterio logico ed in relazione alla circostanza che non debba trattarsi di una violazione lieve.
La s.a. non avrebbe nel caso di specie esercitato la discrezionalità nell’apprezzamento e graduazione dei provvedimenti conseguenti all’esclusione dalla gara, che il patto di integrità prevedeva, nell’applicare le conseguenti sanzioni ed avrebbe invece aderito acriticamente alla valutazione del presidente della commissione di gara senza esame complessivo delle circostanze emerse.
11.1.1.- Ritiene il collegio fondate le censure mosse a detti assunti dall’appellante Comune, che, con i primi quattro motivi d’appello, ha sostanzialmente dedotto che la giustificazione fornita dalla Le.Co. s.r.l. in merito alla mancata conoscenza del passaggio in giudicato della sentenza della Corte d’Appello di Palermo, di condanna del signor Le.Ga. per il reato di violazione delle norme sugli infortuni e di lesioni colpose gravi, era stata accolta dalla stazione appaltante al solo fine di escludere l’esistenza di una falsa dichiarazione, senza che tale stato fosse idoneo a produrre ulteriori effetti giuridici, fondandosi su presupposti diversi i provvedimenti di segnalazione e di escussione di cui trattasi, che troverebbero fondamento nell’art. 75, comma 6, del d.lgs. n. 163 del 2006 (che non fa menzione dell’elemento della colpa e che non può essere interpretata in senso restrittivo) e non nell’art. 48, di natura speciale, del d.lgs. n. 163 del 2006, nonché nella lex specialis, a nulla valendo la gravità o meno del reato commesso.
Condivisibili sono infatti le censure circa la applicabilità, sostenuta dal TAR, alla fattispecie, non dell’art. 10, comma 1-quater, della l. n. 109 del 1994, ma del d.lgs. n. 163 del 2006; ciò considerato che l’art. 253, primo comma, del d.lgs. stesso ne prevede l’applicabilità ai bandi di gara pubblicati prima della sua entrata in vigore, avvenuta il 02.05.2006, ed il bando della gara di cui trattasi risulta pubblicato successivamente, in data 26.07.2006.
L'art. 48, del d.lgs. n. 163 del 2006, che prevede la sanzione dell'escussione della cauzione provvisoria e della segnalazione all'Autorità di Vigilanza come conseguenza dell'esclusione dalla gara, si riferisce testualmente alla mancanza dei soli requisiti di capacità economico-finanziaria e tecnico-organizzativa, e la disposizione, in considerazione della sua funzione sanzionatoria, deve ritenersi che abbia carattere tassativo; pertanto, la stessa non può essere estesa ad ipotesi diverse (Consiglio di Stato, sez. V, 11.01.2012, n. 80).
Tuttavia va rilevato che la possibilità di segnalare all'Autorità di vigilanza tutte le false dichiarazioni rese in sede di gara, ivi comprese quelle relative ai requisiti di carattere generale, anche con riferimento alla disponendo escussione, discende, non da detto art. 48, ma direttamente dall'art. 75, comma 6, del d.lgs. n. 163 del 2006, il quale dispone che la cauzione sia posta a garanzia della sottoscrizione del contratto da parte dell'aggiudicatario e ne prevede lo svincolo solo al momento dell'avvenuta sottoscrizione, con ciò implicitamente statuendo l'escussione in caso di mancata sottoscrizione per fatto dell'aggiudicatario, perché riguarda tutte le ipotesi di mancata sottoscrizione del contratto per fatto dell'affidatario, intendendosi per fatto dell'affidatario qualunque ostacolo alla stipulazione a lui riconducibile, dunque non solo il rifiuto di stipulare o il difetto di requisiti speciali, ma anche il difetto di requisiti generali di cui all'art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006.
L'incameramento della cauzione provvisoria può quindi essere disposto anche a fronte di dichiarazioni non veritiere rese a norma dell'art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006, dovendosi privilegiare l'altra funzione della cauzione, intesa come garanzia del rispetto dell'ampio patto d'integrità cui si vincola chi partecipa a gare pubbliche.
Con sentenza n. 2232 del 18.04.2012, di questa Sezione, sono stati affermati i seguenti, condivisibili, principi:
a) l'escussione della cauzione provvisoria non presuppone in via esclusiva il fatto dell'aggiudicatario ovvero la falsità delle dichiarazioni concernenti i soli requisiti generali o speciali di partecipazione alla procedura;
b) essa, al contrario, trova spazio applicativo anche quando il concorrente, pur se non aggiudicatario, dichiari il falso in occasione della rappresentazione di elementi costitutivi dell'offerta;
c) è legittima la previsione del bando di gara che ammette l'escussione della garanzia per qualsivoglia ipotesi di falsità nelle dichiarazioni -ovvero anche nei confronti della concorrente non aggiudicataria– e anche in caso di mancato adempimento di ogni altro obbligo derivante dalla partecipazione alla gara;
d) La cauzione provvisoria costituisce parte integrante dell'offerta e non mero elemento di corredo della stessa; la finalità della cauzione è quella di responsabilizzare i partecipanti in ordine alle dichiarazioni rese, di garantire la serietà e l'affidabilità dell'offerta, nonché di escludere da subito i soggetti privi delle richieste qualità volute dal bando;
e) l'escussione costituisce conseguenza della violazione dell'obbligo di diligenza gravante sull'offerente.
In senso diverso rispetto alla tesi più restrittiva, si era già espressa la Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con sentenza n. 8 del 04.05.2012, affermando, sia pure in un contesto più ampio, dedicato in modo centrale alla questione della gravità delle irregolarità contributive, che la possibilità di incamerare la cauzione provvisoria (che discende direttamente dall'art. 75 codice contratti pubblici) riguarda tutte le ipotesi di mancata sottoscrizione del contratto per fatto dell'affidatario, intendendosi per fatto dell'affidatario qualunque ostacolo alla stipulazione a lui riconducibile; dunque non solo il rifiuto di stipulare o il difetto di requisiti speciali, ma anche il difetto di requisiti generali di cui all'art. 38 codice citato.
La affermazione della sentenza della Adunanza Plenaria n. 8 del 2012, nel senso sopra riportato, costituisce oramai un dato acquisito della giurisprudenza di secondo grado (Consiglio di Stato, Sezione V, 27.10.2014, n. 5283).
Al riguardo, con sentenza della Adunanza Plenaria 10.12.2014, n. 34 è stato anche affermato che -oltre ad una lettura evolutiva dell'art. 75 nel senso sopra riportato di far riferimento anche ai concorrenti e non solo all'aggiudicatario e non solo ai requisiti speciali di cui all'art. 48 ma anche ai requisiti generali di cui all'art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006- porta e concludere nel senso sopra sostenuto anche la previsione contenuta nell'art. 49 del medesimo d.lgs., che, sia pure nell'ambito della disciplina dell'avvalimento, ma con valenza sistematica (ai sensi degli articoli 1362 e seguenti codice civile) dal punto di vista interpretativo, al comma 3, prevede che "nel caso di dichiarazioni mendaci, ferma restando l'applicazione dell'articolo 38, lettera h, nei confronti dei sottoscrittori, la stazione appaltante esclude il concorrente (non già il solo aggiudicatario) e escute la garanzia".
Aggiungasi che con detta sentenza della Adunanza Plenaria n. 34 del 2014 è stata ritenuta legittima pure la clausola, contenuta in atti di indizione di procedure di affidamento di appalti pubblici, che preveda l'escussione della cauzione provvisoria anche nei confronti di imprese non risultate aggiudicatarie, ma solo concorrenti, in caso di riscontrata assenza del possesso dei requisiti di carattere generale di cui all'art. 38, del d.lgs. n. 163 del 2006 (Consiglio di Stato, sez. IV, 04.08.2015, n. 3856).
Tanto premesso, va rilevato che nel caso che occupa il patto di integrità allegato al contratto e sottoscritto dalla concorrente prevedeva espressamente che, in caso di mancato rispetto degli impegni assunti, avrebbe potuto essere applicata, tra l’altro, la sanzione della escussione della cauzione di validità dell’offerta, sicché, in linea con la ormai prevalente giurisprudenza, la segnalazione all'Autorità è stata legittimamente effettuata a seguito di accertamento negativo sul possesso dei requisiti di ordine generale (Consiglio di Stato, sez. IV, 07.09.2004, n. 5792; sez. VI, 04.08.2009, n. 4905; sez. V, 12.02.2007, n. 554; A.P. 04.05.2012, n. 8; sez. IV 22.12.2014 n. 6302; sez. IV, 12.03.2015 n. 1321); detta soluzione trova conferma nel nuovo regolamento di esecuzione del Codice dei contratti pubblici, che, nell'indicare i dati da iscrivere nel casellario informatico, sia per le imprese qualificate con il sistema S.O.A., sia per le altre imprese, menziona i provvedimenti di esclusione dalle gare (Consiglio di Stato, sez. VI, 04.12.2012, n. 6210).
11.1.2.- Quanto al mancato esercizio, dedotto dal TAR, della discrezionalità di apprezzamento e graduazione dei provvedimenti conseguenti al mancato rispetto degli impegni assunti dai concorrenti con la partecipazione alla procedura di gara, che il patto di integrità le aveva attribuito, ed alla criticità della adesione da parte del Direttore del settore comunale competente alla valutazione del presidente della commissione, la Sezione ritiene fondati i rilievi, formulati con il quinto motivo d’appello, circa l’avvenuto esercizio da parte della stazione appaltante del potere attribuitole dalla lex specialis, di apprezzamento e graduazione dei provvedimenti conseguenti all’annullamento dell’aggiudicazione ed all’esclusione, concretatosi nella adozione del provvedimento di escussione, senza adozione delle ulteriori determinazioni, pure autorizzate dalla lex specialis, come la esclusione dalle gare per cinque anni e la richiesta di risarcimento del danno nella misura dell’1% del contratto.
Pure condivisibile deve ritenersi l’assunto del Comune circa l’infondatezza della tesi che il Direttore del settore gare e contratti del Comune avesse acriticamente aderito alla valutazione del Presidente della commissione, in quanto, a prescindere dalla circostanza che i due soggetti giuridici corrispondessero alla stessa persona, la motivazione del provvedimento di escussione della garanzia era dettagliatamente enunciata nel verbale di gara del 30.11.2007, con richiamo all’allegata istruttoria, in cui erano più puntualmente esplicitate le ragioni dell’esclusione e dell’escussione (adottata in ragione dell’esame complessivo delle circostanze emerse in sede di gara e non solo in considerazione della sentenza del Consiglio di Stato, Sezione V, 08.02.2005, n. 341).
In proposito va in primo luogo rilevato che (a prescindere dalla circostanza che l'annullamento dell'aggiudicazione si sensi dell'art. 75 del d.P.R. n. 445 del 2000 non lascia alcun margine di discrezionalità alle Amministrazioni che riscontrano la non veridicità delle dichiarazioni e prescinde, per la sua applicazione, dalla condizione soggettiva del dichiarante, attestandosi sul dato oggettivo della non veridicità delle dichiarazioni effettuate in sede di gara) il patto di integrità allegato al bando di gara e sottoscritto dai concorrenti prevedeva che, in caso di mancato rispetto degli impegni assunti, avrebbero potuto essere applicate le ulteriori sanzioni della risoluzione o perdita del contratto, della escussione della cauzione di validità dell’offerta, della escussione della cauzione di buona esecuzione del contratto, della responsabilità per danno nella misura dell’8% del valore del contratto, della responsabilità per danno arrecato agli altri concorrenti nella misura dell’1% del valore del contratto per ogni partecipante e della esclusione del concorrente dalle gare indette dal Comune di Milano per cinque anni.
E’ evidente che l’adozione della sola sanzione della escussione della cauzione di validità dell’offerta ha costituito esercizio del potere di apprezzamento e graduazione da parte del Comune, che si è astenuto dall’applicare le ulteriori sanzioni consentite.
In secondo luogo va rilevato che è incondivisibile la tesi sostenuta in sentenza che il Direttore del Settore gare e contratti del Comune avesse disposto detta escussione in acritica adesione alla valutazione espressa dal Presidente della commissione di gara nella seduta del 30.11.2007, senza esame complessivo delle circostanze.
L’impugnato atto del 04.12.2007 del Direttore suddetto, versato in copia in atti, è una mera comunicazione dell’avvenuto annullamento dell’aggiudicazione provvisoria dell’appalto e della contestuale esclusione della gara per i motivi indicati nell’allegato verbale della seduta del 30 novembre 2007, con preavviso che il provvedimento relativo sarebbe stato comunicato all’Autorità di Vigilanza.
Detto Direttore non ha quindi autonomamente disposto alcuna escussione.
Quanto alla applicazione dell’ulteriore sanzione della escussione della cauzione provvisoria di cui ha dato atto il presidente della Commissione di gara nel corso di detta seduta, non può affermarsi che sia stata disposta senza esame complessivo delle circostanze, atteso che nel verbale è stato dato atto in precedenza di tutte le circostanze e delle ragioni per le quali l’avvenuta aggiudicazione era stata annullata ed era stata esclusa la società di cui trattasi.
Quanto al richiamo contenuto in detto verbale alla sentenza di questa Sezione n. 341 del 2005, va rilevato che esso è pertinente, perché con la sentenza stessa è stata affermata “l'infondatezza dell'assunto dell'appellante che nel caso non sarebbe stato applicabile l'art. 10, comma 1-quater, della L. 11.02.1994, n. 109” e che non poteva giovare all'appellante l'invocata distinzione tra requisiti di ordine speciale e requisiti di ordine generale in quanto “L'art, 10, comma 1-quater, della L. 11.02.1994, n. 109, prescrive, infatti, l'escussione della cauzione e l'applicazione delle misure sanzionatorie nel caso di mancata comprovazione dei requisiti di capacità economico-finanziaria e tecnico-organizzativa eventualmente richiesti nel bando di gara senza distinguere tra requisiti di ordine speciale e requisiti di ordine generale”.
Inoltre, come affermato dal Comune con memoria depositata il 04.06.2015, non contestata sul punto, al verbale era allegata l’istruttoria procedimentale per l’annullamento dell’aggiudicazione, in cui è citata la sentenza della Sezione quarta di questo Consiglio, che afferma la consequenzialità diretta ed automatica dell’escussione della cauzione all’inadempimento della partecipante, quale atto dovuto.
Le predette considerazioni dimostrano la fondatezza anche delle esaminate censure d’appello.
11.2.- Quanto alla mancata comunicazione dell’avvio del procedimento, che il TAR ha ritenuto viziasse la preannunciata segnalazione del provvedimento di esclusione, pure fondata appare al collegio la censura, formulata con il quinto motivo d’appello, che le garanzie partecipative sono dovute all’interessato in relazione al procedimento di iscrizione dei dati nel casellario informatico presso l’Autorità di vigilanza e non in relazione alla segnalazione all’Autorità stessa.
Il Consiglio di Stato, con la citata sentenza della Adunanza Plenaria n. 8 del 2012, ha asserito che in tema di garanzie partecipative relative al procedimento di iscrizione nel casellario informatico presso l'Autorità di vigilanza, dell'avvio del procedimento di iscrizione deve essere data notizia all'interessato; ciò anche quando la trasmissione di atti al casellario, da parte delle stazioni appaltanti, è dovuta in adempimento di disposizioni di legge, attese le conseguenze rilevanti che derivano da tale iscrizione e l'indubbio interesse del soggetto all'esattezza delle iscrizioni.
In relazione ad una gara per l'affidamento di un appalto di lavori pubblici, la decisione di escutere la garanzia provvisoria e di effettuare la segnalazione all'Autorità di Vigilanza non costituisce l'esito di un procedimento ulteriore e diverso rispetto a quello della gara, sicché non sussiste l'obbligo di comunicare l'avvio del procedimento amministrativo.
Diversamente opinando, il ricorso proposto avverso la segnalazione, da parte della stazione appaltante, all'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici della condotta tenuta da una impresa partecipante a gara pubblica e da essa esclusa, ai fini dell'eventuale iscrizione nel Casellario informatico dei contratti pubblici, deve ritenersi che sia comunque sia inammissibile, per difetto d'interesse, trattandosi di mero atto di avvio del procedimento privo, come tale, di carattere lesivo.
Aggiungasi che, quando la legge prescrive in via automatica la segnalazione di determinati dati, senza alcuna possibilità di valutazione discrezionale in ordine al se della comunicazione e al contenuto della stessa, si possono, come regola generale, individuare equipollenti dell'avviso di avvio del procedimento di iscrizione (Consiglio di Stato, sez. VI, 04.12.2012, n. 6210).
Pertanto nel caso di specie, in cui è stato dedotto dal Comune appellante che con lettera del 04.12.2007 era stata comunicata l’adozione dei provvedimenti di esclusione e di annullamento dell’aggiudicazione, unitamente all’avvertenza che sarebbero stati segnalati all’Autorità di vigilanza, deve ritenersi che la s.a. abbia offerto adeguata garanzia partecipativa alla società di cui trattasi con riguardo alla effettuazione di detta segnalazione.
12.- L’appello deve essere conclusivamente accolto e, per l’effetto, in riforma della sentenza di primo grado, va respinto il ricorso originario proposto dinanzi al TAR per la parte favorevole al ricorrente. Restano assorbite le ulteriori censure formulate con l’atto d’appello (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 25.02.2016 n. 775 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: La giurisprudenza ha quasi costantemente affermato che gli interventi di riparazione, di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino gravano esclusivamente sul responsabile della contaminazione, cioè sul soggetto al quale sia imputabile, almeno sotto il profilo oggettivo, l'inquinamento (art. 244, comma 2, d.lgs. n. 152 del 2006); se il responsabile non sia individuabile o non provveda (e non provveda spontaneamente il proprietario del sito o altro soggetto interessato), gli interventi che risultassero necessari sono adottati dall'Amministrazione competente (art. 244, comma 4, d.lgs. cit.); le spese sostenute per effettuare tali interventi possono essere recuperate, sulla base di un motivato provvedimento (che giustifichi tra l'altro l'impossibilità di accertare l'identità del soggetto responsabile ovvero che giustifichi l'impossibilità di esercitare azioni di rivalsa nei confronti del medesimo soggetto ovvero la loro infruttuosità), agendo in rivalsa verso il proprietario.
Per completezza va aggiunto che gli art. 244, 245 e 253 d.lgs. n. 152 del 2006 vanno interpretati nel senso che, in caso di accertata contaminazione di un sito e d’impossibilità di individuarne il soggetto responsabile o di impossibilità di ottenere da quest'ultimo interventi di riparazione, il Ministero dell'ambiente non può imporre al proprietario non responsabile, che ha solo una responsabilità patrimoniale limitata al valore del sito dopo l'esecuzione degli interventi di bonifica, l'esecuzione delle misure di sicurezza d'emergenza e di bonifica.
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E' il responsabile dell'inquinamento il soggetto sul quale gravano, ai sensi dell'art. 242 d.lgs. n. 152 del 2006, gli obblighi di messa in sicurezza, bonifica e ripristino ambientale a seguito della constatazione di uno stato di contaminazione, mentre il proprietario non responsabile è gravato solo di una specifica obbligazione di "facere" che riguarda, però, soltanto l'adozione delle misure di prevenzione.
Per completezza va aggiunto che in tema di bonifica e ripristino ambientale di un terreno inquinato ai sensi dell'art. 242, comma 2 e seguenti, del d.lgs. n. 152 del 2006, nel caso di affitto del bene a terzi anche il proprietario resta responsabile allorché sia a conoscenza della pericolosità dell'attività svolta e dello stato d’inquinamento del sito, essendo ciò sufficiente a far sorgere un obbligo di attivarsi al fine di eliminare, nel più breve tempo possibile ed anche in assenza di intervento dell'autore dell'inquinamento, lo stato di contaminazione.
La rimozione dei rifiuti viene ordinata nell’atto gravato solo in via eventuale quando a seguito dell’indagine risulti che è stata proprio la presenza dei rifiuti a causare la contaminazione.

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... per l'annullamento:
- dell'ordinanza prot. n. 20428/15 dd 3.7.2015, notificata in data 07.07.2015 con cui è stato intimato al ricorrente, quale legale rappresentante del Consorzio per lo sviluppo industriale del Comune di Montalcone, in sede di accertamento del superamento dei limiti delle CSC (Concentrazioni Soglia di Contaminazione) Idrocarburi, di attivarsi secondo quanto stabilito dall'art. 242 del D.lgs. 152/2006 ovvero, qualora ne ricorrano i presupposti ai sensi dell'art. 249 del decreto medesimo;
- di presentare inoltre nel termine di giorni 30 dalla data di notifica dell'ordinanza il piano di caratterizzazione a Provincia, Regione, Comune, ARPA F.V.G. - Dipartimento di Gorizia ed A.s.s. n. 2 "Bassa Friulana Isontina",
...
1. Viene in esame il ricorso del Consorzio per lo sviluppo industriale del Comune di Monfalcone avverso il provvedimento della Provincia di Gorizia del 03.07.2015 con cui si ordina al consorzio, quale corresponsabile della potenziale contaminazione in un’area in cui è stato accertato il superamento del parametro per quanto riguarda gli idrocarburi, di attivarsi ai sensi dell’articolo 242 del decreto legislativo 152 del 2006 e di presentare un piano di caratterizzazione; si ordina altresì di rimuovere i rifiuti qualora per la loro natura possano aver causato la contaminazione del suolo.
2. Conviene prendere le mosse dall’atto impugnato, il quale si rivolge alla lettera a) al Consorzio terme romane e alla lettera b) al Consorzio per lo sviluppo industriale odierno ricorrente, considerandolo “corresponsabile della potenziale contaminazione limitatamente alla porzione di area in cui si è accertata la presenza di un deposito di materiali/rifiuti sul suolo nel corso del sopralluogo del mese di marzo 2014”.
Segue l’ordine di attivarsi ex art. 242 del d.lgs. 152 del 2006 ovvero qualora ne ricorrano i presupposti ex art. 249 e nel termine di 30 giorni di presentare un piano di caratterizzazione. Si aggiunge infine che le indagini dovranno essere eseguite anche “a seguito della rimozione dei rifiuti, qualora la natura degli stessi possa aver causato la contaminazione del suolo”.
3. Va innanzi tutto riprodotto l’art. 242 citato nelle parti che interessano: "Art. 242
1. Al verificarsi di un evento che sia potenzialmente in grado di contaminare il sito, il responsabile dell'inquinamento mette in opera entro ventiquattro ore le misure necessarie di prevenzione e ne dà immediata comunicazione ai sensi e con le modalità di cui all'articolo 304, comma 2. La medesima procedura si applica all'atto di individuazione di contaminazioni storiche che possano ancora comportare rischi di aggravamento della situazione di contaminazione.
2. Il responsabile dell'inquinamento, attuate le necessarie misure di prevenzione, svolge, nelle zone interessate dalla contaminazione, un'indagine preliminare sui parametri oggetto dell'inquinamento e, ove accerti che il livello delle concentrazioni soglia di contaminazione (CSC) non sia stato superato, provvede al ripristino della zona contaminata, dandone notizia, con apposita autocertificazione, al comune ed alla provincia competenti per territorio entro quarantotto ore dalla comunicazione. L'autocertificazione conclude il procedimento di notifica di cui al presente articolo, ferme restando le attività di verifica e di controllo da parte dell'autorità competente da effettuarsi nei successivi quindici giorni. Nel caso in cui l'inquinamento non sia riconducibile ad un singolo evento, i parametri da valutare devono essere individuati, caso per caso, sulla base della storia del sito e delle attività ivi svolte nel tempo.
OMISSIS
8. I criteri per la selezione e l'esecuzione degli interventi di bonifica e ripristino ambientale, di messa in sicurezza operativa o permanente, nonché per l'individuazione delle migliori tecniche di intervento a costi sostenibili (B.A.T.N.E.E.C. - Best Available Technology Not Entailing Excessive Costs) ai sensi delle normative comunitarie sono riportati nell'Allegato 3 alla parte quarta del presente decreto,
9. La messa in sicurezza operativa, riguardante i siti contaminati [con attività in esercizio], garantisce una adeguata sicurezza sanitaria ed ambientale ed impedisce un'ulteriore propagazione dei contaminanti. I progetti di messa in sicurezza operativa sono accompagnati da accurati piani di monitoraggio dell'efficacia delle misure adottate ed indicano se all'atto della cessazione dell'attività si renderà necessario un intervento di bonifica o un intervento di messa in sicurezza permanente. Possono essere altresì autorizzati interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria e di messa in sicurezza degli impianti e delle reti tecnologiche, purché non compromettano la possibilità di effettuare o completare gli interventi di bonifica che siano condotti adottando appropriate misure di prevenzione dei rischi.
10. Nel caso di caratterizzazione, bonifica, messa in sicurezza e ripristino ambientale di siti con attività in esercizio, la regione, fatto salvo l'obbligo di garantire la tutela della salute pubblica e dell'ambiente, in sede di approvazione del progetto assicura che i suddetti interventi siano articolati in modo tale da risultare compatibili con la prosecuzione della attività.
11. Nel caso di eventi avvenuti anteriormente all'entrata in vigore della parte quarta del presente decreto che si manifestino successivamente a tale data in assenza di rischio immediato per l'ambiente e per la salute pubblica, il soggetto interessato comunica alla regione, alla provincia e al comune competenti l'esistenza di una potenziale contaminazione unitamente al piano di caratterizzazione del sito, al fine di determinarne l'entità e l'estensione con riferimento ai parametri indicati nelle CSC ed applica le procedure di cui ai commi 4 e seguenti.
12. Le indagini ed attività istruttorie sono svolte dalla provincia, che si avvale della competenza tecnica dell'Agenzia regionale per la protezione dell'ambiente e si coordina con le altre amministrazioni.
13. La procedura di approvazione della caratterizzazione e del progetto di bonifica si svolge in Conferenza di servizi convocata dalla regione e costituita dalle amministrazioni ordinariamente competenti a rilasciare i permessi, autorizzazioni e concessioni per la realizzazione degli interventi compresi nel piano e nel progetto. La relativa documentazione è inviata ai componenti della conferenza di servizi almeno venti giorni prima della data fissata per la discussione e, in caso di decisione a maggioranza, la delibera di adozione deve fornire una adeguata ed analitica motivazione rispetto alle opinioni dissenzienti espresse nel corso della conferenza. Compete alla provincia rilasciare la certificazione di avvenuta bonifica. Qualora la provincia non provveda a rilasciare tale certificazione entro trenta giorni dal ricevimento della delibera di adozione, al rilascio provvede la regione.
OMISSIS
"
4. Va osservato che il riprodotto articolo di legge fa riferimento, al comma 12, alla necessità per la provincia di coordinarsi con le altre pubbliche amministrazioni, tra cui nel caso anche il Consorzio industriale proprietario dell’area.
La giurisprudenza ha quasi costantemente affermato che gli interventi di riparazione, di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino gravano esclusivamente sul responsabile della contaminazione, cioè sul soggetto al quale sia imputabile, almeno sotto il profilo oggettivo, l'inquinamento (art. 244, comma 2, d.lgs. n. 152 del 2006); se il responsabile non sia individuabile o non provveda (e non provveda spontaneamente il proprietario del sito o altro soggetto interessato), gli interventi che risultassero necessari sono adottati dall'Amministrazione competente (art. 244, comma 4, d.lgs. cit.); le spese sostenute per effettuare tali interventi possono essere recuperate, sulla base di un motivato provvedimento (che giustifichi tra l'altro l'impossibilità di accertare l'identità del soggetto responsabile ovvero che giustifichi l'impossibilità di esercitare azioni di rivalsa nei confronti del medesimo soggetto ovvero la loro infruttuosità), agendo in rivalsa verso il proprietario (TAR L'Aquila, (Abruzzo), sez. I, 03/07/2014, n. 577; TAR Friuli-Venezia Giulia, sez. I, 05/05/2014, n. 183).
5. Per completezza va aggiunto che gli art. 244, 245 e 253 d.lgs. n. 152 del 2006 vanno interpretati nel senso che, in caso di accertata contaminazione di un sito e d’impossibilità di individuarne il soggetto responsabile o di impossibilità di ottenere da quest'ultimo interventi di riparazione, il Ministero dell'ambiente non può imporre al proprietario non responsabile, che ha solo una responsabilità patrimoniale limitata al valore del sito dopo l'esecuzione degli interventi di bonifica, l'esecuzione delle misure di sicurezza d'emergenza e di bonifica (Consiglio di Stato ad. plen., 25/09/2013, n. 21).
6. Ne discende che sulla questione, ad avviso di questo Collegio, risulta decisiva la considerazione che la bonifica di un sito potenzialmente inquinante è una fattispecie diversa e distinta dal deposito di rifiuti, indipendentemente dalla causa.
Nell’atto impugnato non si parla affatto di responsabilità a titolo penale del Consorzio ricorrente, ma semplicemente di responsabilità a titolo di proprietario ancorché incolpevole; del resto si ordina al consorzio di procedere al piano di caratterizzazione, che costituisce un’indagine preliminare allo stesso accertamento della tipologia di rifiuti e di inquinamento.
7. Che l’inquinamento poi vi fosse non è lecito dubitare, visto che i parametri per quanto riguarda gli idrocarburi non risultano rispettati a seguito dell’ispezione avvenuta nel 2014, con l’intervento dell’ARPA regionale.
8. In sostanza, l’ordinanza si basa su due elementi non messi in discussione nel ricorso: il primo è che il consorzio industriale è e resta proprietario dell’area in questione, anche se non ne ha avuto in ogni momento la disponibilità. Il secondo elemento è che nel corso di un accertamento avvenuto ad opera di una struttura pubblica nel 2014 si è accertato il superamento di alcuni parametri di legge per quanto riguarda gli idrocarburi.
L’ordine impugnato in sostanza chiede solo un piano di caratterizzazione ed eventuali interventi ex articolo 242 del decreto legislativo 152 del 2006, limitatamente all’area in cui è stata accertata la presenza di un deposito di materiali o rifiuti nel corso del sopralluogo del marzo 2014 e solo nella misura che compete al proprietario incolpevole.
9. Invero, è il responsabile dell'inquinamento il soggetto sul quale gravano, ai sensi dell'art. 242 d.lgs. n. 152 del 2006, gli obblighi di messa in sicurezza, bonifica e ripristino ambientale a seguito della constatazione di uno stato di contaminazione, mentre il proprietario non responsabile è gravato solo di una specifica obbligazione di "facere" che riguarda, però, soltanto l'adozione delle misure di prevenzione (TAR Milano, (Lombardia), sez. IV, 13/01/2014, n. 108).
10. Per completezza va aggiunto che in tema di bonifica e ripristino ambientale di un terreno inquinato ai sensi dell'art. 242, comma 2 e seguenti, del d.lgs. n. 152 del 2006, nel caso di affitto del bene a terzi anche il proprietario resta responsabile allorché sia a conoscenza della pericolosità dell'attività svolta e dello stato d’inquinamento del sito, essendo ciò sufficiente a far sorgere un obbligo di attivarsi al fine di eliminare, nel più breve tempo possibile ed anche in assenza di intervento dell'autore dell'inquinamento, lo stato di contaminazione (TAR Venezia, (Veneto), sez. III, 28/10/2014, n. 1346).
11. La rimozione dei rifiuti viene ordinata nell’atto gravato solo in via eventuale quando a seguito dell’indagine risulti che è stata proprio la presenza dei rifiuti a causare la contaminazione.
12. Si tratta in sostanza per il Consorzio ricorrente di attuare tutte e sole le misure di prevenzione previste dall’articolo 242, quelle cioè poste a carico del proprietario indipendentemente da una sua responsabilità.
13. Tutte le disquisizioni contenute sia nel ricorso sia nelle memorie difensive relative alla mancanza di comunicazione tra i due enti pubblici risultano irrilevanti ai fini dell’esame della legittimità dell’atto impugnato. Quest’ultimo, come ripetuto più volte, trova la sua legittimità in due fatti obiettivi: l’accertamento di un inquinamento superiore ai limiti di legge avvenuto nel 2014 e la circostanza che l’area in cui tale versamento è avvenuto è di proprietà del consorzio ricorrente.
14. Ogni altro aspetto risulta importante per quanto riguarda le conseguenze penali o di responsabilità, ma non ai fini di valutare la legittimità dell’atto impugnato, che risulta pertanto immune dai vizi sollevati.
15. Il ricorso va quindi rigettato: di conseguenza non si può accogliere la domanda di risarcimento dei danni, tra l’altro formulata in modo del tutto generico (TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza 24.02.2016 n. 54 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Alcuni chiarimenti in relazione al MePA (Mercato Elettronico della Pubblica Amministrazione).
Il Mercato Elettronico della Pubblica Amministrazione (MePA) è un mercato digitale in cui l’amministrazione può acquistare beni e servizi- per valori inferiori alla soglia comunitaria- proposti dalle aziende fornitrici abilitate.
Il mercato elettronico presenta alcuni vantaggi rispetto alle gare tradizionali, quali la semplicità e la celerità delle procedure concorsuali, nonché la maggiore economicità consentendo di ampliare la platea dei fornitori, e riducendo, al contempo, i tempi e i costi della procedura concorsuale.

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Nella procedura MePA, con l’invio della propria offerta, il fornitore accetta tutte le condizioni particolari di contratto previste dal soggetto appaltatore, essendo obbligato ad attestare la conformità del prodotto offerto alle suddette condizioni mediante autocertificazione.
Avuto riguardo all’offerta presentata dalla ditta Mi. risulta che essa aveva precisato il numero di codice del proprio prodotto al fine di fornire i dati identificativi dello stesso ed aveva presentato autocertificazione della conformità dello stesso alle specifiche tecniche richieste.
Risultava quindi ultronea la presentazione della scheda tecnica particolareggiata del prodotto, essendo sufficiente l’autocertificazione della conformità del prodotto offerto alle specifiche tecniche.
Come in precedenza illustrato, il mercato elettronico della pubblica amministrazione è informato a obiettivi di semplificazione e celerità in un’ottica di superamento di tutti i profili formali che caratterizzano, viceversa, le procedure concorsuali tradizionali.
Di conseguenza, legittimamente l’amministrazione non ha escluso la società controinteressata per carenze documentali, rinvenendosi comunque la possibilità di verificare la conformità del prodotto alle specifiche tecniche.
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Il sistema MePA consente l’aggiudicazione definitiva in modo diretto, omettendo il passaggio dell’aggiudicazione provvisoria che non rappresenta, pertanto, una fase obbligata; naturalmente il sistema non impedisce all’amministrazione di effettuare le necessarie e dovute verifiche della congruità dell’offerta, del possesso dei requisiti dell’aggiudicataria e di quant’altro previsto dal codice dei contratti.
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Il ricorrente lamenta l’illegittimità per violazione di legge ed eccesso di potere sotto vari profili del comportamento della stazione appaltante che non ha effettuato le necessarie verifiche tecniche sulla fornitura del prodotto richiesto; censura inoltre il mancato annullamento della procedura medesima nell’esercizio dei poteri di autotutela, avuto riguardo ai poteri successivi alla verifica della congruità del prezzo.
In realtà l’amministrazione non avrebbe potuto agire in autotutela poiché il contratto era già stato stipulato con conseguente preclusione per l’amministrazione dell’uso dello strumento pubblicistico della revoca dell’aggiudicazione.
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Il ricorso è infondato e deve, pertanto, essere respinto.
Occorre premettere che il Mercato Elettronico della Pubblica Amministrazione (MePA) è un mercato digitale in cui l’amministrazione può acquistare beni e servizi- per valori inferiori alla soglia comunitaria- proposti dalle aziende fornitrici abilitate.
Il mercato elettronico presenta alcuni vantaggi rispetto alle gare tradizionali, quali la semplicità e la celerità delle procedure concorsuali, nonché la maggiore economicità consentendo di ampliare la platea dei fornitori, e riducendo, al contempo, i tempi e i costi della procedura concorsuale.
Nella procedura per cui è causa la stazione appaltante ha effettuato una richiesta di offerta (RDO), che consiste nella richiesta al fornitore di offerte personalizzate, allegando i documenti contenenti le specifiche condizioni richieste, nonché i criteri sulla base dei quali si intendono valutare le offerte.
Pervenivano le offerte di due sole società, la società ricorrente e la società controinteressata.
La prima presentava offerta al prezzo complessivo di euro 129.060,00 mentre la seconda presenta l’offerta al prezzo complessivo di euro 98.820,00, aggiudicandosi la gara.
Al fine di verificare la congruità dell’offerta l’amministrazione, esercitando la facoltà di cui all’articolo 86, comma 3, del decreto legislativo n. 163 del 2006, richiedeva puntuali giustificazioni delle voci di prezzo.
A seguito del puntuale riscontro delle richieste dell’amministrazione da parte della società aggiudicatrice e della presentazione della documentazione occorrente per effettuare le verifiche di cui all’articolo 38 del codice degli appalti, la stazione appaltante provvedeva all’aggiudicazione definitiva.
Con il primo motivo di ricorso l’istante denuncia la violazione e falsa applicazione del codice degli appalti, della legge n. 241 del 1990, dell’articolo 97 della Costituzione, nonché l’eccesso di potere sotto il profilo della violazione dei principi di parità di trattamento, non discriminazione, concorrenza tra gli operatori economici, e dei principi di imparzialità, logicità, efficienza, congruità, certezza dell’azione amministrativa e per insufficienza e carenza della motivazione.
Secondo il ricorrente l’amministrazione avrebbe illegittimamente aggiudicato nonostante la società controinteressata avesse omesso di allegare alla propria offerta la scheda tecnica dettagliata del prodotto, essendo questo il documento fondamentale per la completezza dell’offerta.
L’offerta sarebbe stata, quindi, carente degli elementi essenziali e la società avrebbe dovuto, pertanto, essere esclusa.
Con ulteriori motivi di ricorso l’istante denuncia la violazione e la falsa applicazione di legge nonché l’eccesso di potere sotto vari profili poiché la società controinteressata, in quanto società solamente commerciale, avrebbe falsamente dichiarato di non affidare alcune attività oggetto della presente gara in subappalto.
Tale mendace dichiarazione avrebbe inoltre impedito all’amministrazione di verificare la sussistenza dei requisiti richiesti dall’articolo 38 del decreto legislativo n. 163 del 2006 in capo al subappaltatore.
Infine il ricorrente lamenta la violazione di legge e l’eccesso di potere poiché l’amministrazione avrebbe proceduto direttamente all’aggiudicazione definitiva, omettendo il passaggio procedimentale dell’aggiudicazione provvisoria.
Infine si contesta la legittimità del rifiuto dell’amministrazione di annullare in autotutela l’aggiudicazione, come richiesto dalla società ricorrente.
Dagli atti di causa e dalle memorie difensive dell’amministrazione intimata e della controinteressata emerge la legittimità dell’operato dell’amministrazione appaltante.
Nella procedura in questione, infatti, con l’invio della propria offerta il fornitore accetta tutte le condizioni particolari di contratto previste dal soggetto appaltatore, essendo obbligato ad attestare la conformità del prodotto offerto alle suddette condizioni mediante autocertificazione.
Avuto riguardo all’offerta presentata dalla ditta Mi. risulta che essa aveva precisato il numero di codice del proprio prodotto al fine di fornire i dati identificativi dello stesso ed aveva presentato autocertificazione della conformità dello stesso alle specifiche tecniche richieste.
Risultava quindi ultronea la presentazione della scheda tecnica particolareggiata del prodotto, essendo sufficiente l’autocertificazione della conformità del prodotto offerto alle specifiche tecniche.
Come in precedenza illustrato, il mercato elettronico della pubblica amministrazione è informato a obiettivi di semplificazione e celerità in un’ottica di superamento di tutti i profili formali che caratterizzano, viceversa, le procedure concorsuali tradizionali.
Di conseguenza, legittimamente l’amministrazione non ha escluso la società controinteressata per carenze documentali, rinvenendosi comunque la possibilità di verificare la conformità del prodotto alle specifiche tecniche.
Del pari infondate sono le censure relative alla asserita falsità delle dichiarazioni rese dalla società controinteressata in ordine all’affidamento delle forniture in subappalto.
L’aggiudicatario, infatti, aveva attestato di avere quale oggetto sociale “la produzione e commercio internazionale sia all’ingrosso che al dettaglio di merci, prodotti ed accessori destinati all’abbigliamento, arredamento, casermaggio ed affini...”, dichiarando di poter fornire il prodotto richiesto. Peraltro il sistema MePA non richiede di indicare il nome del subappaltatore al momento della partecipazione alla RDO e non è, comunque, rinvenibile il divieto di acquisire prodotto da terzi; deve, quindi escludersi che la controinteressata abbia reso dichiarazioni mendaci che avrebbero dovuto determinare la sua esclusione.
Infine occorre evidenziare che il sistema MePA consente l’aggiudicazione definitiva in modo diretto, omettendo il passaggio dell’aggiudicazione provvisoria che non rappresenta, pertanto, una fase obbligata; naturalmente il sistema non impedisce all’amministrazione di effettuare le necessarie e dovute verifiche della congruità dell’offerta, del possesso dei requisiti dell’aggiudicataria e di quant’altro previsto dal codice dei contratti.
L’amministrazione ha, infatti, proceduto alla verifica della asserita anomalia dell’offerta, recependo le giustificazioni fornite dalla ditta controinteressata e ritenendo, quindi, il documento presentato completo e compatibile con il prezzo dell’offerta.
Passando all’esame di motivi aggiunti, notificati in data 01.04.2014, il Collegio ne rileva parimente l’infondatezza.
Il ricorrente lamenta l’illegittimità per violazione di legge ed eccesso di potere sotto vari profili del comportamento della stazione appaltante che non ha effettuato le necessarie verifiche tecniche sulla fornitura del prodotto richiesto; censura inoltre il mancato annullamento della procedura medesima nell’esercizio dei poteri di autotutela, avuto riguardo ai poteri successivi alla verifica della congruità del prezzo.
In realtà l’amministrazione non avrebbe potuto agire in autotutela poiché il contratto era già stato stipulato con conseguente preclusione per l’amministrazione dell’uso dello strumento pubblicistico della revoca dell’aggiudicazione (Adunanza Plenaria Consiglio di Stato, 20.06.2014 n. 14).
Quanto al primo profilo di censura, relativo alla mancata effettuazione delle verifiche suggerite dall’Ufficio Tecnico in sede di valutazione dell’anomalia dell’offerta, occorre evidenziare che non vi era alcun obbligo per l’amministrazione, dal momento che essa aveva effettuato i dovuti controlli, riguardo alle caratteristiche della merce fornita dall’aggiudicataria, in sede di collaudo (TAR Lazio-Roma, Sez. I-ter, sentenza 19.02.2016 n. 2199 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Secondo un costante insegnamento giurisprudenziale, l'effettivo inizio dei lavori può ritenersi sussistente quando le opere intraprese siano tali da evidenziare l'effettiva volontà del titolare di realizzare l'intervento assentito, tenuto conto della sua consistenza e, dunque, alla stregua di una valutazione in concreto.
E’ indubbiamente vero, come sostiene il Comune, sia nella motivazione del provvedimento impugnato che nelle memorie difensive, che a tal fine non è sufficiente il semplice sbancamento del terreno e la predisposizione degli strumenti e dei materiali di costruzione, in mancanza di altri indizi idonei a comprovare il reale proposito di proseguire i lavori sino alla loro ultimazione.
Tuttavia sempre la giurisprudenza amministrativa ha precisato che configura un inizio lavori lo sbancamento realizzato che si estenda su un’area di vaste dimensioni come accade nel caso di specie, tenuto conto del volume di terra movimentato, non contestato dal Comune, nonché dell’entità dello scavo realizzato, come comprovato dalla documentazione fotografica versata in atti.
Inoltre la giurisprudenza richiamata precisa che, in ogni caso, ai fini di un tale accertamento, occorre valorizzare ogni altro indizio idoneo a comprovare il reale proposito di dare avvio e proseguire i lavori sino alla loro ultimazione.
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La questione controversa verte in ordine alla idoneità o meno, a configurare un inizio dei lavori, delle opere di sbancamento e di avvio del cantiere pacificamente e tempestivamente realizzate dalla ricorrente nel biennio dalla sottoscrizione della convenzione.
Il Comune nega che vi sia stato un inizio concreto dell’attività costruttiva mancando persino il deposito dei calcoli sismici necessari a realizzare le fondamenta ed escludendo che possano giovare a tale fine mere attività di “sbancamento/decoticamento”, pacificamente poste in essere dalla ricorrente.
Assume invece la ricorrente che l’entità della sbancamento realizzato (pari a circa 6.033 metri cubi di terreno su una superficie complessiva pari a 3.540 mq), unitamente ad ulteriori attività di avvio del cantiere precisate in premessa (realizzazione dei lavori di protezione delle scarpate, della strada di accesso al piazzale, alla messa in sicurezza delle pareti libere di scavo, oltre che alla predisposizione dei calcoli delle gabbionate), debbano ritenersi idonei a configurare un inizio dei lavori.
La questione è oggettivamente opinabile e deve essere risolta attraverso una puntuale verifica in concreto circa le attività materiali poste in essere.
Sul punto occorre innanzitutto rammentare che secondo un costante insegnamento giurisprudenziale, l'effettivo inizio dei lavori può ritenersi sussistente quando le opere intraprese siano tali da evidenziare l'effettiva volontà del titolare di realizzare l'intervento assentito, tenuto conto della sua consistenza e, dunque, alla stregua di una valutazione in concreto.
E’ indubbiamente vero, come sostiene il Comune di Agnone, sia nella motivazione del provvedimento impugnato che nelle memorie difensive che a tal fine non è sufficiente il semplice sbancamento del terreno e la predisposizione degli strumenti e dei materiali di costruzione, in mancanza di altri indizi idonei a comprovare il reale proposito di proseguire i lavori sino alla loro ultimazione (Cons. Stato, IV, 27.04.2015 n. 2093; TAR Campania, Napoli, II, 09.07.2015 n. 3654; TAR Catania, II, 06.11.2015, n. 2585).
Tuttavia sempre la giurisprudenza amministrativa ha precisato che configura un inizio lavori lo sbancamento realizzato che si estenda su un’area di vaste dimensioni (Cons. Stato, V 15.07.2013, n. 3823; Cons. Stato, 2013, n. 4855; TAR Venezia, II, n. 299/2015) come accade nel caso di specie, tenuto conto del volume di terra movimentato, non contestato dal Comune, nonché dell’entità dello scavo realizzato, come comprovato dalla documentazione fotografica versata in atti.
Inoltre la giurisprudenza richiamata precisa che, in ogni caso, ai fini di un tale accertamento, occorre valorizzare ogni altro indizio idoneo a comprovare il reale proposito di dare avvio e proseguire i lavori sino alla loro ultimazione.
Il collegio ritiene di poter ravvisare tali indizi nelle seguenti circostanze:
- la tempestiva predisposizione nel 2002 di una relazione tecnica per fronteggiare le criticità geologiche emerse in seguito alle opere di sbancamento realizzate dal proprietario del lotto n. 2 posto a valle;
- le reiterate e documentate richieste rivolte dal ricorrente al proprietario del lotto n. 2 per ottenere la realizzazione del muro di contenimento tra i due lotti onde evitare possibili eventi franosi del terreno posto a monte e cioè del lotto n. 1;
- il coinvolgimento e l’interessamento dello stesso Comune di Agnone nella vicenda;
- le reiterate richieste di proroga della concessione edilizia n. 36/2001 ottenuta per la costruzione del capannone industriale, sempre concesse dal Comune di Agnone;
- la richiesta di proroga del termine quinquennale di efficacia della convenzione peraltro non riscontrata dal Comune; da ultimo, la proposizione nel 2011 di un’azione civile nei confronti del proprietario del lotto n. 2 per dirimere la problematica.
Si tratta di circostanze dalle quali è certamente possibile evincere la concreta e persistente volontà del ricorrente di realizzare i lavori previsti in convenzione ed autorizzati con concessione edilizia n. 36/2001.
Da quanto precede emerge dunque che v’è stato inizio dei lavori nel termine biennale dalla sottoscrizione della convenzione sicché, non ricorrendo la condizione di operatività della clausola risolutiva espressa specificamente azionata con il provvedimento impugnato (mancato inizio dei lavori nel termine biennale) il ricorso deve essere accolto.
Peraltro anche a voler accedere alla tesi del Comune di Agnone per cui, in fatto, non vi sarebbe stato avvio dei lavori, il ricorrente in giudizio ha comunque fornito ampia prova circa la non imputabilità del ritardo, avendo dimostrato mediante deposito di documentazione probante (stralcio relazione geologo Salzano) oltre che di una perizia di parte, la effettiva sussistenza di una problematica di carattere geologico –peraltro ben nota al Comune- tale da generare una situazione di effettivo e concreto pericolo in caso di edificazione del capannone in assenza della preventiva messa in sicurezza della zona di confine tra i due lotti.
Accedendo a tale prospettazione il ricorrente avrebbe comunque dimostrato la non imputabilità del ritardo nel rispetto del termine biennale, ai sensi e per gli effetti dell’art. 1218 c.c., in applicazione del canone generale sull’onere della prova che in materia contrattuale onera il debitore della prestazione della relativa dimostrazione di incolpevolezza.
E’ indubbiamente vero che il lungo lasso di tempo trascorso dalla assegnazione del lotto, ben tredici anni, imponeva all’Amministrazione comunale ogni sollecitudine possibile nella cura dell’interesse pubblico proprio per non vanificare le finalità pubblicistiche del p.i.p., tuttavia per le ragioni espresse, deve escludersi nel caso di specie la sussistenza dei presupposti in fatto ed in diritto per avvalersi della clausola risolutiva espressa in relazione allo specifico profilo di inadempimento dedotto.
Resta naturalmente fermo il potere in capo all’amministrazione di svolgere tutte le verifiche del caso necessarie ad accertare e, se del caso, a contestare, un inadempimento imputabile in relazione al mancato rispetto del termine quinquennale di conclusione dei lavori, anche in relazione alle possibili iniziative, concretamente esigibili, che il ricorrente avrebbe potuto assumere per evitare il protrarsi, per ben 13 anni, di una situazione di incertezza certamente pregiudizievole per le finalità di interesse pubblico comunque intrinseche alla causa della convenzione di acquisto del lotto.
In conclusione il ricorso dev’essere accolto con conseguente annullamento degli atti impugnati limitatamente alla posizione della ditta ricorrente. Si ravvisano tuttavia giustificate ragioni per disporre la compensazione delle spese del giudizio tra tutte le parti, stante la particolarità della vicenda in fatto (TAR Molise, sentenza 29.01.2016 n. 42 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 07.03.2016

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     Con l'AGGIORNAMENTO AL 28.08.2015, successivo a quello del 13.08.2015, abbiamo trattato nuovamente del seguente argomento: "Abuso edilizio, vincolo paesaggistico sopravvenuto e richiesta di sanatoria (ordinaria, ex art. 36 oppure 37 DPR n. 380/2001): occorre, o meno, presentare la richiesta di accertamento della compatibilità paesaggistica ex art. 167 d.lgs. 42/2004??"
     Ebbene, nell'attesa di avere lumi in alto loco siccome rappresentato tempo fa, abbiamo trovato un 4° pronunciamento del G.A. che conferma la necessità della richiesta di accertamento della compatibilità paesaggistica. Ecco il parere:

EDILIZIA PRIVATAGli atti repressivi di abusi edilizi commessi per di più in area vincolata, attesa la loro natura di atto dovuto, si configurano come “espressioni di attività vincolata non condizionata a specifica motivazione che nella fattispecie è in re ipsa”.
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Contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, non può non tenersi conto che l'intervento (abusivo) ricade in zona tutelata, anche se realizzato prima dell'istituzione del Parco.
Infatti, secondo il principio "tempus regit actum", riguardante la successione delle leggi nel tempo, la legittimità dell'atto amministrativo e/o di un intervento va verificata con riferimento alla disciplina normativa vigente rispettivamente al momento della sua emanazione e/o della sua approvazione".
La corretta applicazione del principio tempus regit actum, comporta, quindi, che legittimamente l'amministrazione abbia tenuto conto delle modifiche normative intervenute sia successivamente al momento della realizzazione delle opere, sia durante l'iter procedimentale successivo all'istanza, non potendo, al contrario, considerare l'assetto 'cristallizzato' alla data cui risale l'intervento o a quello dell'atto che ha dato avvio all'iter procedimentale.
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Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica proposto dal sig. Ma.Pi. avverso ordinanza di demolizione di opere e manufatti abusivi e di ripristino dello stato dei luoghi adottate dal Direttore del Parco Regionale della Valle del Lambro - Istanza di sospensiva.
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Il Ministero riferente nella relazione istruttoria del 29.01.2015 richiamata in epigrafe respinge le censure avanzate dal ricorrente ritenendole infondate e sottolinea preliminarmente che il provvedimento sanzionatorio impugnato costituisce atto dovuto nell’esercizio del potere-dovere di repressione di un abuso edilizio realizzato in zona vincolata e che a norma dell’art. 167 del codice dei beni culturali e del paesaggio (decreto legislativo n. 42/2004) in caso di violazione dello stesso codice il trasgressore è sempre obbligato al ripristino dello stato dei luoghi, come nel caso di specie, nel quale l’ordinanza del direttore del Parco regionale della Valle del Lambro è stata adottata proprio in applicazione di detta norma.
Lo stesso Dicastero ritiene poi non condivisibili le censure concernenti la mancata comunicazione dell’avvio del procedimento e di carenza motivazione dedotte nel gravame e a tal proposito richiama molteplici pronunce del Consiglio di Stato (ex multis Sezione VI sent. n. 1682 del 26.03.2013, Sez. IV sent. n. 734 del 17.02.2014) nonché il parere n. 3772/2933-2006 del 09.04.2008, con il quale questa Sezione ha avuto modo di affermare che gli atti repressivi di abusi edilizi commessi per di più in area vincolata, attesa la loro natura di atto dovuto, si configurano come “espressioni di attività vincolata non condizionata a specifica motivazione che nella fattispecie è in re ipsa”.
Soggiunge l’Amministrazione altresì testualmente quanto segue: “contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, non può non tenersi conto che l'intervento ricade in zona tutelata, anche se realizzato prima dell'istituzione del Parco. Infatti, secondo il principio "tempus regit actum", riguardante la successione delle leggi nel tempo, la legittimità dell'atto amministrativo e/o di un intervento va verificata con riferimento alla disciplina normativa vigente rispettivamente al momento della sua emanazione e/o della sua approvazione" (Cons. Stato, sez. VI, 29.03.2011, n. 1900; 12.10.2011, n. 5515; sez. IV, 09.02.2012, n. 693).
''La corretta applicazione del principio tempus regit actum, comporta, quindi, che legittimamente l'amministrazione abbia tenuto conto delle modifiche normative intervenute sia successivamente al momento della realizzazione delle opere, sia durante l'iter procedimentale successivo all'istanza, non potendo, al contrario, considerare l'assetto 'cristallizzato' alla data cui risale l'intervento o a quello dell'atto che ha dato avvio all'iter procedimentale" (Cons. Stato, sez. II, 18.01.2012, n. 3708/2011) (Consiglio di Stato, Sez. II, parere 25.02.2016 n. 529 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATAQuanto all’ambito di applicazione del richiamato art. 167, commi 4 e 5, questo Consiglio di Stato ritiene di dover ribadire quanto già affermato e cioè che:
- l’autorizzazione paesaggistica non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, delle opere (art. 146, comma 4, d.lgs. n. 42 del 2004), al di fuori dai casi tassativamente previsti dall’art. 167, commi 4 e 5;
- con tale scelta il legislatore ha inteso presidiare ulteriormente il regime delle opere incidenti su beni paesaggistici, escludendo in radice che l’esame di compatibilità paesistica possa essere postergato all’intervento realizzato (sine titulo o in difformità dal titolo rilasciato) e ciò al fine di escludere che possa riconnettersi al fatto compiuto qualsivoglia forma di legittimazione giuridica;
- in altri termini, il richiamato art. 167 del codice n. 42 del 2004, evidentemente in considerazione delle prassi applicative delle leggi succedutesi in materia di condoni e sanatorie (caratterizzate di regola dall’esercizio di poteri discrezionali delle autorità preposte alla tutela del vincolo paesaggistico), ha inteso tutelare più rigorosamente i beni sottoposti al medesimo vincolo, precludendo in radice ogni valutazione di compatibilità ex post delle opere abusive (tranne quelle tassativamente indicate nello stesso art. 167);
- ove le opere risultino diverse da quelle sanabili ed indicate nell’art. 167, le competenti autorità non possono che emanare un atto dal contenuto vincolato e, cioè, esprimersi nel senso della reiezione dell’istanza di sanatoria;
- l’unica eccezione a tale rigida prescrizione riguarda il caso in cui i lavori, pur se realizzati in assenza o difformità dell’autorizzazione paesaggistica, non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati;
- tenuto conto del testo e della ratio dell’art. 167, nella prospettiva della tutela del paesaggio non è rilevante la classificazione dei volumi edilizi, che si suole fare al fine di evidenziare la loro neutralità, sul piano del carico urbanistico, poiché le qualificazioni giuridiche rilevanti sotto il profilo urbanistico ed edilizio non hanno rilievo, quando si tratti di qualificare le opere sotto il profilo paesaggistico, sia quando si tratti della percezione visiva di volumi, a prescindere dalla loro destinazione d’uso, sia quando comunque si tratti di modificare un terreno o un edificio o il relativo sottosuolo.

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Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica proposto dalla SOCIETÀ “PA. DE LA SU.” s.r.l. e dalla SOCIETÀ RE. LA SU. s.r.l., in persona dei legali rapp.ti p.t., rispettivamente En.Ma.De. e Gi.Gu.Ri.Pa.Be., per l’annullamento, previa adozione di idonee misure cautelari, della determinazione del Responsabile del Servizio Tecnico del Comune di Casole d’Elsa dell’08.01.2013 n. 42, avente ad oggetto il diniego definitivo della richiesta di permesso di costruire in sanatoria; della comunicazione del diniego del Responsabile del Servizio Urbanistica ed Edilizia Privata prot. n. 173 dell'08.01.2013; della nota della Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici di Siena e Grosseto n. 16933 del 10.11.2011 e di ogni altro atto connesso, conseguente o presupposto.
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Il ricorso è, in parte, infondato, in parte, inammissibile.
Come dichiarato dalle stesse ricorrenti, l'area interessata dagli interventi edilizi descritti ricade all’interno della perimetrazione S.I.R. n. 89 “Montagnola Senese”, in zona sottoposta a vincolo ambientale paesaggistico ai sensi della parte III, Titolo I, del D.Lgs. 42/2004.
L'autorizzazione in ordine alla richiesta di permesso di costruire in sanatoria era, pertanto, subordinata al rilascio del prescritto parere da parte dell’Amministrazione preposta alla tutela del vincolo paesaggistico. Tale parere, avente natura giuridica di condizione ostativa e di presupposto indefettibile per la concessione edilizia in sanatoria, comporta una verifica da parte della Regione o dei comuni delegati e, in sede di controllo dal Ministero per i beni e le attività culturali, della compatibilità dell’intervento con gli interessi paesaggistici e ambientali dell’area sottoposta a tutela (Consiglio di Stato, Sez. II, 09.03.2011, n. 104/2011).
Nel caso di specie, la competente Soprintendenza ha ritenuto la richiesta delle società interessate improcedibile, rilevando, sulla base della documentazione esaminata, che sono stati realizzati interventi, che, contrariamente a quanto affermato dalle ricorrenti, hanno comportato degli incrementi di superficie utile e di volume. In quanto tali, i suddetti interventi non rientrano tra quelli per i quali, ai sensi dell'art. 167, comma 4, del D.Lgs. 42/2004, è possibile accertare la compatibilità paesaggistica in luogo della demolizione.
In altri termini, le citate circostanze precludevano, la possibilità per la Soprintendenza di esprimere un parere favorevole sulla compatibilità paesaggistica di detta opera, atteso che l’art. 167, comma 4, lettera a), del d.lgs. n. 42 del 2004 ammette la possibilità di sanare le opere realizzate su un'area vincolata paesaggisticamente, in assenza di titolo abilitativo, solamente qualora le stesse "non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati".
Quanto all’ambito di applicazione del richiamato art. 167, commi 4 e 5, questo Consiglio di Stato ritiene di dover ribadire quanto già affermato nella sentenza della Sezione VI, 24.09.2012, n. 5066/2012 (vds. anche Sez. VI, 20.06.2012 n. 3578), la quale ha osservato che:
- l’autorizzazione paesaggistica non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, delle opere (art. 146, comma 4, d.lgs. n. 42 del 2004), al di fuori dai casi tassativamente previsti dall’art. 167, commi 4 e 5;
- con tale scelta il legislatore ha inteso presidiare ulteriormente il regime delle opere incidenti su beni paesaggistici, escludendo in radice che l’esame di compatibilità paesistica possa essere postergato all’intervento realizzato (sine titulo o in difformità dal titolo rilasciato) e ciò al fine di escludere che possa riconnettersi al fatto compiuto qualsivoglia forma di legittimazione giuridica;
- in altri termini, il richiamato art. 167 del codice n. 42 del 2004, evidentemente in considerazione delle prassi applicative delle leggi succedutesi in materia di condoni e sanatorie (caratterizzate di regola dall’esercizio di poteri discrezionali delle autorità preposte alla tutela del vincolo paesaggistico), ha inteso tutelare più rigorosamente i beni sottoposti al medesimo vincolo, precludendo in radice ogni valutazione di compatibilità ex post delle opere abusive (tranne quelle tassativamente indicate nello stesso art. 167);
- ove le opere risultino diverse da quelle sanabili ed indicate nell’art. 167, le competenti autorità non possono che emanare un atto dal contenuto vincolato e, cioè, esprimersi nel senso della reiezione dell’istanza di sanatoria;
- l’unica eccezione a tale rigida prescrizione riguarda il caso in cui i lavori, pur se realizzati in assenza o difformità dell’autorizzazione paesaggistica, non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati;
- tenuto conto del testo e della ratio dell’art. 167, nella prospettiva della tutela del paesaggio non è rilevante la classificazione dei volumi edilizi, che si suole fare al fine di evidenziare la loro neutralità, sul piano del carico urbanistico, poiché le qualificazioni giuridiche rilevanti sotto il profilo urbanistico ed edilizio non hanno rilievo, quando si tratti di qualificare le opere sotto il profilo paesaggistico, sia quando si tratti della percezione visiva di volumi, a prescindere dalla loro destinazione d’uso, sia quando comunque si tratti di modificare un terreno o un edificio o il relativo sottosuolo
(Consiglio di Stato, Sez. II, parere 25.02.2016 n. 523 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza amministrativa è orientata a ritenere che la tutela del paesaggio è principio fondamentale della Costituzione (art. 9) ed ha carattere di preminenza rispetto agli altri beni giuridici che vengono in rilievo nella difesa del territorio, di tal che anche le previsioni degli strumenti urbanistici devono necessariamente coordinarsi con quelle sottese alla difesa paesaggistica.
La difesa del paesaggio si attua eminentemente a mezzo di misure di tipo conservativo, nel senso che la miglior tutela di un territorio qualificato sul piano paesaggistico è quella che garantisce la conservazione dei suoi tratti naturalistici, impedendo o riducendo al massimo quelle trasformazioni pressoché irreversibili del territorio propedeutiche all'attività edilizia Tali esigenze di tipo conservativo devono naturalmente contemperarsi, senza tuttavia mai recedere completamente, con quelle connesse allo sviluppo edilizio del territorio che sia consentito dalla disciplina urbanistica nonché con le aspettative dei proprietari dei terreni che mirano legittimamente a sfruttarne le potenzialità edificatorie.
E' proprio in relazione al difficile equilibrio tra tali contrapposti interessi che l'autorità preposta alla tutela del vincolo paesaggistico deve trovare, nei casi in cui la disciplina urbanistica consenta l'esercizio dello ius aedificandi, il giusto contemperamento nel rilasciare o denegare il necessario assenso al formarsi del titolo autorizzatorio secondo il modello procedimentale delineato nell'art. 146 del D.Lgs. n. 42 del 2004 (che, come noto, attribuisce oggi al Ministero dei beni e delle attività culturali, per il tramite delle locali Soprintendenze, un ruolo di cogestione attiva del vincolo paesaggistico, con la titolarità di penetranti poteri valutativi di merito).
Si tratta di valutazioni spesso connotate da elementi tecnico-discrezionali non sindacabili in sede giurisdizionale, se non per illogicità manifesta, per palese incongruità o inadeguatezza del provvedimento in rapporto alle sue finalità di protezione del territorio vincolato, ad evitare inammissibili sovrapposizioni del giudicante in ambiti che la legge ha voluto riservare alla amministrazione titolare del potere.
Orbene, con l'entrata in vigore, a regime (dal 01.01.2010), dell'art. 146 sulla disciplina autorizzatoria prevista dal Codice dei beni culturali e del paesaggio (D.Lgs. 22.01.2004 n. 42), la Soprintendenza si è ritrovata ad esercitare, non più un sindacato di mera legittimità (come previsto dall'art. 159 D.Lgs. n. 42 del 2004 nel regime transitorio vigente fino al 31.12.2009) sull'atto autorizzatorio di base adottato dalla Regione o dall'ente subdelegato, con il correlativo potere di annullamento ad estrema difesa del vincolo, ma una valutazione di "merito amministrativo", espressione dei nuovi poteri di cogestione del vincolo paesaggistico (art. 146 D.Lgs. n. 42 del 2004).
Pertanto, nel nuovo quadro normativo si giustifica una diversa e più penetrante valutazione, da parte della Soprintendenza, della compatibilità dell'intervento edilizio progettato con i valori paesaggistici compendiati nella richiamata disciplina vincolistica.
Come è stato adeguatamente osservato dalla giurisprudenza di merito, il parere in questione si caratterizza per l’esercizio di elevati margini di discrezionalità, volti ad esprimere un giudizio di valore su elementi per lo più estetici (ovvero la bellezza di un determinato contesto paesaggistico) che, inevitabilmente, subiscono la soggettività e la sensibilità del valutatore.
Di conseguenza, per evitare che il giudizio di compatibilità paesaggistica si trasformi nell'esercizio di un insindacabile arbitrio, risulta necessario fornire la più ampia e circostanziata motivazione, enunciando sia le premesse, che l'iter logico seguito nel percorso valutativo che si conclude con il giudizio finale.
In sostanza, neppure il parere della Soprintendenza sfugge all'onere motivazionale sancito dall'art. 3 L. n. 241 del 1990, per cui può affermarsi che l'espressione del parere demandato alla Soprintendenza deve contenere una compiuta esposizione delle ragioni logico giuridiche ostative all'inserimento della nuova opera nel contesto paesaggistico tutelato.
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L'onere motivazionale deve essere ancor più rafforzato laddove lo stato dei luoghi risulti già trasformato da un preesistente edificio che la parte privata intenda recuperare funzionalmente.
Rispetto a quest'ultima ipotesi, la giurisprudenza ha già chiarito che, nell'ipotesi di recupero di un vecchio fabbricato, "... l'esame (deve) appuntarsi sui tratti esteriori dell'edificio per verificare se e come, all'esito dell'intervento di recupero, il fabbricato possa risultare adeguatamente inserito nella cornice ambientale circostante, e tanto anche in comparazione ... alla percezione estetica che dello stesso possa trarsi nell'attualità, nelle condizioni di degrado in cui versa l'immobile. Ciò che dal parere negativo della soprintendenza non si ricava è, inoltre, qual tipo di accorgimento tecnico o, al limite, di modifica progettuale potrebbe far conseguire all'interessata l'autorizzazione paesaggistica, tenuto conto che l'area non è sottoposta a vincolo di inedificabilità, che l'intervento ha il pregio di proporre il recupero di un immobile ammalorato dal tempo e che la tutela del preminente valore del paesaggio non deve necessariamente coincidere con la sua statica salvaguardia, ma richiede al contrario interventi improntati a fattiva collaborazione delle autorità preposte alla tutela paesaggistica, funzionali a conformare le iniziative edilizie al rispetto dei valori estetici e naturalistici insiti nel bene paesaggio".
Ed infatti, in applicazione degli approdi giurisprudenziali citati ai punti che precedono, la Soprintendenza, oltre ad una puntuale individuazione del disvalore dell'opera con il contesto paesistico, è tenuta, in un'ottica di leale collaborazione a precisare "quale tipo di accorgimento tecnico o, al limite, di modifica progettuale" potrebbe far conseguire all'interessata l'autorizzazione paesaggistica, tenuto conto che l'area non è sottoposta a vincolo di inedificabilità, che l'intervento ha il pregio di proporre il recupero di un immobile ammalorato dal tempo e che "la tutela del preminente valore del paesaggio non deve necessariamente coincidere con la sua statica salvaguardia, ma richiede al contrario interventi improntati a fattiva collaborazione delle autorità preposte alla tutela paesaggistica, funzionali a conformare le iniziative edilizie al rispetto dei valori estetici e naturalistici insiti nel bene paesaggio".
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Tanto premesso può addivenirsi allo scrutinio della questione di merito.
Gioverà ricordare che la giurisprudenza amministrativa è orientata a ritenere che la tutela del paesaggio è principio fondamentale della Costituzione (art. 9) ed ha carattere di preminenza rispetto agli altri beni giuridici che vengono in rilievo nella difesa del territorio, di tal che anche le previsioni degli strumenti urbanistici devono necessariamente coordinarsi con quelle sottese alla difesa paesaggistica.
La difesa del paesaggio si attua eminentemente a mezzo di misure di tipo conservativo, nel senso che la miglior tutela di un territorio qualificato sul piano paesaggistico è quella che garantisce la conservazione dei suoi tratti naturalistici, impedendo o riducendo al massimo quelle trasformazioni pressoché irreversibili del territorio propedeutiche all'attività edilizia Tali esigenze di tipo conservativo devono naturalmente contemperarsi, senza tuttavia mai recedere completamente, con quelle connesse allo sviluppo edilizio del territorio che sia consentito dalla disciplina urbanistica nonché con le aspettative dei proprietari dei terreni che mirano legittimamente a sfruttarne le potenzialità edificatorie.
E' proprio in relazione al difficile equilibrio tra tali contrapposti interessi che l'autorità preposta alla tutela del vincolo paesaggistico deve trovare, nei casi in cui la disciplina urbanistica consenta l'esercizio dello ius aedificandi, il giusto contemperamento nel rilasciare o denegare il necessario assenso al formarsi del titolo autorizzatorio secondo il modello procedimentale delineato nell'art. 146 del D.Lgs. n. 42 del 2004 (che, come noto, attribuisce oggi al Ministero dei beni e delle attività culturali, per il tramite delle locali Soprintendenze, un ruolo di cogestione attiva del vincolo paesaggistico, con la titolarità di penetranti poteri valutativi di merito).
Si tratta di valutazioni spesso connotate da elementi tecnico-discrezionali non sindacabili in sede giurisdizionale, se non per illogicità manifesta, per palese incongruità o inadeguatezza del provvedimento in rapporto alle sue finalità di protezione del territorio vincolato, ad evitare inammissibili sovrapposizioni del giudicante in ambiti che la legge ha voluto riservare alla amministrazione titolare del potere.
Orbene, con l'entrata in vigore, a regime (dal 01.01.2010), dell'art. 146 sulla disciplina autorizzatoria prevista dal Codice dei beni culturali e del paesaggio (D.Lgs. 22.01.2004 n. 42), la Soprintendenza si è ritrovata ad esercitare, non più un sindacato di mera legittimità (come previsto dall'art. 159 D.Lgs. n. 42 del 2004 nel regime transitorio vigente fino al 31.12.2009) sull'atto autorizzatorio di base adottato dalla Regione o dall'ente subdelegato, con il correlativo potere di annullamento ad estrema difesa del vincolo (su cui Cons. Stato, Ad. plen., 14.12.2001, n. 9), ma una valutazione di "merito amministrativo", espressione dei nuovi poteri di cogestione del vincolo paesaggistico (art. 146 D.Lgs. n. 42 del 2004).
Pertanto, nel nuovo quadro normativo si giustifica una diversa e più penetrante valutazione, da parte della Soprintendenza, della compatibilità dell'intervento edilizio progettato con i valori paesaggistici compendiati nella richiamata disciplina vincolistica.
Come è stato adeguatamente osservato dalla giurisprudenza di merito, il parere in questione si caratterizza per l’esercizio di elevati margini di discrezionalità, volti ad esprimere un giudizio di valore su elementi per lo più estetici (ovvero la bellezza di un determinato contesto paesaggistico) che, inevitabilmente, subiscono la soggettività e la sensibilità del valutatore.
Di conseguenza, per evitare che il giudizio di compatibilità paesaggistica si trasformi nell'esercizio di un insindacabile arbitrio, risulta necessario fornire la più ampia e circostanziata motivazione, enunciando sia le premesse, che l'iter logico seguito nel percorso valutativo che si conclude con il giudizio finale.
In sostanza, neppure il parere della Soprintendenza sfugge all'onere motivazionale sancito dall'art. 3 L. n. 241 del 1990, per cui può affermarsi che l'espressione del parere demandato alla Soprintendenza deve contenere una compiuta esposizione delle ragioni logico giuridiche ostative all'inserimento della nuova opera nel contesto paesaggistico tutelato (TAR Salerno, Sez. I, n. 313 del 2015).
Onere motivazionale ancor più rafforzato laddove, come nel caso di specie, lo stato dei luoghi risulti già trasformato da un preesistente edificio che la parte privata intenda recuperare funzionalmente.
Rispetto a quest'ultima ipotesi, la giurisprudenza ha già chiarito -e da tale percorso il Collegio non intende decampare- che, nell'ipotesi di recupero di un vecchio fabbricato, "... l'esame (deve) appuntarsi sui tratti esteriori dell'edificio per verificare se e come, all'esito dell'intervento di recupero, il fabbricato possa risultare adeguatamente inserito nella cornice ambientale circostante, e tanto anche in comparazione ... alla percezione estetica che dello stesso possa trarsi nell'attualità, nelle condizioni di degrado in cui versa l'immobile. Ciò che dal parere negativo della soprintendenza non si ricava è, inoltre, qual tipo di accorgimento tecnico o, al limite, di modifica progettuale potrebbe far conseguire all'interessata l'autorizzazione paesaggistica, tenuto conto che l'area non è sottoposta a vincolo di inedificabilità, che l'intervento ha il pregio di proporre il recupero di un immobile ammalorato dal tempo e che la tutela del preminente valore del paesaggio non deve necessariamente coincidere con la sua statica salvaguardia, ma richiede al contrario interventi improntati a fattiva collaborazione delle autorità preposte alla tutela paesaggistica, funzionali a conformare le iniziative edilizie al rispetto dei valori estetici e naturalistici insiti nel bene paesaggio" (Cons. St. n. 1418 del 2014).
Trasponendo le menzionate acquisizioni giurisprudenziali al caso in esame, deve convenirsi che il parere, oltre a rimarcare la carenza di documentazione nonché la carenza di elementi utili ad evidenziare la conformità dell'intervento alla normativa del Parco Nazionale del Cilento e Vallo di Diano, risulta, altresì carente in ordine alle ragioni per le quali il progettato intervento finirebbe per alterare la fruibilità estetica dei luoghi, indulgendo in notazioni del tutto generiche e stereotipate.
Trattasi all'evidenza di una motivazione sostanzialmente apparente, poiché non individua, da una parte, quali siano le effettive caratteristiche del paesaggio tutelato che si intende salvaguardare e, dall'altra, quali siano le effettive caratteristiche del progetto le cui ricadute si porrebbero in stridente contrasto con le prime, tanto più che trattasi di intervento di riparazione della copertura con rifacimento dell’intonaco esterno la cui capacità innovativa dello status quo nemmeno risulta immediatamente percepibile. Ma ciò che più rileva è la palese pretermissione di ogni tipo di indicazione utile a far conseguire all'interessato il bene della vita.
Ed infatti, in applicazione degli approdi giurisprudenziali citati ai punti che precedono, la Soprintendenza, oltre ad una puntuale individuazione del disvalore dell'opera con il contesto paesistico, è tenuta, in un'ottica di leale collaborazione a precisare "quale tipo di accorgimento tecnico o, al limite, di modifica progettuale" potrebbe far conseguire all'interessata l'autorizzazione paesaggistica, tenuto conto che l'area non è sottoposta a vincolo di inedificabilità, che l'intervento ha il pregio di proporre il recupero di un immobile ammalorato dal tempo e che "la tutela del preminente valore del paesaggio non deve necessariamente coincidere con la sua statica salvaguardia, ma richiede al contrario interventi improntati a fattiva collaborazione delle autorità preposte alla tutela paesaggistica, funzionali a conformare le iniziative edilizie al rispetto dei valori estetici e naturalistici insiti nel bene paesaggio" (Cons. St. Sez. V n. 1418/2014).
Nemmeno il profilo motivazionale afferente alla indimostrata liceità dell’edificio è in grado di suffragare adeguatamente l’impugnato parere, in quanto, pur dovendosi rilevare che l’assentibilità paesaggistica di un intervento edilizio postula la sua liceità urbanistica (invero sarebbe inutiliter datum un nulla osta paesaggistico rispetto ad un manufatto abusivo), accede ad una disamina della documentazione acquisita dall’esito incerto e perplesso, tanto da prendere atto, conclusivamente, della impossibilità di effettuare “una valutazione compiuta della pratica”. Tanto avrebbe senz’altro giustificato un ulteriore approfondimento istruttorio, anche in considerazione della duplice attestazione, proveniente dagli uffici comunali, circa la conformità del manufatto ai titoli rilasciati.
Per tutte le suesposte ragioni, il parere deve essere annullato al fine di consentire quella fase collaborativa che, nella specie, appare deficitaria.
Pertanto, ed in esecuzione della presente sentenza, la competente Soprintendenza provvederà a riattivare, in collaborazione con il Comune di Controne e con spirito di leale interlocuzione con la parte privata, il procedimento funzionale alla formulazione del prescritto parere, facendo in modo di ben evidenziare l’iter logico della sua definitiva espressione di volontà in ordine all'intervento, nei limiti delle sue attribuzioni e con l'esplicita e dettagliata indicazione delle condizioni alla cui ricorrenza il parere di compatibilità paesaggistica potrà essere rilasciato.
In conformità alle considerazioni che precedono, il ricorso si presta, quindi, a essere accolto, con conseguente annullamento del provvedimento impugnato
(TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 13.01.2016 n. 23 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’art. 142 d.lgs. 22.01.2004 n. 42, nella parte in cui dispone che "sono comunque di interesse paesaggistico e sono sottoposti alle disposizioni di questo titolo... i fiumi, i torrenti, i corsi d'acqua iscritti negli elenchi previsti dal r.d. 11.12.1933 n. 1775, e le relative sponde o piedi degli argini per una fascia di 150 metri", va interpretato nel senso che solo per le acque fluenti di minori dimensioni ed importanza, vale a dire per i corsi d'acqua che non sono né fiumi né torrenti, si impone, ai fini della loro rilevanza paesaggistica, la iscrizione negli elenchi delle acque pubbliche.
Quanto ai fiumi e torrenti, il requisito della pubblicità esiste di per sé ed anche il vincolo paesaggistico è imposto "ex lege" senza necessità di iscrizione negli elenchi.
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Per quanto riguarda il valore delle carte dell'Istituto Geografico Militare (che peraltro riporta graficamente il corso d’acqua in questione pur senza denominazione), vale invece l’insegnamento del Supremo Consesso di G.A..
Invero, osserva l’autorevole Collegio che l’ufficialità attribuita dall'ordinamento alla cartografia dell'I.G.M. implica soltanto che ad essa debba farsi riferimento tutte le volte in cui occorra adottare provvedimenti o compiere atti che abbiano a proprio presupposto o a propria sfera di efficacia l'articolazione territoriale interna dello Stato.

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Il ricorso è infondato.
1. Assumono preliminare rilievo, sul piano logico-argomentativo, i mezzi di gravame articolati ai punti sub 2) e 3), per il loro tenore suscettibili di trattazione congiunta, con i quali il Comune istante lamenta l’insussistenza del vincolo paesaggistico alla luce delle caratteristiche del corso d’acqua denominato “Cancito”, lungo le cui sponde, al momento del ricorso, è in corso di esecuzione l’intervento su descritto.
A tal riguardo, si osserva in ricorso, mediante deduzioni corroborate dalla produzione di documentata relazione tecnica, che il “Cancito” non sarebbe né un torrente, né un corso d’acqua iscritto negli elenchi previsto dal testo unico delle disposizioni di legge sulle acque ed impianti elettrici, approvato con regio decreto 11.12.1933, n. 1775. La fascia di 150 metri dalle sue sponde, quindi, non sarebbe assoggettata a vincolo di tutela, come invece si afferma dalla Soprintendenza elevando tale circostanza a presupposto della contestata determinazione.
Giunge a tali conclusioni il ricorrente evidenziando che il provvedimento impugnato richiama il parere del Genio Civile di Salerno (prot. n. 2014.0604087 del 12.09.2014), che, a sua volta incorrendo in illegittimità, si fonderebbe sulle sole risultanze catastali, le cui mappe riportano il Cancito come torrente, così trascurando la mancata indicazione dello stesso nella cartografia ufficiale IGM, dalla pretesa valenza dirimente.
Dalla disamina del provvedimento impugnato, nelle sue testuali articolazioni motivazionali, invero risulta che l’Autorità Soprintendentizia ha posto a fondamento della sua determinazione il contributo consultivo del Genio Civile di Salerno versato nella nota su distinta, nella quale si rileva, dopo aver evidenziato il carattere decisivo delle indicazioni riportate sui fogli di mappa catastali di impianto, che <<sul foglio di mappa catastale n. 32 del Comune di Castelcivita, la cui redazione risale agli anni tra il 1897 e il 1904, il corso d’acqua denominato Cancito è riportato come “Torrente”. Stessa denominazione è riportata anche sul foglio 31>>.
E’ inoltre versata in atti copia, non in scala, del citato foglio n. 32, che appunto riporta il tracciato del Cancito con la esatta denominazione di “Torrente”. La circostanza, del tutto pacifica tra le parti, della mancata indicazione di tale corso d’acqua negli elenchi delle acque pubbliche non è ex se decisiva.
Questo Tribunale (TAR Salerno, sez. II, 18.07.2008, n. 2172) ha infatti già avuto modo di osservare che “l’art. 142 d.lgs. 22.01.2004 n. 42, nella parte in cui dispone che "sono comunque di interesse paesaggistico e sono sottoposti alle disposizioni di questo titolo... i fiumi, i torrenti, i corsi d'acqua iscritti negli elenchi previsti dal r.d. 11.12.1933 n. 1775, e le relative sponde o piedi degli argini per una fascia di 150 metri", va interpretato nel senso che solo per le acque fluenti di minori dimensioni ed importanza, vale a dire per i corsi d'acqua che non sono né fiumi né torrenti, si impone, ai fini della loro rilevanza paesaggistica, la iscrizione negli elenchi delle acque pubbliche. Quanto ai fiumi e torrenti, il requisito della pubblicità esiste di per sé ed anche il vincolo paesaggistico è imposto "ex lege" senza necessità di iscrizione negli elenchi”.
La soluzione della questione agitata in ricorso impone innanzitutto di assegnare il giusto rilievo alla cartografia IGM. Ebbene, il Collegio non condivide quanto prospettato dal ricorrente a proposito del carattere decisivo della mancata iscrizione del Cancito nella cartografia IGM (Istituto Geografico Militare), non essendo tale assunto suffragato da alcun preciso riferimento normativo.
Per quanto riguarda il valore delle carte dell'Istituto Geografico Militare (che peraltro riporta graficamente il corso d’acqua in questione pur senza denominazione), vale invece l’insegnamento del Supremo Consesso di G.A., espresso già con il parere del 07.03.1980. Invero, osserva l’autorevole Collegio che l’ufficialità attribuita dall'ordinamento alla cartografia dell'I.G.M. implica soltanto che ad essa debba farsi riferimento tutte le volte in cui occorra adottare provvedimenti o compiere atti che abbiano a proprio presupposto o a propria sfera di efficacia l'articolazione territoriale interna dello Stato (Consiglio di Stato, sez. IV, 23.10.1998, n. 1361).
Assume invece rilievo, a contrario, la denominazione di torrente riportata nella planimetria catastale, cioè relativa al primo deposito presso l'archivio del Catasto e risalente, nel caso di specie, “agli anni tra il 1897 e il 1904” (v. parere Genio Civile di Salerno prot. 2014.0604087 del 12/09/2014) a sua volta qualificabile come atto ufficiale, come evidenziato dal Genio Civile di Salerno nel suo contributo istruttorio.
Va sul punto sottolineato che l’Amministrazione del Catasto e dei Servizi Tecnici Erariali (divenuta Agenzia del Territorio) è qualificato, dalla legge 02.02.1960, n. 68 (“Norme sulla cartografia ufficiale dello Stato…”), uno degli organi cartografici dello Stato (v. art. 1); ne consegue –ritenendo il Collegio di rimeditare il diverso orientamento espresso dalla Sezione con la sentenza n. 2594/2013 del 20.12.2013, valorizzata da parte ricorrente– che i rilievi catastali non possono non assurgere al rango di documento ufficiale attestante la qualità di un corso d’acqua non compreso nei relativi elenchi.
Non va ad ogni modo trascurato che lo stesso Ente locale ha riconosciuto la rilevanza paesaggistica delle aree spondali del Cancito, come nel caso dell’intervento di sistemazione idraulica ed idrogeologica, finanziato da risorse comunitarie del FEOGA e dallo SPOF con la Misura 3.1., in cui espressamente si qualifica il corso d’acqua in questione come “Torrente”.
Medesima qualificazione si rinviene sia nel PRG sia nella documentazione preliminare del PUC del Comune di Castelcivita. Tanto è sufficiente al fine di ritenere l’area, ai sensi dell’art. 142, lett. c), del D.Lgs. n. 42/2004, è sottoposta a vincolo paesaggistico, non potendosi accedere alla verifica dell’esatto stato dei luoghi, come auspicato in ricorso, al fine di stabilire se si tratti di un semplice scolo, in presenza di una denominazione come torrente avente, come detto, il crisma dell’ufficialità. I motivi in esame sono quindi infondati.
2. Nemmeno coglie nel segno il primo motivo, col quale parte ricorrente lamenta che l’intervento sarebbe irrilevante sul piano paesaggistico per essere di natura meramente manutentiva, in quanto, come emerge dalla relazione descrittiva dei lavori in progetto, esso prevede il completamento dell’impianto di depurazione, da tempo inutilizzato, con la realizzazione ex novo di di n. 2 vasche, di cui una sola completamente interrata, e di un locale tecnologico di mq. 21,60.
Tali opere, per la loro complessiva consistenza anche volumetrica e per la loro stessa finalità, appaiono in grado di alterare lo stato dei luoghi e pertanto sono meritevoli di essere portati all’attenzione dell’autorità competente in subiecta materia. Né la misura appare sproporzionata o comunque incurante della destinazione delle opere a beneficio della collettività, trattandosi di un impianto di depurazione, perché esattamente contemplata, come di seguito si dirà, dal sistema ordinamentale a tutela del valore, di pregio costituzionale, del paesaggio.
Anche il motivo in esame è quindi da respingere (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 13.01.2016 n. 22 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALe circolari costituiscono criteri di riferimento interpretativo a carattere interno finalizzate a garantire un’uniforme applicazione delle norme di legge, risultando tuttavia quasi pleonastico evidenziare che la circolare interpretativa non possa legittimare l’inosservanza di principi direttamente e chiaramente stabiliti dalla legge, dovendosi conseguentemente disattendere le circolari sulla base del principio di prevalenza del dettato legislativo.
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E' di tutta evidenza come la circolare MIBAC n. 33 del 26.06.2009 non possa integrare, in maniera vincolante, il precetto, di cui all’art. 167, comma 4, del d.l.vo 42/2004 (“L’autorità amministrativa competente accerta la compatibilità paesaggistica, secondo le procedure di cui al comma 5, nei seguenti casi: a) per i lavori, realizzati in assenza o difformità dall’autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati (…)”), stabilendo il predetto limite quantitativo, impeditivo, in linea generale, della favorevole conclusione del procedimento di autorizzazione paesaggistica postuma, laddove l’esito del procedimento de quo non può che essere frutto di una valutazione caso per caso, ben potendo anche un modesto scostamento, rispetto a tale limite percentuale massimo, risultare compatibile con la generale sanabilità di pensiline e tettoie, del genere di quella in oggetto, aperte su tre lati e legate da vincolo di pertinenzialità, rispetto all’edificio cui accedono, giusta la giurisprudenza prevalente: “La sostanziale identità delle nozioni di tettoia e pensilina ricavabile dalle medesime finalità di arredo, riparo o protezione anche dagli agenti atmosferici, determina la necessità del permesso di costruire nel casi in cui sia da escludere la natura precaria o pertinenziale dell’intervento”.
In sostanza, la circolare di cui sopra, per rispettare il dettato legislativo, va interpretata nel senso che l’indicazione del predetto limite del 25% vale unicamente come individuazione di un valore percentuale di massima, il cui eventuale superamento non impedisce, automaticamente e necessariamente, la sanabilità degli abusi cd. minori, dovendo la decisione, circa l’esito del relativo procedimento, dipendere da una valutazione, che si cali nel caso specifico, valutando il concreto impatto, sul paesaggio, delle opere realizzate (nella specie, di natura pertinenziale, quanto alla casistica delle tettoie –o pensiline– aperte su tre lati).

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Il ricorso è fondato.
Secondo la giurisprudenza: “Le circolari costituiscono criteri di riferimento interpretativo a carattere interno finalizzate a garantire un’uniforme applicazione delle norme di legge, risultando tuttavia quasi pleonastico evidenziare che la circolare interpretativa non possa legittimare l’inosservanza di principi direttamente e chiaramente stabiliti dalla legge, dovendosi conseguentemente disattendere le circolari sulla base del principio di prevalenza del dettato legislativo” (TAR Bari, (Puglia), Sez. II, 14/09/2012, n. 1660).
Nella specie, il gravato diniego s’è fondato unicamente sul superamento, da parte della pensilina realizzata dalla ricorrente, del limite massimo del 25%, fissato dalla circolare del Segretario Generale del Mi.B.A.C., n. 33 del 26.06.2009 (punto 2: “per “superfici utili”, si intende “qualsiasi superficie utile, qualunque sia la sua destinazione. Sono ammesse le logge e i balconi nonché i portici, collegati al fabbricato, aperti su tre lati contenuti entro il 25% dell’area di sedime del fabbricato stesso”).
Orbene, è di tutta evidenza come la circolare di cui sopra non possa integrare, in maniera vincolante, il precetto, di cui all’art. 167, comma 4, del d.l.vo 42/2004 (“L’autorità amministrativa competente accerta la compatibilità paesaggistica, secondo le procedure di cui al comma 5, nei seguenti casi: a) per i lavori, realizzati in assenza o difformità dall’autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati (…)”), stabilendo il predetto limite quantitativo, impeditivo, in linea generale, della favorevole conclusione del procedimento di autorizzazione paesaggistica postuma, laddove l’esito del procedimento de quo non può che essere frutto di una valutazione caso per caso, ben potendo anche un modesto scostamento, rispetto a tale limite percentuale massimo, risultare compatibile con la generale sanabilità di pensiline e tettoie, del genere di quella in oggetto, aperte su tre lati e legate da vincolo di pertinenzialità, rispetto all’edificio cui accedono, giusta la giurisprudenza prevalente: “La sostanziale identità delle nozioni di tettoia e pensilina ricavabile dalle medesime finalità di arredo, riparo o protezione anche dagli agenti atmosferici, determina la necessità del permesso di costruire nel casi in cui sia da escludere la natura precaria o pertinenziale dell’intervento” (Cassazione penale, Sez. Fer., 07/09/2011, n. 33267).
In sostanza, la circolare di cui sopra, per rispettare il dettato legislativo, va interpretata nel senso che l’indicazione del predetto limite del 25% vale unicamente come individuazione di un valore percentuale di massima, il cui eventuale superamento non impedisce, automaticamente e necessariamente, la sanabilità degli abusi cd. minori, dovendo la decisione, circa l’esito del relativo procedimento, dipendere da una valutazione, che si cali nel caso specifico, valutando il concreto impatto, sul paesaggio, delle opere realizzate (nella specie, di natura pertinenziale, quanto alla casistica delle tettoie –o pensiline– aperte su tre lati) (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 13.01.2016 n. 17 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

ATTI AMMINISTRATIVIIl funzionario che riceve la richiesta di ostensione deve essere posto in condizioni di poter accertare con sicurezza l'imputazione della stessa al fine di poter verificare la sussistenza dell'interesse all'ostensione; pertanto l'istanza deve provenire dal diretto interessato o da soggetto che possa spenderne il nome.
Ne discende che, nel caso in cui l'istanza di accesso sia formulata dal difensore, è necessario che la stessa o sia sottoscritta anche dal diretto interessato, e in tal caso allo stesso se ne imputa la provenienza, ovvero che l'istanza sia accompagnata dal mandato al difensore, che acquisisce in tal modo il potere di avanzare la stessa in luogo dell'interessato, mentre in mancanza di sottoscrizione congiunta o di atto procuratorio l'istanza deve considerarsi inammissibile e con essa il ricorso avverso il silenzio dell'Amministrazione.

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... per l'annullamento del silenzio–rigetto serbato dall’Azienda intimata sull’istanza di accesso agli atti notificata all’ASL di Caserta in data 11.08.2015.
...
Di contro, è stato efficacemente evidenziato in giurisprudenza che il funzionario che riceve la richiesta di ostensione deve essere posto in condizioni di poter accertare con sicurezza l'imputazione della stessa al fine di poter verificare la sussistenza dell'interesse all'ostensione; pertanto l'istanza deve provenire dal diretto interessato o da soggetto che possa spenderne il nome.
Ne discende che, nel caso in cui l'istanza di accesso sia formulata dal difensore, è necessario che la stessa o sia sottoscritta anche dal diretto interessato, e in tal caso allo stesso se ne imputa la provenienza, ovvero che l'istanza sia accompagnata dal mandato al difensore, che acquisisce in tal modo il potere di avanzare la stessa in luogo dell'interessato, mentre in mancanza di sottoscrizione congiunta o di atto procuratorio l'istanza deve considerarsi inammissibile e con essa il ricorso avverso il silenzio dell'Amministrazione (C.d.S., sez. V, 30.09.2013, n. 4839; C.d.S., Sez. V, 05.09.2006, n. 5116; TAR Cagliari, (Sardegna), sez. II, 12/06/2015, n. 860; TAR Campania, Napoli, sez. V, 09.03.2009, n. 1331; TAR Lazio, sez. III, 02.07.2008, n. 6365; TAR Latina Lazio, Sez. I, 13.11.2007; TAR Napoli, Sez. V, 24.11.2008, n. 19980) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 18.02.2016 n. 907 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALo svolgimento dell’attività propria di un’associazione culturale –di carattere ricreativo o formativo, non disgiunto magari da momenti di preghiera– non appare compatibile con la destinazione a laboratorio industriale propria dei locali di cui è causa.
L’art. 23-bis del DPR 380/2001 individua una serie di categorie funzionali autonome e il passaggio dall’una all’altra –anche senza opere edilizie– configura un mutamento di destinazione d’uso rilevante sotto il profilo urbanistico.
Orbene, la categoria “produttiva e direzionale” di cui alla lettera b) del comma 1 dell’articolo citato, nella quale può comprendersi quella a laboratorio industriale, non può consentire attività culturali e formative –in senso lato– che l’associazione asserisce di svolgere.
Anche prima del citato art. 23-bis, del resto, sulla questione del mutamento di destinazione d’uso fra categorie urbanistiche autonome, la giurisprudenza della scrivente Sezione II, a partire dalla sentenza 27.05.2009, n. 3859, fino alle più recenti decisioni, ha ribadito la rilevanza sotto il profilo urbanistico di tale mutamento, che se realizzato senza idoneo titolo edilizio deve senza dubbio reputarsi contra legem.
A tali pronunce, si aggiungano:
- Consiglio di Stato, sez. IV, 30.09.2014, n. 4483, che subordina al pagamento del contributo i cambi di destinazione d’uso –anche senza opere edilizie– fra le distinte categorie di cui ai commi primo e secondo dell’art. 19 del DPR 380/2001 (rispettivamente industriali e artigianali da una parte e turistiche, commerciali, direzionali o per servizi dall’altra);
- Consiglio di Stato, sez. VI, 18.04.2013, n. 2153; TAR Lazio, sez. I-quater, 04.10.2012, n. 8297 e TAR Campania, Napoli, sez. VII, 12.07.2012, n. 3382, per la quale il cambio di destinazione d’uso che comporta un aumento di superficie anche in conseguenza della trasformazione da non residenziale a residenziale, è soggetto a permesso di costruire; oltre a TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 06.05.2014, n. 468, per la quale la manutenzione straordinaria è attività limitata al rinnovamento ed alla sostituzione di parti dell’edificio, mentre in caso di trasformazione dell’immobile con incremento del carico urbanistico la figura corretta per l’inquadramento dell’attività edilizia è quella della ristrutturazione, con necessità del relativo titolo.
Di conseguenza, appare incontestato l’avvenuto mutamento di destinazione d’uso, da quello industriale ad altro di carattere culturale e ricreativo (poco importa se accompagnato da momenti di preghiera da parte di chi accede ai locali).
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La ricorrente afferma nuovamente di non svolgere attività di culto, evidenziando che eventuali manifestazioni occasionali di preghiera non consentono di qualificare il locale come adibito al culto islamico.
Anche tale censura è però priva di pregio: quel che rileva nella presente fattispecie è che i locali di cui è causa –che dovrebbero essere impiegati esclusivamente a laboratorio industriale– sono invece caratterizzati da un notevole afflusso di persone svolgenti attività sicuramente varie (incontri, mostre, lezioni di lingua araba e italiana e anche eventuali occasioni di preghiera), ma in ogni modo non riconducibili, neppure con il più ampio sforzo, all’attività industriale e produttiva.
A questo punto, il richiamo ai principi costituzionali sulla libertà religiosa non appare pertinente, in quanto –lo si ripete nuovamente– non è certamente in discussione la libertà religiosa della comunità mussulmana di Cinisello Balsamo, come quella di altre comunità, ma si impone esclusivamente il rispetto della destinazione d’uso urbanistica dei locali.

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... per l'annullamento dell'ordinanza n. 143 (rectius: 173) del 02.07.2014 prot. n. 41253 del 03.07.2014 a firma del Dirigente del Servizio edilizia privata del Comune di Cinisello Balsamo, nonché di ogni altro atto della procedura, anche non noto, antecedente, conseguente o connesso.
...
FATTO
Con ordinanza n. 173 del 02.07.2014, a firma del Dirigente del Settore Servizi al Territorio, il Comune di Cinisello Balsamo (MI), ingiungeva alla società F.E. Srl quale proprietaria e all’associazione “Comunità Islamica di Cinisello Balsamo” quale locataria (di seguito, per brevità, anche solo “associazione”), il ripristino dello stato dei luoghi e della destinazione d’uso assentita, con riguardo ad abusi edilizi che sarebbero stati commessi sull’immobile sito in via ... n. 11.
Contro l’ordinanza succitata era proposto il presente ricorso, con domanda di sospensiva, per i motivi che possono così essere sintetizzati:
1) carenza di istruttoria in merito alla ritenuta sussistenza del mutamento della destinazione d’uso da industriale a luogo di culto;
2) violazione dell’art. 19 della Costituzione e violazione e falsa applicazione dell’art. 52, comma 3-bis, della LR 12/2005;
3) eccesso di potere sotto il profilo del travisamento dei fatti in merito alla ritenuta sussistenza del mutamento di destinazione d’uso da industriale e luogo di culto, violazione dell’art. 70, comma 2, e 71 della LR 12/2005;
4) eccesso di potere per manifesta illogicità della motivazione, difetto assoluto di motivazione in merito alla correlazione tra il presunto mutamento della destinazione d’uso a luogo di culto e la non realizzazione della rampa interna di accesso al piano rialzato o il frazionamento immobiliare dell’originario edificio, difetto di istruttoria e travisamento dei fatti, violazione e falsa applicazione dell’art. 33 del DPR 380/2001;
5) eccesso di potere per difetto di motivazione e omessa istruttoria, violazione degli articoli 2 e 18 della Costituzione.
Si costituiva in giudizio il Comune intimato, concludendo per il rigetto del gravame.
...
DIRITTO
1. Nel provvedimento impugnato (cfr. il doc. 1 della ricorrente e del resistente), il Comune di Cinisello Balsamo ordina il ripristino dello stato dei luoghi del capannone di via ... n. 11, sulla base del seguente percorso argomentativo:
- la destinazione attuale dell’immobile è ancora quella di laboratorio industriale;
- all’interno sono stati realizzati una serie di interventi edilizi (modifica dei locali al piano rialzato e frazionamento degli uffici al primo e secondo piano);
- nell’immobile si svolge attività di culto o, in ogni caso, attività propria di un’associazione di carattere culturale, comunque non compatibile con la destinazione industriale.
Nell’ordinanza cautelare di primo grado n. 40/2015, la scrivente Sezione II aveva evidenziato che l’utilizzo attuale dell’immobile (luogo di culto o associazione culturale che fosse), non è in ogni modo compatibile con la suddetta destinazione d’uso industriale.
In sede di appello cautelare, il Consiglio di Stato ha disposto la fissazione dell’udienza pubblica in primo grado, con sollecitazione al TAR ad approfondire le questioni sull’accertamento dell’attività effettivamente svolta nei locali in questione.
1.1 Nel primo motivo di ricorso, si denuncia il presunto difetto di istruttoria in cui sarebbe incorsa l’Amministrazione comunale, che non avrebbe accertato l’effettivo svolgimento dell’attività di culto, posto che l’associazione ricorrente (così testualmente nel gravame), non avrebbe finalità religiose né svolgerebbe attività di culto.
Sull’attività istruttoria svolta dal Comune, preme rilevare che il 15 e il 25.04.2014 erano effettuati due distinti sopralluoghi, nel corso dei quali era accertata l’avvenuta esecuzione, senza titolo edilizio, di taluni interventi, fra i quali la modifica dei locali al piano rialzato e il frazionamento degli uffici posti al primo e al secondo piano, che diventano in tal modo un’unità immobiliare autonoma (cfr. i documenti 4 e 5 della ricorrente, oltre ai documenti dal n. 2 al n. 5 del resistente).
In data 18.04.2014, la Polizia Locale effettuava un accesso ai locali, interpellando alcune persone ivi presenti, le quali confermavano l’avvio di lavori per la predisposizione di un “centro culturale”, oltre che l’effettuazione della preghiera settimanale verso le ore 13.30 (cfr. il doc. 2 del resistente).
Nel corso di un successivo sopralluogo del 25.04.2014 (cfr. il doc. 3 del resistente), all’interno del capannone erano rinvenute un centinaio di persone intenti alla preghiera, mentre da un piccolo palco erano recitate preghiere.
Si evidenzia che, in tale occasione, il vicepresidente dell’associazione riferiva di avere presentato all’ufficio tecnico la documentazione per il cambio d’uso (circostanza questa che non trova però riscontro presso gli uffici comunali).
Le conclusioni dell’attività istruttoria svolta dagli uffici sono riassunte nella scheda di controllo sull’attività urbanistico edilizia, prodotta dal resistente quale suo doc. 5.
Ciò premesso, appare in ogni modo fuori discussione che all’interno dello stabile di via Frisia viene svolta un’attività (che sia o no di culto poco rileva, come meglio sarà precisato), che comporta un notevole afflusso di persone e che non appare in ogni modo compatibile con la destinazione d’uso attuale, cioè –giova ricordarlo– a laboratorio industriale.
La stessa associazione ricorrente, infatti, ammette di svolgere attività di carattere culturale e ricreativo, come si desume sia dallo Statuto (cfr. il doc. 1 della ricorrente) sia dalla rassegna fotografica (cfr. il doc. 2 della ricorrente), che attesta nei locali la presenza di numerose persone –fra cui anche molti bambini– intenti ad attività ricreative o scolastiche.
Lo svolgimento dell’attività propria di un’associazione culturale –di carattere ricreativo o formativo, non disgiunto magari da momenti di preghiera– non appare compatibile con la destinazione a laboratorio industriale propria dei locali di cui è causa.
L’art. 23-bis del DPR 380/2001 individua una serie di categorie funzionali autonome e il passaggio dall’una all’altra –anche senza opere edilizie– configura un mutamento di destinazione d’uso rilevante sotto il profilo urbanistico.
Orbene, la categoria “produttiva e direzionale” di cui alla lettera b) del comma 1 dell’articolo citato, nella quale può comprendersi quella a laboratorio industriale, non può consentire attività culturali e formative –in senso lato– che l’associazione asserisce di svolgere.
Anche prima del citato art. 23-bis, del resto, sulla questione del mutamento di destinazione d’uso fra categorie urbanistiche autonome, la giurisprudenza della scrivente Sezione II, a partire dalla sentenza 27.05.2009, n. 3859, fino alle più recenti decisioni (cfr. TAR Lombardia, Milano, sez. II, n. 534 e n. 535, entrambe del 26.02.2013, oltre a quella del 18.04.2013, n. 971 ed a quella del 22.10.2014, n. 2527), ha ribadito la rilevanza sotto il profilo urbanistico di tale mutamento, che se realizzato senza idoneo titolo edilizio deve senza dubbio reputarsi contra legem.
A tali pronunce, si aggiungano:
- Consiglio di Stato, sez. IV, 30.09.2014, n. 4483, che subordina al pagamento del contributo i cambi di destinazione d’uso –anche senza opere edilizie– fra le distinte categorie di cui ai commi primo e secondo dell’art. 19 del DPR 380/2001 (rispettivamente industriali e artigianali da una parte e turistiche, commerciali, direzionali o per servizi dall’altra);
- Consiglio di Stato, sez. VI, 18.04.2013, n. 2153; TAR Lazio, sez. I-quater, 04.10.2012, n. 8297 e TAR Campania, Napoli, sez. VII, 12.07.2012, n. 3382, per la quale il cambio di destinazione d’uso che comporta un aumento di superficie anche in conseguenza della trasformazione da non residenziale a residenziale, è soggetto a permesso di costruire; oltre a TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 06.05.2014, n. 468, per la quale la manutenzione straordinaria è attività limitata al rinnovamento ed alla sostituzione di parti dell’edificio, mentre in caso di trasformazione dell’immobile con incremento del carico urbanistico la figura corretta per l’inquadramento dell’attività edilizia è quella della ristrutturazione, con necessità del relativo titolo.
Di conseguenza, appare incontestato l’avvenuto mutamento di destinazione d’uso, da quello industriale ad altro di carattere culturale e ricreativo (poco importa se accompagnato da momenti di preghiera da parte di chi accede ai locali).
Le doglianze contenute nel primo mezzo di gravame devono quindi rigettarsi.
1.2 Nel secondo mezzo, la ricorrente afferma nuovamente di non svolgere attività di culto, evidenziando che eventuali manifestazioni occasionali di preghiera non consentono di qualificare il locale come adibito al culto islamico.
Anche tale censura è però priva di pregio: quel che rileva nella presente fattispecie è che i locali di cui è causa –che dovrebbero essere impiegati esclusivamente a laboratorio industriale– sono invece caratterizzati da un notevole afflusso di persone svolgenti attività sicuramente varie (incontri, mostre, lezioni di lingua araba e italiana e anche eventuali occasioni di preghiera), ma in ogni modo non riconducibili, neppure con il più ampio sforzo, all’attività industriale e produttiva.
A questo punto, il richiamo ai principi costituzionali sulla libertà religiosa non appare pertinente, in quanto –lo si ripete nuovamente– non è certamente in discussione la libertà religiosa della comunità mussulmana di Cinisello Balsamo, come quella di altre comunità, ma si impone esclusivamente il rispetto della destinazione d’uso urbanistica dei locali.
1.3 Le considerazioni sopra svolte ai punti 1.1 e 1.2 possono essere estese anche al terzo motivo, nel quale la ricorrente ribadisce ancora, richiamando gli articoli 70 e 71 della LR 12/2005, di non svolgere attività di culto islamico (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 17.02.2016 n. 344 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

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AMBIENTE-ECOLOGIA - PATRIMONIO: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 9 del 04.03.2016, "Regolamento per il funzionamento della Banca della Terra Lombarda" (regolamento regionale 01.03.2016 n. 4).

ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI - EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Decreti attuativi Legge Madia e note Anci ai provvedimenti (01.03.2016 - link a www.anci.it).

QUESITI & PARERI

PUBBLICO IMPIEGO: Il procedimento disciplinare.
DOMANDA:
Un procedimento disciplinare -attivato dal Dirigente della struttura ove presta servizio il dipendente che ha commesso l'infrazione- è giunto alla seguente fase: verbalizzazione del contraddittorio a difesa, con deposito di memorie difensive.
Il dirigente trasmette –entro 5 gg. dall'audizione del dipendente- tutto il fascicolo del procedimento all'U.P.D. perché ritiene il fatto più grave di quello inizialmente valutato.
E' corretto l'iter seguito dal dirigente? Se la risposta fosse affermativa, l'U.P.D., insediatosi tempestivamente, quali termini deve osservare per concludere il procedimento? Quelli raddoppiati previsti dall'art. 55-bis D.Lgs. 165/2001? Ovvero 40 gg. per effettuare una nuova contestazione d'addebito e 120 gg. per terminare l'iter?
RISPOSTA:
La competenza ad attivare e gestire il procedimento disciplinare, senza indugio, e comunque non oltre 20 giorni dalla notizia, mediante contestazione scritta dell’addebito al dipendente, spetta al dirigente del settore presso cui lavora il dipendente sottoposto a procedimento disciplinare, laddove si tratti di decidere sulle infrazioni meno gravi, per le quali è prevista l’irrogazione di sanzioni superiori al rimprovero verbale ed inferiori alla sospensione dal servizio con privazione della retribuzione per più di 10 giorni.
Il dirigente procede alla convocazione del dipendente per il contraddittorio, con un preavviso di almeno 10 giorni. Dopo l’espletamento dell’eventuale ulteriore attività istruttoria, il responsabile del settore conclude il procedimento con atto di archiviazione o irrogazione della sanzione, entro 60 giorni dalla contestazione dell’addebito. L’UPD è competente per le infrazioni più gravi di quelle che rientrano nella competenza del dirigente. In queste fattispecie, il dirigente dovrebbe attivare il procedimento disciplinare direttamente presso l’UPD, trasmettendo gli atti, corredati da una dettagliata relazione, entro 5 giorni dalla notizia del fatto e dandone contestuale comunicazione all’interessato.
L’Ufficio, ricevuti gli atti trasmessi dal dirigente competente o altrimenti acquisita notizia dell’infrazione, contesta l’addebito al dipendente, lo convoca per il contraddittorio a sua difesa, istruisce e conclude il procedimento nei termini sopra indicati ma raddoppiati, e salva l’eventuale sospensione ai sensi dell’art. 55-ter del D.Lgs 165/2001 e s.m.i. laddove sia pendente un procedimento penale. Nel caso di specie, in cui la maggiore gravità dell'infrazione è emersa in sede istruttoria, correttamente il dirigente ha trasmesso gli atti al competente ufficio, nel termine di 5 giorni dall'audizione del dipendente, ossia dalla scoperta della maggiore gravità del fatto.
La data di decorrenza dei termini -raddoppiati- per la conclusione del procedimento resta sempre fissata alla data di prima acquisizione della notizia dell’infrazione anche se avvenuta da parte del responsabile della struttura in cui il dipendente lavora. La violazione di detti termini comporta, per l’Amministrazione, la decadenza dall’azione disciplinare (link a www.ancirisponde.ancitel.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Violazione del segreto d'ufficio da parte del Consigliere Comunale.
IL CASO: un consigliere comunale formulava istanza di accesso ad un contratto di mutuo stipulato dall'amministrazione per il finanziamento di un'opera pubblica.
Il contratto, tuttavia, veniva poi ceduto dal consigliere ad un cittadino che, dopo avere raccolto altri documenti pubblicati sul sito del Comune presentava un esposto alla Corte dei Conti.
Nel caso di specie, è ravvisabile un comportamento sussumibile nella fattispecie penale della violazione del segreto d'ufficio di cui all'art. 326 c.p.?

(Risponde l'Avv. Guido Paratico)
L'accesso agli atti dei consiglieri comunali, è disciplinata dall'art. 43 del D.lgs. 267/2000 che al comma 2 così dispone: "2. I consiglieri comunali e provinciali hanno diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente, del comune e della provincia, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all'espletamento del proprio mandato. Essi sono tenuti al segreto nei casi specificamente determinati dalla legge".
Posto, quindi, che non vi è alcun dubbio sul diritto del consigliere di minoranza ad avere accesso agli atti per l'espletamento del proprio mandato (e tra questi anche il contratto di mutuo), diverso è l'utilizzo che il Consigliere può fare di tali atti.
In primo luogo, infatti, è necessario valutare se su tali atti sussista un "segreto" imposto dalla legge, che ne vieta tout court la divulgazione, come disposto dall'ultimo periodo del comma 2 sopra riportato.
Vi è ad esempio un divieto di divulgazione per quegli atti che incidono sulla sfera giuridica e soggettiva di terzi. Ma non risulta ricorrere tale fattispecie nel caso prospettato.
Più in generale, la segretezza degli atti in generale è disciplinata dall'art. 24 della L. 241/1990, nella quale vengono elencate le fattispecie che determinano il divieto di accesso agli atti. Nel caso di specie, non ricorrono segreti che impediscano l'accesso agli atti, tuttavia, sotto diverso profilo, deve osservarsi che nel caso di specie, come evidenziato, il cittadino non avrebbe potuto, autonomamente, ottenere l'accesso al contratto di mutuo, non profilandosi un interesse diretto e concreto all'accesso.
Ebbene, su tale tipo di condotta si è espressa la giurisprudenza della Corte di Cassazione, (Sez. VI, n. 30148 del 23.04.2007), che ha stabilito che "il delitto di rivelazione di segreti d'ufficio ha come fondamento giuridico il dovere del pubblico dipendente di non divulgare notizie delle quali sia venuto a conoscenza nell'esercizio delle funzioni pubbliche sino a quando la loro diffusione non sia legittimamente ammessa e non soltanto le notizie sottratte in ogni tempo e nei confronti di chiunque alla divulgazione".
La Suprema Corte conclude che "non può che essere, dunque, riaffermato il principio secondo cui il divieto di divulgazione comprende non soltanto informazioni sottratte all'accesso, ma anche, nell'ambito delle notizie accessibili, quelle informazioni che non possono essere date alle persone che non hanno il diritto di riceverle, sia quelle svelate a soggetti non titolari del diritto di accesso o senza il rispetto delle modalità previste" (principio ribadito da Cass. Pen. Sez. V, con sentenza n. 15950 del 15.01.2015).
Ebbene, proprio la condotta descritta sembra attagliarsi al caso di specie. Pertanto, si potrebbe configurare, in capo al consigliere, l'ipotesi delittuosa della violazione del segreto d'ufficio di cui all'art. 326 c.p. Ricorrerebbero, infatti, sia l'elemento soggettivo (in quanto il consigliere comunale riveste anche la carica di pubblico ufficiale) sia l'elemento oggettivo (ovvero la condotta, come sopra descritta) (tratto dalla newsletter 02.03.2016 n. 139 di http://asmecomm.it).

GIURISPRUDENZA

APPALTI: Non è sufficiente a radicare la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo l'autovincolo a seguire le regole di pubblica evidenza da parte di un soggetto che non vi sarebbe tenuto.
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I soggetti tenuti ad applicare le norme della pubblica evidenza sono individuati dall'art. 32 del d.lgs. 12.04.2006 n. 163, cd. codice degli appalti.

Ai sensi dell'art. 133, c. 1, lett. e), n. 1, c.p.a., "Sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo… le controversie… relative a procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi, forniture, svolte da soggetti comunque tenuti, nella scelta del contraente o del socio, all'applicazione della normativa comunitaria", meglio detto europea," ovvero al rispetto dei procedimenti di evidenza pubblica previsti dalla normativa statale o regionale…".
Tuttavia, non è sufficiente a radicare la giurisdizione esclusiva l'autovincolo a seguire le regole di pubblica evidenza da parte di un soggetto che non vi sarebbe tenuto. Quindi, nel caso di specie, qualsiasi affermazione di A2A spa (società quotata in borsa, operante nel settore dell'energia, la quale offre il proprio prodotto ai consumatori in concorrenza con altre imprese del suo settore) in tal senso, come l'impiego del frasario relativo alle pubbliche gare, è irrilevante in merito.
A2A pertanto non è tenuta a seguire, nell'affidamento del contratto per l'aggiudicazione dell'appalto relativo al servizio sostitutivo di ristorazione aziendale per sé stessa ed altre società del gruppo, alcuna procedura di pubblica evidenza, e di conseguenza nemmeno deve accordare l'accesso ai propri atti.
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I soggetti tenuti ad applicare le norme della pubblica evidenza sono individuati dall'art. 32 del d.lgs. 12.04.2006 n. 163, cd. codice degli appalti. Pertanto, perché sussistesse la giurisdizione del G.A. sulla procedura di affidamento del servizio sostitutivo di mensa, A2A dovrebbe essere un organismo di diritto pubblico, o un'impresa pubblica non volta al mercato, ovvero ancora un soggetto attivo nei settori speciali.
A2A in primo luogo non è qualificabile organismo di diritto pubblico, perché non costituita al fine di soddisfare esigenze "aventi carattere non industriale o commerciale". Come chiarito dalla giurisprudenza, esigenze siffatte sono quelle che si soddisfano senza correre il rischio di impresa e in modo diverso dall'offerta di un bene o servizio sul mercato, quindi facendo salva l'influenza dominante del soggetto pubblico. Sono requisiti all'evidenza opposti a quelli propri della A2A, che, come notorio, è una società quotata in borsa, la quale offre il proprio prodotto ai consumatori in concorrenza con altre imprese del suo settore.
In secondo luogo, A2A non è soggetta alla pubblica evidenza nemmeno in base alla sua indubbia qualità di ente aggiudicatore attivo nei settori speciali, che non rileva nel servizio per cui è causa. In merito, il criterio è quello delineato in termini generali da C.d.S. a.p. 01.08.2011 n. 16, per cui l'ente è obbligato a seguire la pubblica evidenza, ed è soggetto alla giurisdizione esclusiva del G.A. per affidare i contratti funzionali a delineare il servizio; può invece agire in base alle comuni regole civilistiche, ed è soggetto alla giurisdizione ordinaria, per i contratti relativi ad attività generiche.
Si è anche precisato, in termini particolarmente rigorosi, che il rapporto di funzionalità del contratto al settore speciale, che radica la giurisdizione amministrativa- deve risultare dalle norme, e quindi non da un apprezzamento fondato sul senso comune.
In tali termini, è quindi escluso che l'affidamento di un servizio sostitutivo di mensa, complementare a qualsiasi tipo di attività, possa considerarsi in qualche modo funzionale allo specifico settore energia in cui A2A opera.
In base ai principi elaborati dalla Corte di giustizia UE a partire dalla nota 13.10.2005 C 458-03 Parking Brixen le società in cui, sia presente capitale privato non possono lecitamente essere destinatarie di affidamenti diretti, e lo stesso secondo logica vale per le controllate, in ragione del carattere del capitale della controllante (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 01.03.2016 n. 314 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI SERVIZI: Sulle procedure di affidamento di concessioni di servizi.
Secondo un consolidato orientamento della giurisprudenza, ai sensi dell'art. 30 del d.lgs. 12.04.2006 n. 163, la procedura di affidamento di una concessione di servizi non è soggetta alle norme contenute nella parte II dello stesso codice; ed infatti, nel delineare l'ambito oggettivo e soggettivo di applicazione delle suddette disposizioni il cit. art. 30 stabilisce che le procedure di affidamento di concessioni di servizi sono sottratte alla puntuale disciplina del diritto comunitario e del codice dei contratti pubblici, ed invece assoggettate ai principi desumibili dal Trattato e i principi generali relativi ai contratti pubblici e, in particolare, i principi di trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione, parità di trattamento, mutuo riconoscimento, proporzionalità e tra i principi generali rientra quello del c.d. "soccorso istruttorio" o, il che è lo stesso, della residualità della esclusione per vizi formali.
Nel caso di specie, tale tesi è però ultronea, dal momento che il reale contenuto dell'offerta era chiaramente desumibile; non ci si trova al cospetto di alcun vero "soccorso", né può dirsi che si era in presenza di un dubbio di intelligibilità, o di una incompletezza della suddetta dichiarazione negoziale.
L'eccesso di scrupolo della stazione appaltante (pur lodevole) nel richiedere una dichiarazione confermativa non può trasformarsi in una prova ex post della inintelligibilità od incompletezza dell'offerta, elemento quest'ultimo da valutarsi oggettivamente e, alla stregua di tale parametro, palesemente insussistente (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 28.02.2016 n. 859 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: La giurisprudenza di questo Consiglio ha precisato che l’obbligo ripristinatorio ambientale (in termini di bonifica) è trasmissibile agli eredi, trattandosi di obblighi di natura patrimoniale.
Quanto agli obblighi di bonifica posto che è accertata anche all’indomani dell’acquisizione in proprietà del bene da parte degli odierni appellati l’attività di sversamento di rifiuti nel fondo in questione, da un lato, è irrilevante la circostanza che sia intervenuto un contratto di locazione tra la società I... e Fr.Da., atteso che la giurisprudenza è ferma nel riconoscere sia la responsabilità del proprietario di un terreno sul quale siano depositati rifiuti, ai sensi del D.Lgs. n. 22/1997, art. 14, comma 3, nel caso in cui il terreno sia oggetto di un rapporto di locazione, sia la responsabilità di qualunque soggetto che si trovi con l'area interessata in un rapporto, anche di mero fatto, tale da consentirgli -e per ciò stesso imporgli- di esercitare una funzione di protezione e custodia finalizzata ad evitare che l'area medesima possa essere adibita a discarica abusiva di rifiuti nocivi per la salvaguardia dell'ambiente. Pertanto, sia il proprietario locante, che colui che conduce in locazione possono risultare responsabili per l’inquinamento dei suoli.
Dall’altro, deve rinvenirsi una responsabilità in proprio in capo agli aventi causa di Fr.Da., poiché il requisito della colpa postulato dall’art. 14, d.lgs. 22/1997, ben può consistere proprio nell'omissione degli accorgimenti e delle cautele che l'ordinaria diligenza suggerisce per realizzare un'efficace custodia e protezione dell'area, così impedendo che possano essere in essa indebitamente depositati rifiuti nocivi.
Nella fattispecie, infatti, gli atti amministrativi acquisiti al fascicolo di causa danno atto del verificarsi dei fenomeni di inquinamento nell’arco di oltre trent’anni e della loro riconducibilità agli odierni appellati ed al loro dante causa, che in alcun modo hanno impedito lo sversamento dei rifiuti sui loro suoli, né hanno provveduto alla rimozione degli stessi, non attivandosi per impedire che l’attività di devastazione delle aree oggetto dell’ordinanza impugnata proseguisse nel corso degli anni.

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... per la riforma della sentenza del TAR LOMBARDIA–MILANO, SEZIONE I, n. 5443/2004, resa tra le parti, concernente bonifica località e ripristino ambientale.
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9. Sono fondate, invece, le doglianze con la quale l’amministrazione sostiene la legittimità dell’ordinanza impugnata contenente l’obbligo di rimozione dei rifiuti e di bonifica in capo agli odierni appellati.
Va precisato che la pronuncia della Corte di Giustizia, 04.03.2015, C-534/13 non contiene principi di diritto utili ai fini della decisione della presente controversia. Infatti, non solo si pronuncia su una disciplina europea, ratione temporis, non applicabile alla controversia in esame, ma in ogni caso giunge a conclusioni non esportabili alla vicenda de qua, dal momento che esclude l’addebitabilità in capo al proprietario degli obblighi di bonifica e di ripristino discendenti dalla mera qualifica di titolare di un diritto reale sul bene.
Esclude, quindi, la compatibilità comunitaria di una disciplina nazionale che preveda una responsabilità oggettiva discendente dalla mera qualifica di titolare di un diritto reale sul bene.
9.1. Appare opportuno, inoltre, precisare che questa Sezione in altro contenzioso proposto da I.. S.r.l. per ottenere la caducazione dell’ordinanza impugnata anche dagli odierni appellati ha escluso con la pronuncia n. 5305/2014, la ricorrenza delle censure di legittimità ivi denunciate.
Sempre questa Sezione con sentenza n. 1026/2009, ha respinto il ricorso proposto dagli odierni appellati avverso l’ordinanza n. 8/1997 del Sindaco del comune di Cerro al Lambro con la quale venivano disposti obblighi per la bonifica ambientale delle aree di proprietà di quest’ultimi sui mappali n. 57 e 59 del foglio 10 del comune di Cerro al Lambro, prossime a quelle oggetto dell’ordinanza impugnata con il ricorso di prime cure, così riformando la sentenza del TAR Lombardia n. 760/2000.
9.2. Tanto premesso va chiarito che nella fattispecie in esame, contrariamente a quanto affermato dal primo giudice, sono ravvisabili elementi di imputazione in capo agli originari ricorrenti degli obblighi di bonifica e di ripristino discendenti dal loro comportamento colposo.
Innanzitutto, è utile precisare che la giurisprudenza di questo Consiglio ha precisato che l’obbligo ripristinatorio è trasmissibile agli eredi, trattandosi di obblighi di natura patrimoniale (cfr. Cons. St., Sez. II, 06.03.2013, n. 2417).
Quanto, invece, agli obblighi di bonifica posto che è accertata anche all’indomani dell’acquisizione in proprietà del bene da parte degli odierni appellati l’attività di sversamento di rifiuti nel fondo in questione, da un lato, è irrilevante la circostanza che sia intervenuto un contratto di locazione tra la società I... e Fr.Da., atteso che la giurisprudenza è ferma nel riconoscere sia la responsabilità del proprietario di un terreno sul quale siano depositati rifiuti, ai sensi del D.Lgs. n. 22/1997, art. 14, comma 3, nel caso in cui il terreno sia oggetto di un rapporto di locazione (cfr. Cass. civ. Sez. III, 22.03.2011, n. 6525), sia la responsabilità di qualunque soggetto che si trovi con l'area interessata in un rapporto, anche di mero fatto, tale da consentirgli -e per ciò stesso imporgli- di esercitare una funzione di protezione e custodia finalizzata ad evitare che l'area medesima possa essere adibita a discarica abusiva di rifiuti nocivi per la salvaguardia dell'ambiente. Pertanto, sia il proprietario locante, che colui che conduce in locazione possono risultare responsabili per l’inquinamento dei suoli.
Dall’altro, deve rinvenirsi una responsabilità in proprio in capo agli aventi causa di Fr.Da., poiché il requisito della colpa postulato dall’art. 14, d.lgs. 22/1997, ben può consistere proprio nell'omissione degli accorgimenti e delle cautele che l'ordinaria diligenza suggerisce per realizzare un'efficace custodia e protezione dell'area, così impedendo che possano essere in essa indebitamente depositati rifiuti nocivi (cfr. Cass., Sez. Un., 25.02.2009, n. 4472; Cons. Stato Sez. V, 16.07.2010, n. 4614).
Nella fattispecie, infatti, gli atti amministrativi acquisiti al fascicolo di causa danno atto del verificarsi dei fenomeni di inquinamento nell’arco di oltre trent’anni e della loro riconducibilità agli odierni appellati ed al loro dante causa, che in alcun modo hanno impedito lo sversamento dei rifiuti sui loro suoli, né hanno provveduto alla rimozione degli stessi, non attivandosi per impedire che l’attività di devastazione delle aree oggetto dell’ordinanza impugnata proseguisse nel corso degli anni.
10. L’odierno appello deve, quindi, essere accolto con ciò che ne consegue in termini di riforma della sentenza impugnata e di reiezione del ricorso di primo grado (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 25.02.2016 n. 765 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Ricorso giurisdizionale al Capo dello Stato.
Inammissibile è la richiesta di risarcimento del danno avanzata, con riferimento al comportamento asseritamente dilatorio del Comune, laddove la stessa risulta estranea alla particolare natura impugnatoria del rimedio e, pertanto, inammissibile e potrà essere eventualmente fatta valere in altra sede.
Il ricorso straordinario, infatti, mantiene la sua natura prettamente e tipicamente impugnatoria, quale rimedio giustiziale di ordine generale nei confronti degli atti amministrativi definitivi, alternativo all'ordinaria azione di annullamento davanti al giudice amministrativo, che mira ad offrire una tutela destinata ad esplicitarsi in una decisione costitutiva di annullamento, cioè di rimozione, postuma e riparatoria rispetto all’azione amministrativa, di un provvedimento definitivo di cui viene accertata la contrarietà all'ordine giuridico.

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Inammissibile è la richiesta di risarcimento del danno avanzata dalle ricorrenti, con riferimento al comportamento asseritamente dilatorio del Comune.
Come più volte evidenziato, tali pretese sono estranee alla particolare natura impugnatoria del rimedio e, pertanto, inammissibili (Consiglio di Stato, Sez. II, 01.07.2015, n. 1393/2011; Sez. II, 19.11.2014, n. 1842/2013; Sez. III, 10.03.2010, n. 3255; Sez. I, 29.09.2004, n. 1184/04; Sez. I, 06.03.2002, n. 492/02) e potranno essere eventualmente fatte valere in altra sede.
Il ricorso straordinario, infatti, mantiene la sua natura prettamente e tipicamente impugnatoria, quale rimedio giustiziale di ordine generale nei confronti degli atti amministrativi definitivi, alternativo all'ordinaria azione di annullamento davanti al giudice amministrativo, che mira ad offrire una tutela destinata ad esplicitarsi in una decisione costitutiva di annullamento, cioè di rimozione, postuma e riparatoria rispetto all’azione amministrativa, di un provvedimento definitivo di cui viene accertata la contrarietà all'ordine giuridico (Consiglio di Stato, Sez. II, 18.06.1997, n. 521/97; 05.11.1997, n. 2647/96)
(Consiglio di Stato, Sez. II, parere 25.02.2016 n. 523 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Gli interventi, consistenti nella realizzazione di tettoie e di altre strutture non comprese entro coperture volumetriche previste in un progetto assentito, possono ritenersi sottratte al regime del permesso di costruire soltanto ove la loro conformazione e le loro ridotte dimensioni rendono evidente e riconoscibile la loro finalità di semplice decoro o arredi o di riparo e protezione (anche da agenti atmosferici) della parte dell’immobile cui eventualmente accedono. Tali strutture non possono, viceversa, ritenersi installabili senza permesso di costruire, allorquando le loro dimensioni sono di entità tali da arrecare una visibile alterazione dello stato dei luoghi.
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È incontestata, in vicenda, l’assenza di titolo abilitativo e la consistenza degli abusi edilizi, a nulla rilevando, ai fini della qualificazione dell'abuso, il carattere precario o temporaneo dei manufatti eseguiti, con riferimento ai quali, peraltro, non viene allegata documentazione tecnica comprovante tale asserita precarietà.
Assume, invece, significato la perdurante modificazione strutturale e funzionale dello stato dei luoghi, nella specie, peraltro, in zona di vincolo, atteso che il manufatto è finalizzato all’uso costante (ricovero di attrezzature edili) proprio di un'attività imprenditoriale.
Peraltro, la giurisprudenza amministrativa è da tempo consolidata nel ritenere che la precarietà di un manufatto, che ne giustificherebbe il non assoggettamento a permesso di costruire per ogni attività comportante la trasformazione urbanistica del territorio, non dipende dai materiali utilizzati o dai sistemi di ancoraggio al suolo, bensì dalla obiettiva ed intrinseca destinazione naturale dell’opera.

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Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica proposto da RI.Do., RI.Ma., RI.Ar., RI.Ma., per l’annullamento, previa sospensiva, dell’ordinanza del Comune di San Sebastiano al Vesuvio (NA) n. 39 del 01.06.2010, con cui è stata ingiunta ai ricorrenti, in qualità di proprietari del terreno, la demolizione delle opere abusive rilevate presso tale terreno, nonché (con ulteriore ricorso straordinario) del verbale di accertamento di ottemperanza all’ordinanza di demolizione impugnata, elevata dalla Polizia Municipale dello stesso Comune, prot. n. 1372 del 14.10.2010 .
...
Il ricorsi sono infondati.
Come emerge dalla descrizione dell’abuso sanzionato, nella specie non si è trattato di un intervento di modeste dimensioni, ma di un manufatto in muratura di circa 36 mq ad uso ufficio, con copertura in lamiere coibentate ed attigua tettoia poggiante su pilastrini in ferro, per una superficie di circa 115 mq.
In proposito, è stato rilevato in giurisprudenza che gli interventi, consistenti nella realizzazione di tettoie e di altre strutture non comprese entro coperture volumetriche previste in un progetto assentito, possono ritenersi sottratte al regime del permesso di costruire soltanto ove la loro conformazione e le loro ridotte dimensioni rendono evidente e riconoscibile la loro finalità di semplice decoro o arredi o di riparo e protezione (anche da agenti atmosferici) della parte dell’immobile cui eventualmente accedono. Tali strutture non possono, viceversa, ritenersi installabili senza permesso di costruire, allorquando le loro dimensioni sono di entità tali da arrecare una visibile alterazione dello stato dei luoghi (Consiglio di Stato, Sez. V, 13.03.2001, n. 1442).
È incontestata, in vicenda, l’assenza di titolo abilitativo e la consistenza degli abusi edilizi, a nulla rilevando, ai fini della qualificazione dell'abuso, il carattere precario o temporaneo dei manufatti eseguiti, con riferimento ai quali, peraltro, non viene allegata documentazione tecnica comprovante tale asserita precarietà. Assume, invece, significato la perdurante modificazione strutturale e funzionale dello stato dei luoghi, nella specie, peraltro, in zona di vincolo, atteso che il manufatto è finalizzato all’uso costante (ricovero di attrezzature edili) proprio di un'attività imprenditoriale (Consiglio di Stato, Sez. I, 10.04.2013, n. 666/2013).
Peraltro, la giurisprudenza amministrativa è da tempo consolidata nel ritenere che la precarietà di un manufatto, che ne giustificherebbe il non assoggettamento a permesso di costruire per ogni attività comportante la trasformazione urbanistica del territorio, non dipende dai materiali utilizzati o dai sistemi di ancoraggio al suolo, bensì dalla obiettiva ed intrinseca destinazione naturale dell’opera (Cons. St., Sez. IV, 02.10.2012, n. 5183; Sez. III, 12.09.2012, n. 4850; Sez. V, 20.12.1999, n. 2125) (Consiglio di Stato, Sez. II, parere 25.02.2016 n. 522 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Anche a voler prescindere dal rilievo che l'eventuale elevata urbanizzazione dell'area non farebbe, comunque, venir meno la necessità di acquisire preventivamente i titoli abilitativi normativamente richiesti per procedere alla realizzazione dell'intervento edilizio de quo- la Sezione rileva che, in base ad una consolidata giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, “la già intervenuta compromissione dei valori paesaggistici ad opera di interventi edilizi precedenti, anche ove fosse in fatto dimostrata, sarebbe certamente non decisiva sul piano giuridico; anzi, una situazione paesisticamente compromessa ad opera di preesistenti realizzazioni, … richiede per la legittimità dell'azione amministrativa che nuove costruzioni non deturpino esteriormente l'ambito protetto”.
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L’art. 9 Legge 28.02.1985 n. 47 (ndr. oggi art. 33 del D.P.R. 380/2001) stabilisce che per gli interventi di ristrutturazione edilizia eseguiti in assenza di concessione la sanzione pecuniaria va applicata solo se non sia possibile il ripristino dei luoghi; pertanto, legittimamente il sindaco ordina la demolizione di opere abusive anziché irrogare, per esse, una sanzione pecuniaria”.
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La contestata ordinanza di demolizione costituisce atto necessario della procedura sanzionatoria, ossia un atto dovuto e rigidamente vincolato, non implicante valutazioni discrezionali, e consequenziale all'accertata abusività della costruzione, motivo per cui non deve essere necessariamente preceduta dall'avviso dell'avvio del procedimento, e non esige una specifica e puntuale motivazione, bastando l'indicazione dell'abusività dell'opera edilizia, e ciò anche senza considerare che l'atto impugnato è esaustivamente motivato, perché ha indicato tutti i presupposti di fatto su cui si fonda, oltre, sia pure genericamente, la normativa applicata.
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Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica proposto da RI.Do., RI.Ma., RI.Ar., RI.Ma., per l’annullamento, previa sospensiva, dell’ordinanza del Comune di San Sebastiano al Vesuvio (NA) n. 39 del 01.06.2010, con cui è stata ingiunta ai ricorrenti, in qualità di proprietari del terreno, la demolizione delle opere abusive rilevate presso tale terreno, nonché (con ulteriore ricorso straordinario) del verbale di accertamento di ottemperanza all’ordinanza di demolizione impugnata, elevata dalla Polizia Municipale dello stesso Comune, prot. n. 1372 del 14.10.2010 .
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Analogamente, risulta priva di pregio la censura con la quale i ricorrenti hanno lamentato la circostanza che il manufatto in esame ricadrebbe in un'area già caratterizzata da molteplici insediamenti abitativi.
Infatti -anche a voler prescindere dal rilievo che l'eventuale elevata urbanizzazione dell'area non farebbe, comunque, venir meno la necessità di acquisire preventivamente i titoli abilitativi normativamente richiesti per procedere alla realizzazione dell'intervento edilizio de quo- la Sezione rileva che, in base ad una consolidata giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, “la già intervenuta compromissione dei valori paesaggistici ad opera di interventi edilizi precedenti, anche ove fosse in fatto dimostrata, sarebbe certamente non decisiva sul piano giuridico; anzi, una situazione paesisticamente compromessa ad opera di preesistenti realizzazioni, … richiede per la legittimità dell'azione amministrativa che nuove costruzioni non deturpino esteriormente l'ambito protetto” (Cons. Stato, Sez. VI, 06.05.2013, n. 2410).
Con riferimento alla asserita sproporzione della sanzione demolitoria (che, secondo i ricorrenti, rappresenterebbe un onere eccessivo rispetto alla possibilità di applicare una sanzione pecuniara), anche in tale direzione le censure degli interessati si palesano infondate, giacché “l’art. 9 Legge 28.02.1985 n. 47 (ndr. oggi art. 33 del D.P.R. 380/2001) stabilisce che per gli interventi di ristrutturazione edilizia eseguiti in assenza di concessione la sanzione pecuniaria va applicata solo se non sia possibile il ripristino dei luoghi; pertanto, legittimamente il sindaco ordina la demolizione di opere abusive anziché irrogare, per esse, una sanzione pecuniaria” (Consiglio di Stato, Sez. II, 01.06.1994, n. 541, vds. anche Sez. II, 17.04.2013 n. 2192/2011).
Non appare fondata, inoltre, l’asserita carenza motivazionale, atteso che la contestata ordinanza di demolizione costituisce atto necessario della procedura sanzionatoria, ossia un atto dovuto e rigidamente vincolato, non implicante valutazioni discrezionali, e consequenziale all'accertata abusività della costruzione, motivo per cui non deve essere necessariamente preceduta dall'avviso dell'avvio del procedimento, e non esige una specifica e puntuale motivazione, bastando l'indicazione dell'abusività dell'opera edilizia (Cons. di Stato, Sez. VI, 24.09.2010, n. 7129), e ciò anche senza considerare che l'atto impugnato è esaustivamente motivato, perché ha indicato tutti i presupposti di fatto su cui si fonda, oltre, sia pure genericamente, la normativa applicata (Consiglio di Stato, Sez. II, parere 25.02.2016 n. 522 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Le sanzioni ripristinatorie e demolitorie hanno carattere reale e prescindono pertanto dalla responsabilità del proprietario o dell’occupante l’immobile, sicché l’estraneità agli abusi edilizi assume rilievo sotto altro profilo (ad esempio, è esclusa a carico del proprietario incolpevole l’acquisizione gratuita del bene al patrimonio comunale).
L’ordinanza impugnata, peraltro, è stata notificata anche al proprietario dei locali, sicché nulla vieta che sia quest’ultimo a dare esecuzione al provvedimento, né all’associazione conduttrice sono precluse azioni in sede civile per la tutela della propria posizione nei confronti del proprietario o di altri soggetti.

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1.4 Nel quarto mezzo di gravame, l’esponente evidenzia di non avere mai realizzato opere edilizie all’intero del locale di via ... e di occupare soltanto il piano terra dell’immobile, non avendo invece la disponibilità del primo e del secondo piano.

Sul punto, preme però rilevare che, come insegna costante giurisprudenza, le sanzioni ripristinatorie e demolitorie hanno carattere reale e prescindono pertanto dalla responsabilità del proprietario o dell’occupante l’immobile (cfr., fra le più recenti, Cassazione Penale, sez. III, 15.12.2015, n. 49331), sicché l’estraneità agli abusi edilizi assume rilievo sotto altro profilo (ad esempio, è esclusa a carico del proprietario incolpevole l’acquisizione gratuita del bene al patrimonio comunale, cfr. Corte Costituzionale n. 345/1991).
L’ordinanza impugnata, peraltro, è stata notificata anche al proprietario dei locali, sicché nulla vieta che sia quest’ultimo a dare esecuzione al provvedimento, né all’associazione conduttrice sono precluse azioni in sede civile per la tutela della propria posizione nei confronti del proprietario o di altri soggetti (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 17.02.2016 n. 344 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Nei concorsi pubblici i titoli di preferenza relativi ai figli a carico devono essere valutati prima del criterio della minore età previsto dall'articolo 3 della legge 127/1997, che è residuale rispetto a quelli di carattere generale.
Per la giurisprudenza consolidata di questo Consiglio, l'art. 5, comma 5, del d.P.R. n. 487 del 1994, si deve intendere solo parzialmente abrogato (per incompatibilità sopravvenuta) dall'art. 3, comma 7, L. n. 127 del 1997, modificato dall'art. 2, L. n. 191 del 1998, nella misura in cui introduce un criterio opposto rispetto alla disciplina previgente della prevalenza del candidato di minore e non più di maggiore età.
Tale legge non ha però disposto un’abrogazione totale della precedente disciplina, come chiarito anche dalla Corte Costituzionale, che, con l’ordinanza n. 268 del 2001, ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 7, l. n. 127 del 1997, come modificato dall'art. 2, comma 9, l. n. 191 del 1998, censurato, per violazione del principio di ragionevolezza di cui all'art. 3 cost., in quanto sarebbe stato capovolto, senza un'adeguata giustificazione, un criterio "fondamentale nei pubblici concorsi" quale quello della preferenza, a parità di altri titoli, accordata al candidato con la maggiore età.
Pertanto, nei concorsi pubblici, i titoli di preferenza di cui all'art. 5, c. 4, del D.P.R. n. 487 del 1994 (nella specie, figli a carico) devono essere valutati prima del criterio della minore età, ex art. 3, legge n. 127 del 1997.
Quest'ultimo rappresenta un elemento preferenziale nel reclutamento nel pubblico impiego soltanto in via residuale, ossia nei casi di parità dopo la valutazione del merito e dei titoli di preferenza indicati nel citato c. 4 dell'art. 5.
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... per la riforma della sentenza del TAR Piemonte, Sez. II, n. 3840/2009, resa tra le parti, concernente un avviso di procedura di progressione verticale a n. 25 posti nel profilo specifico di responsabile contabile cat. d1.
...
6. L’appello è parzialmente fondato e va accolto nei limiti di seguito indicati.
7. Occorre, innanzitutto ricostruire la disciplina operante nella presente fattispecie.
7.1. In punto di fatto, va premesso che l’appellante –in quanto padre di un bambino– ha chiesto in sede amministrativa che si tenga conto del criterio di preferenza discendente da questa situazione di fatto e che, dunque, non rilevava in concreto la sua età maggiore, rispetto a quella della controinteressata in primo grado (collocata dal Comune al 25° posto in graduatoria, perché più giovane), a parità di punteggio.
7.2. Ciò posto, ritiene la Sezione che l’Amministrazione avrebbe dovuto applicare la normativa legislativa statale e quella regolamentare comunale, secondo la quale il criterio dell’età è residuale, rispetto ai criteri di preferenza di carattere generale (tra cui, quello di risultare genitore).
Per la giurisprudenza consolidata di questo Consiglio (Cons. St., Sez. V, 07.09.2009, n. 5234), l'art. 5, comma 5, del d.P.R. n. 487 del 1994, si deve intendere solo parzialmente abrogato (per incompatibilità sopravvenuta) dall'art. 3, comma 7, L. n. 127 del 1997, modificato dall'art. 2, L. n. 191 del 1998, nella misura in cui introduce un criterio opposto rispetto alla disciplina previgente della prevalenza del candidato di minore e non più di maggiore età.
Tale legge non ha però disposto un’abrogazione totale della precedente disciplina, come chiarito anche dalla Corte Costituzionale, che, con l’ordinanza n. 268 del 2001, ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 7, l. n. 127 del 1997, come modificato dall'art. 2, comma 9, l. n. 191 del 1998, censurato, per violazione del principio di ragionevolezza di cui all'art. 3 cost., in quanto sarebbe stato capovolto, senza un'adeguata giustificazione, un criterio "fondamentale nei pubblici concorsi" quale quello della preferenza, a parità di altri titoli, accordata al candidato con la maggiore età.
Pertanto, nei concorsi pubblici, i titoli di preferenza di cui all'art. 5, c. 4, del D.P.R. n. 487 del 1994 (nella specie, figli a carico) devono essere valutati prima del criterio della minore età, ex art. 3, legge n. 127 del 1997.
Quest'ultimo rappresenta un elemento preferenziale nel reclutamento nel pubblico impiego soltanto in via residuale, ossia nei casi di parità dopo la valutazione del merito e dei titoli di preferenza indicati nel citato c. 4 dell'art. 5.
Deve escludersi, quindi, che la normativa statale sia da interpretarsi nel senso fatto proprio dall’amministrazione comunale.
Al contrario, dunque, di quanto ha ritenuto la sentenza appellata, la normativa statale è stata ricalcata dall’art. 21, comma 1, del "Regolamento Assunzioni" del Comune di Torino, secondo il quale a parità di punteggio ed in assenza dei titoli di preferenza, il criterio da applicare in caso di pari punteggio in un concorso sia quello della minore età.
A fronte della descritta ed uniforme disciplina deve rilevarsi che né l’accordo sindacale dell’11.07.2002, né la determinazione n. 2556 del 05.12.2003 contengono alcuna specifica disposizione, che è, invece, presente nel solo Avviso del 05.12.2003 (impugnato col ricorso di primo grado), secondo il quale “Eventuali situazioni di ex aequo saranno sciolte ricorrendo esclusivamente all’età, preferendo il candidato più giovane”.
Questa previsione, però, contrasta non solo con la disciplina statale sopra descritta, ma anche con il citato art. 21, comma 1, del Regolamento comunale, che secondo quanto specificato nella premessa dello stesso: “disciplina le norme di accesso ai profili professionali (compresi quelli acquisibili per progressione mediante procedure concorsuali interne), le modalità dei concorsi, i criteri di valutazione delle prove e dei titoli ai sensi della vigente normativa (art. 36, commi 1 e 2, e art. 61, commi 1, lettera a), del D.Lgs. 29/1993 e L. 127/1997)…”.
L’Avviso del 05.12.2003, si discosta immotivatamente dalla disciplina sopra descritta e, risulta, quindi, illegittimo, così come illegittima risulta la determinazione del Dirigente del Settore Gestione Risorse Umane in data 18.06.2004 con la quale è stata approvata la graduatoria della procedura di progressione verticale.
Né ad una diversa conclusione può addivenirsi, facendo leva sulla presunta acquiescenza che l’originario ricorrente avrebbe prestato alle previsioni del citato Avviso.
Non vi era a suo tempo l’onere di impugnare le clausole della lex specialis, in quanto non si palesavano come immediatamente lesive, perché non impedivano la partecipazione all’aspirante concorrente al concorso.
Pertanto, la lesività della previsione contenuta nell’avviso è emersa solo al momento dell’approvazione della graduatoria (
Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 12.02.2016 n. 618 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Sulla legittimità dell'ordinanza sindacale che ha impartito il divieto di accedere all’immobile pericolante.
L’art. 54 d.lgs. 18.08.2000, n. 267, stabilisce che il Sindaco, quale ufficiale del Governo, adotta con atto motivato provvedimenti, anche contingibili e urgenti nel rispetto dei principi generali dell'ordinamento, al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l'incolumità pubblica e la sicurezza urbana.
Nella giurisprudenza è stato chiarito che le ordinanze di cui si tratta non hanno carattere sanzionatorio, ma solo ripristinatorio, per essere dirette solamente alla celere rimozione dello stato di pericolo e a prevenire danni alla salute pubblica, per cui la loro adozione può prescindere dalla verifica della responsabilità dell'evento dannoso.
In particolare, viene ritenuto legittimo il provvedimento che imponga al proprietario di un manufatto o di un altro immobile la realizzazione di opere di messa in sicurezza dello stesso, ancorché non sia a lui imputabile lo stato di pericolosità, giacché egli si trova con la res in rapporto tale da consentirgli di eliminare la riscontrata situazione di pericolo.
Il ricorso, dunque, si rivela infondato, in quanto il Sindaco del Comune di Lungo aveva il potere di emettere il provvedimento impugnato e il suo contenuto si manifesta conforme al modello legale, sì come enucleato dalla giurisprudenza indicata.
Rimane, evidentemente, immutata la possibilità delle ricorrenti di far valere nelle sedi opportune le eventuali responsabilità del Comune di Lungro per i danni loro provocati dal mancato intervento finalizzato ad arrestare il fenomeno franoso.

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... per l'annullamento dell'ordinanza sindacale del 05.10.2015, n. 34, avente a oggetto il divieto di utilizzo e di accesso a qualunque titolo dell'immobile non agibile.
...
1. - Con l’ordinanza del 05.10.2015, n. 34, il Sindaco del Comune di Lungro ha impartito a Ir. e Is.To. il divieto di accedere all’immobile di loro proprietà, sito in territorio comunale, alla via ..., n. 46, pericolante.
Con il medesimo provvedimento è stato ordinato alle proprietarie dell’immobile di procedere con urgenza alla messa in sicurezza e al consolidamento dello stesso e di attivare altresì un intervento di monitoraggio al fine di rilevare l’eventuale più consistente cedimento del suolo.
2. - Ir. e Is.To. si sono dunque rivolte a questo Tribunale Amministrativo Regionale chiedendo l’annullamento del provvedimento.
Esse hanno premesso che l’immobile in questione era stato edificato sulla base di regolare concessione edilizia e che era diventato pericolante a seguito di un vasto fenomeno franoso al quale il Comune di Lungro non aveva posto rimedio.
Hanno dunque dedotto l’illegittimità del provvedimento impugnato per: 1) carenza di potere; 2) violazione di legge; 3) eccesso, sviamento e travisamento di potere.
In estrema sintesi, le ricorrenti hanno sostenuto che il Sindaco del Comune di Lungro non aveva il potere di emettere il provvedimento impugnato; e che non poteva essere attribuito a loro l’onere di risolvere una situazione di pericolo ingenerata dalla stessa amministrazione intimata, che non era intervenuto a porre fine alla situazione di dissesto idrogeologico.
3. - Il Comune di Lungro si è costituito in giudizio e ha resistito all’avversa azione.
4. - Alla camera di consiglio del 02.02.2016, fissata per la trattazione dell’istanza cautelare presentata dalle ricorrenti, il ricorso, sussistendone i presupposti e previo avviso alle parti, è stato discusso nel merito e spedito in decisione ex art. 60 c.p.a..
5. - L’art. 54 d.lgs. 18.08.2000, n. 267, stabilisce che il Sindaco, quale ufficiale del Governo, adotta con atto motivato provvedimenti, anche contingibili e urgenti nel rispetto dei principi generali dell'ordinamento, al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l'incolumità pubblica e la sicurezza urbana.
Nella giurisprudenza è stato chiarito che le ordinanze di cui si tratta non hanno carattere sanzionatorio, ma solo ripristinatorio, per essere dirette solamente alla celere rimozione dello stato di pericolo e a prevenire danni alla salute pubblica, per cui la loro adozione può prescindere dalla verifica della responsabilità dell'evento dannoso.
In particolare, viene ritenuto legittimo il provvedimento che imponga al proprietario di un manufatto o di un altro immobile la realizzazione di opere di messa in sicurezza dello stesso, ancorché non sia a lui imputabile lo stato di pericolosità, giacché egli si trova con la res in rapporto tale da consentirgli di eliminare la riscontrata situazione di pericolo (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 05.09.2005, n. 4525; TAR Lazio–Latina, 17.07.2013, n. 627; TAR Campania, Napoli, Sez. V, 14.10.2013, n. 4603; TAR Abruzzo, L’Aquila, 24.07.2010, n. 548).
Il ricorso, dunque, si rivela infondato, in quanto il Sindaco del Comune di Lungo aveva il potere di emettere il provvedimento impugnato e il suo contenuto si manifesta conforme al modello legale, sì come enucleato dalla giurisprudenza indicata.
Rimane, evidentemente, immutata la possibilità delle ricorrenti di far valere nelle sedi opportune le eventuali responsabilità del Comune di Lungro per i danni loro provocati dal mancato intervento finalizzato ad arrestare il fenomeno franoso (TAR
Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 02.02.2016 n. 207 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAMerita condivisione la censura prospettata nel primo motivo di ricorso, incentrata sulla violazione dell’art. 7 l. 241/1990, posto che non si rinvengono nella normativa di settore e nella fattispecie concreta in esame ragioni per sottrarre il procedimento preordinato all'emanazione dell'ordinanza di rimozione e smaltimento dei rifiuti, ai sensi dell'art. 192, d.lgs. 03.04.2006 n. 152 del 2006, alla disciplina comune sulla comunicazione di avvio del procedimento ex art. 7 e ss., l. 07.08.1990, n. 241, trattandosi di un adempimento obbligatorio, la cui mancanza determina l’illegittimità dell’atto non preceduto dallo stesso.
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Il terzo comma dell'art. 192 dlgs 152/2006 prescrive che l’autore della condotta di abbandono incontrollato di rifiuti “è tenuto a procedere alla rimozione, all'avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi in solido con il proprietario e con i titolari di diritti reali o personali di godimento sull'area, ai quali tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa, in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo. Il Sindaco dispone con ordinanza le operazioni a tal fine necessarie ed il termine entro cui provvedere, decorso il quale procede all'esecuzione in danno dei soggetti obbligati ed al recupero delle somme anticipate”.
La disposizione testé riportata viene costantemente intesa dal giudice amministrativo nel senso che essa impone, da un lato, la sussistenza dell’elemento oggettivo del dolo o della colpa, e, dall'altro, l'accertamento “in contraddittorio” con i soggetti interessati, ciò in coerenza con il complessivo assetto normativo del Codice dell’Ambiente, tutto incentrato su una rigorosa tipicità dell'illecito ambientale e nel quale non v'è spazio alcuno per ipotesi di responsabilità oggettiva, di tal che, in base al d.lgs. n. 152/2006, “la P.A. non può imporre ai privati che non abbiano alcuna responsabilità, né diretta, né indiretta sull'origine del fenomeno contestato, ma che vengano individuati solo quali proprietari o gestori o addirittura in ragione della mera collocazione geografica del bene, l'obbligo di bonifica di rimozione e smaltimento di rifiuti ed, in generale, della riduzione al pristino stato dei luoghi che è posto unicamente in capo al responsabile dell'inquinamento, che le Autorità amministrative hanno l'onere di ricercare ed individuare. Ai fini della responsabilità in questione è perciò necessario che sussista e sia provata, attraverso l'esperimento di adeguata istruttoria, l'esistenza di un nesso di causalità fra l'azione o l'omissione ed il superamento —o pericolo concreto ed attuale di superamento— dei limiti di contaminazione, senza che possa venire in rilievo una sorta di responsabilità oggettiva facente capo al proprietario o al possessore dell'immobile, meramente in ragione di tale qualità”.
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... per l'annullamento dell’ordinanza n. 23 del 11/05/2015, ai sensi dell’art. 192 d.lgs. n. 152/2006 con la quale veniva ordinato al Genio Civile di Napoli ed al Consorzio Generale di Bacino ricorrente di provvedere…alla rimozione del materiale abbandonato (canne fumarie in Eternit) nel Regio Lagno (Alveo Troncito) alla località Migliano del Comune di Lauro e allo smaltimento di esso mediante ditte aventi opportune autorizzazioni;
...
Il ricorso è fondato sotto diversi profili e va, pertanto, accolto
In primo luogo, merita condivisione la censura prospettata nel primo motivo di ricorso, incentrata sulla violazione dell’art. 7 l. 241/1990, posto che non si rinvengono nella normativa di settore e nella fattispecie concreta in esame ragioni per sottrarre il procedimento preordinato all'emanazione dell'ordinanza di rimozione e smaltimento dei rifiuti, ai sensi dell'art. 192, d.lgs. 03.04.2006 n. 152 del 2006, alla disciplina comune sulla comunicazione di avvio del procedimento ex art. 7 e ss., l. 07.08.1990, n. 241, trattandosi di un adempimento obbligatorio, la cui mancanza determina l’illegittimità dell’atto non preceduto dallo stesso (TAR Potenza, sez. I, 26/08/2014 n. 561)
Quanto gli altri motivi di ricorso, il Collegio osserva che correttamente la difesa del Consorzio ricorrente si duole del fatto che il Comune di Lauro, nell’emanare l’ordinanza impugnata, non ha tenuto conto dei presupposti legislativamente individuati per l’esercizio del potere repressivo di cui all’art. 192 d.lgs. n. 152/2006 (Codice dell’Ambiente), così come interpretati dal prevalente orientamento dei giudici amministrativi.
Invero, il terzo comma del citato art. 192 prescrive che l’autore della condotta di abbandono incontrollato di rifiuti “è tenuto a procedere alla rimozione, all'avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi in solido con il proprietario e con i titolari di diritti reali o personali di godimento sull'area, ai quali tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa, in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo. Il Sindaco dispone con ordinanza le operazioni a tal fine necessarie ed il termine entro cui provvedere, decorso il quale procede all'esecuzione in danno dei soggetti obbligati ed al recupero delle somme anticipate”.
La disposizione testé riportata viene costantemente intesa dal giudice amministrativo nel senso che essa impone, da un lato, la sussistenza dell’elemento oggettivo del dolo o della colpa, e, dall'altro, l'accertamento “in contraddittorio” con i soggetti interessati, ciò in coerenza con il complessivo assetto normativo del Codice dell’Ambiente, tutto incentrato su una rigorosa tipicità dell'illecito ambientale e nel quale non v'è spazio alcuno per ipotesi di responsabilità oggettiva, di tal che, in base al d.lgs. n. 152/2006, “la P.A. non può imporre ai privati che non abbiano alcuna responsabilità, né diretta, né indiretta sull'origine del fenomeno contestato, ma che vengano individuati solo quali proprietari o gestori o addirittura in ragione della mera collocazione geografica del bene, l'obbligo di bonifica di rimozione e smaltimento di rifiuti ed, in generale, della riduzione al pristino stato dei luoghi che è posto unicamente in capo al responsabile dell'inquinamento, che le Autorità amministrative hanno l'onere di ricercare ed individuare. Ai fini della responsabilità in questione è perciò necessario che sussista e sia provata, attraverso l'esperimento di adeguata istruttoria, l'esistenza di un nesso di causalità fra l'azione o l'omissione ed il superamento —o pericolo concreto ed attuale di superamento— dei limiti di contaminazione, senza che possa venire in rilievo una sorta di responsabilità oggettiva facente capo al proprietario o al possessore dell'immobile, meramente in ragione di tale qualità” (TAR Salerno, II, 04/02/2015 n. 232; TAR Lecce, I, 12/01/2015 n. 108; Id., 09/10/2014 n. 2452; TAR Potenza, sez. I. 26/08/2014, n. 561; Cons. Stato, sez. V, 17/07/2014 n. 3786).
Nel caso di specie, nessun riferimento è contenuto nell’atto impugnato circa lo svolgimento di accertamenti volti ad individuare il responsabile o i responsabili della condotta sanzionata e circa l’instaurazione del contraddittorio con i soggetti proprietari o detentori del fondo, né alcuna prova è stata offerta al riguardo dal Comune di Lauro, peraltro non costituitosi in giudizio. Al contrario, il Consorzio ricorrente, unitamente al Genio Civile di Napoli, pure esso evocato in giudizio, ma non costituitosi, viene considerato tout court, senza indagine e interlocuzione alcuna, -e perciò in maniera del tutto illegittima- soggetto responsabile “per l’abbandono e deposito incontrollato di rifiuti speciali e non”.
Infine –e il rilievo vale a sancire la fondatezza anche dell’ultimo motivo di gravame- neppure il Consorzio ricorrente può ritenersi attualmente investito dell’obbligo di custodia e manutenzione dell’Alveo Troncito, sito in località Migliano nel Comune di Lauro, non avendo la Regione Campania ancora provveduto alla formale consegna di detta opera idrica ai sensi della l.r. 4/2003 (cfr. sentenza TRAP presso la Corte di Appello di Napoli n. 110 del 16 maggio–15.07.2011).
Alla luce dei rilievi esposti, il gravame va, pertanto, disatteso (TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 29.01.2016 n. 581 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAIl Piano Particolareggiato è uno strumento di attuazione delle previsioni del Piano Urbanistico Comunale col quale si disciplinano, in termini più puntuali e di dettaglio rispetto alle previsioni dello strumento generale, particolari ambiti territoriali.
Il piano particolareggiato, in particolare, detta la disciplina di dettaglio degli ambiti urbani.
La durata della sua efficacia è strettamente connessa al termine della sua vigenza indicato nella delibera di approvazione, che non può essere maggiore di 10 anni, come previsto dall’art. 16, co. 5, della legge n. 1150 del 1942, con la conseguenza che il decorso di detto termine per la sua esecuzione, il piano particolareggiato “diventa inefficace per la parte in cui non abbia avuto attuazione” (art. 17, co. 1, L. 1150/1942).
L’assetto urbanistico nello stesso cristallizzato, peraltro, permane fino all’approvazione di una variante dello stesso piano oppure fino ad una modifica dello strumento generale (anche totale, come nel caso di approvazione di un nuovo PUC) che ne disponga in via espressa la modifica.
Se questo è vero, l’approvazione di un nuovo PUC, del tutto silente in ordine alla sorte dei piani attuativi approvati sotto il vecchio PRG, non può comportare ex se, in via automatica, l’annullamento dei piani particolareggiati preesistenti, occorrendo all’uopo una puntuale ed espressa determinazione -modificativa o abrogativa- degli stessi, supportata da adeguata motivazione, in assenza della quale gli atti pianificatori già adottati diventano parti integranti, con valenza attuativa, anche del nuovo strumento urbanistico generale.
Al riguardo la giurisprudenza è pacifica nel ritenere che sebbene le scelte pianificatorie, contenute nello strumento urbanistico generale, non necessitino di particolare motivazione -al di fuori dall’indicazione dei criteri tecnico urbanistici e delle ragioni evincibili dai criteri generali seguiti dal piano, godendo la p.a. di un ampio potere discrezionale- è invece obbligatoria una congrua motivazione, per giustificare scelte differenti, solo in presenza di impegni già presi con la stipula di una convenzione di lottizzazione, o quando il nuovo strumento urbanistico incida su aspettative qualificate.
E’ evidente che la specifica motivazione richiesta dalla giurisprudenza, deve riferirsi alle disposizioni dello strumento generale riguardanti la modifica di ben determinate parti, o regole, dello strumento attuativo, non essendo necessaria, per pacifica giurisprudenza, la motivazione in ordine alla disciplina generale dettata con lo strumento urbanistico.

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La questione sottoposta all’esame del Collegio è sostanzialmente riconducibile alla più generale problematica degli effetti della successione nel tempo degli strumenti urbanistici.
In particolare, per quanto qui rileva, la controversia per cui è causa attiene al rapporto tra Piano Particolareggiato del vecchio PRG e nuovo Piano Urbanistico Comunale.
Il sig. Fl., infatti, in qualità di proprietario di un’area sita in Sassari nella via ... n. 3/b, inserita nel Piano particolareggiato delle “Zone B perimetrate”, attuativo delle previsioni del vecchio PRG, chiedeva all’ufficio comunale il rilascio della concessione edilizia per la realizzazione di un progetto di demolizione di un edificio esistente e di successiva ricostruzione, con l’incremento volumetrico consentito dalla L.R. n. 4/2009.
Il Comune di Sassari, dapprima in via soprassessoria (ricorso originario) e poi con provvedimento espresso (ricorso per motivi aggiunti) respingeva tale richiesta in quanto il nuovo PUC non aveva espressamente fatto salvi, per le “Zone B perimetriche” (ma solo per le zone B4), i piani attuativi della vecchia pianificazione urbanistica, sicché il progetto presentato si poneva in contrasto con l’art. 26 delle NTA del nuovo PUC per il quale nella zona di intervento “l’attività edilizia comportante tipologie di intervento superiori al restauro e alla ristrutturazione edilizia è subordinata alla preventiva formazione del un Piano Attuativo che allo stato non esiste”.
In sostanza il provvedimento negativo impugnato è fondato sul presupposto che il piano attuativo del vecchio PRG deve considerarsi automaticamente decaduto in quanto non espressamente fatto salvo dal nuovo PUC, sicché la richiesta edificatoria avanzata dal ricorrente sarebbe irrimediabilmente priva del necessario supporto pianificatorio.
L’assunto del Comune non è condivisibile per quanto appresso.
Come noto il Piano Particolareggiato è uno strumento di attuazione delle previsioni del Piano Urbanistico Comunale col quale si disciplinano, in termini più puntuali e di dettaglio rispetto alle previsioni dello strumento generale, particolari ambiti territoriali.
Il piano particolareggiato, in particolare, detta la disciplina di dettaglio degli ambiti urbani.
La durata della sua efficacia è strettamente connessa al termine della sua vigenza indicato nella delibera di approvazione, che non può essere maggiore di 10 anni, come previsto dall’art. 16, co. 5, della legge n. 1150 del 1942, con la conseguenza che il decorso di detto termine per la sua esecuzione, il piano particolareggiato “diventa inefficace per la parte in cui non abbia avuto attuazione” (art. 17, co. 1, L. 1150/1942).
L’assetto urbanistico nello stesso cristallizzato, peraltro, permane fino all’approvazione di una variante dello stesso piano oppure fino ad una modifica dello strumento generale (anche totale, come nel caso di approvazione di un nuovo PUC) che ne disponga in via espressa la modifica.
Se questo è vero, l’approvazione di un nuovo PUC, del tutto silente in ordine alla sorte dei piani attuativi approvati sotto il vecchio PRG, non può comportare ex se, in via automatica, l’annullamento dei piani particolareggiati preesistenti, occorrendo all’uopo una puntuale ed espressa determinazione -modificativa o abrogativa- degli stessi, supportata da adeguata motivazione, in assenza della quale gli atti pianificatori già adottati diventano parti integranti, con valenza attuativa, anche del nuovo strumento urbanistico generale.
Al riguardo la giurisprudenza è pacifica nel ritenere che sebbene le scelte pianificatorie, contenute nello strumento urbanistico generale, non necessitino di particolare motivazione -al di fuori dall’indicazione dei criteri tecnico urbanistici e delle ragioni evincibili dai criteri generali seguiti dal piano, godendo la p.a. di un ampio potere discrezionale- è invece obbligatoria una congrua motivazione, per giustificare scelte differenti, solo in presenza di impegni già presi con la stipula di una convenzione di lottizzazione, o quando il nuovo strumento urbanistico incida su aspettative qualificate (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 22/06/2004, n. 4407 e 19/02/2010, n. 1004; Cassazione civile, sez. I, 10/12/2008, n. 28980; TAR Perugia sez. I, 03/03/2010, n. 152; TAR Parma sez. I, 11/05/2011, n. 141; TAR Aosta, (Valle d'Aosta), sez. I, 24/07/2012, n. 73).
E’ evidente che la specifica motivazione richiesta dalla giurisprudenza, deve riferirsi alle disposizioni dello strumento generale riguardanti la modifica di ben determinate parti, o regole, dello strumento attuativo, non essendo necessaria, per pacifica giurisprudenza, la motivazione in ordine alla disciplina generale dettata con lo strumento urbanistico.
Come giustamente evidenzia la difesa del ricorrente, la stessa Relazione di progetto del nuovo PUC all’art. 16, nel solco di tale percorso interpretativo, precisa che “…I Piani Particolareggiati già predisposti dalla Amministrazione comunale nel quadro del PRG vigente prima dell’entrata in vigore della normativa specifica del PPR, costituiscono il fondamentale patrimonio conoscitivo e normativo di dettaglio ma dovranno essere revisionati e integrati in rapporto alla verifica di conformità…”.
Con l’approvazione di un nuovo PUC, cioè, la sorte dei vecchi piani attuativi, in assenza di una specifica norma ad essi dedicata, non è quella di una loro automatica e implicita caducazione ma, piuttosto, quella di poter essere sottoposti ad una verifica di conformità oggetto di puntuale istruttoria supportata -all’esito- da una adeguata motivazione.
A prescindere dalla legittimità della riportata disposizione, tali “revisioni” ed “integrazioni”, come rilevato dalla difesa di parte ricorrente, non ci sono poi state, né ci sono state, in particolare, per il P.P. delle “Zone perimetrate”.
In ogni caso, ove potesse sostenersi una implicita modifica o abrogazione, la stessa, come censurato con il primo motivo, “sarebbe comunque illegittima…sotto il profilo del difetto assoluto di motivazione”, alla luce della giurisprudenza prima riportata.
Per quanto sopra non può quindi condividersi l’assunto comunale secondo il quale le scelte discrezionali del pianificatore, espressione di apprezzamento di merito sottratte al sindacato di legittimità, si sarebbero trasfuse nelle norme di attuazione del nuovo PUC e, in particolare, nella disciplina implicitamente abrogativa dettata all’art. 26 che al fine di realizzare nella zona per cui è causa interventi quale quello di cui si discute occorre la previa adozione di un piano particolareggiato.
In ogni caso è palese il difetto di motivazione del diniego impugnato, non essendosi accertata, per quanto di interesse in relazione all’intervento proposto dal sig. Fl., l’incompatibilità del vecchio piano particolareggiato col nuovo strumento urbanistico e non potendosi, pertanto, prescindere dalla sua esistenza.
Restano salvi, naturalmente, gli ulteriori provvedimenti che l’amministrazione comunale riterrà di adottare sulla richiesta del ricorrente (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 20.01.2016 n. 43 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIE' insegnamento tradizionale e consolidato quello in base al quale, nel processo amministrativo, la motivazione deve precedere e non seguire il provvedimento, a tutela oltre che del buon andamento e dell'esigenza di delimitazione del controllo giudiziario degli stessi principi di parità delle parti e giusto processo (art. 2 c.p.a.) e di pienezza della tutela secondo il diritto Europeo (art. 1 c.p.a.) i quali convergono nella centralità della motivazione quale presidio del diritto costituzionale di difesa.
Tuttavia, il divieto di integrazione giudiziale della motivazione non ha carattere assoluto, in quanto non sempre i chiarimenti resi nel corso del giudizio valgono quale inammissibile integrazione postuma della motivazione: è il caso degli atti di natura vincolata di cui all'art. 21-octies l. n. 241-1990, nei quali l'Amministrazione può dare anche successivamente l'effettiva dimostrazione in giudizio dell'impossibilità di un diverso contenuto dispositivo dell'atto, oppure quello concernente la possibilità di una successiva indicazione di una fonte normativa non prima menzionata nel provvedimento, quando questa, per la sua notorietà, ben avrebbe potuto e dovuto essere conosciuta da un operatore professionale.
Infatti, sebbene il divieto di motivazione postuma, costantemente affermato dalla giurisprudenza amministrativa, meriti di essere confermato, rappresentando l'obbligo di motivazione il presidio essenziale del diritto di difesa, non può ritenersi che l'Amministrazione incorra nel vizio di difetto di motivazione quando le ragioni del provvedimento siano chiaramente intuibili sulla base della parte dispositiva del provvedimento impugnato o si verta in ipotesi di attività vincolata.
Inoltre, ed in particolare, la facoltà dell'Amministrazione di dare l'effettiva dimostrazione dell'impossibilità di un diverso contenuto dispositivo dell'atto, nel caso di atti vincolati, esclude in sede processuale che l'argomentazione difensiva dell'Amministrazione, tesa ad assolvere all'onere della prova, possa essere qualificato come illegittima integrazione postuma della motivazione sostanziale, cioè come un'indebita integrazione in sede giustiziale della motivazione stessa.
Pertanto, alla luce dell'attuale assetto normativo, devono essere attenuate le conseguenze del principio del divieto di integrazione postuma, dequotando il relativo vizio tutte le volte in cui l'omissione di motivazione successivamente esternata:
- non abbia leso il diritto di difesa dell'interessato;
- nei casi in cui, in fase infraprocedimentale, risultano percepibili le ragioni sottese all'emissione del provvedimento gravato;
- nei casi di atti vincolati.

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Preliminarmente il Collegio deve darsi carico di valutare se la relazione, versata in atti a cura dell’Amministrazione ministeriale con la produzione del 10.10.2015, possa essere proficuamente utilizzata ai fini del presente giudizio o se essa incorra nei rigori nel divieto di integrazione postuma della motivazione, come, peraltro, evidenziato dalla ricorrente nelle proprie memorie difensive.
Sul punto gioverà ricordare che la giurisprudenza (ex multis Cons. St. Sez. V 20.08.2013 n. 4194, di seguito riportata) è orientata a ritenere che è insegnamento tradizionale e consolidato quello in base al quale, nel processo amministrativo, la motivazione deve precedere e non seguire il provvedimento, a tutela oltre che del buon andamento e dell'esigenza di delimitazione del controllo giudiziario degli stessi principi di parità delle parti e giusto processo (art. 2 c.p.a.) e di pienezza della tutela secondo il diritto Europeo (art. 1 c.p.a.) i quali convergono nella centralità della motivazione quale presidio del diritto costituzionale di difesa.
Tuttavia, il divieto di integrazione giudiziale della motivazione non ha carattere assoluto, in quanto non sempre i chiarimenti resi nel corso del giudizio valgono quale inammissibile integrazione postuma della motivazione: è il caso degli atti di natura vincolata di cui all'art. 21-octies l. n. 241-1990, nei quali l'Amministrazione può dare anche successivamente l'effettiva dimostrazione in giudizio dell'impossibilità di un diverso contenuto dispositivo dell'atto, oppure quello concernente la possibilità di una successiva indicazione di una fonte normativa non prima menzionata nel provvedimento, quando questa, per la sua notorietà, ben avrebbe potuto e dovuto essere conosciuta da un operatore professionale (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 09.10.2012, n. 5257).
Infatti, sebbene il divieto di motivazione postuma, costantemente affermato dalla giurisprudenza amministrativa, meriti di essere confermato, rappresentando l'obbligo di motivazione il presidio essenziale del diritto di difesa, non può ritenersi che l'Amministrazione incorra nel vizio di difetto di motivazione quando le ragioni del provvedimento siano chiaramente intuibili sulla base della parte dispositiva del provvedimento impugnato o si verta in ipotesi di attività vincolata (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 27.08.2012, n. 4610 e sez. IV, 07.06.2012, n. 3376).
Inoltre, ed in particolare, la facoltà dell'Amministrazione di dare l'effettiva dimostrazione dell'impossibilità di un diverso contenuto dispositivo dell'atto, nel caso di atti vincolati, esclude in sede processuale che l'argomentazione difensiva dell'Amministrazione, tesa ad assolvere all'onere della prova, possa essere qualificato come illegittima integrazione postuma della motivazione sostanziale, cioè come un'indebita integrazione in sede giustiziale della motivazione stessa. Pertanto, alla luce dell'attuale assetto normativo, devono essere attenuate le conseguenze del principio del divieto di integrazione postuma, dequotando il relativo vizio tutte le volte in cui l'omissione di motivazione successivamente esternata:
- non abbia leso il diritto di difesa dell'interessato;
- nei casi in cui, in fase infraprocedimentale, risultano percepibili le ragioni sottese all'emissione del provvedimento gravato;
- nei casi di atti vincolati.
Nella specie, non si versa in alcuna delle ipotesi citate per cui deve ritenersi operante il divieto di integrazione giudiziale della motivazione, atteso che le ragioni della sfavorevole determinazione oggetto di impugnazione, caratterizzata da valutazioni connotate da elementi tecnico-discrezionali, risultano integrate con altre indicazioni non agevolmente percepibili dall'originario percorso motivazionale, aggravando l'esercizio del diritto di difesa di parte ricorrente.
Pertanto, delle motivazioni esternate nella relazione versata successivamente in atti, il Collegio non può tenere conto ai fini della delibazione della questione oggetto di scrutinio
(TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 13.01.2016 n. 23 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In materia edilizia, la nozione di pertinenza va definita sia in relazione alla necessità e all’oggettività del rapporto pertinenziale sia alla consistenza dell’opera, che non deve essere tale da alterare in modo significativo l’assetto del territorio.
Con particolare riguardo alle tettoie o alle altre simili strutture di riparo e protezione di spazi liberi, si è difatti affermato che dette strutture possono ritenersi liberamente edificabili solo qualora la loro conformazione e le loro ridotte dimensioni rendano evidente e riconoscibile la loro finalità di arredo, riparo o protezione, anche da agenti atmosferici e quando, non presentino carattere di autonoma utilizzabilità, e possano ritenersi assorbite, ovvero ricomprese in ragione della loro accessorietà, nell’edificio principale o nella parte dello stesso cui accedono.
Pertanto, si è riconosciuto che le tettoie aperte su tre lati e addossate ad un edificio principale, se di dimensioni e caratteristiche costruttive non particolarmente impattanti, costituiscono pertinenze dell’edificio cui accedono.

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In argomento, cfr. anche la massima, tratta dalla sentenza del TAR Campania–Napoli, che segue: “In materia edilizia, la nozione di pertinenza va definita sia in relazione alla necessità e all’oggettività del rapporto pertinenziale sia alla consistenza dell’opera, che non deve essere tale da alterare in modo significativo l’assetto del territorio. Con particolare riguardo alle tettoie o alle altre simili strutture di riparo e protezione di spazi liberi, si è difatti affermato che dette strutture possono ritenersi liberamente edificabili solo qualora la loro conformazione e le loro ridotte dimensioni rendano evidente e riconoscibile la loro finalità di arredo, riparo o protezione, anche da agenti atmosferici e quando, non presentino carattere di autonoma utilizzabilità, e possano ritenersi assorbite, ovvero ricomprese in ragione della loro accessorietà, nell’edificio principale o nella parte dello stesso cui accedono. Pertanto, si è riconosciuto che le tettoie aperte su tre lati e addossate ad un edificio principale, se di dimensioni e caratteristiche costruttive non particolarmente impattanti, costituiscono pertinenze dell’edificio cui accedono” (TAR Napoli, (Campania), Sez. VIII, 07/02/2013, n. 789) (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 13.01.2016 n. 17 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAL'approvazione del Piano di lottizzazione non è atto dovuto, ancorché il Piano medesimo risulti conforme al Piano regolatore generale, essendo l'approvazione medesima sempre espressione di potere discrezionale dell'organo deputato a valutare l'opportunità di dare attuazione alle previsioni dello strumento urbanistico generale: ciò in quanto tra quest'ultimo e i suoi strumenti attuativi sussiste un rapporto di necessaria compatibilità, ma non di formale coincidenza.
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Quanto allo specifico tema della rotatoria è agevole osservare che la sua realizzazione o meno costituisce, con tutta evidenza, il vero fulcro della controversia.
Ebbene, al riguardo il Collegio reputa:
- per un verso, che le modalità di realizzazione di un incrocio stradale (se a T o con rotatoria) non investono il governo del territorio, per cui l’opzione, in sede di piano di lottizzazione, per una soluzione progettuale differente da quella prevista in PRG non si pone ex se in rapporto di incompatibilità con detto strumento, giacché entrambe le soluzioni si collocano su un piano di sostanziale indifferenza rispetto alla disciplina urbanistica vera e propria;
- per altro verso, che detta opzione è frutto di discrezionalità tecnica, anch’essa limitatamente sindacabile da questo Giudice se non per manifesta illogicità, nella specie non ravvisabile, giacché risulta un dato di comune esperienza quello per cui la realizzazione di una rotatoria sia ormai la soluzione tecnica di gran lunga più attuata in tutta Europa per ovviare al problema della confluenza tra due o più strade.

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5. Ciò premesso, osserva il Collegio come sulla fondamentale quaestio iuris che agita la controversia (ossia quella che investe i rapporti tra piano di lottizzazione e strumento urbanistico generale sovraordinato) risulti condivisibile, tra le due contrapposte tesi che si fronteggiano in causa, la posizione del Comune che -cfr. p. 4 memoria 07.11.2015- si richiama alla consolidata giurisprudenza del Consiglio di Stato, orientata nel senso che "l'approvazione del Piano di lottizzazione non è atto dovuto, ancorché il Piano medesimo risulti conforme al Piano regolatore generale, essendo l'approvazione medesima sempre espressione di potere discrezionale dell'organo deputato a valutare l'opportunità di dare attuazione alle previsioni dello strumento urbanistico generale: ciò in quanto tra quest'ultimo e i suoi strumenti attuativi sussiste un rapporto di necessaria compatibilità, ma non di formale coincidenza" (così Cons. Stato Sez. IV, 19.09.2012, n. 4977 e 12.03.2013, n. 1479).
5.1. Infatti non solo tale orientamento è costante, come espressamente affermato nella citata sentenza n. 1479/2013, ma il richiamo a quest’ultima si rivela particolarmente conferente al caso qui in esame, poiché in quella fattispecie il Giudice amministrativo d’appello ha, in applicazione di tale principio:
- ritenuto che l'amministrazione comunale avesse “del tutto legittimamente” introdotto nel procedimento valutazioni ostative in quanto sarebbe stato necessario che la lottizzazione fosse maggiormente estesa, in funzione di completamento dell'area interessata, e che i parcheggi fossero diversamente ubicati, per evitare “la non congruente conseguenza per cui i parcheggi pubblici sarebbero stati distanti dalle opere di urbanizzazione secondaria”;
- evidenziato che detti motivi ostativi, non parevano (nei limiti del sindacato espletabile su tali scelte amministrative) abnormi o contraddittori.
5.2. Allo stesso modo, facendo applicazione all’attuale controversia del medesimo principio sopraenunciato e tenendo conto dei limiti del sindacato esercitabile da questo Giudice in subiecta materia, non può concludersi che la motivazione addotta dal Comune di Urgnano sia -come invece deduce parte ricorrente- “fortemente incongrua, illogica e in sé contraddittoria, laddove richiede che “le aree a verde e i parcheggi siano spalmate lungo la Via Provinciale, creando una cortina a verde che funga da elemento mitigatore dell’impatto visivo dei nuovi capannoni” e ritiene “che l’unica soluzione viabilistica compatibile con le caratteristiche strutturali della strada Provinciale, il volume di traffico e gli insediamenti ubicati lungo il lato opposto della strada stessa, sia quindi la realizzazione della rotatoria in corrispondenza dell’incrocio tra la SP 591 e Via Curti”.
5.3. Neppure la ricorrente contesta, invero, l’effetto mitigatore della prima richiesta, ma si lamenta essenzialmente dei costi che i lottizzanti dovrebbero sopportare.
5.4. Quanto, poi, allo specifico tema della rotatoria è agevole osservare che la sua realizzazione o meno costituisce, con tutta evidenza il vero fulcro della controversia, tanto da essere stata posta al centro, come dedotto dalla Co.Co., anche del successivo ricorso n. 1095/2010 avverso il nuovo PGT in cui detta rotatoria è stata inserita.
Ebbene, al riguardo il Collegio reputa:
- per un verso, che le modalità di realizzazione di un incrocio stradale (se a T o con rotatoria) non investono il governo del territorio, per cui l’opzione, in sede di piano di lottizzazione, per una soluzione progettuale differente da quella prevista in PRG non si pone ex se in rapporto di incompatibilità con detto strumento, giacché entrambe le soluzioni si collocano su un piano di sostanziale indifferenza rispetto alla disciplina urbanistica vera e propria;
- per altro verso, che detta opzione è frutto di discrezionalità tecnica, anch’essa limitatamente sindacabile da questo Giudice se non per manifesta illogicità, nella specie non ravvisabile, giacché risulta un dato di comune esperienza quello per cui la realizzazione di una rotatoria sia ormai la soluzione tecnica di gran lunga più attuata in tutta Europa per ovviare al problema della confluenza tra due o più strade: né la perizia di parte dell’Ing. Fi. né l’insistenza di parte ricorrente sull’asserita diversità tra i due pareri resi in proposito dalla Provincia riescono a rovesciare questa acquisizione e a dimostrare la pretesa macroscopica illogicità della richiesta in tal senso avanzata dal Comune (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 12.01.2016 n. 23 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPremesso che il parere ex art. 32 l. n. 47/1985 “ha natura e funzioni identiche all'autorizzazione paesaggistica ex art. 7 l. 29.06.1939, n. 1497”, il quale “ha implicato un rinvio mobile alla disciplina del procedimento di gestione del vincolo paesaggistico, costituente una fase procedimentale indispensabile per la positiva conclusione del procedimento di condono”, deve ritenersi applicabile l'art. 146 d.lvo n. 42/2004 “in relazione a tutte le istanze (formulate in ogni tempo e che ancora non avevano dato luogo a un accoglimento o a un rigetto) volte ad ottenere una autorizzazione paesaggistica, per opere già realizzate o ancora da realizzare (…).
Né si ravvisa l'incompatibilità della disciplina dell'art. 146 d.lgs. n. 42 del 2004 con l'istituto del condono edilizio (…) sotto il profilo che il comma 4 dell'art. 146 vieta (salve le ipotesi eccezionali di cui al successivo art. 167, commi 4 e 5) il rilascio dell'autorizzazione paesaggistica postuma, in quanto:
- nei casi in esame si verte in fattispecie non già di autorizzazione paesaggistica in sanatoria, bensì di concessione edilizia in sanatoria, rispetto alla quale l'autorizzazione paesaggistica costituisce presupposto procedimentale;
- la disciplina contenuta nell'art. 146 d.lgs. n. 42 del 2004 deve essere interpretata in via sistematica, in coordinamento con l'istituto speciale del condono edilizio, il quale, per definizione, presuppone l'anteriorità dell'intervento abusivo rispetto al rilascio del titolo sanante, sicché, in tale ipotesi, l'autorizzazione paesaggistica (e il parere soprintendentizio) si dovranno basare sulla valutazione della compatibilità con lo stato dei luoghi degli interventi abusivi oggetto dell'istanza di sanatoria, in relazione alle specifiche competenze delle amministrazioni preposte alla tutela del vincolo.

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Con l’istanza in ordine alla quale si è formato il silenzio-inadempimento lamentato con il ricorso in esame, la parte ricorrente chiedeva al Comune di Montecorvino Pugliano di porre in essere le azioni necessarie a garantire la validità del provvedimento di concessione in sanatoria n. 02/03 del 25.03.1986, essendo stata omessa l’acquisizione del preventivo atto di assenso paesaggistico.
L’amministrazione comunale intimata, senza contestare nel merito le deduzioni attoree, evidenzia l’opportunità che “la soluzione venga trovata congiuntamente con la Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici di Salerno e Avellino”, anch’essa parte del giudizio, sollecitando il Tribunale all’adozione di una pronuncia di tipo propulsivo nei confronti di tutte le amministrazioni coinvolte.
Tanto premesso, ritiene il Tribunale che il ricorso sia meritevole di accoglimento: invero, l’incertezza delle modalità procedimentali da osservare al fine di dare riscontro all’istanza di parte ricorrente, intesa ad attuare la regolarizzazione della concessione edilizia in sanatoria n. 02/03 del 25.03.1986, emessa in carenza del relativo e necessario titolo paesaggistico, non esimeva l’amministrazione comunale dall’attivarsi tempestivamente in tal senso, potendo rilevare esclusivamente ai fini del regolamento delle spese di giudizio.
Deve quindi ordinarsi al Comune intimato di attivare il procedimento finalizzato al rilascio dell’autorizzazione paesaggistica in ordine alle opere de quibus, previa acquisizione del parere obbligatorio e vincolante della competente Soprintendenza, nel rispetto delle indicazioni interpretative fornite dalla giurisprudenza (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 4492 dell’11.09.2013), secondo cui, premesso che il parere ex art. 32 l. n. 47/1985 “ha natura e funzioni identiche all'autorizzazione paesaggistica ex art. 7 l. 29.06.1939, n. 1497”, il quale “ha implicato un rinvio mobile alla disciplina del procedimento di gestione del vincolo paesaggistico, costituente una fase procedimentale indispensabile per la positiva conclusione del procedimento di condono”, deve ritenersi applicabile l'art. 146 d.lvo n. 42/2004 “in relazione a tutte le istanze (formulate in ogni tempo e che ancora non avevano dato luogo a un accoglimento o a un rigetto) volte ad ottenere una autorizzazione paesaggistica, per opere già realizzate o ancora da realizzare (…) Né si ravvisa l'incompatibilità della disciplina dell'art. 146 d.lgs. n. 42 del 2004 con l'istituto del condono edilizio (…) sotto il profilo che il comma 4 dell'art. 146 vieta (salve le ipotesi eccezionali di cui al successivo art. 167, commi 4 e 5) il rilascio dell'autorizzazione paesaggistica postuma, in quanto:
- nei casi in esame si verte in fattispecie non già di autorizzazione paesaggistica in sanatoria, bensì di concessione edilizia in sanatoria, rispetto alla quale l'autorizzazione paesaggistica costituisce presupposto procedimentale;
- la disciplina contenuta nell'art. 146 d.lgs. n. 42 del 2004 deve essere interpretata in via sistematica, in coordinamento con l'istituto speciale del condono edilizio, il quale, per definizione, presuppone l'anteriorità dell'intervento abusivo rispetto al rilascio del titolo sanante, sicché, in tale ipotesi, l'autorizzazione paesaggistica (e il parere soprintendentizio) si dovranno basare sulla valutazione della compatibilità con lo stato dei luoghi degli interventi abusivi oggetto dell'istanza di sanatoria, in relazione alle specifiche competenze delle amministrazioni preposte alla tutela del vincolo
” (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 12.01.2016 n. 5 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Di regola, tettoie e gazebo sono opere che non rappresentano costruzioni vere e proprie, ma hanno caratteristiche di precarietà strutturale e funzionale destinate a soddisfare esigenze contingenti e circoscritte nel tempo, esenti dunque dall’assoggettamento a permesso di costruire.
Non di meno, però, quando esse non sono precarie, ma funzionali a soddisfare esigenze permanenti, vanno considerate come manufatti alteranti lo stato dei luoghi, con incremento del carico urbanistico, costituendo la consistenza e la stabilità della struttura i criteri per la relativa valutazione.
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L’opera in questione risulta della superficie di 7,20 mq, di altezza al colmo di mt. 2,80 e alla gronda di mt. 2,30, composta da quattro pilastri verticali fissati al pavimento mediante staffe in ferro, coperta con tavolaccio e soprastante strato di tegole canadesi (quest’ultime contestate da parte ricorrente, secondo cui la struttura sarebbe leggera e ricoperta con fogli sottili e bitumitosi che darebbero soltanto l’effetto estetico del tegolato canadese) ed altresì aperta su tutti i lati.
Orbene, ritiene il Collegio che tale manufatto, che non appare ricadere in area vincolata, per le caratteristiche su menzionate, per le sue modeste dimensioni e per il suo carattere non impattante, essendo privo di autonomia funzionale, appare esente dall’assoggettamento al permesso di costruire, potendo essere considerato alla stregua di un intervento assentibile tramite l’odierna s.c.i.a., ai sensi dell’art. 22 del d.p.r. 06.06.2001 n. 380.
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Per gli interventi realizzati in violazione del regime di segnalazione di attività, ai sensi dell’art. 37, comma 1, d.p.r. 380/2001, l’amministrazione può comminare unicamente una sanzione pecuniaria e non anche la demolizione delle opere.
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Che il gazebo non necessitasse di permesso di costruire discende anche dalla circostanza che lo stesso si pone quale elemento pertinenziale con una volumetria inferiore al 20%, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett.e. 6), del d.p.r. n. 380/2001.
Peraltro, le pertinenze di piccole dimensioni, secondo giurisprudenza condivisibile, non sono tenute a rispettare la disciplina in materia di distanze, né sono soggette a permesso di costruire.

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... per l'annullamento dell'ordinanza comunale n. 34 del 22/07/2014 di demolizione delle seguenti opere edilizie abusive “struttura in legno lamellare composta da quattro pilastri verticali fissati al suolo mediante apposite staffe in ferro e da una struttura di copertura a due falde sempre con l’utilizzo di travi in legno.
Detta struttura di forma rettangolare ha una superficie di mq. 7,20 circa ed ha altezza al colmo di mt. 2,80 e alla gronda di mt. 7,20 circa ed ha altezza al colmo di mt. 2,80 e alla gronda di mt. 2,30 coperta con tavolaccio e soprastante strato di tegole canadesi, e posta a distanza di mt. 0,80 dal confine di proprietà con altra ditta a distanza nulla, nonché ad una distanza al proprio fabbricato di circa mt. 4,50
”;
...
2.2. Comunque, come dedotto da parte ricorrente, nel caso, non era necessario il permesso di costruire.
Il Collegio osserva che, di regola, tettoie e gazebo sono opere che non rappresentano costruzioni vere e proprie, ma hanno caratteristiche di precarietà strutturale e funzionale destinate a soddisfare esigenze contingenti e circoscritte nel tempo, esenti dunque dall’assoggettamento a permesso di costruire (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 19.09.2006, n. 5469; TAR Calabria, Catanzaro, sez. II, 28.11.2014 n. 2014; TAR Molise, sez. I, 31.01.2014, n. 66; TAR Calabria, Catanzaro, sez. II, 03.10.2012, n.976); non di meno, però, quando esse non sono precarie, ma funzionali a soddisfare esigenze permanenti, vanno considerate come manufatti alteranti lo stato dei luoghi, con incremento del carico urbanistico (Consiglio di Stato, sez. V, 01.12.2003, n. 7822; sez. IV, 04.09.2013, n. 4438), costituendo la consistenza e la stabilità della struttura i criteri per la relativa valutazione (Consiglio di Stato, sez. VI, 12.12.2012, n.6382).
2.3. Tanto premesso, l’opera in questione risulta della superficie di 7,20 mq, di altezza al colmo di mt. 2,80 e alla gronda di mt. 2,30, composta da quattro pilastri verticali fissati al pavimento mediante staffe in ferro, coperta con tavolaccio e soprastante strato di tegole canadesi (quest’ultime contestate da parte ricorrente, secondo cui la struttura sarebbe leggera e ricoperta con fogli sottili e bitumitosi che darebbero soltanto l’effetto estetico del tegolato canadese) ed altresì aperta su tutti i lati.
Orbene, ritiene il Collegio che tale manufatto, che non appare ricadere in area vincolata, per le caratteristiche su menzionate, per le sue modeste dimensioni e per il suo carattere non impattante, essendo privo di autonomia funzionale, appare esente dall’assoggettamento al permesso di costruire, potendo essere considerato alla stregua di un intervento assentibile tramite l’odierna s.c.i.a., ai sensi dell’art. 22 del d.p.r. 06.06.2001 n. 380.
Da quanto sopra consegue l’illegittimità dell’impugnato provvedimento, in quanto il gazebo in questione, per le esigue caratteristiche strutturali e dimensionali, non è tale da avere un rilevante impatto urbanistico.
Ne consegue, altresì, che, potendo per gli interventi realizzati in violazione del regime di segnalazione di attività, ai sensi dell’art. 37, comma 1, del citato d.p.r., l’amministrazione comminare unicamente una sanzione pecuniaria e non anche la demolizione delle opere, salvo i casi previsti, le censure al riguardo di parte ricorrente, nel complesso, sono condivisibili.
2.4. Inoltre, come osservato dalle ricorrenti (motivo III), che il gazebo non necessitasse di permesso di costruire discende anche dalla circostanza che lo stesso si pone quale elemento pertinenziale con una volumetria inferiore al 20% (circostanza che non è stata contestata), ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett.e. 6), del d.p.r. n. 380/2001.
Peraltro, le pertinenze di piccole dimensioni, secondo giurisprudenza condivisibile, non sono tenute a rispettare la disciplina in materia di distanze (cfr. TAR Abruzzo–Pescara, sez. I, 11.08.2015), né sono soggette a permesso di costruire (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 11.01.2016 n. 7 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALISebbene l’atto di indirizzo non modifichi immediatamente la situazione giuridica dei destinatari finali, esso pone dei vincoli all'organo competente a provvedere, senz'altro rilevanti in ordine alla valutazione giudiziale del successivo esercizio del potere, ma —di norma— non tali da produrre lesioni dirette per le quali possa predicarsi l'onere dell'immediata impugnazione.
Non può del pari escludersi che, ove la particolare natura delle prescrizioni e delle modalità d'azione prefigurate siano così stringenti da rendere ineluttabile l'effetto lesivo poi concretamente generato dall'atto attuativo, l'atto di indirizzo possa esso stesso porsi come fonte direttamente lesiva, risultando invero plausibile che la certezza di una futura modifica della situazione giuridica o la stessa capacità conformativa immediata dell'indirizzo vincolante possano, in concreto, risultare fattispecie idonee a radicare un interesse giuridicamente rilevante e processualmente spendibile.

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6. - Va premessa l’ammissibilità del ricorso principale.
E’ stato infatti osservato in giurisprudenza che, sebbene l’atto di indirizzo non modifichi immediatamente la situazione giuridica dei destinatari finali, esso pone dei vincoli all'organo competente a provvedere, senz'altro rilevanti in ordine alla valutazione giudiziale del successivo esercizio del potere, ma —di norma— non tali da produrre lesioni dirette per le quali possa predicarsi l'onere dell'immediata impugnazione. Non può del pari escludersi che, ove la particolare natura delle prescrizioni e delle modalità d'azione prefigurate siano così stringenti da rendere ineluttabile l'effetto lesivo poi concretamente generato dall'atto attuativo, l'atto di indirizzo possa esso stesso porsi come fonte direttamente lesiva, risultando invero plausibile che la certezza di una futura modifica della situazione giuridica o la stessa capacità conformativa immediata dell'indirizzo vincolante possano, in concreto, risultare fattispecie idonee a radicare un interesse giuridicamente rilevante e processualmente spendibile (TAR Calabria–Reggio Calabria, 07.04.2011, n. 263).
Nel caso di specie, l’impugnata deliberazione della Giunta del Comune di Cassano All’Ionio ha provveduto ad individuare specificamente nella Cooperativa sociale Fu.La. il soggetto cui affidare il servizio di assistenza agli alunni disabili della scuola dell’obbligo. Nel fare ciò, essa ha conformato la successiva azione amministrativa rendendola, nella prospettiva della ricorrente, inevitabilmente lesiva per i suoi interessi.
Non a caso, la successiva determinazione del Dirigente del Settore Affari Generali –anch’essa puntualmente impugnata con motivi aggiunti- ha recepito l’indicazione della Giunta comunale, affidando l’incarico alla cooperativa sociale individuata dalla Giunta e pertanto attualizzando la lesione già provocata dall’atto di indirizzo (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 11.01.2016 n. 3 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Al fine di creare opportunità per i soggetti svantaggiati, l’art. 5 l. 08.11.1991, n. 381, nel testo applicabile ratione temporis, ha consentito agli enti pubblici di stipulare, anche in deroga alla disciplina in materia di contratti della pubblica amministrazione, convenzioni con le cooperative sociali di cui all'articolo 1, comma 1, lettera b), per la fornitura di beni e servizi diversi da quelli socio-sanitari ed educativi il cui importo stimato al netto dell'IVA sia inferiore agli importi stabiliti dalle direttive comunitarie in materia di appalti pubblici.
Condizione di tale affidamento è l’iscrizione di dette cooperative all’apposito albo istituito dalle Regioni.
Poiché non risulta che la Cooperativa sociale Fu.La. fosse iscritta all’albo delle cooperative sociali, ai sensi dell’art. 34, comma 3 c.p.a., deve essere accertata l’illegittimità dei provvedimenti oggetto di impugnativa, così come richiesto dalla ricorrente.
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La domanda di risarcimento del danno deve trovare accoglimento, in quanto si riscontra la presenza di tutti gli elementi integranti la fattispecie risarcitoria. Vi è, in primo luogo, l’accertata condotta illegittima dell’amministrazione.
Vi è la lesione, non iure e contra ius, dell’interesse al bene della vita vantato dalla ricorrente.
Infatti, laddove l’amministrazione avesse correttamente rilevato che la Cooperativa sociale Fu.La. non possedeva il requisito che –ai sensi dell’art. 5 l. 08.11.1991, n. 381– le consentiva di ottenere l’affidamento diretto del servizio, il medesimo sarebbe stato affidato (con un livello di probabilità che al Collegio appare sufficiente ad soddisfare il criterio probatorio della preponderanza dell’evidenza) alla ricorrente, che aveva formulato l’unica manifestazione di interesse alternativa a quella selezionata.
Vi è, infine, un nesso eziologico tra la condotta illegittima e la lesione.
Ritiene, invece, il Collegio che non occorra anche che l’illegittima condotta dell’amministrazione debba anche essere qualificata come colposa.
Invero, trattandosi di un appalto di servizi sottratto all’applicabilità della direttiva 2004/18/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 31.03.2004, non sono vincolanti per il giudice nazionale i principi sanciti dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, la quale ha affermato che il diritto comunitario in tema di appalti osta ad una normativa nazionale che subordini il diritto al risarcimento a motivo di una violazione della disciplina sugli appalti pubblici da parte di un’amministrazione aggiudicatrice al carattere colpevole di tale violazione, anche nel caso in cui l’applicazione della normativa in questione sia incentrata su una presunzione di colpevolezza in capo all’amministrazione suddetta, nonché sull’impossibilità per quest’ultima di far valere la mancanza di proprie capacità individuali e, dunque, un difetto di imputabilità soggettiva della violazione lamentata.
Tuttavia, il Collegio ritiene che tali principi debbano trovare generale applicazione alla materia degli appalti pubblici.

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Occorre, pertanto, accertare e liquidare i pregiudizi subiti dai ricorrenti.
La prima voce in rilevo è il lucro cessante.
Ritiene il Collegio che, nella determinazione di tale voce di danno, occorra tener conto dei seguenti elementi:
a) il lucro cessante va individuato in quella parte di corrispettivo eccedente rispetto al costo dei fattori di produzione impiegati per l’erogazione della prestazione;
b) nel caso di specie, il corrispettivo per la prestazione del servizio era stabilito nella misura di € 34.161,00;
c) il fattore produttivo prevalente nella prestazione del servizio oggetto di affidamento, e cioè l’assistenza agli alunni disabili, è quello lavorativo; d) trattandosi di cooperativa sociale, il costo per l’acquisto del fattore produttivo del lavoro, è, di regola, più contenuto di quello che affrontano le imprese sul libero mercato.
Alla stregua di tali parametri, e tenuto conto dell’incidenza dei costi generali, si può affermare che, laddove il servizio di cui si discute fosse stato correttamente affidato alla società ricorrente, il lucro che essa avrebbe ricavato dalla prestazione del servizio (dato dalla seguente operazione: valore dell’appalto – costi per l’acquisto del fattore di produzione del lavoro – costi per l’acquisto degli altri fattori di produzione - quota di incidenza dei costi generali) sarebbe stato quantificabile approssimativamente nel 20% del valore dell’appalto, e quindi nella misura di € 6.832,20.
Ai fini risarcitori, tale importo va diminuito (nella misura, ritenuta equa, della metà) secondo il noto principio dell’aliunde perceptum vel percipiendum, per cui, onde evitare che, a seguito del risarcimento, l'impresa danneggiata possa trovarsi in una situazione addirittura migliore rispetto a quella in cui si sarebbe trovata in assenza dell'illecito, va detratto dall'importo dovuto a titolo risarcitorio quanto percepito o quanto avrebbe potuto percepire grazie allo svolgimento di diverse attività lucrative, nel periodo in cui avrebbe dovuto eseguire l'appalto in contestazione.
Infatti, l'onere di provare (l'assenza del) l'aliunde perceptum vel percipiendum grava non sull'amministrazione, ma sull'impresa: e ciò in ragione della presunzione, secondo l'id quod plerumque accidit, che l'imprenditore normalmente diligente non rimane inerte in caso di mancata aggiudicazione di un appalto, ma persegue occasioni contrattuali alternative, dalla cui esecuzione trae il relativo utile.
E’ dovuto, altresì, il risarcimento del danno curriculare.
Infatti, deve ammettersi che l'impresa illegittimamente privata dell'esecuzione di un appalto possa rivendicare a titolo di lucro cessante anche la perdita della possibilità di arricchire il proprio curriculum professionale; infatti, l'interesse alla vittoria di un appalto, nella vita di un'impresa, va ben oltre l'interesse all'esecuzione dell'opera in sé e al relativo incasso, posto che alla mancata esecuzione di un'opera appaltata si ricollegano indirettamente nocumenti all'immagine della società ed al suo radicamento nel mercato, per non dire del potenziamento di imprese concorrenti che operano su medesimo target di mercato, dichiarate, in modo illegittimo, aggiudicatarie della gara.
Tale danno non può che essere quantificato in via equitativa, nella misura che si reputa corretta di € 750,00 (si noti che nella giurisprudenza il danno curriculare viene liquidato in una misura variabile tra l’1% ed il 3% del lucro cessante.
Il danno complessivo, al cui risarcimento deve essere condannato il Comune di Cassano All’Ionio, ammonta, dunque, ad € 4.166,10 [(€ 6.832,20/2) + € 750,00].
Trattandosi di debito di valore, su tale importo sono dovuti la rivalutazione secondo l’indice ISTAT dei prezzi al consumo (FOI) e gli interessi corrispettivi, da computarsi al saggio legale sulla somma annualmente rivalutata, con decorrenza dalla data di cristallizzazione del danno, da individuare nel giorno di stipula del contratto oggetto della procedura concorsuale, sino alla data di pubblicazione della presente sentenza.

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7. - Nel merito, si osserva che, al fine di creare opportunità per i soggetti svantaggiati, l’art. 5 l. 08.11.1991, n. 381, nel testo applicabile ratione temporis, ha consentito agli enti pubblici di stipulare, anche in deroga alla disciplina in materia di contratti della pubblica amministrazione, convenzioni con le cooperative sociali di cui all'articolo 1, comma 1, lettera b), per la fornitura di beni e servizi diversi da quelli socio-sanitari ed educativi il cui importo stimato al netto dell'IVA sia inferiore agli importi stabiliti dalle direttive comunitarie in materia di appalti pubblici.
Condizione di tale affidamento è l’iscrizione di dette cooperative all’apposito albo istituito dalle Regioni.
7.1. - Nell’ambito della Regione Calabria, il combinato disposto dell’art. 131, lett. n), l.r. 12.08.2002, n. 34, e degli artt. 6 ss. l.r. 17.08.2009, n. 28, delinea un albo articolato su due livelli: le amministrazioni provinciali curano la tenuta dell’albo provinciale delle cooperative sociali; l’albo regionale risulta dall’aggregazione degli albi provinciali.
Per quel che qui interessa, dalla documentazione trasmessa dalla Ragione Calabria in ottemperanza all’ordinanza istruttoria pronunciata da questo Tribunale risulta che la Provincia di Cosenza ha provveduto, con deliberazione del Consiglio provinciale del 20.03.2007, n. 8, a istituire l’albo provinciale delle cooperative sociali, cui il soggetto ricorrente risulta iscritto sin dal 02.08.2010.
7.2. - Va a questo punto evidenziata l’inesattezza dell’attestazione, prodotta in giudizio al Comune di Cassano all’Ionio e resa dal funzionario del Dipartimento 10 – Settore 1, Politiche del Lavoro in data 12.10.2012, prot. SIAR n. 338968, dalla quale risulta la mancata istituzione dell’albo regionale
Infatti, poiché erano stati comunque istituiti gli albi provinciali delle cooperative sociali –di cui l’albo regionale rappresenta solo un’aggregazione-, era possibile dare concreta applicazione all’art. 5 l. 08.11.1991, n. 381.
L’inesattezza, nondimeno, non può aver inciso sulla determinazione della volontà del Comune di Cassano All’Ionio, in quanto l’attestazione de qua è posteriore all’atto di indirizzo assunto dalla Giunta comunale.
7.3. - Poiché non risulta che la Cooperativa sociale Fu.La. fosse iscritta all’albo delle cooperative sociali, ai sensi dell’art. 34, comma 3 c.p.a., deve essere accertata l’illegittimità dei provvedimenti oggetto di impugnativa, così come richiesto dalla ricorrente.
8. - La domanda di risarcimento del danno deve trovare accoglimento, in quanto si riscontra la presenza di tutti gli elementi integranti la fattispecie risarcitoria.
8.1. - Vi è, in primo luogo, l’accertata condotta illegittima dell’amministrazione.
Vi è la lesione, non iure e contra ius, dell’interesse al bene della vita vantato dalla ricorrente.
Infatti, laddove l’amministrazione avesse correttamente rilevato che la Cooperativa sociale Fu.La. non possedeva il requisito che –ai sensi dell’art. 5 l. 08.11.1991, n. 381– le consentiva di ottenere l’affidamento diretto del servizio, il medesimo sarebbe stato affidato (con un livello di probabilità che al Collegio appare sufficiente ad soddisfare il criterio probatorio della preponderanza dell’evidenza: cfr. Cass. Civ., Sez. Un., 11.01.2008 n. 576; Cass. Civ., Sez. III, 05.05.2009, n. 10285) alla ricorrente, che aveva formulato l’unica manifestazione di interesse alternativa a quella selezionata.
Vi è, infine, un nesso eziologico tra la condotta illegittima e la lesione.
8.2. - Ritiene, invece, il Collegio che non occorra anche che l’illegittima condotta dell’amministrazione debba anche essere qualificata come colposa.
Invero, trattandosi di un appalto di servizi sottratto all’applicabilità della direttiva 2004/18/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 31.03.2004, non sono vincolanti per il giudice nazionale i principi sanciti dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, la quale ha affermato che il diritto comunitario in tema di appalti osta ad una normativa nazionale che subordini il diritto al risarcimento a motivo di una violazione della disciplina sugli appalti pubblici da parte di un’amministrazione aggiudicatrice al carattere colpevole di tale violazione, anche nel caso in cui l’applicazione della normativa in questione sia incentrata su una presunzione di colpevolezza in capo all’amministrazione suddetta, nonché sull’impossibilità per quest’ultima di far valere la mancanza di proprie capacità individuali e, dunque, un difetto di imputabilità soggettiva della violazione lamentata (CGUE, Sez. III, 30.09.2010, in causa C-314/09, richiamata dai ricorrenti nel ricorso per motivi aggiunti; in precedenza CGUE, Sez. III, sentenza del 14.10.2004, in causa C275/03).
Tuttavia, il Collegio ritiene che tali principi (di cui hanno fatto applicazione, più di recente, Cons. Stato, Sez. V, 27.03.2013 n. 1833; Cons. Stato, Sez. V, 08.11.2012 n. 5686; Cons. Stato, Sez. IV, 04.09.2013, n. 4439; Cons. Stato, Sez. IV, 13.12.2013, n. 6000; TAR Lazio–Roma, Sez. II, 11.09.2013, n. 8208, secondo cui l'art. 124 c.p.a. introdotto un'ipotesi di responsabilità oggettiva) debbano trovare generale applicazione alla materia degli appalti pubblici (nel medesimo senso Cons. Stato, Sez. V, 08.11.2012, n. 5685; TAR Calabria–Catanzaro, Sez. II, 17.12.2011, n. 1616).
9. - Occorre, pertanto, accertare e liquidare i pregiudizi subiti dai ricorrenti.
9.1. - La prima voce in rilevo è il lucro cessante, che la cooperativa sociale ricorrente stima, anche sulla base della consulenza tecnica di parte depositata, nella misura di € 30.000,00.
Ritiene il Collegio che, nella determinazione di tale voce di danno, occorra tener conto dei seguenti elementi:
a) il lucro cessante va individuato in quella parte di corrispettivo eccedente rispetto al costo dei fattori di produzione impiegati per l’erogazione della prestazione;
b) nel caso di specie, il corrispettivo per la prestazione del servizio era stabilito nella misura di € 34.161,00;
c) il fattore produttivo prevalente nella prestazione del servizio oggetto di affidamento, e cioè l’assistenza agli alunni disabili, è quello lavorativo; d) trattandosi di cooperativa sociale, il costo per l’acquisto del fattore produttivo del lavoro, è, di regola, più contenuto di quello che affrontano le imprese sul libero mercato.
Ai fini della quantificazione di tale ultimo dato, e cioè dell’incidenza dei costi per l’acquisto del fattore di produzione lavoro rispetto al valore della produzione, si rileva che dai bilanci degli anni 2011, 2012 e 2013, prodotti in giudizio dalla Cooperativa sociale La To., emerge che il valore della produzione è stato di € 828.847,00 nel 2010, di € 888.043,00 nel 2011, di € 776.428,00 nel 2012, di € 735.511,00 nel 2013; il costo per il personale è stato di € 537.390,00 nel 2010, di € 599.476,00 nel 2011, di € 626.586,00 nel 2012, di € 540.364, nel 2013. Dunque, il rapporto medio tra costo del fattore lavoro e il valore della produzione è stato del 71,63%.
Alla stregua di tali parametri, e tenuto conto dell’incidenza dei costi generali, si può affermare che, laddove il servizio di cui si discute fosse stato correttamente affidato alla società ricorrente, il lucro che essa avrebbe ricavato dalla prestazione del servizio (dato dalla seguente operazione: valore dell’appalto – costi per l’acquisto del fattore di produzione del lavoro – costi per l’acquisto degli altri fattori di produzione - quota di incidenza dei costi generali) sarebbe stato quantificabile approssimativamente nel 20% del valore dell’appalto, e quindi nella misura di € 6.832,20.
9.2. - Ai fini risarcitori, tale importo va diminuito (nella misura, ritenuta equa, della metà) secondo il noto principio dell’aliunde perceptum vel percipiendum, per cui, onde evitare che, a seguito del risarcimento, l'impresa danneggiata possa trovarsi in una situazione addirittura migliore rispetto a quella in cui si sarebbe trovata in assenza dell'illecito, va detratto dall'importo dovuto a titolo risarcitorio quanto percepito o quanto avrebbe potuto percepire grazie allo svolgimento di diverse attività lucrative, nel periodo in cui avrebbe dovuto eseguire l'appalto in contestazione (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 18.03.2011, n. 1681).
Infatti, l'onere di provare (l'assenza del) l'aliunde perceptum vel percipiendum grava non sull'amministrazione, ma sull'impresa: e ciò in ragione della presunzione, secondo l'id quod plerumque accidit, che l'imprenditore normalmente diligente non rimane inerte in caso di mancata aggiudicazione di un appalto, ma persegue occasioni contrattuali alternative, dalla cui esecuzione trae il relativo utile (Cons. Stato, Sez. VI, 15.10.2012, n. 5279; cfr. anche la già citata sentenza Cons. Stato, Sez. VI, 18.03.2011, n. 1681).
Nel caso in esame, tale prova non è stata data; anzi, la cooperativa sociale ricorrente nemmeno ha allegato di non aver potuto reimpiegare in altre attività remunerate le risorse professionali destinate alla prestazione dell’assistenza agli alunni disabili.
9.3. - E’ dovuto, altresì, il risarcimento del danno curriculare.
Infatti, deve ammettersi che l'impresa illegittimamente privata dell'esecuzione di un appalto possa rivendicare a titolo di lucro cessante anche la perdita della possibilità di arricchire il proprio curriculum professionale; infatti, l'interesse alla vittoria di un appalto, nella vita di un'impresa, va ben oltre l'interesse all'esecuzione dell'opera in sé e al relativo incasso, posto che alla mancata esecuzione di un'opera appaltata si ricollegano indirettamente nocumenti all'immagine della società ed al suo radicamento nel mercato, per non dire del potenziamento di imprese concorrenti che operano su medesimo target di mercato, dichiarate, in modo illegittimo, aggiudicatarie della gara (Cons. Stato, Sez. VI, 09.06.2008, n. 2751).
Tale danno non può che essere quantificato in via equitativa, nella misura che si reputa corretta di € 750,00 (si noti che nella giurisprudenza il danno curriculare viene liquidato in una misura variabile tra l’1% ed il 3% del lucro cessante: cfr. TAR Campania–Napoli, Sez. VIII, 11.10.2012, n. 4058; TAR Sicilia–Palermo, Sez. III, 08.02.2012, n. 309; TAR Sardegna, 21.06.2012, n. 628; TAR Sicilia–Catania, Sez. IV, 25.05.2011, n. 1279).
9.4. Il danno complessivo, al cui risarcimento deve essere condannato il Comune di Cassano All’Ionio, ammonta, dunque, ad € 4.166,10 [(€ 6.832,20/2) + € 750,00].
Trattandosi di debito di valore, su tale importo sono dovuti la rivalutazione secondo l’indice ISTAT dei prezzi al consumo (FOI) e gli interessi corrispettivi, da computarsi al saggio legale sulla somma annualmente rivalutata, con decorrenza dalla data di cristallizzazione del danno, da individuare nel giorno di stipula del contratto oggetto della procedura concorsuale, sino alla data di pubblicazione della presente sentenza (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 11.01.2016 n. 3 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTINelle gare pubbliche la certificazione di qualità rientra tra i requisiti soggettivi di carattere tecnico-organizzativo che può essere oggetto di avvalimento, ma a condizione che l'impresa ausiliaria si impegni a mettere a disposizione dell'impresa ausiliata le proprie risorse e il proprio apparato organizzativo in tutte le parti che giustificano l'attribuzione del requisito di qualità (a seconda dei casi: mezzi, personale, prassi e tutti gli altri elementi aziendali qualificanti).
Inoltre l'avvalimento, così come configurato dalla legge, deve essere reale e non formale, nel senso che non può considerarsi sufficiente prestare la certificazione posseduta assumendo impegni assolutamente generici, giacché in questo modo verrebbe meno la stessa essenza dell'istituto, finalizzato non già ad arricchire la capacità tecnica ed economica del concorrente, bensì a consentire a soggetti, che ne siano sprovvisti, di concorrere alla gara ricorrendo ai requisiti di altri soggetti, garantendo l'affidabilità dei lavori, dei servizi o delle forniture appaltati.
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Nelle gare pubbliche la certificazione di qualità, essendo connotata dal precipuo fine di valorizzare gli elementi di eccellenza dell'organizzazione complessiva, è da considerarsi anch'essa requisito di idoneità tecnico organizzativa dell'impresa, da inserirsi tra gli elementi idonei a dimostrarne la capacità tecnico-professionale assicurando che l'impresa, cui sarà affidato il servizio o la fornitura, sarà in grado di effettuare la prestazione nel rispetto di un livello minimo di qualità accertato da un organismo a ciò predisposto; di conseguenza, afferendo essa alla capacità tecnica dell'imprenditore, può formare oggetto dell'avvalimento come disciplinato dall'art. 49, d.lgs. 12.04.2006 n. 163.
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L'impresa ausiliata può senz'altro utilizzare tutti i requisiti afferenti alla capacità economica e tecnica dell'impresa ausiliaria, tra cui la certificazione di qualità, in quanto quest’ultima, essendo connotata dal precipuo fine di valorizzare gli elementi d’eccellenza dell'organizzazione complessiva, è anch'essa requisito d’idoneità tecnico-organizzativa dell'impresa. Essa, dunque, s’inserisce tra gli elementi idonei a dimostrare la capacità dell'impresa, cui sarà affidato il servizio o la fornitura, di effettuare la prestazione nel rispetto di quel livello minimo di qualità accertato da un organismo a ciò predisposto ed indipendente.
Certo, come in tutti gli altri casi d’avvalimento, l’unico limite dell’istituto è e resta la condizione che l'avvalimento sia effettivo e non fittizio, non potendosi ammettere il c.d. "prestito" della sola certificazione di qualità quale mero documento e senza quel minimo d’apparato dell’ausiliaria atta a dar senso al prestito stesso, a seconda dei casi i mezzi, il personale, il know how, le prassi e tutti gli altri elementi aziendali qualificanti.
Sul punto, è stato chiarito che siffatta certificazione, in quanto finalizzata ad assicurare l'espletamento del servizio o della fornitura da una impresa secondo il livello qualitativo accertato dall’apposito organismo e sulla base di parametri rigorosi delineati a livello internazionale —che danno rilievo all'organizzazione complessiva della relativa attività ed all'intero svolgimento delle diverse fasi di lavoro—, non può essere oggetto di avvalimento senza la messa a disposizione di tutto o di quella parte del complesso aziendale del soggetto al quale è stato riconosciuto il sistema di qualità, occorrente per l’effettuazione del servizio o della fornitura.
L’art. 49 del Dlgs 163/2006, che non può non esser letto in coerenza con la norma UE correlata, non tollera perciò limitazioni sull’an dell’istituto, pur imponendo, come d’altronde già prevede l’ordinamento generale, la serietà dell’impegno nel quid e nel quomodo dell’ausiliaria verso l’ausiliata, al fine di garantire l’effettività ai fini dell’adempimento dell’appalto. Tanto perché, com’è ovvio, nelle gare pubbliche, il requisito di ammissione dimostrato dall'impresa partecipante mediante l’avvalimento deve rassicurare la stazione appaltante circa l'affidabilità della futura offerta allo stesso modo in cui ciò avverrebbe se il requisito fosse posseduto in via diretta dalla partecipante alla gara.

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Inoltre, come recentemente affermato da questa sezione nella sentenza n. 2513/2014 e confermato dalla terza sezione del Consiglio di Stato con la sentenza n. 3517/2015, che riguardano atti della medesima gara oggetto della presente impugnazione, secondo il più recente orientamento della giurisprudenza amministrativa, nelle gare pubbliche la certificazione di qualità rientra tra i requisiti soggettivi di carattere tecnico-organizzativo che può essere oggetto di avvalimento, ma a condizione che l'impresa ausiliaria si impegni a mettere a disposizione dell'impresa ausiliata le proprie risorse e il proprio apparato organizzativo in tutte le parti che giustificano l'attribuzione del requisito di qualità (a seconda dei casi: mezzi, personale, prassi e tutti gli altri elementi aziendali qualificanti); inoltre l'avvalimento, così come configurato dalla legge, deve essere reale e non formale, nel senso che non può considerarsi sufficiente prestare la certificazione posseduta assumendo impegni assolutamente generici, giacché in questo modo verrebbe meno la stessa essenza dell'istituto, finalizzato non già ad arricchire la capacità tecnica ed economica del concorrente, bensì a consentire a soggetti, che ne siano sprovvisti, di concorrere alla gara ricorrendo ai requisiti di altri soggetti, garantendo l'affidabilità dei lavori, dei servizi o delle forniture appaltati (Cons. Stato, sez. V, 11.07.2014, n. 3574).
Nelle gare pubbliche la certificazione di qualità, essendo connotata dal precipuo fine di valorizzare gli elementi di eccellenza dell'organizzazione complessiva, è da considerarsi anch'essa requisito di idoneità tecnico-organizzativa dell'impresa, da inserirsi tra gli elementi idonei a dimostrarne la capacità tecnico professionale assicurando che l'impresa, cui sarà affidato il servizio o la fornitura, sarà in grado di effettuare la prestazione nel rispetto di un livello minimo di qualità accertato da un organismo a ciò predisposto; di conseguenza, afferendo essa alla capacità tecnica dell'imprenditore, può formare oggetto dell'avvalimento come disciplinato dall'art. 49, d.lgs. 12.04.2006 n. 163 (Cons. Stato, sez. V, 20.12.2013, n. 6125).
Inoltre, come risulta affermato dal giudice di appello: “Nella specie, sulla fornitura del CO2 l’aggiudicataria ha dichiarato di volersi avvalere del certificato di qualità UNI EN ISO 22000:2005, per il trasporto, della GASCAR s.r.l. e, per la produzione, della certificazione di qualità della SAPIO Produzione idrogeno e ossigeno s.r.l.. Deduce l’appellante che non è possibile avvalersi della qualità altrui, ché attiene ai requisiti soggettivi dell’impresa, ma pare al Collegio che, prima ancora del TAR, la stessa Azienda appaltante abbia fatto corretto governo dei criteri che disciplinano il sistema dell’avvalimento, anche per ciò che attiene a tal certificazione. In particolare, un’impresa ha formulato taluni quesiti sul punto, cioè se il possesso della certificazione di qualità per il trasporto dei gas potesse esser soddisfatto con l’avvalimento. L’Azienda ha risposto che pure tal possesso può esser oggetto d’avvalimento ai sensi dell’art. 49 del Dlgs 163/2006, poiché si tratta d’un requisito dell’impresa di natura tecnico–organizzativo".
Ebbene, nella specie, anche l’aggiudicataria s’è adeguata all’avviso dell’Azienda, il quale, si badi, è coerente con la consolidata giurisprudenza di questo Consiglio, specie se si tiene conto dell’assenza di un’espressa preclusione della lex specialis al riguardo. Infatti, l'impresa ausiliata può senz'altro utilizzare tutti i requisiti afferenti alla capacità economica e tecnica dell'impresa ausiliaria, tra cui la certificazione di qualità, in quanto quest’ultima, essendo connotata dal precipuo fine di valorizzare gli elementi d’eccellenza dell'organizzazione complessiva, è anch'essa requisito d’idoneità tecnico-organizzativa dell'impresa (Cons. St., IV, 03.10.2014 n. 4958). Essa, dunque, s’inserisce tra gli elementi idonei a dimostrare la capacità dell'impresa, cui sarà affidato il servizio o la fornitura, di effettuare la prestazione nel rispetto di quel livello minimo di qualità accertato da un organismo a ciò predisposto ed indipendente (cfr. così Cons. St., V, 06.03.2013 n. 1368; id., 20.12.2013 n. 6125; id., 24.07.2014 n. 3949).
Certo, come in tutti gli altri casi d’avvalimento, l’unico limite dell’istituto è e resta la condizione che l'avvalimento sia effettivo e non fittizio, non potendosi ammettere il c.d. "prestito" della sola certificazione di qualità quale mero documento e senza quel minimo d’apparato dell’ausiliaria atta a dar senso al prestito stesso, a seconda dei casi i mezzi, il personale, il know how, le prassi e tutti gli altri elementi aziendali qualificanti (cfr. così, Cons. St., V, 11.07.2014 n. 3574).
Sul punto, la Sezione (cfr., per tutti, Cons. St., III, 07.04.2014 n. 1636) ha chiarito che siffatta certificazione, in quanto finalizzata ad assicurare l'espletamento del servizio o della fornitura da una impresa secondo il livello qualitativo accertato dall’apposito organismo e sulla base di parametri rigorosi delineati a livello internazionale —che danno rilievo all'organizzazione complessiva della relativa attività ed all'intero svolgimento delle diverse fasi di lavoro—, non può essere oggetto di avvalimento senza la messa a disposizione di tutto o di quella parte del complesso aziendale del soggetto al quale è stato riconosciuto il sistema di qualità, occorrente per l’effettuazione del servizio o della fornitura. L’art. 49 del Dlgs 163/2006, che non può non esser letto in coerenza con la norma UE correlata, non tollera perciò limitazioni sull’an dell’istituto, pur imponendo, come d’altronde già prevede l’ordinamento generale, la serietà dell’impegno nel quid e nel quomodo dell’ausiliaria verso l’ausiliata, al fine di garantire l’effettività ai fini dell’adempimento dell’appalto. Tanto perché, com’è ovvio, nelle gare pubbliche, il requisito di ammissione dimostrato dall'impresa partecipante mediante l’avvalimento deve rassicurare la stazione appaltante circa l'affidabilità della futura offerta allo stesso modo in cui ciò avverrebbe se il requisito fosse posseduto in via diretta dalla partecipante alla gara (giurisprudenza consolidata).
Questi essendo i capisaldi della giurisprudenza sull’argomento, l’Azienda ed il TAR, ciascuno per il proprio ambito di competenza, ne hanno fornito corretta applicazione nel caso in esame…
” (Cons. Stato, sez. III, 14.07.2015, n. 3517) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 26.11.2015 n. 2492 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: E' illegittima l'esclusione automatica da una gara pubblica, indetta per l'affidamento di un appalto di forniture, di una impresa che non aveva indicato, nell'offerta economica, gli oneri per la sicurezza.
Ed invero, nel caso di appalti non aventi ad oggetto l'esecuzione di lavori pubblici, nei cui confronti si applica la norma dettata ad hoc dall'art. 131 del d.lgs. 12.04.2006 n. 163, ed il cui bando di gara non contenga una comminatoria espressa, l'omessa indicazione nell'offerta dello scorporo matematico degli oneri di sicurezza per rischio specifico non comporta di per sé l'esclusione dalla gara, ma rileva ai soli fini dell'anomalia del prezzo offerto, nel senso che, per scelta della stazione appaltante, il momento di valutazione dei suddetti oneri non è eliso, ma è posticipato al sub-procedimento di verifica della congruità dell'offerta nel suo complesso.
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E’ stato statuito in una recente decisione che, in relazione agli appalti di forniture e di servizi intellettuali (nel cui ambito il rischio c.d. ‘specifico’ o ‘aziendale’ ha minore possibilità di incidenza), la regola di specificazione (o separata indicazione) dei costi di sicurezza, ai sensi degli articoli 86 e 87 del decreto legislativo n. 163 del 2006 opera in via primaria nei confronti delle amministrazioni aggiudicatrici in sede di predisposizione delle gare di appalto e di valutazione dell’anomalia, con la conseguenza che l’assenza di scorporo nel quantum fin dalla fase di presentazione dell’offerta non può risolversi in causa di esclusione dalla gara, anche alla luce dei criteri di tassatività della cause espulsive previsti dall’art. 46, comma 1-bis, del medesimo codice.
Il difetto di effettivi profili di rischiosità afferenti al tema della salute e della sicurezza sul lavoro nell’esecuzione dell’appalto (nella specie si trattava della fornitura di materiale informatico e di servizi di installazione) rende sostanzialmente inutile l’inserimento nell’ambito della lex specialis di una clausola la quale ne preveda (ciò che avviene normalmente) l’obbligo di quantificazione sotto comminatoria di esclusione. In tali casi, l’inserimento nella lex specialis degli oneri di sicurezza non ha carattere cogente ed inderogabile, onde non può farsi luogo ad eterointegrazione delle prescrizioni di gara.
Tale principio ha finito per essere da ultimo condiviso nella sostanza dalla recente decisione dell’Adunanza plenaria 20.03.2015, n. 3, nella quale è stato affermato che “nelle procedure di affidamento di lavori i partecipanti alla gara devono indicare nell’offerta economica i costi interni per la sicurezza del lavoro, pena l’esclusione dell’offerta dalla procedura anche se non prevista nel bando di gara”; tuttavia, la decisione si muove nella direzione di una lettura costituzionalmente orientata delle disposizioni dinanzi richiamate e del comma 6 dell’articolo 26 del d.lgs. n. 81 del 2008 e conclude nel senso che le stazioni appaltanti, nella predisposizione degli atti di gara per lavori e al fine della valutazione dell’anomalia delle offerte, devono determinare il valore economico degli appalti includendovi l’idonea stima di tutti i costi per la sicurezza con l’indicazione specifica di quelli da interferenze; i concorrenti, a loro volta, devono indicare nell’offerta economica sia i costi di sicurezza per le interferenze (quali predeterminati dalla stazione appaltante) che i costi di sicurezza interni che essi determinano in relazione alla propria organizzazione produttiva e al tipo di offerta formulata.
Ne discende la conferma del condiviso orientamento secondo cui nelle procedure ad evidenza pubblica la regola di specificazione (o separata indicazione) dei costi di sicurezza, ai sensi degli articoli 86 e 87 del decreto legislativo n. 163 del 2006 opera in via primaria nei confronti delle amministrazioni aggiudicatrici in sede di predisposizione delle gare di appalto e di valutazione dell’anomalia, con la conseguenza che l’assenza di scorporo nel quantum fin dalla fase di presentazione dell’offerta non può risolversi in causa di esclusione dalla gara, anche alla luce dei criteri di tassatività della cause espulsive previsti dall’art. 46, comma 1-bis, del medesimo Codice.

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Nel caso di specie, la lex specialis di gara non prevedeva l’obbligo per le imprese partecipanti di indicare in sede di offerta i cc.dd. costi ‘specifici’ o ‘aziendali’ e –correlativamente– non comminava alcuna conseguenza escludente per la violazione di tale obbligo.
Laddove una siffatta clausola escludente fosse stata inclusa nell’ambito della lex specialis, essa sarebbe risultata di dubbia validità con riferimento al comma 1-bis dell’articolo 46 del ‘Codice di contratti’, stante l’insussistenza di una siffatta ipotesi legale di esclusione e la conseguente violazione del principio di tipicità e tassatività legale di tali clausole.
Da tali statuizioni si ricava, dunque, che, nella fattispecie in questione, nella quale l’indicazione degli oneri di sicurezza aziendali non era espressamente prevista dalla lex specialis a pena di esclusione, tale mancanza non può di certo ravvisarsi come rilevante ai fini dell’esclusione dell’offerta di Sa.Li..
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Con riferimento al secondo motivo, specificato con il primo motivo aggiunto, la ricorrente, essenzialmente, deduce la violazione degli artt. 87, comma 4 e 46, comma 1-bis del d.lgs. n. 163/2006 e 3 della legge n. 241/1990 e l’eccesso di potere per difetto di motivazione e di istruttoria e travisamento dei fatti per la mancata indicazione nell’offerta della controinteressata degli oneri di sicurezza aziendali, i quali non sarebbero stati neppure valutati dalla commissione di gara nell’ambito del giudizio sull’anomalia dell’offerta.
In relazione alla prima parte della censura si ritiene di confermare l’orientamento espresso più volte dalla sezione (cfr., per tutte, TAR Lombardia, sez. IV, 09.01.2014, n. 36; 05.03.2015, n. 645), nonché dalla maggioranza della giurisprudenza amministrativa (cfr., fra le tante, Cons. Stato, sez. V, 17.03.2015, n. 1375; sez. III, 04.03.2014, n. 1030), per il quale è illegittima l'esclusione automatica da una gara pubblica, indetta per l'affidamento di un appalto di forniture, di una impresa che non aveva indicato, nell'offerta economica, gli oneri per la sicurezza. Ed invero, nel caso di appalti non aventi ad oggetto l'esecuzione di lavori pubblici, nei cui confronti si applica la norma dettata ad hoc dall'art. 131 del d.lgs. 12.04.2006 n. 163, ed il cui bando di gara non contenga una comminatoria espressa, l'omessa indicazione nell'offerta dello scorporo matematico degli oneri di sicurezza per rischio specifico non comporta di per sé l'esclusione dalla gara, ma rileva ai soli fini dell'anomalia del prezzo offerto, nel senso che, per scelta della stazione appaltante, il momento di valutazione dei suddetti oneri non è eliso, ma è posticipato al sub-procedimento di verifica della congruità dell'offerta nel suo complesso (Cons. Stato, sez. V, 02.10.2014, n. 4907).
Tale consolidato orientamento è stato confermato pure a seguito della nota pronuncia resa dal giudice di appello in adunanza plenaria (Cons. Stato, A.P., 20.03.2015, n. 3).
E’ stato, invero, statuito in una recente decisione che, in relazione agli appalti di forniture e di servizi intellettuali (nel cui ambito il rischio c.d. ‘specifico’ o ‘aziendale’ ha minore possibilità di incidenza), la regola di specificazione (o separata indicazione) dei costi di sicurezza, ai sensi degli articoli 86 e 87 del decreto legislativo n. 163 del 2006 opera in via primaria nei confronti delle amministrazioni aggiudicatrici in sede di predisposizione delle gare di appalto e di valutazione dell’anomalia, con la conseguenza che l’assenza di scorporo nel quantum fin dalla fase di presentazione dell’offerta non può risolversi in causa di esclusione dalla gara, anche alla luce dei criteri di tassatività della cause espulsive previsti dall’art. 46, comma 1-bis, del medesimo codice.
Il difetto di effettivi profili di rischiosità afferenti al tema della salute e della sicurezza sul lavoro nell’esecuzione dell’appalto (nella specie si trattava della fornitura di materiale informatico e di servizi di installazione) rende sostanzialmente inutile l’inserimento nell’ambito della lex specialis di una clausola la quale ne preveda (ciò che avviene normalmente) l’obbligo di quantificazione sotto comminatoria di esclusione. In tali casi, l’inserimento nella lex specialis degli oneri di sicurezza non ha carattere cogente ed inderogabile, onde non può farsi luogo ad eterointegrazione delle prescrizioni di gara (Cons. Stato, V, 17.06.2014, n. 3056).
Tale principio ha finito per essere da ultimo condiviso nella sostanza dalla recente decisione dell’Adunanza plenaria 20.03.2015, n. 3, nella quale è stato affermato che “nelle procedure di affidamento di lavori i partecipanti alla gara devono indicare nell’offerta economica i costi interni per la sicurezza del lavoro, pena l’esclusione dell’offerta dalla procedura anche se non prevista nel bando di gara”; tuttavia, la decisione si muove nella direzione di una lettura costituzionalmente orientata delle disposizioni dinanzi richiamate e del comma 6 dell’articolo 26 del d.lgs. n. 81 del 2008 e conclude nel senso che le stazioni appaltanti, nella predisposizione degli atti di gara per lavori e al fine della valutazione dell’anomalia delle offerte, devono determinare il valore economico degli appalti includendovi l’idonea stima di tutti i costi per la sicurezza con l’indicazione specifica di quelli da interferenze; i concorrenti, a loro volta, devono indicare nell’offerta economica sia i costi di sicurezza per le interferenze (quali predeterminati dalla stazione appaltante) che i costi di sicurezza interni che essi determinano in relazione alla propria organizzazione produttiva e al tipo di offerta formulata.
Ne discende la conferma del condiviso orientamento secondo cui nelle procedure ad evidenza pubblica la regola di specificazione (o separata indicazione) dei costi di sicurezza, ai sensi degli articoli 86 e 87 del decreto legislativo n. 163 del 2006 opera in via primaria nei confronti delle amministrazioni aggiudicatrici in sede di predisposizione delle gare di appalto e di valutazione dell’anomalia, con la conseguenza che l’assenza di scorporo nel quantum fin dalla fase di presentazione dell’offerta non può risolversi in causa di esclusione dalla gara, anche alla luce dei criteri di tassatività della cause espulsive previsti dall’art. 46, comma 1-bis, del medesimo Codice.
Inoltre, nel caso in questione, la lex specialis di gara non prevedeva l’obbligo per le imprese partecipanti di indicare in sede di offerta i cc.dd. costi ‘specifici’ o ‘aziendali’ e –correlativamente– non comminava alcuna conseguenza escludente per la violazione di tale obbligo.
Laddove una siffatta clausola escludente fosse stata inclusa nell’ambito della lex specialis, essa sarebbe risultata di dubbia validità con riferimento al comma 1-bis dell’articolo 46 del ‘Codice di contratti’, stante l’insussistenza di una siffatta ipotesi legale di esclusione e la conseguente violazione del principio di tipicità e tassatività legale di tali clausole (Cons. Stato, sez. VI, 09.04.2015, n. 1798).
Da tali statuizioni si ricava, dunque, che, nella fattispecie in questione, nella quale l’indicazione degli oneri di sicurezza aziendali non era espressamente prevista dalla lex specialis a pena di esclusione, tale mancanza non può di certo ravvisarsi come rilevante ai fini dell’esclusione dell’offerta di Sa.Li. (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 26.11.2015 n. 2492 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Per giurisprudenza costante, nelle procedure da aggiudicarsi con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa l’attribuzione dei punteggi all’offerta tecnica costituisce una valutazione di natura discrezionale insindacabile, purché immune da macroscopici vizi di irrazionalità, incongruità o illogicità.
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Nelle gare d’appalto, in tema di verifica dell’anomalia dell’offerta, deve ritenersi che il giudizio della stazione appaltante costituisca esplicazione paradigmatica di discrezionalità tecnica, sindacabile solo in caso di macroscopica illogicità o di erroneità fattuale.
Anche l’esame delle giustificazioni prodotte dai concorrenti a dimostrazione della non anomalia della propria offerta rientra nella discrezionalità tecnica dell’Amministrazione, con la conseguenza che soltanto in caso di macroscopiche illegittimità, quali errori di valutazione gravi ed evidenti oppure valutazioni abnormi o inficiate da errori di fatto, il giudice può intervenire, fermo restando l’impossibilità di sostituire il proprio giudizio a quello dell’Amministrazione.

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Riguardo, invece, alla seconda parte della censura, specificata con il primo motivo aggiunto, con la quale l’istante ha lamentato la mancata valutazione degli oneri di sicurezza aziendali al fine della valutazione dell’anomalia dell’offerta di Sa.Li., senza addurre, peraltro, specifiche contestazioni a riguardo che possano far dubitare dell’effettuazione di tale giudizio anche in relazione a tale aspetto, il collegio ritiene, invece, che tale valutazione risulti essere stata effettuata nell’ambito del complessivo giudizio sulla anomalia dell’offerta come risulta dalla documentazione versata in atti e precisamente dai verbali del giudizio di valutazione sull’eventuale anomalia dell’offerta (docc. 10 e 11 depositati dalla stazione appaltante).
Con riferimento al terzo motivo di gravame, specificato con il terzo motivo aggiunto, la società istante ha contestato la valutazione della sua offerta tecnica da parte della commissione di gara, la quale, penalizzandola, avrebbe attribuito solo 12 punti al parametro dell’organizzazione aziendale rispetto ai 18 attribuiti all’offerta tecnica della controinteressata con riferimento allo stesso parametro.
Tali censure investono, evidentemente, il corretto esercizio della discrezionalità tecnica della stazione appaltante, contestabile in sede di giudizio di legittimità solo entro limiti, il cui superamento non risulta nella fattispecie adeguatamente rappresentato e provato. Come ribadito dall’art. 64 Cod. proc. amm., infatti, detta provata rappresentazione era a carico dell’appellante, che ha invece fornito sotto alcuni profili un proprio diverso (ma inammissibile) apprezzamento di merito (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 23.10.2015, n. 4883).
In proposito deve ricordarsi che, per giurisprudenza costante, nelle procedure da aggiudicarsi con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa l’attribuzione dei punteggi all’offerta tecnica costituisce una valutazione di natura discrezionale insindacabile, purché immune da macroscopici vizi di irrazionalità, incongruità o illogicità.
Nella fattispecie in questione, dall’esame della documentazione inerente la valutazione delle offerte tecniche delle concorrenti tali illogicità ed incongruità non si evincono in alcun modo, risultando, di conseguenza, impossibile per il giudice sostituirsi alla valutazione operata dalla commissione giudicatrice.
Riguardo al secondo motivo del ricorso per motivi aggiunti, con il quale l’istante ha dedotto genericamente la mancata indicazione nelle giustificazioni presentate dalla controinteressata delle voci richieste dalla legge per la verifica dell’anomalia dell’offerta, deve innanzitutto precisarsi che la ricorrente non ha fornito alcun elemento dal quale poter dedurre l’incongruità dell’offerta economica della controinteressata, che, peraltro, ammonta a 396.257,20 euro rispetto a quella della ricorrente medesima, pari ad euro 349.095,35.
Il collegio si riporta, inoltre, al consolidato orientamento giurisprudenziale in base al quale “Nelle gare d’appalto, in tema di verifica dell’anomalia dell’offerta, deve ritenersi che il giudizio della stazione appaltante costituisca esplicazione paradigmatica di discrezionalità tecnica, sindacabile solo in caso di macroscopica illogicità o di erroneità fattuale” e che, quindi, “Anche l’esame delle giustificazioni prodotte dai concorrenti a dimostrazione della non anomalia della propria offerta rientri nella discrezionalità tecnica dell’Amministrazione, con la conseguenza che soltanto in caso di macroscopiche illegittimità, quali errori di valutazione gravi ed evidenti oppure valutazioni abnormi o inficiate da errori di fatto, il giudice può intervenire, fermo restando l’impossibilità di sostituire il proprio giudizio a quello dell’Amministrazione” (cfr., fra le tante, Cons. Strato, sez. IV, 11.11.2014, n. 5514).
E tali macroscopiche illogicità, erroneità fattuali, macroscopiche illegittimità, quali errori di valutazione gravi ed evidenti, valutazioni abnormi o inficiate da errori di fatto non risultano in alcun modo essersi verificate nella fattispecie all’esame del collegio.
Alla luce delle suesposte considerazioni, il ricorso principale ed i motivi aggiunti vanno respinti, unitamente alla domanda di risarcimento del danno (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 26.11.2015 n. 2492 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAlcuni regolamenti comunali prevedono una distinzione tra tettoia e pensilina, solitamente fondata sulle diverse caratteristiche costruttive.
In particolare,
il Regolamento Edilizio del comune individua le pensiline come assimilabili agli "sbalzi" ed ai "corpi aggettanti aperti", distinguendole, in senso evidentemente riduttivo, dalle tettoie ma indica come necessaria la concessione edilizia (ora permesso di costruire) per quelle insistenti in area sottoposte a vincolo paesaggistico o storico-architettonico.
Sotto un profilo eminentemente lessicale, tuttavia, la pensilina viene sostanzialmente equiparata alla tettoia con la quale condivide comuni finalità di arredo o di riparo e protezione e dalla quale non può distinguersi neppure per la conformazione, stante le diversità di materiali con i quali possono essere realizzate entrambe le strutture e le modalità di ancoraggio al suolo o in aggetto rispetto ad altro edificio.
Sulla base di tale considerazione, pertanto, può affermarsi il
principio secondo il quale la sostanziale identità delle nozioni di tettoia e pensilina ricavabile dalle medesime finalità di arredo, riparo o protezione anche dagli agenti atmosferici, determina la necessità del permesso di costruire nei casi in cui sia da escludere la natura precaria o pertinenziale dell'intervento.
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Invero, sono in genere soggetti a permesso di costruire, sulla base di quanto disposto dal T.U. Edilizia (articoli 3 e 10), tutti gli interventi che, indipendentemente dalla realizzazione di volumi, incidono sul tessuto urbanistico del territorio, determinando la trasformazione in via permanente del suolo inedificato per adattarlo ad un impiego diverso da quello che gli è proprio in relazione alla sua condizione naturale ed alla sua qualificazione giuridica.
In tale tipologia di interventi è certamente collocabile la realizzazione di una pensilina quale quella realizzata dalla ricorrente che era certamente qualificabile come intervento di nuova costruzione ai sensi del T.U. edilizia e per la quale non è neppure ipotizzata l'eventuale natura pertinenziale.
Tale qualificazione è certamente ricavabile dalle dimensioni e dalle caratteristiche costruttive indicate nell'imputazione, indipendentemente dalla corretta individuazione della nozione di "
pensilina".
Invero, la giurisprudenza di questa Corte si è ripetutamente soffermata sul concetto di "
tettoia" e sulla differenza tra questa ed il "pergolato", osservando che la diversità strutturale delle due opere è rilevabile dal fatto che, mentre il pergolato costituisce una struttura aperta sia nei lati esterni che nella parte superiore ed è destinato a creare ombra, la tettoia può essere utilizzata anche come riparo ed aumenta l'abitabilità dell'immobile.
Si è poi ritenuto che la realizzazione di tettoie assuma rilevanza sotto il profilo urbanistico, richiedendo quindi il permesso di costruire, allorché difetti dei requisiti richiesti per le pertinenze e per gli interventi precari, come peraltro avviene con riferimento a tutte le tipologie di manufatti. Le tettoie sono state sempre considerate, pertanto, come parti di un edificio preesistente o autonomamente valutate come interventi di nuova costruzione.
Con riferimento alle pensiline, invece, sebbene si sia ritenuta, in un caso, la necessità della concessione edilizia, ora permesso di costruire, non si rinviene alcuna indicazione che ne qualifichi puntualmente il concetto.

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Il ricorso è infondato.
Occorre preliminarmente osservare che la Corte territoriale ha ritenuto accertato, in fatto, che la pensilina è stata realizzata in area sottoposta a vincolo paesaggistico e che tale assunto non è contestato dalla ricorrente. Sulla base di tale presupposto, correttamente i giudici del gravarne hanno stigmatizzato, incidentalmente, l'evidente errore in cui è incorso il giudice di prime cure ritenendo insussistente la violazione paesaggistica concorrente e ritenuto corretta la collocazione della condotta posta in essere nella fattispecie contemplata dalla lettera c) del menzionato articolo 44 D.P.R. 380/2001.
Date tali premesse, gli stessi giudici hanno escluso che le opere realizzate fossero collocabili tra gli interventi c.d. minori in quanto modificative dell'originario stato dei luoghi e costituenti trasformazione urbanistica del territorio di natura permanente e tale da richiedere, quale titolo abilitativo, il permesso di costruire.
Invero, sono in genere soggetti a permesso di costruire, sulla base di quanto disposto dal T.U. Edilizia (articoli 3 e 10), tutti gli interventi che, indipendentemente dalla realizzazione di volumi, incidono sul tessuto urbanistico del territorio, determinando la trasformazione in via permanente del suolo inedificato (Sez. III n. 6930, 19.02.2004 conf. Sez. III n. 8064, 24.02.2009) per adattarlo ad un impiego diverso da quello che gli è proprio in relazione alla sua condizione naturale ed alla sua qualificazione giuridica (Sez. III n. 28547, 10.07.2009).
In tale tipologia di interventi è certamente collocabile la realizzazione di una pensilina quale quella realizzata dalla ricorrente che era certamente qualificabile come intervento di nuova costruzione ai sensi del T.U. edilizia e per la quale non è neppure ipotizzata l'eventuale natura pertinenziale.
Tale qualificazione è certamente ricavabile dalle dimensioni e dalle caratteristiche costruttive indicate nell'imputazione, indipendentemente dalla corretta individuazione della nozione di "pensilina".
Invero, la giurisprudenza di questa Corte si è ripetutamente soffermata sul concetto di "tettoia" e sulla differenza tra questa ed il "pergolato", osservando che la diversità strutturale delle due opere è rilevabile dal fatto che, mentre il pergolato costituisce una struttura aperta sia nei lati esterni che nella parte superiore ed è destinato a creare ombra, la tettoia può essere utilizzata anche come riparo ed aumenta l'abitabilità dell'immobile (Sez. III n. 19973, 19.05.2008; conf. Sez. III n. 10534, 10.03.2009).
Si è poi ritenuto che la realizzazione di tettoie assuma rilevanza sotto il profilo urbanistico, richiedendo quindi il permesso di costruire, allorché difetti dei requisiti richiesti per le pertinenze e per gli interventi precari, come peraltro avviene con riferimento a tutte le tipologie di manufatti. Le tettoie sono state sempre considerate, pertanto, come parti di un edificio preesistente o autonomamente valutate come interventi di nuova costruzione (v., tra le più recenti, Sez. III n. 27264, 14.07.2010; Sez. III n. 21351, 04.06.2010; Sez. III n. 25530, 18.06.2009; Sez. III n. 17083, 18.05.2006; Sez. III n. 40843, 10.11.2005).
Con riferimento alle pensiline, invece, sebbene si sia ritenuta, in un caso, la necessità della concessione edilizia, ora permesso di costruire (Sez. III n. 2733, 31.01.1994, citata anche nell'impugnata decisione), non si rinviene alcuna indicazione che ne qualifichi puntualmente il concetto.
Alcuni regolamenti comunali, ivi compreso quello del Comune ove le opere in contestazione sono state realizzate, prevedono effettivamente una distinzione tra tettoia e pensilina, solitamente fondata sulle diverse caratteristiche costruttive.
In particolare, il Regolamento Edilizio del Comune di Teggiano (adottato con delibera n. 65 del 03.10.1993) individua le pensiline come assimilabili agli "sbalzi" ed ai "corpi aggettanti aperti", distinguendole, in senso evidentemente riduttivo, dalle tettoie ma indica come necessaria la concessione edilizia (ora permesso di costruire) per quelle insistenti in area sottoposte a vincolo paesaggistico o storico-architettonico.
Sotto un profilo eminentemente lessicale, tuttavia, la pensilina viene sostanzialmente equiparata alla tettoia con la quale condivide comuni finalità di arredo o di riparo e protezione e dalla quale non può distinguersi neppure per la conformazione, stante le diversità di materiali con i quali possono essere realizzate entrambe le strutture e le modalità di ancoraggio al suolo o in aggetto rispetto ad altro edificio.
Sulla base di tale considerazione, pertanto, può affermarsi il
principio secondo il quale la sostanziale identità delle nozioni di tettoia e pensilina ricavabile dalle medesime finalità di arredo, riparo o protezione anche dagli agenti atmosferici, determina la necessità del permesso di costruire nei casi in cui sia da escludere la natura precaria o pertinenziale dell'intervento.
Alla luce delle considerazioni sopra esposte consegue che l'abuso in contestazione, indipendentemente dalla qualificazione, era comunque soggetto a permesso di costruire come correttamente ritenuto anche dalle competenti autorità comunali che, rilasciata la sanatoria per gli altri interventi, l'avevano invece negata per la pensilina (Corte di Cassazione, Sez. penale feriale, sentenza 07.09.2011 n. 33267).

EDILIZIA PRIVATAGiova sottolineare come la nozione di libertà di costruire in epoca antecedente la legge urbanistica del 1942 sia stata affermata dalla IV Sezione del Consiglio di Stato con espresso riguardo alla situazione di fatto dell’immobile in contestazione, che, essendo casa colonica, doveva essere allocato, quanto meno al momento della costruzione, in zona agricola.
Al di fuori della specifica situazione, non potrebbe certo concordarsi con l’opinione secondo la quale la libertà di costruire, in epoca antecedente la normazione urbanistica, poteva essere dilatata al punto di conferire al diritto soggettivo di proprietà valenze e prerogative che probabilmente non ha mai avuto, quanto meno in termini assoluti, fin dagli albori della costituzione dello Stato Nazionale (cioè dalla legislazione unitaria fondamentale del 1865).
Con una visione frammentaria del problema, che si rivelò ben presto inadeguata, il legislatore del 1865 introdusse, infatti, per gli aggregati urbani relativi a comuni con più di 10.000 abitanti, la materia dei piani regolatori.
Quella remota disciplina contemplava due tipi: il piano regolatore edilizio e il piano di ampliamento previsti rispettivamente dagli articoli 86 e 93 della legge 25.06.1865, n. 2359 sulle espropriazioni per pubblica utilità.
Quelle norme non prescrivevano l’imposizione di limiti rigorosi alla proprietà privata, ma costituivano pur sempre un indizio non secondario dell’esistenza di un quadro conformativo del quale, nelle zone urbane, lo jus aedificandi doveva comunque tener conto.
Oltre alle assai modeste prescrizioni di tipo pianificatorio altre, con diversa normativa, furono previste, soprattutto con atti regolamentari per l’edificazione nei centri abitati (e, in questo senso, molti furono i comuni ad avvalersi di tale facoltà).
Tali regolamenti, nel prevedere una serie di limiti sull’altezza, le distanze ed altri elementi connotativi delle edificazioni urbane, costituivano anch’essi uno strumento conformativo seppure indiretto rispetto all’esercizio concreto dello jus aedificandi: tali mezzi risultano positivamente richiamati dagli articoli 109 e 111 (quest’ultimo in particolare) del regio decreto 12.02.1911, n. 297 recante il regolamento per l’esecuzione della legge comunale e provinciale 21.05.1908, n. 269, ma utilizzato anche dopo le modifiche della legge 04.02.1915, n. 148 e il testo unico 03.03.1934, n. 383.
Un ulteriore strumento di conformazione, anch’esso episodico, va individuato, oltre che nella legge 15.01.1885, n. 2892 sul risanamento della città di Napoli e nella legge 31.05.1903, n. 254 relativa alla costruzione, all’acquisto e alla vendita di case popolari, nei provvedimenti legislativi che hanno approvato i piani regolatori di grandi città (legge 24.03.1932, n. 355 per Roma e la legge 19.02.1934, n. 433 per Milano).
Il richiamo alla legislazione previgente il 1942 si conclude con i regi decreti legge 25.03.1935, n. 640 (art. 4) e il successivo 22.11.1937, n. 2105 (art. 6) che enunciano l’obbligatorietà dell’autorizzazione del sindaco (podestà) per le edificazioni.
Accanto alle considerazioni storiche e prima di esaminare quelle inerenti la specifica area oggetto della vertenza, occorre rammentare la modificazione di prospettive e le evoluzioni anche concettuali maturate nel prosieguo e fino ai giorni nostri nella legislazione urbanistica ed edilizia.
E’ sufficiente, in proposito, ricordare come una norma quale l’ultimo comma dell’articolo 4 della legge 28.01.1978, n. 10 (vedi ora l’articolo 9 d.P.R. 06.06.2001, n. 380 recante il testo unico in materia edilizia), nel dettare norme sull’edificabilità dei suoli nei comuni privi di strumenti urbanistici, stabilisse il primato del momento pianificatorio, riducendo e quanto meno depotenziando in modo significativo il diritto di edificare del privato, sulla base del principio che, relativamente ai suoli privi di qualsivoglia regolamentazione, opera pur sempre una disciplina suppletiva di salvaguardia dagli eccessi di intensificazione.
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L’istituto dell’asservimento, come è noto, si è formato dopo l’entrata in vigore del d.m. 02.04.1968, che ha fissato gli standards di edificabilità delle aree e ha introdotto una organica regolamentazione della densità edilizia (territoriale e fondiaria).
La nozione di densità costituisce il parametro di riferimento per stabilire se possa farsi luogo ad asservimento: ciò impone senz’altro l’operatività dello strumento pianificatorio, ma non implica una risposta univoca rispetto agli immobili edificati, a seconda che a loro fondamento vi sia un provvedimento abilitativo (che, in altri momenti storici, poteva anche legittimamente mancare).
La densità territoriale, in particolare, è riferita a ciascuna zona omogenea e definisce il complessivo carico di edificazione che può gravare sulla stessa, con la conseguenza che il relativo indice è rapportato sia all’intera superficie sottoposta alla medesima vocazione urbanistica sia alla concreta insistenza di costruzioni.
Perché il computo rispecchi la realtà effettuale non rileva certo la sussistenza o meno del prescritto titolo autorizzatorio o abilitativo all’intervento edilizio, ma la reale situazione dei luoghi con il carico di edificazione in concreto accertato.
Non può d’altronde dubitarsi che qualsiasi costruzione, anche se eretta senza il prescritto titolo, concorra al computo complessivo della densità territoriale.

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... per la riforma della sentenza 30.01.2007, n. 123 del Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia sede di Milano sez. II.
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55. Il primo quesito coinvolge la computabilità nella volumetria assentibile, secondo l’indice di densità fondiaria in vigore, di una costruzione con area di sedime coincidente con il mappale sulla quale insiste (655) per essere stata censita nel 1858.
56. Si è invero osservato come l’edificio posto sul citato mappale 655 è stato eretto ben prima della legge urbanistica n. 1150 del 1942, quando cioè lo jus aedificandi era considerato pura estrinsecazione del diritto di proprietà: a tale stregua, la totale occupazione dell’area del mappale 655 da parte della casa colonica censita nel 1858 nel catasto lombardo veneto dovrebbe impedire l’instaurarsi di qualsivoglia pertinenza e, per l’effetto, di possibili asservimenti.
57. In questa prospettiva, costruzione ed area divengono unica res caratterizzata, nel tessuto urbanistico-edilizio della zona, da specificità e autonomia tali da escludere che si tenga conto della relativa volumetria in relazione alla densità fondiaria in vigore.
58. Il Collegio non ritiene che la proposizione del quesito, quanto meno nei termini appena esposti, possa rivelarsi decisiva per la soluzione del caso.
59. Giova, in primo luogo, sottolineare come la nozione di libertà di costruire in epoca antecedente la legge urbanistica del 1942 sia stata affermata dalla IV Sezione del Consiglio di Stato con espresso riguardo alla situazione di fatto dell’immobile in contestazione, che, essendo casa colonica, doveva essere allocato, quanto meno al momento della costruzione, in zona agricola;
60. Al di fuori della specifica situazione, non potrebbe certo concordarsi con l’opinione secondo la quale la libertà di costruire, in epoca antecedente la normazione urbanistica, poteva essere dilatata al punto di conferire al diritto soggettivo di proprietà valenze e prerogative che probabilmente non ha mai avuto, quanto meno in termini assoluti, fin dagli albori della costituzione dello Stato Nazionale (cioè dalla legislazione unitaria fondamentale del 1865).
61. Con una visione frammentaria del problema, che si rivelò ben presto inadeguata, il legislatore del 1865 introdusse, infatti, per gli aggregati urbani relativi a comuni con più di 10.000 abitanti, la materia dei piani regolatori.
62. Quella remota disciplina contemplava due tipi: il piano regolatore edilizio e il piano di ampliamento previsti rispettivamente dagli articoli 86 e 93 della legge 25.06.1865, n. 2359 sulle espropriazioni per pubblica utilità.
63. Quelle norme non prescrivevano l’imposizione di limiti rigorosi alla proprietà privata, ma costituivano pur sempre un indizio non secondario dell’esistenza di un quadro conformativo del quale, nelle zone urbane, lo jus aedificandi doveva comunque tener conto.
64. Oltre alle assai modeste prescrizioni di tipo pianificatorio altre, con diversa normativa, furono previste, soprattutto con atti regolamentari per l’edificazione nei centri abitati (e, in questo senso, molti furono i comuni ad avvalersi di tale facoltà).
65. Tali regolamenti, nel prevedere una serie di limiti sull’altezza, le distanze ed altri elementi connotativi delle edificazioni urbane, costituivano anch’essi uno strumento conformativo seppure indiretto rispetto all’esercizio concreto dello jus aedificandi: tali mezzi risultano positivamente richiamati dagli articoli 109 e 111 (quest’ultimo in particolare) del regio decreto 12.02.1911, n. 297 recante il regolamento per l’esecuzione della legge comunale e provinciale 21.05.1908, n. 269, ma utilizzato anche dopo le modifiche della legge 04.02.1915, n. 148 e il testo unico 03.03.1934, n. 383.
66. Un ulteriore strumento di conformazione, anch’esso episodico, va individuato, oltre che nella legge 15.01.1885, n. 2892 sul risanamento della città di Napoli e nella legge 31.05.1903, n. 254 relativa alla costruzione, all’acquisto e alla vendita di case popolari, nei provvedimenti legislativi che hanno approvato i piani regolatori di grandi città (legge 24.03.1932, n. 355 per Roma e la legge 19.02.1934, n. 433 per Milano).
67. Il richiamo alla legislazione previgente il 1942 si conclude con i regi decreti legge 25.03.1935, n. 640 (art. 4) e il successivo 22.11.1937, n. 2105 (art. 6) che enunciano l’obbligatorietà dell’autorizzazione del sindaco (podestà) per le edificazioni.
68. Accanto alle considerazioni storiche e prima di esaminare quelle inerenti la specifica area oggetto della vertenza, occorre rammentare la modificazione di prospettive e le evoluzioni anche concettuali maturate nel prosieguo e fino ai giorni nostri nella legislazione urbanistica ed edilizia.
69. E’ sufficiente, in proposito, ricordare come una norma quale l’ultimo comma dell’articolo 4 della legge 28.01.1978, n. 10 (vedi ora l’articolo 9 d.P.R. 06.06.2001, n. 380 recante il testo unico in materia edilizia), nel dettare norme sull’edificabilità dei suoli nei comuni privi di strumenti urbanistici, stabilisse il primato del momento pianificatorio, riducendo e quanto meno depotenziando in modo significativo il diritto di edificare del privato, sulla base del principio che, relativamente ai suoli privi di qualsivoglia regolamentazione, opera pur sempre una disciplina suppletiva di salvaguardia dagli eccessi di intensificazione (C.d.S., IV, 10.12.2007, n. 6339, C.d.S., V, 14.10.2005, n. 5801; Cd.S., IV, 09.08.2005, n. 4232).
70. La sintetica esposizione delle principali fonti normative antecedenti il codice civile (art. 869 e seguenti) e la normazione urbanistica (legge 10.08.1942, n. 1150) nonché il richiamo alle successive evoluzioni consentono di chiarire un profilo metodologico di rilievo ai fini della decisione: essere cioè quanto meno perplessa la possibilità di risolvere la questione giuridica prospettata sulla base della legislazione previgente e del titolo in base al quale ab origine fu edificato il mappale 655.
71. Quest’ultimo, nel corso del tempo, si è successivamente trasformato da casa colonica quale risulta nel catasto lombardo veneto nel 1858 (e prima ancora da terreno agricolo secondo il catasto teresiano vigente nei primi anni del secolo diciannovesimo) in edificio a varie destinazioni (della quale quella a portineria di villa Dajelli è contestata) fino a divenire privata abitazione del professor Va., secondo una prassi un tempo assai diffusa di riadattamento di un immobile originariamente destinato all’agricoltura o a deposito (come testimoniano, è dato enunciabile come fatto notorio, i molti fienili trasformati in gradevoli e talora lussuose residenze private).
72. Se, d’altro canto, l’immobile era originariamente una casa colonica, la sua collocazione nel 1858 in piena campagna implica che il relativo dato catastale non assuma rilievo per definire la computabilità o meno della relativa volumetria: le zone agricole fuori dell’abitato non soggiacevano comunque a una disciplina edilizia così che il porre la problematica dell’asservimento finirebbe necessariamente per rivelarsi un fuor d’opera.
73. E’ invero assai difficile riportare in un contesto unitario (quale quello della disciplina urbanistica del piano regolatore di Varenna del 1996) situazioni e fatti collocati in un diverso spazio temporale che diviene, quasi in modo diacronico, anche diverso spazio fisico, quanto meno sotto il profilo della regolamentazione e delle connesse qualificazioni.
74. La legge dell’incessante divenire impone di non sovrapporre due situazioni la cui riconducibilità al più antico dato catastale non è connotata da tratti specifici rispetto ad altri complessivi elementi di valutazione.
75- Pur espungendo dalla formulazione del punto di diritto la peculiarità storica della collocazione catastale, non si otterrebbe in ogni caso un quadro ordinamentale sicuro e completo in ragione del quale assicurare una definitiva e soddisfacente risposta.
76. Ciò si deve alla coerente premessa metodologica dell’ordinanza di rimessione tratta dai principi in materia di asservimento, con particolare riguardo al caposaldo che connette il relativo vincolo con il provvedimento edilizio abilitativo.
77. L’istituto dell’asservimento, come è noto, si è formato dopo l’entrata in vigore del decreto ministeriale 02.04.1968, che ha fissato gli standards di edificabilità delle aree e ha introdotto una organica regolamentazione della densità edilizia (territoriale e fondiaria).
78. La nozione di densità costituisce il parametro di riferimento per stabilire se possa farsi luogo ad asservimento: ciò impone senz’altro l’operatività dello strumento pianificatorio, ma non implica una risposta univoca rispetto agli immobili edificati, a seconda che a loro fondamento vi sia un provvedimento abilitativo (che, in altri momenti storici, poteva anche legittimamente mancare).
79. La densità territoriale, in particolare, è riferita a ciascuna zona omogenea e definisce il complessivo carico di edificazione che può gravare sulla stessa, con la conseguenza che il relativo indice è rapportato sia all’intera superficie sottoposta alla medesima vocazione urbanistica sia alla concreta insistenza di costruzioni.
80. Perché il computo rispecchi la realtà effettuale non rileva certo la sussistenza o meno del prescritto titolo autorizzatorio o abilitativo all’intervento edilizio, ma la reale situazione dei luoghi con il carico di edificazione in concreto accertato.
81. Non può d’altronde dubitarsi che qualsiasi costruzione, anche se eretta senza il prescritto titolo, concorra al computo complessivo della densità territoriale (C.d.S., IV, 26.09.2008, n. 4647; IV, 29.07.2008, n. 3766; IV, 12.05.2008, n. 2177; IV, 11.12.2007, n. 6346; V, 27.06.2006, n. 4117; V, 12.07.2005, n. 3777: V, 12.07.2004, n. 5039; IV, 06.09.1999, n. 1402).
82. Con riguardo a quella specie di densità, l’edificio posto sul mappale 655 è stato senz’altro oggetto di calcolo da parte del Comune di Varenna in sede di concreta determinazione della volumetria ammessa per la zona.
83. Il problema insorge, come riferito nell’ordinanza in epigrafe, per la commisurazione della volumetria assentibile in base alla densità fondiaria.
84. Quest’ultima è riferita alla singola area e definisce il volume massimo consentito sulla stessa, l’indice della quale (c.d. indice di fabbricabilità) va applicato sull’effettiva superficie suscettibile di edificazione.
85. Per eseguire tale operazione l’interprete non può certo attestarsi sugli elementi originari di formazione dell’edificio e sulla situazione catastale del 1858: questi ultimi sono soggetti a troppe variabili, prima tra tutte quella temporale, in esito alla quale lo stato dei luoghi attuale, ancorché apparentemente simile a quello distinto nelle registrazioni del 1858, potrebbe rivelarsi discontinuo e sottoposto a un diverso regime.
86. Le risultanze catastali comparate a distanza di circa centocinquanta anni servono, in definitiva, a chiarire due dati, nessuno dei quali peraltro, si rivela decisivo: la legittima carenza di un provvedimento autorizzatorio o comunque abilitativo della costruzione e, parimenti, la costante insistenza e individuazione, nel lungo lasso di tempo, del fabbricato sul medesimo mappale.
87. Questi elementi riguardano una situazione antecedente l’individuazione dei limiti inderogabili di densità edilizia come introdotti nell’ordinamento dal d.m. 02.04.1968, n. 1444 in attuazione dei precetti recati dall’articolo 17 della legge 06.08.1967, n. 765.
88. In via di larga massima si osserva, relativamente all’inesistenza (e all’impossibilità di esistenza ratione temporis) di un atto che determini l’asservimento pertinenziale, come la situazione originaria possa trovare smentita in atti successivamente adottati nel lungo arco temporale limitato, ai fini della disamina, all’entrata in vigore del citato decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444 o alla prima disciplina urbanistica introdotta nel Comune (generalmente attraverso un programma di fabbricazione).
89. In questa ipotesi e rispetto al periodo antecedente le date sopra indicate, possono in astratto comprendersi, oltre le citate determinazioni pianificatorie del Comune, atti e negozi di privati, non necessariamente preordinati all’asservimento in senso tecnico dell’area o di una parte di essa.
90. Potrebbero assumere rilievo, in questo senso, atti come la destinazione a pertinenza ex art. 817 c.c., la costituzione di servitù prediale, prevista dagli articoli 1027 e seguenti del codice civile nonché tutti gli atti che implichino un’incidenza sull’immobile, mentre debbono considerarsi sempre irrilevanti, a questi fini, le vicende civilistiche inerenti la titolarità del bene (tra le tante: C.d.S., V, 02.09.2005, n. 4442).
91. Tutte le volte che l’area sia interessata da atti di tale natura, potrebbero determinarsi effetti sulla concreta edificabilità: una parte del terreno potrebbe perdere, in ragione del vincolo ad essa imposto anche iure privatorum, l’idoneità ad essere astrattamente utilizzabile per una costruzione e, conseguentemente, a formare oggetto di eventuali contratti atipici ad effetti obbligatori con i quali le parti dispongono della volumetria di loro immobili (C.d.S., V, 28.06.2000, n. 3637).
92. Tanto si afferma in ragione del principio di immediata evidenza logica secondo il quale la determinazione della volumetria consentita in un’area deve pur sempre tener conto del dato reale, di come, cioè, gli immobili si trovano e delle relazioni che intrattengono con l’ambiente circostante in virtù del complesso di effetti riconducibili ad atti di soggetti pubblici e privati nonché a fatti della più varia natura, ma idonei, in ogni caso, ad incidere sull’edificabilità.
93. Rispetto a tali dati, ove se ne ammetta la rilevanza in ordine quanto meno al singolo intervento edilizio, gli elementi indicati nel quesito in esame costituiscono un prius nel quale non si esaurisce certo la ricerca dell’interprete.
94. Tali vicende, ove non si risolvano in una modificazione profonda e irreversibile del bene e della sua anche parziale vocazione edificatoria, debbono essere acquisite in atti dell’Autorità comunale nel quadro delle regolazioni e qualificazioni scaturenti dalla pianificazione urbanistica adottata dalla singola Amministrazione.
95. Quest’ultima può scegliere, in via generale, tra l’individuazione di criteri idonei a configurare un complesso di precetti recanti fattispecie analoghe o comunque equiparabili all’asservimento pertinenziale perché verificatesi prima dell’entrata in vigore del decreto 02.04.1968, n. 1444 o dello strumento urbanistico adottato e una carenza di regolazione che sposta il problema al momento del rilascio del singolo permesso di costruire così da imporre, ove occorra, una disamina della situazione di fatto e di diritto creatasi nel fondo sul quale è previsto l’intervento edilizio.
96. L’Amministrazione appellante ha optato per la prima ipotesi, introducendo cos ì nelle norme tecniche di attuazione al piano regolatore generale del 1996, un regime integrativo rispetto ai casi di asservimento derivanti dall’applicazione della normativa sugli inderogabili limiti alla densità edilizia.
97. L’articolo 11 n.t.a. del Comune di Varenna, prescrive, infatti, che “per gli edifici esistenti e realizzati prima dell’adozione del programma di fabbricazione del 1968, l’area di pertinenza è quella che risulta indicata negli elaborati allegati alla prativa edilizia rilasciata al proprietario, indipendentemente dai successivi frazionamenti o trasferimenti. L’area acquisita o frazionata dopo la data di adozione del Piano di fabbricazione ed edificata è quella risultante dagli atti asservimento stipulati e trascritti a favore del Comune di Varenna…”.
98. Il successivo articolo 13, lettera c), delle su indicate n.t.a. ha cura di specificare, nella definizione della densità di fabbricabilità fondiaria che “sono esclusi i lotti già saturi ed asserviti ad edifici esistenti”.
99. Le disposizioni su riportate inducono a considerare superata la problematica sollevata con il primo quesito dell’ordinanza di rimessione e a non condividere, quanto meno nella loro assolutezza, le osservazioni del primo Giudice.
100. Secondo quest’ultimo, infatti, le disposizioni appena trascritte “valgono ad agevolare l’identificazione delle aree di pertinenza per le costruzioni realizzate in un regime di licenza (o concessione, o permesso) e in un sistema privo al riguardo di idonee forme di pubblicità…ma non autorizzano a considerare tamquam non essent, scomputandole dal calcolo volumetrico, costruzioni risalenti realizzate in epoche in cui non vigeva l’obbligo di dotarsi di licenza edilizia né esisteva una disciplina ad hoc sull’asservimento e la relativa prova.”
101. L’affermazione è senz’altro esatta se riferita al computo della densità territoriale, ma non può essere riprodotta in modo automatico per il metodo di calcolo della densità fondiaria.
102. Se si condivide l’assunto, fatto proprio dal Tar, secondo il quale le su indicate norme di attuazione hanno un preciso ufficio identificativo delle aree di pertinenza per le costruzioni, non può affermarsi poi che gli edifici risalenti debbono essere comunque computati nella volumetria assentibile per il solo fatto che, per la loro erezione, non esisteva l’obbligo di dotarsi di licenza edilizia o di un provvedimento abilitativo di qualsivoglia natura.
103. L’ufficio identificativo, nel caso di specie, è affidato a precise proposizioni giuridiche, che annettono valore decisivo non tanto all’epoca della costruzione (e alla carenza di titoli abilitativi), quanto piuttosto alle qualificazioni e alle determinazioni effettuate dagli stessi privati purché emergenti e riscontrabili anche implicitamente in atti rivolti alla pubblica autorità e relativi all’attività edilizia.
104. Ciò è, d’altro canto, precisa conseguenza della nozione di asservimento inteso come fattispecie negoziale atipica ad effetti obbligatori in base ai quali un’area viene destinata a servire al computo dell’edificabilità di altro fondo.
105. L’asservimento realizza, in definitiva, una specie particolare di relazione pertinenziale, nella quale viene posta durevolmente a servizio di un fondo la qualità edificatoria di un altro.
106. Se alla base del peculiare istituto v’è una destinazione pertinenziale, allora la logica (intesa come espressione del principio di ragionevolezza) vuole che possano essere accostate, equiparate o non diversamente regolate altre fattispecie di vincolo ex art. 817 c.c., in esito alle quali si realizzi una vicenda non dissimile quanto ad effetti.
106. Sebbene la tecnica dell’asservimento abbia trovato la propria peculiare ragion d’essere e si sia sviluppata dopo l’introduzione di limiti inderogabili di densità edilizia, è tuttavia incontestabile che relazioni pertinenziali rilevanti possono essersi determinate anche prima dell’entrata in vigore dell’articolo 17 della legge n. 765 del 1967 in ragione della obiettiva destinazione e configurazione dei fondi effettuata da chi ne aveva titolo e disponibilità.
107. L’ipotesi affermata ma non sufficientemente dimostrata nella sentenza impugnata, secondo la quale l’immobile sul mappale 655 ricadeva nel compendio unitario di villa Dajelli, è sicuramente un indizio in questo senso: ciò che impedisce la condivisione dell’assunto è la difficoltà di attribuire un senso univoco a una complessa documentazione, rispetto alla quale possono ben considerarsi ostativi (o almeno bisognosi di ulteriori accertamenti istruttori) gli argomenti dedotti nella perizia asseverata offerta in comunicazione.
108. Rispetto a situazioni nelle quali l’obiettiva incertezza nel valutare lo stato dei luoghi può assumere un primario ed assorbente rilievo e costituire finanche causa di patenti illegittimità, il Comune di Varenna ha fatto una scelta per dir così prudenziale: ha cioè stabilito di affidare, per il periodo antecedente l’adozione del programma di fabbricazione del 1968, la ricognizione dell’asservimento pertinenziale agli atti provenienti dagli stessi privati in sede di richieste di licenze o di presentazione in genere di pratiche edilizie.
109. Le affermazioni del Tribunale amministrativo regionale vanno perciò adeguate non già ad una astratta riconducibilità del fabbricato in contestazione alla primitiva (se provata) inerenza di tutti gli immobili ad una villa unitaria, peraltro appartenente ad altri soggetti, ma alla reale vicenda contenziosa, nella quale, come può anticiparsi, una licenza edilizia è stata richiesta e ottenuta dal Professor Va. prima dell’adozione del citato programma di fabbricazione del 1968.
110. Va ancora sottolineato come le succitate norme tecniche, statuendo all’articolo 13, il principio di carattere generale secondo il quale sono esclusi dal computo di edificabilità i lotti già saturi ed asserviti a fabbricati esistenti, abbiano sostanzialmente traguardato gli aspetti relativi al regime edilizio vigente al momento della costruzione, tenendo ben ferma la prioritaria esigenza di valutare in concreto lo stato dei luoghi.
111. La decisione si sposta, pertanto, alla ricerca in fatto se, in quel contesto, potessero trovare applicazione, in ragione degli atti e delle risultanze processuali, le norme tecniche citate. Fatto che, quindi, assume valenza centrale ai fini della presente decisione.
112. Ora è agli atti del processo il progetto allegato alla domanda di licenza edilizia presentata al Comune di Varenna il 23.02.1963 dal professor Va. per lavori da effettuare nella costruzione insistente sul mappale 655.
113. Dall’esame degli allegati alla domanda emerge che in uno dei lati rispetto ai quali si aprivano ben due porte finestre, l’area contigua era destinato a giardino (in calce al relativo disegno prospettico è scritto infatti: verso giardino).
114. La lettura degli schemi progettuali consente di collocare la casa rispetto alla strada e alla parte collinare (verso monte) e di individuare così con certezza nell’area del contiguo mappale 656 quella destinata a giardino.
115. La licenza edilizia come rilasciata dal Sindaco di Varenna nel marzo del medesimo anno 1963 ha perciò fatta propria la relativa destinazione ai sensi e per gli effetti indicati dal citato articolo 11 n.t.a.
116. L’esatta individuazione dell’area come pertinenza della casa è confermata, per quanto occorrer possa, da due successive licenze edilizie richieste dal professor Va. e rilasciate in vigenza del programma di fabbricazione.
117. Nella prima (pratica n. 4), assentita dal Sindaco di Varenna pro-tempore architetto Giorgio Monico il 31.01.1975, il proprietario richiese ed ottenne di realizzare una pensilina in legno con copertura in coppi sulla porta d’ingresso: tale risulta essere, in base a un preciso riscontro grafico nell’estratto di mappa posto a fianco del disegno principale del progetto, quella che porta al predetto giardino.
118. La seconda licenza (pratica n. 35/1978) fu richiesta nel 1978 dal professor Va. e dalla di lui consorte (probabilmente a seguito dell’entrata in vigore del regime di comunione dei beni introdotto nell’ordinamento italiano nella riforma degli articoli 159 e seguenti del codice civile come introdotta con legge 19.05.1975, n. 151).
119. Il provvedimento autorizzava la realizzazione di un locale di lavanderia e stireria in un crotto (così definito negli atti progettuali e di assenso comunale, nella accezione lombarda, e settentrionale in genere, di grotta) posto sul mappale n. 656 e rispetto al quale, sempre sulla base delle documentazioni progettuali, l ’ingresso era consentito esclusivamente dal giardino.
120. Gli elementi documentali appena commentati nella loro verificata oggettività vanno interpretati alla luce delle citate norme tecniche di attuazione.
121. Ora è evidente come proprio la coerente applicazione del precetto recato nel sopra trascritto articolo 11 n.t.a. del Comune di Varenna imponga di ravvisare l ’esistenza di un vincolo pertinenziale tra la costruzione e la circostante area a giardino insistente sul mappale 656.
122. Il vincolo in questione è stato costituito dal professor Va. in epoca antecedente il programma edilizio del 1968, essendo quanto meno operante dal febbraio 1963 (epoca nella quale fu presentata la richiesta di licenza edilizia) ed è stato pedissequamente indicato negli elaborati allegati alla pratica edilizia.
123. Debbono conseguentemente ritenersi pienamente operanti gli estremi richiesti dal più volte invocato articolo 11 n.t.a. per assumere la sussistenza del rapporto pertinenziale tra casa e giardino e per concludere che la volumetria della prima, insistente sul mappale 655, deve essere detratta da quella complessivamente assentibile per i lotti già di proprietà Va..
124. Le considerazioni che precedono impongono la conferma, seppure con diversa motivazione, della sentenza impugnata (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 23.09.2009 n. 3).

AGGIORNAMENTO AL 02.03.2016

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Sul c.d. “potere (rectius: dovere) di rimostranza” del pubblico dipendente.
Il "capo" ordina?? Okkio ad ubbidire "sic et simpliciter"!!

     Il dipendente a cui è fatto obbligo dai superiori di emettere un atto ritenuto illegittimo, se non vuole essere coinvolto in un pagamento illecito, non deve obbedire ma deve immediatamente procedere -per iscritto- alla contestazione dell'atto a chi ha impartito l'ordine, e solo se l'ordine è ribadito per iscritto il dipendente non può esimersi dall'eseguirlo, a meno che l'esecuzione non configuri un'ipotesi di reato.
     Ma anche i dirigenti/apicali (P.O.) "yes-man", interessati a vario titolo
(mantenimento della posizione di responsabilità, conseguimento massimo della retribuzione di posizione e di risultato, ecc.), sono avvisati: si rischia grosso laddove non si abbia esercitato, con grave colpa, il “dovere di rimostranza” nei confronti della disposizione di Giunta Comunale, palesemente illegittima, ma ne sia stata data esecuzione.
     Ebbene, vediamo (succintamente) di ricostruire la norma di legge vigente ad oggi:
1- in primis, abbiamo l'art. 17 del D.P.R. 10.01.1957 n. 3 il quale così dispone:

17. Limiti al dovere verso il superiore
    
L'impiegato, al quale, dal proprio superiore, venga impartito un ordine che egli ritenga palesemente illegittimo, deve farne rimostranza allo stesso superiore, dichiarandone le ragioni. Se l'ordine è rinnovato per iscritto, l'impiegato ha il dovere di darvi esecuzione. L'impiegato non deve comunque eseguire l'ordine del superiore quando l'atto sia vietato dalla legge penale
;

2- poi, è intervenuto il C.C.N.L. 06.07.1995 del comparto del personale delle REGIONI-AUTONOMIE LOCALI (parte normativa 1994-1997 e parte economica 1994-1995) laddove l'art. 47 così statuisce:

Art. 47 - Disapplicazioni
     1. A norma dell'art. 72, comma 1, del D.Lgs. n. 29 del 1993, dalla data di cui all'art. 2, comma 2,
sono inapplicabili, nei confronti del personale del comparto, tutte le norme previgenti incompatibili con quelle del presente contratto in relazione ai soggetti ed alle materie dalle stesse contemplate e in particolare le seguenti disposizioni:
(omissis)
r) con riferimento all'articolo 23:
artt. 12, 13, 14, 15, 16, 17 del DPR n. 3 del 1957;
(omissis)
;

ma ciò poiché il precedente art. 23 (come modificato dall’art. 23 CCNL 22.01.2004) dispone quanto segue:

Art. 23 - Doveri del dipendente
   1. Il dipendente conforma la sua condotta al dovere costituzionale di servire la Repubblica con impegno e responsabilità e di rispettare i principi di buon andamento e imparzialità dell'attività amministrativa, anteponendo il rispetto della legge e l'interesse pubblico agli interessi privati propri ed altrui. Il dipendente adegua altresì il proprio comportamento ai principi riguardanti il rapporto di lavoro contenuti nel codice di condotta allegato.
   2. Il dipendente si comporta in modo tale da favorire l'instaurazione di rapporti di fiducia e collaborazione tra l'Amministrazione e i cittadini.
   3. In tale specifico contesto, tenuto conto dell'esigenza di garantire la migliore qualità del servizio, il dipendente deve in particolare:
(omissis)
h) eseguire le disposizioni inerenti l'espletamento delle proprie funzioni o mansioni che gli siano impartiti dai superiori.
Se ritiene che l'ordine sia palesemente illegittimo, il dipendente deve farne rimostranza a che l'ha impartito, dichiarandone le ragioni; se l'ordine è rinnovato per iscritto ha il dovere di darvi esecuzione. Il dipendente non deve, comunque, eseguire l'ordine quando l'atto sia vietato dalla legge penale o costituisca illecito amministrativo;
(omissis)

     Di seguito alcuni pronunciamenti, tanto per farsene un'idea...
02.03.2016 - LA SEGRETERIA PTPL
 

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Nel vigente ordinamento, a partire dall’inizio degli anno ’90, è stato introdotto il fondamentale principio della separazione e reciproca autonomia tra il potere di indirizzo politico attribuito agli organi di Governo (politici) e quello di gestione attribuito ai dirigenti (d.lgs. n. 29/1993 di riorganizzazione della P.A. e più specificamente nel settore degli EE.LL. art. 51 della l. n. 142/1990, confermato dal più recente art. 107 del d.lgs. 18.08.2000 n. 267).
In sintesi, nel nuovo assetto organizzativo delineato dalle richiamate norme, ed in particolare dall’art. 107 del d.lgs. n. 267/2000, gli organi di governo (quindi Consiglio e Giunta comunale relativamente agli EE.LL.) esercitano l'indirizzo politico definendo gli obiettivi ed i programmi da attuare, assegnando ai dirigenti responsabili di ciascun settore le risorse (finanziarie ma anche umane e materiali) necessarie al perseguimento degli obiettivi loro assegnati, e poi verificano la rispondenza dei risultati della gestione, demandata agli organi burocratici, agli obiettivi ed indirizzi precedentemente impartiti; quindi i dirigenti/funzionari preposti a ciascun settore hanno competenza essenzialmente riguardante la fase gestoria, essendo responsabili dell’attuazione di quanto programmato dagli organi di governo, anche adottando personalmente gli atti che impegnano l'Amministrazione verso l'esterno (impegni di spesa, accertamento delle entrate, verso l'esterno (impegni di spesa, accertamento delle entrate, organizzazione e gestione del personale ecc…).
Una minimamente adeguata programmazione implica anche una valutazione delle finalità che si intende conseguire attraverso un programma o progetto di spesa e delle risorse umane e strumentali ad esso destinate (art. 170 del d.lgs. n. 267/2000 nel testo vigente prima della sua riformulazione introdotta dal d.lgs. n. 118/2011), anche per mantenere in esercizio quanto realizzato o acquisito, onde evitare la realizzazione di opere sostanzialmente inutili, in quanto non si è poi in grado di mantenerle in esercizio.
Ne deriva che le conseguenze di gravi carenze connesse all’esercizio di poteri di indirizzo, programmazione e fissazione degli obiettivi sono riconducibili alla responsabilità degli organi politici, e non dei funzionari tenuti a dare attuazione ai programmi ed obiettivi la cui fissazione è demandata all’esclusiva competenza degli organi politici.
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La G.C., con la delibera n. 24/2006, aveva emesso “atto di indirizzo per l’indizione di gara informale a trattativa privata…”.
Al riguardo occorre precisare che la formale autoqualificazione di atto di indirizzo appare del tutto errata, considerato che “gli atti di gestione includono funzioni dirette a dare adempimento ai fini istituzionali posti da un atto di indirizzo o direttamente dal legislatore, oppure includono determinazioni destinate ad applicare, pure con qualche margine di discrezionalità, criteri predeterminati per legge, mentre attengono alla funzione di indirizzo gli atti più squisitamente discrezionali, implicanti scelte di ampio livello”.
Conseguentemente il ricorso alla trattativa privata per la scelta del fornitore esula palesemente dalle attribuzioni proprie dell’organo politico nell’espletamento dell’attività di indirizzo, e costituisce atto di gestione, considerato che le ipotesi nelle quali è possibile il ricorso alla trattativa privata sono predeterminati per legge.
Giova altresì ricordare che “la responsabilità delle procedure di appalto e di concorso”, è attribuita alla struttura burocratica dell’E.L., a norma dell’art. 107, comma 3, lettera b), del d.lgs. n. 267/2000.
Comunque si trattava di una disposizione impartita dalla Giunta palesemente illegittima, difettando evidentemente ogni presupposto normativamente previsto per il ricorso alla trattativa privata.
La giurisprudenza della Corte di conti ha più volte ribadito che non sussiste un obbligo incondizionato del pubblico dipendente di eseguire le disposizioni impartite dai superiori o dagli organi sovraordinati, posto che il dovere di obbedienza incontra un limite nella ragionevole obiezione circa l’illegittimità dell’ordine ricevuto.
Invero, il c.d. “potere (rectius: dovere) di rimostranza” del pubblico impiegato, disciplinato dall’art. 17 del D.P.R. 10.01.1957, n. 3, comporta per il dipendente l’obbligo di fare immediata e motivata contestazione a chi ha impartito l’ordine, e solo se l’ordine è ribadito per iscritto il dipendente non può esimersi dall’eseguirlo, a meno che l’esecuzione non configuri un’ipotesi di reato.
Emerge pertanto una corresponsabilità degli odierni convenuti che hanno svolto un ruolo rilevante nella indizione e svolgimento della trattativa privata, e con grave colpa nulla hanno eccepito circa la palese illegittimità della disposizione impartita dalla Giunta comunale.
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Come innanzi già evidenziato, agli odierni convenuti va addebitata una corresponsabilità con la Giunta comunale, per non aver essi esercitato, con grave colpa, il “dovere di rimostranza” nei confronti della disposizione (giuntale) palesemente illegittima, ma ne hanno dato esecuzione.

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Come è noto, nel vigente ordinamento, a partire dall’inizio degli anno ’90, è stato introdotto il fondamentale principio della separazione e reciproca autonomia tra il potere di indirizzo politico attribuito agli organi di Governo (politici) e quello di gestione attribuito ai dirigenti (d.lgs. n. 29/1993 di riorganizzazione della P.A. e più specificamente nel settore degli EE.LL. art. 51 della l. n. 142/1990, confermato dal più recente art. 107 del d.lgs. 18.08.2000 n. 267: testo unico delle leggi sull'ordinamento degli EE.LL.).
In sintesi, nel nuovo assetto organizzativo delineato dalle richiamate norme, ed in particolare dall’art. 107 del d.lgs. n. 267/2000, gli organi di governo (quindi Consiglio e Giunta comunale relativamente agli EE.LL.) esercitano l'indirizzo politico definendo gli obiettivi ed i programmi da attuare, assegnando ai dirigenti responsabili di ciascun settore le risorse (finanziarie ma anche umane e materiali) necessarie al perseguimento degli obiettivi loro assegnati, e poi verificano la rispondenza dei risultati della gestione, demandata agli organi burocratici, agli obiettivi ed indirizzi precedentemente impartiti; quindi i dirigenti/funzionari preposti a ciascun settore hanno competenza essenzialmente riguardante la fase gestoria, essendo responsabili dell’attuazione di quanto programmato dagli organi di governo, anche adottando personalmente gli atti che impegnano l'Amministrazione verso l'esterno (impegni di spesa, accertamento delle entrate, verso l'esterno (impegni di spesa, accertamento delle entrate, organizzazione e gestione del personale ecc…).
Una minimamente adeguata programmazione implica anche una valutazione delle finalità che si intende conseguire attraverso un programma o progetto di spesa e delle risorse umane e strumentali ad esso destinate (art. 170 del d.lgs. n. 267/2000 nel testo vigente prima della sua riformulazione introdotta dal d.lgs. n. 118/2011), anche per mantenere in esercizio quanto realizzato o acquisito, onde evitare la realizzazione di opere sostanzialmente inutili, in quanto non si è poi in grado di mantenerle in esercizio.
Ne deriva che le conseguenze di gravi carenze connesse all’esercizio di poteri di indirizzo, programmazione e fissazione degli obiettivi, come nella fattispecie all’esame, sono riconducibili alla responsabilità degli organi politici, e non dei funzionari tenuti a dare attuazione ai programmi ed obiettivi la cui fissazione è demandata all’esclusiva competenza degli organi politici, come invece sostenuto dall’attore nella fattispecie all’esame, e, pertanto, ad avviso del Collegio, la domanda formulata al riguardo dalla Procura non merita accoglimento.
Dagli atti acquisiti risulta che la scelta di utilizzare il finanziamento regionale per realizzare un progetto di “valorizzazione scenografica della villa comunale e centro multimediale” è stato assunto dalla Giunta comunale, che ha anche provveduto ad approvare il progetto preliminare e quello definitivo redatti dal tecnico comunale geom. Am. (delibere di G.C. n. 49/2005 e n. 24/2006).
In particolare, la delibera n. 24/2006, oltre ad approvare il progetto definitivo ed esecutivo dell’opera –esercitando quindi, senza nulla eccepire, anche il “potere di controllo politico-amministrativo” sulle modalità con le quali è stata data attuazione a quanto programmato, previsto dal più volte richiamato art. 107 del d.lgs. n. 267/2000– impartisce anche “atto di indirizzo per l’indizione di gara informale a trattativa privata per l’appalto dei lavori suddetti” (punto 3 del dispositivo).
Occorre, pertanto, passare all’esame delle censure attoree riguardanti il ricorso alla trattativa privata, ove si sostiene che “la scelta del fornitore doveva avvenire attraverso procedure ad evidenza pubblica in grado di garantire maggiore economicità agli acquisti”, evidenziando altresì che “la fornitura di detti impianti audio-video è avvenuta con un ribasso risibile rispetto al prezzo indicato dall’amministrazione, dell’1,5%”.
Il difensore dei convenuti ha replicato deducendo che si è fatta corretta applicazione dell’art. 24 della l. n. 109/1994, che prevede l’affidamento a trattativa privata dei lavori di importo non superiore a € 100.000,00.
L’assunto difensivo non è condivisibile in quanto, per quanto concerne l’impianto di illuminazione scenografica e quello audio-video previsti in progetto, si trattava palesemente di “forniture”, considerato anche che si applicano le regole dettate per gli appalti pubblici di forniture anche se sono contestualmente previsti eventuali lavori di installazione (art. 1 del D.P.R. n. 573/1994).
Pertanto, inapplicabile ratione temporis il d.lgs. n. 163/2006 “Codice dei contratti pubblici”, in quanto entrato in vigore il 02/07/2006 (art. 257) mentre la trattativa privata è stata indetta con determina n. 7 del 18/04/2006, ritiene il Collegio che in fattispecie dovesse trovare applicazione il precedentemente già richiamato D.P.R. n. 573/1994 “Regolamento recante norme per la semplificazione dei procedimenti di aggiudicazione di pubbliche forniture di valore inferiore alla soglia comunitaria”, e per quanto più specificamente i presupposti legittimanti il ricorso alla trattativa privata, non disciplinati dal predetto D.P.R., l’art. 41 del R.D. n. 827/1924.
Nessuna delle ipotesi contemplate del su richiamato art. 41 ricorreva nella fattispecie all’esame, tanto meno “l’urgenza”, pur scarnamente richiamata nella già menzionata delibera n. 24/2006, senza fornire un benché minimo di motivazione al riguardo, nonostante l’ultimo comma del succitato art. 41 preveda adeguata motivazione circa “la ragione per la quale si ricorre a trattativa privata”.
Come innanzi già riferito, la G.C., con la delibera n. 24/2006, aveva emesso “atto di indirizzo per l’indizione di gara informale a trattativa privata…”.
Al riguardo occorre precisare che la formale autoqualificazione di atto di indirizzo appare del tutto errata, considerato che “gli atti di gestione includono funzioni dirette a dare adempimento ai fini istituzionali posti da un atto di indirizzo o direttamente dal legislatore, oppure includono determinazioni destinate ad applicare, pure con qualche margine di discrezionalità, criteri predeterminati per legge, mentre attengono alla funzione di indirizzo gli atti più squisitamente discrezionali, implicanti scelte di ampio livello” (Consiglio di Stato, sez. V, n. 1775/2013).
Conseguentemente il ricorso alla trattativa privata per la scelta del fornitore esula palesemente dalle attribuzioni proprie dell’organo politico nell’espletamento dell’attività di indirizzo, e costituisce atto di gestione, considerato che le ipotesi nelle quali è possibile il ricorso alla trattativa privata sono predeterminati per legge.
Giova altresì ricordare che “la responsabilità delle procedure di appalto e di concorso”, è attribuita alla struttura burocratica dell’E.L., a norma dell’art. 107, comma 3, lettera b), del d.lgs. n. 267/2000.
Comunque si trattava di una disposizione impartita dalla Giunta palesemente illegittima, difettando evidentemente ogni presupposto normativamente previsto per il ricorso alla trattativa privata.
La giurisprudenza della Corte di conti ha più volte ribadito che non sussiste un obbligo incondizionato del pubblico dipendente di eseguire le disposizioni impartite dai superiori o dagli organi sovraordinati, posto che il dovere di obbedienza incontra un limite nella ragionevole obiezione circa l’illegittimità dell’ordine ricevuto. Invero, il c.d. “potere (rectius: dovere) di rimostranza” del pubblico impiegato, disciplinato dall’art. 17 del D.P.R. 10.01.1957, n. 3, comporta per il dipendente l’obbligo di fare immediata e motivata contestazione a chi ha impartito l’ordine, e solo se l’ordine è ribadito per iscritto il dipendente non può esimersi dall’eseguirlo, a meno che l’esecuzione non configuri un’ipotesi di reato (ex plurimis, in tal senso la recente sentenza della Sez. appello Sicilia n. 117 del 27.03.2014).
Emerge pertanto una corresponsabilità degli odierni convenuti che hanno svolto un ruolo rilevante nella indizione e svolgimento della trattativa privata, e con grave colpa nulla hanno eccepito circa la palese illegittimità della disposizione impartita dalla Giunta comunale.
In particolare, Ma.Mi., nella qualità di responsabile del servizio LLPP, ha indetto la trattativa privata con determina n. 7 del 18.04.2006 e poi ha approvato gli atti della gara informale con determine n. 95 e 96 del 2006, mentre Am.Vi.Ni. ha emanato gli inviti alle imprese e poi presieduto le gare informali.
Circa il danno causalmente collegabile al mancato svolgimento della gara, esso non può che essere determinato con valutazione equitativa ai sensi dell’art. 1226 c.c., quale differenza tra l’inconsistente ribasso ottenuto attraverso la trattativa privata (1,5%) e quello maggiore che ipoteticamente si sarebbe potuto ottenere attraverso procedure ad evidenza pubblica.
Ipotizzando quindi che si sarebbe potuto conseguire un ribasso almeno pari a quello ottenuto nell’aggiudicazione dei lavori edili previsti dallo stesso progetto di valorizzazione della Villa comunale, pari al 9,45%, il danno va così determinato:
a) fornitura per l’illuminazione scenografica: base d’asta € 27.347,62, aggiudicata ad € 26.937,41, con un ribasso dell’1,5%, corrispondente ad € 410,21; ipotizzando un ribasso del 9,45%, esso sarebbe ammontato ad € 2.584,35; il danno pertanto va determinato in € 2.174,14, quale differenza tra € 2.584,35 ed € 410,21;
b) fornitura per l’impianto audio-video: base d’asta € 21.457,14, aggiudicata ad € 21.135,28, con un ribasso dell’1,5%, corrispondente ad € 321,86; ipotizzando un ribasso del 9,45%, esso sarebbe ammontato ad € 2.027,70; il danno pertanto va determinato in € 1.705,84, quale differenza tra € 2.027,70 ed € 321,86.
Conseguentemente il danno derivante da entrambe le forniture ammonta ad € 3.879,98.
Poiché, come innanzi già evidenziato, agli odierni convenuti va addebitata una corresponsabilità con la Giunta comunale, per non aver essi esercitato, con grave colpa, il “dovere di rimostranza” nei confronti della disposizione palesemente illegittima, ma ne hanno dato esecuzione, il Collegio reputa di ascrivere ad essi il 40% del danno complessivo, pari ad € 1.551,99.
Il predetto danno va addebitato in parti uguali a ciascuno dei due convenuti, che pertanto vanno condannati al pagamento di € 776,00 ciascuno, oltre agli accessori di legge (Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Basilicata, sentenza 19.12.2014 n. 83).

PUBBLICO IMPIEGO: Un ordine palesemente illegittimo e contrario al chiaro riparto di competenze tra la Regione e l’ASP non può non ingenerare nel destinatario, dello stesso, l’obbligo di attivare il c.d. “diritto di rimostranza”, cioè di contestare l’illegittimità dell’ordine/delega ricevuto, al fine di riversare sull’esclusiva responsabilità dell’ordinante le conseguenze dannose di tale disposizione.
Non sussiste, infatti, un obbligo incondizionato del pubblico dipendente di eseguire le disposizioni, ivi incluse quelle derivanti da atti di organizzazione, impartite dai superiori o dagli organi sovraordinati, posto che il dovere di obbedienza incontra un limite nella ragionevole obiezione circa l’illegittimità dell’ordine ricevuto.
Il c.d. “potere (rectius: dovere) di rimostranza” del pubblico impiegato, disciplinato dall’art. 17 del D.P.R. 10.01.1957, n. 3, comporta per il dipendente l’obbligo di fare immediata e motivata contestazione a chi ha impartito l’ordine, e solo se l’ordine è ribadito per iscritto il dipendente non può esimersi dall’eseguirlo, a meno che l’esecuzione non configuri un’ipotesi di reato.

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In relazione alla presunta omessa valutazione del fatto che lo IA. avesse agito in esecuzione dell’ordine gerarchico del superiore MA., è stato già rilevato come un ordine così palesemente illegittimo e contrario al chiaro riparto di competenze tra la Regione e l’ASP, non poteva non ingenerare, nello IA., l’obbligo di attivare il c.d. “diritto di rimostranza”, cioè di contestare l’illegittimità dell’ordine/delega ricevuto, al fine di riversare sull’esclusiva responsabilità dell’ordinante le conseguenze dannose di tale disposizione.
Non sussiste, infatti, un obbligo incondizionato del pubblico dipendente di eseguire le disposizioni, ivi incluse quelle derivanti da atti di organizzazione, impartite dai superiori o dagli organi sovraordinati, posto che il dovere di obbedienza incontra un limite nella ragionevole obiezione circa l’illegittimità dell’ordine ricevuto.
Il c.d. “potere (rectius: dovere) di rimostranza” del pubblico impiegato, disciplinato dall’art. 17 del D.P.R. 10.01.1957, n. 3, comporta per il dipendente l’obbligo di fare immediata e motivata contestazione a chi ha impartito l’ordine, e solo se l’ordine è ribadito per iscritto il dipendente non può esimersi dall’eseguirlo, a meno che l’esecuzione non configuri un’ipotesi di reato (vedi: Cons. Stato, Sez. V, sentenza 15.12.2008, n. 6208).
Lo IA., invece, eseguì puntualmente la disposizione, facendo sue le tariffe che erano state sostanzialmente predisposte, in modo unilaterale, dalla Società che ne doveva, poi, beneficiare, senza operare un sia pur apparente esame critico in ordine alla loro ragionevolezza e congruità che, invero, già ad un primo sommario esame anche da parte di un soggetto non particolarmente competente, apparivano del tutto inesistenti.
La responsabilità dello IA., pertanto, appare pienamente provata e ben lungi dal potersi considerare condizionata o minore di quella del MA. (Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. d'Appello per la Regione Siciliana, sentenza 27.03.2014 n. 117).

PUBBLICO IMPIEGO: Va ribadito che l'esercizio del così detto "diritto di rimostranza" in base al quale, nell'ipotesi di "ordine ritenuto palesemente illegittimo", il dipendente subordinato può chiedere che tale ordine sia rinnovato per iscritto, con la conseguenza che di esso ne risponde a tutti gli effetti, il superiore gerarchico, non può essere esercitato nei confronti di ogni ordine che si suppone illegittimo, ma solo in relazione ad un ordine la cui esecuzione comporti "responsabilità" per l'impiegato.
Tale diritto di rimostranza non è, pertanto, esercitabile nel caso che il provvedimento sia ritenuto lesivo dell'interesse dell'impiegato, perché la tutela del dipendente voluta dalla legge non può essere individuata in relazione alla posizione professionale dell'impiegato pubblico, ma in rapporto al concetto di responsabilità, avendo la norma in questione la sola funzione di trasferire la responsabilità dell'atto sul superiore gerarchico che lo ha impartito.

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Il ricorso è infondato.
Secondo la difesa del ricorrente, il superiore gerarchico che ha rilevato l'infrazione avrebbe disatteso l'obbligo di qualificarsi e di far costatare in modo preciso la mancanza disciplinare.
La censura pare, innanzitutto, infondata in punto di fatto e smentita dalla documentazione depositata in giudizio dall’amministrazione resistente (e non contestata dal ricorrente) e in particolare dal rapporto del rapporto del 27/03/1999 sottoscritto dal V. Isp Ma.Cu..
In ogni caso, è dirimente il rilievo che, per giurisprudenza consolidata, ai fini della regolarità del procedimento disciplinare, è sufficiente che al dipendente siano comunicati e contestati in modo completo e circostanziato i fatti che gli si addebitano, in modo da metterlo in grado di svolgere le sue difese in una situazione di cognizione piena e consapevole; cognizione che, nel caso di specie, è stata garantita dalla nota di contestazione degli addebiti del 26/07/1999 che contiene un’esauriente esposizione dei fatti e una puntuale indicazione dei doveri violati.
Quanto alla mancata reiterazione dell’ordine per iscritto (circostanza anch’essa smentita, in punto fatto, dalle giustificazioni prodotte dal ricorrente nelle quali non si fa menzione alcuna della richiesta di reiterazione dell’ordine per iscritto) si rileva che in base all’art. 10, comma 3°, della legge n. 395/1990 “L'appartenente al Corpo, al quale sia rivolto un ordine che egli ritenga palesemente illegittimo, deve farlo rilevare al superiore che lo ha impartito, dichiarandone le ragioni; se l'ordine è rinnovato per iscritto, è tenuto a darvi esecuzione e di esso risponde a tutti gli effetti, il superiore che lo ha impartito. Qualora ricorrano situazioni di pericolo e di urgenza, l'ordine ritenuto palesemente illegittimo deve essere eseguito su rinnovata richiesta, anche verbale del superiore, che al termine del servizio ha l'obbligo di confermarlo per iscritto”.
Nel caso di specie, non sembra profilarsi alcun ordine “palesemente illegittimo”, tenuto anche conto che all’epoca dei fatti presso il C.D.T. era ristretto solo un detenuto affetto da TBC polmonare inattiva e stabilizzata, e per il quale il dirigente sanitario non riteneva necessaria alcuna misura di profilassi ad eccezione dell’uso delle mascherine protettive (che risultano essere state poste disposizione del personale).
A tale proposito, il Collegio evidenzia l’irrilevanza, sia della nota del dirigente sanitario del 04/03/2000 (poiché relativa a fatti successivi alla mancanza disciplinare), sia dello stato di gravidanza della moglie del ricorrente (dedotto per la prima volta nella memoria difensiva del 30/01/2013), di cui non si fa mai menzione, né nelle giustificazioni prodotte dal ricorrente, né nel ricorso introduttivo.
In ogni caso, va ribadito che l'esercizio del così detto "diritto di rimostranza" in base al quale, nell'ipotesi di "ordine ritenuto palesemente illegittimo", il dipendente subordinato può chiedere che tale ordine sia rinnovato per iscritto, con la conseguenza che di esso ne risponde a tutti gli effetti, il superiore gerarchico, non può essere esercitato nei confronti di ogni ordine che si suppone illegittimo, ma solo in relazione ad un ordine la cui esecuzione comporti "responsabilità" per l'impiegato; tale diritto di rimostranza non è, pertanto, esercitabile nel caso che il provvedimento sia ritenuto lesivo dell'interesse dell'impiegato, perché la tutela del dipendente voluta dalla legge non può essere individuata in relazione alla posizione professionale dell'impiegato pubblico, ma in rapporto al concetto di responsabilità, avendo la norma in questione la sola funzione di trasferire la responsabilità dell'atto sul superiore gerarchico che lo ha impartito (TAR Valle d'Aosta, 23.01.2012, n. 8; TAR Abruzzo-Pescara, 24.05.2002, n. 518) (TAR Sicilia-Catania, Sez. III, sentenza 26.04.2013 n. 1202 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Per definire modalità e limiti entro cui è esercitabile in maniera legittima il potere di rimostranza, occorre brevemente delineare i contorni dell’istituto, sulla base delle norme applicabili ratione temporis.
La disposizione di carattere generale è tuttora contenuta nell’art. 17 del D.P.R. 10.01.1957, n. 3, rubricato “Limiti al dovere verso il superiore”, secondo cui l'impiegato al quale venga impartito un ordine ritenuto palesemente illegittimo ha l’obbligo -in deroga al dovere di «eseguire gli ordini che gli siano impartiti … relativamente alle proprie funzioni o mansioni» stabilito dall’art. 16, primo comma, dello stesso decreto- di farne rimostranza al proprio superiore, dichiarandone le ragioni.
Sempre in base all’art. 17, se l'ordine è rinnovato per iscritto, l'impiegato ha il dovere di darvi esecuzione, a meno che l’atto sia vietato dalla legge penale.
Secondo la consolidata giurisprudenza contabile, il mancato esercizio della rimostranza, comportando l’inapplicabilità dell’esimente prevista dall’art. 18 del medesimo D.P.R. n. 3/1957, configura colpa dell’impiegato, rilevante ai fini della responsabilità patrimoniale, laddove dall’atto illegittimo sia derivato un danno per le finanze pubbliche.
Non sussiste dunque un obbligo incondizionato del pubblico dipendente di eseguire le disposizioni, ivi incluse quelle derivanti da atti di organizzazione, impartite dai superiori o dagli organi sovraordinati, posto che il c.d. “dovere di obbedienza” incontra un limite nella ragionevole obiezione circa l’illegittimità dell’ordine ricevuto.
Qualora ricorra un’evenienza del genere, il pubblico impiegato ha tuttavia l’obbligo di fare una immediata e motivata contestazione a chi ha impartito l’ordine e se quest’ultimo è ribadito per iscritto, allora il dipendente non può esimersi dall’eseguirlo, a meno che l’esecuzione configuri un’ipotesi di reato.

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5. - Ad avviso del Collegio la controversia interseca tre diverse problematiche giuridiche e, segnatamente: la questione dei limiti del c.d. “potere (rectius, dovere) di rimostranza” del pubblico impiegato; la determinazione del momento iniziale del procedimento disciplinare e l'individuazione dei presupposti per una valida dichiarazione di decadenza del dipendente pubblico.
5.1. – Per definire modalità e limiti entro cui è esercitabile in maniera legittima il potere di rimostranza, occorre brevemente delineare i contorni dell’istituto, sulla base delle norme applicabili ratione temporis.
La disposizione di carattere generale è tuttora contenuta nell’art. 17 del D.P.R. 10.01.1957, n. 3, rubricato “Limiti al dovere verso il superiore”, secondo cui l'impiegato al quale venga impartito un ordine ritenuto palesemente illegittimo ha l’obbligo -in deroga al dovere di «eseguire gli ordini che gli siano impartiti … relativamente alle proprie funzioni o mansioni» stabilito dall’art. 16, primo comma, dello stesso decreto- di farne rimostranza al proprio superiore, dichiarandone le ragioni.
Sempre in base all’art. 17, se l'ordine è rinnovato per iscritto, l'impiegato ha il dovere di darvi esecuzione, a meno che l’atto sia vietato dalla legge penale.
Secondo la consolidata giurisprudenza contabile, il mancato esercizio della rimostranza, comportando l’inapplicabilità dell’esimente prevista dall’art. 18 del medesimo D.P.R. n. 3/1957, configura colpa dell’impiegato, rilevante ai fini della responsabilità patrimoniale, laddove dall’atto illegittimo sia derivato un danno per le finanze pubbliche.
Non sussiste dunque un obbligo incondizionato del pubblico dipendente di eseguire le disposizioni, ivi incluse quelle derivanti da atti di organizzazione, impartite dai superiori o dagli organi sovraordinati, posto che il c.d. “dovere di obbedienza” incontra un limite nella ragionevole obiezione circa l’illegittimità dell’ordine ricevuto.
Qualora ricorra un’evenienza del genere, il pubblico impiegato ha tuttavia l’obbligo di fare una immediata e motivata contestazione a chi ha impartito l’ordine e se quest’ultimo è ribadito per iscritto, allora il dipendente non può esimersi dall’eseguirlo, a meno che l’esecuzione configuri un’ipotesi di reato.
Le regole appena descritte sono riprodotte anche nelle previsioni del Regolamento del personale della Provincia di Roma e, segnatamente, negli artt. 3 e 9 il cui disposto replica, anche nei termini utilizzati, il portato precettivo delle richiamate disposizioni del Testo unico del 1957.
Al lume dei principi sopra enunciati, bisogna dunque verificare se l’appellante fosse, o no, obbligato ad assumere e a svolgere l’incarico di Direttore del Settore artigianato.
L’esito di tale scrutinio è sicuramente positivo, dal momento che la Provincia di Roma in ben due occasioni (con note del 07.02.1995, del 17.02.1995 e del 22.02.1995) diffidò per iscritto il dott. Se. ad attenersi a quanto deliberato dalla Giunta con atto n. 54 del 1995, riguardo l’assegnazione ad un diverso plesso organizzativo dell’ente.
Non emergendo profili penali della delibera di trasferimento, si perviene alla conclusione che l’appellante non avrebbe potuto reputarsi esonerato dall’obbligo di adempiere all’ordine ricevuto; né vale osservare in contrario che il dott. Sega ebbe a contestare la legittimità delle note con le quali fu reiterato l’ordine di assegnazione ad altro incarico (assegnazione che promanava direttamente dalla delibera giuntale sopra citata): si è infatti chiarito che il pubblico impiegato, al cospetto di una diffida efficace quand’anche ipoteticamente illegittima, è comunque tenuto ad ottemperare all’ordine con essa rinnovato, fatte salve le eventuali iniziative impugnatorie.
Nemmeno rileva ai fini del decidere la circostanza del sopravvenuto annullamento, nel corso dell’anno 2006, da parte del Tar del Lazio, della sunnominata delibera n. 54/1995: ed invero, se indubbiamente la sopravvenienza conferma ab externo la non pretestuosità dei dubbi allora esternati dal dott. Se., contribuendo vieppiù a colorare l’atteggiamento psicologico dell’appellante (v., infra, il §. 5.3.2.), nondimeno tale annullamento giurisdizionale si colloca a grande distanza temporale dall’epoca in cui si svolse la vicenda dedotta nel presente contenzioso e, per quanto già precisato sull’interinale efficacia dell’atto di assegnazione al nuovo incarico, non si pone in contraddizione con il quadro sopra richiamato n é rende giustificato il rifiuto allora opposto dal dott. Se..
Sotto questo aspetto, quindi, l’appello è infondato (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 15.12.2008 n. 6208 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOCirca la buona fede per doverosa ottemperanza ad un ordine del proprio superiore, è agevole replicare che, quanto meno nell'ordinamento civile (ma norme analoghe operano anche per il personale militare), non esiste un obbligo incondizionato di ottemperare ad ordini illegittimi da parte di un pubblico dipendente, la cui “obbedienza” a precetti dei superiori incontra un limite logico, ancor prima che giuridico (art. 17, d.P.R. 10.01.1957 n. 3), nella “palese illegittimità” dell'ordine.
In tale evenienza, il subordinato ha un obbligo di fare una immediata e motivata contestazione al superiore gerarchico, il quale può ribadire per iscritto l'ordine, a cui occorre, in tale evenienza, dar seguito, salvo che “la disposizione stessa sia vietata dalla legge penale o costituisca (come nel caso di specie, n.d.r.) illecito amministrativo”.

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5. Acclarata dunque l'esistenza di una condotta illecita dei convenuti, occorre farsi carico della verifica circa la sussistenza di una colpa grave o, addirittura, di un dolo eventuale, del T. e del C..
Tale elemento psicologico è ritenuto insussistente da parte dell'ex direttore amministrativo T., il quale, nelle proprie deduzioni e nella memoria di costituzione, ha addotto, a propria giustificazione (ergo, a comprova della propria buona fede ostativa alla ipotizzata colpevolezza), tre sostanziali argomenti:
a) l'aver dovuto ottemperare all'”ordine” di trasferimento impartito dal proprio direttore generale, dr. P.C., a tutela di un generico “buon andamento dell'ufficio acquisti” (v. p. 3 e 4 deduzioni 05.07.2004 agli atti);
b) la riconducibilità esclusiva della scelta gestionale al direttore generale ex art. 3, legge (rectius d.lgs.) 30.12.1992 n. 502;
c) la proprio sconoscenza, all'epoca del trasferimento, dei pregressi attriti tra il F. e il dirigente generale concernenti l'appalto di “3 service, comprendenti la gestione completa dei reparti di emodinamica, radiologia interventistica e neuroradiologia interventistica per 5 anni”.
Tali argomenti defensionali appaiono infondati per i motivi infraprecisati.
Circa la buona fede per doverosa ottemperanza ad un ordine del proprio direttore generale, è agevole replicare che, quanto meno nell'ordinamento civile (ma norme analoghe operano anche per il personale militare), non esiste un obbligo incondizionato di ottemperare ad ordini illegittimi da parte di un pubblico dipendente, la cui “obbedienza” a precetti dei superiori incontra un limite logico, ancor prima che giuridico (art. 17, d.P.R. 10.01.1957 n. 3; art. 28, co. 3, lett. h, CCNL 1994-1997 Sanità, ribadito nel successivo CCNL 1998/2001), nella “palese illegittimità” dell'ordine. In tale evenienza, il subordinato ha un obbligo di fare una immediata e motivata contestazione al superiore gerarchico, il quale può ribadire per iscritto l'ordine, a cui occorre, in tale evenienza, dar seguito, salvo che “la disposizione stessa sia vietata dalla legge penale o costituisca (come nel caso di specie, n.d.r.) illecito amministrativo”.
Nella fattispecie in esame, per ammissione dello stesso T. nelle depositate deduzioni, il direttore generale non aveva esternato, per una asserita generica “salvaguardia del bene aziendale”, le ragioni giuridico-organizzative alla base del richiesto trasferimento.
Orbene, la richiesta da parte del vertice gestionale di un atto dai rilevanti riflessi giuridici e contenziosi in quanto privo di idonea motivazione, avrebbe dovuto indurre il direttore amministrativo, soggetto di comprovata esperienza e professionalità richieste ex lege (art. 3 seg., d.lgs. n. 502 del 1992 infrariportato), a richiederne per iscritto le espresse ragioni, a fronte delle quali avrebbe potuto ragionevolmente decidere.
L'acritico recepimento di un ordine (o, perlomeno, di una “esortazione”) immotivato, e come tale illegittimo, rappresenta, dunque, la gravemente colpevole scelta del convenuto direttore amministrativo, la cui elevata professionalità specifica (in base all'art. 3, d.lgs. 30.12.1992 n. 502, applicabile anche alle aziende ospedaliere, come il omissis, in base al successivo art. 4, “Il direttore amministrativo è un laureato in discipline giuridiche o economiche che non abbia compiuto il sessantacinquesimo anno di età e che abbia svolto per almeno cinque anni una qualificata attività di direzione tecnica o amministrativa in enti o strutture sanitarie pubbliche o private di media o grande dimensione. Il direttore amministrativo dirige i servizi amministrativi dell'unità sanitaria locale. Sono soppresse le figure del coordinatore amministrativo, del coordinatore sanitario e del sovrintendente sanitario, nonché l'ufficio di direzione”) avrebbe dovuto indurlo a non assumere un comportamento irragionevolmente acritico nei confronti del superiore gerarchico, tenuto conto che il principio di legalità e ragionevolezza rappresentano obiettivo prioritario di qualsiasi scelta gestionale, anche in un sistema “depubblicizzato” di pubblica amministrazione.
Anzi, ad avviso del Collegio, l'aver adottato un atto la cui illegittimità era palese secondo criteri di ordinaria diligenza per un direttore amministrativo, configura addirittura un dolo eventuale, avendo l'autore della determina dirigenziale accettato il rischio di una fatale impugnativa lavoristica e del relativo accoglimento, foriero di danni erariali.
Né assume giuridica rilevanza, in questa sede, una ipotetica “sudditanza psicologica” del T. nei confronti del direttore generale C., cui fa un subliminare accenno il convenuto nelle proprie deduzione (ove si fa riferimento al “rapporto di fiducia” con il proprio vertice gestionale che lo avrebbe indotto a non mettere in dubbio la correttezza della richiesta del dir.gen.): dei problemi di fattuale “sintonia-sudditanza” dei dirigenti pubblici nei confronti dei propri dirigenti generali e di questi ultimi nei confronti degli organi politici, recentemente acuiti dalla discutibile l. 15.07.2002 n.145, non può farsi carico l'autorità giudiziaria (ma il Parlamento o iniziative referendarie), trattandosi di un fatale indotto di scelte legislative ispirate ad una asserita libertà gestionale della dirigenza e ad un coesistente (e solo apparentemente coerente) legame “fiduciario” di quest'ultima con l'organo politico momentaneamente al vertice dell'ente pubblico (Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Lombardia, sentenza 30.09.2005 n. 579).

PUBBLICO IMPIEGOE' stato evidenziato in giurisprudenza che l’esercizio del "diritto di rimostranza" –in base al quale in ipotesi di ordine palesemente illegittimo il dipendente subordinato può chiedere che tale ordine venga rinnovato per iscritto, con la conseguenza che di esso ne risponde a tutti gli effetti il superiore gerarchico– non può essere esercitato nei confronti di ogni ordine che si suppone illegittimo, ma solo in relazione ad un ordine che comporti “responsabilità”, per cui tale diritto non è esercitatile nel caso che il provvedimento sia solo lesivo dell’interesse dell’impiegato, avendo la norma la sola funzione di trasferire la responsabilità dell’atto sul superiore gerarchico che lo ha impartito, tenuto anche conto che l’ordine, anche se oggetto di rimostranza, deve comunque essere eseguito fino a che non sia stato annullato o ne è stata sospesa l’esecuzione.
Ancora, è stato osservato come il potere di rimostranza contro un ordine (in ipotesi illegittimo) neppure è esercitabile, ove la sua esecuzione non comporti responsabilità per l’impiegato ed abbia ad oggetto l’osservanza di un obbligo d’ufficio.

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Quanto al c.d. "diritto di rimostranza", va osservato che la norma (art. 18 T.U. n. 3/1957) invocata dai ricorrenti, non appare pertinente al caso di specie, in quanto essa si limita a disciplinare la responsabilità dell’impiegato per danni arrecati all’A.ne derivanti da violazioni di obblighi di servizio, stabilendo che, se l’impiegato ha agito per un ordine che era obbligato ad eseguire va esente da responsabilità, salva la responsabilità del superiore che ha impartito l’ordine, essendo pacifico che i ricorrenti hanno ritenuto di non dare esecuzione al servizio per il quale erano stati comandati e che, pertanto, nessun nuovo ordine doveva essere ad essi impartito dai superiori.
Invece, il "diritto di rimostranza" è previsto dall’art. 17 dello stesso T.U. n. 3/1957 (secondo cui “L’impiegato al quale, dal proprio superiore, venga impartito un ordine che egli ritenga palesemente illegittimo, deve farne rimostranza allo stesso superiore dichiarandone le ragioni. Se l’ordine è rinnovato per iscritto, l’impiegato è tenuto a darvi esecuzione. L’impiegato non deve comunque eseguire l’ordine del superiore quando l’atto sia vietato dalla legge penale”).
Nella specie, escluso che l’ordine fosse vietato dalla legge penale, va osservato che esso neppure appariva manifestamente illegittimo sotto il profilo amministrativo, atteso che i ricorrenti contestano non tanto l’ordine in sé, quanto l’inadeguatezza dei mezzi per farvi fronte.
Comunque, è stato evidenziato in giurisprudenza che l’esercizio del "diritto di rimostranza" –in base al quale in ipotesi di ordine palesemente illegittimo il dipendente subordinato può chiedere che tale ordine venga rinnovato per iscritto, con la conseguenza che di esso ne risponde a tutti gli effetti il superiore gerarchico– non può essere esercitato nei confronti di ogni ordine che si suppone illegittimo, ma solo in relazione ad un ordine che comporti “responsabilità”, per cui tale diritto non è esercitatile nel caso che il provvedimento sia solo lesivo dell’interesse dell’impiegato, avendo la norma la sola funzione di trasferire la responsabilità dell’atto sul superiore gerarchico che lo ha impartito (cfr. TAR Abruzzo Pescara, 24.05.2002, n. 518), tenuto anche conto che l’ordine, anche se oggetto di rimostranza, deve comunque essere eseguito fino a che non sia stato annullato o ne è stata sospesa l’esecuzione (Cfr. C.d.S., V, 16.10.2002, n. 5602); ancora, è stato osservato come il potere di rimostranza contro un ordine (in ipotesi illegittimo) neppure è esercitabile, ove la sua esecuzione non comporti responsabilità per l’impiegato ed abbia ad oggetto l’osservanza di un obbligo d’ufficio (cfr. C.d.S., sez. II, 22.02.1989, n. 146) (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 09.01.2004 n. 62 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

APPALTIAnche dopo l’entrata in vigore dell’art. 31, comma 8, del decreto legge 21.06.2013 n. 69, (Disposizioni urgenti per il rilancio dell'economia), convertito con modificazioni dalla legge 09.08.2013, n. 98, non sono consentite regolarizzazioni postume della posizione previdenziale, dovendo l’impresa deve essere in regola con l'assolvimento degli obblighi previdenziali ed assistenziali fin dalla presentazione dell'offerta e conservare tale stato per tutta la durata della procedura di aggiudicazione e del rapporto con la stazione appaltante, restando dunque irrilevante, un eventuale adempimento tardivo dell'obbligazione contributiva.
L’istituto dell’invito alla regolarizzazione (il c.d. preavviso di DURC negativo), già previsto dall’art. 7, comma 3, del decreto ministeriale 24.10.2007 e ora recepito a livello legislativo dall’art. 31, comma 8, del decreto legge 21.06.2013 n. 69, può operare solo nei rapporti tra impresa ed Ente previdenziale, ossia con riferimento al DURC chiesto dall’impresa e non anche al DURC richiesto dalla stazione appaltante per la verifica della veridicità dell’autodichiarazione resa ai sensi dell’art. 38, comma 1, lettera i), ai fini della partecipazione alla gara d’appalto.

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X) Il principio di diritto sulla questione interpretativa rimessa all’Adunanza Plenaria
23. Alla luce delle considerazioni che precedono, la questione interpretativa sottoposta dall’Adunanza Plenaria deve, pertanto, essere risolta enunciando il seguente principio di diritto: «Anche dopo l’entrata in vigore dell’art. 31, comma 8, del decreto legge 21.06.2013 n. 69, (Disposizioni urgenti per il rilancio dell'economia), convertito con modificazioni dalla legge 09.08.2013, n. 98, non sono consentite regolarizzazioni postume della posizione previdenziale, dovendo l’impresa deve essere in regola con l'assolvimento degli obblighi previdenziali ed assistenziali fin dalla presentazione dell'offerta e conservare tale stato per tutta la durata della procedura di aggiudicazione e del rapporto con la stazione appaltante, restando dunque irrilevante, un eventuale adempimento tardivo dell'obbligazione contributiva.
L’istituto dell’invito alla regolarizzazione (il c.d. preavviso di DURC negativo), già previsto dall’art. 7, comma 3, del decreto ministeriale 24.10.2007 e ora recepito a livello legislativo dall’art. 31, comma 8, del decreto legge 21.06.2013 n. 69, può operare solo nei rapporti tra impresa ed Ente previdenziale, ossia con riferimento al DURC chiesto dall’impresa e non anche al DURC richiesto dalla stazione appaltante per la verifica della veridicità dell’autodichiarazione resa ai sensi dell’art. 38, comma 1, lettera i), ai fini della partecipazione alla gara d’appalto
»
(Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 29.02.2016 n. 5 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI - LAVORI PUBBLICILe diverse questioni che, sotto il profilo teorico, si agitano in dottrina e giurisprudenza, nonché l’importanza che l’istituto dell’avvalimento ha assunto nelle procedure di evidenza pubblica, a giudizio del collegio, impongono la rimessione all’adunanza plenaria trattandosi di questioni di diritto che hanno dato luogo e possono dar luogo a contrasti giurisprudenziali.
Accanto alle tematiche sopra delineate, risulta tra l’altro importante stabilire:
1) se l’articolo 88 d.P.R. 207/2010 –nel richiedere che il contratto deve riportare in modo compiuto, esplicito ed esauriente, l’oggetto indicando le risorse e i mezzi prestati in modo determinato e specifico– riguarda unicamente la determinazione dell’oggetto del contratto (così legittimando anche interpretazioni di tipo estensivo) oppure, oltre all’oggetto, anche il c.d. requisito della forma-contenuto;
2) se nell’ipotesi di categorie che richiedono particolari requisiti –come nel caso di specie risulta per la categoria OS18A– tali particolari requisiti debbano essere indicati in modo esplicito nel contratto di avvalimento oppure possano essere desunti dall’interpretazione complessiva del contratto;
3) se l’istituto del soccorso istruttorio, come disciplinato dopo le novità introdotte dal d.l. 90/2014, possa essere utilizzato anche con riferimento ad incompletezze del contratto di avvalimento che, sotto un profilo civilistico, portano ad affermare la nullità del negozio per mancanza di determinatezza del suo oggetto.

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3. Dalla descrizione dei fatti processuali emerge che per la decisione dell’appello è necessario delineare i tratti, non semplici, dell’istituto dell’avvalimento, istituto questo non univocamente ricostruito in dottrina e giurisprudenza.
3.1. Come già affermato da questo Consiglio (sentenza 21.01.2015 n. 35), con l’entrata in vigore del codice dei contratti pubblici il legislatore ha introdotto l’istituto dell’avvalimento recependo compiutamente nel nostro ordinamento le indicazioni provenienti dalle direttive 17 e 18 del 2004.
La direttiva 31.03.2004 n. 2004/18/CE, nel disciplinare i requisiti di capacità economico-finanziaria nonché di capacità tecnico-professionale, prevede che un operatore economico può, se del caso e per un determinato appalto, fare affidamento sulle capacità di altri soggetti, a prescindere dalla natura giuridica dei suoi legami con questi ultimi; per la direttiva, l’operatore in tal caso deve dimostrare all’amministrazione aggiudicatrice che disporrà dei mezzi necessari, ad esempio mediante presentazione dell'impegno a tal fine di questi soggetti (art. 47 e, in termini simili, art. 48 dir. cit.).
Nelle intenzioni del legislatore comunitario l’istituto in questione contribuisce concretamente ad ampliare la concorrenza consentendo la partecipazione a operatori che, per le modeste dimensioni o per il loro recente ingresso nel mercato, non possiedono individualmente considerati tutti i requisiti richiesti dal bando. Le direttive valutano positivamente sia l’interesse dell’amministrazione a selezionare soggetti che in ragione dei requisiti posseduti (economico finanziari e tecnico professionali) possono adempiere correttamente gli impegni contrattuali sia l’interesse generale a garantire l’ampliamento del mercato e della concorrenza.
In altri termini, lo scopo dell'istituto è quello di permettere «… la massima partecipazione alle gare, consentendo ai concorrenti di utilizzare i requisiti di capacità tecnico-professionale e economico-finanziaria di soggetti terzi, indipendentemente dalla natura giuridica dei legami con tali soggetti…».
Giova inoltre ricordare che l’articolo 50 Codice Appalti prevede anche l’avvalimento nel caso di operatività di sistemi di attestazione o di sistemi di qualificazione lasciando al regolamento, nel rispetto di determinati principi previsti dalla legge, la disciplina della possibilità di conseguire l’attestazione SOA in osservanza delle disposizioni stabilite dall’art. 49.
L’importanza di questo istituto è confermata dalla scelta del legislatore comunitario del 2014. L’articolo 63 dir. 2014/24 /UE (in corso di recepimento) reca una disciplina analitica dello “Affidamento sulle capacità di altri soggetti” rinviando poi all’allegato XII per l’individuazione di ulteriori aspetti.
3.2. Per il codice dei contratti pubblici il concorrente, singolo o consorziato o raggruppato ai sensi dell’art. 34, in relazione ad una specifica gara di lavori, servizi, forniture può soddisfare la richiesta relativa al possesso dei requisiti di carattere economico, finanziario, tecnico, organizzativo, ovvero di attestazione della certificazione SOA avvalendosi dei requisiti o dell’attestazione SOA di altro soggetto.
Nonostante vi fossero già state pronunce della giurisprudenza nel senso dell’applicabilità nell’ordinamento interno (Cons. St., V, 28.09.2005 n. 5194; Cons. St., VI, 20.12.2004 n. 8145), al momento dell’entrata in vigore del codice si trattava di previsione innovativa che riscriveva le regole delle procedure di evidenza pubblica superando le ‘tradizionali’ norme di qualificazione conosciute fino ad allora.
Parte della dottrina, in sede di primo commento alle direttive, ha manifestato la possibilità che si potessero creare gli “avvalifici” per consentire ad imprese inidonee (per dimensioni o per organizzazione imprenditoriale) la partecipazione alle gare e così frustrare l’interesse pubblico alla corretta e puntuale esecuzione del contratto. Altri Autori, mossi dalla medesima preoccupazione, hanno messo in evidenza «il rischio che i concorrenti si trasformino in scatole vuote» o in «holding dai contorni oscuri».
Per tale ragione, il codice dei contratti, pur consapevole dell’importanza dell’istituto e della sua diretta riconducibilità alla tutela della concorrenza, onde evitare pericolosi svuotamenti di responsabilità, stabilisce che quando si ricorre all’avvalimento il concorrente e l’impresa ausiliaria sono responsabili in solido nei confronti della stazione appaltante in relazione alle prestazioni oggetto del contratto; possibilità questa oggi confermata dall’art. 63 dir. 2014/24/UE.
Per escludere inoltre l’aggiramento della legge penale si stabilisce che gli obblighi previsti dalla normativa antimafia a carico del concorrente si applicano anche nei confronti del soggetto ausiliario, in ragione dell’importo dell’appalto posto a base di gara; a tale previsione va aggiunto che il concorrente, o impresa ausiliata, deve produrre tra l’altro una dichiarazione sottoscritta da parte dell’impresa ausiliaria attestante il possesso da parte di quest’ultima dei requisiti generali di cui all’art. 38 codice contratti.
In altri termini, il legislatore del 2006 ha dimostrato cautela per evitare che l’istituto diventasse strumento di ‘elusione’ delle regole di gara. Tuttavia, va ricordato che alcune precauzioni usate dai compilatori del codice sono state eliminate per evitare dubbi di compatibilità comunitaria.
Il c.d. primo decreto correttivo, infatti, ha cancellato il divieto di sub-appalto in favore dell’impresa ausiliaria (art. 2, comma 1, lett. d), D.Lgs. 26.01.2007, n. 6) e il terzo correttivo ha soppresso il comma 7 dell’articolo 49 nella parte in cui stabiliva la possibilità per il bando di gara di prevedere che, in relazione alla natura o all’importo dell’appalto, le imprese partecipanti potessero avvalersi solo dei requisiti economici o dei requisiti tecnici, ovvero che l’avvalimento potesse integrare un preesistente requisito tecnico o economico già posseduto dall’impresa avvalente in misura o percentuale indicata nel bando stesso.
Di recente la Corte di Giustizia, nel pronunciarsi sulla compatibilità comunitaria del c.d. avvalimento plurimo ha stabilito che “gli articoli 47, paragrafo 2, e 48, paragrafo 3, della direttiva 2004/18/CE … devono essere interpretati nel senso che ostano ad una disposizione nazionale … la quale vieta, in via generale, agli operatori economici che partecipano ad una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico di lavori di avvalersi, per una stessa categoria di qualificazione, delle capacità di più imprese” (Corte di Giustizia UE, V, 10.10.2013 C-94/12).
3.3. La cautela mostrata dal legislatore emerge anche dalla puntuale indicazione della documentazione da produrre per potere utilmente ricorrere all’avvalimento. Vale la pena ricordare che la legge impone di produrre in sede di gara tra l’altro sia una dichiarazione sottoscritta dall’impresa ausiliaria con la quale quest’ultima si obbliga verso il concorrente e verso la stazione appaltante a mettere a disposizione per tutta la durata dell’appalto le risorse necessarie di cui è carente il concorrente sia il contratto in virtù del quale l’impresa ausiliaria si obbliga nei confronti del concorrente a fornire i requisiti e a mettere a disposizione le risorse necessarie per tutta la durata dell’appalto [art. 49, lett. d) e f)].
Si tratta di previsioni che, per parte della dottrina, sono affette da “ridondanza” che dimostra “una certa diffidenza del legislatore” e che sono state oggetto di non sempre univoche interpretazioni in sede giudiziale. La più recente giurisprudenza del Consiglio ritiene, per un verso, il contratto non sostitutivo della dichiarazione unilaterale (Cons. St., V, 28.07.2014 n. 3974) e richiede, per altro verso, che la predetta dichiarazione unilaterale abbia un oggetto determinato al pari del relativo contratto (Cons. St., VI, 08.05.2014 n. 2365).
In questo contesto va evidenziato che la legge delega, approvata il 14.01.2016 dal Senato della Repubblica, all’articolo 1, comma 1, lett. zz), dispone la revisione della disciplina in materia di avvalimento, nel rispetto dei princìpi dell'Unione europea e di quelli desumibili dalla giurisprudenza amministrativa in materia, imponendo che il contratto di avvalimento indichi nel dettaglio le risorse e i mezzi prestati, con particolare riguardo ai casi in cui l'oggetto di avvalimento sia costituito da certificazioni di qualità o certificati attestanti il possesso di adeguata organizzazione imprenditoriale ai fini della partecipazione alla gara.
È previsto altresì il rafforzamento degli strumenti di verifica circa l'effettivo possesso dei requisiti e delle risorse oggetto di avvalimento da parte dell'impresa ausiliaria nonché circa l'effettivo impiego delle risorse medesime nell'esecuzione dell'appalto, al fine di escludere la possibilità di ricorso all'avvalimento a cascata e prevedendo che non possa essere oggetto di avvalimento il possesso della qualificazione e dell'esperienza tecnica e professionale necessarie per eseguire le prestazioni da affidare.
4. Prescindendo dalla non facile soluzione in ordine alla tipicità o atipicità del contratto di avvalimento, è interessante osservare che la legge, oltre a non aver stabilito se è richiesta una certa forma, nulla prevede circa l’ulteriore requisito della gratuità o dell’onerosità del contratto in esame.
4.1. Per un orientamento, avallato dalla giurisprudenza di primo grado, sarebbero corrette queste considerazioni:
a) gli obblighi interni tra avvalente e avvalso sarebbero del tutto irrilevanti ai fini della partecipazione e dell'aggiudicazione della gara sussistendo “l'irrilevanza per la stazione appaltante dei rapporti sottostanti esistenti fra il concorrente e il soggetto imprenditoriale avvalso … omissis … nella precipua considerazione che la finalità dell'istituto dell'avvalimento è chiaramente quella di consentire la massima partecipazione alle gare ad evidenza pubblica, permettendo alle imprese non in possesso dei requisiti tecnici, di sommare, unicamente per la gara in espletamento, le proprie capacità tecniche ed economico-finanziarie a quelle di altre imprese” (TAR Veneto, I, 20.10.2010 n. 5528);
b) il contratto di avvalimento sarebbe negozio atipico assimilabile al mandato (TAR Campania, Salerno, I, 28.03.2012 n. 607) e quindi potrebbe essere concluso –non esistendo “alcun vincolo in ordine alla causa negoziale” (TAR Toscana, I, 21.03.2013 n. 443)– senza la pattuizione di un corrispettivo potendo al più soccorrere la previsione di cui all’art. 1709 c.c. (ancora TAR Veneto, I, 20.10.2010 n. 5528);
c) il contratto, in mancanza di esplicita previsione di legge, non sarebbe assoggettato ad alcun onere formale e potrebbe “rivestire qualunque forma, anche non esattamente documentale e la sua esistenza può essere provata in qualunque modo idoneo” (TAR Lazio, Roma, I, 03.12.2009 n. 12455);
d) conseguentemente potrebbe essere “configurato quale contratto unilaterale con obbligazioni assunte da una sola delle parti e nel quale la presunzione di onerosità può essere superata da una prova contraria, ovvero dalla prassi” (ancora TAR Lazio, Roma, I, 03.12.2009 n. 12455).
5.1. Per questo collegio (anche aderendo all’opinione già espressa con la già citata sentenza 21.01.2015 n. 35) non può essere condivisa la tesi per cui gli obblighi interni, rectius il rapporto interno tra avvalente e avvalso, sarebbero irrilevanti per la stazione appaltante. Le considerazioni prima esposte (§ 3.2), al contrario, dimostrano che il legislatore, pur riconoscendo l’importanza dell’istituto, lo ha circondato delle cautele necessarie proprio per verificare l’effettività e la serietà del rapporto intercorrente tra ausiliaria e ausiliata scongiurando il rischio di “avvalifici” (attraverso mere finzioni preordinate ad eludere le regole delle gare pubbliche) e, in ultima analisi, tutelando l’interesse pubblico alla corretta esecuzione del contratto da parte dell’aggiudicatario che ha fatto ricorso all’avvalimento.
La normativa comunitaria, dunque, nella parte in cui permette l’avvalimento, “a prescindere dalla natura giuridica” dei legami tra ausiliario e ausiliato, vieta discriminazioni basate sulla differente natura giuridica dei diversi “legami” ma non depone per l’irrilevanza dei rapporti tra avvalente e avvalso onerando, tra l’altro, l’impresa ausiliata di “provare all'amministrazione aggiudicatrice che per l'esecuzione dell'appalto disporrà delle risorse necessarie ad esempio presentando l'impegno di tale soggetto di mettere a disposizione dell'operatore economico le risorse necessarie”.
In via ancora più generale è l’art. 44 dir. cit. a prevedere che «spetta all’amministrazione aggiudicatrice verificare l’idoneità dei candidati o degli offerenti conformemente ai criteri di cui agli articoli da 47 a 52 della menzionata direttiva» (Corte di Giustizia UE, V, 10.10.2013 C-94/12).
5.2. In secondo luogo, partendo dal presupposto che si tratta di contratto atipico, a giudizio del collegio, va negata la piena assimilabilità al contratto di mandato poiché “mettere a disposizione le risorse necessarie per tutta la durata dell'appalto” è concetto non pienamente sovrapponibile all’obbligo del mandatario, ex art. 1703 c.c., di compiere uno o più atti giuridici per conto dell’altra parte, pur essendo consapevole il collegio che il concetto di “atto giuridico” non è oggetto di univoca interpretazione nel diritto civile.
Né pare pienamente accoglibile la tesi che assimila il contratto in questione a quello di affitto d’azienda o al contratto di sub-appalto. In relazione all’affitto di azienda giova qui evidenziare che l’impresa ausiliata non acquista la detenzione della azienda o di un suo ramo non scaturendo dalla conclusione del contratto di avvalimento un obbligo immediato del locatore (ex art. 1617 c.c.) di consegnare la cosa affittata.
Più in generale, inoltre, non emerge il tratto tipico dell’affitto di azienda che, come è noto, ha per oggetto “il complesso produttivo unitariamente considerato, secondo la definizione normativa di cui all'art. 2555 c.c.” (Cass., III, 08.07.2010 n. 16138) e non un singolo strumento della produzione o addirittura dei requisiti di carattere economico-finanziario. Con riferimento al sub-appalto, sempre a giudizio del collegio, non ricorre tale figura sia perché si porrebbero «delicati problemi di coordinamento con la disciplina» in generale del sub-appalto sia perché l’istituto è lontano dallo schema tipico del sub-contratto che essenzialmente consiste nel reimpiego della posizione contrattuale già acquisita con il c.d. “contratto base” (come, ad esempio, nella sub-locazione).
Per il collegio nell’avvalimento ricorrono tratti del mandato –nella parte in cui prevede il compimento di alcuni atti giuridici da parte dell’ausiliaria (senza tuttavia poterlo a questo assimilare integralmente, come già detto)– nonché dell’appalto di servizi e interessanti aspetti di garanzia atipica da parte dell’ausiliario in favore della stazione appaltante per le prestazioni dovute dall’ausiliato.
Sotto tale ultimo profilo si ricordi che, accanto alle figure tipiche dei contratti personali di garanzia, nella pratica sono emersi schemi atipici volti a garantire, con strumenti di carattere indennitario in senso lato, la mancata o l’inesatta esecuzione da parte del debitore principale di un fare (come già affermato da Cass., S.U., 18.02.2010 n. 3947).
5.3. Giova ora esaminare il profilo causale del negozio in questione.
Una volta inquadrato il contratto di avvalimento nel rapporto tra due operatori economici che potrebbero anche essere concorrenti tra loro, a giudizio del collegio e fermo restando il silenzio della legge sul punto, il contratto de quo ha tendenzialmente natura onerosa perché, in caso contrario, non si giustificherebbe l’operazione per il tramite della quale l’ausiliaria, soggetto economico potenzialmente in grado di partecipare alla gara, debba gratuitamente mettere a disposizione dell’ausiliata i requisiti in questione, così procurando a quest’ultima la possibilità di partecipare alla gara e, se aggiudicataria, di ‘rafforzarsi’ in quel mercato. Inoltre, trattandosi di contratti stipulati da operatori economici che tendenzialmente (e legittimamente) perseguono lo scopo di lucro sarebbe scarsamente comprensibile la ragione di tale ‘regalo’ o, sarebbe meglio dire, di questo atto di liberalità per definizione estraneo ai rapporti di impresa.
Accolta la nozione di causa in concreto (Cass. s.u. 06.03.2015 n. 4628; Cass., s.u., 18.02.2010 n. 3947, Cass. 08.05.2006 n. 10490) –e una volta distinta la nozione di atto di liberalità rispetto a quella di contratto a titolo gratuito, contratto quest’ultimo caratterizzato da un interesse patrimoniale anche mediato o “dalla natura economica dell’interesse” anche in assenza di una specifica controprestazione– per il collegio va respinta la tesi della possibile gratuità del negozio.
O il contratto di avvalimento è a titolo oneroso oppure, in mancanza di corrispettivo in favore dell’ausiliario, deve emergere dal testo contrattuale chiaramente l’interesse, direttamente o indirettamente patrimoniale, che ha guidato l’ausiliario nell’assumere senza corrispettivo gli obblighi derivanti dal contratto di avvalimento e le relative responsabilità.
Tutto questo per realizzare quel controllo sulla meritevolezza che il codice espressamente prevede all’articolo 1322, comma 2, c.c., tenendolo ben distinto dal giudizio di liceità, e allo scopo di evitare che, come detto dalla dottrina, “gli interessi perseguiti dalle parti contrast(i)no con gli interessi generali della comunità e dei terzi maggiormente meritevoli di tutela”.
Ciò peraltro si pone in continuità con un indirizzo giurisprudenziale fatto proprio sia dal Consiglio di Stato (Cons. St., IV, 04.12.2001 n. 6073) sia dalla Corte di Cassazione (Cass., III, 28.01.2002 n. 982, che, per i contratti atipici, stabilisce che “non può certamente ritenersi che sia meritevole di tutela solo ciò che è oneroso”, purché rimanga ferma la necessità di una verifica della meritevolezza degli interessi perseguiti anche nell’ambito dei contratti gratuiti atipici).
5.4. Occorre ora occuparsi della questione della forma del contratto di avvalimento. Nel caso di specie, la legge stabilisce che il partecipante deve produrre il contratto in originale o in copia autentica così presupponendo che il contratto sia stato stipulato in forma scritta. Tuttavia il codice non fornisce indicazioni chiare in ordine al requisito formale richiesto e cioè se si tratta di forma ad substantiam o ad probationem.
Come è noto la dottrina, da tempo, si occupa del problema.
Per un primo indirizzo, quando il legislatore non chiarisce se si tratta di forma ad substantiam o ad probationem, il requisito formale deve essere richiesto per la prova del contratto e non come requisito di validità. Tale orientamento, che ha trovato riconoscimento nella giurisprudenza italiana (Cass., 03.10.1991 n. 10391) e in quella francese, muove dal presupposto che la “forma è un intoppo al traffico” e che conseguentemente nel dubbio è meglio interpretare la legge nel senso che tale requisito sia richiesto unicamente per la prova.
Per altro orientamento, invece, nel dubbio deve prevalere la qualificazione come requisito di validità anche in considerazione di quanto stabilito per le forme volontarie dall’art. 1352 c.c..
Per un terzo orientamento, infine, il dato letterale di per sé è neutro e spetta all’interprete stabilire di volta in volta, e non con soluzione unica per tutte le fattispecie, quando il requisito formale sia richiesto a pena di validità (art. 1325 e 1418 c.c.) o solo per la prova (art. 2787 c.c.). Seguendo questa opinione se il requisito di forma è prescritto a tutela di una «parte debole del rapporto» sarebbe più corretto qualificarlo come forma ad substantiam mentre se «ha di mira rapporti con terzi» potrebbe ritenersi che serva solo per la documentazione del contratto.
Nel caso di specie, per la forma ad probationem militerebbero sia l’argomento incentrato sull’assenza di una parte debole da tutelare (trattandosi di rapporti che intervengono tra operatori qualificati e pubbliche amministrazioni) sia la collocazione sistematica della previsione di legge che impone la produzione del contratto unitamente agli altri documenti che l’operatore economico deve fornire per partecipare alla gara.
Per il collegio, tuttavia, la forma (che naturalmente può essere assolta sia con la ‘tradizionale’ scrittura privata sia attraverso l’uso del documento informatico e, a seconda dei casi, della relativa firma elettronica avanzata, qualificata o digitale ex art. 21, comma 2 e 2-bis, d.lgs. 07.03.2005 n. 82) è richiesta ad substantiam, deponendo in tal senso diversi argomenti.
In primo luogo occorre considerare che la differenza tra forma per la validità e forma per la prova essenzialmente riguarda l’impossibilità, o la possibilità, di concludere validamente il contratto senza il rispetto della forma scritta. Nel caso di specie il legislatore non ha richiesto genericamente la produzione di un documento dal quale risulta l’accordo tra impresa ausiliaria e ausiliata (così spingendo l’interprete verso la qualificazione in termini di forma ad probationem) ma, al contrario, ha imposto la produzione, al momento della partecipazione, del contratto in originale o copia autentica; in tal modo, seppur implicitamente, il codice ha dato per presupposto che l’accordo debba avere la forma scritta.
Ragionando diversamente, e optando per la forma ad probationem, dovrebbe poi coerentemente concludersi che il contratto di avvalimento possa essere dimostrato anche con documenti scritti diversi dal contratto nel quale è stata consacrata la volontà delle parti ma ciò è in contrasto con il dato legislativo.
In secondo luogo, pur non rinvenendosi nei rapporti in questione la presenza di una parte debole (trattandosi di rapporti che intervengono tra operatori qualificati e pubbliche amministrazioni), vi sono altre ragioni che impongono di orientarsi per la forma quale requisito di validità. La serietà e l’effettività dell’impegno assunto dall’ausiliario meglio possono essere accertati se a monte c’è un impegno sorto rispettando il requisito formale. La funzione di responsabilizzazione del consenso e di certezza dell’atto –che per la dottrina giustificano la prescrizione della forma– ricorrono nel caso di specie a giustificare la scelta prima indicata.
Con il contratto si responsabilizza l’ausiliario imponendo l’individuazione espressa degli obblighi che assume e contemporaneamente si dà alla stazione appaltante certezza di quelli che sono gli impegni effettivamente presi tra le parti proprio per evitare quelle elusioni alle regole sulla partecipazione alle gare tanto temute dalla dottrina.
In terzo luogo la dottrina attualmente maggioritaria ritiene che nel dubbio la forma sia richiesta ad substantiam perché in tal senso si è orientato il legislatore nel (diverso) caso in cui le parti, ex art. 1352 c.c., hanno convenuto una certa forma senza specificare se per la validità o per la prova.
In quarto luogo, a giudizio del Collegio, solo in questo modo possono meglio essere garantite le esigenze proprie della c.d. forma-contenuto di cui si dirà più avanti (§ 5.5.3).
5.5. Particolarmente complessa è la tematica relativa all’oggetto del contratto di avvalimento, tematica quest’ultima che gioca un ruolo rilevante nella decisione della presente controversia.
5.5.1. Occorre comprendere quando è sufficientemente determinato l’oggetto del contratto di avvalimento. In via generale, ai sensi dell’articolo 1346 c.c., l'oggetto del contratto deve essere possibile, lecito, determinato o determinabile. Ai sensi dell’articolo 88 d.P.R. 207/2010 il contratto di cui all'articolo 49, comma 2, lettera f), del d.lgs. 163/2006 deve riportare in modo compiuto, esplicito ed esauriente, tra l’altro, l’oggetto del contratto indicando le risorse e i mezzi prestati in modo determinato e specifico.
Dal confronto tra l’articolo 1346 c.c. e l’articolo 88 d.P.R. 207/2010 emerge che il regolamento al codice dei contratti, a differenza del codice civile, ha richiesto che l’oggetto del contratto di avvalimento sia determinato, e non anche solo determinabile, e individuato potendosi al riguardo trarre convincimento dall’aggettivo “specifico” utilizzato dall’articolo 88 d.P.R. cit. Tale diversità di disciplina tra il codice civile e la normativa in materia di appalti si giustifica in ragione della necessità di evitare l’elusione dei requisiti prescritti dalla legge di gara ricorrendo a dichiarazioni e contratti di avvalimento generici non rispondenti a quelle esigenze di serietà ed effettività prima indicate.
5.5.2. In dottrina è molto discusso se la disciplina dell’avvalimento sia unica per tutte le tipologie di contratto di appalto oppure se debba essere differenziata a seconda del tipo di appalto. Per un verso, non v’è dubbio che l’art. 49 si riferisca in generale –fatte salve alcune previsioni specifiche come quella dettata al comma 6 oggetto peraltro di intervento da parte della Corte di Giustizia UE– a tutte le tipologie di appalto, laddove il successivo articolo 50 chiaramente è destinato esclusivamente agli appalti di lavori.
Più complessa è invece la questione con riferimento al già citato articolo 88 perché questo, per la sua collocazione (parte II, titolo III), sembrerebbe esclusivamente destinato agli appalti di lavori. Per il collegio, tuttavia, l’art. 88, comma 1, d.P.R. cit. (e non anche i commi 2 e segg. che sono certamente riferiti agli appalti di lavori) deve essere riferito anche agli appalti di servizi e forniture perché, in caso contrario, verrebbe tradita l’idea ispiratrice del codice di individuare, per quanto possibile, una disciplina unitaria per lavori, servizi e forniture (la c.d. “merlonizzazione” degli appalti di servizi e forniture).
Inoltre, sempre ragionando diversamente, paradossalmente si richiederebbe maggiore specificità nell’individuazione dell’oggetto del contratto di avvalimento relativo ai lavori e non nel caso di servizi e forniture ove la qualificazione, come è noto, avviene “in bando” (applicando gli artt. 41 e 42 Cod.) e deve essere dimostrata di volta in volta.
5.5.3. Tutto ciò premesso, occorre ricordare che nella giurisprudenza, nel tempo si sono delineati diversi orientamenti.
Per un primo orientamento, più rigoroso, è insufficiente la sola e tautologica riproduzione, nel testo dei relativi contratti, della formula legislativa della messa a disposizione delle "risorse necessarie di cui è carente il concorrente", o espressioni equivalenti, con la conseguenza che è legittima l'esclusione dalla gara pubblica dell'impresa che abbia fatto ricorso all'avvalimento producendo un contratto che non contiene alcuna analitica e specifica elencazione o indicazione delle risorse e dei mezzi in concreto prestati, atteso che l'esigenza di una puntuale analitica individuazione dell'oggetto del contratto di avvalimento, oltre ad avere un sicuro ancoraggio sul terreno civilistico nella generale previsione codicistica che configura quale causa di nullità di ogni contratto l'indeterminatezza (e l'indeterminabilità) del relativo oggetto, trova la propria essenziale giustificazione funzionale, inscindibilmente connessa alle procedure contrattuali pubbliche, nella necessità di non consentire facili e strumentali aggiramenti del sistema dei requisiti di partecipazione alle gare (Cons. St., V, 30.11.2015 n. 5396; Cons. St., V, 23.09.2015 n. 4456; Cons. St., VI, 08.05.2014 n. 2365).
A fronte di questo orientamento rigoroso nell’accertamento dell’oggetto del contratto, si è delineato un secondo indirizzo interpretativo per cui sarebbe possibile distinguere il c.d. avvalimento di garanzia da quello tecnico-operativo.
Il primo, ossia l’avvalimento di garanzia, sarebbe “figura nella quale l'ausiliaria mette in campo la propria solidità economica e finanziaria a servizio dell'aggiudicataria ausiliata, ampliando così lo spettro della responsabilità per la corretta esecuzione dell'appalto” (Cons. St., III, 22.01.2014 n. 594) e, per tale ragione, il relativo contratto non richiederebbe la specificazione delle risorse materiali, immateriali e gestionali concretamente messe a disposizione. Non occorrerebbe dunque che la dichiarazione negoziale costitutiva dell'impegno contrattuale si riferisca a specifici beni patrimoniali o ad indici materiali atti ad esprimere una determinata consistenza patrimoniale e, perciò, alla messa a disposizione di beni da descrivere ed individuare con precisione, essendo sufficiente che da essa dichiarazione emerga l'impegno contrattuale della società ausiliaria a prestare ed a mettere a disposizione della c.d. società ausiliata la sua complessiva solidità finanziaria ed il suo patrimonio esperienziale, garantendo con essi una determinata affidabilità ed un concreto supplemento di responsabilità (Cons. St., III, 04.11.2015 n. 5038).
Nell’avvalimento operativo, invece, il contratto dovrebbe indicare specificamente tutte le risorse, ex art. 42 Codice Contratti, dell’impresa ausiliaria che vengono messe a disposizione dell’ausiliata.
Per altro orientamento (C.G.A. 21.01.2015 n. 35; poi seguito da Cons. St., III, 07.07.2015 n. 3390 e Cons. St., VI, 30.09.2015 n. 4544) sia nel c.d. avvalimento di garanzia sia in quello operativo va richiesta la specificità dell’oggetto del contratto.
La distinzione tra avvalimento di garanzia e avvalimento operativo potrebbe utilmente descrivere delle circostanze in fatto ma non avrebbe appiglio giuridico. Se sotto un profilo squisitamente descrittivo è possibile rintracciare una diversità tra l’avvalersi dei requisiti di cui all’art. 41 codice e l’avvalersi dei requisiti tecnico-professionali di cui all’art. 42 codice contratti, almeno allo stato, tutto ciò non dovrebbe tradursi in un differente regime giuridico mancando disposizioni che differenziano il grado di specificità dell’oggetto a seconda dell’una o dell’altra categoria.
In secondo luogo, ‘allentando’ il requisito della specificità e determinatezza dell’oggetto nel caso di avvalimento dei requisiti economico-finanziari, oltre che compiere un’interpretazione non prevista dalla legge, si rischierebbe di compromettere quei requisiti di serietà ed effettività che sono stati certamente considerati dal legislatore nel momento in cui ha recepito le direttive comunitarie.
In definitiva, come di recente già affermato, il c.d. avvalimento di garanzia “non deve rimanere astratto, cioè svincolato da qualsivoglia collegamento con risorse materiali o immateriali, che snaturerebbe l'istituto, in elusione dei requisiti stabiliti nel bando di gara, esibiti solo in modo formale, finendo col frustare anche la funzione di garanzia” (Cons. St., III, 22.01.2014 n. 294; in termini analoghi Cons. St., III, 17.06.2014 n. 3057).
Ciò si traduce nella necessità che nel contratto siano adeguatamente indicati, a seconda dei casi, il fatturato globale e l'importo relativo ai servizi o forniture nel settore oggetto della gara nonché, come specificato dalla dottrina (che non può essere citata ex art. 118, comma 3, disp. att. c.p.c.), gli specifici “fattori della produzione e tutte le risorse che hanno permesso all’ausiliaria di eseguire le prestazioni analoghe nel periodo richiesto dal bando”.
A giudizio del collegio, tale ultima conclusione risulta coerente con la funzione che assolve la forma del contratto di avvalimento richiesta dall’articolo 49 Codice dei Contratti. Come è noto di recente nella dottrina civilistica è stata elaborata la nozione di forma-contenuto. Accedendo ad una nozione lata di forma del contratto, ed una volta richiamata la distinzione tra contenuto formale e contenuto sostanziale, per la dottrina esistono casi di nuovo formalismo che impongono nel documento contrattuale, “richiesto per lo più a fini di validità”, “una serie di elementi predeterminati dal legislatore”.
In altri termini la forma non è solo il mezzo di manifestazione della volontà contrattuale ma anche “l’incorporazione di un contenuto minimo …. di informazioni che attraverso il contratto devono essere fornite”, evitando sovrapposizioni con la tematica della determinatezza o della determinabilità dell’oggetto.
Venendo al caso oggetto della presente decisione, la mancata indicazione nel contratto di avvalimento dello stabilimento ove effettuare la produzione comporta l’indeterminatezza dell’oggetto del contratto –per violazione dell’obbligo di indicare in modo compiuto, esplicito ed esauriente le risorse e i mezzi prestati in modo determinato e specifico (art. 88 d.P.R. 207/2010)– , nonché la violazione del requisito di forma-contenuto. Mancando tale indicazione compiuta, esplicita ed esauriente il contratto è nullo con conseguente assenza del requisito di partecipazione in capo all’operatore economico che ha presentato la domanda.
6. Indicate le questioni in tema di avvalimento, va affrontata la complessa problematica relativa all’utilizzabilità del potere/dovere di soccorso istruttorio nel caso di contratto di avvalimento incompleto o, addirittura, nullo per indeterminatezza dell’oggetto.
Come è noto, il d.l. 90/2014 all’articolo 38 codice contratti ha aggiunto il comma 2-bis, stabilendo, nel caso di mancanza, incompletezza e ogni altra irregolarità essenziale degli elementi e delle dichiarazioni sostitutive, la possibilità di integrare o regolarizzare le dichiarazioni necessarie, previo invito della stazione appaltante e dietro pagamento di una sanzione pecuniaria stabilita nel bando di gara.
Sotto altro aspetto, sempre il d.l. 90/2014, ha aggiunto il comma 1-ter all’articolo 46 codice contratti estendendo l’applicazione delle disposizioni di cui all'articolo 38, comma 2-bis, a ogni ipotesi di mancanza, incompletezza o irregolarità degli elementi e delle dichiarazioni, anche di soggetti terzi, che devono essere prodotte dai concorrenti in base alla legge, al bando o al disciplinare di gara.
Con specifico riferimento al contratto di avvalimento, soprattutto nella giurisprudenza di primo grado, si sono delineati diversi orientamenti.
Per il primo di questi, l’articolo 46, comma 1-ter, codice contratti imporrebbe di utilizzare il soccorso istruttorio anche nei casi in cui la mancanza è relativa al contratto di avvalimento, essendo quest’ultimo destinato a fornire i c.d. requisiti speciali cui fa riferimento implicito il comma 1-ter più volte richiamato (TAR Campania, Napoli, I, 10.07.2015 n. 3670).
Per altro orientamento, invece, il soccorso istruttorio, anche dopo l’ampliamento operato dal d.l. 90/2014, non potrebbe essere utilizzato con riferimento al contratto di avvalimento perché quest’ultimo, lungi dall’essere un documento da allegare alla domanda per dimostrare il possesso di un requisito, è il presupposto per la partecipazione alla gara fornendo all’avvalente il requisito mancante (in questi termini proprio la sentenza appellata).
Sotto tale aspetto va, in ultimo, ricordato che anche l’ANAC, con la determinazione 08.01.2015 n. 1, nell’interpretare le novità introdotte ha affermato che il soccorso istruttorio ex d.l. 90/2014 “non può, in ogni caso, essere strumentalmente utilizzato per l’acquisizione, in gara, di un requisito o di una condizione di partecipazione, mancante alla scadenza del termine di presentazione dell’offerta”.
Per l’ANAC, la dichiarazione di avvalimento è “elemento costitutivo dei requisiti da possedersi, inderogabilmente, alla scadenza del termine perentorio di presentazione dell’offerta” e per tale ragione anche il contratto di avvalimento è “funzionale al possesso dei requisiti prescritti dal bando”. Il nuovo soccorso istruttorio, invece, potrebbe operare limitatamente all’ipotesi di mancata allegazione, per mera dimenticanza, del contratto che, in ogni caso, sia stato già siglato alla data di presentazione dell’offerta nonché nel caso di assenza degli altri adempimenti prescritti in ordine all’avvalimento.
Venendo al caso di specie, interpretate le norme e considerata necessaria l’indicazione espressa dello stabilimento nell’oggetto del contratto, il contratto sarebbe indeterminato nel suo oggetto e, come già detto, nullo sotto il profilo civilistico per le ragioni prima indicate. Risulta chiaro dunque che l’impresa dovrebbe essere considerata priva del requisito, ossia la qualificazione nella categoria OS18A, e conseguentemente si pone il problema se la mancanza del predetto requisito sia “soccorribile” o meno.
7. In sintesi
le diverse questioni che, sotto il profilo teorico, si agitano in dottrina e giurisprudenza, nonché l’importanza che l’istituto dell’avvalimento ha assunto nelle procedure di evidenza pubblica, a giudizio del collegio, impongono la rimessione all’adunanza plenaria trattandosi di questioni di diritto che hanno dato luogo e possono dar luogo a contrasti giurisprudenziali. Accanto alle tematiche sopra delineate, risulta tra l’altro importante stabilire:
1) se l’articolo 88 d.P.R. 207/2010 –nel richiedere che il contratto deve riportare in modo compiuto, esplicito ed esauriente, l’oggetto indicando le risorse e i mezzi prestati in modo determinato e specifico– riguarda unicamente la determinazione dell’oggetto del contratto (così legittimando anche interpretazioni di tipo estensivo) oppure, oltre all’oggetto, anche il c.d. requisito della forma-contenuto;
2) se nell’ipotesi di categorie che richiedono particolari requisiti –come nel caso di specie risulta per la categoria OS18A– tali particolari requisiti debbano essere indicati in modo esplicito nel contratto di avvalimento oppure possano essere desunti dall’interpretazione complessiva del contratto;
3) se l’istituto del soccorso istruttorio, come disciplinato dopo le novità introdotte dal d.l. 90/2014, possa essere utilizzato anche con riferimento ad incompletezze del contratto di avvalimento che, sotto un profilo civilistico, portano ad affermare la nullità del negozio per mancanza di determinatezza del suo oggetto.

P.Q.M.
Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, in sede giurisdizionale, rimette il ricorso all’esame dell’Adunanza Plenaria (C.G.A.R.S., ordinanza 19.02.2016 n. 52 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIIl Collegio formula il seguente quesito interpretativo alla Corte di Giustizia U.E.: “Se i principi comunitari di tutela del legittimo affidamento e di certezza del diritto, unitamente ai principi di libera circolazione delle merci, di libertà di stabilimento e di libera prestazione di servizi, di cui al Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), nonché i principi che ne derivano, come la parità di trattamento, la non discriminazione, il mutuo riconoscimento, la proporzionalità e la trasparenza, di cui (da ultimo) alla direttiva n. 2014/24/UE, ostino ad una normativa nazionale, quale quella italiana derivante dal combinato disposto degli artt. 87, comma 4, e 86, comma 3-bis, del d.lgs. n. 163 del 2006, e dall’art. 26, comma 6, del d.lgs. n. 81 del 2008, così come interpretato, in funzione nomofilattica, ai sensi dell’art. 99 cod. proc. amm., dalle sentenze dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato nn. 3 e 9 del 2015, secondo la quale la mancata separata indicazione dei costi di sicurezza aziendale, nelle offerte economiche di una procedura di affidamento di lavori pubblici, determina in ogni caso l’esclusione della ditta offerente, anche nell’ipotesi in cui l’obbligo di indicazione separata non sia stato specificato né nella legge di gara né nell’allegato modello di compilazione per la presentazione delle offerte, ed anche a prescindere dalla circostanza che, dal punto di vista sostanziale, l’offerta rispetti i costi minimi di sicurezza aziendale”.
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VI – Contrariamente a quanto dedotto dalla ricorrente Spinosa Costruzioni, il progetto esecutivo dell’A.t.i. costituenda tra le società I.c.i. e Alba Costruzioni, prima classificata nella gara, risulta munito delle allegazioni indispensabili, anche se non proprio di tutta la documentazione prevista dalla normativa di cui all’art. 93 del d.lgs. n. 163/2006 e all’art. 33 del D.P.R. n. 207/2010.
Sennonché, l’adeguatezza e la completezza del detto progetto esecutivo sono state accertate dalla commissione di gara, nel verbale n. 3 del 07.10.2015, nonché dal responsabile unico del procedimento (r.u.p.) nella validazione del progetto eseguita il 10.08.2015 (prot. n. 3989).
La normativa di riferimento, presa a parametro della valutazione del progetto esecutivo è, senz’altro, il d.lgs. 12.04.2006 n. 163 (recante il Codice dei contratti pubblici), il quale all’art. 93, quinto comma, prevede che <<il progetto esecutivo, redatto in conformità al progetto definitivo, determina in ogni dettaglio i lavori da realizzare e il relativo costo previsto e deve essere sviluppato ad un livello di definizione tale da consentire che ogni elemento sia identificabile in forma, tipologia, qualità, dimensione e prezzo. In particolare, il progetto è costituito dall'insieme delle relazioni, dei calcoli esecutivi delle strutture e degli impianti e degli elaborati grafici nelle scale adeguate, compresi gli eventuali particolari costruttivi, dal capitolato speciale di appalto, prestazionale o descrittivo, dal computo metrico estimativo e dall'elenco dei prezzi unitari. Esso è redatto sulla base degli studi e delle indagini compiuti nelle fasi precedenti e degli eventuali ulteriori studi e indagini, di dettaglio o di verifica delle ipotesi progettuali, che risultino necessari e sulla base di rilievi plano-altimetrici, di misurazioni e picchettazioni, di rilievi della rete dei servizi del sottosuolo. Il progetto esecutivo deve essere altresì corredato da apposito piano di manutenzione dell'opera e delle sue parti da redigersi nei termini, con le modalità, i contenuti, i tempi e la gradualità stabiliti dal regolamento di cui all'articolo 5>>.
Tale normativa è poi integrata dalla disciplina prevista nell’art. 37 del D.P.R. 05.10.2010 n. 207 (recante il Regolamento di esecuzione e attuazione del Codice dei contratti pubblici). L’art. 37 citato, più dettagliatamente, stabilisce quanto segue, ai commi quinto e seguenti. <<…5. I calcoli delle strutture e degli impianti, comunque eseguiti, sono accompagnati da una relazione illustrativa dei criteri e delle modalità di calcolo che ne consentano una agevole lettura e verificabilità.
6. Il progetto esecutivo delle strutture comprende:
   a) gli elaborati grafici di insieme (carpenterie, profili e sezioni) in scala non inferiore ad 1:50, e gli elaborati grafici di dettaglio in scala non inferiore ad 1:10, contenenti fra l'altro: 1) per le strutture in cemento armato o in cemento armato precompresso: i tracciati dei ferri di armatura con l'indicazione delle sezioni e delle misure parziali e complessive, nonché i tracciati delle armature per la precompressione; resta esclusa soltanto la compilazione delle distinte di ordinazione a carattere organizzativo di cantiere; 2) per le strutture metalliche o lignee: tutti i profili e i particolari relativi ai collegamenti, completi nella forma e spessore delle piastre, del numero e posizione di chiodi e bulloni, dello spessore, tipo, posizione e lunghezza delle saldature; resta esclusa soltanto la compilazione dei disegni di officina e delle relative distinte pezzi; 3) per le strutture murarie: tutti gli elementi tipologici e dimensionali atti a consentirne l'esecuzione;
   b) la relazione di calcolo contenente: 1) l'indicazione delle norme di riferimento; 2) la specifica della qualità e delle caratteristiche meccaniche dei materiali e delle modalità di esecuzione qualora necessarie; 3) l'analisi dei carichi per i quali le strutture sono state dimensionate; 4) le verifiche statiche.
7. Nelle strutture che si identificano con l'intero intervento, quali ponti, viadotti, pontili di attracco, opere di sostegno delle terre e simili, il progetto esecutivo deve essere completo dei particolari esecutivi di tutte le opere integrative.
8. Il progetto esecutivo degli impianti comprende:
   a) gli elaborati grafici di insieme, in scala ammessa o prescritta e comunque non inferiore ad 1:50, e gli elaborati grafici di dettaglio, in scala non inferiore ad 1:10, con le notazioni metriche necessarie;
   b) l'elencazione descrittiva particolareggiata delle parti di ogni impianto con le relative relazioni di calcolo;
   c) la specificazione delle caratteristiche funzionali e qualitative dei materiali, macchinari ed apparecchiature.
9. I valori minimi delle scale contenuti nel presente articolo possono essere variati su motivata indicazione del responsabile del procedimento
>>.
Da una semplice lettura della citata normativa -legislativa e regolamentare- emerge con sufficiente chiarezza che essa non contiene, né invero potrebbe contenere, un elenco compiuto ed esauriente degli atti o degli elaborati destinati a comporre e integrare il progetto esecutivo di un’opera pubblica, bensì reca in sé molteplici prescrizioni e indicazioni, sia generali che specifiche, su come il progetto esecutivo debba essere redatto, con un’ampia gamma di variazioni prescrittive flessibili, in relazione alla specificità dell’opera da progettare.
Tali parametri normativi e regolamentari lasciano alla stazione appaltante, in particolare al seggio tecnico di gara, un discreto margine di apprezzamento e di valutazione sull’adeguatezza e sulla completezza del progetto. Invero, l’art. 36 del citato D.P.R. n. 207/2010 stabilisce che il progetto esecutivo sia esplicazione del progetto definitivo -il quale peraltro, di per sé, già reca un sufficiente livello di dettaglio- e debba essere costituito <<dagli elaborati che risultino necessari all’esecuzione dell’opera>>.
Il successivo art. 37 del medesimo Regolamento aggiunge che i progetti debbano essere <<redatti in modo tale da consentire all’esecutore una sicura interpretazione ed esecuzione dei lavori in ogni loro elemento>>. E’ facile comprendere come la valutazione, svolta dalla competente commissione di gara, circa l’adeguatezza e la completezza degli elaborati progettuali, costituisca esercizio di discrezionalità tecnica, come tale insindacabile in sede giurisdizionale, se non per macroscopici vizi di illogicità e incongruità (cfr.: Cons. Stato, IV 16.02.2012 n. 820; idem IV, 14.10.2011 n. 5540; idem VI, 12.10.2011 n. 5519).
Per meglio approfondire, il Collegio osserva, nel dettaglio, che gli elaborati ritenuti dalla ricorrente Spinosa Costruzioni come mancanti nel progetto esecutivo dell’aggiudicataria sarebbero i seguenti: i profili longitudinali della rete idrica e delle reti fognanti bianca e nera, i calcoli illuminotecnici, il piano di manutenzione dell’opera e delle sue parti, il quadro di incidenza della manodopera, i calcoli esecutivi delle reti, le planimetrie e cartografie delle aree Sic-Zps-Iba e delle aree a rischio idrogeologico, la relazione archeologica, i calcoli dell’impianto di trattamento acque piovane, le indagini geotecniche per la stabilizzazione dei terreni, il progetto delle opere di mitigazione ambientale, il piano di gestione di materie e rocce di scavo.
L’offerta tecnica prodotta in gara dall’A.t.i. aggiudicataria non presenta macroscopiche carenze, come puntualmente asseverato nella perizia di parte, a firma dell’arch. Ca., dalla stessa A.t.i. controinteressata versata in atti.
La medesima offerta tecnica contiene, viceversa, la seguente documentazione: la relazione sugli impianti idraulici (doc. 03); la planimetria generale di progetto della rete idrica (Tec. 24.27); i particolari costruttivi delle reti idriche e fognanti (Tec. 25.28); gli elaborati delle sezioni trasversali delle reti (Tec. 15.18, 16.19, 17.20, 18.21, 19.22, 14.17, 13.16, 12.15, 11.14); la relazione sull’impianto di pubblica illuminazione, comprensiva dei calcoli di illuminotecnica (doc. 04); la relazione generale e gli elaborati grafici, recanti indicazioni atte alla manutenzione dell’opera, in sostituzione del piano di manutenzione generale; il calcolo esecutivo dell’impianto di pubblica illuminazione e i dimensionamenti tecnici di tutti gli altri impianti, in sostituzione del documento recante i calcoli esecutivi delle reti; il progetto esecutivo dell’impianto di trattamento acque di prima pioggia (Tec. 30.33); le planimetrie e cartografie individuanti le aree protette e le aree a rischio idrogeologico (anche se sono le medesime già presenti nel progetto definitivo); la carta geomorfologica e le relazioni geologiche, geotecniche e sismiche (che tuttavia sono le medesime già presenti nel progetto definitivo); lo studio di inserimento urbanistico (Tec. 05.08) e il foto-inserimento delle principali soluzioni ambientali (Amb. 01.36), sostitutivi del progetto delle opere di mitigazione ambientale; la relazione generale (doc. 02) e una planimetria sui siti di cava e deposito (Mat. 91.40), sostitutivi del piano di gestione del materiale da scavo.
Se la commissione di gara ha ritenuto adeguato e sufficiente il corredo documentativo del progetto esecutivo dell’A.t.i. ricorrente, tale giudizio, ancorché discutibile sul piano della valutazione tecnica, appare immune da vizi di illogicità o manifesta contraddittorietà. Pertanto, il secondo motivo del ricorso n.r.g. 334/2015 dev’essere disatteso.
VII – Anche la terza censura del ricorso n.r.g. 334/2015 è da ritenersi infondata.
La ricorrente società Spinosa Costruzioni si duole della mancata esclusione dalla gara dell’offerta dell’A.t.i. aggiudicataria, nonostante l’asserita mancanza di una relazione geologica a corredo del progetto esecutivo (quale prescritta dall’art. 93 del Codice dei contratti pubblici). L’asserzione è smentita dal fatto che il progetto dell’aggiudicataria sia, in effetti, corredato da una relazione geologica, benché si tratti del medesimo documento già presente nel progetto definitivo.
Si consideri che il progetto esecutivo dell’aggiudicataria –nella sua versione standard, al netto delle proposte migliorative- non apporta modifiche geometriche, funzionali, dimensionali o plano-altimetriche al progetto definitivo posto a base di gara, sicché non si è resa necessaria una nuova perizia geologica, a corredo dell’esecutivo. Peraltro, il bando e il disciplinare di gara nulla dicono, a tal proposito, non prescrivendo la redazione di una perizia geologica più dettagliata e specifica di quella già allegata al progetto definitivo. Pertanto, non si può ravvisare alcuna particolare irregolarità viziante, rilevabile come tale, nella trasposizione in sede esecutiva del documento geologico già presente nel progetto definitivo.
Il fatto che altri concorrenti alla gara si siano peritati di produrre una nuova e più dettagliata relazione geologica non si traduce, di per sé, in una violazione della “par condicio”. Né vi è violazione dell’art. 35 del Regolamento (D.P.R. n. 207/2010), nella parte in cui tale disposizione prevede che il progetto esecutivo contenga <<almeno le medesime relazione specialistiche contenute nel progetto definitivo>>. Paradossalmente, ciò che ha fatto l’A.t.i. aggiudicataria, riproponendo nella redazione di esecutivo una perizia già allegata al progetto definitivo, appare pedissequa attuazione della disposizione regolamentare da ultimo citata.
Se è vero che l’A.t.i. aggiudicataria ha utilizzato, per la redazione del progetto esecutivo, elaborati progettuali e relazioni specialistiche resi disponibili dalla stazione appaltante con il progetto definitivo, è altresì vero che tale prassi –quand’anche in ipotesi discutibile sul piano della deontologia professionale del tecnico redattore- non è vietata dalla vigente normativa di settore, anzi, stando alla lettera del citato art. 35 del D.P.R. n. 207/2010, sembrerebbe esplicitamente consentita.
E’ appena il caso di aggiungere che la prassi di trasporre nel progetto esecutivo relazione ed elaborati specialistici del progetto definitivo non potrebbe non incidere in senso negativo sulla valutazione di qualità della progettazione esecutiva, sicché –nel caso di specie– sembrerebbe scarsamente giustificata la scelta caduta su un progetto esecutivo di qualità tecnica inferiore, proprio in ragione del suo carattere compilativo e assemblatore di componenti della progettualità presupposta.
Tale considerazione, tuttavia, esula dall’oggetto del giudizio, poiché non vi è nel ricorso n.r.g. 334/2015 un’esplicita censura sull’incongruità o sulla manifesta irragionevolezza del giudizio tecnico della commissione di gara.
VIII – In conseguenza di quanto sopra osservato, non solo appare infondato il terzo motivo del ricorso n.r.g. 334/2015, ma anche la quarta censura del medesimo ricorso deve essere disattesa. Se, infatti, è ammissibile il riuso, in sede di progetto esecutivo, di una relazione geologica già presente nel progetto definitivo, ne discende che sia del tutto irrilevante l’assenza della figura del geologo nella compagine dei professionisti incaricati della progettazione esecutiva dell’A.t.i. prima classificata, in specie se si considera che la presenza di tale figura professionale non sia esplicitamente, né direttamente prevista o prescritta dalla “lex specialis” di gara.
IX – Infine, deve ritenersi generico e inammissibile il quinto motivo di censura della ricorrente Spinosa Costruzioni, nella parte in cui si duole dell’asserita mancanza, nell’offerta tecnica dell’A.t.i. prima classificata, della documentazione comprovante i requisiti tecnici del progettista incaricato della redazione del progetto esecutivo. Invero, detta doglianza non precisa, neppure in sede di ulteriori memorie, quali siano i punti di debolezza della valutazione di conformità dei requisiti del progettista incaricato dall’A.t.i. aggiudicataria, la cui competenza e idoneità professionale risulta asseverata proprio dalla valutazione del seggio di gara.
X – Passando all’esame del riunito ricorso principale n.r.g. 342/2015, proposto dalla terza classificata nella gara, impresa Melfi s.r.l., con l’intento di scalzare dalla graduatoria le prime due (cioè l’A.t.i. aggiudicataria e la stessa impresa Spinosa Costruzioni, ricorrente principale nel connesso ricorso n.r.g. 334/2015), il Collegio ritiene infondate le due censure in esso proposte, relative ai seguenti profili: 1) l’incompletezza del progetto esecutivo dell’A.t.i. aggiudicataria e la non valutabilità geologica e geognostica del progetto della stessa A.t.i.; 2) l’incompletezza del progetto esecutivo dell’impresa Spinosa Costruzioni Generali, seconda classificata e la mancanza delle relazioni specialistiche nell’offerta tecnica della medesima impresa Spinosa.
XI – La ricorrente Melfi S.r.l., invero, denuncia -alla stregua di quanto dedotto nel parallelo, riunito ricorso n.r.g. 334/2015, dalla concorrente seconda classificata, Spinosa Costruzioni- l’inidoneità e l’incompletezza del progetto esecutivo presentato dall’A.t.i. aggiudicataria, poiché ritenuto privo dei seguenti allegati: 1) le relazioni specialistiche per le opere stradali, per le strutture prefabbricate e per le opere di sostegno; 2) i calcoli esecutivi delle strutture in cemento armato per pozzetti, rete idrica e fognaria e strutture in terra armata a sostegno della rotatoria; 3) il piano di manutenzione dell’opera; 4) il quadro di incidenza della manodopera; 5) lo schema di contratto e la parte amministrativa del capitolato speciale; 6) la relazione geologica, la carta geomorfologica e la relazione geotecnica.
Con riferimento al progetto presentato dalla seconda classificata, impresa Spinosa Costruzioni Generali, la ricorrente Melfi S.r.l., nel secondo motivo di ricorso, segnala la mancanza della seguente documentazione: 1) la relazione per le opere stradali; 2) la relazione geologica di sintesi (stante, peraltro, la mancata sottoscrizione di sette elaborati della relazione geologica); 3) le relazioni di calcolo delle strutture in cemento armato; 4) il calcolo delle strutture di sottofondazione stradale.
XII - Il Collegio ritiene che tali censure trovino adeguata risposta nelle considerazioni già svolte al capo sub V della presente sentenza. E’ appena il caso di ribadire che i vigenti parametri normativi e regolamentari lasciano alla stazione appaltante un certo margine di apprezzamento e di valutazione sull’adeguatezza e sulla completezza del progetto. Invero, l’art. 36 del citato D.P.R. n. 207/2010 stabilisce che il progetto esecutivo sia esplicazione del progetto definitivo e debba essere costituito <<dagli elaborati che risultino necessari all’esecuzione dell’opera>>.
Il successivo art. 37 del medesimo Regolamento aggiunge che i progetti debbano essere <<redatti in modo tale da consentire all’esecutore una sicura interpretazione ed esecuzione dei lavori in ogni loro elemento>>. E’ facile comprendere come la valutazione, svolta dalla competente commissione di gara, circa l’adeguatezza e la completezza degli elaborati dell’offerta tecnica, costituisca esercizio di discrezionalità tecnica, come tale insindacabile in sede giurisdizionale, se non per macroscopici vizi di illogicità e incongruità (cfr.: Cons. Stato, IV 16.02.2012 n. 820; idem IV, 14.10.2011 n. 5540; idem VI, 12.10.2011 n. 5519).
Nella specie, tali vizi non sono ravvisabili, atteso che entrambi i progetti esecutivi delle imprese prima e seconda classificata, presentano un sufficiente grado di completezza.
Più precisamente, per il progetto dell’A.t.i. aggiudicataria, va rilevato quanto segue: 1) negli elaborati Tec. 20.23, Tec. 21.24 e Tec. 22.25, sono indicate le caratteristiche dimensionali, qualitative e materiche delle opere stradali, delle strutture prefabbricate e delle opere di sostegno, le quali tengono luogo delle relazioni specialistiche mancanti; 2) definizione e dimensionamento delle strutture ed opere sono riportati all’interno degli elaborati grafici, mentre l’utilizzo di elementi in cls prefabbricati, prodotti in stabilimento e forniti in cantiere, esime dalla specificazione dei calcoli esecutivi delle strutture in cemento armato; 3) le indicazioni sulla manutenzione delle opere e sull’incidenza della manodopera sono contenute negli elaborati grafici e nella relazione generale (doc. 02); 4) lo schema di contratto e la parte amministrativa del capitolato speciale sono i medesimi proposti dalla stazione appaltante; 6)la relazione geologica è la medesima contenuta nel progetto definitivo.
Invece, per il progetto della seconda classificata, impresa Spinosa Costruzioni Generali, va rilevato quanto segue: 1) sono presenti nel progetto tutte le relazioni specialistiche già contenute nel progetto definitivo, integrate dalle ulteriori relazioni sismica, geotecnica, archeologica, piano di gestione delle materie, relazione di interferenze, relazione idrogeologica e idraulica, relazione tecnica e tabulato dei libretti di campagna; la relazione per le opere stradali è la medesima del progetto definitivo; 2) la relazione geologica di sintesi è compresa negli elaborati 2.18b e 2.18c, gli elaborati geotecnici sono stati sottoscritti dal geologo, mentre la relazione geotecnica è stata sottoscritta dall’ingegnere progettista, in possesso delle necessarie competenze geotecniche; 3) l’utilizzo di strutture prefabbricate esime la concorrente dalla produzione delle relazioni di calcolo delle strutture in cemento armato; 4) il calcolo delle strutture di sottofondazione stradale è contenuto nella relazione sulla gestione delle materie.
Alla luce di tale analisi, si potrebbe, dunque, concludere per l’infondatezza del primo motivo del ricorso n.r.g. 342/2015.
XIII – Nondimeno, un certo pregio va riconosciuto alla censura di cui al punto A.3 del primo motivo del ricorso n.r.g. 342/2015, nella parte in cui esso evidenzia l’assenza di calcoli ed elaborati specifici per le varianti migliorative proposte dall’A.t.i. aggiudicataria (per la rotatoria stradale e per l’impianto di trattamento di acque), che, a dire della ricorrente impresa Melfi, renderebbero le due proposte progettuali non valutabili.
Invero, le proposte migliorative formulate dall’A.t.i. aggiudicataria non hanno, evidentemente, la consistenza e la complessità di un progetto esecutivo, forse anche per comprensibili ragioni di economia progettuale, in quanto la stazione appaltante avrebbe potuto ipoteticamente non esprimere gradimento per esse.
Le migliorie, a quanto consta, sono state liberamente valutate dal seggio tecnico di gara e per le stesse è stato attribuito un punteggio specifico, fermo restando che la loro realizzazione dovrebbe essere subordinata a un’ulteriore fase di completamento o, per meglio dire, di variante del progetto esecutivo nel senso indicato dalle stesse proposte migliorative.
La censura appare peraltro inammissibile, per difetto di interesse, atteso che la rilevata infondatezza della censura relativa al secondo motivo di ricorso (riguardante la presunta incompletezza o inadeguatezza del progetto presentato dalla seconda classificata, impresa Spinosa Costruzioni Generali) priva la ricorrente impresa Melfi, terza classificata, dell’interesse a ottenere l’esclusione della prima classificata dalla gara d’appalto.
XIV – In conseguenza della rilevata infondatezza del ricorso principale n.r.g. 342/2015, deve dichiararsi improcedibile il ricorso incidentale dell’impresa Spinosa Costruzioni Generali, stante il sopravvenuto difetto di interesse alla decisione di esso.
XV – Resta irrisolto e, a giudizio del Collegio, di difficile soluzione il punto relativo alla censura di cui al primo motivo del ricorso n.r.g. 334/2015, circa la mancata indicazione nell’offerta tecnica dei costi interni della sicurezza aziendale, che -a dire della ricorrente impresa Spinosa Costruzioni- renderebbe inammissibile l’offerta dell’A.t.i. aggiudicataria.
XVI - La decisione della questione, invero, non può non risentire delle oscillazioni giurisprudenziali più recenti. L’ordinanza cautelare collegiale di questo Tar n. 149/2015 (poi riformata dal Consiglio di Stato, in sede di appello cautelare), aveva invero disposto la sospensione degli effetti dei provvedimenti impugnati con il ricorso n.r.g. 334/2015, alla luce della presupposta ordinanza di rimessione all’A.P. del Consiglio di Stato (cfr.: IV sezione, n. 2707 del 03.06.2015), nonché di altra autorevole giurisprudenza (cfr.: C.G.A. Sicilia 24.3.2015 n. 305), a tenore della quale la mancata indicazione, in sede di offerta, dei costi della sicurezza non dovrebbe essere considerata come causa di esclusione dalla gara di appalto, se non prevista espressamente come tale dalla lex specialis della gara (cfr., anche Cons. Stato, Ad. Plen., 27.06.2013 n. 16, idem 07.06.2012 n. 21), stante peraltro la necessità di tutela dell’affidamento, che indurrebbe a consentire la regolarizzazione documentale, in sede di soccorso istruttorio ex art. 39, comma 2, del D.L. n. 90/2014.
Sennonché, in una data più recente, l’Adunanza Plenaria si è nuovamente espressa sul punto ribadendo il principio che <<non sono legittimamente esercitabili i poteri attinenti al soccorso istruttorio, nel caso di omessa indicazione degli oneri della sicurezza aziendale>>, con la conseguenza che l’offerta tecnica priva di tale indicazione dovrebbe essere esclusa dalla gara, anche se non vi sia un’espressa comminatoria di esclusione nella lex specialis della procedura di appalto (cfr.: Cons. Stato, Ad. Plen., 02.11.2015 n. 9).
La giurisprudenza amministrativa, pertanto, si è uniformata, in materia di gare per l’affidamento di lavori pubblici, al principio già statuito dall’Adunanza Plenaria, nell’esercizio della sua funzione nomofilattica (cfr.: Cons. Stato, Ad. Plen., 20.3.2015 n. 3), a tenore del quale <<nelle procedure di affidamento di lavori i partecipanti alla gara devono indicare nell’offerta economica i costi interni per la sicurezza del lavoro, pena l’esclusione dell’offerta dalla procedura, anche se non previsto dal bando di gara>> (cfr., anche: Cons. Stato V, 25.11.2015 n. 5355; idem V, 1.10.2015 n. 4583; idem III, 15.06.2015 n. 2941).
In proposito, si è ritenuto che l’omessa indicazione dei detti costi, al di là dell’inadempimento di norme specifiche, determina “incertezza assoluta sul contenuto dell'offerta per difetto di un suo elemento essenziale”, comportando perciò, anche se non prevista nella lex specialis, l'esclusione dalla procedura dell'offerta difettosa, per l'inosservanza di un precetto a carattere imperativo, che imporrebbe un preciso adempimento ai partecipanti alla gara, non sanabile con il potere di soccorso istruttorio della stazione appaltante, non potendosi consentire di integrare successivamente un'offerta dal contenuto inizialmente carente di un elemento essenziale (cfr.: Cons. Stato V, 25.11.2015 n. 5355).
XVII - Nondimeno, stante l’orientamento ermeneutico della giurisprudenza amministrativa, deve ora porsi, anche sulla scorta di analoghe iniziative del Tar Piemonte, II sezione (ord. 16.12.2015 n. 1745) e della C.G.A. Siciliana (ord. n. 1/2015), una questione interpretativa -che proprio con la presente sentenza parziale viene posta all’attenzione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea- avente a oggetto la normativa nazionale sull’obbligo di indicazione separata, all’atto delle offerte per una procedura ad evidenza pubblica riguardante una gara d’appalto per lavori, dei costi interni di sicurezza aziendale.
Tale normativa nazionale, com’è noto, discende dal combinato disposto degli artt. 87, comma 4, e 86, comma 3-bis, del d.lgs. n. 163 del 2006, e dall’art. 26, comma 6, del d.lgs. n. 81 del 2008 (recante “Attuazione dell'articolo 1 della legge 03.08.2007, n. 123, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro”), così come interpretato, in funzione nomofilattica, ai sensi dell’art. 99 del cod. proc. amm. (d.lgs. n. 104 del 2010, All. A), dalle citate sentenze dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato nn. 3 e 9 del 2015.
L’art. 87, comma 4, del d.lgs. n. 163 del 2006, in punto di verifica delle offerte anormalmente basse, così dispone: <<Non sono ammesse giustificazioni in relazione agli oneri di sicurezza in conformità all'articolo 131, nonché al piano di sicurezza e coordinamento di cui all'articolo 12, decreto legislativo 14.08.1996, n. 494 e alla relativa stima dei costi conforme all'articolo 7, decreto del Presidente della Repubblica 03.07.2003, n. 222. Nella valutazione dell'anomalia la stazione appaltante tiene conto dei costi relativi alla sicurezza, che devono essere specificamente indicati nell'offerta e risultare congrui rispetto all'entità e alle caratteristiche dei servizi o delle forniture>>.
Dunque, l’obbligo di specifica indicazione dei costi sulla sicurezza aziendale è qui letteralmente riferito ai soli appalti di servizi e forniture. Inoltre, l’art. 86, comma 3-bis, del d.lgs. n. 163 del 2006 così dispone: <<Nella predisposizione delle gare di appalto e nella valutazione dell'anomalia delle offerte nelle procedure di affidamento di appalti di lavori pubblici, di servizi e di forniture, gli enti aggiudicatori sono tenuti a valutare che il valore economico sia adeguato e sufficiente rispetto al costo del lavoro e al costo relativo alla sicurezza, il quale deve essere specificamente indicato e risultare congruo rispetto all'entità e alle caratteristiche dei lavori, dei servizi o delle forniture. Ai fini del presente comma il costo del lavoro è determinato periodicamente, in apposite tabelle, dal Ministro del lavoro e della previdenza sociale, sulla base dei valori economici previsti dalla contrattazione collettiva stipulata dai sindacati comparativamente più rappresentativi, delle norme in materia previdenziale ed assistenziale, dei diversi settori merceologici e delle differenti aree territoriali. In mancanza di contratto collettivo applicabile, il costo del lavoro è determinato in relazione al contratto collettivo del settore merceologico più vicino a quello preso in considerazione>>.
In questo caso, quindi, l’obbligo di specifica indicazione dei costi sulla sicurezza aziendale appare essere riferito, genericamente, a tutti gli appalti della P.A., ivi compresi gli appalti di lavori pubblici; eppure, tale obbligo, per come è letteralmente formulata la norma, sembrerebbe incombere sugli enti aggiudicatori, piuttosto che sui concorrenti offerenti.
L’art. 26, comma 6, del d.lgs. n. 81 del 2008, nell’ambito della disciplina sulla tutela della salute dei lavoratori e della sicurezza nei luoghi di lavoro, così (similmente) dispone: <<Nella predisposizione delle gare di appalto e nella valutazione dell'anomalia delle offerte nelle procedure di affidamento di appalti di lavori pubblici, di servizi e di forniture, gli enti aggiudicatori sono tenuti a valutare che il valore economico sia adeguato e sufficiente rispetto al costo del lavoro e al costo relativo alla sicurezza, il quale deve essere specificamente indicato e risultare congruo rispetto all'entità e alle caratteristiche dei lavori, dei servizi o delle forniture. Ai fini del presente comma, il costo del lavoro è determinato periodicamente, in apposite tabelle, dal Ministro del lavoro, della salute e delle politiche sociali, sulla base dei valori economici previsti dalla contrattazione collettiva stipulata dai sindacati comparativamente più rappresentativi, delle norme in materia previdenziale ed assistenziale, dei diversi settori merceologici e delle differenti aree territoriali. In mancanza di contratto collettivo applicabile, il costo del lavoro è determinato in relazione al contratto collettivo del settore merceologico più vicino a quello preso in considerazione>>.
Attesa la scarsa chiarezza delle riportate disposizioni, in punto se sia obbligatoria o meno, per le ditte partecipanti a una procedura ad evidenza pubblica concernente la realizzazione di lavori pubblici, l’indicazione separata, nelle offerte, dei costi sulla sicurezza interna aziendale, l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato è stata chiamata a pronunciarsi, ai sensi dell’art. 99 cod. proc. amm., per dirimere l’incertezza interpretativa.
E così, con la sentenza n. 3 del 2015 –premessa la distinzione tra i costi c.d. “da interferenze” e i costi interni o aziendali– l’Adunanza plenaria si è pronunciata nel senso che l’obbligo per le ditte partecipanti di indicazione separata, nell’offerta economica, dei costi per la sicurezza aziendale debba ritenersi sussistente anche per le procedure di affidamento relative a contratti pubblici di lavori, pena l'esclusione dell'offerta dalla procedura anche se non prevista nel bando di gara: quest’ultima conseguenza, quindi, secondo l’Adunanza plenaria, deriva da cogente imposizione di legge, ossia indipendentemente dal fatto che l’obbligo di indicazione separata sia o meno riportato nella lex specialis di gara.
A questa soluzione si è pervenuti sulla base di <<un’interpretazione sistematica delle norme regolatrici della materia date dagli articoli 26, comma 6, del d.lgs. n. 81 del 2008 e 86, comma 3-bis, e 87, comma 4>>, del d.lgs. n. 163 del 2006, in modo tale da evitarne un’illogica lettura e per mantenere il necessario presidio dei diritti fondamentali dei lavoratori sanciti nella Costituzione italiana.
Con la successiva decisione n. 9 del 2015, poi, la stessa Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, nel confermare tale lettura interpretativa, ha affermato che essa ha natura esclusivamente dichiarativa e non, invece, di produzione del diritto. Di conseguenza è stato ritenuto che “non sono legittimamente esercitabili i poteri attinenti al soccorso istruttorio, nel caso di omessa indicazione degli oneri di sicurezza aziendali, anche per le procedure nelle quali la fase della presentazione delle offerte si è conclusa prima della pubblicazione della decisione dell'Adunanza Plenaria n. 3 del 2015”.
La questione interpretativa che, con la presente sentenza parziale, si rimette alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea concerne (similmente ad analoga questione, di recente sollevata dal Tar Piemonte, II Sezione, e dal Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana) la compatibilità della descritta normativa nazionale, così come interpretata dalle citate sentenze dell’Adunanza plenaria in funzione nomofilattica, con i principi euro-unitari, di matrice giurisprudenziale, della tutela del legittimo affidamento e di certezza del diritto, unitamente ai principi di libera circolazione delle merci, di libertà di stabilimento e di libera prestazione di servizi, di cui al Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), nonché i principi che ne derivano, come la parità di trattamento, la non discriminazione, il mutuo riconoscimento, la proporzionalità e la trasparenza, di cui (da ultimo) alla direttiva n. 2014/24/UE.
La questione, in altri termini, tende ad appurare se, nella materia degli appalti pubblici di lavori, i richiamati principi euro-unitari possano essere declinati nel senso che, laddove –come nel caso in esame– la normativa di gara (bando e disciplinare) non abbia prescritto espressamente, ai fini della valida partecipazione a una gara d’appalto per lavori pubblici, la separata indicazione dei costi di sicurezza aziendale nell’offerta economica, e laddove non sia neanche revocato in dubbio che tale offerta, dal punto di vista sostanziale, rispetti i necessari costi di sicurezza, quei principi possano condurre all’esito di mantenere in gara l’impresa che non abbia indicato, nella propria offerta economica, i costi per la sicurezza aziendale, nonostante altre concorrenti lo abbiano invece fatto, anche in chiave di rispetto del canone di favor partecipationis.
Ciò, in considerazione del fatto che la necessità di tale indicazione deriva con certezza, per l’ordinamento nazionale, non dalla lettera delle disposizioni di legge ma solo dal c.d. diritto vivente, ossia dalla richiamata interpretazione nomofilattica del quadro normativo vigente. La tutela del legittimo affidamento, la certezza del diritto e la proporzionalità, come osservato dalla richiamata ordinanza del Cons. Giust. Amm., “sono principi generali del diritto dell’Unione europea, di applicazione trasversale (giurisprudenza pacifica; tra le molte, decisione sul legittimo affidamento, CGUE n. 201 del 10.09.2009; n. 383 del 13.03.2008; n. 217 del 04.10.2007; sulla certezza del diritto, CGUE n. 576 dell’11.07.2013; n. 72 del 16.02.2012; n. 158 del 18.11.2008; sulla proporzionalità, CGUE n. 234 del 18.07.2013; n. 427 del 28.02.2013), e pure del diritto italiano”: come tali, i richiamati principi devono trovare applicazione anche per le procedure pubbliche di affidamento di appalti il cui valore non raggiunga, come nella specie, la soglia comunitaria.
XVIII – Si procede qui di seguito all’illustrazione dei motivi del rinvio pregiudiziale.
Nella fattispecie, viene anzitutto in rilievo il principio della tutela del legittimo affidamento: ciò in quanto, come detto, la disciplina di gara non prevede, nel caso di specie, espressamente l’obbligo di indicazione separata, nell’ambito dell’offerta, degli oneri di sicurezza aziendale. Né, del resto, può dirsi che tale obbligo di indicazione separata può trarsi con certezza dal diritto positivo nazionale, il quale, come visto, data la sua oggettiva incertezza interpretativa, ha richiesto l’intervento, a più riprese, dell’Adunanza Plenaria.
Il Collegio, pertanto, si domanda se il principio della tutela del legittimo affidamento, insieme a quelli della certezza del diritto e della proporzionalità, come riconosciuti nel diritto dell’Unione Europea, ostino, o no, a una regola del diritto italiano, come sopra ricostruita (anche sulla base della giurisprudenza dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato), che consenta di escludere da una procedura di evidenza pubblica un’impresa che abbia fatto affidamento, per l’appunto, sulla completezza degli atti amministrativi con i quali sia stata indetta una gara.
Aspetto centrale della questione è la valutazione dell’effettiva sussistenza di una colpa inescusabile nel comportamento dell’impresa che sia stata esclusa per la mancata indicazione degli oneri di sicurezza: si assume, infatti, che tale impresa, nel silenzio degli atti di gara, fosse tenuta ad eterointegrare la lex specialis non semplicemente con riguardo a quanto disposto, in via generale, dalla legge (oggettivamente di incerta applicazione), ma nei sensi derivanti dalla richiamata interpretazione estensiva fatta propria dall’Adunanza Plenaria, anche indipendentemente dal fatto che quest’ultima si sia pronunciata anteriormente alla conclusione della fase di presentazione delle offerte.
Nella presente questione, peraltro, assumono rilievo anche i principi comunitari del favor partecipationis e della parità di trattamento sostanziale tra le imprese concorrenti, posto che, nella presente sede giurisdizionale, non è stato revocato in dubbio che l’offerta dell’A.t.i. aggiudicataria fosse effettivamente rispettosa degli oneri di sicurezza necessari. Nessuna parte processuale, nelle proprie difese, ha dedotto che l’offerta dell’A.t.i. aggiudicataria fosse, sostanzialmente, carente del requisito: è pertanto pacifico –perché incontestato- che quell’offerta rispetti i necessari costi di sicurezza aziendali.
L’unica mancanza dell’impresa aggiudicataria sarebbe, pertanto, quella dell’omessa indicazione separata dei costi di sicurezza. Quest’ultima, pertanto, dovrebbe essere esclusa per ragioni di natura esclusivamente formale, senza che sia stata nemmeno concessa la possibilità, mediante il rimedio del c.d. soccorso istruttorio, di dimostrare che effettivamente l’offerta presentata fosse adeguata anche con riguardo ai costi di sicurezza aziendale.
L’applicazione rigorosa della legge italiana, quale interpretata dalle richiamate pronunce dell’Adunanza plenaria, nel non ammettere la possibilità del c.d. soccorso istruttorio, conduce quindi all’automatica esclusione delle imprese che abbiano omesso l’indicazione separata, indipendentemente dal fatto che il requisito, nella sostanza, fosse posseduto: con la conseguenza di restringere indebitamente la platea dei possibili concorrenti e, quindi, con sostanziale violazione dei connessi principi di libera concorrenza e di libera prestazione dei servizi nell’ambito del territorio dell’Unione sanciti dal TFUE.
Ciò in quanto, come è evidente, la censurata normativa italiana potrebbe vieppiù comportare discriminazioni applicative nei confronti delle imprese comunitarie non italiane che volessero partecipare a un appalto di lavori bandito da un’Amministrazione aggiudicatrice italiana, attese le oggettive difficoltà di conoscenza del diritto italiano, quali risultanti dalla riportata interpretazione c.d. nomofilattica dell’Adunanza plenaria e dalla connessa riconosciuta prevalenza del profilo formale (mancanza dell’indicazione separata), rispetto al profilo sostanziale (effettivo rispetto dei costi di sicurezza interni).
XIX - Sulla base di quanto finora osservato, il Collegio formula pertanto il seguente quesito interpretativo alla Corte di Giustizia U.E.: “
Se i principi comunitari di tutela del legittimo affidamento e di certezza del diritto, unitamente ai principi di libera circolazione delle merci, di libertà di stabilimento e di libera prestazione di servizi, di cui al Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), nonché i principi che ne derivano, come la parità di trattamento, la non discriminazione, il mutuo riconoscimento, la proporzionalità e la trasparenza, di cui (da ultimo) alla direttiva n. 2014/24/UE, ostino ad una normativa nazionale, quale quella italiana derivante dal combinato disposto degli artt. 87, comma 4, e 86, comma 3-bis, del d.lgs. n. 163 del 2006, e dall’art. 26, comma 6, del d.lgs. n. 81 del 2008, così come interpretato, in funzione nomofilattica, ai sensi dell’art. 99 cod. proc. amm., dalle sentenze dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato nn. 3 e 9 del 2015, secondo la quale la mancata separata indicazione dei costi di sicurezza aziendale, nelle offerte economiche di una procedura di affidamento di lavori pubblici, determina in ogni caso l’esclusione della ditta offerente, anche nell’ipotesi in cui l’obbligo di indicazione separata non sia stato specificato né nella legge di gara né nell’allegato modello di compilazione per la presentazione delle offerte, ed anche a prescindere dalla circostanza che, dal punto di vista sostanziale, l’offerta rispetti i costi minimi di sicurezza aziendale”.
XX - Ai sensi delle vigenti Raccomandazioni, si dispone che la Segreteria di questa Sezione trasmetta alla cancelleria della Corte di Giustizia, mediante plico raccomandato, il fascicolo di causa insieme al testo integrale delle sentenze nn. 3 e 9 del 2015 dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato.
Visto l’art. 79 cod. proc. amm. e il punto 29 delle Raccomandazioni, il presente giudizio viene sospeso nelle more della definizione del procedimento incidentale di rinvio e ogni ulteriore decisione, anche in ordine al regolamento delle spese processuali, è riservata alla pronuncia definitiva, una volta ricevuta la notificazione della decisione emessa dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea (ex punto 34 Raccomandazioni).
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Molise (Sezione Prima), non definitivamente pronunciando sui riuniti ricorsi, come in epigrafe proposti:
- respinge in parte il ricorso n.r.g. 334/2015, perché infondato nei motivi dal II al V;
- respinge, perché infondato, il riunito ricorso n.r.g. 342/2015;
- dichiara improcedibile il ricorso incidentale al n.r.g. 342/2015, stante il sopravvenuto difetto di interesse;
-
dispone il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’U.E., per la soluzione del quesito formulato in motivazione, per l’effetto sospendendo il giudizio nelle more della definizione del procedimento incidentale di rinvio pregiudiziale;
- manda alla Segreteria del Tar di trasmettere alla cancelleria della Corte di Giustizia U.E., mediante plico raccomandato, il fascicolo di causa insieme al testo integrale delle sentenze nn. 3 e 9 del 2015 dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (TAR Molise, sentenza 12.02.2016 n. 77 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Regioni, il piano casa non deroga.
Sorpresa. Il piano casa della Regione non può derogare a regolamenti edilizi e norme tecniche di attuazione sui prg dei Comuni. Almeno per quanto riguarda le distanze minime fra pareti con finestre di costruzioni differenti: gli atti dell'amministrazione locale riproducono comunque norme statali di principio nel settore urbanistico e sarebbe dunque incostituzionale la legge regionale che pretendesse di disciplinare la materia senza quei limit
i.
È quanto emerge dalla sentenza 15.01.2016 n. 19, pubblicata dalla I Sez. del TAR Molise.
La presentazione della Dia non può prescindere dalla legittimità dell'intervento. Sbaglia il titolare dell'immobile quando invoca l'articolo 2 della legge regionale che consente la deroga a regolamenti edilizi e Nta degli strumenti urbanistici adottati dai Comuni: non per ciò solo la deroga deve ritenersi estesa all'articolo 9 del decreto ministeriale 1444/1968 e alle altre relative previsioni recepite negli atti adottati dalle amministrazioni locali.
E ciò perché la stessa legge regionale non può derogarvi (articolo ItaliaOggi Sette del 29.02.2016).
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MASSIMA
Oggetto del presente giudizio è la legittimità degli atti con cui il Comune di Termoli ha dapprima negato (con provvedimento del 28.07.2014) il rilascio del titolo edilizio per realizzare la chiusura perimetrale del portico della propria villetta a schiera e ha, conseguentemente, adottato in data 20.10.2014 l’ordine di demolizione delle opere realizzate.
Con i due motivi di ricorso che possono esaminarsi congiuntamente data la loro connessione, la sig.ra -OMISSIS- ha denunciato la violazione dell’art. 23 del d.P.R. n. 380/2001, affermando che prima della realizzazione dell’intervento oggetto dei provvedimenti gravati aveva presentato già in data 20.03.2012 una dichiarazione di inizio di attività, corredata dei pareri anche paesaggistici previsti e che solo nel marzo 2014 il Comune di Termoli aveva fatto pervenire una preavviso di diniego del rilascio del Permesso di costruire che la ricorrente, invece, non aveva richiesto.
Pertanto, la sig.ra -OMISSIS- rileva che ai sensi del predetto art. 23 del d.P.R. n. 380/2001, decorso il termine di trenta giorni dalla presentazione della DIA, questa si consolida, sicché la mancata adozione di alcun atto per più di un anno dopo la comunicazione della DIA rende illegittimo il successivo diniego di Permesso di costruire, peraltro mai richiesto.
L’unico strumento che l’Amministrazione aveva a propria disposizione era quello dell’intervento in autotutela, decorso oramai il periodo entro il quale era possibile agire con i poteri inibitori, con la conseguente illegittimità del diniego del Permesso di costruire che non essendo configurabile quale atto di autotutela comunica la propria illegittimità anche all’impugnato ordine di demolizione.
Quand’anche, poi, si prendesse in considerazione quale parametro temporale non il momento in cui è stata proposta la dichiarazione di inizio attività (20.03.2012), ma quella dell’inizio lavori (gennaio 2014), l’intervento comunale, poi, sarebbe comunque tardivo, atteso che il termine rilevante ai fini del perfezionamento della fattispecie è quello della proposizione della dichiarazione, mentre i lavori possono cominciare entro tre anni.
In ogni caso, prosegue la ricorrente, il Piano Casa approvato con la l.r. n 30/2009 ha espressamente previsto la possibilità di derogare alle previsioni dei regolamenti comunali e degli strumenti urbanistici, introducendo una normativa di favore che consentirebbe di derogare anche alle previsioni dei regolamenti comunali nonché agli strumenti urbanistici e territoriali.
Quanto poi al mancato consenso dei comproprietari, pure addotto dall’Amministrazione, alla modifica del muro comune della villetta schiera, originariamente in mattoni e rete metallica e, a seguito dell’intervento chiuso in tutta la sua altezza, esso non sarebbe stato necessario.
Tutti i profili di doglianza riferiti sono destituiti di fondamento alla stregua delle considerazioni che di seguito si espongono.
La questione si incentra sulla legittimità dell’intervento del Comune di Termoli che ha, dapprima negato il rilascio del Permesso di costruire, ed ha, poi, adottato l’ordine di demolizione dell’opera realizzata dalla sig.ra -OMISSIS-.
Il Collegio ritiene che i vizi di violazione di legge e di eccesso di potere denunciati nel ricorso introduttivo del presente giudizio in relazione ai provvedimenti impugnati (diniego di Permesso e ordine di demolizione) non sono configurabili.
Ed infatti,
in linea con l’orientamento di recente assunto anche dal Consiglio di Stato, la presentazione di una DIA non può –poi– prescindere dalla “legittimità dell’intervento”, tenuto conto –in particolare– del profilo afferente alla “conformità alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico–edilizia vigente” espressamente imposta dall’art. 22, comma 1, del D.P.R. n. 380 del 2001, a “salvaguardia dell’ordine del territorio (cfr. Cons. stato, sez. VI, 24.03.2013, n. 1413).
Nel caso di specie, è proprio la legittimità dell’intervento che risulta carente, in quanto
se è pur vero che nella dichiarazione e nella relazione tecnica ad essa allegata, risulta espressamente la volontà dell’interessata di avvalersi delle disposizioni derogatorie previste dalla legge regionale n. 30/2009 sul c.d. “Piano Casa”, è altresì vero che le norme sulle distanze legali, la cui violazione viene contestata nel caso di specie, non possono essere derogate nemmeno dalla predetta legge regionale.
La tesi della ricorrente si fonda sull’errato assunto secondo cui, poiché l’art. 2 della predetta legge introduce la possibilità di derogare ai regolamenti edilizi ed alle NTA dei Piani regolatori, siffatta deroga si estenderebbe anche alle previsioni di cui al DM 1444/1968 recepite nei predetti atti generali.
Sennonché, come già evidenziato da questo Tribunale, non solo tale asserzione non può essere condivisa ma va radicalmente rovesciata:
proprio in quanto riproduttivi di norme statali di principio della materia urbanistica quale l’art. 9 del D.M. 1444/1968, i regolamenti edilizi e le NTA dei piani regolatori non solo non possono essere derogati neppure dalla legge regionale ma quest’ultima deve essere interpretata in senso conforme a Costituzione, pena la illegittimità costituzionale delle relative disposizioni, in quanto in contrasto con norma statale di principio qual è quella sulla distanza minima tra pareti finestrate (cfr.: TAR Molise, 10.07.2013, n. 474).
Del resto, che gli artt. 2 e 3 della legge Regione Molise n. 30/2009 non possano essere interpretati nel senso di introdurre la possibilità di derogare anche all’art. 9 del D.M. n. 1444/1969 è confermato dalla successiva legge regionale n. 21/2011 che ha fatto espressamente salvi “i limiti stabiliti dalla normativa nazionale”, così introducendo non una norma innovativa bensì confermativa delle preesistenti disposizioni sul c.d. piano casa; poiché infatti queste ultime non contengono una espressa previsione circa la possibilità di deroga dell’art. 9 del citato D.M. si impone, per le ragioni esposte, la necessità della prospettata interpretazione conforme a costituzione, con conseguente infondatezza della censura.
Quanto alla circostanza, pure invocata nel ricorso, secondo cui l’Amministrazione non avendo esercitato i poteri inibitori nel termine di 30 giorni, non avrebbe più potuto intervenire se non in autotutela, giova premettere che la giurisprudenza non ha assunto un orientamento univoco sul punto, nel senso che, in alcuni casi, ha sancito l’impossibilità per il Comune di intervenire “oltre il termine, se non esercitando i propri poteri di autotutela” (cfr., tra le altre, TAR Lombardia, Milano, Sez. II, n. 4799 del 2014, in linea con Cons. Stato, Sez. VI, 22.09.2014, n. 4780), mentre, in altri casi, ha pienamente riconosciuto il potere dell’Amministrazione di adottare “misure repressive”, specie ove si sia in presenza di dichiarazioni non veritiere, inidonee –in quanto tali– a giustificare la tutela dell’affidamento del privato, nel pieno rispetto dell’autoresponsabilità che deve presiedere l’assunzione di qualsiasi iniziativa, individuata come “un deterrente a violare la legge”, ossia “ad agire in modo conforme” a quest’ultima (cfr., ex multis, TAR Piemonte, 01.07.2015, n. 11149).
Ritiene il Collegio che, nel caso di specie, può prescindersi da una presa di posizione su tale questione di fondo, in quanto il gravato diniego di permesso di costruire si presterebbe, in ogni caso, a valere anche come provvedimento adottato in “autotutela”, dovendosene riconoscere l’indiscutibile natura vincolata, con le connesse conseguenze in ordine alla ristrettezza dei poteri di annullamento del giudice in presenza di vizi afferenti alla procedura o alla forma, ai sensi dell’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241 del 1990, ma con le ricadute anche sulle caratteristiche degli interventi in autotutela.
Ed infatti,
il difetto di una espressa valutazione dell’interesse pubblico, che pure dovrebbe connotare i provvedimenti di secondo grado, non varrebbe, comunque, a legittimare un intervento edilizio non realizzabile sulla base degli strumenti urbanistici, che, come nel caso di specie, è stato posto in essere in violazione di una normativa, quella sulle distanze, che, come visto, non riceve deroga dalle norme della legge sul c.d. Piano Casa (cfr. TAR Lazio, Roma, sez. II-bis, 15.12.2015, 14059); dovendosi altresì considerare che la normativa dettata dal ripetuto Piano Casa non introduce alcuna forma di sanatoria, ma presuppone, invece, la regolarità dell’intervento al momento in cui viene posto in essere (cfr.: TAR Molise, 23.05.2014, n. 332).
Anzi,
i rilevanti interessi pubblici tutelati dalla previsione sulle distanze consentono di affermare che l’autotutela esercitata per assicurare il rispetto di tale inderogabile precetto reca, in re ipsa, l’esigenza di tutela del suddetto interesse pubblico sanitario, a cui si aggiunge nella fattispecie anche la finalità indiretta di assicurare tutela ai controinteressati (proprietari delle villette finitime), titolari di una specifica e differenziata posizione di interesse al rispetto della suddetta finalità pubblicistica che l’Autorità procedente deve, del pari, tenere in adeguata considerazione ai sensi e per gli effetti dell’art. 21-nonies della l. n. 241/1990.
In altri termini,
proprio perché le distanze tra le costruzioni sono predeterminate con carattere cogente in via generale ed astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, all’Amministrazione non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell'applicazione della disciplina in materia di equo contemperamento degli opposti interessi (cfr.: Cons. Stato Sez. VI, 18.12.2012, n. 6489).
Alla luce delle suesposte considerazioni, la problematica specificamente afferente agli effetti del decorso del termine di 30 giorni, prescritto dall’art. 23 del D.P.R. n. 380 del 2001, perde pertanto inequivocabilmente rilevanza, mentre
nessun affidamento incolpevole da parte della ricorrente poteva maturare in forza di un intervento che, senza contestazione, è stato posto in essere in violazione delle norme inderogabili sulle distanze.
Peraltro, il Collegio osserva in punto di fatto che dalla documentazione versata in atti dall’Amministrazione risulta che la ricorrente ha proposto in data (12.03.2012, protocollo comunale 20.03.2012) solo un’istanza di “autorizzazione edilizia”, senza specificare che si trattava di una DIA, mentre dalla produzione attorea, risulta effettivamente una DIA datata 12.03.2012, ma tale documento risulta priva di sottoscrizione e di qualsivoglia timbro di protocollo che valga ad accertarne rispettivamente provenienza e data certa, con la conseguenza che non risulta raggiunta la piena prova dell’effettiva proposizione di una DIA da parte della sig.ra -OMISSIS-.
In definitiva, tutte le doglianze avverso i provvedimenti impugnati sono infondate e il ricorso deve pertanto essere respinto, non essendo ravviabile nemmeno l’invocata illegittimità derivata del gravato ordine di demolizione.

UTILITA'

EDILIZIA PRIVATA: Le cause d’incendio e/o di esplosione nelle caldaie e generatori di calore in ambienti domestici (Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco, 18.02.2016).

EDILIZIA PRIVATA: LE MANIFESTAZIONI ED I LOCALI DI PUBBLICO SPETTACOLO - INDICAZIONI PROCEDURALI E DI PREVENZIONE INCENDI PER LE COMMISSIONI DI VIGILANZA (Comando Provinciale Vigili del Fuoco di Venezia, 25.01.2016).

EDILIZIA PRIVATA: LE AGEVOLAZIONI FISCALI PER IL RISPARMIO ENERGETICO (Agenzia delle Entrate, gennaio 2016).

EDILIZIA PRIVATA: Relazione tecnica sugli incendi coinvolgenti impianti fotovoltaici (Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco, 20.10.2015).

DIPARTIMENTO FUNZIONE PUBBLICA

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto: Assunzioni e mobilità della polizia municipale (nota 29.02.2016 n. 10669 di prot.)

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA - APPALTI - EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI - PATRIMONIO - PUBBLICO IMPIEGO: G.U. 26.02.2016 n. 47 "Testo del decreto-legge 30.12.2015, n. 210, coordinato con la legge di conversione 25.02.2016, n. 21, recante: “Proroga di termini previsti da disposizioni legislative”".
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Si leggano anche:
- Milleproroghe/3: dimezzate le sanzioni Sistri - Prorogato fino al 29.02.2016 il termine di entrata in vigore del divieto di smaltimento in discarica dei rifiuti (urbani e speciali) con potere calorifico inferiore superiore a 13.000 kJ/Kg (25.02.2016 - link a www.casaeclima.com)
- Milleproroghe/2: prevenzione incendi, adeguamento delle scuole entro il 31.12.2016 - Per gli alberghi con oltre 25 posti letto differito al 31.12.2016 il termine per l'adeguamento alla normativa antincendio (25.02.2016 - link a www.casaeclima.com)
- Il Milleproroghe è legge: fino al 31.07.2016 esclusione automatica delle offerte anomale - Prorogata fino al 31 luglio anche l'anticipazione al 20% del prezzo in favore dell'appaltatore per i contratti relativi a lavori (25.02.2016 - link a www.casaeclima.com)
- La nota di lettura Anci sulle norme di interesse per gli Enti Locali (23.02.2016 - link a www.anci.it)

ENTI LOCALI: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 8 del 26.02.2016, "Abrogazione dell’articolo 9 della legge regionale 12.10.2015, n. 32 (Disposizioni per la valorizzazione del ruolo istituzionale della Città metropolitana di Milano e modifiche alla 08.07.2015, n. 19 “Riforma del sistema delle autonomie della Regione e disposizioni per il riconoscimento della specificità dei territori montani in attuazione della legge 07.04.2014, n. 56 ‘Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni’”)" (L.R. 23.02.2016 n. 3).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 8 del 26.02.2016, "Modifiche alla legge regionale 01.10.2015, n. 27 (Politiche regionali in materia di turismo e attrattività del territorio lombardo)" (L.R. 23.02.2016 n. 2).

CONSIGLIERI REGIONALI: G.U. 25.02.2016 n. 46 "Modifica all’articolo 4 della legge 02.07.2004, n. 165, recante disposizioni volte a garantire l’equilibrio nella rappresentanza tra donne e uomini nei consigli regionali" (Legge 15.02.2016 n. 20).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 7 del 19.02.2016, "Approvazione delle «Linee guida per la componente salute pubblica negli studi di impatto ambientale e negli studi preliminari ambientali» in revisione delle «Linee guida per la componente ambientale salute pubblica degli studi di impatto ambientale» di cui alla d.g.r. 20.01.2014, n. X/1266" (deliberazione G.R. 08.02.2016 n. 4792).

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 18.09.1978 n. 261 "Entrata in vigore della convenzione sulla protezione del patrimonio culturale e naturale mondiale, firmata a Parigi il 23.11.1972" (Ministero degli Affari Esteri, comunicato).

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 13.05.1977 n. 129, suppl. ord., "Ratifica ed esecuzione della convenzione sulla protezione del patrimonio culturale e naturale mondiale, firmata a Parigi il 23.11.1972" (Legge 06.04.1977 n. 184).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

PUBBLICO IMPIEGO: OGGETTO: Decreto legislativo n. 80 del 15.06.2015 in attuazione dell’art. 1, commi 8 e 9, della legge delega 10.12.2014 n. 183 (Jobs Act): fruizione del congedo parentale ad ore dei lavoratori iscritti alla Gestione Dipendenti Pubblici; ulteriori precisazioni circolare 81/2015 (INPS, circolare 23.02.2016 n. 40 - link a www.inps.it).
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SOMMARIO: Con la presente circolare si forniscono indicazioni relative alla valorizzazione in denuncia dei congedi medesimi con contribuzione figurativa ai fini pensionistici a carico dell’Istituto per le aziende e le amministrazioni pubbliche iscritte alla Gestione Dipendenti Pubblici.

TRIBUTI: OGGETTO: Imposta municipale propria (IMU) – Tributo per i servizi indivisibili (TASI) – Art. 1, comma 10, della legge n. 208 del 2015 (Legge di stabilità per l’anno 2016) – Disposizioni concernenti la riduzione del 50 per cento della base imponibile in caso di cessione dell'abitazione in comodato ai familiari – Modalità applicative (Ministero dell'Economia e delle Finanze, Dipartimento delle Finanza, risoluzione 17.02.2016 n. 1/DF).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

LAVORI PUBBLICI: F. Mazzoni, RECESSO E RISOLUZIONE NEGLI APPALTI LL.PP. - Determinazione degli indennizzi (26.02.2016 - link a www.ambientediritto.it).

LAVORI PUBBLICI: F. Mazzoni, APPALTI: AFFIDAMENTO DEI LAVORI - Vademecum settori ordinari (26.02.2016 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: R. Bertuzzi, Il sistema sanzionatorio, amministrativo e penale, in materia edilizia, anche alla luce del d.lgs. n. 28/2015 (febbraio 2016 - link a www.tuttoambiente.it).
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1. I soggetti preposti alla vigilanza sull’attività edilizia
2. Il regime sanzionatorio
3. D.lgs. n. 28/2015: presupposti applicativi
4. Le ricadute del d.lgs. n. 28/2015 in materia di reati edilizi
5. Segue: la clausola di salvezza delle sanzioni amministrative
6. Il d.lgs. n. 8/2016 e i reati edilizi
7. L’importanza della fase di accertamento
8. La sanatoria ex art. 36 T.U. e il rapporto con l’art. 131-bis cod. pen.
9. I rifiuti di cantiere edile

VARI: Il leasing immobiliare abitativo: prime osservazioni (Consiglio Nazionale del Notariato, studio 22.01.2016 n. 38-2016/C).
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Sommario
PRIMA PARTE: INQUADRAMENTO DELLA FATTISPECIE
Introduzione. 1. La definizione di contratto di locazione finanziaria di immobile da adibire ad abitazione principale: l’individuazione del “tipo” negoziale. 1.1. Segue…: Il leasing di godimento e leasing traslativo: l’orientamento della giurisprudenza di legittimità. 1.2. Segue…: Il leasing abitativo: un nuovo tipo?
SECONDA PARTE: PROFILI FISIOLOGICI
1. I soggetti. 2. L’oggetto. 3. La causa. 4. La struttura. 4.1. Segue…: leasing su costruito. 4.2. Segue…: leasing in construendo. 5. La scansione logico-temporale del contratto di leasing e del contratto di compravendita/appalto. 6. La forma e il contenuto. 7. La trascrizione. 8. La cessione del contratto di leasing. 9. La traslazione dei rischi.
TERZA PARTE: QUESTIONI PATOLOGICHE
1. La risoluzione. 2. La trasparenza e la pubblicità nella ricollocazione del bene conseguente alla risoluzione per inadempimento dell’utilizzatore 3. Il rilascio dell’immobile oggetto del contratto di locazione finanziaria e l’applicabilità del procedimento per convalida di sfratto. 3.1. Il possibile riconoscimento del valore di titolo esecutivo per l’esecuzione in forma specifica per rilascio all’atto pubblico di leasing e di compravendita. 4. L’esclusione della revocatoria fallimentare dei pagamenti effettuati dalla società di leasing al venditore.
CONCLUSIONI: prerogative dell’atto pubblico con il quale si stipuli, in un’unica unità documentale, il contratto di leasing e il contratto di compravendita/appalto.

ARAN

PUBBLICO IMPIEGO: Posizioni a scavalco, aumenti in caso di cumulo.
La retribuzione di posizione e risultato dei dipendenti inquadrati nell'area delle posizioni organizzative può essere incrementata, nel caso di incarico «a scavalco», solo se i dipendenti medesimi cumulino l'incarico sia nell'ente presso il quale espletano il rapporto di lavoro principale, sia nell'ente che si avvale dello scavalco.

Il chiarimento proviene da un orientamento applicativo dell'Aran (parere 22.02.2016 n. RAL-1811), chiamata a pronunciarsi sul caso di un comune che stipuli una convenzione con un altro comune per utilizzare il dipendente dell'ente di provenienza per un orario di 12 ore settimanali.
L'Aran in primo luogo conferma che l'ente «utilizzatore», sebbene non costituisca un rapporto di lavoro autonomo, può assegnare al dipendente a scavalco un incarico di posizione organizzativa, anche se il dipendente interessato non disponga di tale incarico nell'ente col quale conduca il rapporto di lavoro. In questo caso, l'incarico sarà parametrato alle ore di impegno del lavoratore, come stabilito dalla convenzione tra i due enti. Di conseguenza, anche la retribuzione di posizione e risultato va proporzionata all'impegno orario.
Tale riproporzionamento non dovrà, tuttavia, partire dal trattamento di maggior favore consentito dall'articolo 14, comma 5, del Ccnl 22.01.2004, ai sensi del quale è possibile elevare il valore massimo della retribuzione di posizione fino a 16.000 e della retribuzione di risultato fino a un massimo del 30%.
Spiega l'Aran che la maggiorazione «nei casi di personale utilizzato a tempo parziale da enti diversi da quelli di appartenenza e di servizi in convenzione, trova applicazione solo in presenza di due incarichi diversi e distinti: l'uno attribuito dall'ente di appartenenza e l'altro presso l'ente di utilizzazione o nell'ambito dei servizi in convenzione».
Pertanto, l'incremento della retribuzione di posizione e risultato è ammissibile esclusivamente se coesistano almeno due incarichi di posizione organizzativa diversi: quello conferito dall'ente titolare del rapporto di lavoro e quello conferito dall'ente utilizzatore o dai servizi in convenzione ai sensi del comma 7 dell'articolo 14 del Ccnl 22.01.2004. Solo in questo modo è giustificabile l'incremento rispetto ai massimi «ordinari» delle retribuzioni di posizione risultato: è la maggiore gravosità dell'attività lavorativa a consentire di attivare le previsioni del comma 5 dell'articolo 14.
L'orientamento applicativo contiene anche un'altra rilevantissima precisazione. L'Aran coglie l'occasione da un lato per ricordare che gli incarichi di posizione organizzativa non possono superare i cinque anni. Ma, soprattutto, per la prima volta l'agenzia evidenzia che occorre anche definire una «durata minima», sebbene non sia stata fissata dalla contrattazione nazionale collettiva. Secondo l'Aran non meno di un anno tenuto conto dell'obbligo della valutazione annuale richiesto dalla disciplina (articolo ItaliaOggi del 23.02.2016).
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Discipline particolari/Unioni di Comuni e servizi in convenzione/Personale utilizzato a tempo parziale/
Nel caso in cui, un comune ai sensi dell’art.14 del CCNL del 22.01.2004, stipulasse una convenzione con altro ente per l’utilizzo a tempo parziale di un dipendente di questo ultimo, per un orario di 12 ore settimanali, l’ente utilizzatore potrebbe conferire al suddetto dipendente la titolarità di una posizione organizzativa?
Nel merito del quesito formulato, si ritiene utile precisare quanto segue.
L’art. 14 del CCNL del 22.01.2004, come noto, consente agli enti locali la possibilità di avvalersi di personale di altri enti ed amministrazioni del medesimo Comparto Regioni-Autonomie Locali, nel rispetto delle precise condizioni e modalità ivi stabilite.
L’utilizzo è consentito, fermo restando il vincolo dell’orario settimanale d’obbligo (le 36 ore settimanali), solo per una parte del suddetto orario di lavoro del dipendente utilizzato, secondo le quantità e modalità stabilite nell’apposita convenzione che gli enti interessati sono tenuti a stipulare in materia.
Come espressamente precisato dall’art. 14, comma 1, del richiamato CCNL del 22.01.2004, tuttavia, l’utilizzazione parziale, possibile anche per la gestione dei servizi in convenzione, non si configura come rapporto a tempo parziale.
Pertanto, proprio, perché non viene in considerazione un rapporto di lavoro a tempo parziale non trovano applicazione:
a) la disciplina dell’art. 4, comma 2, del CCNL del 14.09.2000, che non consente il conferimento della titolarità di posizione organizzativa a lavoratori con contratto di lavoro a tempo parziale;
b) le disposizioni dell’art. 4, comma 2–bis, del CCNL del 14.09.2000, introdotto dall’art. 11 del CCNL del 22.01.2004, che, negli enti privi di dirigenza, consentono l’individuazione di posizioni organizzative che possono essere affidate anche a dipendenti con rapporto di lavoro a tempo parziale, purché di durata non inferiore al 50% del rapporto a tempo pieno.
Si ritiene, quindi, che, qualora stipuli una convenzione con un altro comune per l’utilizzo di un dipendente a tempo parziale, nei termini descritti nella nota, il vostro ente potrà conferire allo stesso anche un incarico di posizione organizzativa secondo la disciplina prevista dall’art. 14, commi 4 e 5, del citato CCNL del 22.01.2004.
In proposito, si ricorda che:
a) la più favorevole disciplina per il lavoratore incaricato di posizione organizzativa in materia di retribuzione di posizione e di risultato, con la elevazione del valore massimo del primo compenso fino a € 16.000 e del secondo fino ad un massimo del 30%, nei casi di personale utilizzato a tempo parziale da enti diversi da quelli di appartenenza e di servivi in convenzione, trova applicazione solo in presenza di due incarichi diversi e distinti: l’uno attribuito dall’ente di appartenenza e l’altro presso l’ente di utilizzazione o nell’ambito dei servizi in convenzione. Tale disciplina, infatti, si fonda sull’assunto che solo la coesistenza di due incarichi diversi e distinti può creare oggettivamente una condizione di maggiore gravosità del lavoratore, utilizzato su due diverse e distinte posizioni di lavoro (o sedi), rispetto a quella del lavoratore che fruisce di un solo incarico;
b) se, invece, al di fuori di tale particolare ipotesi, al lavoratore sia affidato un solo incarico di posizione organizzativa presso l’ente di appartenenza oppure presso quello che lo utilizza a tempo parziale oppure nell’ambito di un servizio in convenzione, l’importo annuale della retribuzione di posizione e di quella di risultato saranno quelli ordinariamente previsti per la posizione organizzativa, sulla base delle previsioni contrattuali (art. 14 del CCNL del 22.01.2004);
c) nel caso in cui la titolarità di posizione organizzativa sia stata affidata solo nell’ente di utilizzo, l’importo annuale della retribuzione di posizione per questa previsto, deve essere direttamente riproporzionato in relazione alla minore durata della prestazione lavorativa, dato che necessariamente parte del tempo di lavoro è dedicata al servizio dell’ente di appartenenza. Nel caso prospettato essa sarà pari ad un terzo (12/36) della retribuzione di posizione stabilita per la posizione organizzativa affidata.
Per ulteriori e più ampie indicazioni, si rinvia agli orientamenti già predisposti in materia e pubblicati sul sito istituzionale.
Si coglie l’occasione per ricordare che la durata dell’incarico di posizione organizzativa non può essere superiore a 5 anni (art. 9, comma 1, del CCNL del 31.03.1999).
Non viene indicato dalla disciplina contrattuale anche un periodo minimo di durata che, ragionevolmente, si può ritenere che non possa essere, ordinariamente, inferiore ad un anno, tenuto conto dell’obbligo della valutazione annuale richiesto dalla disciplina legale e contrattuale (parere 22.02.2016 n. RAL-1811 - link a www.arangenzia.it).

A.N.AC. (già AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI)

APPALTI: Attuazione dell’art. 6-bis del dlgs 163/2006 introdotto dall'art. 20, comma 1, lettera a), legge n. 35 del 2012 - aggiornamento della deliberazione 20.12.2012, n. 111 (delibera 17.02.2016 n. 157 - link a www.autoritalavoripubblici.it).
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Vigilanza sui contratti pubblici
Banca Dati Nazionale Contratti Pubblici - Articolo 6-bis del Codice Appalti

Pubblicata la delibera n. 157 del 17.02.2016, recante l’aggiornamento della Deliberazione dell’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici 20.12.2012, n. 111
La Delibera, in attuazione a quanto disposto dall’articolo 6-bis del Codice individua i dati concernenti la partecipazione alle gare e la valutazione delle offerte da inserire nella BDNCP al fine di consentire alle stazioni appaltanti/enti aggiudicatori di verificare il possesso dei requisiti degli OE per l’affidamento dei contratti pubblici; Istituisce il nuovo sistema di verifica dei requisiti attraverso la BDNCP, denominato AVCPASS, dotato di apposite aree dedicate ad OE e a stazioni appaltanti/enti aggiudicatori; Stabilisce i termini e le regole tecniche per l’acquisizione, l’aggiornamento e la consultazione dei predetti dati.

APPALTI: Elenco dei soggetti aggregatori (delibera 10.02.2016 n. 125 - link a www.autoritalavoripubblici.it).

APPALTI: Centrali di committenza libere da capitali privati. Diversamente, per l'Anac sono cancellate dai soggetti aggregatori.
La presenza di capitale privato in una «centrale di committenza» legittima la radiazione dall'elenco dei soggetti aggregatori tenuto dall'Autorità nazionale anticorruzione.

È questa la ragione principale che ha condotto l'Authority presieduta da Raffaele Cantone, con la delibera 10.02.2016 n. 124 resa nota il 16 febbraio, a procedere all'annullamento, con validità retroattiva, dell'iscrizione del Consorzio Cev di Verona nella lista dei cosiddetti soggetti aggregatori, in precedenza disposta con riserva nel luglio 2015.
L'annullamento segue ad alcune indagini condotte dalla Guardia di finanza e prende in esame gli elementi che devono assicurare il principio di indipendenza e la totale assenza di conflitti di interesse anche potenziali nello svolgimento delle funzioni della centrale di committenza. L'Autorità ha in particolare accertato la sussistenza di relazioni di tipo soggettivo tra gli organi amministrativi del Cev e quelli di alcune società private di cui il Cev detiene quote di partecipazione.
Inoltre, la delibera ha anche dato atto che la centrale di committenza non aveva un dipendente e che le 10 unità lavorative erano alle dipendenze di una delle società private partecipate, elemento che ha fatto dire all'Anac che il Cev non può svolgere alcun ruolo operativo nell'ambito delle procedure di gara in quanto non è dotato di personale dipendente.
La particolarità del caso è che inizialmente, rispetto ai rilievi formulati dall'Anac, il Cev si era anche adeguata a quanto richiesto dall'Anac ma soltanto formalmente e non nella sostanza . In particolare, si legge nella delibera, la dismissione delle quote delle tre società private, detenute dal Cev al momento dell'iscrizione nell'elenco dei soggetti aggregatori, nonché la presentazione delle dimissioni di due consiglieri del cda del Cev ed i minimi adeguamenti operati alla struttura organizzativa, «non incidono in modo significativo sulla circostanza della mancata indipendenza del Consorzio al momento dell'iscrizione all'elenco dei soggetti aggregatori».
La vicenda del Consorzio Cev richiama, quanto meno per l'esito, quanto avvenuto con la Asmel (società consortile che svolge funzione di centrale di committenza per numerosi comuni) oggetto della delibera (n. 321 del 30.04.2015) con cui l'Anticorruzione aveva rilevato alcuni profili di illegittimità proprio dal punto di vista della partecipazione, più sfumata, di soggetti privati.
Nel caso specifico, l'Anac con la citata delibera aveva contestato l'attività della Asmel e condannato la presenza di soggetti privati al suo interno.
In particolare, secondo l'Anac, le gare poste da Asmel erano prive del presupposto di legittimazione perché non rispondenti ai modelli organizzativi indicati nel comma 3-bis dell'art. 33 del Codice degli appalti. E' stato poi il Consiglio di stato, con ordinanza n. 4016 del 9 settembre, a sospendere l'efficacia della delibera, anche al fine di non incidere sulle gare in corso di esecuzione. Dovrà essere il Tar del Lazio ad entrare nel merito (articolo ItaliaOggi del 26.02.2016).

APPALTI: Modifica del Regolamento unico in materia di esercizio del potere sanzionatorio da parte dell’Autorità mediante abrogazione espressa dell’Allegato 1 rubricato “Metodo di calcolo per l’applicazione delle sanzioni ex art. 73 dpr n. 207/2010” e conseguente riformulazione dell’art. 44 del citato Regolamento (delibera 10.02.2016 n. 115 - link a www.autoritalavoripubblici.it).

LAVORI PUBBLICI: Qualificazione, all'Anac solo per il falso con dolo. Precisazione dell'Autorità per l'adozione delle sanzioni.
La falsa dichiarazione o la falsa documentazione utilizzata ai fini della qualificazione delle imprese di costruzioni legittima la segnalazione all'Anac per l'adozione del procedimento sanzionatorio soltanto se l'impresa agisce con dolo, sapendo di avere utilizzato una attestazione scaduta.

Lo ha precisato l'Autorità nazionale anticorruzione con il comunicato del Presidente 03.02.2016 reso pubblico sul sito web dell'Anac il 15 febbraio e indirizzato a tutte le stazioni appaltanti. Il comunicato chiarisce un punto molto delicato connesso all'interpretazione dell'articolo 40, comma 9-quater, del codice dei contratti pubblici.
Il consiglio dell'Autorità ha ritenuto che, nel caso di utilizzazione successiva dell'attestazione, affetta da falsità, si verifichi un distinto e autonomo fatto illecito, per il quale, per quanto concerne gli eventuali profili sanzionatori, ricorre l'applicazione dell'art. 48 del codice.
Il problema riguarda le imprese che partecipano a gare di appalto di lavori di valore superiore a 150 mila euro, per le quali occorre l'attestazione Soa con la consapevolezza che l'attestato è scaduto. Per l'Anac «la decadenza dell'attestazione conseguita sulla base di falsa dichiarazione o falsa documentazione, può produrre effetti anche ai fini di quanto previsto dall'art. 48, commi 1 e 2, del dlgs 163/2006».
La ragione di tale assunto risiede nel fatto che è ampiamente contestabile all'impresa «la consapevole produzione di un'attestazione di qualificazione affetta da falsità». E questo fa scattare la fattispecie prevista dalla norma. In tale circostanza, nel caso di consapevole e volontaria utilizzazione sanzionatoria prevista dal comma 1, dell'articolo 48 del codice dei contratti, con l'attivazione a carico della stazione appaltante sia degli obblighi sanzionatori ivi previsti sia dell'obbligo di segnalazione verso l'Autorità, ove il soggetto non risulti già essere stato escluso dalla gara.
Ma se si verifica quindi questa fattispecie la stazione appaltante deve accertare che la condotta dell'impresa «sia già stata profilata nell'ambito del procedimento ex art. 40, comma 9-quater, del decreto legislativo 163/2006, come dolosa; solo in tal caso, infatti, si ritiene possa venire in evidenza l'ipotesi sanzionatoria ex art. 48 del decreto legislativo 163/2006».
Si tratta del caso nel quale un'impresa presenti una falsa dichiarazione o falsa attestazione ai fini della qualificazione. Le Soa devono segnalare la condotta all'Autorità per l'avvio del procedimento sanzionatorio. In altre parole, la sanzione si applica soltanto nei casi di utilizzo della falsa attestazione consapevolmente conseguita con referenze false e, dunque, ai soli casi di imputabilità con dolo.
Se ciò viene accertato sarà poi l'Anac stessa ad analizzare le partecipazioni alle gare dell'impresa coinvolta negli ultimi cinque anni per poi comunicare gli esiti della verifica alle amministrazioni che avevano bandito le gare affinché avviino l'iter di segnalazione che fa scattare il procedimento sanzionatorio (articolo ItaliaOggi del 19.02.2016).

APPALTI SERVIZINo profit, appalti solo per chi adotta il modello 231. Anticorruzione. Le istruzioni dell’Anac.
Gli organismi no-profit che intendono acquisire servizi sociali da amministrazioni pubbliche devono dotarsi di un modello di organizzazione per la gestione dei rischi in base alle previsioni del decreto legislativo 231/2001.
Nella
determinazione 20.01.2016 n. 32, l’Autorità nazionale anticorruzione evidenzia l’obbligo per i soggetti del terzo settore assumendo a presupposto sia il tenore letterale delle previsioni contenute all'articolo 6 del decreto legislativo (rivolte agli enti forniti di personalità giuridica, alle associazioni anche prive di personalità giuridica e alle società private concessionarie di un pubblico servizio) sia la natura dei servizi erogati.
L’Autorità nazionale anticorruzione richiede agli enti no-profit di dotarsi di un modello di organizzazione che preveda soprattutto l’individuazione delle aree a maggior rischio di compimento di reati e la previsione di idonee procedure per la formazione e l’attuazione delle decisioni dell’ente nelle attività definite «a maggior rischio» di compimento di reati.
Il modello deve contenere anche elementi illustrativi delle modalità di gestione delle risorse idonee a impedire la commissione dei reati, e inoltre la previsione di un appropriato sistema di trasmissione delle informazioni all’organismo di vigilanza.
La determinazione 32/2016 evidenzia per i soggetti no-profit anche l’obbligo di nominare l’organismo di vigilanza deputato al controllo sul funzionamento e sull’osservanza del modello e al suo aggiornamento (con autonomi poteri di iniziativa e di controllo); è necessario, poi, prevedere e attuare adeguate forme di controllo sull’operato dell’organismo stesso.
Le indicazioni dell’Autorità nazionale anticorruzione presentano rilevanti implicazioni sulla gestione degli affidamenti. Anzitutto, l’obbligo previsto nella determinazione risulta più forte rispetto alla la previsione dell’articolo 6 del decreto legislativo 231/2001, che prefigura l’adozione del modello organizzativo nei casi in cui l’ente voglia evitare di rispondere dei reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio da dirigenti e altri dipendenti, ma non ne impone l’utilizzo.
L’adozione del modello organizzativo-gestionale 231 sembra rientrare nel novero dei requisiti di capacità tecnico-professionale (articolo 42 del Codice dei contratti); va tuttavia specificato che in questo caso l’obbligatorietà verrebbe meno in quanto questi requisiti possono essere oggetto di scelta da parte delle stazioni appaltanti in relazione allo screening degli operatori economici.
Risulta più difficile ipotizzare che l’obbligo sia configurabile come requisito di ordine generale, poiché introdurrebbe un’integrazione all’articolo 38 per via non normativa.
La previsione contenuta nella determinazione 32/2016 sembra esplicarsi meglio nella definizione dell’obbligo tra i requisiti di esecuzione dell’appalto, ossia tra gli elementi che regolano la resa delle prestazioni e il correlato assetto organizzativo essenziale.
Per le stazioni appaltanti, specularmente, potrebbe prospettarsi la partecipazione alle gare per servizi sociali di un numero molto limitato di enti no-profit (quelli già dotati del modello organizzativo previsto dal decreto legislativo 231), con una riduzione dei margini di offerta: una riduzione che potrebbe avere conseguenze sotto il duplice profilo delle proposte tecnico-qualitative e di quelle economiche
(articolo Il Sole 24 Ore del 22.02.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI: Attuazione dell’art. 1, commi 65 e 67, della legge 23.12.2005, n. 266, per l’anno 2016 (delibera 22.12.2015 n. 163 - link a www.autoritalavoripubblici.it).
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Entità e modalità di versamento del contributo a favore dell'Autorità Nazionale Anticorruzione (A.N.AC.), per l'anno 2016.

QUESITI & PARERI

ENTI LOCALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Referendum solo ex ante. La consultazione deve precedere la decisione. Se la regione ha già deciso sull'istituzione di una Asl il quesito è tardivo.
È ammissibile una proposta di referendum comunale avente ad oggetto il passaggio dello stesso ente locale alla competenza di una istituenda Asl?

L'ordinamento italiano presta una peculiare attenzione alla partecipazione diretta del cittadino nella vita delle istituzioni locali. L'Italia, infatti, ha fatto propri i principi della Carta europea dell'autonomia locale a cui ha aderito sottoscrivendo la relativa convenzione, poi ratificata con la legge 30.12.1989, n. 439.
In particolare, l'articolo 3 della Carta, al comma 2, riconoscendo alle collettività locali il diritto di regolamentare ed amministrare, nell'ambito della legge, una parte importante di affari pubblici mediante consigli e assemblee costituiti da membri eletti a suffragio libero, segreto, paritario, diretto e universale, in grado di disporre di organi esecutivi responsabili nei loro confronti, ha precisato che «detta disposizione non pregiudica il ricorso alle assemblee di cittadini, al referendum, o ad ogni altra forma di partecipazione diretta dei cittadini qualora questa sia consentita dalla legge».
Gli istituti di partecipazione e gli organismi consultivi del cittadino trovano una loro concretizzazione nel dlgs n. 267/2000 e, indipendentemente dalla dimensione demografica dell'ente, fanno parte del contenuto necessario e non meramente facoltativo dello statuto. Un rinvio allo statuto è previsto dal comma 3 dell'art. 8 del citato dlgs. n. 267/2000 in merito alla previsione di forme di consultazione della popolazione, nonché alle procedure per l'ammissione di istanze, petizioni e proposte di cittadini singoli o associati dirette a promuovere interventi per la migliore tutela di interessi collettivi con la determinazione delle garanzie per il loro tempestivo esame. La norma dispone che «possono» essere, altresì, previsti referendum anche su richiesta di un adeguato numero di cittadini, che devono comunque riguardare materie di esclusiva competenza locale.
Il referendum, si configura, dunque, quale elemento meramente eventuale e facoltativo dello statuto comunale che una volta previsto deve essere compiutamente disciplinato dal regolamento. Rispetto alla normativa previgente è stata ampliata la valenza dell'istituto del referendum popolare, attualmente configurabile non più solo come consultivo, ma anche come abrogativo (di provvedimenti a carattere generale degli organi istituzionali e burocratici dell'ente), propositivo (per approvare proposte di atti avanzate dalla stessa amministrazione o da altri soggetti), confermativo, di indirizzo e oppositivo-sospensivo.
Come emerge dalla prevalente dottrina, il più volte citato Tuel nulla dice circa l'effetto dell'esito del referendum consultivo e gli statuti comunali tendono ad escludere che l'esito sia vincolante per l'amministrazione, preferendo precisare che l'ente locale possa discostarsi dallo stesso, con adeguata motivazione, al fine di tutelare la piena autonomia politica del consiglio. In tal senso, si è anche affermato che il potere statutario in materia resta ampio con riguardo all'oggetto del referendum (che è sufficiente che rientri tra le materie di competenza esclusiva dell'ente), alla determinazione del numero dei partecipanti per la sua validità e alla possibilità di prevedere effetti consequenziali per l'amministrazione locale legati all'esito del referendum, con il solo limite della conservazione del potere decisionale in capo agli organi di governo.
La giurisprudenza amministrativa, inoltre, ha affermato che «il referendum consultivo impone solo all'amministrazione che lo ha indetto di tener conto della volontà popolare, ma non esplica alcun effetto sull'azione amministrativa che ne è stata oggetto, né tanto meno su vicende successive o di altre amministrazioni, né la volontà popolare espressa con il referendum è idonea ad attribuire all'ente locale poteri estranei alla sfera di attribuzioni fissate con legge» (Tar Puglia, Bari, sez. II, 10.03.2003, n. 1098).
Nel caso di specie, lo statuto del comune disciplina l'istituto del referendum comunale su materie concernenti la sfera esclusiva di competenza comunale con talune eccezioni ben individuate, e prevede che «il consiglio comunale, entro un mese dallo svolgimento, deve deliberare prendendo atto dell'esito ed assumendo le determinazioni del caso».
Il regolamento comunale precisa che il referendum è a carattere consultivo, stabilisce che i referendum che possono essere dichiarati non ammissibili dal consiglio comunale sono solo ed esclusivamente quelli a carattere non consultivo e/o nelle materie elencate nelle disposizioni statutarie, e contiene una norma transitoria che, in relazione alla specifica iniziativa referendaria oggetto dell'odierno quesito, stabilisce delle prescrizioni tecniche in deroga al contenuto generale del medesimo provvedimento normativo.
In merito alla fattispecie in esame, occorre valutare se la materia oggetto di referendum rientri nella specifica competenza del consiglio comunale, come richiesto dalle norme dello Statuto. Ciò anche in considerazione del fatto che, con apposita legge, la regione competente ha già proceduto all'accorpamento delle aziende unità sanitarie locali, confermando l'istituzione della Conferenza regionale dei sindaci -già disciplinata da precedente normativa regionale e composta dai presidenti delle conferenze zonali dei sindaci, ove partecipano tutti i sindaci dell'ambito territoriale- quale organo attraverso cui tali soggetti contribuiscono, tra l'altro, alla definizione delle politiche regionali in materia sanitaria e sociale. L'ente, pertanto, attraverso i predetti organi, costituiti con legge regionale, era in condizione di poter esprimere le proprie posizioni in materia.
Ciò posto, considerato che la regione ha già provveduto a legiferare sulla materia, l'iniziativa non pare ammissibile alla luce anche delle pronunce del Consiglio di stato, secondo cui «le consultazioni costituiscono strumento di partecipazione popolare all'elaborazione delle scelte amministrative, non strumento di verifica a posteriori da parte dei cittadini di scelte già definite con formali provvedimenti amministrativi. L'attività consultiva, per propria natura, deve precedere l'attività decisionale, non seguirla» (articolo ItaliaOggi del 26.02.2016).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: chiarimenti su onerosità per interventi di ristrutturazione edilizia attinenti ai prospetti (Regione Emilia Romagna, parere 22.02.2016 n. 113406 di prot.).

CONSIGLIERI COMUNALI: Utilizzo del simbolo della lista da parte dei gruppi consiliari.
Nel caso di uscita di un componente dal gruppo originario e suo inserimento nel gruppo misto, si ritiene che lo stesso non possa mantenere nome e simbolo del gruppo che ha abbandonato, il quale ne resta titolare.
Il Consigliere comunale chiede un parere in merito a chi spetti la conservazione del simbolo di un gruppo consiliare
[1] composto da due consiglieri, qualora uno di essi abbandoni il gruppo di originaria appartenenza per confluire nel costituendo gruppo misto.
Sentito il Servizio Consiglio autonomie locali ed elettorale, si formulano le seguenti considerazioni.
In linea generale, si osserva che la gestione dell'articolazione e del funzionamento dei gruppi consiliari rientra nell'ambito della più ampia autonomia funzionale ed organizzativa di cui i consigli sono dotati ai sensi dell'articolo 38 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267.
La norma si limita a definire per linee generali l'esistenza di tali aggregazioni di carattere politico all'interno del consiglio comunale, lasciando alla normativa interna di dettaglio la piena discrezionalità in ordine alla disciplina della loro articolazione e delle vicende iniziali e di quelle successive che caratterizzeranno la loro esistenza nel corso del mandato.
Con riferimento alla fattispecie in esame, consistente nell''uscita' di un componente dal gruppo originario e suo inserimento nel gruppo misto, si ritiene che lo stesso non possa mantenere nome e simbolo del gruppo che ha abbandonato, il quale ne resta titolare.
[2]
Non si reputa, altresì, utile, come prospettato dal consigliere, fare ricorso, in via interpretativa, alla norma regolamentare riguardante la modificazione della denominazione da parte di un gruppo consiliare nel corso del mandato amministrativo,
[3] atteso che la stessa pare non adattabile al caso in esame concernente la diversa ipotesi di costituzione di un gruppo misto il quale assumerà, necessariamente, la relativa denominazione.
Con riguardo, più propriamente, all'utilizzazione del simbolo corrispondente alla lista presentata alle elezioni da parte del consigliere uscito dal gruppo di originaria appartenenza, premesso che non risulta possibile l'utilizzo del medesimo simbolo da parte di due distinti gruppi consiliari, e considerato che il gruppo misto è quello in cui confluiscono tutti i consiglieri che non si identificano in alcun gruppo costituito ovvero che non possono costituire un proprio gruppo per mancanza delle condizioni previste dalla normativa dell'Ente, deriva l'oggettiva impossibilità per il consigliere costituente il gruppo misto di avvalersi del simbolo della lista con cui si era presentato alle elezioni a indicazione del gruppo misto di nuova appartenenza.
Da ultimo, quanto alla proposta avanzata dal consigliere concernente l'introduzione in sede regolamentare di disposizioni più specifiche volte a dirimere ipotesi particolari quale quella verificatasi nel caso in esame, si osserva che la fonte deputata a contenere la disciplina dei gruppi consiliari è, in linea di principio, il regolamento del Consiglio comunale. Nel contempo, sembra che il livello di dettaglio consentito a detta fonte debba comunque tenere in considerazione il grado di autonomia dei gruppi consiliari stessi. La disciplina relativa ai gruppi consiliari, per quanto concerne le questioni 'interne' al gruppo stesso, è infatti rimessa all'autonoma regolazione da parte del gruppo (tra queste pare possa farsi rientrare l'individuazione della denominazione del gruppo e del proprio simbolo di riferimento).
Atteso un tanto, e considerata l'impossibilità di porre una disciplina specifica per tutte le possibili situazioni riguardanti i gruppi consiliari, risulta necessario valutare l'opportunità di inserire, nel regolamento consiliare dell'Ente, disposizioni di eccessivo dettaglio, che non sarebbero comunque idonee a contemplare ogni fattispecie potenzialmente realizzabile, sembrando a tal fine di maggiore utilità la determinazione di norme regolamentari di principio la cui applicazione garantisca il funzionamento del Consiglio comunale. Tanto più che, nel caso in esame, la situazione concreta venutasi a realizzare non necessita di un intervento sulle norme regolamentari esistenti, potendosi addivenire ad una soluzione della questione sorta sulla base dei principi generali sopra esposti.
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[1] Tale simbolo è quello della lista presentata alle elezioni.
[2] In questo senso si veda parere dell'ANCI del 04.03.2011. Nello stesso senso si è, espresso questo Ufficio nel parere del 07.03.2007 (prot. n. 3758/1.3.16).
[3] Recita l'articolo 8, comma 6, del regolamento del consiglio comunale: 'Un gruppo consiliare -tramite il proprio Capo gruppo- può modificare la propria denominazione durante il corso del mandato amministrativo, purché i componenti del nuovo gruppo facciano riferimento allo stesso candidato sindaco ed la suo programma elettorale depositato prima delle elezioni amministrative. Dalla data di modificazione del nuovo gruppo, vengono a cessare i Capi gruppo consiliari confluenti nel gruppo di nuova denominazione ed i componenti del nuovo gruppo procederanno alla designazione del nuovo Capo gruppo. L'eventuale cambio di denominazione deve essere sollecitamente comunicato al Segretario comunale, al Sindaco, al Presidente del Consiglio ed ai capigruppo consiliari, per opportuna conoscenza e per consentire gli eventuali adempimenti amministrativi che si rendessero necessari'
(19.02.2016 -
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CONSIGLIERI COMUNALI: Esercizio del diritto di accesso agli atti dei consiglieri comunali.
Il diritto all'informazione riconosciuto ai consiglieri comunali per l'utile espletamento del loro mandato soggiace al rispetto di alcune forme e modalità tese ad evitare che l'attività degli uffici venga manifestamente ostacolata da domande che si convertono in un eccessivo e minuzioso controllo dei singoli atti da parte degli amministratori o, comunque, in richieste che arrechino nocumento all'azione amministrativa.
Il Comune chiede un parere in merito alle modalità con cui consentire ad un consigliere comunale l'accesso agli atti. In particolare, l'amministratore locale ha chiesto copia in formato digitale di tutti i verbali del consiglio comunale di una serie di annate pregresse.
Sentito il Servizio Consiglio autonomie locali ed elettorale si formulano le seguenti considerazioni.
L'articolo 43, comma 2, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 riconosce in modo puntuale ai consiglieri comunali il diritto di ottenere dagli uffici del comune tutte le notizie e le informazioni in loro possesso utili all'espletamento del proprio mandato.
Si osserva, in via generale, che la giurisprudenza ha costantemente sottolineato che le informazioni acquisibili debbano considerare l'esercizio, in tutte le sue potenziali esplicazioni, del munus di cui ciascun consigliere comunale è individualmente investito, in quanto membro del consiglio. Ne deriva che tale munus comprende la possibilità per ogni consigliere di compiere, attraverso la visione dei provvedimenti adottati e l'acquisizione di informazioni, una compiuta valutazione della correttezza e dell'efficacia dell'operato dell'amministrazione comunale, utile non solo per poter esprimere un voto maggiormente consapevole sugli affari di competenza del consiglio, ma anche per promuovere, nell'ambito del consiglio stesso, le varie iniziative consentite dall'ordinamento ai membri di quel collegio.
[1]
Tale diritto incontra, comunque, il divieto di usare i documenti per fini privati o comunque diversi da quelli istituzionali. I dati acquisiti in virtù della carica ricoperta devono, infatti, essere utilizzati esclusivamente per le finalità collegate all'esercizio del mandato (presentazione di mozioni, interpellanze, espletamento di attività di controllo politico-amministrativo, ecc.).
Sul consigliere comunale, inoltre, non può gravare alcun onere di motivare le proprie richieste di informazione, né gli uffici comunali hanno titolo a richiedere le specifiche ragioni sottese all'istanza di accesso, né a compiere alcuna valutazione circa l'effettiva utilità della documentazione richiesta ai fini dell'esercizio del mandato. Infatti, secondo la giurisprudenza, diversamente opinando, la struttura burocratica comunale si ergerebbe ad 'arbitro' delle forme di esercizio delle potestà pubbliche proprie dell'organo (consiglio comunale) deputato all'individuazione ed al miglior perseguimento dei fini della collettività civica.
[2]
Come affermato dalla giurisprudenza, gli unici limiti a tale diritto di accesso sono da rinvenire: 'a) nella formalità, minima, dell'esatta indicazione dei documenti richiesti, dei quali, ancorché non sia necessaria la menzione degli estremi identificativi precisi, occorre peraltro fornire almeno gli elementi identificativi;
[3] b) nel fatto che tale diritto, pur essendo più ampio di quello riconosciuto alla generalità dei cittadini ai sensi degli artt. 22 ss., l. 07.08.1990 n. 241, non solo non può essere emulativo ma neppure incondizionato e comunque fondato su richieste generiche e indiscriminate, ma soggiace alle limitazioni derivanti dalla molteplicità dei servizi che il Comune deve assicurare agli amministrati e dal rispetto degli impegni di contenimento delle spese generali di gestione dell'ente'. [4]
Sulla stessa linea si è espresso il Consiglio di Stato anche in altre pronunce,
[5] ove ha sottolineato la necessità che le istanze di accesso del consigliere siano soggette al rispetto di alcune formalità e modalità. Afferma il Supremo giudice amministrativo: 'In effetti, oltre alla necessità che l'interessato alleghi la sua qualità, permane l'esigenza che le istanze siano comunque formulate in maniera specifica e dettagliata, recando l'esatta indicazione degli estremi identificativi degli atti e dei documenti o, qualora siano ignoti tali estremi, almeno degli elementi che consentano l'individuazione dell'oggetto dell'accesso (tra le molte Cons. Stato, Sez. V, 13.11.2002, n. 6293). Tali cautele derivano dall'esigenza che il consigliere comunale non abusi, infatti del diritto all'informazione riconosciutogli dall'ordinamento, piegandone le alte finalità a scopi meramente emulativi od aggravando eccessivamente, con richieste non contenute entro immanenti limiti della proporzionalità e della ragionevolezza, la corretta funzionalità amministrativa dell'ente civico'.
In altri termini, la giurisprudenza ha precisato come il diritto all'informazione riconosciuto ai consiglieri comunali per l'utile espletamento del loro mandato soggiace al rispetto di alcune forme e modalità tese ad evitare che l'attività degli uffici venga manifestamente ostacolata da domande che si convertono in un eccessivo e minuzioso controllo dei singoli atti da parte degli amministratori o, comunque, in richieste che arrechino nocumento all'azione amministrativa. 'Invero, l'articolo 43 del D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, che detta una particolare modalità di accesso agli atti per il consigliere comunale, ai fini dell'esercizio del mandato di cui è attributario, non può essere utilizzato per porre in essere strategie ostruzionistiche o di paralisi dell'attività amministrativa con istanze che, a causa della loro continuità e numerosità, potrebbero determinare un aggravio notevole del lavoro negli uffici ai quali sono rivolte'.
[6]
Con riferimento specifico alla situazione posta si rileva, altresì, che la giurisprudenza
[7] ha precisato che va ritenuta astrattamente ammissibile anche la richiesta di ostensione di atti e documenti relativi a procedimenti ormai conclusi o risalenti ad epoche remote, non potendosi escludere a priori il verificarsi di situazioni in cui i consiglieri comunali possano avere l'esigenza di conoscere approfonditamente pregresse vicende gestionali dell'ente locale, nel quale espletano il loro mandato.
Da quanto sopra esposto, riconosciuto, da un lato, il diritto del consigliere a prendere visione ed estrarre copia degli atti richiesti (purché -si ribadisce- la richiesta di accesso sia contenuta entro gli immanenti limiti della proporzionalità e della ragionevolezza) e, dall'altro, quello dell'amministrazione a non subire un eccessivo aggravio alla corretta funzionalità dei propri uffici, si ritiene che l'amministrazione comunale possa concordare con il richiedente le modalità più consone per garantire il soddisfacimento dell'istanza di accesso.
A tale riguardo, la visione degli atti da parte del richiedente potrebbe essere prodromica alla indicazione da parte dello stesso degli atti selezionati e ritenuti rilevanti, fra quelli visionati, ai fini dell'estrazione della copia. Qualora, invece, l'amministratore locale avesse necessità di ottenere la totalità dei verbali afferenti le annualità segnalate, si rammenta che, qualora la documentazione richiesta sia particolarmente copiosa è dato all'amministrazione locale 'dilazionare opportunamente nel tempo il rilascio delle copie richieste, al fine di contemperare tale adempimento straordinario con l'esigenza di assicurare l'adempimento dell'attività ordinaria'.
[8]
Quanto, poi, al fatto di fornire la documentazione su supporto informatico invece che cartaceo la Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi,
[9] con riferimento alla possibilità di avere copia di documenti in formato digitale avanzata da un cittadino, ha affermato che: 'L'Amministrazione ha discrezionalità nel determinare [...] le modalità dell'esercizio del diritto di accesso qualora siano finalizzate ad agevolare e semplificare le operazioni di visione e/o di rilascio di copia dei documenti richiesti. L'art. 13 del d.P.R. n. 184/2006 prevede, inoltre, che le pubbliche amministrazioni 'assicurano che il diritto di accesso possa essere esercitato in via telematica'. Ovviamente questa è una possibilità e non un obbligo per la P.A. alla quale spetta la competenza regolamentare di disciplinare il diritto di accesso secondo modalità che non pregiudichino o appesantiscano l'ordinaria attività amministrativa. [...]'. [10]
Da ultimo si ricorda la possibilità per l'Ente locale, nell'ambito della propria autonomia, di disciplinare con regolamento le modalità di esercizio del diritto di accesso da parte dei consiglieri comunali, in modo tale da conciliare le prerogative agli stessi spettanti con l'esigenza dell'amministrazione al regolare svolgimento della propria attività.
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[1] Cfr. Consiglio di Stato, sez. V, sentenze 21.02.1994, n. 119, 08.09.1994, n. 976, 26.09.2000, n. 5109, che precisano che la facoltà di esaminare ed estrarre copia dei documenti da parte del consigliere spetta 'a qualunque cittadino che vanti un proprio interesse qualificato e sono, a maggior ragione, contenute nella più ampia e qualificata posizione di pretesa all'informazione spettante ratione officii al consigliere comunale'. Tale principio è stato, successivamente, ripreso e confermato dal TAR Piemonte, Sez. II, nella sentenza del 31.07.2009, n. 2128. Di recente il TAR Calabria, Catanzaro, sez. II, nella sentenza del 13.02.2015, n. 294 ha esplicitato ulteriormente il principio di cui sopra. Si legge nell'indicata sentenza che: 'La normativa delineata dal successivo D.Lgs. 18.08.2000, n. 267 ha inteso rafforzare i compiti di indirizzo e controllo politico amministrativo, da parte del consiglio comunale e dei singoli consiglieri, collocandosi in un contesto giuridico caratterizzato dall'affievolimento del controllo da parte di organi statali e regionali, dalla previsione di poteri più incisivi in capo agli esecutivi comunali nonché dalla distinzione dei compiti e responsabilità fra amministrazioni e dirigenti locali.
In tale prospettiva, il diritto-dovere del consigliere dell'ente locale di partecipare alla vita politico-amministrativa, in funzione anche del perseguimento fattuale dell'ordinato e corretto svolgersi delle sedute consiliari e del rispetto della legalità di ogni fase procedurale delle riunioni del Consiglio Comunale, trova un particolare punto di riferimento nell'art. 43, comma 2, del D.Lgs. 18.08.2000 n. 267 [...] Dal riconoscimento, in capo al consigliere comunale, della titolarità di un diritto 'soggettivo pubblico funzionalizzato' all'accesso agli atti 'muneris causa', discende l'assenza dell'onere della motivazione e l'esclusione della possibilità, da parte della P.A., di sindacare il collegamento tra i documenti chiesti in ostensione ed il mandato consiliare, per tutto il tempo in cui la P.A. continua a detenere detti documenti'.
[2] Così Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 02.09.2005, n. 4471. Cfr. anche Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 20.10.2005, n. 5879 e, più di recente, TAR Calabria, Catanzaro, sez. II, sentenza 294/2015 citata in nota 1.
[3] Circa la necessità che le istanze di accesso del consigliere 'siano comunque formulate in maniera specifica e dettagliata, recando l'esatta indicazione degli estremi identificativi degli atti e dei documenti o, qualora siano ignoti tali estremi, almeno degli elementi che consentano l'individuazione dell'oggetto dell'accesso' si è espresso di recente il Consiglio di Stato, sez. V, nella sentenza dell'11.02.2014, n. 648, la quale richiama, a propria volta, la sentenza del medesimo giudice, sez. V, del 13.11.2002, n. 6293.
[4] TAR Piemonte, sez. II, sentenza del 31.07.2009, n. 2128.
[5] Consiglio di Stato, sez. V, sentenza dell'11.12.2013, n. 5931, richiamata da Consiglio di Stato, sez. V, sentenza dell'11.02.2014, n. 648.
[6] TAR Calabria, Catanzaro, sentenza 294/2015, sopra citata.
[7] Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 02.09.2005, n. 4471.
[8] Così Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, parere del 17.01.2012. Per completezza espositiva si ritiene utile riportare l'intero testo del parere citato. Esso recita: 'L'accesso ai documenti deve essere concesso nei tempi più celeri e ragionevoli possibili in modo tale da consentire il concreto espletamento del mandato da parte del Consigliere ex art. 43 TUEL, fatti salvi i casi di abuso del diritto all'informazione, attuato con richieste non contenute entro i limiti della proporzionalità e della ragionevolezza e che determinino un ingiustificato aggravio dell'ente. È necessario che il Comune garantisca l'accesso al consigliere comunale nell'immediatezza, e comunque nei tempi più celeri e ragionevoli possibili (soprattutto nei casi di procedimenti urgenti o che richiedano l'espletamento delle funzioni politiche). Qualora l'accesso non possa essere garantito subito (per eccessiva gravosità della richiesta), rientrerà nelle facoltà del responsabile del procedimento dilazionare opportunamente nel tempo il rilascio delle copie, ferma restando la facoltà del consigliere comunale di prendere visione, nel frattempo, di quanto richiesto negli orari stabiliti presso gli uffici comunali competenti, anche con mezzi informatici'.
[9] Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, parere del 13.04.2010. Sulla legittimità del rilascio di documenti su supporti informatici si è espresso favorevolmente anche il Ministero dell'Interno con parere del 28.04.2015.
[10] Si ricorda, inoltre, che l'articolo 2, comma 1, del decreto legislativo 07.03.2005, n. 82 (Codice dell'amministrazione digitale) afferma che '[...] le autonomie locali assicurano la disponibilità, la gestione, l'accesso, la trasmissione, la conservazione e la fruibilità dell'informazione in modalità digitale e si organizzano ed agiscono a tale fine utilizzando con le modalità più appropriate le tecnologie dell'informazione e della comunicazione'
(19.02.2016 -
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CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Quorum, vince lo statuto. In caso di contrasto con il regolamento. Cosa accade se le due fonti prevedono numeri diversi per le sedute.
Qual è la normativa da applicare, in ordine alla definizione del quorum strutturale stabilito per la validità delle sedute del consiglio comunale, in caso di contrasto tra previsione statutaria e norma regolamentare?

L'art. 38, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000, demanda al regolamento comunale, «nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto», la determinazione del «numero dei consiglieri necessario per la validità delle sedute», con il limite che tale numero non può, in ogni caso, scendere sotto la soglia del «terzo dei consiglieri assegnati per legge all'ente, senza computare a tale fine il sindaco e il presidente della provincia»; quest'ultimo assunto deve essere inteso nel senso che, limitatamente al computo del «terzo» dei consiglieri, il sindaco deve essere escluso.
Nel caso di specie è stato rilevato un contrasto tra la previsione recata dallo statuto comunale e la disciplina prevista dal regolamento sul funzionamento del consiglio dell' ente locale.
La prima delle due fonti normative, infatti, prevede, in prima convocazione, la presenza della maggioranza assoluta dei consiglieri assegnati al fine della validità delle sedute e, in seconda convocazione, la presenza di almeno sei consiglieri, non computando il sindaco. Ai sensi della norma regolamentare è, invece, previsto che, per la validità delle sedute di seconda convocazione, sia necessaria la presenza di almeno un terzo dei consiglieri assegnati su un totale di 12 consiglieri oltre al sindaco.
Secondo il principio della gerarchia delle fonti, conformemente anche all'articolo 7 del citato Tuel, che disciplina l'adozione dei regolamenti comunali «nel rispetto dei principi fissati dalla legge e dallo statuto» (cfr. sentenza Tar Lombardia, Brescia, n. 2625 del 28.12.2009, Tar Lazio, n. 497 del 2011), la citata disposizione regolamentare dovrebbe essere disapplicata, prevalendo la norma statutaria.
È, tuttavia, opportuno comporre la discrasia evidenziata; l'ente dovrà, pertanto, porre in essere un intervento correttivo volto ad armonizzare le previsioni recate dalle citate fonti di autonomia locale (articolo ItaliaOggi del 19.02.2016).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Voto del vicesindaco.
È legittima una delibera di consiglio comunale adottata con il voto espresso anche dal vicesindaco dell'ente?

Il Consiglio di stato, con parere n. 94/96 del 21.02.1996, ha escluso che nel novero dei poteri vicari del vicesindaco rientri l'esercizio delle funzioni di componente del consiglio con diritto di voto.
Nel caso di specie, la deliberazione consiliare in questione sarebbe stata approvata anche senza computare il voto espresso dal vicesindaco, pertanto occorre valutare se sia opportuno provvedere al ritiro della stessa, ove fosse inficiata da vizi di legittimità.
In merito il Consiglio di stato, V sezione, con sentenza n. 1564 del 2005, con riferimento alla circostanza che la delibera adottata sopravviva alla cosiddetta «prova di resistenza», ha affermato che una giusta composizione tra l'esigenza di reintegrare la legittimità violata nel corso delle operazioni di voto e quella di salvaguardare la volontà espressa dall'organo deliberante non consente di pronunciare l'annullamento degli atti impugnati e dei voti così espressi, se la loro illegittimità non influisca in concreto sull'esito della deliberazione.
Circa il superamento della «prova di resistenza», questa è del tutto irrilevante quando la controversia sia riferita alla violazione degli obblighi di astensione gravanti sugli amministratori locali ai sensi della vigente normativa in materia (cfr. Consiglio di stato sez. IV 20/12/2013 n. 6177).
Nella fattispecie in esame, potrebbe farsi ricorso all'istituto della convalida amministrativa grazie al quale, qualora si sia in presenza di un atto annullabile, la pubblica amministrazione, in virtù del principio di conservazione degli atti giuridici, può decidere di mantenere in vita tale atto, rimuovendo i vizi che lo inficiano attraverso l'espressione di una manifestazione di volontà finalizzata a eliminare il vizio ravvisato.
Infatti, la convalida si sostanzia in una nuova e autonoma manifestazione di volontà che, collegandosi all'atto originario, ne mantiene gli effetti fin dal momento in cui esso venne emanato.
La legge n. 15 del 2005 ha modificato la legge n. 241 del 1990, introducendo l'art. 21-nonies che, al comma 2, prevede la possibilità di convalida del provvedimento annullabile, entro un termine ragionevole, nel caso in cui ne sussistano le ragioni di pubblico interesse (articolo ItaliaOggi del 19.02.2016).

PUBBLICO IMPIEGO: OGGETTO: Articolo 1, comma 972, della legge 28.12.2015, n. 208 (legge di stabilità 2016) (Ministero dell'Economia e delle Finanze, Ragioneria Generale dello Stato, nota 27.01.2016 n. 6418 di prot.).
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Chiarimenti in merito alla spettanza agli addetti del Corpo di polizia Locale del contributo straordinario previsto dall'articolo 1, comma 972, della legge 28.12.2015, n. 208 (legge di stabilità 2016).

CORTE DEI CONTI

LAVORI PUBBLICI: Sulla possibilità, in base alla normativa vigente, di prevedere in un regolamento comunale ad hoc, la compensazione dei debiti avanzati da terzi consentendo a tali terzi di essere autorizzati ad eseguire opere pubbliche per l'intero importo del debito comprensivo degli interessi maturati, previa apposita progettazione interamente comunale, senza l'espletamento delle procedure ad evidenza pubblica trattandosi di compensazione (art. 7, comma 8, Legge 05.06.2003 n. 131).
La Sezione risponde negativamente al quesito sottoposto, atteso che il D.Lgs. n. 163/2006 impone alle “amministrazioni aggiudicatrici”, come definite all’art. 3, comma 25, del medesimo decreto, e con esclusione delle sole ipotesi tassativamente previste in via d’eccezione, di osservare le regole della c.d. evidenza pubblica per la conclusione di contratti aventi per oggetto l'acquisizione di servizi, prodotti, lavori e opere.
La natura assolutamente inderogabile della citata normativa rende pertanto del tutto impraticabile qualunque comportamento che di fatto ne realizzi una sostanziale elusione. Il contratto concluso senza l’osservanza delle prescritte procedure di legge sarebbe dunque affetto da nullità per violazione di norma imperativa, ex art. 1418, comma 1, Cod. civ., oltre a determinare l’emersione in capo agli autori di tali condotte delle connesse ipotizzabili responsabilità, primariamente di carattere amministrativo.
D’altro canto, l’istituto della compensazione tra debiti (o crediti) -quale modo di estinzione dell’obbligazione alternativo all’adempimento- non potrebbe trovare operatività nel caso di specie, essendo solo uno esistente, mentre l’altro (quello dell’appaltatore nei confronti del committente) futuro e peraltro del tutto eventuale, venendo ad esistenza unicamente a seguito della integrale e soddisfacente realizzazione dell’opera.
Infatti, ai sensi dell’art. 1242, comma 1, primo periodo, c.c. la compensazione opera tra crediti reciproci omogenei, liquidi ed esigibili, esclusivamente dal momento in cui i rapporti vengono a coesistere.

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Il Sindaco del Comune di Pozzilli (IS), con nota n. 74 del 05.01.2016, registrata in data 07.01.2016 al protocollo di questa Sezione n. 3-07/01/2016-SC_MOL-T79-A, ha inviato una richiesta di parere in merito alla possibilità, in base alla normativa vigente, di prevedere, in un regolamento comunale ad hoc, la compensazione dei debiti di cui terzi risultano titolari, consentendo a tali terzi di essere autorizzati ad eseguire opere pubbliche per l’intero importo del debito comprensivo degli interessi maturati, previa apposita progettazione comunale, senza l’espletamento delle procedure ad evidenza pubblica trattandosi di compensazione.
...
Com’è noto il D.Lgs. 12/04/2006, n. 163 (“Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE”) impone alle “amministrazioni aggiudicatrici”, come definite all’art. 3, comma 25, del medesimo decreto, e con esclusione delle sole ipotesi tassativamente previste in via d’eccezione, di osservare le regole della c.d. evidenza pubblica per la conclusione di contratti aventi per oggetto l'acquisizione di servizi, prodotti, lavori e opere.
La natura assolutamente inderogabile della citata normativa rende pertanto del tutto impraticabile qualunque comportamento che di fatto ne realizzi una sostanziale elusione. Il contratto concluso senza l’osservanza delle prescritte procedure di legge sarebbe dunque affetto da nullità per violazione di norma imperativa, ex art. 1418, comma 1, cod. civ., oltre a determinare l’emersione in capo agli autori di tali condotte delle connesse ipotizzabili responsabilità, primariamente di carattere amministrativo.
D’altro canto, appare tanto meno plausibile la giustificazione addotta dall’Ente al fine di soprassedere allo svolgimento di regolare gara pubblica, non potendo nel caso di specie trovare operatività l’istituto della compensazione tra debiti (o crediti) di cui solo uno esistente, essendo l’altro futuro e peraltro del tutto eventuale.
Invero, com’è noto, ai sensi dell’art. 1242, comma 1, primo periodo, c.c. la compensazione, quale modo di estinzione dell’obbligazione alternativo all’adempimento, opera tra crediti reciproci omogenei, liquidi ed esigibili, esclusivamente dal momento in cui i rapporti vengono a coesistere.
Ne deriva che tale istituto non potrebbe –neppure in ipotesi– trovare applicazione nel caso in questione, in quanto uno dei due crediti (quello dell’appaltatore nei confronti del committente) oltre ad essere futuro risulta di verificazione del tutto eventuale, venendo ad esistenza unicamente a seguito della integrale e soddisfacente realizzazione dell’opera.
Alla luce delle considerazioni svolte, il Collegio conclude pertanto rispondendo negativamente al quesito sottoposto
(Corte dei Conti, Sez. controllo Molise, parere 21.01.2016 n. 12).

TRIBUTI: Tributi locali, blocco assoluto. Congelati il contributo di sbarco e l'imposta di soggiorno. I paletti della Corte conti Abruzzo: vietato anche ridurre le agevolazioni ai contribuenti.
Nessuno spiraglio per superare il blocco dei tributi locali.
Ai dubbi e alle incertezze sollevati dalle amministrazioni locali sui limiti che la legge di stabilità 2016 ha fissato agli aumenti di aliquote e tariffe, ha dato una risposta chiara la Corte dei conti, sezione regionale di controllo per l'Abruzzo, con il parere 09.02.2016 n. 35, il quale ha affermato che non esistono margini di manovra per effettuare delle scelte di politica fiscale che possano comportare un aumento della tassazione.
Al di là della formulazione letterale della norma che si limita a imporre la sospensione degli aumenti, per i giudici contabili la ratio legis è quella di porre un freno all'innalzamento della pressione fiscale a livello locale. Non rientra nel blocco solo ciò che è espressamente escluso, come la Tari. Soni esonerati dal vincolo anche gli enti locali che si trovano in uno stato di dissesto o predissesto.
In queste settimane sono stati manifestati dei dubbi da funzionari e dirigenti degli enti locali sui limiti del blocco. In particolare, se è impedito istituire nuovi tributi (imposta di soggiorno, imposta di scopo), se è impossibile rimodulare le aliquote deliberate per l'addizionale Irpef rapportate ai vari scaglioni di reddito o fissare tariffe più elevate rispetto al 2015 per il nuovo contributo di sbarco, sostitutivo dell'imposta di sbarco, tenuto conto che è stato previsto proprio da una disposizione di legge a partire dal 2016.
Secondo i giudici contabili, che richiamano precedenti pareri espressi in passato, unico obbiettivo dello stop all'aumento di imposte e tasse negli enti locali è quello di contenere il livello della pressione fiscale. Il blocco per il 2016 non è però limitato solo al contenimento di aliquote e tariffe, ma impedisce anche l'istituzione di nuovi tributi. Non va dato rilievo alla differenza terminologica tra «aumento» e «istituzione», poiché ciò che conta è che rimanga invariato il carico fiscale sui contribuenti, siano essi residenti o meno nel territorio comunale.
Ecco perché non è consentito istituire neppure l'imposta di soggiorno, ancorché siano soggetti al prelievo solo i non residenti. Allo stesso modo non è possibile ridurre le agevolazioni già concesse ai contribuenti. Sono escluse dal blocco la Tari, il cui gettito serve a coprire integralmente il costo del servizio di smaltimento rifiuti, e tutte le entrate che hanno natura patrimoniale, come il canone occupazione spazi e aree pubbliche, il canone idrico e via dicendo. Non sono soggetti al vincolo gli enti che hanno deliberato il predissesto o il dissesto.
L'articolo 1, comma 26, della legge di stabilità 2016 (208/2015), dunque, non consente di introdurre nuovi tributi o aumenti di aliquote e tariffe, anche se le relative delibere sono state adottate prima dell'entrata in vigore della norma (1° gennaio). Peraltro, non solo è impossibile ritoccare in aumento aliquote o tariffe, ma è anche impedito che possano essere aboliti benefici già deliberati dagli enti (aliquote agevolate, riduzioni, detrazioni), che comunque inciderebbero sul carico fiscale e darebbero luogo a un innalzamento della tassazione.
Tuttavia, questi vincoli non producono effetti per le entrate che hanno natura patrimoniale o extratributaria. Al riguardo, vi sono delle incertezze sulle entrate che devono sottostare al divieto imposto dalla legge e questo dipende anche dalla loro controversa natura. Va ricordato che il canone per l'occupazione di spazi e aree pubbliche (Cosap) ha natura patrimoniale. Sono entrate patrimoniali anche il canone idrico e il canone depurazione.
Non è ammesso l'aumento delle tariffe, invece, per il canone installazione mezzi pubblicitari (Cimp) che, nonostante la trasformazione da imposta a canone eventualmente operata dall'amministrazione comunale, mantiene la sua natura tributaria. Soggiace al blocco anche il diritto sulle pubbliche affissioni, ancorché non sia mai stata del tutto pacifica la sua natura giuridica (articolo ItaliaOggi del 26.02.2016).

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APPALTI: Acquisti centralizzati con tre soglie. Scelte autonome fino a 150mila euro per i lavori e a 40mila euro per beni e servizi.
Spending. La bozza di decreto legislativo di attuazione del nuovo Codice appalti cambia ancora una volta le regole da seguire.

La centralizzazione degli acquisti di beni e servizi cambia volto, con un assetto su tre livelli, e si correla con la qualificazione delle stazioni appaltanti.
Il nuovo Codice degli appalti e delle concessioni assorbe nel suo quadro normativo la disciplina dei modelli di aggregazione per le acquisizioni di servizi, forniture e lavori, definendo gli spazi di intervento delle singole amministrazioni, delle centrali di committenza su base locale e dei soggetti aggregatori.
Le disposizioni contenute nello schema di decreto legislativo, che sarà varato dal Consiglio dei ministri nei prossimi giorni, individuano un primo livello, rapportato alla soglia dei 40mila euro per i beni e i servizi e alla soglia dei 150mila euro per i lavori, nell’ambito del quale le amministrazioni aggiudicatrici possono operare autonomamente, senza necessità di qualificazione, rispettando gli obblighi di utilizzo degli strumenti elettronici (Mepa e piattaforme telematiche).
Lo stesso margine di operatività in autonomia è garantito in relazione all’utilizzo degli strumenti di acquisto (ad esempio convenzioni e accordi quadro) messi a disposizione dai soggetti aggregatori (Consip, centrali di committenza regionali, alcune città metropolitane e province).
Per effettuare acquisti di importo superiore alle due soglie, le amministrazioni devono ottenere, come stazioni appaltanti, la qualificazione, che ne dimostri le capacità organizzative e funzionali a gestire appalti di maggiore rilievo.
Nella fascia di valore compresa per i beni e servizi tra i 40mila euro e la soglia comunitaria (attualmente 209mila euro), nonché per i lavori tra i 150mila euro e un milione di euro, le stazioni appaltanti dotate di adeguata qualificazione sviluppano le procedure utilizzando le piattaforme telematiche messe a disposizione dalle centrali di committenza qualificate e, solo in caso di indisponibilità dell’infrastruttura informatica, svolgono la procedura in modo tradizionale.
In tale fascia di valore i Comuni non capoluogo sono tenuti a ricorrere a centrali di committenza o a soggetti aggregatori qualificati, oppure a unioni di Comuni già costituite e operanti come centrali di committenza già qualificate.
Spetterà a un Dpcm definire i criteri e le modalità per la costituzione delle centrali di committenza, in forma di aggregazione di Comuni non capoluogo, nonché individuare gli ambiti territoriali di riferimento in applicazione dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza.
In ogni caso le amministrazioni potranno fare ricorso a centrali di committenza qualificate, le quali possono svolgere attività ausiliarie a favore di altre centrali di committenza o di stazioni appaltanti.
Le disposizioni introducono anche la possibilità di appalti congiunti (recependo la novità contenuta nelle direttive comunitarie), ma questi possono essere realizzati solo da stazioni appaltanti qualificate, potendo peraltro le stesse cumulare le loro qualificazioni in relazione al valore dell’appalto.
Proprio la qualificazione assume rilievo nel sistema complessivo: il nuovo Codice delinea i criteri in base ai quali potrà essere ottenuta dalle amministrazioni, demandando all’Anac la gestione del procedimento.
Tra gli elementi che le amministrazioni devono possedere, rilevano la presenza di un’organizzazione stabile che si occupi di programmazione, affidamento e esecuzione degli appalti, un sistema di formazione e di aggiornamento dei dipendenti impegnati nella gestione delle gare, nonché il numero e il valore delle procedure svolte nell’ultimo triennio
(articolo Il Sole 24 Ore del 29.02.2016).

PUBBLICI DIPENDENTI - VARI: Come richiedere, ottenere e gestire i Pin dell'Inps.
Il Pin (Personal identification number) è un codice identificativo personale che consente l'accesso ai servizi online dell'Inps, in base alle caratteristiche anagrafiche dell'utente e ad altri dati presenti negli archivi. Ad esempio un pensionato non può accedere ai servizi dedicati ai lavoratori oppure un iscritto alla gestione previdenziale del lavoro privato non può avere accesso ai servizi riservati agli iscritti alla gestione previdenziale dei dipendenti pubblici.
Pin ordinario e Pin dispositivo. Il Pin può essere di due tipi:
a) ordinario: per consultare i dati relativi alla propria posizione contributiva o alla propria pensione;
b) dispositivo: per richiedere le prestazioni e i benefici economici ai quali si ha diritto.
Il Pin dispositivo è stato istituito per garantire maggiore sicurezza sull'identità del richiedente: per ottenerlo il cittadino deve inviare online oppure via fax copia del proprio documento d'identità o recarsi personalmente presso una sede territoriale (ufficio) dell'Inps.
Il cittadino può comunque inoltrare una domanda di prestazione anche con il Pin ordinario, al fine per esempio di bloccare l'eventuale decorrenza dei termini. La domanda, tuttavia, verrà lavorata non appena l'utente avrà convertito il suo Pin ordinario in Pin dispositivo.
Il Pin iniziale è composto di 16 caratteri. Al primo accesso con tale Pin una procedura guidata assegna all'utente un Pin di 8 caratteri, con il quale potrà accedere successivamente ai servizi.
Come richiedere il Pin. Il Pin si può richiedere:
1. presso le sedi territoriali dell'Inps (in tal caso il Pin sarà dispositivo);
2. online, attraverso la procedura di richiesta Pin;
3. tramite Contact center chiamando il numero verde 803 164 gratuito da rete fissa; per le chiamate da telefoni cellulari è disponibile il numero 06 164164, che è però a pagamento in base al piano tariffario del proprio gestore telefonico (Wind, Tre, Vodafone ecc.).
Le sedi dell'Inps rilasciano immediatamente il Pin dispositivo a seguito della presentazione, da parte dell'utente, del modulo di richiesta, tutto correttamente compilato e consegnato allo sportello assieme a un documento di identità valido.
Il Pin ottenuto online o tramite il Contact center, invece, è di tipo ordinario.
Scadenza e nuova generazione del Pin. Il Pin assegnato ai cittadini ha durata semestrale (scade ogni 6 mesi), mentre il Pin assegnato agli intermediari istituzionali ha durata trimestrale (scade ogni 3 mesi). Ogni volta che si effettua un accesso, il sistema verifica se il Pin è scaduto. In tal caso, una procedura guidata fornisce automaticamente un nuovo Pin che dà accesso agli stessi servizi del precedente.
Convertire il Pin in Pin dispositivo. Il Pin ordinario ottenuto online o attraverso il Contact Center non permette la presentazione e l'invio di domande per prestazioni e benefici. Per fruire di tali servizi, occorre convertirlo (il Pin ordinario) in Pin dispositivo, recandosi presso una sede territoriale dell'Inps alla quale consegnare, una volta compilato, il modulo MV35; in alternativa, può essere utilizzata la procedura online di conversione del Pin.
Se si utilizza tale procedura online, una volta inserito il Pin ordinario, l'utente deve stampare e firmare il modulo di richiesta, scansionare il modulo firmato e un documento di riconoscimento e caricarli online. In alternativa, il modulo firmato con la copia del documento possono essere inviati al Contact center tramite il numero di fax 800 803164 oppure consegnati a mano, recandosi presso una sede territoriale dell'Inps (articolo ItaliaOggi Sette del 29.02.2016 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Sanzioni Sistri, sconto a tempo. Per altre violazioni confermata la punibilità solo dal 2017. La conversione del dl 210/2015 dimezza le pene per omessa iscrizione e contribuzione.
Riduzione del 50% delle sanzioni amministrative pecuniarie per omessa iscrizione al sistema di tracciamento telematico dei rifiuti e mancato pagamento del relativo contributo.

Lo sconto sulle sanzioni Sistri, seppur temporaneo e limitato alle citate violazioni, arriva con la legge di conversione del dl 210/2015, approvata in via definitiva dal parlamento il 24.02.2016.
La legge di conversione del «Milleproroghe 2016» conferma parallelamente lo slittamento al 2017 dell'applicabilità delle altre pene ex dlgs 152/2006 (c.d. Codice ambientale) per l'inosservanza delle regole di stretto tracciamento telematico dei rifiuti, già previsto dal testo originario del decreto d'urgenza.
Le sanzioni ridotte. Pur lasciandone immutata l'applicabilità (già operativa dallo scorso 01/04/2015) la legge di conversione del dl 210/2015 dispone che le sanzioni ex commi 1 e 2, articolo 260-bis del dlgs 152/2006, relative a omessa iscrizione e regolarizzazione tributo, «sono ridotte del 50%», ma solo «fino al 31.12.2016 e comunque non oltre il collaudo con esito positivo della piena operatività del nuovo sistema di tracciabilità individuato a mezzo di procedura a evidenza pubblica, indetta da Consip Spa con bando pubblicato il 26.06.2015».
Di conseguenza la cornice edittale delle sanzioni passa, seppur temporaneamente, dai «range» di 2.600-15.500 euro (per le violazioni relative ai rifiuti non pericolosi) e 15.500-93 mila euro (per i pericolosi) a quelli, rispettivamente, coincidenti con le gamme 1.300-7.750 e 7.750-46.500 euro. La riduzione prevista, essendo formulata in termini matematici, non appare però incidere sull'ulteriore sanzione prevista dallo stesso comma 2 del citato articolo 260-bis, laddove per l'omesso pagamento del contributo (evidentemente da parte degli iscritti) si dispone anche la sospensione immediata del servizio Sistri.
Ad alleggerire ulteriormente le sanzioni in parola appaiono concorrere fin da subito due meccanismi già applicabili del dlgs 152/2006 (commi 9-bis e 9-ter, articolo 260-bis): il «cumulo giuridico» delle pene per il concorso di reati, che prevede la punibilità del solo evento più grave; il «ravvedimento operoso», che da un lato non punisce chi entro 30 giorni dalla commissione dell'illecito vi pone riparo adempiendo agli obblighi sottesi e dall'altro ammette al pagamento di delle sanzioni chi definisce la controversia, previo adempimento, entro 60 giorni dalla contestazione.
Le altre novità Sistri. A ridurre il potenziale novero dei soggetti obbligati a iscrizione, e quindi pagamento del contributo Sistri, concorre invece dallo scorso 02.02.2016 la legge 221/2015 (c.d. «Green economy»), che con la riformulazione del dl 201/2011 ha allargato i confini del regime semplificato di tracciamento rifiuti riservato agli operatori del comparto benessere. Ciò sia estendendolo a tutti i residui pericolosi prodotti che rendendolo satisfattivo (anche) degli obblighi previsti dal Sistri.
In base al rinnovato regime semplificato i gestori di servizi dei saloni di barbiere e parrucchiere, istituti di bellezza, attività di tatuaggio e piercing (Codici Ateco 96.02.01, 96.02.02, 96.09.02) produttori di rifiuti speciali pericolosi che effettuano l'autotrasporto degli stessi in quantità massima di 30 Kg/giorno a impianti di smaltimento possono assolvere gli obblighi di tracciamento sia tradizionale (registri di carico e scarico, Mud) che (ora) Sistri con la tenuta dei soli formulari di trasporto ex dlgs 152/2006 e loro conservazione.
L'osservanza di detto regime semplificato non esclude, lo ricordiamo, l'obbligo d'iscrizione all'Albo gestori ambientali per il trasporto e l'osservanza delle norme specifiche su classificazione, imballaggio, etichettatura e movimentazione delle sostanze pericolose. L'iscrizione al Sistri (insieme alla regolarizzazione del relativo contributo) è invece già dovuta da parte dei vettori esteri che a titolo professionale effettuano il trasporto di rifiuti sul territorio nazionale.
A ricordarlo, evidentemente basandosi sull'articolo 188-ter del dlgs 152/2006, è un comunicato pubblicato il 01.02.2016 sul portale istituzionale sistri.it che invita detti operatori a formalizzare l'adempimento tramite «Contact center». Una riduzione del contributo Sistri dovrebbe invece arrivare, in base alla relazione di accompagnamento della citata legge di conversione del «Milleproroghe», con il nuovo decreto ministeriale in itinere sulla semplificazione e lo snellimento dell'attuale sistema.
Regime transitorio e obblighi operatori Sistri. Come accennato, la legge di conversione del «Milleproroghe 2016» conferma la già prevista sospensione fino al 31/12/2016 dell'applicazione delle altre sanzioni (anche penali) Sistri che puniscono la violazione delle regole operative di tracciamento dei rifiuti, lasciandone però immutate le relative cornici edittali.
Tali sanzioni, previste dagli articoli 260-bis, commi da 3 a 9, e 260-ter del dlgs 152/2006 puniranno la violazione delle regole sulla compilazione delle Schede elettroniche Sistri, la predisposizione di falsi certificati di analisi, il trasporto dei rifiuti senza i previsti e corretti documenti di accompagnamento cartacei. Solo dal 2017 sarà altresì applicabile l'articolo 260-ter del dlgs 152/2006 che prevede le sanzioni amministrative del fermo o della confisca del mezzo di trasporto per le ipotesi più gravi.
La legge di conversione del «Milleproroghe» conferma parallelamente l'operatività fino allo stesso 31/12/2016 del periodo transitorio del c.d. «doppio binario» in base al quale anche i soggetti obbligati al Sistri devono continuare a effettuare il tradizionale tracciamento dei residui (tramite registri di carico/scarico, formulari di trasporto e dichiarazione Mud) dietro minaccia delle relative e diverse sanzioni ex Codice ambientale.
In relazione al Mud si ricorda la vicina scadenza del 30.06.2016 entro cui occorrerà presentare la nuova annuale denuncia dei rifiuti prodotti o gestiti nel corso del 2015. Tale dichiarazione dovrà essere effettuata secondo le indicazioni dettate dal Dpcm 21.12.2015 (G.U. del successivo giorno 28, n. 300) che da un lato conferma l'utilizzo «modello unico di dichiarazione» recato dall'omonimo provvedimento del 17.12.2014 ma dall'altro prevede «informazioni aggiuntive» che saranno diramate tramite i siti sviluppoeconomico.gov.it, minambiente.it; isprambiente.gov.it, unioncamere.it, infocamere.it; ecocerved.it, informazioni che potranno dunque recare nuove indicazioni da rispettare.
La corretta dichiarazione Mud 2016, è opportuno sottolinearlo, presuppone a monte il rispetto della nuova classificazione dei rifiuti introdotta dalla decisione 2014/995/Ue, pienamente e integralmente applicabile sul piano nazionale dal 01.06.2015 con prevalenza sulle analoghe norme con esse in contrasto contenute negli allegati alla Parte quarta del dlgs 152/2006, ancora formalmente non allineati alle disposizioni Ue (articolo ItaliaOggi Sette del 29.02.2016).

PUBBLICO IMPIEGO«Danno» dai contratti Pa bloccati. Pubblico impiego. Il tribunale di Reggio Emilia dopo la sentenza della Corte costituzionale.
Dal TRIBUNALE di Reggio Emilia arriva la prima sentenza che mette nero su bianco «l’illegittimità» dei mancati rinnovi dei contratti per il pubblico impiego dopo il 30 luglio, cioè dopo che la Corte costituzionale ha sancito l’obbligo di superare il blocco deciso sei anni fa per abbassare la febbre del bilancio pubblico.
La pronuncia condanna il ministero della Giustizia al pagamento delle spese processuali (3mila euro, a cui si aggiungono i rimborsi forfettari e il contributo unificato) per il ricorso avviato da 13 dipendenti dello stesso tribunale, assistiti dall’Unione nazionale dei sindacati autonomi Confsal-Unsa.
Ma il punto non è nella cifra riconosciuta dalla sentenza 26.02.2016 n. 51, ma nel «precedente» creato dai giudici, che apre la porta alle richieste di rimborso da parte dei dipendenti pubblici: «Abbiamo avviato contenziosi in un’ottantina di tribunali in tutta Italia», spiega Massimo Battaglia, segretario generale della Confsal-Unsa, che ora con il precedente di Reggio Emilia punta al riconoscimento giudiziario del danno da “mancato rinnovo”.
Ancora una volta, insomma, è un tribunale dell’Emilia Romagna a smuovere lo stagno della contrattazione nel pubblico impiego, che per ripartire attende l’aggregazione dei dipendenti pubblici in quattro comparti (l’atto di indirizzo per chiudere la lunga trattativa avviata da Aran e sindacati è stato firmato dal ministro della Pa, Marianna Madia, nei giorni scorsi; si veda Il Sole 24 Ore del 23 febbraio), premessa indispensabile posta dalla riforma Brunetta.
A chiamare in causa la Consulta era stato il Tribunale di Ravenna, anche in quel caso per un ricorso avviato dai dipendenti del palazzo di Giustizia e promosso anche dalla Confsal Unsa, e i giudici delle leggi avevano salvato il vecchio blocco stabilendo però l’obbligo di rimuoverlo.
La sentenza è andata in Gazzetta Ufficiale il 29 luglio, ma ovviamente i contratti non sono ripartiti il giorno dopo, per le incognite sui costi e gli obblighi di attuare la riforma Brunetta rimasta in naftalina per anni. Su questo secondo “ritardo” intervengono i giudici reggiani, aumentando l’urgenza di chiudere una partita che si presenta ancora intricata.
Ad oggi, infatti, la strada per arrivare al traguardo dei rinnovi non sembra breve, perché alle incognite sui comparti seguiranno quelle sulle risorse
 (articolo Il Sole 24 Ore del 27.02.2016).

VARILa ricetta diventa elettronica Su carta solo un promemoria. Sanità. Dal 1° marzo - Fino a dicembre 2017 un «salvagente» in caso di disguidi Internet.
Addio vecchia ricetta rossa per l’acquisto dei farmaci. Da martedì 1° marzo comincia ufficialmente l’era della e-prescription, ovvero la ricetta digitale. E medici e farmacie dovranno farsi trovare pronti. Un passo verso la dematerializzazione, avviata su questo fronte oltre tre anni fa, ma che si è concretizzato con il Dpcm del 31.12.2015, entrato in vigore dal 1° gennaio di quest’anno. Ma attenzione: nell’Italia dei rinvii, anche in questo caso c’è una fase transitoria, che dovrà concludersi a fine 2017.
Dunque la ricetta elettronica non significherà da subito addio alla carta. Infatti il medico dovrà comunque rilasciare un foglietto -in formato A5- da consegnare al farmacista, dove ci saranno i dati utili a garantire il servizio in tutte le situazioni, anche se dovesse saltare la connessione internet o il collegamento con il sistema centrale fosse fuori uso.
La rivoluzione è già partita e, al netto di non poche criticità, sta ingranando. Ma i medici di famiglia segnalano qualche intoppo non proprio insignificante: «Qualcuno ha confuso gli studi medici con quelli dei Caf, vista la mole di dati anagrafici, codici di esenzione dai ticket, adesso anche quelli di erogabilità e appropriatezza e quant’altro dovremo verificare. E in più -spiega il segretario nazionale della Federazione dei medici di famiglia (Fimmg) Giacomo Milillo- il dottore non potrà più contare sul supporto dell’assistente di studio per rendere più rapide le procedure di "ricettazione"». Con complicazioni anche per il sostituto medico che salvo eccezioni (Campania), spiega Milillo, dovrà continuare a utilizzare la ricetta rossa. Il rischio, secondo la Fimmg, è che tutti gli oneri ricadano sul titolare, «con un aggravio di lavoro: tempo tolto alle visite e attese più lunghe per gli assistiti». Dunque, serve «una semplificazione delle procedure, che è ancora possibile».
Però ci sono già vantaggi per i cittadini. Uno degli effetti più importanti della nuova era digitale è che la ricetta elettronica sarà valida in tutte le farmacie d’Italia. E i farmaci potranno essere ritirati anche fuori della Regione di residenza. Grazie al sistema tessera sanitaria, le farmacie potranno applicare il ticket della Regione di residenza dell’assistito: starà poi alle stesse Regioni scambiarsi le informazioni sui medicinali prescritti e procedere ai relativi rimborsi compensativi. Dal 1° marzo dovrebbe essere disponibile per tutte le farmacie il sistema di calcolo di ticket ed esenzioni della regione di provenienza di ogni cittadino. Dove e se l’e-prescription c’è, ovviamente.
A novembre Federfarma segnalava che il 64% delle farmacie era pronto a partire, per un totale di 30 milioni di ricette digitali. Con alcune Regioni che hanno più spinto sull’acceleratore, come la Lombardia, dove in pochi mesi si è passati dal 3 al 75%. Il cambiamento in ogni caso rende ancora necessario l’utilizzo della "fustella" per distinguere i farmaci erogati a carico del Ssn.
Fino a tutto il 2017 sono però ancora esclusi dal nuovo metodo alcuni farmaci come gli stupefacenti, l’ossigeno, le prescrizioni per erogazione diretta in continuità assistenziale, i medicinali con piano terapeutico Aifa
(articolo Il Sole 24 Ore del 27.02.2016).

VARI: La ricetta elettronica al via dal 1° marzo. La vecchia ricetta va in pensione e cede il passo a tablet e computer. Nota della federazione medici di famiglia. ma serve ancora il biglietto.
L'applicazione a regime della normativa sulla circolarità nazionale della ricetta dematerializzata è prevista per il 01.03.2016, quando le farmacie dovrebbero essere nelle condizione di calcolare ticket e regime di esenzione vigente nella regione di provenienza del cittadino.

Lo ricorda la nota 26.02.2016 della Fimmg, la Federazione dei medici di famiglia.
La legge che manda in soffitta i blocchetti rossi è in realtà del dicembre 2015 (dpcm 14.11.2015, in G.U. n. 303 del 31.12.2015) e recepisce un decreto di più di tre anni fa. Superati alcuni blocchi informatici da martedì prossimo per prescrivere un farmaco, un accertamento o una visita, il medico si collegherà a un sistema informatico, lo stesso visibile al farmacista.
Ma ricetta elettronica non è ancora sinonimo di abolizione della carta. Per ora, infatti, si riceverà dal dottore un piccolo promemoria da consegnare al bancone della farmacia, che permetterà di recuperare la prescrizione anche in caso di malfunzionamenti del sistema o assenza di linea internet. Ma quando il sistema andrà a regime anche questo foglietto sparirà, rendendo la procedura interamente paperless.
Tra i vantaggi della ricetta elettronica il risparmio sulla stampa e distribuzione delle vecchie ricette rosa e il controllo sulla falsificazione delle ricette stesse o sugli abusi conseguenti il furto dei ricettari. Ma come funziona, nel concreto, il nuovo sistema? I dottori, per effettuare una prescrizione, si connettono dal proprio pc a un apposito portale: compilando la ricetta sullo schermo, identica a quella cartacea, un Nre (numero ricetta elettronica) sarà associato al codice fiscale del paziente, aggiungendo in automatico anche eventuali esenzioni. Il sistema stampa quindi il promemoria, con il quale andare in farmacia: con i dati presenti, attraverso i codici a barre stampati sul piccolo foglio A5, il farmacista recupera la prescrizione direttamente online e consegna la medicina.
Ci vorrà ancora tempo perché sparisca anche la vecchia «fustella» da attaccare nei riquadri rossi, poiché anche se i codici della confezione sono inseriti direttamente sul computer ancora non è stato possibile determinare un meccanismo che annulli il valore della fustella rispetto alla necessità di identificare e distinguere i farmaci erogati a carico del Ssn da quelli che anche se erogabili vengono invece pagati direttamente dal cittadino.
Il procedimento nei prossimi mesi si diffonderà anche per la prescrizioni di esami e visite specialistiche, visto che la ricetta elettronica sarà accettata anche da cliniche, ambulatori e ospedali. Fino a fine 2017, sono ancora esclusi dal nuovo metodo stupefacenti, l'ossigeno, le prescrizioni per erogazione diretta in continuità assistenziale, i farmaci con piano terapeutico Aifa (articolo ItaliaOggi del 27.02.2016).

URBANISTICA: Consumo suolo, enti in allarme. Si rischiano contenziosi sull'Imu. Imprese ingessate. A due anni dalla sua presentazione il ddl riparte alla camera. I comuni: va cambiato.
Un provvedimento nato con i migliori propositi (valorizzare e limitare il consumo del suolo) ma che rischia di scontentare tutti: comuni e imprese.
Dopo due anni di gestazione in commissione alla camera, il ddl (Atto Camera n. 2039), presentato dall'ex ministro delle politiche agricole Nunzia De Girolamo, torna a far parlare di sé. Questa settimana sono infatti arrivati alle commissioni riunite ambiente e agricoltura di Montecitorio gli ultimi pareri delle commissioni. E mercoledì con il conferimento del mandato ai relatori Chiara Braga e Massimo Fiorio (entrambi del Pd) i lavori entreranno nuovamente nel vivo.
Gli Affari costituzionali e la Bicamerale per le questioni regionali si sono espressi dando parere favorevole, ma chiedendo al tempo stesso significativi ritocchi al testo. A preoccupare i comuni sono soprattutto due emendamenti approvati in commissione. Il primo all'art. 10 a norma del quale «i proventi dei titoli abilitativi edilizi e delle sanzioni sono destinati esclusivamente e senza vincoli temporali alla realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria ed a interventi finalizzati al riuso e alla rigenerazione, nonché alla tutela e riqualificazione dell'ambiente e del paesaggio»
In secondo luogo a preoccupare sono le norme transitorie e finali (art. 11 ) secondo cui, a decorrere dalla data di entrata in vigore della legge, e fino all'adozione dei provvedimenti volti alla riduzione del consumo del suolo, e comunque non oltre il termine di tre anni, «non è consentito il consumo di suolo tranne che per i lavori e le opere inseriti negli strumenti di programmazione delle amministrazioni aggiudicatrici».
I sindaci, invece, chiedono l'utilizzo senza limiti dei proventi dei titoli edilizi rilasciati per la manutenzione ordinaria e straordinaria delle opere di urbanizzazione già realizzate. Opere che altrimenti andrebbero incontro a sicuro degrado, dequalificando l'ambiente urbano circostante e rendendo necessari ulteriori interventi di manutenzione straordinaria che comporterebbero maggiori oneri economici.
Inoltre, il divieto triennale di consumo di suolo (tranne che per lavori e opere già inseriti negli strumenti di programmazione dei comuni) rischia di essere troppo penalizzante, soprattutto per i piccoli comuni. Perché per esempio renderebbe illegittima la rivendicazione dell'Imu su diritti edificatori previsti, ma non più attivabili. Prospettiva questa «dalle conseguenze economiche insostenibili per i mini-enti che si vedrebbero coinvolti in contenziosi fiscali infiniti, destinati a produrre mancate entrate per cifre esorbitanti».
A chiedere modifiche al ddl sono all'unisono Anpci e Anci. L'Associazione nazionale dei piccoli comuni, presieduta da Franca Biglio, ha scritto il mese scorso ai ministri dell'ambiente e dell'agricoltura Gian Luca Galletti e Maurizio Martina e ai presidenti delle commissioni VIII e XIII di Montecitorio Ermete Realacci e Luca Sani. Stessa cosa ha fatto il presidente dell'Anci, Piero Fassino, che ieri ha ieri ha sollecitato una richiesta di incontro estesa anche ai ministri Graziano Delrio ed Enrico Costa.
«Data la rilevanza socio-economica della tematica», scrive Fassino, «e nell'intento di contribuire alla definizione di proposte concrete e utili alla soluzione di talune criticità dall'Anci evidenziate nonché emerse anche in incontri con altri soggetti di rappresentanza, ritengo urgente avviare un lavoro che possa portare alla condivisione di alcune correzioni».
L'Anpci, dal canto suo, pur apprezzando l'impianto generale del disegno di legge, ritiene assolutamente indispensabile che vengano garantiti i diritti acquisiti. Perché una loro compressione, sostiene Franca Biglio, «si porrebbe in contrasto con la generale politica di incentivo della crescita e dell'occupazione: obiettivo questo da tutte le istituzioni riconosciuto come un'esigenza vitale per il Paese».
Oltre alle critiche degli enti locali, il ddl deve fronteggiare anche l'opposizione delle imprese. A guidare la protesta è stata Confindustria Cuneo che con il presidente, Franco Biraghi, ha da subito evidenziato come il testo in discussione alla camera, se non modificato, rappresenti «una vera iattura per l'economia e le pmi perché nessuno di noi potrà più programmare la propria attività e il proprio sviluppo aziendale. Da un giorno all'altro, infatti, potremmo sentirci dire che il terreno industriale acquistato in passato nella prospettiva di ampliare il nostro capannone improvvisamente è diventato agricolo. Chi investirà più?».
Il ddl 2039, secondo Biraghi, essendo basato «su una pioggia di divieti per le attività economiche e soprattutto industriali», prevede «esattamente l'opposto di quanto invece servirebbe alle aziende in questo periodo, ossia agevolazioni di natura fiscale e ambientale, premiando per esempio le imprese che riutilizzano terreni dismessi, attività oggi improponibile per gli alti costi previsti dalle leggi attuali» (articolo ItaliaOggi del 27.02.2016).

APPALTI: Codice dei contratti da rivedere. Sos per i servizi di ingegneria, architettura e area tecnica. La Rete delle professioni tecniche sul testo chiamato a sostituire il dlgs 163/2006.
I servizi per l'ingegneria e l'architettura assimilabili a quelli per la ristorazione. Può sembrare una provocazione, ma è quello che accadrà se il nuovo codice dei contratti pubblici, chiamato a sostituire l'attuale codice De Lise (approvato con il decreto legislativo n. 163 del 2006), sarà approvato come si presenta attualmente.
Il provvedimento, che in sostanza attua (o almeno dovrebbe) la legge delega di recepimento delle direttive europee, e che, tra i suoi principali obiettivi, ha quello di conseguire una drastica riduzione e razionalizzazione di leggi e regolamenti esistenti, manca di un riferimento fondamentale: una disciplina apposita per i servizi di architettura e ingegneria e degli altri servizi dell'area tecnica, giacché, come ha commentato Rino La Mendola, coordinatore del tavolo lavori pubblici della Rete delle professioni tecniche, «gli articoli che riguardano l'argomento sono disseminati nel testo in modo disorganico e difficilmente leggibile». Con il risultato che questo tipo di servizi sono regolamentati come altre attività generiche, come quelle della ristorazione, dimenticando la loro peculiarità e il loro preciso riferimento a direttive comunitarie specifiche.
Inoltre, secondo il rappresentante della Rete, «buona parte dei principi enunciati dalla legge delega non trovano concreto riscontro nell'articolato. Per esempio, non si comprende come si concretizzi la drastica riduzione dell'appalto integrato promossa dalla legge delega, oppure perché per i concorsi di progettazione non è stato specificata, come avevamo chiesto, la garanzia della priorità dell'affidamento (e non l'opzione) delle fasi successive della progettazione al professionista vincitore.
Un principio fondamentale per scongiurare il rischio che le amministrazioni continuino a bandire concorsi, magari a fini propagandistici, che non si concretizzano mai con la realizzazione delle opere in linea con le previsioni del progetto vincitore». Insomma il punto chiave è che nel testo elaborato dal governo sono spariti molti principi fondamentali enunciati dalla legge delega e che la Rete delle professioni tecniche aveva apprezzato. C'è poi un problema di metodo. «Siamo stati convocati in fretta per l'audizione e con la stessa fretta ci è stato chiesto un contributo con il quale, data la ristrettezza dei tempi, abbiamo potuto evidenziare solo alcuni aspetti. Oltretutto senza un testo completo».
«Il governo», ha aggiunto ancora La Mendola, «infatti, non ha fornito agli addetti ai lavori una traccia ufficiale su cui introdurre organicamente le modifiche da proporre. Il risultato è che, in pochi giorni, i diversi rappresentanti del settore hanno prodotto una serie di proposte articolate e differenziate, facendo riferimento a bozze di testo diverse, ricavate dal web, che difficilmente potranno confluire in un testo condiviso, entro i tempi strettissimi dettati dalla stessa presidenza del consiglio dei ministri, che già oggi, salvo imprevisti, potrebbe varare il decreto. La preoccupazione è che i tempi stretti a disposizione possano produrre una norma di scarsa qualità, inficiando l'ottimo lavoro svolto con la legge delega».
In particolare, ha aggiunto ancora La Mendola, «la Rtp aveva condiviso i princìpi di quella legge diretti a snellire le procedure di affidamento, ridurre l'appalto integrato, gli affidamenti in house e i requisiti tecnico-organizzativi ed economici dei professionisti per l'accesso alle gare. Abbiamo poi apprezzato l'apertura dei concorsi di progettazione ai giovani o alle strutture professionali medio piccole che, seppure non dispongano di grossi fatturati e di un gran numero di dipendenti o collaboratori, sono comunque in grado di garantire prestazioni di qualità. Abbiamo giudicato positivamente anche l'abbandono del criterio del prezzo più basso, che negli ultimi anni ha prodotto prestazioni professionali scadenti, alimentando una serie di varianti correttive in corso d'opera ed un allarmante crescita del numero di opere pubbliche incompiute nel paese».
«Siamo alla vigilia di un nuovo inizio», ha concluso poi Sergio Molinari, consigliere Cnpi delegato alla materia e componente del tavolo lavori pubblici per la Rtp, «con un'opportunità offerta dal recepimento delle nuove direttive comunitarie. Ora la speranza è che nell'iter successivo all'approvazione del provvedimento in Consiglio dei ministri, ci sia lo spazio per accogliere le proposte che abbiamo fatto come Rete delle professioni tecniche, proponendo un articolato coerente con i principi riportati nella direttiva comunitaria e nella legge delega. Naturalmente ribadiamo, ancora una volta, tutta la disponibilità dei professionisti dell'area tecnica a collaborare con il legislatore e a fornire qualsiasi contributo possa essere utile per la stesura di un testo che non tradisca i principi per i quali è stato immaginato.
Questa può essere una chance significativa per riordinare, semplificare e soprattutto correggere i difetti che il sistema nel suo complesso ha mostrato fino ad ora. È un'opportunità che non possiamo permetterci di perdere per riattivare il mercato dei lavori pubblici, eccellente motore di sviluppo economico del nostro paese» (articolo ItaliaOggi del 26.02.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Riforma p.a., tocca ai dirigenti. Dlgs in arrivo. Cds e Corte conti promuovono i decreti. Il ministro ha incontrato le regioni in vista del prossimo parere sui provvedimenti.
La riforma di Marianna Madia fa rotta sui dirigenti pubblici. Dopo il pacchetto di 11 decreti legislativi attuativi della delega p.a. (legge 124/2015), licenziati dal consiglio dei ministri lo scorso 20 gennaio e in attesa di essere pubblicati in Gazzetta Ufficiale entro un paio di mesi, il governo sta preparando un secondo pacchetto di provvedimenti.
Forse il più delicato perché riguarderà i dipendenti e i dirigenti pubblici, questi ultimi, in particolare, messi al centro della riforma con l'istituzione del ruolo unico e la possibilità (forse più teorica che pratica) di non essere più inamovibili ma soggetti al collocamento in disponibilità qualora restino senza incarico.
A dare l'annuncio è stata lo stesso ministro della funzione pubblica nel corso dell'incontro con i governatori in Conferenza delle regioni. Un incontro propedeutico al parere che le regioni dovranno licenziare sugli 11 decreti nelle prossime settimane. «Saremo pronti per esprimere i pareri su gran parte dei provvedimenti», ha spiegato il presidente del parlamentino dei governatori Stefano Bonaccini, al termine dell'incontro col ministro.
Madia ha riconosciuto l'apporto importante fornito dalle regioni a tante parti della legge 124/2015 ed ha promesso che sulla seconda tranche di provvedimenti in materia di lavoratori e dirigenti pubblici «si può immaginare un maggior coinvolgimento preliminare di regioni ed enti locali».
Intanto sul primo pacchetto di decreti ieri sono arrivate importanti «promozioni» da parte del Consiglio di stato e della Corte dei conti.
Palazzo Spada ha espresso un parere tutto sommato favorevole sullo schema di decreto trasparenza, primo dei decreti attuativi della legge n. 124 del 2015. Il Consiglio di stato ha focalizzato l'attenzione sull'importanza di «una solida fase di implementazione, anche dopo l'approvazione dei decreti attuativi», suggerendo la creazione di una «cabina di regia» per l'attuazione pratica della riforma.
Questa task force non dovrà dimenticare aspetti, spesso relegati in secondo piano, ma essenziali per il recepimento dei decreti. In primis la formazione dei dipendenti incaricati dell'attuazione. In secondo luogo la comunicazione istituzionale a cittadini e imprese sui loro nuovi diritti, l'adeguata informatizzazione dei procedimenti, il coinvolgimento dei portatori di interessi (i cosiddetti «stakeholders») sin dall'impostazione della fase attuativa.
Una promozione sul campo per quello che, dopo i fatti di Sanremo, è stato il più controverso degli 11 decreti, ossia il dlgs sulla lotta all'assenteismo, è invece arrivata dal procuratore regionale della Corte conti Lombardia, Antonio Caruso, durante l'inaugurazione dell'anno giudiziario 2016. «Va nella direzione giusta», ha osservato Caruso nella sua relazione sull'attività della procura lombarda, «la scelta di prevedere, da un lato, un importo minimo di danno all'immagine pari a sei mensilità di stipendio e, dall'altro, di sganciarlo dalla necessità del giudicato penale».
Per il procuratore, il decreto Madia potrebbe determinare «una inversione di tendenza rispetto alla normativa del dl 78/2009», che ha invece limitato il danno all'immagine «a pochi reati contro la p.a., introducendo altresì una pregiudiziale penale che allontana i tempi di risposta della magistratura contabile» (articolo ItaliaOggi del 26.02.2016 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it).

APPALTI: Appalti, aggregazioni nella p.a.. Stazioni appaltanti autonome per contratti fino a 40 mila. Un Dpcm stabilirà le procedure per raggruppare i comuni non capoluogo di provincia.
Sarà un Dpcm a stabilire come si dovranno aggregare i comuni non capoluogo di provincia che vogliono bandire gare di appalto; le stazioni appaltanti saranno libere di procedere in autonomia fino a 40 mila euro di servizi e forniture e 150 mila per lavori; oltre queste soglie si dovranno utilizzare le piattaforme informatiche delle centrali di committenza e, se non qualificate, dovranno affidare alla centrale di committenza la gestione dell'appalto; previsti requisiti premiali per entrare nell'albo delle stazioni appaltanti gestito dall'Anac.
Sono questi alcuni dei punti principali delineati nell'ultima versione (datata 22 febbraio) del decreto di riordino della disciplina in materia di appalti pubblici che va oggi all'esame del consiglio dei ministri.
Nel testo è di particolare interesse la disciplina relativa alle stazioni appaltanti che si muove su due filoni: centralizzazione degli appalti e qualificazione delle stazioni appaltanti.
Le stazioni appaltanti saranno libere di procedere autonomamente per i contratti fino a 40 mila euro per servizi e forniture e fino a 150 mila per lavori. Oltre tale soglia e fino alle soglie Ue (per servizi e forniture) nonché per gli acquisti di lavori di manutenzione ordinaria di importo superiore a 150 mila euro e inferiore a 1 milione di euro le stazioni appaltanti, qualificate dall'Anac, procedono mediante ricorso autonomo agli strumenti telematici messi a disposizione dalle centrali di committenza (ad esempio il Mepa).
Se poi la stazione appaltante non risulti in possesso della necessaria qualificazione dovrà procedere all'acquisizione di forniture, servizi e lavori ricorrendo a una centrale di committenza qualificata, ovvero mediante aggregazione con una o più stazioni appaltanti aventi la necessaria qualifica.
Se si tratta di un comune non capoluogo di provincia, esso potrà scegliere una di queste due ipotesi: fare ricorso a una centrale di committenza o procedere mediante unioni di comuni costituite e qualificate come centrali di committenza, ovvero associandosi o consorziandosi in centrali di committenza nelle forme previste dall'ordinamento. Sarà poi un Dpcm a definire gli ambiti territoriali all'interno dei quali si dovranno aggregare i comuni.
Per quel che riguarda la qualificazione delle stazioni appaltanti tutto ruota intorno al sistema gestito dall'Anac che riunirà stazioni appaltanti qualificate in base ai principi indicati nel decreto e le centrali di committenza (oltre ai provveditorati alle opere pubbliche, alle centrali di committenza regionali e a Consip, che ne fanno parte di diritto).
Per essere qualificati si farà riferimento al complesso delle attività che caratterizzano il processo di acquisizione di un bene, servizio o lavoro in relazione alla capacità di programmazione e progettazione, alla capacità di affidamento e alla capacità di esecuzione e controllo. I parametri di valutazione saranno relativi alla struttura organizzativa della stazione appaltante, alle competenze dei dipendenti, alla loro formazione e al numero di gare svolte nei tre anni precedenti.
Inoltre, saranno premiate le stazioni appaltanti che avranno ricevuto una valutazione positiva dell'Anac in ordine all'attuazione di misure di prevenzione dei rischi di corruzione e promozione della legalità e che potranno dimostrare la presenza di sistemi di gestione in qualità degli uffici e dei procedimenti di gara, nonché la disponibilità di tecnologie telematiche nella gestione di procedure di gara e il livello di soccombenza nel contenzioso.
La qualificazione varrà cinque anni e una volta entrato in vigore il sistema di qualificazione delle stazioni appaltanti l'Anac non rilascerà il codice identificativo di gara per appalti non rientranti nella qualificazione ottenuta dalla stazione appaltante (articolo ItaliaOggi del 26.02.2016 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it).

APPALTI: Riforma appalti, potenziata la validazione dei progetti. Delega. Pronto il decreto, oggi o domani in Cdm.
Assume una fisionomia pressoché definitiva il decreto legislativo che attua la legge delega sulla riforma degli appalti, ma non è ancora certo che il provvedimento vada all'esame del Consiglio dei ministri oggi o domani. Il lavoro di rifinitura richiede più tempo del previsto e incrocia anche nodi rilevanti come quello del sistema di qualificazione delle imprese, per cui resta fissata la soglia di un milione di euro sotto la quale non è necessaria la certificazione Soa.
Intanto nell’ultima versione, che consta di 230 articoli, sono stati definiti alcuni capitoli fondamentali come quelli sui poteri dell’Anac (che gestirà anche una Banca dati unica sostitutiva delle molte esistenti oggi e facenti capo a varie amministrazioni), sul subappalto, sulla qualificazione delle stazioni appaltanti e delle centrali di committenza (che comunque restano un elemento di tensione con i Comuni), mentre dall’ultima stesura escono fortemente potenziate le norme sulla validazione dei progetti (per cui sono dettagliate le attività e i soggetti che possono svolgerla), quelle sui motivi di esclusione ad opera della singola stazione appaltante (in base a sentenze per reati gravi o anche per gravi inadempimenti contrattuali del passato) e quelle sulla risoluzione dei contenziosi per via extragiudiziale. In pratica, saranno sei le strade che potranno evitare il ricorso davanti al giudice, in parte sulla scia di quanto accade oggi (sia pure con qualche correzione), in parte con strumenti nuovi o riesumati (come gli arbitrati).
Le sei alternative al giudice sono l’accordo bonario per i lavori, l’accordo bonario per servizi e forniture, il collegio consultivo tecnico, la transazione, l’arbitrato e la definizione stragiudiziale su parere vincolante dell’Anac. La norma è stata meglio precisata con la necessaria adesione preventiva delle parti. Su quest’ultimo punto scommettono comunque Raffaele Cantone e la sua Autorità anticorruzione, proprio in virtù del fatto che il parere viene trasformato in vincolante e dovrebbe così rafforzare un istituto che già funziona su base facoltativa.
Uno degli snodi fondamentali del nuovo sistema è la qualificazione delle stazioni appaltanti. L’Anac terrà un apposito elenco di cui faranno parte anche le centrali di committenza. Le amministrazioni non qualificate potranno scegliere fra varie strade: il ricorso autonomo agli strumenti telematici di negoziazione messi a disposizione dalle centrali di committenza qualificate (tipo Consip), il ricorso a una centrale di committenza qualificata, l’aggregazione con una o più stazioni appaltanti aventi la necessaria qualificazione. I Comuni non capoluoghi potranno fare ricorso a una centrale di committenza o a soggetti aggregatori qualificati o ancora fare ricorso a unioni di Comuni qualificate come centrali di committenza ovvero associarsi o consorziarsi in centrali di committenza.
Cambia, inoltre, la modalità di abrogazione progressiva delle norme vigenti (soprattutto il regolamento generale): le disposizioni del periodo transitorio vengono inserite al termine dei singoli articoli, con l’indicazione delle norme vigenti che sopravvivono temporaneamente o altre disposizioni che in genere tendono a dilatare i poteri delle stazioni appaltanti sul singolo affidamento. Due esempi: in attesa delle linee guida Anac, saranno le stazioni appaltanti a inserire nei bandi i requisiti necessari per società di ingegneria e società tra professionisti; fino all’emanazione delle disposizioni Anac sull’albo dei commissari delle commissioni giudicatrici, le stazioni appaltanti continueranno a nominare i commissari «secondo regole di competenza e trasparenza preventivamente individuate da ciascuna stazione appaltante»
(articolo Il Sole 24 Ore del 25.02.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Congedi a ore, le regole per la Pa. Jobs Act. L’Inps definisce durata e modalità di comunicazione.
La Gestione dipendenti pubblici dell’Inps fornisce nuove indicazioni in ordine alla fruizione del congedo parentale ad ore, come previsto dal decreto attuativo del Jobs Act, nonché sulle modalità di comunicazione all’istituto di previdenza stesso dei predetti periodi ai fini del riconoscimento della contribuzione figurativa.
Il decreto legislativo 81/2015 riconosce ai genitori la possibilità di fruire del congedo parentale a giorni ovvero ad ore, la cui durata, in assenza di contrattazione collettiva in merito, deve coincidere con la metà dell’orario medio giornaliero del mese precedente l’inizio del congedo stesso.
In sostanza, per i dipendenti pubblici il cui orario è articolato su cinque giorni la settimana, la durata dell’assenza dovrà essere pari a 3 ore e 36 minuti, risultanti dalle 36 ore settimanali divise per i 5 giorni lavorativi la settimana e ulteriormente divise per due. Analogamente, per i lavoratori che prestano servizio su 6 giorni la settimana, il congedo ad ore deve essere pari a 3 ore giornaliere.
Con la circolare 23.02.2016 n. 40, l’Inps chiarisce come i periodi debbano essere correttamente comunicati al fine dell’accredito della contribuzione figurativa. Innanzitutto viene specificato che i destinatari della norma non sono solo le pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 165/2001 (escluso, per previsione normativa, il comparto sicurezza e difesa e quello dei vigili del fuoco e soccorso pubblico) ma le istruzioni devono essere applicate anche da tutti i datori di lavoro che abbiano dipendenti iscritti alla gestione pubblica.
Ne sono un esempio le fondazioni derivanti dalla trasformazioni delle ex Ipab, i cui lavoratori abbiano optato per il mantenimento dell’iscrizione al soppresso Inpdap. Tecnicamente, in sede di predisposizione del flusso Uniemens – ListaPosPA, è necessario compilare un quadro V1, causale 7, codice motivo utilizzo 8, con i nuovi tipo servizio, diversificati in base alla tipologia di congedo (con retribuzione ridotta o senza retribuzione) ovvero alla natura retributiva (stipendio ordinario o tredicesima).
La percentuale è calcolata dividendo il totale delle ore fruite a titolo di congedo parentale su base oraria per l’orario medio giornaliero, come sopra indicato, e moltiplicando il risultato per 1000. Non necessariamente la percentuale deve corrispondere a giorni interi, anche se il numero da indicare nell’Uniemens deve essere arrotondato all’unità
(articolo Il Sole 24 Ore del 25.02.2016).

LAVORI PUBBLICI: Anticipo ricco all'appaltatore. Fino a luglio il 20% dell'importo (invece del 10%). DECRETO MILLEPROROGHE/ Dal senato il via libera definitivo al dl 210/2015.
Proroga di sette mesi, vale a dire dal 31.12.2015 al 31.07.2016, del termine fino al quale è elevata, dal 10% al 20%, l'anticipazione dell'importo contrattuale in favore dell'appaltatore, per i contratti relativi a lavori, affidati a seguito di gare o di altra procedura di affidamento.

Lo prevede il decreto legge Milleproroghe (210 del 2015) che, dopo la posizione della fiducia da parte del governo, ha avuto ieri il definitivo via libera dal Senato con 155 sì e 122 no (la tabella in pagina riassume le principali novità introdotte nel passaggio alla Camera, che ha prodotto il testo definitivo).
Tra gli altri rinvii di rilievo, va citata la proroga di sei mesi, cioè al 01.07.2016, del termine a decorrere dal quale è obbligatorio, nel processo amministrativo, sottoscrivere con firma digitale tutti gli atti e i provvedimenti del giudice, dei suoi ausiliari, del personale degli uffici giudiziari e delle parti.
Sempre in materia di giustizia, il ministero avrà tempo fino al 31.05.2018 per approvare la permanenza in attività degli uffici dei giudici di pace richiesta dagli enti locali. Ancora per tutto il 2016 opererà la procedura che attribuisce al prefetto i poteri di impulso e sostitutivi relativi alla nomina del commissario ad acta incaricato di predisporre lo schema del bilancio di previsione degli enti locali in caso di inadempimento dell'ente stesso, mentre l'adeguamento delle strutture adibite a servizi scolastici alle vigenti disposizioni legislative e regolamentari in materia di prevenzione degli incendi dovrà essere completato non oltre il 31.12.2016.
Differito alla stessa data il termine per l'adeguamento alla normativa antincendio delle strutture ricettive turistico-alberghiere con oltre 25 posti letto, esistenti alla data di entrata in vigore del dm 09.04.1994 e prorogati, sempre al 31.12.2016 i termini entro i quali diventa obbligatoria la gestione in forma associata delle funzioni fondamentali dei piccoli comuni. Ci sarà invece tempo fino al 30.06.2016 per la revisione obbligatoria delle macchine agricole immatricolate prima del 01.01.2009.
Spostato infine al 01.01.2017 il termine per l'entrata in vigore delle disposizioni che sopprimono l'obbligo di pubblicazione sui quotidiani per estratto del bando o dell'avviso per l'affidamento dei contratti pubblici nei settori ordinari, sopra e sotto soglia comunitaria (articolo ItaliaOggi del 25.02.2016).

VARI: Bonus mobili allungato. L'agevolazione fino al 31.12.2016. Guida delle Entrate sulla detrazione del 50% nelle ristrutturazioni.
Bonus mobili prorogato fino al 31.12.2016. L'Agenzia delle entrate, con la pubblicazione del 27 gennaio sul proprio sito della guida aggiornata per ottenere la detrazione, ha reso attuativo il disposto previsto nella legge di stabilità 2016.
La detrazione Irpef del 50% spetta per l'acquisto di mobili e di grandi elettrodomestici di classe non inferiore alla A+ (A per i forni), destinati ad arredare un immobile oggetto di ristrutturazione. In particolare, l'acquisto deve essere effettuato tra il 06.06.2013 e il 31.12.2016.
Per ottenere il bonus occorre realizzare una ristrutturazione edilizia (e fruire della relativa detrazione), sia su singole unità immobiliari sia su parti comuni di edifici residenziali. E occorre che le spese per tali interventi di recupero edilizio siano sostenute a partire dal 26.06.2012.
Detrazione
La detrazione del 50% va calcolata su un importo massimo di 10.000 euro, riferito al totale delle spese sostenute per l'acquisto di mobili e grandi elettrodomestici. Inoltre, la detrazione deve essere ripartita tra gli aventi diritto in dieci quote annuali di pari importo. Il bonus spetta per l'acquisto di:
- mobili nuovi: letti, armadi, cassettiere, librerie, scrivanie, tavoli, sedie, comodini, divani, poltrone, credenze, materassi, apparecchi di illuminazione;
- elettrodomestici nuovi: di classe energetica non inferiore alla A+ (A per i forni), come da etichetta energetica. L'acquisto è agevolato per gli elettrodomestici privi di etichetta, a condizione che per essi non ne sia stato ancora previsto l'obbligo. Rientrano nei grandi elettrodomestici, per esempio: frigoriferi, congelatori, lavatrici, asciugatrici, lavastoviglie, apparecchi di cottura, stufe elettriche, forni a microonde, piastre riscaldanti elettriche, apparecchi elettrici di riscaldamento. radiatori elettrici, ventilatori elettrici, apparecchi per il condizionamento.
Inizio lavori
Per ottenere il bonus mobili è necessario che la data dell'inizio dei lavori di ristrutturazione preceda quella in cui si acquistano i beni. Non è fondamentale, invece, che le spese di ristrutturazione siano sostenute prima di quelle per l'arredo dell'immobile. La data di avvio dei lavori può essere dimostrata da eventuali abilitazioni amministrative o dalla comunicazione preventiva all'Asl.
Per gli interventi che non necessitano di comunicazioni o titoli abilitativi, è sufficiente una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà. Sono agevolabili anche le spese di manutenzione ordinaria: tinteggiatura pareti e soffitti, sostituzione di pavimenti, sostituzione di infissi esterni, rifacimento di intonaci, sostituzione tegole e rinnovo delle impermeabilizzazioni, riparazione o sostituzione di cancelli o portoni, riparazione delle grondaie, riparazione delle mura di cinta.
Box esclusi
Tra gli interventi di recupero del patrimonio edilizio che permettono di avere il bonus non sono compresi quelli per la realizzazione di box o posti auto pertinenziali rispetto all'abitazione principale.
Scontrini
Ai fini della detrazione, lo scontrino che riporta il codice fiscale dell'acquirente e indica natura, qualità e quantità dei beni acquistati, equivale alla fattura. Se manca il codice fiscale, la detrazione è comunque ammessa se in esso è indicata natura, qualità e quantità dei beni acquistati e se esso è riconducibile al contribuente titolare della carta in base alla corrispondenza con i dati del pagamento (esercente, importo, data e ora) (articolo ItaliaOggi del 24.02.2016).

APPALTIRiforma appalti, il testo definitivo in dirittura d’arrivo. Lavori. Giovedì il Consiglio dei ministri.
Ultime limature al decreto legislativo di riforma degli appalti. Il preconsiglio è slittato a domani, il consiglio dei ministri a giovedì ma il testo è rimasto nella sostanza quello raccontato dal Sole 24 Ore del 17 e 18 febbraio scorso anche se molte sono state le limature, le sistemazioni e su alcune norme le tensioni sono ancora forti dopo la conclusione dei lavori della “commissione Manzione”.
La novità più rilevante è l’ingresso nel testo finale delle norme sui poteri dell’Anac che finora pochi avevano letto (si veda Quotidiano digitale Edilizia e Territorio per tutti i contenuti).
Fra queste, c’è il parere vincolante dell’Autorita anticorruzione nella definizione stragiudiziale delle controversie, l’abrogazione progressiva del regolamento generale via via che saranno approvate le linee guida Anac (ma l’abrogazione avverrà sempre per la via regolamentare per evitare di dare alle disposizioni Anac la forza di norma regolamentare), il sistema unico di qualificazione degli esecutori dei lavori pubblici con un rafforzamento dei poteri sanzionatori dell’Anac verso le Soa e l’introduzione delle “idonee misure di premialità connesse ai criteri reputazionali”, il rafforzamento e l’articolazione generalizzati dei poteri sanzionatori Anac, la prima definizione di un sistema di qualificazione delle stazioni appaltanti (si veda Il Sole 24 Ore del 17 e del 18 febbraio).
Quanto alle tensioni, riguardano soprattutto due norme. Una è la norma inserita a sorpresa che consente alle singole stazioni appaltanti di escludere le singole imprese in gara in base al loro “curriculum”, cioè alle prestazioni fornite in precedenti contratti. Se è largamente accettata l’introduzione di un rating reputazionale e un rafforzamento del rating di legalità in un sistema generale di qualificazione, molte perplessità suscita invece la norma che consente decisioni di esclusione alla singola amministrazione.
Si temono abusi di discrezionalità che possono generare gravi distorsioni di mercato. Più in generale, i costruttori ritengono che la soglia di un milione di euro sotto la quale sono le singole stazioni appaltanti a fare la qualificazione sia troppo elevata.
L’altra norma su cui la mediazione a più soggetti (Consip, Regioni, Comuni) sembra ancora lontana e che susciterà reazioni soprattutto nei comuni è quella sulle aggregazioni di stazioni appaltanti, sulle centrali di committenza e sul rapporto con il sistema di qualificazione delle stazioni appaltanti. Il nodo da sciogliere è se sarà possibile lasciare in capo ad amministrazioni singole che appartengono a categorie escluse (per esempio i comuni non capoluoghi) le funzioni di stazioni appaltanti nel caso in cui queste amministrazioni singole si strutturino per acquisire i requisiti necessari alla qualificazione Anac.
In altre parole, se aldilà delle unioni e delle centrali, i comuni minori possano investire per acquisire i requisiti richiesti alle stazioni appaltanti. Dal testo attuale del decreto, questo sembra escluso ma una versione definitiva non sembra ancora essere stata raggiunta
(articolo Il Sole 24 Ore del 23.02.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIOAscensori in sicurezza anche se installati ante ’99. Controlli su porte e sistemi di allarme Confedilizia: «È una tassa».
Impianti comuni. In arrivo un decreto sulle nuove verifiche raccomandate dalla Ue.

Le imminenti super verifiche sugli ascensori in mezza Italia hanno messo in subbuglio il mondo condominiale. Il Dpr che sta per arrivare in Consiglio dei ministri (e che modifica il Dpr 162/1999) è la risposta a una vecchia raccomandazione europea del 1995 che, spiega il ministero dei Lavori pubblici, è stata già attuata nella maggior parte dei Paesi europei. Ma anche all’obbligo di recepire la cosiddetta nuova direttiva ascensori (2014/33/Ue), entro il 19 aprile prossimo.
Un problema che il Mise si tiene nel cassetto da quando, nel 2010, Confedilizia aveva ottenuto l’annullamento del Dm 23.07.2009, anche per la mancanza del parere del Consiglio di Stato.
Ora lo Sviluppo economico ha varato una versione “depotenziata” del decreto Scajola (così era chiamato quello del 2009): il Dpr, negli allegati, prevede controlli sulla precisione di fermata e livellamento tra cabina e piano; sulla presenza di illuminazione del locale macchine e in cabina; sulla presenza ed efficacia dei dispositivi di richiusura delle porte di piano con cabina fuori dalla zona di sbloccaggio; sulla presenza di porte di cabina; sul rischio di schiacciamento per porte motorizzate; sulla presenza del dispositivo di comunicazione bidirezionale in caso di intrappolamento in cabina. Di fatto, si tratta di controlli che poi possono condurre all’imposizione di interventi mirati, qualora non vengano superati.
I condomìni, quindi, dovranno adeguarsi alle indicazioni dei tecnici responsabili, approvando i lavori con la maggioranza degli intervenuti che rappresenti almeno 1/3 dei millesimi e dei condòmini; ma, se i lavori sono di «notevole entità» (in questi casi piuttosto di rado), meglio raggiungere la maggioranza degli intervenuti in assemblea e almeno 500 millesimi. I lavori sono detraibili al 50% dall’Irpef dei condòmini se pagati entro il 2016 e al 36% se pagati dopo.
Confedilizia ha bocciato lo schema di Dpr affermando che la spesa sarebbe stata pari alla Tasi sulla prima casa, appena abrogata, di 200 euro in media per famiglia. «E in ogni caso, invece di un obbligo generalizzato, gli interventi sulla sicurezza andrebbero valutati caso per caso», ricorda il presidente di Confedilizia, Giorgio Spaziani Testa.
«In realtà –afferma Michele Mazzarda, presidente di Anacam (costruttori e manutentori)- non tutti gli impianti devono fare tutti gli interventi. Di fatto, circa l’80% deve installare il combinatore telefonico ma per gli altri interventi la percentuale è assai inferiore. Dal 1999, quando per gli impianti di nuova costruzione è stata imposta una serie di requisiti, anche per i 770mila allora già esistenti, le verifiche periodiche hanno individuato la necessità di realizzare alcuni di quegli interventi indicati nel nuovo Dpr: nel 70% dei casi molti sono già stati realizzati. Così il Governo ha riempito un vuoto ma si tratta di lavori che sarebbero stati fatti comunque, prima o poi, per ragioni di sicurezza».
La spesa reale per impianto, spiega Mazzarda, andrà da 800 a 5mila euro al massimo «quando si tratta di impianti vetusti e palesemente pericolosi, in regola con le norme degli anni Settanta ma oggettivamente insicuri».
Per il presidente di AssoAscensori e vicepresidente di Ela, Roberto Zappa, «l’Italia è il fanalino di coda nel recepire importanti norme sulla sicurezza che impattano non solo sulla vita degli italiani ma anche sui conti pubblici»
(articolo Il Sole 24 Ore del 23.02.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'edilizia in 42 definizioni. Formulazioni standard per lavori in tutta Italia. Al tavolo tecnico ministeri-enti locali si definisce il regolamento unico.
Verso la semplificazione del regolamento unico edilizio. Quarantadue le definizioni standardizzate (dalla «superficie territoriale» alla «veranda») idonee a creare un'importante snellimento degli adempimenti in ambito edilizio. Le nuove definizioni standardizzate sono state condivise dal tavolo tecnico tra i ministeri delle infrastrutture e della funzione pubblica, le regioni e i comuni.
Tali definizioni confluiranno nel nuovo regolamento edilizio unico e metteranno finalmente ordine negli uffici tecnici degli oltre 8 mila comuni italiani. Dopo le definizioni standardizzate appena decise sono in via di perfezionamento gli articoli finali del regolamento unico che poi andrà in conferenza stato regioni per la definitiva approvazione. A quel punto le regioni avranno sei mesi di tempo per recepirlo e gli enti locali dovranno farlo proprio.
Definizione di superficie. Sei saranno le definizioni di superficie: totale, lorda, utile accessoria, complessiva e calpestabile. La superficie totale è la somma delle superfici di tutti i piani fuori terra, seminterrati e interrati comprese nel profilo perimetrale esterno dell'edificio. La superficie lorda è la somma delle superfici di tutti i piani comprese nel profilo perimetrale esterno dell'edificio escluse le superfici accessorie. La superficie utile è la superficie di pavimento degli spazi di un edificio misurata al netto della superficie accessoria e di murature, pilastri, tramezzi, sguinci e vani di porte e finestre.
La superficie accessoria è la superficie di pavimento degli spazi di un edificio aventi carattere di servizio rispetto alla destinazione d'uso della costruzione medesima, misurata al netto di murature, pilastri, tramezzi, sguinci, vani di porte e finestre. Ricomprende: portici e gallerie pedonali, ballatoi, logge, balconi e terrazze, tettoie, cantine, sottotetti, vani scala interni alle abitazioni, garage, parti comuni. La superficie complessiva è la somma della superficie utile e del 60% della superficie accessoria. La superficie calpestabile è quella risultante dalla somma delle superfici utili e delle superfici accessorie di pavimento.
Carico urbanistico, volume tecnico e veranda. Per carico urbanistico si intende il f abbisogno di dotazioni territoriali di un determinato immobile o insediamento in relazione alla sua entità e destinazione d'uso. Costituiscono variazione del carico urbanistico l'aumento o la riduzione di tale fabbisogno conseguenti all'attuazione di interventi urbanistico edilizi ovvero a mutamenti di destinazione d'uso.
Il volume tecnico è costituto dai «vani e spazi strettamente necessari a contenere e a consentire l'accesso alle apparecchiature degli impianti tecnici al servizio dell'edificio (idrico, termico, di condizionamento e di climatizzazione, di sollevamento, elettrico, di sicurezza, telefonico ecc.)». La veranda è un «locale o spazio coperto avente le caratteristiche di loggiato, balcone, terrazza o portico, chiuso sui lati da superfici vetrate o con elementi trasparenti e impermeabili, parzialmente o totalmente apribili» (articolo ItaliaOggi del 23.02.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATAIn edilizia regole uniche con autonomia. Territorio. Per i Comuni utilizzo «libero» degli standard in arrivo.
La legge di conversione del decreto Sblocca Italia ha previsto che il Governo, le Regioni e le autonomie locali concludano in sede di Conferenza unificata accordi o intese per adottare uno schema di regolamento edilizio-tipo.
Mercoledì scorso al tavolo presso il ministero delle Infrastrutture, con Regioni, Comuni e Funzione pubblica è stato condiviso il «quadro delle definizioni uniformi», i 42 indici attraverso cui si articolerà la disciplina edilizia degli 8mila Comuni italiani (si veda Il Sole 24 Ore del 18 febbraio).
Si tratta di una maglia dettagliata, utile a normalizzare l’eterogeneo lessico delle costruzioni, ma che non limiterà il potere degli enti locali di indirizzare autonomamente l’attività edilizia, in termini qualitativi e quantitativi.
Particolare attenzione è stata posta alla nomenclatura della superficie edificabile.
Sono state così introdotte le definizioni (e gli acronimi) della «superficie totale» (ST - somma delle superfici di tutti i piani fuori terra, seminterrati e interrati comprese nel profilo perimetrale esterno dell’edificio), della «superficie lorda» (SL - somma delle superfici di tutti i piani comprese nel profilo perimetrale esterno dell’edificio escluse le superfici accessorie), della «superficie utile» (SU - superficie di pavimento degli spazi di un edificio misurata al netto della superficie accessoria e di murature, pilastri, tramezzi, sguinci e vani di porte e finestre), della «superficie accessoria» (SA - superficie di pavimento degli spazi di un edificio aventi carattere di servizio rispetto alla destinazione d’uso della costruzione medesima, misurata al netto di murature, pilastri, tramezzi, sguinci, vani di porte e finestre, quali i portici, i balconi, le tettoie. le cantine, i sottotetti con altezza inferiore a m 1,80, i vani scala interni alle unità immobiliari, le autorimesse, le parti comuni), della «superficie complessiva» (SC - somma della superficie utile e del 60% della superficie accessoria) e della «superficie calpestabile» (SU + SA - superficie risultante dalla somma delle superfici utili e delle superfici accessorie di pavimento).
È proprio l’ampia articolazione delle definizioni a consentirne l’utilizzo libero da parte dei Comuni, che potranno così disciplinare l’edificabilità sul proprio territorio utilizzando, ad esempio, solo il concetto di superficie utile (così liberalizzando nella sostanza la realizzazione delle superficie accessorie) senza magari richiamare il concetto della superficie complessiva (che limita in percentuale la costruzione degli spazi a servizio).
Gli enti locali, infatti, pur avendo l’obbligo di utilizzare la nomenclatura uniformata, non dovrebbero avere quello di utilizzare tutti gli indici elencati nell’accordo, potendosi avvalere solo di quelli che ritengano più confacenti a regolare l’ordinato assetto del proprio territorio, attività che resta insopprimibile prerogativa dei comuni.
Altra definizione di particolare interesse è quella del «carico urbanistico» (CU), vale a dire il fabbisogno di dotazioni territoriali di un determinato immobile o insediamento in relazione alla sua entità e destinazione d’uso.
Si tratta del cosiddetto standard urbanistico che può risultare esuberante o da integrare (eventualmente mediante il pagamento del controvalore delle aree per servizi che non fossero reperibili) in relazione all’attuazione di interventi urbanistico-edilizi, ovvero a mutamenti di destinazione d’uso
(articolo Il Sole 24 Ore del 22.02.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALIPartecipate, danno erariale se il sindaco non «punisce» i cda. Società. Le implicazioni della riforma Madia sulle responsabilità.
Il nuovo Testo unico sulle partecipate affronta all’articolo 12 affronta il tema della responsabilità degli amministratori di società e quello degli enti partecipanti. Va detto, a testimonianza della delicatezza del tema, che prima di assumere la forma attuale, questa norma è cambiata più volte e in modo radicale.
Nella sua versione definitiva, il comma 1 statuisce che gli amministratori di società sono soggetti ad azione di responsabilità secondo quanto previsto dal Codice civile. A rafforzare questa facoltà dei soci interviene l’articolo 13, dove si precisa che i soci pubblici sono legittimati a presentare denuncia di grave irregolarità al tribunale indipendentemente dalla propria quota. Tutto chiaro? In verità il comma conclude con un ambiguo «salvo il danno erariale». È da intendersi nel senso che per quanto riguarda questa tipologia di danno resta impregiudicata l’azione contabile oppure, al contrario, che gli amministratori della azienda ne sono esenti?
Il tema andrà approfondito. Certo è che se dovesse prevalere una interpretazione restrittiva, ne deriverebbe la configurabilità per gli amministratori di un danno perseguibile solo civilmente, perfino per le società in house, il che metterebbe a rischio la tenuta, sul piano concettuale e operativo, della stessa nozione di società in house, quale ormai consolidatasi nel tempo e cristallizzata con efficacia nella sentenza 1/2008, dal Consiglio di Stato in adunanza plenaria: «Le società in house hanno della società solo la forma esteriore ma costituiscono in realtà delle articolazioni della pubblica amministrazione da cui promanano».
L’articolo 12, ancora, interviene anche per quanto riguarda la giurisdizione contabile, stabilendo che costituisce danno erariale «esclusivamente» il danno subito dagli enti partecipanti, compreso il danno determinato dai rappresentanti degli enti partecipanti che abbiano trascurato l’esercizio del diritto (e dovere) di socio. L’articolo stabilisce dunque, e qui con chiarezza, la perseguibilità del danno erariale in capo al socio, ove e nella misura in cui questo sia anche solo indirettamente cagionato all’ente partecipante. In questo quadro, però, diviene essenziale documentare e quantificare il danno reale al patrimonio e/o all’immagine/reputazione dell’ente socio. Dimostrazione certo non semplice, in molti casi, soprattutto se la società, al di là della fattispecie dannosa, resti in utile.
Ancora, il combinato disposto degli articoli 9 e 12 rende evidente che in ambito locale l’azione contabile per il ristoro del danno erariale si indirizzerà, quando sia contestato il fatto di aver trascurato il dovere di esercitare compiutamente il ruolo di azionista, direttamente nei confronti del sindaco, figura di cui viene in tal modo indirettamente sancita la centralità nella definizione delle politiche societarie dell’ente, che risultano quindi di sua propria responsabilità, visto che a lui (articolo 9) spetta la gestione delle partecipazioni.
In sostanza, l’articolo 12 sembra dunque implicare che siano individuabili due ambiti distinti di danno, erariale e non erariale, per i quali non vi sono interferenze: nel primo caso l’azione sarà proposta dal pm contabile dinanzi al giudice contabile, mentre nel secondo dagli azionisti dinanzi al giudice civile. Due sedi giudiziarie, dunque, con due giudici distinti che useranno categorie e paradigmi di valutazione diversi. È chiaro, però, che un sindaco che ometta di esercitare una azione di responsabilità quando ne ricorrano gli estremi correrà il rischio di risponderne sotto il profilo contabile
(articolo Il Sole 24 Ore del 22.02.2016).

PUBBLICO IMPIEGO: I vigili non hanno diritto al bonus di 80 euro.
I vigili urbani non hanno diritto al compenso straordinario previsto dalla legge di Stabilità per le forze di polizia dello stato, i militari e i pompieri per l'anno 2016.

Lo ha definitivamente chiarito la Ragioneria generale dello Stato con la nota 27.01.2016 n. 6418 di prot. inoltrato il 9 febbraio al comune di Cinisello Balsamo.
L'articolo 1, comma 972, della legge di Stabilità 2016 ha previsto per quest'anno un contributo straordinario di 80 euro mensili per il personale appartenente ai corpi di polizia, al corpo nazionale dei vigili del fuoco e alle forze armate. Non essendo chiaramente evidenziato nella legge se per forze di polizia si intendono solo quelle dello stato o anche quelle locali alcuni comuni hanno richiesto chiarimenti al ministero che ha immediatamente eliminato ogni dubbio.
L'incentivo economico, in ogni caso riferito solo all'anno in corso, non può essere esteso anche alla polizia municipale. Per arrivare a questa interpretazione restrittiva a parere dell'ispettorato generale per gli ordinamenti del personale e l'analisi dei costi del lavoro pubblico occorre fare riferimento alle indicazioni letterali della novella.
La legge di Stabilità specifica infatti che il compenso straordinario venga corrisposto, «nelle more dell'attuazione della delega sulla revisione dei ruoli delle forze di polizia, del corpo nazionale dei vigili del fuoco e delle forze armate, con ciò presupponendo che i corpi di polizia interessati siano circoscritti a quelli statali».
Infatti, prosegue la nota che è stata trasmessa anche all'Anci per la sua divulgazione generale, destinatario della delega prevista dall'art. 8 della legge 07.08.2015, n. 124, è esclusivamente il personale appartenente ai corpi di polizia statali al quale il legislatore ha inteso attribuire un compenso straordinario non avente natura retributiva.
Del resto, conclude la nota, la relazione tecnica della legge, nel quantificare gli oneri dell'intervento ha considerato circa 510 mila unità corrispondenti al totale del personale dello stato. Quindi nessun bonus straordinario per i vigili ai quali lo stato però contemporaneamente richiede sempre maggior impegno nel controllo degli incidenti (articolo ItaliaOggi del 19.02.2016).

APPALTI: Commissari, libertà di scelta. Non serve ricorrere all'albo per appalti affidati via internet. Novità sulle commissioni giudicatrici nel decreto delegato della riforma del codice dei contratti.
Commissari di gara nominati dalle stazioni appaltanti senza utilizzo dell'albo dell'Anac per tutti gli appalti sotto la soglia europea e per interventi affidati con le piattaforme telematiche di negoziazione. Sarà l'Anac a definire i requisiti dei commissari di gara che verranno scelti dall'Albo che la legge le ha affidato.

È questa una delle novità principali introdotte nella bozza di decreto delegato della riforma del codice appalti che dovrebbe andare all'esame del prossimo consiglio dei ministri.
Si tratta di una novità che peraltro riproduce alcuni degli emendamenti e delle versioni della delicata norma sulle commissioni di gara che poi non sono confluiti nella legge delega n. 11/2016.
Secondo il testo che dovrebbe essere ormai definito si prevede che la commissione giudicatrice è obbligatoria per tutti i contratti affidati con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa individuata sulla base del miglior rapporto qualità-prezzo. Alla commissione è devoluta la valutazione delle offerte dal punto di vista tecnico ed economico. La commissione è costituta da esperti nello specifico settore cui afferisce l'oggetto del contratto che vengono scelti dall'albo dei commissari di gara previsto dalla legge 11/2016.
È lo stesso decreto a precisare che l'Anac gestirà l'albo aggiornandolo secondo criteri che verranno individuati con apposite determinazioni. Sarà sempre l'Anac a dover fissare i requisiti di incompatibilità e moralità, nonché di comprovata competenza e professionalità nello specifico settore cui si riferisce il contratto.
Tornando alla gara, dovrà essere nominato un numero dispari di commissari non superiori a cinque che, come dice la legge, che in questo passaggio del decreto viene pedissequamente trasportata, verrà individuato dalla stazione appaltante mediante pubblico sorteggio da una lista di candidati costituita da un numero di nominativi almeno doppio rispetto a quello dei componenti da nominare. La nomina dei commissari e la costituzione della commissione devono avvenire dopo la scadenza del termine fissato per la presentazione delle offerte. La lista dei commissari è comunicata dall'Anac alla stazione appaltante di norma entro cinque giorni dalla richiesta della stazione appaltante.
Da notare che il decreto stabilisce che i commissari possano anche «lavorare a distanza con procedure telematiche che salvaguardino la riservatezza delle comunicazioni». La novità, che non trova riscontro nella legge 11/2016, è che la stazione appaltante, in caso di affidamento di contratti di importo inferiore alle soglie comunitarie (5,2 milioni per lavori e 209 mila per servizi e forniture) o per contratti «che non presentano particolare complessità» possono nominare componenti interni alla stazione appaltante.
Dalla lettura della norma parrebbe quindi che per gli appalti al di sotto della soglia comunitaria non si debba ricorrere all'albo Anac, così come per gli appalti complessi. Lo stesso decreto chiarisce che sono considerate di non particolare complessità le procedure svolte attraverso piattaforme telematiche di negoziazione e, ma questo era ovvio, le procedure aggiudicate al solo criterio di aggiudicazione del prezzo o del costo.
I commissari non devono aver svolto né possono svolgere alcun'altra funzione o incarico tecnico o amministrativo relativamente al contratto oggetto dell'affidamento; impossibile anche la nomina di commissari che devono giudicare offerte relative a contratti affidati dalle amministrazioni presso le quali hanno lavorato (articolo ItaliaOggi del 19.02.2016).

EDILIZIA PRIVATA: Regolamento edilizio unico per 8mila Comuni. Semplificazioni. Dal Mit ok alle definizioni standard.
Svolta sul regolamento edilizio unico. Al tavolo presso il Mit -con Regioni, Comuni e Funzione pubblica- è stato infatti raggiunto un accordo sulle definizioni standardizzate destinate a sostituire quelle “personalizzate” in vigore negli oltre 8mila comuni italiani.
A spingere per chiudere la questione è stato il titolare delle Infrastrutture, Graziano Delrio, che a maggio scorso ha preso in carico questo dossier.
Il regolamento edilizio unico avrà 42 definizioni standardizzate, identiche e immodificabili in ogni comune d’Italia. Le definizioni sono il cuore del regolamento edilizio. Proprio il braccio di ferro su quali definizioni di “superficie” accogliere nel testo ha tenuto bloccato a lungo il tavolo presso le Infrastrutture.
Il testo proposto dai tecnici del Mit la scorsa settimana ha consentito di superare le ultime resistenze di alcuni enti locali. Ora la strada del regolamento edilizio unico -“pezzo pregiato” dell’agenda del governo sulle semplificazioni in materia edilizia- è tutta in discesa. Dopo l’ok finale, preceduto dal passaggio in conferenza unificata, toccherà alla Regioni recepirlo, entro sei mesi, poi tocca ai Comuni
(articolo Il Sole 24 Ore del 18.02.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI: Bilanci comunali al 30 aprile Le Province vanno al 31 luglio. Adempimenti. In Conferenza Stato-Città oggi accordo sui termini «liberi» per il Dup.
Rinvio al 30 aprile per i bilanci preventivi dei Comuni e al 31 luglio per quelli di Città metropolitane e Province, chiarimento sul carattere «ordinatorio» delle scadenze per il Dup, il nuovo Documento unico di programmazione che sta mettendo in difficoltà amministrazioni e revisori, aggiornamento delle «capacità fiscali» dei Comuni e conferma dei criteri dell’anno scorso per la replica dei tagli previsti dal decreto 66/2014.
È ricco il menu della Conferenza Stato-Città che oggi alle 13 proverà a rimettere ordine al calendario delle scadenze per le amministrazioni locali: un calendario stretto fra le incognite delle amministrazioni locali, alle prese con l’applicazione a regime della nuova contabilità e del pareggio di bilancio, e la spinta del Governo per evitare proroghe a catena.
Di qui la scelta del 30 aprile (anticipata sul Sole 24 Ore del 3 febbraio), che offre un po’ più tempo ai sindaci senza entrare troppo nel territorio minato pre-elettorale: a giugno vanno al voto più di 1.300 Comuni, e l’esperienza insegna che un rinvio più lungo avrebbe proiettato quasi inevitabilmente i bilanci in autunno. Molto dipende però anche dalla rapidità dell’aggiornamento dei dati sulle «capacità fiscali» dei Comuni, essenziali per il meccanismo della perequazione che quest’anno governerà il 30% del fondo di solidarietà nella quota extra rispetto ai rimborsi per il mancato gettito Imu e Tasi. Il decreto con i nuovi dati arriverà oggi in conferenza, prima tappa dell’iter per la sua approvazione definitiva.
Il problema delle elezioni, anche se di secondo livello, non esclude le Province e le Città metropolitane, ma per gli enti di area vasta le questioni aperte sono più spinose. Si aspettano, prima di tutto, i dati definitivi del monitoraggio sul Patto di stabilità, che secondo i calcoli disponibili oggi è stato mancato dall’ampia maggioranza delle amministrazioni: se le cifre definitive confermeranno questa situazione, le sanzioni a regime che prevedono un taglio (o meglio un prelievo forzoso, perché Province e Città non hanno trasferimenti) pari allo sforamento porterebbero a un rischio di dissesti a catena.
È probabile un intervento per tornare a penalità più soft (l’anno scorso erano del 20% dello sforamento), che era stato ipotizzato nel corso della legge di conversione del Milleproroghe ma poi è stato rimandato proprio per aspettare il quadro definitivo sul rispetto dei vincoli di finanza pubblica. In un quadro del genere, dunque, i numeri sono destinati a rimanere incerti ancora per un po’, e da qui l’esigenza di spostare i termini al 31 luglio replicando il sistema delle scadenze differenziate sperimentato lo scorso anno.
Il balletto delle scadenze investe anche il Dup, il documento unico di programmazione che doveva essere presentato entro il 31 dicembre scorso e andrebbe aggiornato entro il 28 febbraio. Sul punto, la prospettiva dovrebbe essere quella di una presa d’atto in Conferenza del carattere «ordinatorio» delle scadenze, per dar modo ad amministratori e revisori di procedere senza sanzioni a patto, ovviamente, di approvare il tutto prima del bilancio preventivo, di cui il Dup è premessa fondamentale
(articolo Il Sole 24 Ore del 18.02.2016).

TRIBUTI: Comodati, pertinenze con vincoli sugli sconti. Enti locali. Risoluzione del Def dopo Telefisco.
Il Dipartimento delle finanze, con risoluzione 17.02.2016 n. 1/DF, interviene nuovamente sull’intricata norma relativa ai comodati, confermando le indicazioni già fornite a Telefisco 2016 e alla Cna con la nota numero 2472 del 29 gennaio scorso, ma fornendo anche nuove indicazioni.
Le conferme riguardano il concetto di “immobile” che deve essere riferito alle sole unità immobiliari abitative. Secondo il Ministero la norma si colloca nell’ambito del regime delle agevolazioni riconosciute per gli immobili ad uso abitativo e, dunque, laddove questa richiama in maniera generica il concetto di immobile, la stessa deve intendersi riferita all’immobile ad uso abitativo.
Il Ministero ricorda anche che è stata abrogata la disposizione che autorizzava i Comuni a disporre l’assimilazione all’abitazione principale di quella data in comodato a parenti. Nel 2016 al Comune è preclusa la possibilità di continuare a mantenere tale assimilazione in quanto verrebbero violati i limiti imposti dall’articolo 52 del Dlgs 446/1997, vale a dire l’«individuazione e definizione delle fattispecie imponibili, dei soggetti passivi e della aliquota massima dei singoli tributi».
In merito alla registrazione del contratto di comodato, vengono confermate le indicazioni già data con la nota del 29 gennaio, e quindi l’obbligo di registrare il contratto entro 20 giorni, con la precisazione che l’agevolazione Imu decorre dalla data del contratto di comodato e non da quello della registrazione. Si precisa poi che anche per i contratti verbali di comodato occorre avere riguardo alla data di conclusione del contratto, ai fini della decorrenza dell’agevolazione.
Per quanto riguarda le pertinenze che vengono concesse in comodato unitamente all’abitazione è precisato che anche per queste si renderà applicabile il trattamento di favore previsto per l’abitazione, tuttavia nei limiti comunque fissati dall’articolo 13, comma 2, del Dl 201/2011, o nei limiti di una pertinenza per ciascuna categoria catastale C/2, C/6 e C/7. Tale conclusione si fonda, ad avviso del Mef, sulla circostanza che il comodatario, per espressa previsione di legge, deve adibire a propria abitazione principale l’immobile concesso in comodato.
L’interpretazione ministeriale tuttavia non convince, perché comunque non si tratta di ipotesi di assimilazione all’abitazione principale, come ricordato a proposito del divieto per i Comuni di continuare a disporre l’assimilazione con regolamento, e non essendo stato previsto espressamente per legge un numero massimo di pertinenze che possano accedere alla riduzione del 50% della base imponibile, si deve applicare la norma di carattere generale stabilita dal codice civile, che prevede lo stesso trattamento giuridico previsto per il bene principale.
È, infine, trattato il caso delle abitazioni rurali ad uso strumentale, di cui all’articolo 9, comma 3-bis del Dl 557/1993, o di quelle destinate ad abitazioni dei dipendenti esercenti attività agricola assunti a tempo indeterminato o a tempo determinato per un numero di giornate lavorative superiori a 100. Secondo il Mef, il possesso di questo immobile sebbene abitativo non preclude l’accesso all’agevolazione, poiché è stato lo stesso legislatore che, al verificarsi delle suddette condizioni, lo ha considerato strumentale all’esercizio dell’agricoltura e non abitativo.
Anche questa conclusione non convince pienamente, perché non si comprende quale sia la differenza tra il fabbricato abitativo rurale disciplinato dall’articolo 9, comma 3, come quello dato in comodato al soggetto che conduce il terreno, e quello dato in comodato o affitto ai dipendenti agricoli
(articolo Il Sole 24 Ore del 18.02.2016).

APPALTI: Appalti, arrivano gli advisors. Sì ai consulenti per i responsabili unici del procedimento. Bozza di decreto sul riordino delle concessioni. Metodi di calcolo dell'anomalia sorteggiati.
Possibili advisors per il responsabile unico del procedimento; trattativa privata con cinque inviti per tutti i contratti da 40 mila a 150 mila euro e per i lavori fino a un milione con dieci inviti; metodi di calcolo dell'anomalia sorteggiati e non predeterminati; performance bond sostituito da una cauzione definitiva e sugli extra costi; forti limiti all'avvalimento.
Sono queste alcune delle scelte che emergono dalla lettura delle bozze che circolano del decreto di riordino degli appalti, attuativo della legge 11/2016, che dovrebbe essere portato ad una delle prossime riunioni del consiglio dei ministri (si parla di domani o di lunedì) per l'approvazione preliminare.
Al momento sembra che si stiano consolidando alcune scelte di fondo, mentre su altri importanti temi l'approfondimento è ancora in corso. Premesso che ormai è definitiva la scelta di procedere con un unico testo al recepimento delle direttive in materia di appalti, concessioni e «settori speciali» (scartata l'opzione delle due fasi: prima recepimento entro il 18 aprile e poi il nuovo codice entro fine luglio), va detto che sono numerosissimi i rinvii ad altri decreti che dovranno attuare parti, anche rilevanti, della materia disciplinata a livello primario dal codice di riordino.
Per quel che riguarda la soglia di anomalia delle offerte la stazione appaltante individuerà, prima dell'apertura delle buste economiche, il metodo di calcolo della soglia di anomalia tramite sorteggio in sede di gara. Sarà poi un decreto del ministro delle infrastrutture e dei trasporti, su proposta dell'Anac, a individuare i metodi per la determinazione dell'anomalia. Si sta però ragionando anche sulla possibilità di definire normativamente una soglia oltrepassata la quale si debba sempre verificare una offerta: ad esempio l'ipotesi in esame prevedrebbe l'obbligo di verifica per tutte le offerte al di sotto del 40%.
In tema di responsabile del procedimento le versioni del testo circolate sin ad oggi confermano la linea di continuità con la disciplina vigente del codice e del regolamento, anche se è all'attenzione della commissione anche la possibilità, per interventi di una certa complessità, che il Rup, responsabile unico del procedimento (project manager), possa essere anche affiancato da uno staff di professionisti esterni che siano il suo braccio operativo. Per la disciplina dei contratti sotto la soglia Ue si prevede l'affidamento diretto fino a 40 mila euro; la procedura negoziata con cinque inviti da 40 mila a 150 mila; per i soli lavori da 150 mila a un milione la procedura negoziata con dieci invitati.
Si precisa che fino a 150 mila euro le stazioni appaltanti verificheranno soltanto i requisiti di carattere generale, consultando il casellario informatico presso Anac (Autorità nazionale anticorruzione). La disciplina del contraente generale (che non potrà avere anche la direzione lavori) sembra essere ancora integralmente inserita nelle bozze di lavoro, ivi compreso l'albo dei contraenti generali gestito dal ministero delle infrastrutture. Rispetto ai requisiti per la qualificazione delle stazioni appaltanti il testo prevede che sia l'Anac a gestire l'elenco introdotto con la legge delega e che i requisiti siano definiti con decreto del presidente del consiglio dei ministri.
Per le commissioni di gara si prevede che dall'elenco gestito dall'Anac verranno scelti i commissari che si occuperanno della valutazione delle offerte dal punto di vista tecnico ed economico e che in caso di affidamento di contratti che non presentano particolare complessità, la stazione appaltante si prevede che possa nominare componenti interni alla stazione appaltante.
Il performance bond, oggi già sospeso in attesa dell'abrogazione che avverrà fra due mesi, verrà sostituito da una doppia cauzione: definitiva ed «extra costi». Dovrebbe essere più limitato il ricorso all'avvalimento e, in particolare, si dovrebbe arrivare al divieto di avvalimento per la certificazione di qualità e per i requisiti della qualificazione e dell'esperienza tecnica e professionale soggettive (articolo ItaliaOggi del 18.02.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

VARI: Dal 2 marzo prestiti vitalizi per gli over 60, con ipoteca sugli immobili.
Diventa definitivamente operativa a partire dal 02.03.2016 la disciplina in materia di prestito vitalizio ipotecario. I proprietari over 60 di un immobile residenziale, da tale data, potranno ottenere liquidità fino a 350.000 euro grazie al prestito vitalizio ipotecario, senza perdere la proprietà dell'immobile. Oggetto dell'iscrizione ipotecaria a garanzia del prestito vitalizio ipotecario potranno essere soltanto gli immobili aventi la destinazione urbanistica di civile abitazione.

È con il regolamento del ministro dello sviluppo economico, decreto 22.12.2015, n. 226 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 16.02.2016 n. 38) attuativo dell'articolo 11-quaterdecies, comma 12-quinquies, del decreto legge, 30.09.2005, n. 203, convertito dalla legge, 02.12.2005, n. 248 (come modificato dall'articolo 1, comma 1, della legge, 02.04.2015, n. 44) che viene delineata la disciplina di attuazione del prestito vitalizio ipotecario.
Con successivo studio 22.01.2016 n. 38-2016/C il Consiglio nazionale del notariato fornisce una panoramica d'insieme delle novità contenute nel regolamento attuativo.
Cointestazione del contratto di finanziamento. Quando il soggetto finanziato risulti coniugato oppure convivente more uxorio da almeno un quinquennio (documentato attraverso la presentazione di un certificato di residenza storico) il contratto di finanziamento andrà sottoscritto da entrambi i soggetti, anche se l'immobile è di proprietà di uno soltanto di essi.
In pratica, ai fini della cointestazione del finanziamento, sarà necessario che i requisiti soggettivi siano posseduti da entrambi i soggetti sottoscrittori, dovendo entrambi essere persone fisiche con una età superiore a sessant'anni compiuti.
Se si tratta poi di soggetti conviventi more uxorio, sarà necessario che tale convivenza abbia una durata pari ad almeno un quinquennio documentato attraverso la presentazione di un certificato di residenza storico. Mentre, per quanto riguarda la titolarità del bene oggetto garanzia, la norma non richiede che entrambi i soggetti siano titolari del bene, ammettendosi l'erogazione del finanziamento anche se il bene è di esclusiva proprietà di uno soltanto di essi.
Rimborso integrale finanziamento. Il finanziatore potrà richiedere il rimborso integrale del finanziamento in un'unica soluzione in caso di morte del soggetto finanziato. E se il finanziamento sarà cointestato, tale condizione si avvererà al momento della morte del soggetto finanziato più longevo (articolo ItaliaOggi del 18.02.2016).

TRIBUTI: Imu, il comodato va registrato. Per usufruire dell'agevolazione va utilizzato il mod. 69. Una risoluzione del dipartimento delle finanze sulla riduzione per la concessione ai figli.
Sui contratti di comodato verbali per l'agevolazione Imu prima casa ok alla registrazione in duplice copia con l'indicazione della stipula della data dal 01.01.2016.
Inoltre la Tasi non è dovuta dal comodatario. Sarà versata dal comodante, una volta ridotta la base imponibile del 50%, nella percentuale stabilità dal comune con riferimento all'anno 2015. In caso il comune non abbia deliberato, si applicherà la Tasi pari al 90% dell'ammontare complessivo del tributo.
Infine ai fini dell'agevolazione, introdotta con la legge di stabilità 2016, a favore di immobili concessi in comodato tra parenti, per possesso di un solo immobile in Italia si deve fare riferimento agli immobili ad uso abitativo e, dunque il possesso delle pertinenze, o di un altro immobile che non sia destinato ad uso abitativo, non impediscono il riconoscimento dell'agevolazione (riduzione della base imponibile del 50% in caso di cessione dell'abitazione in comodato ai familiari).

Sono questi, in estrema sintesi, i chiarimenti giunti ieri dal dipartimento delle finanze, con la risoluzione 17.02.2016 n. 1/DF, sull'agevolazione prima casa introdotta dalla legge 208/2015 (legge di stabilità 2016).
Registrazione del contratto di comodato. Il contratto di comodato non è soggetto all'obbligo di registrazione, «tranne», spiegano dal dipartimento, «nell'ipotesi di enunciazione in altri atti». La legge di stabilità però ha richiesto espressamente la registrazione del contratto di comodato e «ha inteso estendere», sottolineano dalle Finanze, «tale adempimento limitatamente al godimento dell'agevolazione Imu anche a quelli verbali».
Dunque, con esclusivo riferimento ai contratti verbali di comodato, e ai soli fini dell'applicazione Imu , la relativa registrazione potrà essere effettuata con l'esclusiva presentazione del modello di richiesta di registrazione (modello 69) in duplice copia in cui, scrivono nella risoluzione, «dovrà essere indicato contratto verbale di comodato».
Infine dal dipartimento precisano che «anche per i contratti verbali di comodato occorre avere riguardo alla data di conclusione del contratto, ai fini della decorrenza dell'agevolazione». La questione era stata sollevata da Cna che in una nota diffusa sempre ieri ha sottolineato come «il ministero dell'economia e delle finanze, amplia ulteriormente i contenuti di risposte già fornite ai quesiti di Cna, in merito ai termini di registrazione dei contratti verbali di comodato, finalizzati al riconoscimento della riduzione dell'Imu e della Tasi, nonché fornisce ulteriori chiarimenti su questioni poste dalla Confederazione».
Possesso di un solo immobile da parte del comodante. Nella risoluzione, si chiarisce che ai fini dell'agevolazione per solo immobile, che deve possedere il comodante, si deve far riferimento a immobili a uso abitativo. Sono esclusi dunque i terreni agricoli o i negozi. Non solo. Non rientrano, nel calcolo del possesso di un solo immobile abitativo, le pertinenze e a queste ultime, qualora venga concesso lo sgravio all'immobile a cui sono annesse, si applicherà lo stesso trattamento di favore previsto, appunto, per la cosa principale.
La risoluzione affronta, poi, diverse casistiche. Il beneficio è riconosciuto nel caso in cui due coniugi possiedono la comproprietà al 50% dell'immobile che viene concesso in comodato al figlio e il marito possiede un altro immobile ad uso abitativo in un comune diverso da quello del primo immobile. Le finanze riconoscono l'agevolazione solo con riferimento alla quota di possesso della moglie, in quanto per il marito non è rispettato il requisito del possesso dell'unico immobile.
A diversa soluzione si sarebbe giunti se il marito avesse posseduto l'altro immobile nello stesso comune potendo in tale modo entrambi usufruire dell'agevolazione. Situazione capovolta. Se l'immobile è di comproprietà tra i coniugi ed è concesso in comodato ai genitori di uno di essi, allora l'agevolazione spetta al solo comproprietario per il quale è rispettato il vincolo di parentela, in ragione della quota di possesso. Infine nell'ipotesi di due immobili ad uso abitativo, di cui uno in comproprietà, in un comune diverso da quello in cui è ubicato il secondo, posseduto al 100% e concesso in comodato, per il Fisco non si applica la disposizione di favore, indipendentemente dalla quota di possesso dell'immobile, poiché non è rispettato il requisito di possedere un solo immobile in Italia.
L'agevolazione in questo caso opera solo se l'immobile, posseduto in percentuale e ubicato nello stesso comune in cui è situato l'immobile concesso in comodato, è destinato a propria abitazione principale dal comodante (articolo ItaliaOggi del 18.02.2016).

APPALTI: Appalti, tutti i poteri all’Anac. Salta la cabina di regìa, vecchio regolamento ad abrogazione progressiva.
Palazzo Chigi. Il testo del Dlgs oggi in «commissione Manzione» per l’ultima riunione, poi subito in Cdm.
Si svuota la cabina di regia a Palazzo Chigi (che farà solo programmazione di investimenti) per lasciare tutti i poteri di indirizzo normativo e regolazione all’Anac di Raffaele Cantone; si prevede una fase transitoria che, per evitare di bloccare i bandi e le opere in corso, comporti una «abrogazione progressiva» del vecchio regolamento via via che arriveranno le linee-guida dell’Anac; si limita la possibilità di adottare il criterio del massimo ribasso in gara solo per piccoli contratti di manutenzione; si prevede «una soglia del sottosoglia Ue» (1 milione di euro per i lavori, 150mila euro per forniture e servizi) sotto la quale sarà possibile affidare appalti mediante procedure negoziate «previa consultazione di dieci operatori economici, nel rispetto di un ciriterio di rotazione degli inviti, individati sulla base di indagini di mercato o tramite elenchi di operatori economici». In queste gare semplificate la stazione appaltante potrà inserire anche l’esclusione automatica delle offerte anomale.
Sono alcune delle novità del testo di decreto legislativo che recepirà le direttive Ue e riformerà il codice degli appalti, modificando radicalmente anche i sistemi di qualificazione: ci saranno «idonee misure di premialità connesse ai criteri reputazionali» per le imprese appaltatrici di lavori, un potere sanzionatorio rafforzato dell’Anac verso le Soa (società organismo di attestazione) e un ventaglio assai ampio di sanzioni pecunarie e amministrative per colpirne le distorsioni, il «coordinamento con la normativa vigente in materia di rating di legalità», la novità assoluta della istituzione di «un sistema reputazionale delle stazioni appaltanti teso a valutarne l’effettiva capacità tecnico-organizzativa sulla base di di parametri oggettivi e criteri di qualità, efficienza e professionalizzazione delle stesse».
Oggi pomeriggio la «commissione Manzione» terrà un’ultima riunione, in plenaria, per bollare lo schema di decreto attuativo della delega della legge 11/2016 e trasferirlo poi nelle mani di Matteo Renzi che ha fretta di portarlo al Consiglio dei ministri subito, forse già domani o al più tardi la prossima settimana.
Ancora ieri sera il testo mancava di alcune parti fondamentali (gli articoli sui poteri dell’Anac) e altre venivano ancora riscritte e limate alla velocità della luce, ma per oggi la stesura definitiva sarà pronta. Sfida nella sfida -una sfida titanica quella in capo al direttore dell’ufficio legislativo di Palazzo Chigi, Antonella Manzione, di riscrivere in due mesi l’intera disciplina degli appalti pubblici- la riduzione del numero degli articoli che è sceso dai 249 su cui ha lavorato la commissione in questi ultimi 45 giorni a 219 (cui vanno aggiunti una decina di articoli sui poteri Anac), in ossequio al principio della semplificazione e dell’alleggerimento normativo che anima il governo (e in particolare il ministro delle Infrastrutture, Graziano Delrio).
Per nessuna ragione al mondo Renzi vuole sforare la data del 18 aprile -scadenza per l’esercizio della delega e soprattutto per il receprimento delle direttive Ue- per l’approvazione definitiva del provvedimento. Tra il primo sì e quello definitivo del Cdm c’è un percorso a ostacoli, con i pareri del Consiglio di Stato, della Conferenza Stato-Regioni e ben due pareri delle commissioni parlamentari. Il percorso sarà “in simultanea” e non “in sequenza” e dovrebbe richiedere almeno 45 giorni, ma il premier vuole affrontarlo per tempo.
Sulla riforma degli appalti Renzi si gioca due partite decisive: una interna, per avviare un nuovo sistema di investimenti pubblici a blindatura anticorruzione che giri intorno alla vigilanza e alla regolazione di Raffaele Cantone; l’altra in Europa, dove Renzi spiegherà che questa è un’altra fondamentale riforma economica che agisce su uno dei punti più critici in questo momento: il rilancio degli investimenti.
Un crocevia di tensioni che toccano il rilancio del Pil italiano, l’accettazione da parte della Ue della “clausola” di flessibilità per gli investimenti da 5 miliardi, le riforme economiche in senso lato. Normale quindi che il premier voglia fare in fretta per ribaltare il rischio di una procedura di infrazione per il mancato recepimento in una carta a sua favore da giocare con Bruxelles.
Il rilancio degli investimenti, in un regime di legalità e di risultati effettivi (fare le opere in tempi e costi certi e non solo avviare incompiute), è anche la carta con cui si può spingere l’economia italiana a riprendere la corsa. Il limite posto alle varianti in corso d’opera, le procedure telematiche e il nuovo Osservatorio appalti potenziato presso l’Anac lo aiuteranno in questo percorso
(articolo Il Sole 24 Ore del 17.02.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI: Stazioni appaltanti, le strade di qualifica o aggregazione. Enti locali. Il testo lascia aperte le diverse strade.
Uno dei nodi aperti della riforma appalti è quello delle aggregazioni e delle centralizzazioni delle committenze, posto con forza dalle direttive Ue e dalle politiche di spending review, mentre la legge delega individua anche nella qualificazione e nella professionalizzazione delle stazioni appaltanti gli strumenti per rendere efficiente il sistema. Un tema che non è privo di contraddizioni e avrà un impatto sugli enti locali che non di rado vivono questi processi di riforma “in difesa” rispetto alle competenze attuali. Diverse strade sono ancora aperte.
«Il recepimento delle direttive Ue –dice Claudio Lucidi, componente della “commissione Manzione” in rappresentanza dell’Anci, intervistato dal Quotidiano Edilizia e Territorio- può rappresentare un’occasione importante per rilanciare il ruolo e le funzioni dei comuni e contemporaneamente contribuire a un riordino delle modalità di approvvigionamento, razionalizzando procedure di spesa attraverso l’applicazione di criteri di qualità ed efficienza».
Ma qual è la strada giusta per dare efficienza al settore? «Per raggiungere questi obiettivi -dice Lucidi- la legge delega indica vari percorsi: a) professionalizzazione e qualificazione delle stazioni appaltanti; b) centralizzazione delle committenze e riduzione del numero delle stazioni appaltanti; c) creazione di reti di committenza per intensificare il ricorso ad affidamenti di tipo telematico. La previsione di un sistema di qualificazione potrebbe consentire ai comuni che intendono “investire” in questo settore, di svolgere specifiche funzioni non solo per sé stessi ma anche per altre amministrazioni locali e stazioni appaltanti».
La direttiva Ue esprime un favor per i processi di aggregazione della domanda o di centralizzazione delle procedure, ma -dice Lucidi «segnala il rischio di eccessiva concentrazione del potere di acquisto e collusioni, nonché di preservare la trasparenza e la concorrenza e la possibilità di accesso al mercato per le Pmi». L’auspicio è che il nuovo codice individui strumenti per coniugare le diverse esigenze, risolvendo «la problematicità individuabile nel binomio aggregazione/centralizzazione».
Come? Vale l’esempio dei comuni non capoluogo di provincia per cui si introduce l’obbligo di aggregazione o centralizzazione a livello di unioni dei comuni. «I comuni non capoluogo -dice Lucidi- possono propendere per una delle due modalità, con coinvolgimento e responsabilità diverse secondo a quale modello si intende fare riferimento. Ovviamente nel sistema di reti di committenza occorre considerare l’obbligo di rivolgersi per determinati acquisiti di beni e servizi (in parte per lavori) alla Consip e ai soggetti aggregatori di livello regionale e a livello di città metropolitane»
(articolo Il Sole 24 Ore del 17.02.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIOGli ascensori fuorilegge. Confedilizia: salasso in arrivo sui proprietari. Botta e risposta col Mise sul dpr che rischia di imporre nuove verifiche.
Un nuovo balzello potrebbe presto abbattersi sui proprietari di casa: la tassa sugli ascensori. La maggior parte dei quali rischia di diventare da un giorno all'altro fuorilegge con obbligo di metterli in regola a caro prezzo.

Il ministero dello sviluppo economico ha licenziato uno schema di dpr attuativo della direttiva comunitaria 2014/33/Ue, affinché vada sul tavolo di uno dei prossimi consigli dei ministri. Questo ha chiesto a palazzo Chigi l'ufficio legislativo di via Veneto che ha ricordato come la citata direttiva debba essere recepita in tempi brevi: entro il 19 aprile.
A lanciare l'allarme è Confedilizia che avverte: se il testo messo a punto dal Mise sarà approvato così com'è, sui poveri proprietari si abbatterà un salasso tale che in confronto i tempi in cui si pagavano Imu e Tasi sulla prima casa saranno ricordati con nostalgia. Secondo Confedilizia, il dpr imporrebbe infatti una verifica straordinaria degli ascensori esistenti, attribuendo ai soggetti verificatori la facoltà di prescrivere una serie di interventi di adeguamento che potrebbero essere molto costosi.
Il tutto aggravato dal fatto che, secondo Confedilizia, l'obbligo non è in alcun modo previsto dalla direttiva europea di cui il dpr costituisce attuazione. In pratica, si tratterebbe di un eccesso di zelo che finirà per gravare sui soliti noti: i proprietari.
Ma dal Mise ribattono: il dpr non prevede nessuna verifica straordinaria ma solo controlli di sicurezza da svolgersi nell'ambito della prima verifica ordinaria utile. Il ministero in una nota ha chiarito che «maggiore attenzione è prevista solo per gli ascensori installati anteriormente al 1999, cioè prima dell'applicazione delle relative direttive europee in materia che hanno aumentato i requisiti di sicurezza per gli impianti. Tali ascensori saranno verificati non solo con riferimento ai requisiti vigenti all'epoca, ma anche con riferimento ai più importanti requisiti di sicurezza introdotti successivamente, ad esempio per la precisione della fermata e il livellamento fra cabina dell'ascensore e piano».
Secondo Confedilizia, tuttavia, la replica del ministero di Federica Guidi non regge. Anzi, implicitamente conferma che «nel recepire la direttiva Ue è stata inserita nello schema di dpr una verifica straordinaria (non sapremmo come definire altrimenti una verifica sinora non prevista ) sugli ascensori, che la direttiva in questione non prevede».
Per questo il presidente dell'Organizzazione della proprietà edilizia, Giorgio Spaziani Testa, rilancia. E fa appello al governo chiedendo un dietrofront. «Ci appelliamo al presidente del consiglio affinché non venga imposta a milioni di famiglie, già provate dalla congiuntura economica, una spesa che annullerebbe in un colpo solo gli effetti dell'abolizione della Tasi sull'abitazione principale, imponendo esborsi pari al doppio del gettito della Tasi stessa».
Il Mise però anche su questo punto tranquillizza: «i nuovi controlli sono stati individuati in modo selettivo e, quindi, non possono determinare spese eccessive». E in ogni caso gli interventi «potranno essere graduati su quattro anni e beneficeranno delle detrazioni fiscali per le ristrutturazioni» (articolo ItaliaOggi del 17.02.2016).

GIURISPRUDENZA

APPALTIL’Adunanza Plenaria ritiene di dover dare continuità al consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui l’incameramento della cauzione provvisoria, previsto dall’art. 48 del Codice dei contratti pubblici, costituisce una conseguenza automatica del provvedimento di esclusione, come tale non suscettibile di alcuna valutazione discrezionale con riguardo ai singoli casi concreti.
Tale misura, quindi, risulta insensibile ad eventuali valutazioni volte ad evidenziare la non imputabilità a colpa della violazione che ha dato causa all’esclusione.
Già questa Adunanza Plenaria ha peraltro riconosciuto che la passibilità di incamerare la cauzione provvisoria può trovare fondamento anche nell’art. 75, comma 6, del Codice di contratti pubblici, che riguarda tutte le ipotesi di mancata sottoscrizione del contratto per fatto dell’affidatario, intendendosi per “fatto dell’affidatario” qualunque ostacolo alla stipulazione a lui riconducibile, e tra cui anche, come nel caso di specie, il difetto di un requisito d ordine generale.

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XII) L’appello incidentale proposto da Consip

31. Può passarsi ora ad esaminare l’appello incidentale proposto da Consip.
32. Come si è ricordato in narrativa, la Consip contesta la parte della sentenza impugnata che, in parziale accoglimento dei motivi aggiunti al ricorso di primo grado, ha annullato la nota del 24.03.2015, prot. n. 8069, con cui Consip ha escusso le cauzioni provvisorie prescritte per i lotti 5 e 6, di importo pari ad € 1.200.000,00 per il lotto 5 ed € 870.000,00 per il lotto 6.
Il Tribunale amministrativo regionale ha accolto in questa parte il ricorso ritenendo che, alla luce della peculiarità della vicenda, «la condotta della ricorrente Romeo Gestioni s.p.a. (peraltro estranea alle irregolarità che hanno riguardato imprese partecipanti al raggruppamento) non rivesta carattere di gravità, potendo riconoscersi, in capo alla ricorrente, la scusabilità dell’errore».
Consip critica la sentenza richiamando l’orientamento giurisprudenziale secondo cui l’escussione della cauzione provvisoria ai sensi dell’art. 48 del decreto legislativo n. 163 del 2006 rappresenta una misura di indole patrimoniale, priva di carattere sanzionatorio amministrativo, che costituisce l’automatica conseguenza della violazione di doveri o regole contrattuali espressamente accertate. Essa, quindi, sarebbe applicabile a prescindere dalla scusabilità dell’errore, come automatica conseguenza della violazione riscontrata.
33. L’appello incidentale merita accoglimento.
L’Adunanza Plenaria ritiene di dover dare continuità al consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui l’incameramento della cauzione provvisoria, previsto dall’art. 48 del Codice dei contratti pubblici, costituisce una conseguenza automatica del provvedimento di esclusione, come tale non suscettibile di alcuna valutazione discrezionale con riguardo ai singoli casi concreti. Tale misura, quindi, risulta insensibile ad eventuali valutazioni volte ad evidenziare la non imputabilità a colpa della violazione che ha dato causa all’esclusione (cfr., tra le tante, Cons. Stato, 26.05.2015, n. 2638; Cons. Stato, sez. V, 10.09.2012, n. 4778; Cons. Stato 18.04.2012, n. 2232; Cons. Stato, sez. IV, 16.02.2012, n. 810; Cons. Stato, sez. III, n. 4773 del 2012; Cons. Stato sez. V, 01.10.2010, n. 7263; nonché Corte Cost., ord. n. 211 del 13.07.2011).
Già questa Adunanza Plenaria (nella sentenza 04.05.2012, n. 8) ha peraltro riconosciuto che la passibilità di incamerare la cauzione provvisoria può trovare fondamento anche nell’art. 75, comma 6, del Codice di contratti pubblici, che riguarda tutte le ipotesi di mancata sottoscrizione del contratto per fatto dell’affidatario, intendendosi per “fatto dell’affidatario” qualunque ostacolo alla stipulazione a lui riconducibile, e tra cui anche, come nel caso di specie, il difetto di un requisito d ordine generale.
Inoltre, anche a prescindere dal condivisibile rigore del citato orientamento giurisprudenziale nell’applicazione della misura dell’escussione della cauzione provvisoria, nel caso di specie, la ragione dell’esclusione (dovuta alla dichiarazione non veritiera sulla esistenza di una situazione di regolarità contributiva al momento della presentazione della domanda), non risulta incolpevole o scusabile, atteso che rientra nell’ordinaria diligenza dell’impresa che partecipa ad una gara di appalto verificare la sussistenza della propria posizione contributiva con riferimento alla data di presentazione della domanda.
L’appello incidentale proposto da Consip deve, pertanto, essere accolto e, per l’effetto, in parziale riforma della sentenza appellata, deve essere respinto il ricorso per motivi aggiunti proposto in primo grado avverso la nota 24.03.2015, n. 8069
(Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 29.02.2016 n. 5 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PATRIMONIO: Se l'alunno cade nella palestra del comune, paga sempre la scuola.
L'istituto deve vigilare sull'idoneità dei luoghi nei quali realizza la prestazione scolastica: anche il detentore è infatti custode.
La scuola ha un preciso dovere di garantire la sicurezza e l'incolumità dei suoi allievi nel tempo in cui i ragazzini usufruiscono delle prestazioni scolastiche.
A tal proposito, con la sentenza 25.02.2016 n. 3695, la Corte di Cassazione -Sez. III civile- ha precisato che tale obbligo si estende alla prestazione scolastica in tutte le sue manifestazioni e non resta invece circoscritta alle sole attività che si svolgono all'interno dell'edificio di pertinenza della scuola.
In particolare, l'istituto è chiamato a vigilare sull'idoneità dei luoghi nei quali realizza la prestazione scolastica e a predisporre gli accorgimenti che, in conseguenza del loro stato, si rendano necessari.
Lo studente, invece, deve provare solo di aver subito il danno mentre era sottoposto alla vigilanza del personale della scuola.
Di conseguenza è indifferente che chi agisca per ottenere il risarcimento del danno subito dall'allievo invochi la responsabilità contrattuale o quella extracontrattuale e quindi faccia valere il negligente adempimento dell'obbligo di sorveglianza o l'omissione delle cautele necessarie secondo l'ordinaria diligenza.
Invece, all'amministrazione scolastica spetta dimostrare di aver esercitato la sorveglianza sugli allievi con la diligenza idonea ad impedire il fatto dannoso.
Nel caso di specie, quindi, la scuola è stata condannata a risarcire l'alunno che era scivolato sul pavimento bagnato di una palestra di proprietà del Comune, esterna all'edificio scolastico.
Del resto, per i giudici anche il detentore è custode, a meno che non riesca a provare l'assoluta mancanza di potere di ingerenza sulla cosa o di intervento sul bene (commento tratto da www.studiocataldi.it).
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MASSIMA
In caso di danno cagionato dall’alunno a se stesso, la responsabilità dell’Istituto scolastico e dell’insegnante ha natura contrattuale, atteso che, quanto all’Istituto, l’accoglimento della domanda di iscrizione determina l’instaurazione di un vincolo negoziale, dal quale sorge l’obbligo di vigilare sulla sicurezza e sull’incolumità del discepolo nel tempo in cui questi fruisce della prestazione scolastica in tutte le sue espressioni; quanto al precettore, tra insegnante e allievo si instaura, per contatto sociale, un rapporto giuridico nell’ambito del quale il primo assume anche uno specifico obbligo di protezione e vigilanza, onde evitare che l’alunno si procuri da solo un danno alla persona.
Ne deriva che, nelle controversie instaurate per il risarcimento del danno da autolesione nei confronti dell’istituto scolastico dell’insegnante, è applicabile il regime probatorio imposto dall’art. 1218 c.c., sicché, mentre il danneggiato deve provare esclusivamente che l’evento dannoso si è verificato nel corso dello svolgimento del rapporto, sulla scuola incombe l’onere di dimostrare che l’evento è stato determinato da causa non imputabile né alla scuola né all’insegnante
(tratta da http://renatodisa.com).

TRIBUTI: Cartelle ok senza firma di apicali. Cassazione: basta la sigla del responsabile dell'iter.
La cartella di pagamento è valida con la sola indicazione del responsabile del procedimento senza che sia necessario leggere sull'atto il nome di un dirigente apicale.

È quanto affermato dalla Corte di Cassazione -Sez. VI civile- che, con l'ordinanza 23.02.2016 n. 3533, ha respinto il ricorso del contribuente.
Ciò perché, ha spiegato la sesta sezione civile, ai sensi del dl 248 del 2007, art. 36, comma 4-ter, l'indicazione del responsabile del procedimento di iscrizione a ruolo e di quello di emissione e di notificazione della stessa cartella è prevista, in relazione ai ruoli consegnati agli agenti della riscossione a decorrere dal 01.06.2008, a pena di nullità; in base al tenore letterale di detta disposizione è tuttavia sufficiente, al fine di non incorre nella detta nullità, l'indicazione di persona responsabile del procedimento, a prescindere quindi dalla funzione (apicale o meno) della stessa effettivamente esercitata; siffatta indicazione appare peraltro sufficiente ad assicurare gli interessi sottostanti alla detta indicazione, e cioè la trasparenza dell'attività amministrativa, la piena informazione del cittadino (anche ai fini di eventuali azioni nei confronti del responsabile) e la garanzia del diritto di difesa. Nel caso sottoposto all'esame della Corte, la Ctp di Napoli aveva in prima battuta annullato l'atto in quanto privo della firma del dirigente.
Poi, su ricorso del fisco, il verdetto era stato ribaltato. Ora la Cassazione lo ha reso definitivo precisando che le indicazioni contenute in cartella erano sufficienti (articolo ItaliaOggi del 24.02.2016).

EDILIZIA PRIVATACostituisce ius receptum l'affermazione secondo cui non sussiste obbligo per l’amministrazione di provvedere alla comunicazione prevista dall’art. 7. l. 241 del 1990 in materia di irrogazione di sanzioni per abusi edilizi, poiché il procedimento sanzionatorio non prevede la possibilità di valutazioni discrezionali ma si risolve in un mero accertamento tecnico sull’esistenza delle opere abusivamente realizzate.
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Non può aver rilievo la circostanza che le opere abusive in questione sono state realizzate da parecchi anni, in quanto [...] il mero decorso del tempo non è di per sé idoneo ad ingenerare un legittimo affidamento del privato.
Il potere di irrogare sanzioni in materia urbanistica ed edilizia, infatti, può essere esercitato in ogni tempo, atteso che la legge non lo sottopone a termini di prescrizione o di decadenza, riguardando una situazione di illiceità permanente, ossia una situazione di fatto attualmente contra jus.
Né i provvedimenti attraverso i quali l’autorità preposta alla tutela del territorio provvede alla repressione degli illeciti amministrativi in materia edilizia ed urbanistica richiedono alcuna particolare motivazione volta ad evidenziare le specifiche ragioni di pubblico interesse che impongano di dar corso al ripristino dello stato dei luoghi ed a comparare tale interesse pubblico con il sacrificio imposto al privato, in quanto la repressione degli abusi edilizi si connota come un preciso obbligo dell'Amministrazione, la quale non gode di alcuna discrezionalità al riguardo.
Nel caso di specie, l'aver parte ricorrente destinato l'immobile, manifestamente abusivo, a civile abitazione ed averlo anche ritenuto sottoposto agli obblighi fiscali, non può spiegare effetti sulla legittimità dell'operato dell'Amministrazione, tenuta a reprimere una condotta che rimane contra legem.
D'altronde, in tema di abusi edilizi ed urbanistici si è in presenza di illeciti di carattere permanente, caratterizzati dall’obbligo, perdurante nel tempo, di ripristinare secundum jus lo stato dei luoghi, con l’ulteriore conseguenza che se l’Autorità emana un provvedimento repressivo di demolizione non emana un atto «a distanza di tempo» dall’abuso, ma reprime una situazione antigiuridica ancora sussistente e non esercita alcuna discrezionalità.
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... per l'annullamento dell’ordinanza di demolizione n. 5 del 04.06.2007.
...
Il ricorso, poiché infondato, deve essere rigettato.
Con il primo motivo parte ricorrente deduce l'omessa comunicazione di avvio del procedimento da parte dell'amministrazione comunale intimata.
La doglianza non è meritevole di pregio.
Costituisce ius receptum l'affermazione, condivisa dal Collegio, secondo cui non sussiste obbligo per l’amministrazione di provvedere alla comunicazione prevista dall’art. 7. l. 241 del 1990 in materia di irrogazione di sanzioni per abusi edilizi, poiché il procedimento sanzionatorio non prevede la possibilità di valutazioni discrezionali ma si risolve in un mero accertamento tecnico sull’esistenza delle opere abusivamente realizzate (cfr., tra le tante, da ultimo, C.G.A., SS.RR., n. 47 del 2016).
Nel caso di specie, peraltro, parte ricorrente non ha offerto elementi significativi in ragione dei quali poter ritenere che ove la pretesa partecipativa si fosse realizzata il provvedimento avrebbe potuto avere un diverso contenuto dispositivo.
Con il secondo motivo parte ricorrente deduce la violazione del principio del legittimo affidamento asseritamente ingenerato dall'amministrazione sul rilievo che l'immobile, al momento dell'adozione del provvedimento, risultava (in tesi) costruito da oltre vent'anni, oltreché destinato a civile abitazione e sottoposto agli adempimenti fiscali e catastali previsti dalla legge.
Il motivo è infondato.
Ritiene il Collegio di dover aderire, in continuità con la giurisprudenza della Sezione, alla tesi secondo cui «non può aver rilievo la circostanza che le opere in questione sono state realizzate da parecchi anni, in quanto [...] il mero decorso del tempo non è di per sé idoneo ad ingenerare un legittimo affidamento del privato. Il potere di irrogare sanzioni in materia urbanistica ed edilizia, infatti, può essere esercitato in ogni tempo, atteso che la legge non lo sottopone a termini di prescrizione o di decadenza, riguardando una situazione di illiceità permanente, ossia una situazione di fatto attualmente contra jus (cfr., tra le diverse C.G.A., SS.RR. n. 1225 del 2015 e giurisprudenza amministrativa ivi richiamata). Né i provvedimenti attraverso i quali l’autorità preposta alla tutela del territorio provvede alla repressione degli illeciti amministrativi in materia edilizia ed urbanistica richiedono alcuna particolare motivazione volta ad evidenziare le specifiche ragioni di pubblico interesse che impongano di dar corso al ripristino dello stato dei luoghi ed a comparare tale interesse pubblico con il sacrificio imposto al privato, in quanto la repressione degli abusi edilizi si connota come un preciso obbligo dell'Amministrazione, la quale non gode di alcuna discrezionalità al riguardo (cfr. C.G.A., Sezioni riunite, 29.11.2011, n. 1701; 29.01.2013, n. 1039/12)
».
Nel caso di specie, l'aver parte ricorrente destinato l'immobile, manifestamente abusivo, a civile abitazione ed averlo anche ritenuto sottoposto agli obblighi fiscali, non può spiegare effetti sulla legittimità dell'operato dell'Amministrazione, tenuta a reprimere una condotta che rimane contra legem.
D'altronde, in tema di abusi edilizi ed urbanistici si è in presenza di illeciti di carattere permanente, caratterizzati dall’obbligo, perdurante nel tempo, di ripristinare secundum jus lo stato dei luoghi, con l’ulteriore conseguenza che se l’Autorità emana un provvedimento repressivo di demolizione non emana un atto «a distanza di tempo» dall’abuso, ma reprime una situazione antigiuridica ancora sussistente (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 16.04.2010, n. 2160) e non esercita alcuna discrezionalità (cfr. C.G.A., Sezioni riunite, 26.05.2015, n. 608/14).
Da ultimo, la censura involgente la statuizione del provvedimento inerente alla futura acquisizione dell'immobile è del tutto generica e comunque infondata considerato che l'amministrazione si è limitata a richiamare la fonte attributiva del potere di acquisizione gratuita, subordinando la stessa alla notificazione dell'accertamento inottemperanza all'ingiunzione demolitoria.
Alla luce delle suesposte considerazioni il ricorso deve essere rigettato (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 23.02.2016 n. 532 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALISpese, compensazione più estesa. Requisito della soccombenza reciproca per le cause dopo l’11.12.2014. L’accoglimento parziale di una domanda può far scattare la reciproca soccombenza con la possibilità di compensare le spese di lite.
Cassazione. Per i giudici di legittimità c’è «riparto» anche con l’accoglimento parziale di una domanda.

La Corte di Cassazione, con la sentenza 22.02.2016 n. 3438, Sez. III civile, fa il punto sulle nuove disposizioni in tema di compensazione delle spese introdotte dall’articolo 13 del Dl 132/2014.
La Suprema corte ricorda che, in seguito alle modifiche apportate all’articolo 92 del Codice di rito, per le cause iniziate dopo l’11.12.2014, la compensazione delle spese di lite è prevista solo nella soccombenza reciproca, fatta eccezione per i casi in cui vi sia una assoluta novità o un mutamento della giurisprudenza su questioni dirimenti. Un “paletto” che, secondo la Cassazione, impone una corretta ricostruzione della nozione di soccombenza, decisiva per individuare le residue possibilità di rendere operativa la regola della compensazione totale o parziale delle spese.
Per i giudici della Terza sezione civile escludere che l’accoglimento parziale di una domanda determini una situazione di reciproca soccombenza, impedirebbe in radice la compensazione anche parziale. Con un’interpretazione rigida si metterebbe il convenuto nella situazione di dover pagare sempre e integralmente le spese all’attore, anche quando quest’ultimo “vince” solo su un’unica domanda, proposta per un importo trascurabile. Conclusione che -sottolinea la Suprema corte- oltre a contrastare con il principio di causalità, non sarebbe neppure logica né equa.
Secondo la Cassazione la reciproca soccombenza può essere individuata sia nelle ipotesi di più domande contrapposte, accolte o rigettate, che si siano cumulate nel medesimo processo fra le stesse parti, sia in caso di accoglimento parziale dell’unica domanda proposta. E questo vale tanto se la domanda è stata articolata in più capi, con uno o più d’uno accolti e altri rigettati, come nel caso «la parzialità dell’accoglimento sia meramente quantitativa e riguardi una domanda articolata in un unico capo». Nella compensazione parziale delle spese la parte che paga di più è quella che ha dato «causa in misura prevalente agli oneri processuali e alla quale questi siano in maggior misura imputabili». E individuarla spetta al giudice, che sceglie con una valutazione discrezionale ma non arbitraria perché fondata sul principio di causalità.
Il giudice dovrà dunque imputare idealmente a ciascuna parte gli oneri processuali imposti all’altra per aver resistito a pretese fondate o per aver avanzato richieste infondate, operando una compensazione. La Suprema corte precisa che, in tale ideale compensazione alla parte che agisce vanno riconosciuti per intero gli oneri necessari per proporre le pretese fondate, ridotti «in ragione della maggior quota differenziale degli oneri necessari alla controparte per resistere anche alle pretese infondate»
 (articolo Il Sole 24 Ore del 23.02.2016).

APPALTI: Principio di separazione tra l’offerta tecnica e l’offerta economica – Segretezza dell’offerta economica sino alla conclusione delle valutazioni delle offerte tecniche – Richiesta di soluzioni migliorative, che si risolvano nell’indicazione di elementi di rilievo economico nell’offerta tecnica – Principi di ragionevolezza e di proporzionalità.
La previsione della necessità dell’assenza, nell’offerta tecnica, di elementi riferibili all’offerta economica è a presidio del principio dell’autonomia dell’apprezzamento discrezionale dell’offerta tecnica rispetto a quello dell’offerta economica, e il suo rispetto è garantito dall’anteriorità della prima valutazione e dalla necessità che dall’offerta tecnica esulino elementi e valori propri dell’offerta economica, sicché è principio che le offerte economiche restino segrete fino alla conclusione della valutazione delle offerte tecniche.
Ma se il bando richiede o permette soluzioni migliorative, la cui tecnicità richieda necessariamente anche esami di tipo aritmetico o l’indicazione di parametri dei costi o, ancora, comparazioni rispetto a prezzi di mercato o listini ufficiali, ne viene che fatalmente l’offerta tecnica va a dover contenere alcuni elementi di rilievo economico, al limite indici indiretti di prezzi. Il che, nel limite della ragionevolezza e delle proporzionalità, non vulnera il principio generale di separatezza delle due offerte.
Infatti diversamente si dovrebbero ritenere a priori precluse tutte le formulazioni dell’offerta tecnica –e, a maggior ragione, le richieste di formulazioni dell’offerta tecnica a opera della lex specialis– che prendano in considerazione siffatti parametri economici: mentre ne ricorre il divieto solo nel caso in cui quel limite sia concretamente superato e dunque dall’offerta tecnica si possa agevolmente desumere l’offerta economica, con conseguente lesione effettiva della separatezza dell’offerta tecnica dall’offerta economica.
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È giurisprudenza pacifica che il principio che il giudizio di valutazione sia espressione di un potere ampiamente discrezionale connotato da elementi di tecnicismo insindacabili in questa sede, fatti salvi i limiti di illogicità o irrazionalità manifeste.
L’utilizzazione della tecnica per le attività valutative delle giustificazioni sulla congruità dell’offerta tecnica si sostanzia in un’operazione tipica di merito, con uso di criteri e regole di fatto, nel caso di specie tecniche e comunque non giuridiche: per cui -per il principio di separazione dei poteri- non possono essere oggetto di sindacato del giudice amministrativo, seppur con le eccezioni delle manifeste irrazionalità richiamate, oppure laddove si sia fatto improprio uso di scienze esatte che consentano di ottenere dati o accertamenti matematicamente ripetibili.
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Ritenuto che la Sezione, prescindendo dalle eccezioni pregiudiziali sollevate dalla Italstrutture e dal Comune di Scisciano, non ravvisa ragioni per discostarsi dalle conclusioni negative del giudice di primo grado in quanto:
-1. I requisiti di forma sono fondamentali nelle offerte di partecipazione a una procedura di gara; ma non vanno intesi come un valore assoluto e insuperabile, specie quando la legge di gara permetta una serie di attenuazioni basate sulla logica e sulla ricerca del migliore offerente; tanto vale anche per la pur necessaria separazione tra offerta tecnica, da valutare per prima, e offerta economica, solo dopo la quale si forma la graduatoria finale,
È vero che la previsione della necessità dell’assenza, nell’offerta tecnica, di elementi riferibili all’offerta economica è a presidio del principio dell’autonomia dell’apprezzamento discrezionale dell’offerta tecnica rispetto a quello dell’offerta economica, e che il suo rispetto è garantito dall’anteriorità della prima valutazione e dalla necessità che dall’offerta tecnica esulino elementi e valori propri dell’offerta economica (es. Cons. Stato, VI, 27.11.2014, n. 5890), sicché è principio che le offerte economiche restino segrete fino alla conclusione della valutazione delle offerte tecniche.
Ma se il bando, come era nel caso di specie, richiede o permette soluzioni migliorative, la cui tecnicità richieda necessariamente anche esami di tipo aritmetico o l’indicazione di parametri dei costi o, ancora, comparazioni rispetto a prezzi di mercato o listini ufficiali, ne viene che fatalmente (come è stato qui) l’offerta tecnica va a dover contenere alcuni elementi di rilievo economico, al limite indici indiretti di prezzi. Il che, nel limite della ragionevolezza e delle proporzionalità, non vulnera il principio generale di separatezza delle due offerte.
Infatti diversamente si dovrebbero ritenere a priori precluse tutte le formulazioni dell’offerta tecnica –e, a maggior ragione, le richieste di formulazioni dell’offerta tecnica a opera della lex specialis– che prendano in considerazione siffatti parametri economici: mentre ne ricorre il divieto solo nel caso in cui quel limite sia concretamente superato e dunque dall’offerta tecnica si possa agevolmente desumere l’offerta economica, con conseguente lesione effettiva della separatezza dell’offerta tecnica dall’offerta economica.
Inoltre, riguardo alle peculiarità del caso di specie, va considerato che se le soluzioni migliorative della Italstrutture riportavano effettivamente alcuni “dati economici”, questi nondimeno riguardavano solo 15 voci su 101 dell’intero oggetto dell’appalto – e il 38% dell’intera lavorazione. Vale a dire, riguardavano elementi numericamente ben minoritari. Sicché la loro specificazione, per di più riferita il più delle volte a dati percentuali, ben difficilmente avrebbe potuto permettere un’effettiva ricostruzione ex ante dell’(intera) offerta economica al punto da poter inquinare la trasparenza dell’intera procedura.
Non solo: questa considerazione varrebbe anche se, in ipotesi, questi dati avessero riguardato tutte le 15 voci e indicando i rispettivi prezzi specifici. Non v’è infatti chi non veda che una sommatoria di poco superiore a un terzo del complesso delle lavorazioni non può dar luogo a una previa conoscenza dell’importo globale dell’offerta economica: dunque ad una vera anticipazione dell’offerta economica fatta in sede di offerta tecnica.
-2. Destituito di fondamento è poi il secondo motivo, che tenta un sindacato di analisi di dettaglio dell’offerta nelle sue singole voci, passandole in sostanza in rassegna allo scopo manifesto di reiterare –come al giudice non è consentito- la valutazione tecnico-discrezionale di congruità dell’intera offerta per la gran parte dei suoi singoli aspetti: dalla valutazione del parco macchine ai singoli rapporti con i fornitori, alle singole lavorazioni prese nel dettaglio sino all’incidenza delle spese generali, dai tempi di esecuzione ai contenuti di singole soluzioni migliorative, dal rapporto di quanto ottenuto dall’utilizzo di un solo martello demolitore con la sua incidenza oraria alla rimozione di una barriera metallica; e ciò solo a titolo esemplificativo.
È giurisprudenza pacifica che il principio che il giudizio di valutazione sia espressione di un potere ampiamente discrezionale connotato da elementi di tecnicismo insindacabili in questa sede, fatti salvi i limiti di illogicità o irrazionalità manifeste. L’utilizzazione della tecnica per le attività valutative delle giustificazioni sulla congruità dell’offerta tecnica si sostanzia in un’operazione tipica di merito, con uso di criteri e regole di fatto, nel caso di specie tecniche e comunque non giuridiche: per cui -per il principio di separazione dei poteri- non possono essere oggetto di sindacato del giudice amministrativo, seppur con le eccezioni delle manifeste irrazionalità richiamate, oppure laddove si sia fatto improprio uso di scienze esatte che consentano di ottenere dati o accertamenti matematicamente ripetibili.
Nel caso di specie le abnormità conoscibili non sussistono: ne è dimostrazione il ricordato ribasso superiore al 20%, offerto da cinque concorrenti su undici (tra cui l’aggiudicataria): per cui non si riscontra alcuna manifesta illogicità nella verifica di congruità svolta dalla stazione appaltante;
Considerato, da ultimo, che è inammissibile la censura concernente lo smaltimento delle acque meteoriche in quanto ciò che è stato oggetto dell’offerta altro appare corrispondere all’esecuzione del progetto esecutivo posto a base di gara;
Ritenuto perciò che l’appello deve essere respinto con la conferma della sentenza impugnata, mentre le spese di giudizio restano a carico dell’appellante e sono liquidate nei modi e nella misura indicati in dispositivo
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 22.02.2016 n. 703 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTI: Gare e servizi analoghi. Sentenza cds sulla qualificazione.
Negli appalti pubblici di servizi la richiesta di pregresse esperienze analoghe non può portare ad ammettere alla gara soltanto i concorrenti che abbiano svolto servizi identici all'oggetto della procedura di affidamento.

Lo ha affermato il Consiglio di Stato, Sez. III, con la sentenza 19.02.2016 n. 695 che affronta il tema dei cosiddetti «servizi analoghi», elemento di qualificazione dei concorrenti che partecipano ad appalti pubblici di servizi.
Il problema si pone generalmente quando il concetto di analogia viene interpretato dalla stazione appaltante in termini eccessivamente restrittivi, arrivando a configurare addirittura la richiesta negli atti di gara di servizi «identici» a quelli oggetto dell'affidamento.
Si tratta evidentemente di scendere nel dettaglio, caso per caso, ma alcuni punti fermi il Consiglio di stato li fa presenti. In particolare, si specifica che laddove il bando di gara richieda quale requisito il pregresso svolgimento di «servizi analoghi», tale nozione non può, se non con grave forzatura interpretativa, essere assimilata a quella di «servizi identici».
Per i giudici quindi il concorrente è in regola rispetto alla prescrizione del bando di gara se ha dimostrato lo svolgimento di servizi rientranti nel «medesimo settore imprenditoriale o professionale al quale afferisce l'appalto». Nel caso di specie oggetto dell'appalto era l'affidamento di un centro diurno polifunzionale e, cioè, un servizio articolato in spazi multivalenti, che si colloca nella rete dei servizi sociali territoriali, e offre la possibilità di aggregazione finalizzata alla prevenzione di situazioni di disagio attraverso proposte di socializzazione tra minori e di identificazione di persone adulte significative.
La stazione appaltante aveva chiarito che per servizi analoghi si dovesse fare riferimento al numero di classificazione Cpv europeo di riferimento che è indicato per ogni lotto, cioè, in relazione al Cpv 85320000-8, relativo ai servizi sociali. Per i giudici quindi l'appalto ha ad oggetto un servizio sociale e non sanitario e riguarda specificamente i minori, mentre le pregresse esperienze vantate dal consorzio ed elencate nel suo curriculum sono estranee rispetto alla specificità del servizio richiesto (articolo ItaliaOggi del 26.02.2016).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Difficile togliere le armi al vigile. Cds: bisogna revocargli la qualifica di ps.
Se il rappresentante governativo vuole togliere l'armamento al vigile urbano non più affidabile deve prima revocargli la qualifica di pubblica sicurezza. Non è infatti possibile mantenere la qualifica di ps e disporre con decreto il divieto di porto d'armi.

Lo ha chiarito il Consiglio di Stato, Sez. III, con la sentenza 19.02.2016 n. 690.
Un agente di polizia municipale è rimasto coinvolto in un procedimento penale conclusosi poi favorevolmente. All'esito di questa vicenda l'interessato ha quindi richiesto e ottenuto dalla prefettura la qualifica di agente di pubblica sicurezza.
Nonostante questa attribuzione il rappresentante governativo ha successivamente confermato un precedente divieto personale di detenere armi e per questo motivo l'interessato ha proposto con successo ricorso ai giudici amministrativi. In prima battuta il Tar in realtà non ha accolto le censure ma i giudici di palazzo Spada hanno approfondito meglio la questione ripristinando la necessaria coerenza nelle determinazioni del prefetto.
La legge n. 65/1986, specifica il collegio, dispone che gli addetti di polizia municipale ai quali è stata conferita la qualifica di agente di pubblica sicurezza possono, previa delibera del consiglio comunale, portare senza licenza le armi di cui possono essere dotati in relazione al tipo di impiego, anche fuori servizio, purché nell'ambito territoriale del proprio comune. All'interno del sistema normativo nazionale dove l'armamento per i cittadini è normalmente vietato, prosegue la sentenza, la disposizione dell'art. 5 della legge 65/1986 è chiara. Gli agenti della polizia municipale muniti della qualifica di pubblica sicurezza «possono portare armi senza licenza in quanto detta autorizzazione consegue all'attribuzione della stessa qualifica».
In pratica non occorre un ulteriore provvedimento per autorizzare il porto delle armi se il vigile è stato ritenuto idoneo dalla prefettura alla qualifica di pubblica sicurezza. Coerentemente con queste indicazione se la prefettura attribuisce la qualifica di pubblica sicurezza si deve considerare implicitamente annullato anche un precedente provvedimento contrario (articolo ItaliaOggi del 23.02.2016).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOIl porto d’armi presuppone il previo rilascio di un provvedimento di polizia che accerti il possesso di requisiti in capo al destinatario, in quanto il titolare dell'autorizzazione a detenere armi deve essere persona assolutamente esente da mende o da indizi negativi e assicurare la sua sicura e personale affidabilità circa il buon uso, escludendo che vi possa essere pericolo di abusi.
La norma di cui all’art. 5, c. 5, della L. 65/1986 dispone espressamente che “gli addetti al servizio di polizia municipale ai quali è conferita la qualità di agente di pubblica sicurezza possono … portare senza licenza armi”: è evidente che detta norma –inserita all’interno di un sistema normativo fondato sul principio del divieto, che consente il porto di armi solo in seguito al rilascio di un provvedimento permissivo– non può avere altro significato che quello prospettato dall’appellante: gli agenti della polizia municipale, ai quali è stata riconosciuta la qualità di agente di pubblica sicurezza, possono portare armi senza licenza in quanto detta autorizzazione (o concessione, secondo altra tesi) consegue all’attribuzione della stessa qualifica di agente di pubblica sicurezza.
Non occorre quindi un provvedimento formale che autorizzi il porto di armi, perché la valutazione sull’idoneità del soggetto è stata già svolta, al momento del rilascio della qualifica.
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E’ stato correttamente ritenuto in giurisprudenza che la valutazione sull’attribuzione all’interessato della qualifica di agente di P.S. ha un valore sicuramente assorbente rispetto a quella relativa alla possibilità per lui di detenere armi, tanto che in forza della più volte citata norma, le armi possono essere portate anche senza licenza, con una valutazione che resta di esclusiva spettanza del Consiglio Comunale.

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La censura è fondata.
Dalla lettura della sentenza emerge chiaramente che il primo giudice ha omesso totalmente di esaminare il primo motivo di ricorso, con il quale il -OMISSIS- aveva dedotto l’illegittimità del diniego impugnato per palese contraddizione con il precedente provvedimento del Prefetto –risalente al 2010–, di attribuzione della qualità di agente di pubblica sicurezza, che consente di portare armi senza licenza (art. 5, comma 5, della L. 07.03.1986 n. 65).
Dispone infatti, la suddetta disposizione che "gli addetti al servizio di polizia municipale ai quali è conferita la qualità di agente di pubblica sicurezza possono, previa deliberazione in tal senso del consiglio comunale, portare, senza licenza, le armi, di cui possono essere dotati in relazione al tipo di servizio nei termini e nelle modalità previsti dai rispettivi regolamenti, anche fuori dal servizio, purché nell'ambito territoriale dell'ente di appartenenza e nei casi di cui all'articolo 4 (…)”.
In merito ai provvedimenti relativi alla detenzione ed al porto di armi, la giurisprudenza ha sottolineato come nel nostro ordinamento viga la regola generale rappresentata dal divieto, sancito dagli artt. 699 c.p. e 4, comma 1, della L. n. 110/1975, essendo vista con sfavore l’utilizzazione delle armi da parte di privati cittadini: secondo la giurisprudenza “il titolo abilitativo al porto d'armi non costituisce una mera autorizzazione di polizia che rimuove il limite ad una situazione giuridica soggettiva che già fa parte della sfera del privato, ma assume contenuto permissivo, costituendo l'assenso alla disponibilità dell'arma regime derogatorio alla regola ordinaria di generale divieto” (cfr. TAR Calabria Catanzaro Sez. I, 19.11.2015, n. 1782).
Tale divieto è suscettibile di rimozione, in presenza di specifiche ragioni ed in assenza di rischi anche solo potenziali, a seguito di autorizzazione di polizia, o, per meglio dire, di un provvedimento concessorio (Cons. Stato, Sez. III, 19.01.2015, n. 116; TAR Umbria Perugia Sez. I, Sent., 22/10/2015, n. 499).
È dunque evidente che il porto d’armi presuppone il previo rilascio di un provvedimento di polizia che accerti il possesso di requisiti in capo al destinatario, in quanto il titolare dell'autorizzazione a detenere armi deve essere persona assolutamente esente da mende o da indizi negativi e assicurare la sua sicura e personale affidabilità circa il buon uso, escludendo che vi possa essere pericolo di abusi (cfr., tra le tante, TRGA Trentino-Alto Adige Bolzano, 16.10.2015, n. 318; TAR Calabria Catanzaro Sez. I, 19.11.2015, n. 1782).
La norma di cui all’art. 5, c. 5, della L. 65/1986 dispone espressamente che “gli addetti al servizio di polizia municipale ai quali è conferita la qualità di agente di pubblica sicurezza possono … portare senza licenza armi”: è evidente che detta norma –inserita all’interno di un sistema normativo fondato sul principio del divieto, che consente il porto di armi solo in seguito al rilascio di un provvedimento permissivo– non può avere altro significato che quello prospettato dall’appellante: gli agenti della polizia municipale, ai quali è stata riconosciuta la qualità di agente di pubblica sicurezza, possono portare armi senza licenza in quanto detta autorizzazione (o concessione, secondo altra tesi) consegue all’attribuzione della stessa qualifica di agente di pubblica sicurezza.
Non occorre quindi un provvedimento formale che autorizzi il porto di armi, perché la valutazione sull’idoneità del soggetto è stata già svolta, al momento del rilascio della qualifica.
Nella fattispecie, avendo il Prefetto ha attribuito al -OMISSIS- la qualità di agente di pubblica sicurezza con provvedimento del 2010, non avrebbe potuto rigettare nel 2012 la sua richiesta di revoca del provvedimento di divieto di detenzione di armi munizioni e materiale esplodente risalente al 06.04.1985, essendo ormai detto provvedimento incompatibile con quello emesso due anni prima (salva la facoltà, ove ne ricorressero i presupposti secondo la valutazione discrezionale dell’Amministrazione, di provvedere prima al ritiro del provvedimento di attribuzione della qualità di agente di pubblica sicurezza).
E’ stato correttamente ritenuto in giurisprudenza che la valutazione sull’attribuzione all’interessato della qualifica di agente di P.S. ha un valore sicuramente assorbente rispetto a quella relativa alla possibilità per lui di detenere armi, tanto che in forza della più volte citata norma, le armi possono essere portate anche senza licenza, con una valutazione che resta di esclusiva spettanza del Consiglio Comunale (cfr. TAR Campania-Napoli, Sez. V, 14.01.2010 n. 311).
L’appello deve essere dunque accolto (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 19.02.2016 n. 690 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: È abuso d’ufficio l’azione disciplinare fatta per ritorsione. Abuso d’ufficio per i direttori dell’azienda pubblica che esercitano l’azione disciplinare per ritorsione.
Licenziamenti e Pa. I limiti ai poteri dei vertici.
La Corte di Cassazione, Sez. VI penale, con la sentenza 18.02.2016 n. 6665, accoglie il ricorso del Pubblico ministero contro la decisione del Gip di dichiarare il non luogo a procedere nei confronti del direttore generale e di quello dell’area tecnica dell’Azienda territoriale per l’edilizia pubblica. L’accusa era di aver “preso di mira” un ingegnere, bersagliandola con rilievi e sanzioni disciplinari, arrivando poi alla soluzione finale del licenziamento, sulla base di presupposti inesistenti.
Secondo il Gip l’abuso d’ufficio non poteva essere contestato perché i rapporti di lavoro con l’Agenzia territoriale sono regolati dal codice civile e dunque la contestata distorta o mancata applicazione delle norme che li disciplinano, non può essere considera una violazioni di legge o di regolamento idonea a far scattare il reato di abuso d’ufficio. Inoltre, per quanto riguardava il licenziamento senza preavviso, disposto come massima sanzione disciplinare, questo poteva essere attribuito al direttore generale, il solo che aveva messo la sua firma sul foglio di “espulsione”, mentre nessuna responsabilità andava addebitata al direttore di area, solo in virtù del suo potere di iniziativa nell’applicazione delle sanzioni.
La Cassazione accoglie il ricorso del Pm.
La Suprema corte chiarisce che la condotta contestata di abuso d’ufficio, contrariamente a quanto rilevato dal Gip, non riguarda la violazione delle norme che disciplinano il rapporto di lavoro nell’ente pubblico, indubbiamente, di tipo privato, ma l’esercizio distorto della “funzione” disciplinare da parte di un pubblico ufficiale o dell’esercente un pubblico servizio. Un potere che certo rientra nell’area di gestione dei rapporti di lavoro sottoposto ai contratti collettivi e si esprime attraverso atti negoziali e non con provvedimenti amministrativi, ma che va comunque esercitato nel rispetto della legge, con eventuali integrazioni della contrattazione collettiva.
I giudici precisano che è suscettibile di integrare l’abuso d’ufficio (articolo 323 del Codice penale) la violazione delle disposizioni di legge fissate in materia di procedimento disciplinare, quando il potere non è “figlio” dell’interesse pubblico, ma viene usato per motivi pretestuosi sorretti da un intento ritorsivo.
E il Gip sbaglia anche quando proscioglie il direttore di area. Nel concorso di reato il contributo acquista rilevanza non solo quando ha efficacia causale e si pone come condizione dell’evento illecito ma anche quando agevola o rafforza un proposito criminoso già esistente.
Almeno in linea ipotetica, conclude la corte, il giudice per le indagini preliminari non poteva escludere che il l’imputata, a prescindere dalla mancata firma, possa comunque aver assicurato il suo contributo, morale e materiale, al prodursi dell’evento. Questo senza arrivare ad ipotizzare una responsabilità oggettiva in virtù della posizione apicale ricoperta. La Cassazione annulla la sentenza del Gip e rinvia per una nuova valutazione
(articolo Il Sole 24 Ore del 19.02.2016 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it).
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MASSIMA
4. Con riguardo alle contestazioni di abuso d'ufficio, va invero rilevato che -contrariamente a quanto deciso dal Giudice laziale-
nel caso sub iudice, la condotta di abuso d'ufficio non riguarda la contestata violazione di norme a disciplina del rapporto di lavoro in seno all'ente pubblico, rapporto avente indubitabilmente natura privatistica, bensì l'esercizio da parte del pubblico ufficiale o dell'esercente il pubblico servizio del potere attribuito all'ufficio di appartenenza in una materia, quale quella disciplinare, che è e resta disciplinata dalla legge.
4.1. Ed invero,
il potere disciplinare nel pubblico impiego, pur rientrando nell'area della gestione dei rapporti di lavoro sottoposto a contratto collettivo di matrice privatistica e si esprima mediante atti negoziali, e non con provvedimenti amministrativi, deve essere esercitato nei limiti disegnati dalla legge ed eventualmente integrati dalla contrattazione collettiva.
Giova rammentare che
la disciplina legale in materia è delineata da plurime fonti normativa, segnatamente dall'art. 2106 cod. civ., dall'art. 7 L. 20.05.1970, n. 300 (c.d. Statuto dei lavoratori) e dagli artt. da 54 a 55-octies del D.Lgs. 30.03.2001, n. 165, come modificati con D.Lgs. 27.10.2009, n. 150.
In particolare, l'art. 40 del citato decreto stabilisce, al comma 1 che "La contrattazione collettiva determina i diritti e gli obblighi direttamente pertinenti al rapporto di lavoro, nonché le materie relative alle relazioni sindacali. (...) Nelle materie relative alle sanzioni disciplinari, alla valutazione delle prestazioni ai fini della corresponsione del trattamento accessorio, della mobilità e delle progressioni economiche, la contrattazione collettiva è consentita negli esclusivi limiti previsti dalle norme di legge".
All'art. 55, commi 1 e 2, stesso decreto viene espressamente sancito: "1. Le disposizioni del presente articolo e di quelli seguenti, fino all'articolo 55-octies, costituiscono norme imperative, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1339 e 1419, secondo comma, del codice civile, e si applicano ai rapporti di lavoro di cui all'articolo 2, comma 2, alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2.
2. Ferma la disciplina in materia di responsabilità civile, amministrativa, penale e contabile, ai rapporti di lavoro di cui al comma 1 si applica l'articolo 2106 del codice civile. Salvo quanto previsto dalle disposizioni del presente Capo, la tipologia delle infrazioni e delle relative sanzioni è definita dai contratti collettivi. La pubblicazione sul sito istituzionale dell'amministrazione del codice disciplinare, recante l'indicazione delle predette infrazioni e relative sanzioni, equivale a tutti gli effetti alla sua affissione all'ingresso della sede di lavor
o".
L'art. 55-bis (come novellato nel 2009) disciplina le forme e termini del procedimento disciplinare. Infine, l'art. 54-bis stesso decreto del 2001 prevede una specifica tutela del dipendente pubblico che segnali condotte illecite di cui sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro, prevedendo che questi non possa essere sanzionato, licenziato o sottoposto ad una misura discriminatoria, diretta o indiretta, avente effetti sulle condizioni di lavoro per motivi collegati direttamente o indirettamente alla denuncia.
4.2. Orbene, dal quadro normativo sopra delineato discende che
è certamente suscettibile di integrare la violazione di legge rilevante ai fini dell'art. 323 cod. pen. l'inosservanza alle disposizioni fissate in materia di procedimento disciplinare dalla legge (appunto dall'art. 2106 cod. civ. e dal D.Lgs. 30.03.2001, n. 165 come modificato con D.Lgs. 27.10.2009, n. 150), allorché il potere disciplinare sia esercitato -almeno secondo l'ipotesi accusatoria da sottoporre al vaglio giurisdizionale- non in funzione dell'interesse pubblico, ma da motivi pretestuosi e sorretti da un intento ritorsivo.
Per altro verso,
si deve ribadire che, anche dopo la privatizzazione del rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti, non è mutata la natura pubblicistica della funzione svolta e dei poteri esercitati dai dirigenti amministrativi e, con essa, la qualifica di pubblico ufficiale rilevante ai fini dell'art. 357 cod. pen. (Sez. 6, n. 19135 del 02/04/2009 - dep. 07/05/2009, Palascino, Rv. 243535).
5. E' fondato anche il secondo profilo di doglianza concernente il disposto proscioglimento di Va.Fr. in relazione al delitto di abuso d'ufficio sub capo M).
5.1. Per un verso, va evidenziato come, secondo i principi di diritto già sopra ricordati sub punto 2), in presenza di una situazione nella quale il quadro probatorio si prestava ad una molteplicità ed alternatività di soluzioni valutative in merito al coinvolgimento diretto della Fr. nel licenziamento disciplinare, il Giudice si sarebbe dovuto limitare a verificare la possibilità di superare tale situazione attraverso le verifiche e gli approfondimenti propri della fase del giudizio, senza compiere valutazioni di tipo sostanziale spettanti al giudice dibattimentale.
Operando in tale senso ed, in particolare, entrando nel merito del contributo prestato dalla Fr. ai fini della adozione del provvedimento di licenziamento nei confronti della Br., il Giudice di Viterbo si è illegittimamente spinto oltre i limiti previsti per la sentenza ex art. 425 c.p.p..
5.2. Per altro verso, il Giudice ha comunque errato là dove ha escluso il concorso della Fr. nella condotta di abuso sub capo M) sulla scorta della considerazione che l'imputata, non avendo apposto la propria firma in calce al provvedimento di licenziamento disciplinare non potrebbe rispondere della condotta a mero titolo di responsabilità oggettiva, tenuto conto della sua posizione e della conseguente titolarità del potere d'iniziativa per l'applicazione delle sanzioni disciplinari.
Ed invero,
secondo i principi generali in tema di concorso di persone nel reato cristallizzati nell'art. 110 cod. pen., il contributo concorsuale acquista rilevanza non solo quando abbia efficacia causale, ponendosi come condizione dell'evento illecito, ma anche quando assuma la forma di un contributo agevolatore e di rafforzamento del proposito criminoso già esistente nei concorrenti, in modo da aumentare la possibilità di commissione del reato (fattispecie in tema di abuso di ufficio) (Sez. 6, n. 36125 del 13/05/2014 - dep. 25/08/2014, Minardo e altro, Rv. 260235).
Ne discende che,
almeno in linea ipotetica, non può essere escluso che l'imputata, a prescindere dalla mancata apposizione della firma sotto il provvedimento di licenziamento e senza dover ipotizzare una responsabilità oggettiva discendente dalla posizione apicale ricoperta in seno all'ufficio, possa comunque avere assicurato il proprio contributo, morale o materiale, anche di natura meramente agevolatrice, al prodursi dell'evento.

PUBBLICO IMPIEGO: Concussione minacciare controlli. Un funzionario del fisco intascava soldi per tacitare presunte irregolarità.
Cassazione. Due decisioni confermano la linea dura - Sì al doppio regime di sanzioni contabili e ordinarie.

Con due pronunce contestuali della stessa sezione (la VI penale, ma a collegi diversi) la Corte di Cassazione - Sez. VI penale- conferma la linea del rigore verso gli imputati di concussione. La severità nel circoscrivere il reato spacchettato dalla legge Severino (190/2012), con le sentenza 18.02.2016 n. 6656 e sentenza 18.02.2016 n. 6659, si accompagna alla conferma del doppio regime delle sanzioni patrimoniali a carico dei funzionari infedeli; le statuizioni civili a favore della parte lesa costituita a processo non escludono l’iniziativa della magistratura contabile, almeno fino alla maturazione del titolo esecutivo.
Diverse le figure di pubblico ufficiale colpite dalle sentenze di ieri -un dipendente delle Entrate di Varese, un curatore fallimentare incaricato dal Tribunale di Rimini- ma identiche le sintesi sulle fattispecie ribadite dalla Suprema corte.
Nel primo caso il funzionario infedele aveva avvicinato con approcci insoliti oltreché irrituali un imprenditore, esponendogli con «modalità terroristiche» delle presunte irregolarità nella dichiarazione dei redditi e chiedendo -e ricevendo poi- 5mila euro per tacitare la vicenda. Ugualmente “dirette” le modalità estorsive, a giudizio della Corte, messe in campo dal curatore fallimentare romagnolo, che aveva “barattato” la disponibilità a tradire l’ufficio -restituendo una chiavetta Usb con la contabilità occulta della società indagata e impegnandosi a non esecutare i beni personali del fallito- con la promessa di ricevere 95mila euro.
In entrambi i casi le difese avevano tentato di ricondurre i fatti nell’alveo della induzione indebita della legge Severino (articolo 319-quater del codice penale), sostenendo in sostanza la libertà di scelta delle vittime e adombrando una ragionevole convenienza nell’accordo illecito loro proposto.
Confermando l’inquadramento delle corti di merito e i precedenti di legittimità -a cominciare dalle Sezioni Unite 12228/13- la Cassazione ha però sottolineato come, nei casi analizzati, il rapporto tra le parti «non si svolgesse affatto su un piano di parità», scaturendo da un’iniziativa dell’esercente il potere pubblico, proseguendo con la prospettazione di una minaccia contra ius e culminando nella richiesta di denaro per chiudere le pendenze con l’erario, da un lato, e con i creditori e i giudici dall’altro.
Il metus, torna a ripetere la Sesta, fa da discrimine tra l’ipotesi classica più grave e quella depotenziata, insieme al carattere ingiusto della minaccia, tali da limitare in concreto la libertà di autodeterminazione del destinatario.
Quanto ai diversi profili di sanzionabilità patrimoniale della concussione, la Sesta riattualizza le Sezioni Unite 26852/13 sulla indipendenza del doppio canale, civile/penale da un lato e giurisdizione contabile dall’altro. I beni tutelati e le finalità sono diversi -si va dal risarcimento del danno privato al buon funzionamento e all’immagine della pubblica amministrazione- e vanno gestiti in autonomia, con la funzione riparatoria che si abbina a quella sanzionatoria.
E, nel caso di sovrapposizione delle iniziative (per esempio per danno d’immagine alla Pa) il giudicato civile/penale preclude il processo erariale, «senza dar luogo a una questione di giurisdizione»
(articolo Il Sole 24 Ore del 19.02.2016).
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MASSIMA -
 Corte di Cassazione, Sez. VI penale, sentenza 18.02.2016 n. 6656.
2. Anche il secondo motivo è infondato.
Le Sezioni unite, risolvendo un contrasto interpretativo insorto nella giurisprudenza di legittimità, a seguito della riforma dei reati contro la pubblica amministrazione, da parte della l. n. 190 del 2012, hanno individuato il discrimine fra il delitto di concussione e quello di indebita induzione, ritenendo, in particolare, che il primo reato sussista in presenza di un abuso costrittivo del pubblico ufficiale, attuato mediante violenza o minaccia, da cui derivi una grave limitazione della libertà di autodeterminazione del destinatario, che, senza ricevere alcun vantaggio, venga posto di fronte all'alternativa di subire il male prospettato o di evitarlo con la dazione o la promessa dell'utilità. Nella concussione di cui all'art. 317 cod. pen., si è quindi in presenza di una condotta del pubblico ufficiale che limita radicalmente la libertà di autodeterminazione del soggetto passivo.
Il discrimen tra il concetto di costrizione e quello di induzione va quindi ricercato nella dicotomia minaccia-non minaccia. La minaccia non deve necessariamente concretizzarsi in espressioni esplicite e brutali ma può anche essere implicita, velata, allusiva, potendo, eventualmente, assumere anche la forma del consiglio, dell'esortazione, della metafora, purché tali comportamenti siano connotati da una carica intimidatoria analoga a quella della minaccia esplicita.
La nozione di induzione, invece, esplicando una funzione di selettività residuale rispetto al concetto di costrizione, copre gli spazi non riconducibili a quest'ultimo, inerendo a quei comportamenti, pur sempre abusivi, del pubblico agente che non si materializzano nella violenza o nella minaccia di un male ingiusto e non pongono il destinatario di fronte alla scelta obbligata tra due mali parimenti ingiusti.
Il delitto di cui all'ad 319-quater cod. pen. consiste infatti nell'abuso induttivo posto in essere dal pubblico ufficiale o dall'incaricato di pubblico servizio, che, con una condotta di persuasione, suggestione, inganno o pressione morale,condizioni in modo più tenue la libertà di autodeterminazione del privato, il quale, disponendo di ampi margini decisori, accetta di prestare acquiescenza alla richiesta della prestazione non dovuta, nella prospettiva di un tornaconto personale.
Dunque la fattispecie di induzione indebita, di cui all'art. 319-quater cod. pen., è caratterizzata da una condotta di pressione non irresistibile da parte del pubblico ufficiale o dell'incaricato di un pubblico servizio, che lasci al destinatario un margine significativo di autodeterminazione e si coniughi con il perseguimento di un indebito vantaggio per il privato
(Sez. U., n. 12228 del 24.10.2013).
2.1. Nel caso di specie, risulta dalla motivazione della sentenza impugnata che il male ingiusto prospettato dall'imputato, pubblico ufficiale, alla persona offesa ha determinato in quest'ultima un gravissimo stato di costrizione.
L'imputato infatti aveva richiesto alla persona offesa il pagamento di un'ingente somma per la restituzione di una chiavetta USB, contenente la contabilità completa e corretta della società fallita e la mancata restituzione di tale chiavetta avrebbe avuto importanti conseguenze pregiudizievoli per la persona offesa, che avrebbe potuto subire un procedimento per bancarotta fraudolenta e una sanzione da parte dell'Agenzia delle entrate, per il mancato pagamento di alcuni debiti IVA.
Trattasi di motivazione esente da vizi logico-giuridici, da cui risulta lo stato di costrizione in cui versava il soggetto passivo, con conseguente configurabilità del reato di cui agli artt. 56-317 cod. pen..
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MASSIMA -
 Corte di Cassazione, Sez. VI penale, sentenza 18.02.2016 n. 6659.
6. Anche il quarto ed ultimo motivo di doglianza, concernente la denunciata "manifesta illogicità della motivazione in relazione alla conferma delle statuizioni civili", avuto riguardo all'entità della liquidazione equitativa del danno, non ha alcun reale pregio.
6.1 In primo luogo, ancorché non appaia corretto il richiamo al criterio di calcolo fissato per il danno erariale dall'art. 1, co. 62, L. 11.06.2012 n. 190, in misura "pari al doppio della somma di denaro o del valore patrimoniale di altra utilità illecitamente percepita dal dipendente" -per la semplice ragione che detta disposizione, al di là della natura meramente presuntiva sua propria e perciò superabile, non ha carattere retroattivo, di talché non opera per i fatti verificatisi in epoca antecedente alla sua entrata in vigore (cfr. Corte dei conti, Sez. GA2, sent. n. 489 del 25.07.2013)-
assorbente è in ogni caso il rilievo che si verte qui in tema di risarcimento del danno da reato.
Invero,
è principio pacifico che la giurisdizione contabile, da un lato, e, dall'altro, quella civile e penale per il risarcimento dei danni derivanti appunto da reato, sono tra loro reciprocamente indipendenti, anche quando scaturiscano da un medesimo fatto materiale, fermi restando i profili di proponibilità dell'azione di responsabilità e di preclusione da giudicato che l'eventuale interferenza può comportare: a significare, cioè, che l'azione di responsabilità contabile può essere coltivata solo se l'ente danneggiato non abbia già ottenuto, in sede civile o penale, un titolo per il risarcimento dei danni patiti, ed altrettanto dicasi per la situazione inversa, così come concordemente insegnano la giurisprudenza di legittimità e quella contabile:
"In tema di responsabilità erariale, la giurisdizione civile e quella penale, da un lato, e la giurisdizione contabile, dall'altro, sono reciprocamente indipendenti nei loro profili istituzionali, anche quando investono un medesimo fatto materiale, e l'eventuale interferenza che può determinarsi tra i relativi giudizi pone esclusivamente un problema di proponibilità dell'azione di responsabilità da far valere davanti alla Corte dei conti, senza dar luogo ad una questione di giurisdizione" (Cass. Sez. Un. Civ., sent. n. 26582 del 28.11.2013, Rv. 628611);
"Nell'ipotesi di danno erariale per fatto costituente reato possono concorrere, nei confronti del medesimo agente pubblico, l'azione di responsabilità amministrativa del pubblico ministero contabile e l'azione di parte civile dall'ente danneggiato nel processo penale, salvo che intervenga un titolo esecutivo definitivo che faccia venire meno l'interesse dell'azione del pubblico ministero contabile" (Corte dei conti, Sez. GA2, sent. n. 26 del 16.01.2013).
E si è altresì precisato, a maggior supporto della detta autonomia reciproca, con riferimento al rapporto tra un giudizio civile e quello promosso per i medesimi fatti dal procuratore contabile innanzi alla Corte dei conti, che quest'ultimo è finalizzato alla tutela dell'interesse pubblico generale, al buon andamento della P.A. ed al corretto impiego delle risorse, con funzione essenzialmente o prevalente sanzionatoria, mentre il primo è preordinato al pieno ristoro del danno, con funzione riparatoria ed integralmente compensativa, a tutela dell'interesse particolare della singola Amministrazione attrice (cfr. Cass. Civ., Sez. 3, sent. n. 14632 del 14.07.2015, Rv. 636278).
6.2 Secondariamente,
l'assunto secondo cui la vicenda per cui è processo avrebbe avuto "un riflesso mediatico ridotto ed estremamente contenuto a livello locale", onde non avrebbe comportato una serie lesione d'immagine della P.A. (anche in considerazione dell'immediato intervento delle Forze dell'Ordine), costituisce una valutazione in fatto, per di più meramente assertiva perché non corroborata in alcun modo dal riferimento agli atti processuali esistenti, di talché non si vede come essa possa incrinare la linearità e congruenza del ragionamento del giudice d'appello, che ha valutato come "significativo" il discredito che l'episodio ha comportato per l'immagine dell'Agenzia delle Entrate, avendo proiettato all'esterno la rappresentazione di un ufficio pubblico "in mano a prevaricatori, la cui azione appare diretta più a soddisfare i loro illegittimi interessi patrimoniali che non l'equità fiscale"; con l'opportuna puntualizzazione ulteriore che l'esistenza di altri episodi, coinvolgenti il medesimo ufficio, non implica affatto un meno grave apprezzamento del danno arrecato, giacché, al contrario, "proprio l'ampiezza ed il carattere non occasionale del mercimonio della funzione pubblica incrementa l'entità della lesione".

EDILIZIA PRIVATA: Contributo di costruzione: deve essere fissato al momento del rilascio del titolo edilizio.
Se i contributi concessori (per entrambe le componenti, e, quindi, sia con riferimento alla voce relativa agli oneri di urbanizzazione che in relazione alla voce inerente al costo di costruzione) devono essere determinati e liquidati, secondo la lettera della norma, al momento del rilascio del permesso di costruire, “a tale momento occorre dunque avere riguardo per l’entità dell’onere, facendo applicazione della normativa vigente al momento del rilascio del titolo edilizio”: pertanto, “la determinazione del contributo di costruzione deve avvenire sulla base dei parametri vigenti al momento del rilascio del permesso di costruire”.
Ciò significa che i provvedimenti comunali di adeguamento dei contributi concessori (sia oneri di urbanizzazione che costo di costruzione) possono trovare applicazione esclusivamente “per i permessi rilasciati a far tempo dall’epoca di adozione dell’atto deliberativo e non anche per quelli rilasciati in epoca anteriore”, dovendosi ritenere, sulla base del dato normativo e in conformità dell’orientamento giurisprudenziale consolidato (da cui non vi sono ragioni di discostarsi), che “non solo la determinazione degli oneri debba avvenire sulla base delle tariffe vigenti, ma che la stessa non possa essere richiesta che una tantum al momento del rilascio del permesso edilizio”, salvo l’ipotesi, da un lato, del (doveroso) esercizio (entro il termine prescrizionale) del potere di autotutela volto a correggere eventuali meri errori di determinazione o calcolo, compiuti all’epoca del rilascio del permesso di costruire, e, dall’altro, della “riliquidazione …. quando vi sia rilascio di nuovo titolo edilizio in relazione alla scadenza dell'efficacia temporale del precedente e per il completamento con mutamento di destinazione d'uso delle opere assentite in origine” (così Consiglio di Stato che ha affermato la legittimità del “ricalcolo degli oneri già corrisposti per la prima concessione” -decaduta ai sensi dell’art. 15, comma 3, del D.P.R. n. 380/2001- “applicando anche ad essi la nuova disciplina (fermo restando, come è ovvio, lo scomputo delle somme già corrisposte), ….. nella sola ipotesi in cui le opere assentite col secondo permesso comportino un mutamento di destinazione d’uso ovvero una variazione essenziale del manufatto con passaggio da una categoria urbanistica ad altra funzionalmente autonoma, in tale caso giustificandosi col maggior carico urbanistico conseguente il ricalcolo degli oneri dovuto).
Di conseguenza, una volta che la determinazione degli oneri concessori sia correttamente avvenuta sulla base delle tabelle vigenti all’epoca del rilascio del permesso di costruire, né ricorra la seconda ipotesi (di legittimo “ricalcolo”) appena illustrata, non può che rivelarsi illegittima la pretesa dell’Amministrazione di addossare ex post al titolare del permesso edilizio rilasciato anni prima l’ulteriore carico finanziario derivante dal meccanismo di aggiornamento.
D’altro canto, la convenienza a realizzare o meno l’intervento edilizio non può prescindere da una valutazione degli oneri concessori quale significativa componente del costo complessivo dello stesso; per cui, un adeguamento del contributo ex post si tradurrebbe in un’alea insopportabile per chi, qualora a conoscenza di una diversa e maggiore entità del contributo, si sarebbe magari astenuto dall’iniziativa economica intrapresa.

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1. - Il ricorso è fondato.
Fondato ed assorbente è il primo motivo di gravame, con il quale i ricorrenti assumono (essenzialmente) che, con le impugnate note (prot. n. 7287 del 24.09.2014 e prot. n. 8219 del 29.10.2014), il Comune di Arnesano abbia (illegittimamente) rideterminato retroattivamente l’importo del contributo correlato al costo di costruzione, a distanza di ben sette anni dal rilascio dei permessi di costruire n. 19 del 23.04.2007 e n. 58 del 17.10.2007, ad avvenuto saldo del pagamento degli oneri richiesti, in violazione dell’art. 16 del D.P.R. n. 380/2001 e dell’art. 2 della L.R. n. 1/2007.
1.1 - Osserva il Collegio che l’art. 16 del D.P.R n. 380/2001 stabilisce che “la quota di contributo relativa agli oneri di urbanizzazione va corrisposta al comune all’atto del rilascio del permesso di costruire e, su richiesta dell’interessato, può essere rateizzata” (comma 2), mentre “la quota di contributo relativa al costo di costruzione, determinata all’atto del rilascio, è corrisposta in corso d’opera, con le modalità e le garanzie stabilite dal comune, non oltre sessanta giorni dalla ultimazione della costruzione” (comma 3).
Se i contributi concessori (per entrambe le componenti, e, quindi, sia con riferimento alla voce relativa agli oneri di urbanizzazione che in relazione alla voce inerente al costo di costruzione) devono essere determinati e liquidati, secondo la lettera della norma, al momento del rilascio del permesso di costruire, “a tale momento occorre dunque avere riguardo per l’entità dell’onere, facendo applicazione della normativa vigente al momento del rilascio del titolo edilizio” (TAR Puglia, Lecce, III, 27.09.2013, n. 2058): pertanto, “la determinazione del contributo di costruzione deve avvenire sulla base dei parametri vigenti al momento del rilascio del permesso di costruire” (TAR Puglia, Lecce, III, 15.05.2013, n. 1103, in tal senso anche Consiglio di Stato, IV, 12.06.2014, n. 3010; idem, 19.03.2015, n. 1504).
Ciò significa che i provvedimenti comunali di adeguamento dei contributi concessori (sia oneri di urbanizzazione che costo di costruzione) possono trovare applicazione esclusivamente “per i permessi rilasciati a far tempo dall’epoca di adozione dell’atto deliberativo e non anche per quelli rilasciati in epoca anteriore” (TAR Puglia, Lecce, III, cit., n. 48/2013), dovendosi ritenere, sulla base del dato normativo e in conformità dell’orientamento giurisprudenziale consolidato (da cui non vi sono ragioni di discostarsi), che “non solo la determinazione degli oneri debba avvenire sulla base delle tariffe vigenti, ma che la stessa non possa essere richiesta che una tantum al momento del rilascio del permesso edilizio” (TAR Lecce, III, cit., n. 1103/2013), salvo l’ipotesi, da un lato, del (doveroso) esercizio (entro il termine prescrizionale) del potere di autotutela volto a correggere eventuali meri errori di determinazione o calcolo, compiuti all’epoca del rilascio del permesso di costruire, e, dall’altro, della “riliquidazione …. quando vi sia rilascio di nuovo titolo edilizio in relazione alla scadenza dell'efficacia temporale del precedente e per il completamento con mutamento di destinazione d'uso delle opere assentite in origine” (così Consiglio di Stato, IV, 19.03.2015, n. 1504, con relativo richiamo a Consiglio di Stato, IV, 27.04.2012, n. 2471, che ha affermato la legittimità del “ricalcolo degli oneri già corrisposti per la prima concessione” -decaduta ai sensi dell’art. 15, comma 3, del D.P.R. n. 380/2001- “applicando anche ad essi la nuova disciplina (fermo restando, come è ovvio, lo scomputo delle somme già corrisposte), ….. nella sola ipotesi in cui le opere assentite col secondo permesso comportino un mutamento di destinazione d’uso ovvero una variazione essenziale del manufatto con passaggio da una categoria urbanistica ad altra funzionalmente autonoma, in tale caso giustificandosi col maggior carico urbanistico conseguente il ricalcolo degli oneri dovuto (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 29.04.2004, nr. 2611; Cons. Stato, sez. V, 25.05.2004, nr. 6289; id., 23.01.2004, nr. 174; id., 29.01.2004, nr. 295; id., 24.09.2001, nr. 1427)”).
Di conseguenza, una volta che la determinazione degli oneri concessori sia correttamente avvenuta sulla base delle tabelle vigenti all’epoca del rilascio del permesso di costruire, né ricorra la seconda ipotesi (di legittimo “ricalcolo”) appena illustrata, non può che rivelarsi illegittima la pretesa dell’Amministrazione di addossare ex post al titolare del permesso edilizio rilasciato anni prima l’ulteriore carico finanziario derivante dal meccanismo di aggiornamento.
D’altro canto, la convenienza a realizzare o meno l’intervento edilizio non può prescindere da una valutazione degli oneri concessori quale significativa componente del costo complessivo dello stesso; per cui, un adeguamento del contributo ex post si tradurrebbe in un’alea insopportabile per chi, qualora a conoscenza di una diversa e maggiore entità del contributo, si sarebbe magari astenuto dall’iniziativa economica intrapresa (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 17.02.2016 n. 326 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Revisione prezzi, in tribunale. Controversia relativa ai canoni.
Se la revisione prezzi di un canone viene pattuita fra le parti l'eventuale controversia è di competenza del giudice ordinario. Se, invece, deriva dall'applicazione di norme di legge l'eventuale giudizio va instaurato presso il giudice amministrativo.

È quanto ha affermato il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 12.02.2016 n. 621, rispetto a un contratto nel quale si era provveduto alla rideterminazione del canone per l'appalto (si trattava dell'affidamento della gestione dei servizi di igiene urbana) con un meccanismo di revisione, da svolgersi con cadenza semestrale attraverso un accertamento in contraddittorio tra l'appaltatrice e la stazione appaltante. Rispetto a questo meccanismo i giudici hanno rilevato che, non derivando da alcun meccanismo revisionale previsto dalla legge, ancorché riprodotto in clausole negoziali ogni controversia avendo a oggetto un diritto soggettivo, non può che essere portata davanti al giudice ordinario.
Altro sarebbe stato se si fosse trattato di meccanismi di adeguamento del canone d'appalto aventi fonte di rango normativo perché in questi casi sarebbero stati configurabili poteri dell'amministrazione appaltante di apprezzamento discrezionale di carattere autoritativo, i quali costituiscono il necessario fondamento costituzionale della giurisdizione amministrativa, con riguardo alle fattispecie di violazione degli interessi legittimi del contraente sotto il profilo dell'eccesso di potere o di analoghe fattispecie elaborate dalla giurisprudenza amministrativa.
Nel caso esaminato dai giudici la clausola revisionale era stata autonomamente pattuita dalle parti e inserita nel contenuto del contratto d'appalto, nell'ambito di una relazione bilaterale paritaria avente fonte nel vincolo negoziale e nella quale l'amministrazione era priva di poteri di supremazia speciale nei confronti del contraente privato. D'altra parte, la giurisdizione amministrativa esclusiva, avente per oggetto la revisione dei prezzi, riguarda tecnicamente i meccanismi di rideterminazione del quantum dovuto per le prestazioni rese dalle controparti sulla base del contratto, e non anche la domanda volta a far determinare in sede giurisdizionale se le prestazioni da effettuare vadano modificate (articolo ItaliaOggi del 19.02.2016).
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MASSIMA
1. L’odierna appellante Mo. s.r.l. è un’impresa facente parte del raggruppamento temporaneo che si è aggiudicato l’appalto indetto dall’Ambito territoriale Lecce/1 «per i servizi di spazzamento delle reti stradali urbane e delle aree pubbliche di 9 comuni appartenenti all’autorità per la gestione dei rifiuti solidi urbani nel bacino di Lecce/1, di raccolta indifferenziata e differenziata, trasporto agli impianti di smaltimento e/o trattamento dei rifiuti urbani (rsu) e dei rifiuti speciali assimilati agli urbani (rsau) e per la gestione dell’impianto di Campi Salentina per lo stoccaggio e lavorazioni dei materiali rinvenienti dalla raccolta differenziata», stipulando il relativo contratto in data 23.05.2006.
2. Come deduce la società appellante, il servizio oggetto dell’appalto in questione era stato affidato per la prima volta a livello di ambito territoriale sovracomunale («in via sperimentale»: pag. 2 dell’appello). In ragione di ciò, il corrispettivo, fissato secondo le «quantità presunte» di mezzi da impiegare nell’esecuzione del contratto, era stato convenzionalmente assoggettato ad un meccanismo di revisione, da svolgersi con cadenza semestrale attraverso un accertamento in contraddittorio tra l’appaltatrice e l’autorità appaltante (art. 8, rubricato «ampliamento e/o riduzione dei servizi e aggiornamento del canone»).
La pretesa azionata dalla Mo. nel presente giudizio trae origine proprio dalla sopra richiamata previsione negoziale, e più precisamente dal diniego di adeguamento del canone che il Comune di San Cesario di Lecce, facente parte dell’ambito territoriale, ha opposto all’istanza della società odierna appellante per il periodo dal 01.04.2006 al 31.12.2011.
3. Sulla conseguente impugnativa di quest’ultima, il TAR Puglia – sez. staccata di Lecce ha dichiarato il proprio difetto di giurisdizione con la sentenza in epigrafe.
Il giudice di primo grado ha escluso che la clausola in questione sia riconducibile al meccanismo di revisione dei prezzi dell’appalto previsto dall’art. 6 della legge 537/1993 (“Interventi correttivi di finanza pubblica”), in relazione alla cui applicazione sussiste la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ex art. 133, comma 1, lett. e), n. 2, cod. proc. amm., e che nel contratto d’appalto tra le parti in causa trova separata regolamentazione, all’art. 7.
Sul punto il TAR ha in particolare specificato che il meccanismo di rideterminazione di cui al successivo art. 8 è invece finalizzato a coprire «i costi ulteriori che si ritengono sostenuti per rendere prestazioni eccedenti quelle previste nel contratto», e dunque attiene alla fase esecutiva del rapporto.
4. Tanto premesso, le ragioni a sostegno della declinatoria di giurisdizione, ora esposte, resistono alle critiche formulate dalla s.r.l. Mo. nel presente appello, che deve dunque essere respinto.
Il TAR ha infatti colto esattamente il fondamento della pretesa azionata nel presente giudizio dalla società odierna appellante, la quale, non derivando da alcun meccanismo revisionale previsto dalla legge, ancorché riprodotto in clausole negoziali, ma appunto da queste ultime tout court, ha secondo la giurisprudenza delle Sezioni unite della Cassazione natura di diritto soggettivo, conoscibile dal giudice ordinario (sentenza 19.03.2009, n. 6595; ordinanza 13.07.2015, n. 14559).
5. Deve precisarsi al riguardo che
solo per meccanismi di adeguamento del canone d’appalto aventi fonte di rango normativo sono configurabili poteri dell’amministrazione appaltante di apprezzamento discrezionale di carattere autoritativo, i quali costituiscono il necessario fondamento costituzionale della giurisdizione amministrativa (cfr. Corte Cost., 06.07.2004, n. 204). All’opposta conclusione deve invece pervenirsi laddove la clausola revisionale sia stata autonomamente pattuita dalle parti ed inserita nel contenuto del contratto d’appalto, perché le pretese da essa discendenti sorgono nell’ambito di una relazione bilaterale paritaria avente fonte nel vincolo negoziale e nella quale l’amministrazione è priva di poteri di supremazia speciale nei confronti del contraente privato.
D’altra parte,
la giurisdizione amministrativa esclusiva, avente per oggetto la revisione dei prezzi, riguarda tecnicamente i meccanismi di rideterminazione del quantum dovuto per le prestazioni rese dalle controparti sulla base del contratto, e non anche la domanda volta a far determinare in sede giurisdizionale se le prestazioni da effettuare vadano modificate in considerazioni di sopravvenienze, con i conseguenti conguagli.
6. Non induce a conclusioni diverse il fatto che sullo stesso contratto d’appalto e con specifico riguardo alla stessa clausola revisionale qui in contestazione un’altra società facente parte del medesimo raggruppamento aggiudicatario, la mandataria As. s.r.l., abbia ottenuto da questa Sezione una pronuncia affermativa della giurisdizione amministrativa (sentenza 06.05.2008, n. 2668).
Come infatti deduce il Comune di San Cesario di Lecce in contrario agli assunti della Mo., la pronuncia in questione, risalente ad epoca precedente al chiarimento fornito dalle Sezioni unite della Cassazione con la citata sentenza del 19.03.2009, n. 6595, non ha autorità di giudicato nella presente fattispecie controversa, essendo stata pronunciata nei confronti di parti diverse da quelle coinvolte in questo giudizio.

APPALTI SERVIZI: Sulla legittimità dell'ammissione ad una gara per il servizio di gestione centri comunali di raccolta, per la quale sia richiesta l'iscrizione all'Albo Nazionale Gestori Ambientali, di un consorzio stabile.
Il modulo associativo del "consorzio stabile", delineato dall'art. 36 del d.lgs. n. 163/2006, dà vita ad un soggetto giuridico autonomo, costituito in forma collettiva e con causa mutualistica, che opera in base ad uno stabile rapporto organico con le imprese associate, in forza del quale può giovarsi, senza dover ricorrere all'avvalimento, degli stessi requisiti di idoneità tecnica e finanziaria delle consorziate stesse, secondo il criterio del "cumulo alla rinfusa".
In tal senso depongono inequivocabilmente sia l'art. 37, c. 7, d.lgs. n. 163/2006, per cui "il consorzio stabile si qualifica sulla base delle qualificazioni possedute dalle singole imprese consorziate", sia l'att. 94 del DPR 207/2010 in base al quale "I consorzi stabili di cui agli artt. 34, c. 1, lett. c), e 36 del codice, eseguono i lavori o con la propria struttura o tramite i consorziati indicati in sede di gara senza che ciò costituisca subappalto, ferma la responsabilità solidale degli stessi nei confronti della stazione appaltante".
Tale principio è poi ulteriormente ribadito, per i "consorzi stabili per servizi e forniture", dal successivo art. 277 del DPR 207/2010 secondo cui: "1. Ai consorzi stabili per servizi e forniture si applicano le disposizioni di cui all'articolo 94, commi 1 e 4.
2. La sussistenza in capo ai consorzi stabili dei requisiti richiesti nel bando di gara per l'affidamento di servizi e forniture è valutata, a seguito della verifica della effettiva esistenza dei predetti requisiti in capo ai singoli consorziati
".
Pertanto, nel caso di specie, è legittima l'ammissione ad una gara per il servizio di gestione centri comunali di raccolta, per la quale sia richiesta l'iscrizione all'Albo Nazionale Gestori Ambientali, di un consorzio stabile, partecipante alla gara in nome proprio, ma per conto di tre società cooperative specificamente indicate come "esecutrici dell'appalto", tutte iscritte all'Albo Nazionale Gestori Ambientali (TAR Veneto, Sez. I, sentenza 12.02.2016 n. 138 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: E' illegittima l'ordinanza sindacale che vieta l'accesso dei cani a tutti i giardini pubblici comunali.
Il potere sindacale di emanare ordinanze contingibili ed urgenti di cui agli artt. 50, comma 5, e 54 comma 2, d.lgs. 267/2000, permette anche l'imposizione di obblighi di fare o di non fare a carico dei destinatari. Tuttavia il potere extra ordinem ivi previsto presuppone, da un lato, una situazione di pericolo effettivo, da esternare con congrua motivazione, e, dall'altro, una situazione eccezionale e imprevedibile, cui non sia possibile far fronte con i mezzi previsti in via ordinaria dall'ordinamento. L'ordinanza contingibile ed urgente non può, pertanto, essere utilizzata per soddisfare esigenze che siano invece prevedibili ed ordinarie.
In particolare il sindaco può ricorrere al detto strumento al fine di fronteggiare un'emergenza con rimedi eccezionali in attesa dell'espletamento delle ordinarie misure previste dall'ordinamento per il corretto esercizio dell'azione amministrativa, ma comunque si presuppone sempre la necessità di provvedere con immediatezza in ordine a una situazione di natura eccezionale ed imprevedibile.
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In casi del tutto analoghi a quello qui esaminato, la giurisprudenza è ormai pacifica nell’affermare l’illegittimità di provvedimenti che limitano la circolazione ai possessori di cani.
In tal senso, in modo del tutto condivisibile, il Tar Basilicata ha avuto modo di affermare che “E’ illegittima una ordinanza con la quale il Sindaco, al fine di tutelare il diritto alla salute e all’igiene pubblica, ha disposto il divieto assoluto di introdurre cani, anche se custoditi, nelle aree destinate a giardini pubblici. Tale ordinanza, infatti, risulta eccessivamente limitativa della libertà di circolazione delle persone ed è comunque posta in violazione dei principi di adeguatezza e proporzionalità dell’azione amministrativa, atteso che lo scopo perseguito dall’Ente locale di mantenere il decoro e l’igiene pubblica è già adeguatamente soddisfatto con lo stesso provvedimento sindacale, nella parte in cui impone agli accompagnatori o custodi di cani di rimuovere le eventuali deiezioni con apposite palette, sacchetti di plastica o qualsiasi altro strumento idoneo predisposte all’uso e di provvedere al loro smaltimento nei rifiuti indifferenziati”.

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... per l'annullamento dell'ordinanza n. 6 del 10.09.2014, emessa dal Sindaco del Comune di Nuragus, nella sola parte in cui vieta ai conduttori di cani, anche se muniti di guinzaglio, di poter accedere a tutti i pubblici giardini del territorio comunale.
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Nel merito il ricorso è fondato e deve essere accolto.
Il potere sindacale di emanare ordinanze contingibili ed urgenti di cui agli artt. 50, comma 5, e 54 comma 2, d.lgs. 267/2000, permette anche l'imposizione di obblighi di fare o di non fare a carico dei destinatari. Tuttavia il potere extra ordinem ivi previsto presuppone, da un lato, una situazione di pericolo effettivo, da esternare con congrua motivazione, e, dall'altro, una situazione eccezionale e imprevedibile, cui non sia possibile far fronte con i mezzi previsti in via ordinaria dall'ordinamento. L'ordinanza contingibile ed urgente non può, pertanto, essere utilizzata per soddisfare esigenze che siano invece prevedibili ed ordinarie.
In particolare il sindaco può ricorrere al detto strumento al fine di fronteggiare un'emergenza con rimedi eccezionali in attesa dell'espletamento delle ordinarie misure previste dall'ordinamento per il corretto esercizio dell'azione amministrativa, ma comunque si presuppone sempre la necessità di provvedere con immediatezza in ordine a una situazione di natura eccezionale ed imprevedibile.
Nel caso all’esame del collegio, l’impugnata ordinanza sconta tutti i vizi dedotti dalla difesa della associazione ricorrente.
In particolare non è rinvenibile dagli atti di causa alcuna delle situazioni di eccezionalità ed imprevedibilità che porti a far temere emergenze igienico sanitarie o pericoli per la pubblica incolumità.
Dall’esame degli atti di causa non è dato rinvenire, inoltre, alcuna idonea istruttoria volta a suffragare la decisione di adottare un’ordinanza quale quella impugnata.
Va peraltro rilevato che in casi del tutto analoghi a quello qui esaminato, la giurisprudenza è ormai pacifica nell’affermare l’illegittimità di provvedimenti che limitano la circolazione ai possessori di cani.
In tal senso, in modo del tutto condivisibile, il Tar Basilicata, con sentenza 17.10.2013, n. 611 ha avuto modo di affermare che “E’ illegittima una ordinanza con la quale il Sindaco, al fine di tutelare il diritto alla salute e all’igiene pubblica, ha disposto il divieto assoluto di introdurre cani, anche se custoditi, nelle aree destinate a giardini pubblici. Tale ordinanza, infatti, risulta eccessivamente limitativa della libertà di circolazione delle persone ed è comunque posta in violazione dei principi di adeguatezza e proporzionalità dell’azione amministrativa, atteso che lo scopo perseguito dall’Ente locale di mantenere il decoro e l’igiene pubblica è già adeguatamente soddisfatto con lo stesso provvedimento sindacale, nella parte in cui impone agli accompagnatori o custodi di cani di rimuovere le eventuali deiezioni con apposite palette, sacchetti di plastica o qualsiasi altro strumento idoneo predisposte all’uso e di provvedere al loro smaltimento nei rifiuti indifferenziati”.
Questa stessa Sezione ha avuto modo di affermare analoghi principi con sentenza del 30.11.2012, n. 1080.
Il ricorso è, in definitiva, fondato e deve essere accolto (TAR Sardegna, Sez. I, sentenza 12.02.2016 n. 127 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Sull'annullamento di un bando concernente l'appalto annuale del servizio di gestione dei servizi educativi per la prima infanzia del Comune per non aver calcolato correttamente il costo del lavoro.
Deve essere annullato il bando pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale concernente l'appalto annuale del servizio di gestione dei servizi educativi per la prima infanzia del Comune in quanto viola le norme degli appalti e dei principi sanciti dalla stesse norme secondo cui deve essere garantita la qualità delle prestazioni e il rispetto dei principi di economicità, efficacia, tempestività e correttezza e deve esser altresì assicurato che il valore economico sia adeguato e sufficiente rispetto al costo del lavoro e al costo relativo della sicurezza.
Infatti, dai fogli di calcolo, elaborati dall'amministrazione e posti a base della fissazione del prezzo di gara, risulta che la stazione appaltante ha preso a riferimento il costo annuo indicato nelle tabelle ministeriali con riferimento alle "ore teoriche" ammontanti a 1976 ore (38 ore x 52 settimane), senza considerare che da tali "ore teoriche" devono essere detratte le "ore mediamente non lavorate" (pari ad ore 428) a causa di ferie, festività, festività soppresse, assemblee sindacali, malattia, gravidanza, infortunio, diritto allo studio, formazione professionale, permessi; al fine di pervenire al dato delle "ore mediamente lavorate" che risultano quindi ammontare a ore 1548 (1976 - 428) e che deve considerarsi il dato effettivo e concreto di cui tenere conto ai fini della determinazione del costo orario reale e non teorico del personale medesimo.
E', infatti, evidente che se il costo annuo di un lavoratore è 1000, il costo orario teorico (ottenuto dividendo tale costo annuale per le ore teoriche) sarà un costo molto più basso e non attendibile al fine di individuare il costo orario effettivo del lavoratore; rispetto invece al costo orario medio (ottenuto dividendo il medesimo costo annuale per le "ore mediamente lavorate", numericamente ben inferiori alle ore teoriche, in quanto depurate dalle ore mediamente non lavorate per ferie, festività, malattia, gravidanza, infortunio, ecc.), che non potrà che essere nettamente più elevato rispetto al costo orario teorico e l'unico attendibile al fine di individuare il reale ed effettivo costo orario del lavoratore (TAR Sardegna, Sez. I, sentenza 12.02.2016 n. 122 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: Sulla sussistenza di un potere dell'Amministrazione aggiudicatrice di procedere alla revoca in autotutela dell'appalto anche dopo l'aggiudicazione definitiva a condizione di un'adeguata motivazione del provvedimento di revoca.
Non è precluso alla stazione appaltante di procedere alla revoca o all'annullamento dell'aggiudicazione allorché la gara stessa non risponda più alle esigenze dell'ente e sussista un interesse pubblico, concreto ed attuale, all'eliminazione degli atti divenuti inopportuni, idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse dell'aggiudicatario nei confronti dell'Amministrazione.
Un tale potere si fonda, tuttavia, oltre che sulla disciplina di contabilità generale dello Stato, che consente il diniego di approvazione per motivi di interesse pubblico (art. 113, r.d. 23.05.1924 n. 827), sul principio generale dell'autotutela della Pubblica Amministrazione, che rappresenta una delle manifestazioni tipiche del potere amministrativo, direttamente connesso ai criteri costituzionali di imparzialità e buon andamento della funzione pubblica.
Inoltre, la nuova valutazione dell'interesse pubblico, cui l'Amministrazione deve accedere, non debba necessariamente basarsi sulla intervenuta formale adozione di atti, essendo sufficiente che dallo stesso provvedimento di revoca emergano le ragioni, plausibili e concrete, che determinano la suddetta rivalutazione dell'interesse pubblico.
Una volta affermata la sussistenza di un potere dell'Amministrazione aggiudicatrice di procedere alla revoca in autotutela dell'appalto anche dopo l'aggiudicazione definitiva, la verifica in concreto della legittimità dell'atto di ritiro passa attraverso un attento scrutinio della motivazione del provvedimento, quale fondamentale elemento di riscontro, attraverso l'analisi delle ragioni giustificative del corretto esercizio della relativa pubblica potestà e la chiara indicazione di un preciso e concreto interesse pubblico (TAR Molise, sentenza 12.02.2016 n. 73 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Se un soggetto -anche, come nel caso di specie, mero "detentore" di rifiuti- appresta una serie di condotte finalizzate alla gestione di rifiuti, mediante preliminare raccolta, raggruppamento, trasporto e vendita di rifiuti, pur non esercitando in forma imprenditoriale, pone in essere una "attività" di gestione di rifiuti per la quale occorre preliminarmente ottenere i necessari titoli abilitativi.
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3.
In ordine alla pretesa irrilevanza penale della condotta in ragione della occasionalità, va ribadito che, trattandosi di illecito istantaneo, ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 256, comma 1, lett. a), d.lgs. 152 del 2006, è sufficiente anche una sola condotta integrante una delle ipotesi alternative tipizzate dalla fattispecie penale (Sez. 3, n. 8979 del 02/10/2014, dep. 2015, Cristinzio, Rv. 262514; Sez. 3, n. 45306 del 17/10/2013, Carlino, Rv. 257631; Sez. 3, n. 24428 del 25/05/2011, D'Andrea, Rv. 250674; Sez. 3, n. 21655 del 13/ 04/2010, Hrustic, Rv. 247605), purché costituisca una "attività" e non sia assolutamente occasionale.
3.1.
La natura occasionale delle condotte di gestione di rifiuti è strettamente legata alla qualificazione della fattispecie penale in termini di reato comune o proprio, e, di conseguenza, alla dimensione delle attività di gestione. L'art. 256, comma 1, d.lgs. 152 del 2006, infatti, punisce "chiunque" effettua una attività di "raccolta, trasporto, recupero, smaltimento, commercio ed intermediazione di rifiuti" in mancanza delle autorizzazioni, iscrizioni o comunicazioni prescritte dagli artt. 208-216.
Innanzitutto,
l'utilizzazione dell'espressione "chiunque" a proposito del reato di esercizio abusivo di attività di gestione di rifiuti indizia una qualificazione dell'illecito in termini di reato comune, atteso che, al contrario, nel reato di abbandono o deposito incontrollato di rifiuti disciplinato dal successivo comma 2 (che rinvia al solo trattamento sanzionatorio del primo comma, non già al precetto), i soggetti attivi sono espressamente indicati come i "titolari di imprese" ed i "responsabili di enti"; in tal senso, del resto, depone altresì la soppressione, ad opera dell'art. 7, comma 6, d.lgs. 08.11.1997, n. 389, dell'inciso, riferito all'appartenenza dei rifiuti oggetto di abusiva gestione, "prodotti da terzi", contenuto nel previgente art. 51 d.lgs. 22 del 1997 (successivamente trasfuso nell'art. 256 T.U. amb.) (nella vigenza della precedente norma, già Sez. 3, n. 21925 del 06/06/2002, Saba; di recente, Sez. 3, n. 29992 del 24/06/2014, Lazzaro).
Tuttavia, si è sostenuto, in dottrina, che il pronome "chiunque" non è riferibile ad un agente indefinito, essendo in realtà il destinatario della norma penale soltanto il soggetto che abbia l'obbligo di sottoporsi al controllo della P.A., individuabile mediante il richiamo alle norme autorizzatorie di cui agli artt. 208-216 T.U. amb.; in altri termini, soltanto i soggetti che esercitano l'attività di gestione in forma imprenditoriale possono (e devono) dotarsi dei titoli abilitativi.
In tal senso, a corroborare la qualifica di reato proprio della fattispecie penale in oggetto, si è, dunque, evidenziata la necessità, per l'integrazione della tipicità, dei requisiti di organizzazione e professionalità dell'attività di gestione; e se ne è tratta conferma dal principio secondo cui "In materia di rifiuti, il soggetto privato, non titolare di una attività di impresa o responsabile di un ente, che abbandoni in modo incontrollato un proprio rifiuto e che, a tal fine, lo trasporti occasionalmente nel luogo ove lo stesso verrà abbandonato, risponde solo dell'illecito amministrativo di cui all'art. 255 del D.Lgs. n. 152 del 2006 per l'abbandono e non anche del reato di trasporto abusivo previsto dall'art. 256, comma primo, del D.Lgs. cit., in quanto il trasporto costituisce solo la fase preliminare e preparatoria rispetto alla condotta finale di abbandono, nella quale rimane assorbito" (Sez. 3, n. 41352 del 10/06/2014, Parpaiola).
La tesi, tuttavia, a parere di questo Collegio, dimostra più di quanto la norma incriminatrice consenta.
Invero,
se l'uso del pronome "chiunque" rappresenta un mero indizio della qualificazione in termini di reato comune, e la costruzione della fattispecie incriminatrice secondo la consueta 'tecnica ingiunzionale' -mediante penalizzazione di condotte poste in essere in assenza di provvedimenti amministrativi autorizzatori, alla stregua di un modello di tutela penale 'condizionato', e non 'puro'- individua i soggetti destinatari degli obblighi delineati dagli artt. 208-216 T.U. annb., nondimeno qualificare la fattispecie quale reato proprio rischia di determinare un'inversione metodologica nell'ermeneusi proposta. Ed anche il richiamo al principio di diritto espresso da Sez. 3, n. 41352 del 10/06/2014, Parpaiola, non appare del tutto conferente, in quanto la pronuncia richiamata esclude la rilevanza penale del trasporto abusivo in quanto del tutto occasionale, perché esclusivamente propedeutico e strumentale ad un abbandono dei rifiuti (sanzionato in via amministrativa dall'art. 255 T.U. amb.).
Quanto al soggetto attivo del reato, va chiarito che l'uso normativo del pronome indefinito "chiunque" va interpretato alla luce della tecnica di tutela 'relativa' adottata dal legislatore, secondo il modello 'ingiunzionale': in altri termini, l'agente può essere "chiunque" eserciti abusivamente una delle attività di gestione indicate, in via alternativa, nell'art. 256 cit. (fattispecie a condotte alternative), anche se non costituito formalmente in veste imprenditoriale; ciò che rileva, dunque, per assumere la veste di agente del reato non è una qualifica soggettiva (una forma imprenditoriale, necessaria, ad esempio, per l'iscrizione all'Albo nazionale dei gestori ambientali), bensì la concreta attività posta in essere.
In tal senso, si è espressa altresì la giurisprudenza più recente che ha affrontato il profilo della rilevanza penale dell'attività "ambulante" di raccolta e trasporto, secondo cui "la condotta sanzionata dal D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 256, comma 1, è riferibile a chiunque svolga, in assenza del prescritto titolo abilitativo, una attività rientrante tra quelle assentibili ai sensi degli art. 208, 209, 210, 211, 212, 214, 215 e 226 del medesimo Decreto, svolta anche di fatto o in modo secondario o consequenziale all'esercizio di una attività primaria diversa che richieda, per il suo esercizio, uno dei titoli abilitativi indicati e che non sia caratterizzata da assoluta occasionalità"
(Sez. 3, n. 29992 del 24/06/2014, Lazzaro; Sez. 3, n. 269 del 10/12/2014, dep. 2015, Seferovic).
Appare, dunque, improprio, e frutto di un'inversione metodologica, qualificare la fattispecie di cui all'art. 256, comma 1, T.U. amb. come reato proprio, il cui soggetto attivo può essere individuato soltanto nei soggetti operanti in forme imprenditoriali, in quanto legittimati all'iscrizione nell'Albo nazionale gestori ambientali.
Sarebbe sufficiente essere privi -come normalmente si rileva- della qualifica soggettiva asseritamente richiesta dalla norma per sottrarsi all'applicazione della fattispecie incriminatrice. Non è la astratta qualifica soggettiva, bensì la condotta concretamente posta in essere di gestione abusiva di rifiuti a rilevare ai fini dell'applicabilità della fattispecie in oggetto, che può essere "svolta anche di fatto o in modo secondario"
(Sez. 3, n. 29992 del 24/06/2014, Lazzaro), purché in assenza di uno dei titoli abilitativi, e che non sia caratterizzata da assoluta occasionalità.
Del resto,
che l'attività imprenditoriale possa essere esercitata, anche solo di fatto, in forma anche individuale implica che non è la forma giuridica rivestita, bensì l'attività concretamente posta in essere ad assumere rilievo ai fini dell'obbligo di autorizzazione (art. 212 T.U. amb.), e, di conseguenza, ai fini dell'individuazione del soggetto attivo del reato.
Peraltro,
la rilevanza della "assoluta occasionalità" ai fini dell'esclusione della tipicità deriva non già da una arbitraria delimitazione interpretativa della norma, bensì dal tenore della fattispecie penale, che, punendo la "attività" di raccolta, trasporto, recupero, smaltimento, commercio ed intermediazione, concentra il disvalore d'azione su un complesso di azioni, che, dunque, non può coincidere con la condotta assolutamente occasionale (in tal senso, già Sez. 3, n. 5031 del 17/01/2012, Granata, non massimata, secondo cui "con il termine "attività" deve intendersi ogni condotta che non sia caratterizzata da assoluta occasionalità, mentre la norma non richiede ulteriori requisiti di carattere soggettivo o oggettivo perché sia integrata la fattispecie criminosa. Si tratta, infatti, di reato comune, in quanto può essere commesso da "chiunque", e non di reato proprio, sicché non occorrono i requisiti della professionalità della condotta ovvero di un'organizzazione imprenditoriale della stessa" (sez. 3, 28.10.2009 n. 79 del 2010, Guglielmo, RV 245709) (sez. 3, 15.01.2008 n. 7462, Cozzoli, RV 239011) ).
È dunque la descrizione normativa ad escludere dall'area di rilevanza penale le condotte di assoluta occasionalità (si pensi alla dismissione, da parte di un privato, di quanto contenuto in un proprio locale cantina).
Al contrario, proprio il pronome "chiunque" impone di includere nella portata applicativa della norma incriminatrice anche il "detentore" del rifiuto, ovvero "il produttore dei rifiuti o la persona fisica o giuridica che ne è in possesso" (secondo la norma definitoria generale di cui all'art. 183, comma 1, lett. h), T.U. amb.), allorquando l'attività di raccolta, trasporto, commercio, ecc., sia caratterizzata non da assoluta occasionalità.
Al riguardo, giova rilevare che la norma definitoria generale in materia di rifiuti (art. 183, comma 1, lett. f), g), h), i), I), T.U. amb.) distingue tra "produttore di rifiuti" ("il soggetto la cui attività produce rifiuti e il soggetto al quale sia giuridicamente riferibile detta produzione"), "produttore del prodotto" ("qualsiasi persona fisica o giuridica che professionalmente sviluppi, fabbrichi, trasformi, tratti, venda o importi prodotti"), "detentore" ("il produttore dei rifiuti o la persona fisica o giuridica che ne è in possesso"), "commerciante" ("qualsiasi impresa che agisce in qualità di committente, al fine di acquistare e successivamente vendere rifiuti") e "intermediario" ("qualsiasi impresa che dispone il recupero o lo smaltimento dei rifiuti per conto di terzi").
Ebbene, il carattere imprenditoriale dell'attività viene richiesto soltanto per i "commercianti" e gli "intermediari" ("qualsiasi impresa"), mentre la professionalità dell'attività è requisito indispensabile per la categoria del "produttore del prodotto" ("professionalmente"); al contrario, per il "produttore di rifiuti" e per il "detentore" -che espressamente comprende anche la nozione di produttore di rifiuti- non è richiesto alcun requisito ulteriore, né di imprenditorialità, né di professionalità.

Da tale considerazione deriva che
il pronome indefinito "chiunque" contenuto nella fattispecie di cui all'art. 256, comma 1, T.U. amb., fa riferimento a tutte le categorie indicate nella norma definitoria generale, e quindi anche al "detentore", senza che al riguardo possano essere introdotte surrettizie limitazioni interpretative fondate sui requisiti -non espressamente richiesti- di imprenditorialità e/o di professionalità; ciò che assume rilievo, ai fini dell'individuazione dell'autore del reato, è l'attività concretamente svolta di gestione di rifiuti, che, al di fuori dell'ipotesi di assoluta occasionalità, integra la tipicità del reato di gestione abusiva allorquando svolta in assenza di autorizzazione.
In tal senso, del resto, depone altresì, come osservato in precedenza, la soppressione, ad opera dell'art. 7, comma 6, d.lgs. 08.11.1997, n. 389, dell'inciso, riferito all'appartenenza dei rifiuti oggetto di abusiva gestione, "prodotti da terzi", contenuto nel previgente art. 51 d.lgs. 22 del 1997 (successivamente trasfuso nell'art. 256 T.U. amb.)
(nella vigenza della precedente norma, già Sez. 3, n. 21925 del 06/06/2002, Saba; di recente, Sez. 3, n. 29992 del 24/06/2014, Lazzaro).
Pertanto,
l'assoluta occasionalità non può essere desunta esclusivamente dalla natura giuridica del soggetto agente (privato, imprenditore, ecc.), dovendo invece ritenersi non integrata in presenza di una serie di indici dai quali poter desumere un minimum di organizzazione che escluda la natura esclusivamente solipsistica della condotta (ad es., dato ponderale dei rifiuti oggetto di gestione, necessità di un veicolo adeguato e funzionale al trasporto di rifiuti, fine di profitto perseguito).
In altri termini, se un soggetto -anche, come nel caso di specie, mero "detentore" di rifiuti- appresta una serie di condotte finalizzate alla gestione di rifiuti, mediante preliminare raccolta, raggruppamento, trasporto e vendita di rifiuti, pur non esercitando in forma imprenditoriale, pone in essere una "attività" di gestione di rifiuti per la quale occorre preliminarmente ottenere i necessari titoli abilitativi.

Evidentemente il profilo della assoluta occasionalità sarà oggetto precipuo della valutazione di fatto rimessa al giudice del merito, e dunque questione essenzialmente probatoria, e, ove congruamente motivata, non sarà suscettibile di censura in sede di legittimità.
3.2. Nel caso di specie, e limitandosi alle condotte che risultano contestate nell'imputazione, risulta che il trasporto ed il conseguente commercio di rifiuti ferrosi siano stati effettuati in tre distinte occasioni; tali condotte, lungi dall'essere connotate da assoluta occasionalità, denotano un minimum di organizzazione, atteso che la raccolta di ben 932 kg. di rifiuti metallici implica una preliminare fase di raggruppamento e cernita dei soli metalli, il trasporto di un tale consistente quantitativo di rifiuti necessita di un apposito veicolo, adeguato e funzionale al contenimento degli stessi, ed il commercio è evidentemente finalizzato all'ottenimento di un profitto.
Peraltro, anche il richiamo, contenuto nella sentenza impugnata, alla norma derogatoria di cui all'art. 193, comma 5, d.lgs. 152 del 2006 (come riformulato dall'art. 16, commi 1 e 2, d.lgs. 03.12.2010, n. 205) appare non conferente, in quanto, oltre a superare di oltre nove volte il limite massimo dei trasporti 'in deroga' (100 kg. all'anno), essa riguarda l'applicabilità della disciplina sulla tracciabilità dei rifiuti al gestore del servizio pubblico di raccolta ed al produttore di rifiuti, ferma restando l'illiceità del trasporto e del commercio dei rifiuti in assenza delle prescritte autorizzazioni, iscrizioni o comunicazioni di cui agli artt. 208-216 T.U. amb. (Corte di Cassazione, Sez. III Penale, sentenza 11.02.2016 n. 5716).

INCARICHI PROFESSIONALI: Compensi solo a causa chiusa. Per la liquidazione serve la sentenza di fine giudizio. AVVOCATI/ Cassazione sui calcoli per le prestazioni antecedenti ai nuovi parametri.
Per la liquidazione delle spese all'avvocato, occorre attendere che l'attività sia conclusa e quindi è necessaria una sentenza che chiuda il giudizio.

Lo hanno affermato i giudici della VI Sez. civile della Corte di Cassazione con la sentenza 11.02.2016 n. 2748.
Nella medesima sentenza in commento gli Ermellini hanno, altresì, evidenziato come in tema di spese processuali, ai sensi di legge, i nuovi parametri, cui devono essere commisurati i compensi dei professionisti in luogo delle abrogate tariffe professionali, sono da applicare ogni qual volta la liquidazione giudiziale intervenga in un momento successivo alla data di entrata in vigore del dm 140/2012 e si riferisca al compenso spettante a un avvocato che, a quella data, non abbia ancora completato la propria prestazione professionale, benché tale prestazione abbia avuto inizio e si sia in parte svolta quando ancora erano in vigore le tariffe abrogate, anche perché secondo l'accezione onnicomprensiva di «compenso» si tratterebbe di un corrispettivo unitario per l'opera complessivamente prestata.
I giudici di piazza Cavour hanno, però, evidenziato che tale principio non potrà assolutamente essere esteso all'attività professionale relativa ad un grado del giudizio che si è concluso con sentenza e in relazione al quale, il Giudice dell'appello, tenuto conto dell'esito complessivo del giudizio, rideterminerà il regolamento delle spese, anche per il primo grado del giudizio, perché l'attività professionale deve ritenersi conclusa, con la sentenza che chiude il giudizio, sia pure relativamente ad una fase dello stesso.
Anche le sezioni unite hanno sottolineato che i nuovi parametri professionali vanno applicati ogni qual volta la liquidazione giudiziale intervenga in un momento successivo alla data di entrata in vigore del predetto decreto e si riferisca al compenso spettante ad un professionista che, a quella data, non abbia ancora completato la propria prestazione professionale, e, secondo la Cassazione, l'attività professionale si deve ritenere conclusa ed espletata tutte le volte in cui sia intervenuta una sentenza che chiude una fase del giudizio anche con la liquidazione delle spese (articolo ItaliaOggi Sette del 22.02.2016).

EDILIZIA PRIVATA: L'istallazione di cartelli pubblicitari e l'omessa rimozione su suolo pubblico, ai sensi dell'art. 23, comma 13-bis, sono due cose distinte e separate.
La giurisprudenza amministrativa ha chiarito che il comma 13-bis dell'art. 23 del codice della strada non dispone una sanzione accessoria, ma è un'espressione del potere di autotutela riconosciuto all'ente proprietario onde assicurare il rispetto delle disposizioni contenute nello stesso art. 23, che variamente limitano e disciplinano la pubblicità sulle strade per armonizzarla con le esigenze di sicurezza e di ordine del traffico: ciò in considerazione del tenore delle disposizioni stesse che attribuiscono direttamente ed immediatamente all'amministrazione proprietaria della strada (senza necessità di una pronuncia giudiziale che accerti la commissione dell'illecito) il potere di imporre la rimozione dell'impianto pubblicitario abusivo o irregolare.
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Anche la giurisprudenza di legittimità si è pronunciata in tal senso affermando che "in tema di violazioni previste dal codice della strada, ai fini dell'applicazione, a carico del proprietario (o del possessore) del suolo su cui è avvenuta l'abusiva installazione di cartelli pubblicitari, della sanzione prevista dall'art. 23, comma 13-bis, per l'omessa rimozione di detti cartelli nel termine di legge nonostante la previa diffida dell'ente titolare della strada, non occorre che al proprietario (o possessore) venga, altresì, contestata o notificata, ai sensi dell'art. 14 della legge 24.11.1981, n. 689, la violazione amministrativa di abusiva installazione di detti cartelli, essendo questa prevista a carico di soggetti diversi da una autonoma fattispecie sanzionatoria (commi 7 e 13-bis del citato art. 23), ferma restando la possibilità per il proprietario (o il possessore) del suolo di dedurre, in sede di ricorso amministrativo o giurisdizionale, l'illegittimità derivata del verbale a lui rivolto per l'insussistenza della violazione presupposta, ossia per la mancata installazione dei cartelli pubblicitari o per la non abusività dei medesimi".
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3.2) I motivi meritano accoglimento sotto il profilo delle asserite violazioni di legge.
La giurisprudenza amministrativa ha chiarito che il comma 13-bis dell'art. 23 del codice della strada non dispone una sanzione accessoria, ma è un'espressione del potere di autotutela riconosciuto all'ente proprietario onde assicurare il rispetto delle disposizioni contenute nello stesso art. 23, che variamente limitano e disciplinano la pubblicità sulle strade per armonizzarla con le esigenze di sicurezza e di ordine del traffico: ciò in considerazione del tenore delle disposizioni stesse che attribuiscono direttamente ed immediatamente all'amministrazione proprietaria della strada (senza necessità di una pronuncia giudiziale che accerti la commissione dell'illecito) il potere di imporre la rimozione dell'impianto pubblicitario abusivo o irregolare (Tar Marche, Ancona, 12.08.2005, n. 957).
3.2.1) Anche la giurisprudenza di legittimità, in un caso non dissimile da quello di specie, si è pronunciata in tal senso, affermando che "in tema di violazioni previste dal codice della strada, ai fini dell'applicazione, a carico del proprietario (o del possessore) del suolo su cui è avvenuta l'abusiva installazione di cartelli pubblicitari, della sanzione prevista dall'art. 23, comma 13-bis, per l'omessa rimozione di detti cartelli nel termine di legge nonostante la previa diffida dell'ente titolare della strada, non occorre che al proprietario (o possessore) venga, altresì, contestata o notificata, ai sensi dell'art. 14 della legge 24.11.1981, n. 689, la violazione amministrativa di abusiva installazione di detti cartelli, essendo questa prevista a carico di soggetti diversi da una autonoma fattispecie sanzionatoria (commi 7 e 13-bis del citato art. 23), ferma restando la possibilità per il proprietario (o il possessore) del suolo di dedurre, in sede di ricorso amministrativo o giurisdizionale, l'illegittimità derivata del verbale a lui rivolto per l'insussistenza della violazione presupposta, ossia per la mancata installazione dei cartelli pubblicitari o per la non abusività dei medesimi" (Cass. 21606/2011).
Ciò che rileva di questa pronuncia ai fini del presente ricorso è la riconosciuta autonomia sanzionatoria della fattispecie prevista dal comma 13-bis. Pertanto la sanzione conseguente alla omessa rimozione dei cartelli dopo la diffida può essere irrogata senza necessità di contestare preventivamente la violazione di apposizione abusiva di cartelli pubblicitari.
Il comma 11 dell'art. 23 c.d.s. stabilisce la sanzione applicabile a chi pone in essere la condotta di abusiva collocazione di insegne pubblicitarie; il comma 13-bis invece concerne l'inosservanza di un autonomo obbligo di rimozione nel termine di dieci giorni dalla comunicazione della preventiva diffida.
Pertanto i motivi vanno accolti, essendo errata la sentenza del tribunale di Bari nella parte in cui ha ritenuto che la violazione di cui al comma 13-bis dell'art. 23 (inottemperanza alla diffida di rimozione) possa essere contestata, in via accessoria, soltanto al responsabile della omessa collocazione degli impianti pubblicitari.
Va inoltre riaffermato che la previsione sanzionatoria secondo la quale: "chiunque viola le prescrizioni indicate al presente comma e al comma 7 è soggetto alla sanzione amministrativa [...1" prevista dal comma 13-bis è riconducibile, per quanto qui interessa, alla violazione commessa da chi sia inadempiente all'obbligo di rimozione di cui alla diffida preventivamente comunicatagli. Questa è la condotta che era stata addebitata alla Sp. srl, la quale, essendo subentrata alla In. spa, come si legge nella sentenza impugnata, "in virtù della cessione del ramo d'azienda", era il soggetto che, come contestatole, aveva "mantenuto in esercizio l'impianto pubblicitario ritenuto abusivo".
Ad essa correttamente era stata quindi inviata la diffida a rimuovere i mezzi pubblicitari.
Nessuna delle parti è comparsa all'adunanza fissata con il rito camerale.
Il Collegio condivide pienamente la relazione e ritiene quindi che il ricorso sia da accogliere. Ne discende la cassazione della sentenza impugnata
(Corte di Cassazione, Sez. VI civile, ordinanza 11.02.2016 n. 2712).

INCARICHI PROFESSIONALIDalle spese di lite non si sfugge. C'è la condanna. Anche se la domanda è stata ridotta. CASSAZIONE/ La mancata statuizione è omissione censurabile in sede di legittimità.
Ci sarà comunque la condanna alle spese di lite, anche nel caso in cui l'autorità giudicante avrà ridotto la domanda.

A sostenerlo sono stati i giudici della VI Sez. civile della Corte di Cassazione con la sentenza 11.02.2016 n. 2709.
I giudici della Cassazione hanno evidenziato come in materia di spese processuali la parte, già soccombente nei precedenti gradi di giudizio di merito, ma poi vittoriosa all'esito del giudizio di rinvio conseguente a quello di cassazione, avrà certamente diritto a ottenere la liquidazione non solo delle spese processuali relative al giudizio di rinvio e a quello di cassazione, ma anche di quelle sostenute nei precedenti gradi di merito. Pertanto nel caso in cui la parte ne abbia fatto richiesta, la mancata statuizione, sul punto, del giudice del rinvio integra un'omissione censurabile in sede di legittimità.
Inoltre se il giudice di appello, procede con la riforma, in tutto o in parte, la sentenza impugnata, dovrà procedere d'ufficio, quale conseguenza della pronuncia di merito adottata, ad un nuovo regolamento delle spese processuali, e l'onere andrà attribuito e ripartito tenendo presente l'esito complessivo della lite, poiché la valutazione della soccombenza opera, ai fini della liquidazione delle spese, in base ad un criterio unitario e globale,
Nel caso sottoposto all'attenzione dei giudici di piazza Cavour, il ricorrente era risultato vincitore all'esito della precedente sentenza pronunciata dalla Cassazione stessa e, di conseguenza, avrebbe avuto diritto alla liquidazione delle spese di giudizio anche in relazione ai precedenti gradi di merito. La Corte d'appello, invece, dopo aver accolto la domanda nel giudizio di rinvio, aveva liquidato le spese soltanto a quanto quel giudizio e a quello di cassazione; il che configurava, secondo gli Ermellini, una sicura omissione in considerazione dell'esistenza di una forma richiesta in tal senso.
Inoltre, per quanto riguarda i giudizi di equa riparazione per violazione della durata ragionevole del processo, proposti ai sensi della legge 24.03.2001, n. 89, questi non si sottraggono all'applicazione delle regole poste, in tema di spese processuali, dagli artt. 91 e ss. cod. proc. civ., trattandosi di giudizi destinati a svolgersi dinanzi al giudice secondo le disposizioni processuali dettate dal codice di rito.
Ne consegue, che la compensazione delle spese, anche nel giudizio di equa riparazione, postula che il giudice motivi adeguatamente la propria decisione in tal senso (articolo ItaliaOggi Sette del 29.02.2016).

APPALTI SERVIZI: Negli appalti pubblici niente contratto collettivo determinato. Tar Lazio. Subentrante e clausola sociale.
Negli appalti pubblici di servizi non si può imporre alle imprese concorrenti l’applicazione di un determinato contratto collettivo per i dipendenti: lo sottolinea il TAR Lazio-Roma, Sez. II, con sentenza 11.02.2016 n. 1969. Il principio è rilevante per le conseguenze sulla “clausola sociale” e perché garantisce concorrenza tra imprese.
La clausola sociale impone di riassumere i dipendenti dell’impresa uscente, ed è oggetto di recente conferma nella legge 11/2016 (delega per recepire direttive comunitarie nel settore degli appalti). Nel futuro codice dei contratti pubblici vi sarà un punteggio premiale per le clausole sociali ma nell’attesa ci si domanda fino a che punto la clausola sociale possa imporre all’aggiudicatario lo stesso contratto, o il numero e la tipologia della forza lavoro applicata dal precedente fornitore di servizi.
Alla clausola sociale si contrappone la diversa organizzazione imprenditoriale del subentrante, perché il contratto collettivo dell’impresa subentrante può essere diverso da quello indicato nel bando di gara, pur essendo pertinente all’oggetto dell’appalto e garante dei livelli retributivi dei lavoratori. Trasporti, vigilanza e pulizie sono i settori in cui le clausole sociali e i contenziosi sono frequenti: nella sentenza 1969/2016, i giudici romani hanno esaminato una gara per il servizio di assistenza domiciliare a disabili, dalla quale una Onlus era stata esclusa perché non applicava il contratto collettivo delle cooperative sociali.
Secondo il Tar, l’esclusione è illegittima perché la Onlus aveva calibrato la sua offerta su di un contratto (quello dei dipendenti da strutture associative Anfaas) che comunque prevedeva livelli retributivi adeguati e congrui, idonei a remunerare anche il personale da riassorbire. In un altro caso, per un appalto di servizio di logistica di un’Azienda ospedaliera, l’impresa aggiudicataria aveva dichiarato di voler assumere i lavoratori con il Ccnl del comparto generale Pulizie servizi integrati/multiservizi, mentre il bando imponeva, per la specificità delle prestazioni in gara, l’applicazione del diverso e più oneroso Ccnl Logistica, trasporto merci e spedizioni.
Il contenzioso su questo punto è stato risolto dal Consiglio di Stato (5597/2015), che ha condiviso la tesi dell’impresa che si era discostata dal bando, sottolineando che la stazione appaltante deve tener conto anche delle possibili economie che le diverse singole imprese possano conseguire nel calcolo del costo del lavoro con diversi contratti. Infine, il Tar Torino (23/2015), per un appalto di servizio di vigilanza antincendio ad un elisoccorso, ha ritenuto che il vincitore avesse legittimamente applicato il Ccnl “sorveglianza antincendio” invece di quello “multiservizi”, previsto dalla stazione appaltante.
In tutti questi casi, la differenza di contratto si rifletteva sull’entità dell’offerta e sul principio di libera determinazione delle condizioni lavorative ad opera delle parti interessate (articolo 2607 e seguenti del Codice civile): da un lato, infatti, spetta all’autonomia negoziale delle parti definire l’ambito di applicazione dei contratti collettivi di lavoro che esse stipulano (Tar Toscana 1160/2013), ma dall’altro occorre riassumere i dipendenti altrui. L’impresa aggiudicataria che subentri può scegliere il Ccnl da applicare, purché garantisca il mantenimento dei livelli occupazionali in atto (Tar Lazio 2848/2011 e 9570/2011).
Il numero e la qualifica dei dipendenti da assumere devono cioè essere armonizzabili con l’organizzazione d’impresa prescelta dall’imprenditore subentrante (Consiglio di Stato 3850/2009), anche perché i lavoratori che non trovino spazio nell’organigramma dell’appaltatore subentrante e che non vengano impiegati dall’appaltatore uscente in altri settori, sono destinatari degli ammortizzatori sociali
(articolo Il Sole 24 Ore del 25.02.2016).

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVIDanni della p.a., prove solide. Non sufficiente il solo annullamento dell'atto lesivo. Consiglio di stato: ai fini della responsabilità rilevano azione illegittima e dolo o colpa.
La configurabilità della responsabilità della pubblica amministrazione per i danni provocati dall'azione amministrativa esige l'adozione di un provvedimento illegittimo, la dimostrazione del dolo o della colpa, da valersi quale elemento costitutivo del diritto al risarcimento, dell'autorità che lo ha emanato, non essendo sufficiente il solo annullamento dell'atto lesivo.

È quanto affermato dai giudici della III Sez. del Consiglio di Stato con la sentenza 09.02.2016 n. 559.
I giudici amministrativi hanno altresì evidenziato che occorre la prova che dalla colpevole condotta amministrativa sia derivato, nella sfera patrimoniale del presunto danneggiato, un pregiudizio economico direttamente riferibile all'assunzione od all'esecuzione della determinazione illegittima.
Inoltre, nella stessa sentenza in commento, circa, poi, la risarcibilità del danno da perdita di chance, i giudici del Consiglio di stato, hanno riconosciuta nelle sole ipotesi in cui l'illegittimità dell'atto ha provocato, in via diretta, una lesione della concreta occasione di conseguire un determinato bene e quest'ultima presenti un rilevante grado di probabilità (se non di certezza) di ottenere l'utilità sperata, e ciò anche in ossequio ad un ormai recente orientamento giurisprudenziale (si veda: Cons. st., sez. V, 01.10.2015, n. 4592).
È stato, inoltre, chiarito, che, nelle pubbliche gare, il predetto diritto risarcitorio spetta solo se l'impresa illegittimamente pretermessa dall'aggiudicazione illegittima riesca a dimostrare, con il dovuto rigore, che la sua offerta sarebbe stata selezionata come la migliore e che, quindi, l'appalto sarebbe stato ad essa aggiudicato, con un elevato grado di probabilità (Cons. st., sez. V, 22.09.2015, n. 4431).
Il danneggiato risulta, perciò, gravato dell'onere di provare l'esistenza di un nesso causale tra l'adozione o l'esecuzione del provvedimento amministrativo illegittimo e la perdita dell'occasione concreta di conseguire un determinato bene della vita (Cons. st., sez. VI, 04.09.2015, n. 4115), con la conseguenza che il danno in questione può essere risarcito solo quando sia collegato alla dimostrazione della probabilità del conseguimento del vantaggio sperato, e non anche quando le chance di ottenere l'utilità perduta restano nel novero della mera possibilità (Cons. st., sez. IV, 23.06.2015, n. 3147) (articolo ItaliaOggi Sette del 29.02.2016 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it).
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MASSIMA
4.2- Così decifrata la domanda sostanzialmente azionata dalla ricorrente, si deve rilevare che
la configurabilità della responsabilità della pubblica amministrazione per i danni provocati dall’azione amministrativa esige l’adozione di un provvedimento illegittimo, la dimostrazione del dolo o della colpa, da valersi quale elemento costitutivo del diritto al risarcimento, dell’autorità che lo ha emanato, non essendo sufficiente il solo annullamento dell’atto lesivo (cfr. ex multis Cons. St., sez. III, 11.03.2015, n. 1272), e la prova che dalla colpevole condotta amministrativa sia derivato, nella sfera patrimoniale del presunto danneggiato, un pregiudizio economico direttamente riferibile all’assunzione od all’esecuzione della determinazione illegittima (cfr. ex multis Cons. St., sez, VI, 08.07.2015, n. 3400).
Orbene, nella fattispecie controversa ricorrono sicuramente i primi due elementi costitutivi dell’illecito (l’illegittimità degli atti dedotti come dannosi e la sussistenza della colpa dell’Amministrazione), ma non il terzo (l’esistenza di un danno patrimoniale direttamente ricollegabile all’adozione del provvedimento illegittimo).
4.3- In merito ai prime due elementi, è sufficiente, in estrema sintesi, osservare che
gli affidamenti diretti controversi non possono in alcun modo reputarsi legittimati dall’applicazione dell’art. 57, comma 2, lett. c), d.lgs. n. 163 del 2006 (da valersi quale disposizione invocata dalla stessa Amministrazione per giustificarli), sia perché l’estrema urgenza che impedisce l’aggiudicazione dell’appalto in esito ad una procedura indetta con la pubblicazione di un bando di gara (e, cioè, la condizione che autorizza la procedura contestata) risulta, nella specie, provocata dalla stessa Amministrazione e, quindi, del tutto prevedibile, siccome ascrivibile al ritardo con il quale è stata organizzata ed attivata l’internalizzazione del servizio (contrariamente a quanto espressamente postulato dalla disposizione citata per la legittimità dell’affidamento ivi previsto), sia, ancora, perché, in ogni caso, il servizio di sterilizzazione dello strumentario chirurgico non può in alcun modo ritenersi complementare a quello di lavanolo (del tutto sconnesso dal primo) già svolto dalla Servizi Ospedalieri presso l’Azienda.
4.3.1- Una violazione così palese e ripetuta nel tempo di una disposizione tanto chiara e univoca nella sua portata precettiva (là dove, per quanto qui rileva, autorizza la procedura negoziata senza previa pubblicazione di bando nelle sole, eccezionali, e, nella specie, del tutto inesistenti, situazioni di urgenza) non può, inoltre, che integrare gli estremi della configurabilità, in capo all’Amministrazione, dell’elemento psicologico della colpa, tanto più che la SO.GE.SI. aveva più volte rappresentato all’Azienda l’illegittimità delle reiterate proroghe del servizio.
4.4- Difetta, invece, l’elemento del pregiudizio risarcibile.
4.4.1- La ricorrente allega, come voce, nella specie rivendicata, del danno provocato dagli illegittimi affidamenti diretti del servizio in questione, il lucro cessante, nella peculiare declinazione della c.d. perdita di chance, e, cioè, nel pregiudizio sofferto per aver perduto, quale conseguenza dell’adozione dei predetti atti illegittimi, l’occasione di conseguire il bene della vita (l’aggiudicazione dell’appalto) che avrebbe potuto ottenere se l’Amministrazione si fosse comportata correttamente (e, cioè, se avesse bandito una procedura aperta, anziché procedere ad una illegittima procedura negoziata senza pubblicazione del bando).
4.4.2- La disamina della fondatezza di tale pretesa risarcitoria postula una sintetica ricognizione dei principi e delle regole che presidiano lo scrutinio della spettanza del relativo diritto.
La risarcibilità del danno da perdita di chance è stata riconosciuta nelle sole ipotesi in cui l’illegittimità dell’atto ha provocato, in via diretta, una lesione della concreta occasione di conseguire un determinato bene e quest’ultima presenti un rilevante grado di probabilità (se non di certezza) di ottenere l’utilità sperata (Cons. St., sez. V, 01.10.2015, n.4592).
E’ stato, inoltre, chiarito, che,
nelle pubbliche gare, il predetto diritto risarcitorio spetta solo se l’impresa illegittimamente pretermessa dall’aggiudicazione illegittima riesca a dimostrare, con il dovuto rigore, che la sua offerta sarebbe stata selezionata come la migliore e che, quindi, l’appalto sarebbe stato ad essa aggiudicato, con un elevato grado di probabilità (Cons. St., sez. V, 22.09.2015, n. 4431).
Il danneggiato risulta, perciò, gravato dell’onere di provare l’esistenza di un nesso causale tra l’adozione o l’esecuzione del provvedimento amministrativo illegittimo e la perdita dell’occasione concreta di conseguire un determinato bene della vita (Cons. St., sez. VI, 04.09.2015, n.4115), con la conseguenza che il danno in questione può essere risarcito solo quando sia collegato alla dimostrazione della probabilità del conseguimento del vantaggio sperato, e non anche quando le chance di ottenere l’utilità perduta restano nel novero della mera possibilità (Cons. St., sez. IV, 23.06.2015, n. 3147).
Mentre, infatti, nel primo caso (probabilità di conseguimento del bene della vita) appare ravvisabile un nesso causale, da valersi quale indefettibile elemento costitutivo dell’illecito aquiliano, tra condotta antigiuridica e danno risarcibile, nella seconda ipotesi (mera possibilità di conseguimento del vantaggio perduto) risulta interrotta proprio la sequenza causale tra l’atto illegittimo e la perdita patrimoniale rivendicata dal danneggiato.
Nel caso, in cui, quest’ultimo non riesca a dimostrare che, senza l’adozione dell’atto illegittimo, avrebbe certamente (o molto probabilmente) conseguito il vantaggio che, invece, l’attività provvedimentale lesiva gli ha impedito di ottenere, non appare ravvisabile alcuna perdita patrimoniale eziologicamente riconducibile all’atto invalido, nelle forme del lucro cessante e, cioè, nella perdita di un’occasione concreta e molto probabile di accrescimento del patrimonio del danneggiato.

4.4.3- Così precisati i parametri alla cui stregua dev’essere giudicata la spettanza della voce di danno nella specie reclamata, occorre rilevare che, nella fattispecie scrutinata, difetta proprio la dimostrazione dell’elevato grado di probabilità del conseguimento dell’appalto da parte della ricorrente e, quindi, in altri termini, del requisito del nesso causale tra le determinazioni illegittime di affidamento del servizio in questione e la perdita patrimoniale allegata a fondamento della pretesa risarcitoria.
Nelle controversie aventi ad oggetto le procedure di aggiudicazione di appalti pubblici la perdita di chance può, infatti, essere risarcita solo quando vengono giudicate illegittime l’esclusione di un’impresa da una gara o l’aggiudicazione della stessa a un’altra impresa e quella invalidamente pretermessa dall’affidamento dell’appalto riesce a dimostrare che, se la procedura fosse stata amministrata correttamente, la sua offerta avrebbe avuto concrete probabilità di essere selezionata come la migliore, risultando provato, in questo caso, il nesso causale diretto tra la violazione accertata e la perdita patrimoniale (nella forma del lucro cessante) patita dalla concorrente alla quale è stata invalidamente sottratta l’occasione di conseguire l’aggiudicazione.
Quando, invece, viene giudicato illegittimo l’affidamento diretto di un appalto (e, quindi, la gara non è stata proprio indetta), l’impresa che, come operatrice del settore, lo ha impugnato, lamentando la sottrazione al mercato di quel contratto, riceve, in via generale, una tutela risarcitoria integralmente satisfattiva per mezzo dell’effetto conformativo che impone all’Amministrazione di bandire una procedura aperta per l’affidamento dell’appalto (ed alla quale potrà partecipare, conservando, perciò, integre le possibilità di aggiudicazione del contratto, l’impresa che ha ottenuto, in via giudiziaria, l’annullamento dell’affidamento diretto).
Nelle ipotesi, tuttavia, in cui tale forma di tutela (in forma specifica) non è più possibile perché, come nel caso di specie, l’Amministrazione ha deciso di gestire direttamente il servizio, internalizzandone l’esercizio, quella risarcitoria per equivalente da perdita di chance resta, in ogni caso, preclusa dall’assorbente rilievo che l’impresa asseritamente danneggiata non può certo dimostrare, per il solo fatto di operare nel settore dell’appalto illegittimamente sottratto al mercato, di aver perduto, quale diretta conseguenza dell’invalida assegnazione del contratto ad altra impresa, una occasione concreta di aggiudicarsi quell’appalto o, in altri, termini che, se l’Amministrazione lo avesse messo a gara, se lo sarebbe con elevata probabilità) aggiudicato.

Nella situazione appena descritta, infatti, le possibilità che l’impresa che ha denunciato l’illegittimità dell’affidamento diretto (ottenendone l’annullamento) si sarebbe aggiudicata l’appalto, se l’Amministrazione lo avesse messo a gara, sono pari a quelle di qualsiasi altro operatore del settore legittimato a partecipare alla procedura, sicché resta preclusa qualsivoglia analisi delle concrete possibilità di esito favorevole della selezione per l’impresa asseritamente danneggiata, che non può che fondarsi, come sopra rilevato, sulla verifica della competitività della sua offerta (che, tuttavia, nella situazione esaminata non è stata proprio presentata, con la conseguenza dell’impossibilità materiale dello scrutinio del grado di probabilità di successo della ricorrente).

EDILIZIA PRIVATA: Verifica pericolosità, l giudice non c'entra. PASSI CARRAI/ Parola agli organi preposti.
Nei centri urbani cittadini, e in particolare in quelli storici, la verifica di pericolosità di un passo carraio dev'essere effettuata nel concreto dagli organi preposti e non dal giudice amministrativo.
Pertanto, in presenza di un parere favorevole espresso sulla base di argomentazioni tecniche e circostanze di luogo specifiche, è illegittimo il diniego di autorizzazione all'apertura, ove il comune ometta di illustrare, con altrettanta specificità, le ragioni tecniche ostative allo accoglimento dell'istanza.

È quanto ribadito dai giudici della II Sez. del TAR per la Calabria-Catanzaro, con la sentenza 09.02.2016 n. 283.
I giudici calabresi sono stati chiamati ad esprimersi su un caso in cui Tizio con ricorso impugnava un provvedimento con il quale il comune dichiarava la procedibilità di una Scia relativa al cambio d'uso senza opere, in parcheggio pertinenziale, di un magazzino posto al pianterreno di un immobile.
A sostegno del gravame, Tizio rilevava che la Scia conteneva dichiarazioni mendaci, non veritiere o comunque incomplete, nonché evidenziava che non era dato sapere quali «idonei controlli» fossero stati posti in essere dall'amministrazione per verificare la fondatezza di quanto asseverato dal progettista, mancando ogni richiamo ad una eseguita istruttoria.
Con motivi aggiunti Tizio oltre a sollevare ulteriori censure riguardo al primo atto, estendeva il gravame all'autorizzazione di un passo carrabile (rilevando la violazione dell'art. 46, comma 2, lett. a), del dpr 495/1992: regolamento di attuazione al codice della strada, per mancanza della distanza di almeno 12 metri dalle intersezioni e per assenza dei presupposti di sicurezza) ed impugnava la nota con cui la polizia municipale confermava il parere favorevole per il rilascio del passo carrabile.
Il Tribunale amministrativo respingeva il gravame, poiché la specifica valutazione da parte della polizia municipale, insindacabile dal giudice amministrativo, in quanto espressione di discrezionalità tecnica poneva in luce che la via dove il locale era ubicato, era una strada urbana a bassa densità di circolazione veicolare; che l'adiacente via risultava percorribile in un unico senso di marcia; che sulle due strade sopra citate la velocità consentita era di 30 km/h e che pertanto lo spazio d'arresto necessario era pari a m. 4,43 e che lo spazio di visibilità dal passo carrabile era di m. 25-50 (articolo ItaliaOggi Sette del 29.02.2016).
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MASSIMA
Con due motivi aggiunti, il ricorrente impugna il rilascio dell’autorizzazione all’apertura del passo carrabile, rilevando la violazione dell’art. 46, comma 2, lett. a), del D.P.R. 495/1992 (regolamento di attuazione al codice della strada), per mancanza della distanza di almeno 12 metri dalle intersezioni e per assenza dei presupposti di sicurezza.
In proposito, osserva il collegio che,
nei centri urbani cittadini, ed in particolare in quelli storici, la verifica di pericolosità di un passo carraio dev’essere effettuata nel concreto dagli organi preposti, di modo che, in presenza di un parere favorevole espresso sulla base di argomentazioni tecniche e circostanze di luogo specifiche, è illegittimo il diniego di autorizzazione all’apertura, ove il comune ometta di illustrare, con altrettanta specificità, le ragioni tecniche ostative allo accoglimento dell’istanza (cfr. TAR Toscana, Sez. II, 05.11.1993 n. 578).
Orbene, nella fattispecie concreta, la detta verifica è stata oggetto di una specifica valutazione da parte della Polizia municipale, la quale, con motivazione insindacabile dal giudice amministrativo, in quanto espressione di discrezionalità tecnica, ha posto in luce le seguenti risultanze:
1. che la via Casalinuovo (dove il locale è ubicato) è una strada urbana a bassa densità di circolazione veicolare;
2. che l’adiacente via Poerio risulta attualmente percorribile in un unico senso di marcia, nella direzione piazza Matteotti - piazza Unità d’Italia;
3. che sulle due strade sopra citate la velocità consentita è di 30 km/h e che pertanto lo spazio d’arresto necessario è pari a m. 4,43;
4. che lo spazio di visibilità dal passo carrabile sulla via Poerio è di m. 25-50.
In conclusione, alla luce di quanto esposto, il gravame va complessivamente respinto.

CONDOMINIO - VARI: Perdita di gas, omicidio colposo al locatore.
Sicurezza. L’omessa manutenzione dello scaldabagno provoca la morte dell’inquilino per intossicazione da monossido di carbonio.
Per la morte causata dall’intossicazione del monossido di carbonio fuoriuscito da impianti obsoleti risponde il locatore che ha omesso di eseguire la dovuta manutenzione.
E’ stato ritenuto colpevole, in entrambi i gradi di merito, per omicidio colposo (articolo 589 codice penale) e per lesioni personali colpose (articolo 590 codice penale), il proprietario di un immobile locato che, per negligenza, imprudenza, imperizia, inosservanza di norme tecniche in materia dei sicurezza e di manutenzione degli impianti domestici e delle apparecchiature alimentate a gas, non aveva eliminato le difformità di uno scaldabagno alimentato a gas. provocando la morte dell’ inquilino e lesioni ai condomini e agli inquilini adiacenti e soprastanti (Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 03.02.2016 n. 4451).
La morte era stata causata dall’esalazione di monossido di carbonio sprigionato dallo scaldabagno nonostante i ripetuti inviti dell’amministratore a mettere l’impianto in sicurezza.
I supremi giudici, nel confermare la sentenza di appello, richiamando l’articolo 1575 codice civile in base al quale il locatore deve consegnare al conduttore al cosa locata in buono stato di manutenzione e mantenerla in stato da servire all’uso convenuto, hanno confermato, a seguito di appurata verifica, la responsabilità del locatore indipendentemente dalla occlusione della canna fumaria condominiale circostanza che, seppure poteva aver contribuito in maniera sensibile alla produzione dell’evento, non lo avrebbe cagionato se lo scaldabagno non avesse esalato il monossido di carbonio in percentuali tali da salutare l'aria in pochi minuti.
In analoghe circostanze gli stessi giudici avevano affermato che la responsabilità del locatore per i danni derivanti dall’esistenza dei vizi sussiste anche in relazione a vizi preesistenti la consegna ma manifestatisi successivamente ad essa, nel caso in cui il locatore poteva conoscerli, usando l’ordinaria diligenza, secondo la disciplina di cui all’articolo 1578 codice civile (Cassazione sentenza n. 18854 /2008).
Il tal caso il locatore «è tenuto a risarcire il danno alla salute subito dal conduttore in conseguenza delle condizioni abitative dell’ immobile locato anche quando tali condizioni fossero note al conduttore al momento della conclusione del contratto, in quanto la tutela del diritto alla salute prevale su qualsiasi patto interprivato di esclusione o limitazione della responsabilità» (Cassazione sentenza n. 915/1999).
Con lo stesso principio è stato condannato il proprietario a risarcire il danno per la morte dell’inquilino folgorato da una scarica elettrica proveniente da uno scaldabagno difettoso che lui stesso aveva comprato e installato, per non aver installato il salva vita (Cassazione sentenza n. 7699/2015)
(articolo Il Sole 24 Ore del 24.02.2016).

EDILIZIA PRIVATA: La fattispecie di demolizione e ricostruzione di un fabbricato, che costituisce una delle tre tipologie della ristrutturazione edilizia delineate dall’art. 3, primo comma, lett. d), del D.P.R. 06.06.2001 n. 380 e ss.mm. (ristrutturazione “leggera”, “pesante” e mediante demolizione e ricostruzione), può rientrare in tale ambito nei soli casi in cui ricostruzione è sostanzialmente conforme alla precedente struttura oggetto di demolizione.
A tal fine, l’insegnamento giurisprudenziale consolidatosi in “subiecta materia” (sino alla modifica normativa del 2013) ha chiarito che l'elemento che, in linea generale, contraddistingue la ristrutturazione dalla nuova edificazione deve rinvenirsi nella già avvenuta trasformazione del territorio, mediante una edificazione di cui si conservi la struttura fisica (sia pure con la sovrapposizione di un "insieme sistematico di opere, che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente": art. 3, primo comma, lett. d, T.U.) ovvero la cui stessa struttura fisica venga del tutto sostituita, ma -in quest'ultimo caso- con ricostruzione, se non "fedele" (per effetto della modifica apportata al Testo Unico dal DLGS 27.12.2002 n. 301), comunque rispettosa della volumetria e della sagoma della costruzione preesistente.
Ancora più in dettaglio, si è notato che, ai sensi della lettera d), primo comma, dell'art. 3 del T.U. in materia edilizia, sono inclusi nella definizione di "ristrutturazione edilizia", gli interventi di demolizione e ricostruzione con identità di volumetria e di sagoma rispetto all'edificio preesistente; la successiva lettera e) classifica come interventi di "nuova costruzione" quelli di "trasformazione edilizia e urbanistica del territorio non rientranti nelle categorie definite alle lettere precedenti".
In base alla menzionata disposizione normativa nel testo vigente sino al 2013, quindi, un intervento di demolizione e ricostruzione che non rispetti la volumetria o la sagoma dell'edificio preesistente -intesa quest'ultima come la conformazione planivolumetrica della costruzione e il suo perimetro considerato in senso verticale e orizzontale- è stato costantemente qualificato come un intervento di nuova costruzione e non di ristrutturazione edilizia.
Ora, se è vero che in forza delle modifiche normative al testo dell’art. 3, primo comma, lett. d), del D.P.R. 06.06.2001 n. 380, recentemente introdotte dall’art. 30, primo comma, del DL 21.06.2013 n. 69, c.d. “Decreto del Fare”, (convertito dalla Legge 09.08.2013 n. 98), la ristrutturazione edilizia realizzata tramite demolizione e ricostruzione di un fabbricato non presuppone più il rispetto dalla sagoma preesistente (ma solo della preesistente volumetria), non può però essere trascurato che, nella fattispecie concreta oggetto del presente giudizio, risulta “per tabulas” che si è in presenza di un progetto di demolizione (pressoché completa) dell’edificio esistente a piano terra al fine di realizzare una civile abitazione di maggior consistenza volumetrica con tipologia duplex disposta su due livelli di piano, e quindi (oltre che di una modifica della precedente sagoma) di un sicuro ampliamento volumetrico (lo stesso progettista parla nella relazione tecnica illustrativa di “ristrutturazione al piano terra e di realizzazione di un ampliamento al primo piano”, ossia -in pratica- dell’edificazione “ex novo” di un ulteriore piano del fabbricato demolito), che si pone -con ogni evidenza- al di fuori della nozione attualmente delineata dall’art. 3, primo comma, lett. d), del D.P.R. 06.06.2001 n. 380 e ss.mm., statuente che: “Nell’ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria dell’edificio preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica, nonché quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza”.
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... per l'annullamento del provvedimento prot. n. 6621 del 18.05.2015, pervenuto in data 22.05.2015, con il quale il Responsabile della IV Struttura del Comune di Latiano ha disposto il diniego della domanda di permesso di costruire presentata dalla ricorrente il 16.10.2014;
...
Il ricorso è manifestamente infondato nel merito e va respinto.
E’ necessario, innanzitutto, rammentare –in punto di fatto– che l’impugnato provvedimento di diniego di permesso di costruire è del seguente tenore: “…..Rilevata l’entità e la tipologia dell’intervento edilizio in progetto, dagli elaborati progettuali redatti dall’Arch. Profilo (Tav. Unica Bis - relazione tecnica), consistente nell’esecuzione delle seguenti opere: - demolizione della totalità delle strutture orizzontali e verticali dell’impianto originale dell’edificio esistente a piano terra ad eccezione di alcuni residui della muratura di prospetto; - ampliamento volumetrico dell’edificio esistente a piano terra al fine di realizzare una civile abitazione di maggior consistenza con tipologia duplex disposta su due livelli di piano;
Vista la comunicazione preventiva di motivi ostativi all’accoglimento della domanda formulata da questo U.T.C. con nota prot. n. 3890 in data 16.03.2015 ai sensi della Legge n. 241/1990; Rilevate le osservazioni trasmesse del Tecnico progettista Arch. Ca.Pr. con note acquisite al protocollo generale comunale……;
Considerato che le osservazioni prodotte non superano le motivazioni che ostano all’accoglimento della domanda;…………. DISPONE il diniego della domanda di permesso di costruire di cui in oggetto per le seguenti motivazioni già espresse nella comunicazione preventiva prot. n. 3890/2015: L’intervento edilizio in progetto, così come proposto e descritto nelle premesse, si configura come un intervento di nuova costruzione definito dall’art. 3, primo comma, lett. e), del D.P.R. n. 380/2001, e pertanto soggetto al rispetto delle N.T.A. prescritte dal vigente Programma di Fabbricazione per le nuove costruzioni
”.
Ciò premesso, il Collegio osserva –in diritto– che tutte le censure formulate nel ricorso (con cui, in buona sostanza, si sostiene che le opere edilizie in questione rientrerebbero nell’ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia, anziché di nuova costruzione) si rivelano palesemente prive di giuridico fondamento, ove si consideri che il progetto edilizio presentato (il 16.10.2014) dalla odierna ricorrente prevedeva la realizzazione di un edificio del tutto diverso rispetto al preesistente e, quindi, incompatibile con il concetto di ristrutturazione edilizia per demolizione e ricostruzione.
A tal fine, va evidenziato come la fattispecie di demolizione e ricostruzione di un fabbricato, che costituisce una delle tre tipologie della ristrutturazione edilizia delineate dall’art. 3, primo comma, lett. d), del D.P.R. 06.06.2001 n. 380 e ss.mm. (ristrutturazione “leggera”, “pesante” e mediante demolizione e ricostruzione), può rientrare in tale ambito nei soli casi in cui ricostruzione è sostanzialmente conforme alla precedente struttura oggetto di demolizione.
A tal fine, l’insegnamento giurisprudenziale consolidatosi in “subiecta materia” (sino alla modifica normativa del 2013) ha chiarito che l'elemento che, in linea generale, contraddistingue la ristrutturazione dalla nuova edificazione deve rinvenirsi nella già avvenuta trasformazione del territorio, mediante una edificazione di cui si conservi la struttura fisica (sia pure con la sovrapposizione di un "insieme sistematico di opere, che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente": art. 3, primo comma, lett. d, T.U.) ovvero la cui stessa struttura fisica venga del tutto sostituita, ma -in quest'ultimo caso- con ricostruzione, se non "fedele" (per effetto della modifica apportata al Testo Unico dal Decreto Legislativo 27.12.2002 n. 301), comunque rispettosa della volumetria e della sagoma della costruzione preesistente (cfr: “ex multis”: Consiglio di Stato, IV Sezione, 12.05.2014 n. 2397).
Ancora più in dettaglio, si è notato (Consiglio di Stato, IV Sez., 06.12.2013 n. 5822) che, ai sensi della lettera d), primo comma, dell'art. 3 del T.U. in materia edilizia, sono inclusi nella definizione di "ristrutturazione edilizia", gli interventi di demolizione e ricostruzione con identità di volumetria e di sagoma rispetto all'edificio preesistente; la successiva lettera e) classifica come interventi di "nuova costruzione" quelli di "trasformazione edilizia e urbanistica del territorio non rientranti nelle categorie definite alle lettere precedenti".
In base alla menzionata disposizione normativa nel testo vigente sino al 2013, quindi, un intervento di demolizione e ricostruzione che non rispetti la volumetria o la sagoma dell'edificio preesistente -intesa quest'ultima come la conformazione planivolumetrica della costruzione e il suo perimetro considerato in senso verticale e orizzontale- è stato costantemente qualificato come un intervento di nuova costruzione e non di ristrutturazione edilizia.
Ora, se è vero che in forza delle modifiche normative al testo dell’art. 3, primo comma, lett. d), del D.P.R. 06.06.2001 n. 380, recentemente introdotte dall’art. 30, primo comma, del Decreto Legge 21.06.2013 n. 69, c.d. “Decreto del Fare”, (convertito dalla Legge 09.08.2013 n. 98), la ristrutturazione edilizia realizzata tramite demolizione e ricostruzione di un fabbricato non presuppone più il rispetto dalla sagoma preesistente (ma solo della preesistente volumetria), non può però essere trascurato che, nella fattispecie concreta oggetto del presente giudizio, risulta “per tabulas” che si è in presenza di un progetto di demolizione (pressoché completa) dell’edificio esistente a piano terra al fine di realizzare una civile abitazione di maggior consistenza volumetrica con tipologia duplex disposta su due livelli di piano, e quindi (oltre che di una modifica della precedente sagoma) di un sicuro ampliamento volumetrico (lo stesso progettista parla nella relazione tecnica illustrativa di “ristrutturazione al piano terra e di realizzazione di un ampliamento al primo piano”, ossia -in pratica- dell’edificazione “ex novo” di un ulteriore piano del fabbricato demolito), che si pone -con ogni evidenza- al di fuori della nozione attualmente delineata dall’art. 3, primo comma, lett. d), del D.P.R. 06.06.2001 n. 380 e ss.mm., statuente che: “Nell’ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria dell’edificio preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica, nonché quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza”.
Appare assurda, poi, la pretesa della parte ricorrente di distinguere (ai fini di causa) la ristrutturazione edilizia del solo piano terra demolito dalla (contestuale) realizzazione dell’ampliamento al primo piano, in quanto la domanda di permesso di costruire di che trattasi è da intendersi richiesta, ai sensi dell’art. 10, primo comma, lett. c), del D.P.R. 06.06.2001 n. 380, per l’unitario intervento (definito dall’istante di ristrutturazione edilizia) consistente nella demolizione dell’edificio preesistente a piano terra al fine di realizzare una civile abitazione di maggior consistenza volumetrica con tipologia duplex disposta su due livelli di piano; pertanto, anche ai sensi dell’art. 21-octies secondo comma della Legge 07.08.1990 n. 241 e ss.mm., l’impugnato provvedimento di diniego si configura come atto dovuto (risultando irrilevante, nel caso di specie, il denunciato difetto di adeguata motivazione).
Per le ragioni sopra sinteticamente illustrate il ricorso deve essere respinto (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 03.02.2016 n. 233 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl titolare del permesso di costruire non può realizzare le opere (a scomputo oneri) di sua iniziativa, né limitarsi ad inviare una richiesta di autorizzazione mai riscontrata al Comune, essendo invece necessario che la P.A. disciplini espressamente le modalità di esecuzione delle opere e le necessarie garanzie.
Ed invero, l’ammissione allo scomputo forma oggetto di una valutazione discrezionale da parte della P.A., che ben può optare per soluzioni diverse senza neanche un obbligo di specifica motivazione.

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... per la declaratoria di illegittimità del silenzio serbato dalla P.A. sull'istanza presentata dalla ricorrente il 15.07.2014 e riproposta il 29.07.2015, volta ad ottenere l’autorizzazione a realizzare opere a scomputo degli oneri di urbanizzazione relativi all’intervento edilizio richiesto con istanza di permesso di costruire presentata anch’essa il 15.07.2014;
... per l’ordine all’Amministrazione comunale di provvedere e per la nomina, sin da subito, di un Commissario ad acta incaricato di provvedere in sostituzione del Comune, nel caso di persistente inerzia di quest’ultimo, mediante l’adozione del provvedimento conclusivo del procedimento in oggetto.
...
Il ricorso è fondato e da accogliere nei limiti che si vanno di seguito ad esporre.
La ricorrente sostiene che l’obbligo del Comune di provvedere sulla domanda di autorizzazione alla realizzazione di opere a scomputo degli oneri di urbanizzazione avrebbe, nella fattispecie all’esame, una duplice fonte:
- da un lato discenderebbe dall’essere il Comune di Latina Ente titolare della potestà di governo del territorio (profilo pubblicistico);
- dall’altro lato, invece, discenderebbe dall’essere il Comune di Latina parte della convenzione per l’esecuzione dei criteri perequativi afferenti l’attuazione del P.P.E. R/6 Quartiere Isonzo, stipulata il 7 agosto (in realtà, il 15 aprile) 2014 tra lo stesso Comune, la ricorrente ed altri soggetti privati, che all’art. 11.1 avrebbe previsto l’autorizzazione, da parte del competente dirigente del Comune, al cd. scomputo degli oneri di urbanizzazione a carico della CEPS S.r.l., su richiesta della predetta società (profilo privatistico).
Sotto quest’ultimo aspetto, la ricorrente precisa che la previsione convenzionale circa la possibilità per essa di realizzare, nell’area in discorso, le opere di urbanizzazione a scomputo dei relativi oneri era stata dettata dalla situazione di mancata urbanizzazione di tale area: situazione che impedirebbe sia il rilascio del permesso di costruire, sia la fruizione del futuro fabbricato.
Pertanto –conclude la società– l’inerzia tenuta dalla P.A. sull’istanza autorizzatoria, dal cui inoltro sono passati oltre tre mesi, costituisce violazione sia dell’art. 2 della l. n. 241/1990, sia dei succitati obblighi convenzionali.
Ritiene, tuttavia, il Collegio che l’assunto della ricorrente sia fondato esclusivamente sotto il profilo della violazione, da parte del Comune di Latina, dell’obbligo di concludere il procedimento con un provvedimento espresso, ex art. 2 della l. n. 241/1990, ma non anche sotto l’aspetto della violazione di un preteso obbligo negoziale posto dall’art. 11.1 della convenzione del 15.04.2014.
Al riguardo va fatta una premessa: l’obbligo di matrice pubblicistica di concludere il procedimento in modo espresso, ex art. 2 della l. n. 241/1990 –che, come si preciserà infra, incombe certamente sul Comune di Latina nel caso di specie– non ha uguale contenuto del presunto obbligo di matrice negoziale che discenderebbe dall’art. 11.1 della citata convenzione. Nel primo caso, infatti, si tratta solo dell’obbligo di concludere il procedimento con un atto espresso, quale che ne sia il contenuto; nel secondo, invece, si tratterebbe di condannare l’Amministrazione Comunale, in base all’art. 11.1 cit., a rilasciare l’autorizzazione allo scomputo degli oneri, ossia ad adottare un atto amministrativo dal contenuto ben preciso.
Peraltro, se fosse vero quanto sostiene la ricorrente circa l’esistenza di un obbligo convenzionale di rilascio dell’autorizzazione, si porrebbe il problema della conversione, ai sensi dell’art. 32, comma 2, c.p.a., dell’azione proposta con il ricorso in epigrafe, in azione di accertamento dell’obbligo del Comune di adempiere alla succitata clausola convenzionale (art. 11.1) e di condanna dello stesso a rilasciare la richiesta autorizzazione. Ciò, pur restando ferma la devoluzione della controversia alla giurisdizione del G.A., atteso che la convenzione del 15.04.2014, quale accordo perequativo, ha natura di accordo ex art. 11 della l. n. 241/1990 (TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 04.04.2012, n. 1008): in relazione a detto accordo, pertanto, la giurisdizione esclusiva del G.A. si estende anche alla fase della sua esecuzione (art. 133, comma 1, lett. a), n. 2, c.p.a.; v. TAR Lombardia, Milano, Sez. III, 01.09.2014, n. 2289).
Tuttavia, la ricostruzione della ricorrente non convince, perché l’art. 11.1 della convenzione del 15.04.2014 prevede la facoltà, non l’obbligo, del dirigente del Comune di rilasciare l’autorizzazione allo scomputo degli oneri di urbanizzazione. Ne segue che non vi è alcun obbligo convenzionale, in forza del quale la P.A. è tenuta a rilasciare la suddetta autorizzazione.
Come già detto, sussiste, invece, l’obbligo del Comune, ex art. 2 della l. n. 241/1990, di rispondere con un provvedimento espresso all’istanza di rilascio dell’autorizzazione, quale che sia il contenuto di tale provvedimento. Ciò, in virtù dell’art. 16, comma 2, del d.P.R. n. 380/2001, il quale prevede che a scomputo totale o parziale della quota di contributo che l’interessato deve pagare al Comune, in base al precedente comma 1, in relazione agli oneri di urbanizzazione, il privato possa obbligarsi a realizzare direttamente le opere di urbanizzazione con le modalità e le garanzie stabilite dalla P.A. (con acquisizione delle opere realizzate al patrimonio indisponibile del Comune).
Perciò, il titolare del permesso di costruire non può realizzare le opere di sua iniziativa, né limitarsi ad inviare una richiesta di autorizzazione mai riscontrata al Comune, essendo invece necessario che la P.A. disciplini espressamente le modalità di esecuzione delle opere e le necessarie garanzie (cfr. C.d.S., Sez. IV, 28.11.2012, n. 6033). Ed invero, l’ammissione allo scomputo forma oggetto di una valutazione discrezionale da parte della P.A., che ben può optare per soluzioni diverse senza neanche un obbligo di specifica motivazione (cfr. TAR Sicilia, Catania, Sez. I, 02.02.2012, n. 279).
Ne discende che nella fattispecie all’esame è azionabile dalla CEPS S.r.l. il rito speciale ex artt. 31 e 117 c.p.a., senza che si ponga un problema di conversione dell’azione.
L’azionabilità del rimedio del rito speciale del silenzio ex artt. 31 e 117 c.p.a. si evince, nel caso di specie, dalla circostanza che, all’epoca della notificazione del ricorso, erano trascorsi quasi tre mesi dalla presentazione dell’istanza di autorizzazione allo scomputo inoltrata al Comune di Latina il 29.07.2015. Tale azionabilità sussiste, sia ove si configuri l’istanza de qua come “nuova richiesta”, secondo quanto si legge a pag. 4 del ricorso, sia ove la si consideri, invece, quale diffida o sollecito rispetto alla precedente del 15.04.2014, come si ricava da altri passaggi del ricorso, in quanto la diffida a provvedere si configura quale una nuova istanza di avvio del procedimento, ai sensi e per gli effetti degli artt. 2, comma 5, della l. n. 241/1990 e 31, comma 2, ultimo periodo, c.p.a, (cfr., da ultimo, TAR Lazio, Latina, Sez. I, 13.10.2015, n. 658).
Sul punto si evidenzia che la qualificazione dell’istanza del 29.07.2015 quale nuova richiesta di provvedere non urta contro il disposto dell’art. 31, comma 2, c.p.a., che fa salva la riproponibilità dell’istanza “ove ne ricorrano i presupposti”: nel frattempo, infatti, era mutato il quadro-giuridico fattuale della vicenda, per la presentazione da parte della ricorrente, il 01.07.2015, di modifiche al progetto delle opere previste a scomputo degli oneri di urbanizzazione.
In definitiva, è dal ricevimento, il 29.07.2015, dell’istanza di autorizzazione allo scomputo, sia che la si consideri quale nuova richiesta, sia che la si intenda quale diffida rispetto alla precedente, che va conteggiato il termine di proposizione del ricorso ex art. 31, comma 2, primo periodo, c.p.a. (secondo cui l’azione può essere proposta finché perdura l’inadempimento ed in ogni caso non oltre un anno dalla scadenza del termine di conclusione del procedimento).
Orbene, come già accennato, il ricorso è stato notificato a circa novanta giorni dalla surriferita data del 29.07.2015 (e precisamente: il 15.10.2015), quando, pertanto, era ampiamente spirato il termine generale di trenta giorni per la conclusione del procedimento ex art. 2, comma 2, della l. n. 241/1990.
Detto termine generale, che trova applicazione, in via residuale, in mancanza della previsione di un termine diverso da parte di leggi o regolamenti (TAR Friuli Venezia Giulia, Sez. I, 14.04.2015, n. 182), pur se previsto esplicitamente dall’art. 2, comma 2, cit. per i procedimenti amministrativi di competenza delle Amministrazioni statali e degli Enti pubblici nazionali, va considerato estensibile ai procedimenti amministrativi di competenza dei Comuni (TAR Lazio, Roma, Sez. II, 03.05.2012, n. 3924; v., pure, TAR Abruzzo, L’Aquila, Sez. I, 02.05.2014, n. 397, che l’ha ritenuto applicabile ai procedimenti di competenza della Provincia), in forza dell’art. 29, comma 2-bis, della l. n. 241/1990.
In base a tale disposizione, infatti, attengono ai livelli essenziali delle prestazioni di cui all’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., tra le altre, le disposizioni della stessa l. n. 241/1990 concernenti gli obblighi per la P.A. di concludere il procedimento entro il termine prefissato e quelle riguardanti la durata massima dei procedimenti.
Ne consegue –secondo la dottrina– che la libertà di Regioni ed Enti locali di disciplinare i termini di conclusione dei procedimenti di propria competenza incontra un limite nel citato art. 29, il quale impedisce la fissazione di garanzie inferiori a quelle assicurate dalla stessa l. n. 241, ferma restando, in ogni caso, la possibilità di prevedere livelli ulteriori di tutela.
Nella fattispecie all’esame, non risulta l’esistenza di alcuna disciplina specifica in ordine al termine per la conclusione del procedimento di autorizzazione allo scomputo degli oneri di urbanizzazione, non avendo l’art. 16, comma 2, del d.P.R. n. 380/2001 fissato un termine entro cui il Comune deve riscontrare l’istanza di scomputo: a detto procedimento, dunque, è applicabile il ricordato termine di trenta giorni ex art. 2, comma 2, della l. n. 241/1990, scaduto il 28.08.2015. Donde l’intervenuta maturazione del cd. silenzio inadempimento ancor prima della proposizione del ricorso.
In definitiva, pertanto, il ricorso è fondato nei limiti della declaratoria della sussistenza dell’obbligo del Comune di Latina di riscontrare l’istanza di autorizzazione allo scomputo presentata dalla CEPS S.r.l. in data 29.07.2015 con un provvedimento espresso (quale che ne fosse il contenuto), e del connesso accertamento dell’illegittimità dell’inerzia serbata su di essa dalla citata Amministrazione comunale.
Per conseguenza, deve ordinarsi al Comune di Latina di riscontrare l’istanza in discorso, emanando il provvedimento conclusivo del relativo procedimento nel termine di trenta (30) giorni ex art. 117, comma 2, c.p.a., a decorrere dalla comunicazione in via amministrativa, ovvero, se anteriore, dalla notificazione a cura di parte della presente decisione.
Ai sensi dell’art. 117, comma 3, c.p.a., va, altresì, accolta la domanda di nomina di un Commissario ad acta, incaricato di provvedere in sostituzione del Comune di Latina, ove l’inerzia di quest’ultimo permanga allo spirare del suindicato termine di trenta giorni, individuandolo nel Prefetto di Latina, o in altro dipendente della Prefettura con qualifica non inferiore a funzionario, all’uopo delegato dal precedente.
Il predetto Commissario provvederà, su sollecitazione di parte, in luogo del Comune inerte, entro un termine di trenta (30) giorni a partire da detta sollecitazione (che la parte potrà fargli pervenire, una volta che sia inutilmente scaduto il termine di trenta giorni sopra visto).
È fatta salva la possibilità della richiesta motivata di proroghe, che potranno essere accordate anche mediante decreto presidenziale.
Si ritiene, infine, di dover rinviare ogni decisione sulla liquidazione del compenso del Commissario ad acta, qualora si rendesse necessario il suo intervento, alla presentazione, da parte dello stesso, di un’apposita relazione che documenti l’espletamento dell’incarico, con avviso sin da ora, peraltro, –anche ai fini delle conseguenti responsabilità erariali– che di detta liquidazione verrebbe onerato il Comune di Latina (TAR Lazio-Latina, sentenza 02.02.2016 n. 57 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: La procura alle liti sopperisce al contratto. Effetti del conferimento da parte di un ente pubblico.
Se a un avvocato viene conferita una procura alle liti da un ente pubblico, questa sarà idonea a sopperire alla formale sottoscrizione del contratto di patrocinio e pertanto all'avvocato spetterà il compenso.

A stabilirlo sono stati i giudici della VI Sez. civile della Corte di Cassazione con l'ordinanza 29.01.2016 n. 1795.
In sede di commento sembra opportuno premettere che sulla questione dell'idoneità del rilascio della procura ad lites, quando seguita dall'atto difensivo sottoscritto dall'avvocato, a sopperire alla formale sottoscrizione del contratto di patrocinio, sono intervenute numerose pronunce della stessa corte di Cassazione, tra l'altro in giudizi tra le stesse parti (si vedano, tra le tante, sez. VI-3, 16.04.2015, n. 7796; sez. VI-3, 22.05.2015, n. 10674; sez. VI-3, 25.05.2015, n. 10753; sez. VI-3, 22.07.2015, n. 15454; sez. VI-3, 28.07.2015, n. 15925).
A parere dei giudici di piazza Cavour, per quanto riguarda i contratti della pubblica amministrazione, che devono essere stipulati ad substantiam per iscritto, il requisito della forma del contratto di patrocinio sarà soddisfatto con il rilascio al difensore, a mezzo di atto pubblico, di procura generale alle liti ai sensi dell'art. 83 cod. proc. civ., qualora sia puntualmente fissato l'ambito delle controversie per le quali opera la procura stessa (nel caso sottoposto all'attenzione degli Ermellini: tutte le cause attive e passive promosso e da promuoversi, innanzi a qualsiasi Autorità giudiziaria, esclusa la Suprema corte di cassazione, aventi ad oggetto il solo recupero dei crediti della stessa Camera di commercio mandante, con espressa autorizzazione, a tal fine, di intraprendere azioni esecutive, intervenire in quelle da altri iniziate e dare loro impulso).
Pertanto, secondo tale principio, il giudice del merito sarà chiamato ad esaminare il fatto decisivo costituito dall'idoneità della predetta procura, quale negozio unilaterale di conferimento della rappresentanza processuale, e dell'atto difensivo in concreto redatto e sottoscritto dal difensore, a integrare la proposta e la correlativa accettazione di un contratto di patrocinio tra l'avvocato e l'ente pubblico, valido anche sotto il profilo formale (articolo ItaliaOggi Sette del 22.02.2016).
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MASSIMA
- Ritenuto che il consigliere designato ha depositato, in data 15.04.2015, la seguente proposta di definizione, ai sensi dell'art. 380-bis cod. proc. civ.:
«Il Giudice di pace di Cassino, nel decidere sull'opposizione proposta dalla Camera di commercio di Frosinone avverso il decreto ingiuntivo emesso nei suoi confronti, su istanza dell'Avv. Gi.Sa., ha dichiarato il diritto di quest'ultimo ad ottenere il pagamento dei compensi professionali in dipendenza di prestazioni concretizzatesi in atti di intervento in procedure esecutive a carico di debitori dell'Ente.
La pronuncia, gravata di appello dalla Camera di commercio, è stata riformata dal Tribunale di Cassino che in accoglimento della proposta impugnazione, con sentenza n. 812 del 14.10.2013, ha dichiarato non dovuta la somma oggetto del decreto monitorio.
Il giudice di merito ha ritenuto la procura generale conferita all'Avv. Sa. dall'allora segretario generale della Camera di commercio di Frosinone inidonea a soddisfare le prescrizioni di legge. Ha segnatamente osservato che la procura de qua, conferita al professionista affinché rappresentasse e difendesse la Camera di commercio, non individuava con esattezza l'oggetto del contratto, essendo genericamente riferita a tutte le cause di recupero crediti, di talché difettava il necessario collegamento tra la stessa e l'atto di difesa sottoscritto dal difensore.
Per la cassazione di tale sentenza l'Avv. Sa. ha proposto ricorso, con atto notificato il 01.12.2014, formulando due motivi.
La Camera di commercio ha resistito con controricorso.
Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione degli artt. 16 e 17 del regio decreto 18.11.1923, n. 2440, 1325, 1326 e ss. e 1346 ss cod. civ., nonché 83 cod. proc. civ..
Secondo il ricorrente, il Tribunale avrebbe fatto malgoverno della giurisprudenza di legittimità, secondo cui è ben possibile il perfezionamento di contratto di patrocinio, in forma scritta, attraverso, da un lato, il rilascio di procura alle liti, generale o speciale, e, dall'altro, la redazione del singolo atto di difesa sottoscritto dal difensore, e cioè, nello specifico, degli atti con i quali l'Avv. Sa. aveva espletato il mandato professionale ricevuto per il recupero dei crediti della Camera di commercio.
Con il secondo mezzo l'impugnante lamenta nullità della sentenza e del procedimento, violazione degli artt. 116 e 132 cod. proc. civ., 1325 e 1346 cod. civ. e 83 cod. proc. civ., ovvero omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, che è stato oggetto di discussione tra le parti. Il ricorrente critica l'affermazione del giudice di merito secondo cui la procura non individuava con esattezza l'oggetto del contratto, essendo stata genericamente riferita a tutte le cause di recupero crediti.
I due motivi, che si prestano ad essere esaminati congiuntamente per la loro connessione, appaiono fondati, alla luce del precedente specifico di questa Corte rappresentato da Sez. VI-3, 24.02.2015, n. 3721.
Ad avviso del relatore, la doglianza relativa alla omessa considerazione che lo ius postulandi era stato espressamente conferito anche per "intraprendere azioni esecutive, intervenire in quelle da altri iniziate e dare loro impulso" e che il Sa. aveva utilizzato la procura proprio per costituirsi in un processo esecutivo, coglie un deficit motivazionale che è ragionevolmente frutto di un corrispondente deficit nell'iter cognitivo del decidente, il quale ha ritenuto generica la procura senza valutarne un profilo essenziale sia in astratto, sia, quel che più conta, in concreto, in relazione, cioè, all'attività difensiva svolta e posta a base della domanda di pagamento.
Il ricorso appare pertanto destinato all'accoglimento, alla luce del principio di diritto enunciato -in controversia tra le stesse parti- dalla citata Cass., Sez. VI-3, 24.02.2015, n. 3721.
Infatti,
in tema di contratti della P.A., che devono essere stipulati ad substantlam per iscritto, il requisito della forma del contratto di patrocinio è soddisfatto con il rilascio al difensore, a mezzo di atto pubblico, di procura generale alle liti ai sensi dell'art. 83 cod. proc. civ., qualora sia puntualmente fissato l'ambito delle controversie per  e quali opera la procura stessa (nella specie: "tutte le cause attive e passive promosso e da promuoversi, innanzi a qualsiasi Autorità Giudiziaria, esclusa la Suprema Corte di cassazione, aventi ad oggetto il solo recupero dei crediti della stessa Camera di commercio mandante", con espressa autorizzazione, a tal fine, di "intraprendere azioni esecutive, intervenire in quelle da altri iniziate e dare loro impulso").
In relazione a tale principio, il giudice del merito sarà chiamato ad esaminare il fatto decisivo costituito dall'idoneità della predetta procura, quale negozio unilaterale di conferimento della rappresentanza processuale, e dell'atto difensivo in concreto redatto e sottoscritto dal difensore, a integrare la proposta e la correlativa accettazione di un contratto di patrocinio tra l'ente pubblico e il professionista, valido anche sotto il profilo formale.

Il ricorso può essere avviato alla trattazione in camera di consiglio, per esservi accolto
».
- Letta la memoria di parte controricorrente.
- Considerato che il Collegio condivide la proposta di definizione contenuta nella relazione ex art. 380-bis cod. proc. civ.;
- che non ricorrono le ragioni previste dall'art. 374 cod. proc. civ. per la rimessione della causa alle Sezioni Unite, giacché va registrato che, sulla questione dell'idoneità del rilascio della procura ad lites, quando seguita dall'atto difensivo sottoscritto dall'avvocato, a sopperire alla formale sottoscrizione del contratto di patrocinio, sono già intervenute numerose pronunce di questa Corte, tra l'altro in giudizi tra le stesse parti, che hanno ribadito il principio richiamato nella relazione ex art. 380-bis cod. proc. civ. (si vedano, tra le tante, Sez. VI-3, 16.04.2015, n. 7796; Sez. VI-3, 22.05.2015, n. 10674; Sez. VI-3, 25.05.2015, n. 10753; Sez. VI-3, 22.07.2015, n. 15454; Sez. V-3, 28.07.2015, n. 15925);
- che la memoria non offre argomenti nuovi che giustifichino il discostamento dall'indirizzo consolidato;
- che, pertanto, il ricorso deve essere accolto e la sentenza impugnata cassata;
- che la causa deve essere rinviata al Tribunale di Cassino, che la deciderà in persona di diverso magistrato;
- che il giudice del rinvio provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per le spese, al Tribunale di Cassino, in persona di diverso magistrato.

LAVORI PUBBLICI - URBANISTICAAl privato proprietario di un’area destinata all'espropriazione, siccome interessata dalla realizzazione di un’opera pubblica, dev’essere garantita, mediante la formale comunicazione dell'avviso di avvio del procedimento, la possibilità di interloquire con l'amministrazione procedente sulla sua localizzazione e, quindi, sull'apposizione del vincolo, prima della dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza e, quindi, dell'approvazione del progetto definitivo.
Tale adempimento, che è di fondamentale importanza anche perché preordinato a consentire la presentazione di osservazioni e opposizioni, va posto in essere non solo in sede di prima apposizione del vincolo, ma anche di sua reiterazione al fine di consentire al privato di verificare il corretto esercizio di un potere particolarmente incidente sulla propria posizione.
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Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, la decadenza del vincolo espropriativo non esclude, infatti, quanto meno in astratto, che l'amministrazione possa reiterare lo stesso vincolo, ma il provvedimento che procede in tal senso deve essere congruamente motivato in ordine alla persistenza delle ragioni di diritto pubblico sottese alla necessità della reiterazione al fine di escludere una inutile perpetuazione della situazione di compressione del diritto del privato.

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7. In ordine al primo e al secondo profilo profilo, va richiamato il consolidato indirizzo giurisprudenziale, formatosi sulla scorta della decisione dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 8 del 20.12.2002, secondo il quale al privato proprietario di un’area destinata all'espropriazione, siccome interessata dalla realizzazione di un’opera pubblica, dev’essere garantita, mediante la formale comunicazione dell'avviso di avvio del procedimento, la possibilità di interloquire con l'amministrazione procedente sulla sua localizzazione e, quindi, sull'apposizione del vincolo, prima della dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza e, quindi, dell'approvazione del progetto definitivo (per tutte Consiglio di Stato, IV, 11.11.2014, n. 5525).
Tale adempimento, che è di fondamentale importanza anche perché preordinato a consentire la presentazione di osservazioni e opposizioni, va posto in essere non solo in sede di prima apposizione del vincolo, ma anche di sua reiterazione al fine di consentire al privato di verificare il corretto esercizio di un potere particolarmente incidente sulla propria posizione.
Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, la decadenza del vincolo espropriativo non esclude, infatti, quanto meno in astratto, che l'amministrazione possa reiterare lo stesso vincolo, ma il provvedimento che procede in tal senso deve essere congruamente motivato in ordine alla persistenza delle ragioni di diritto pubblico sottese alla necessità della reiterazione al fine di escludere una inutile perpetuazione della situazione di compressione del diritto del privato (per tutte Consiglio di Stato, IV, 12.03.2015, n. 1317).
Nella specie, non soltanto non si è data comunicazione alla ricorrente dell’avvio del procedimento di reiterazione del vincolo espropriativo scaduto gravante sul suo fondo, né dell’adozione del provvedimento finale, ma non sono nemmeno state esternate le specifiche ragioni di pubblico interesse sottostanti alla determinazione di procrastinare la sua efficacia (TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, sentenza 26.01.2016 n. 212 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASulla realizzazione, senza titolo edilizio, di un locale esterno (sostanzialmente un ampliamento del bar) mediante tensostruttura posta davanti al parcheggio.
La predetta tensostruttura è costituita da profilati di alluminio a L rovesciata, fissati da un lato alla parete esterna del bar e dall’altro al terreno, ed è dotata di serramenti in alluminio e vetro, e di una copertura costituita da una tenda scorrevole in materiale impermeabile. La superficie coperta è pari 45,70 mq. L’altezza interna varia da 2,40 metri (lato parcheggio) a 3.30 metri (lato bar).
(a) le tensostrutture, comprese quelle dotate di tende retrattili, sono utilizzate normalmente per creare locali protetti all’esterno degli edifici in muratura, o in aree dove non possono essere realizzati edifici in muratura. Lo scopo è di consentire lo svolgimento di attività lavorative, o di attività comunque diverse dalla semplice residenza.
Per struttura, materiali e funzione, le tensostrutture si prestano a un utilizzo prolungato, ma sono anche facilmente amovibili, e anzi sono appositamente progettate per agevolare le operazioni di installazione e smontaggio;
(b) queste caratteristiche impediscono di far ricadere le tensostrutture nell’attività edilizia libera, ma anche di equipararle pienamente alle nuove costruzioni in muratura;
(c) tenendo conto della funzione, la qualificazione preferibile è quella ex art. 3, comma 1-e.5, del DPR 06.06.2001 n. 380 (manufatti leggeri utilizzati come ambienti di lavoro). Tenendo poi conto delle dimensioni, occorre valutare se si tratti di interventi pertinenziali ex art. 3, comma 1-e.6, del medesimo testo unico.
Sotto questo secondo profilo, la classificazione spetta ai singoli comuni, fermo restando che un’opera non può essere considerata pertinenza minore quando il volume della stessa sia superiore al 20% del volume dell'edificio principale;
(d) da questo inquadramento discendono importanti conseguenza per quanto riguarda la disciplina applicabile. Innanzitutto, se la tensostruttura non supera i limiti dimensionali fissati per le pertinenze minori dalla legge o dai regolamenti comunali, non può essere considerata nuova costruzione, e quindi ricade in un regime autorizzatorio e sanzionatorio più favorevole.
Nello specifico, questa condizione non risulta dimostrata, ma sul punto potranno essere svolti approfondimenti a cura degli uffici comunali;
(e) in ogni caso, in quanto manufatto leggero utilizzato come ambiente di lavoro ai sensi dell’art. 3, comma 1-e.5, del DPR 380/2001, la tensostruttura non produce una volumetria e una superficie assimilabili a quelle delle costruzioni in muratura. I diritti edificatori incorporati nelle tensostrutture sono giuridicamente limitati, in quanto non si trasmettono al suolo e non possono dare origine a una diversa destinazione d’uso.
Persa la funzione di ambiente di lavoro (nello specifico, per cessazione dell’attività del bar, o per trasformazione in esercizio pubblico di altro tipo), la tensostruttura deve essere rimossa;
(f) per altri aspetti, tuttavia, non essendo prefissato il momento della rimozione, la tensostruttura non può dirsi funzionalmente precaria. Si tratta dunque di un’opera che rimane subordinata al rilascio del permesso di costruire, come ogni altra nuova costruzione.
In caso di installazione abusiva, è applicabile la procedura di accertamento di conformità urbanistica ex art. 36 del DPR 380/2001.
Qualora non vengano superati i limiti delle pertinenze minori, e sia regolato l’uso delle tende retrattili per contenere l’impatto dell’involucro, è invece applicabile la disciplina sanzionatoria più favorevole di cui all’art. 37, comma 1, del DPR 380/2001;
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(g) sempre in caso di installazione abusiva, è poi applicabile la procedura di accertamento di compatibilità paesistica ex art. 167, commi 4 e 5, del Dlgs. 42/2004. Non sussiste la preclusione rappresentata dalla formazione di nuova superficie e volumetria utile, in quanto, come si è visto, i diritti edificatori delle tensostrutture non sono né permanenti né trasformabili, e dunque non sono urbanisticamente utili come quelli delle costruzioni in muratura.
Le uniche valutazioni appropriate sono pertanto quelle riferite all’impatto sul paesaggio. Nello specifico, peraltro, la Soprintendenza ha già chiarito che non sono pregiudicati i valori paesistici oggetto di tutela;
(h) se la disciplina urbanistica lo consente, la tensostruttura può essere sostituita da un fabbricato in muratura, previa acquisizione dell’autorizzazione paesistica. Non vi sono impedimenti particolari collegati al precedente abuso edilizio, in quanto la tensostruttura in tale ipotesi verrebbe rimossa, o comunque inserita in un’opera diversa e urbanisticamente nuova.

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... per l'annullamento:
(a) nel ricorso introduttivo: - dell’ordinanza del responsabile dell’Area Tecnica n. 11 del 28.03.2013, con la quale è stata ingiunta la demolizione di una tensostruttura realizzata mediante profilati in alluminio, dotata di serramenti in alluminio e vetro, e coperta da una tenda scorrevole in materiale impermeabile;
(b) nei motivi aggiunti:
- del provvedimento del responsabile dell’Area Tecnica prot. n. 5636 del 17.04.2014, con il quale è stato negato l’accertamento di compatibilità paesistica;
- dell’ordinanza del responsabile dell’Area Tecnica n. 24 del 02.05.2014, con la quale è stata nuovamente ingiunta la demolizione dell’opera abusiva;
...
1. Il ricorrente Se.Pa., titolare del pubblico esercizio denominato “Bar Colibrì”, situato in via Brescia nel Comune di Rodengo Saiano, ha realizzato senza titolo edilizio un locale esterno (sostanzialmente un ampliamento del bar) mediante tensostruttura posta davanti al parcheggio.
2. La predetta tensostruttura è costituita da profilati di alluminio a L rovesciata, fissati da un lato alla parete esterna del bar e dall’altro al terreno, ed è dotata di serramenti in alluminio e vetro, e di una copertura costituita da una tenda scorrevole in materiale impermeabile. La superficie coperta è pari 45,70 mq. L’altezza interna varia da 2,40 metri (lato parcheggio) a 3.30 metri (lato bar).
3. L’area è classificata tra gli ambiti residenziali consolidati a media densità edificatoria, ed è sottoposta a vincolo ambientale.
4. Il Comune, qualificando l’opera abusiva come nuova costruzione (veranda), ne ha ingiunto la demolizione con ordinanza del responsabile dell’Area Tecnica n. 11 del 28.03.2013.
5. In seguito, il Comune, con provvedimento del responsabile dell’Area Tecnica del 17.04.2014, ha negato l’accertamento di compatibilità paesistica ex art. 167, comma 4, del Dlgs. 22.01.2004 n. 42, rilevando la formazione di nuova superficie e volumetria utile.
La Soprintendenza, preventivamente interpellata, aveva in un primo momento dato parere di compatibilità favorevole (19.12.2013), ma poi, su richiesta degli uffici comunali, si è pronunciata nuovamente (31.01.2014), e ha precisato che formazione di nuova superficie e volumetria utile è un ostacolo insuperabile alla sanatoria paesistica, rimettendo sul punto ogni valutazione al Comune.
6. Confermando la qualificazione dell’opera abusiva come nuova costruzione, il Comune, con ordinanza del responsabile dell’Area Tecnica n. 24 del 02.05.2014, ha ribadito la necessità della demolizione.
7. Contro questi provvedimenti il ricorrente ha presentato impugnazione con atto notificato il 30.05.2013 e depositato il 14.06.2013, integrato da successivi motivi aggiunti. Le censure possono essere sintetizzate come segue:
(i) travisamento, in quanto la tensostruttura, per le caratteristiche strutturali e funzionali, non dovrebbe essere qualificata come nuova costruzione, ma come semplice opera di copertura, priva di volumetria, essendo le tende retrattili;
(ii) contraddittorietà, in quanto è stata esclusa la compatibilità paesistica nonostante il parere favorevole della Soprintendenza, che nel primo pronunciamento non aveva rilevato alcun sostanziale pregiudizio per i valori paesistici tutelati.
8. Il Comune si è costituito, chiedendo la reiezione del ricorso.
9. Sulle questioni rilevanti ai fini della decisione si possono svolgere le seguenti considerazioni:
(a) le tensostrutture, comprese quelle dotate di tende retrattili, sono utilizzate normalmente per creare locali protetti all’esterno degli edifici in muratura, o in aree dove non possono essere realizzati edifici in muratura. Lo scopo è di consentire lo svolgimento di attività lavorative, o di attività comunque diverse dalla semplice residenza. Per struttura, materiali e funzione, le tensostrutture si prestano a un utilizzo prolungato, ma sono anche facilmente amovibili, e anzi sono appositamente progettate per agevolare le operazioni di installazione e smontaggio;
(b) queste caratteristiche impediscono di far ricadere le tensostrutture nell’attività edilizia libera, ma anche di equipararle pienamente alle nuove costruzioni in muratura;
(c) tenendo conto della funzione, la qualificazione preferibile è quella ex art. 3, comma 1-e.5, del DPR 06.06.2001 n. 380 (manufatti leggeri utilizzati come ambienti di lavoro). Tenendo poi conto delle dimensioni, occorre valutare se si tratti di interventi pertinenziali ex art. 3, comma 1-e.6, del medesimo testo unico.
Sotto questo secondo profilo, la classificazione spetta ai singoli comuni, fermo restando che un’opera non può essere considerata pertinenza minore quando il volume della stessa sia superiore al 20% del volume dell'edificio principale;
(d) da questo inquadramento discendono importanti conseguenza per quanto riguarda la disciplina applicabile. Innanzitutto, se la tensostruttura non supera i limiti dimensionali fissati per le pertinenze minori dalla legge o dai regolamenti comunali, non può essere considerata nuova costruzione, e quindi ricade in un regime autorizzatorio e sanzionatorio più favorevole. Nello specifico, questa condizione non risulta dimostrata, ma sul punto potranno essere svolti approfondimenti a cura degli uffici comunali;
(e) in ogni caso, in quanto manufatto leggero utilizzato come ambiente di lavoro ai sensi dell’art. 3, comma 1-e.5, del DPR 380/2001, la tensostruttura non produce una volumetria e una superficie assimilabili a quelle delle costruzioni in muratura. I diritti edificatori incorporati nelle tensostrutture sono giuridicamente limitati, in quanto non si trasmettono al suolo e non possono dare origine a una diversa destinazione d’uso. Persa la funzione di ambiente di lavoro (nello specifico, per cessazione dell’attività del bar, o per trasformazione in esercizio pubblico di altro tipo), la tensostruttura deve essere rimossa;
(f) per altri aspetti, tuttavia, non essendo prefissato il momento della rimozione, la tensostruttura non può dirsi funzionalmente precaria. Si tratta dunque di un’opera che rimane subordinata al rilascio del permesso di costruire, come ogni altra nuova costruzione.
In caso di installazione abusiva, è applicabile la procedura di accertamento di conformità urbanistica ex art. 36 del DPR 380/2001 (per una fattispecie relativa ai tunnel-serra v. TAR Brescia Sez. I 17.06.2015 n. 852). Qualora non vengano superati i limiti delle pertinenze minori, e sia regolato l’uso delle tende retrattili per contenere l’impatto dell’involucro, è invece applicabile la disciplina sanzionatoria più favorevole di cui all’art. 37, comma 1, del DPR 380/2001 (v. TAR Brescia Sez. I 04.06.2014 n. 600);
(g) sempre in caso di installazione abusiva, è poi applicabile la procedura di accertamento di compatibilità paesistica ex art. 167, commi 4 e 5, del Dlgs. 42/2004. Non sussiste la preclusione rappresentata dalla formazione di nuova superficie e volumetria utile, in quanto, come si è visto, i diritti edificatori delle tensostrutture non sono né permanenti né trasformabili, e dunque non sono urbanisticamente utili come quelli delle costruzioni in muratura. Le uniche valutazioni appropriate sono pertanto quelle riferite all’impatto sul paesaggio. Nello specifico, peraltro, la Soprintendenza ha già chiarito che non sono pregiudicati i valori paesistici oggetto di tutela;
(h) se la disciplina urbanistica lo consente, la tensostruttura può essere sostituita da un fabbricato in muratura, previa acquisizione dell’autorizzazione paesistica. Non vi sono impedimenti particolari collegati al precedente abuso edilizio, in quanto la tensostruttura in tale ipotesi verrebbe rimossa, o comunque inserita in un’opera diversa e urbanisticamente nuova.
10. Il ricorso deve quindi essere accolto nei limiti sopra evidenziati.
11. La pronuncia determina l’annullamento degli atti impugnati, e vincola il Comune a riesaminare la posizione del ricorrente nel rispetto delle indicazioni esposte ai punti precedenti. Il termine ragionevole per tale adempimento è fissato in novanta giorni dal deposito della presente sentenza.
12. La complessità delle valutazioni in materia di abusi edilizi e la particolarità dei problemi posti dall’edificazione tramite tensostrutture consentono la compensazione delle spese di giudizio.
13. Il contributo unificato è a carico dell’amministrazione ai sensi dell’art. 13, comma 6-bis.1, del DPR 30.05.2002 n. 115 (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 26.01.2016 n. 159 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Gli strumenti del contadino vendibili dal contadino.
Vanga e rastrello in vendita dal contadino che però per vendere tavoli e sedie deve rispettare le norme commerciali. L'attività imprenditoriale agricola non va interpretata in senso stretto; e, pertanto, in base all'articolo 2135 codice civile introdotto dal dlgs 228/2001, non si può inquadrare l'azienda florovivaistica come mera attività di coltivazione di piante e fiori e della loro vendita, escludendo tutte le attività dirette alla fornitura di beni o servizi che siano strettamente connessi appunto con il florovivaismo. Con la conseguenza che va ricompresa in questo genere di attività la commercializzazione di una serie di prodotti accessori o funzionali alle attività di giardinaggio o di allestimento di spazi verdi.

In linea puramente teorica, ha chiarito il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 18.01.2016 n. 131, si deve ammettere che il legislatore ha dato un riconoscimento a tale lettura dell'attività delle aziende attive nel giardinaggio.
In sostanza, ha precisato il Collegio, con il dlgs 228/2001 è stato dato il via a un'ampia liberalizzazione del commercio dei propri prodotti da parte delle aziende agricole, sia nella forma più semplice del fiore, del frutto o della pianta, sia in quella più complessa della loro manipolazione o di beni a questa connessi. Fatto che può inevitabilmente comprendere cose non direttamente derivanti dall'agricoltura, ma ad essa connesse come vasi, strumenti di irrigazione, concimi, insetticidi o strumenti per l'immediato utilizzo della terra come rastrelli o vanghe.
Appare però evidente che la commercializzazione dei prodotti agricoli o florovivaistici o la fornitura di beni connessi a queste attività deve rispettare le stesse regole che la ammettono, così come quelle attinenti altre attività come quella commerciale.
 Infatti, se a un'azienda florovivaistica è permessa la vendita di prodotti e beni riconducibili alla sua attività, ciò non può comportare che la medesima si renda attiva nella vendita di prodotti che solamente in senso estremamente lato possono avvicinarsi al giardinaggio: dai barbecue ai vasi in ceramica, dalle padelle alle graticole, dai tavoli e sedie in vimini o in plastica alle case in legno prefabbricate a uso deposito da giardino. In tal caso, infatti, l'imprenditore agricolo dovrà rispettare la normativa commerciale (articolo ItaliaOggi del 25.02.2016).
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MASSIMA
... per la riforma della sentenza del TAR Emilia Romagna, Bologna, Sez. II n. 776/2014, resa tra le parti, concernente l’ordine di chiusura di un esercizio commerciale abusivo;
...
5. L’appello è infondato.
Il Collegio non ravvisa elementi in senso difforme rispetto a quanto ritenuto dal giudice di primo grado relativamente alla sostanziale trasformazione dell’azienda florovivaistica Garden Ga. in esercizio commerciale di vicinato, senza i titoli necessari.
Espone in sintesi l’appellante Azienda che alla configurazione dell’attività imprenditoriale agricola non si può dare nell’ambito della legislazione vigente una ‘lettura restrittiva’, poiché secondo il nuovo testo dell’art. 2135 c.c. introdotto dall’art. 1 D.Lgs. 18.05.2001, n. 228, non si può inquadrare l’azienda florovivaistica come mera attività di coltivazione di piante e fiori e della loro vendita, escludendo tutte le attività dirette alla fornitura di beni o servizi che siano strettamente connessi appunto con il florovivaismo.
Dunque andrebbe ricompresa in questo genere di attività la commercializzazione di una serie di prodotti accessori o funzionali alle attività di giardinaggio o di allestimento di spazi verdi, cosa che non si porrebbe nemmeno contrasto con la destinazione agricola dell’area in cui ricade l’azienda, visto che tali attività devono virtualmente essere ricomprese in un tutt’uno con le gestione di serre, l’attività di florovivaismo e la conseguente vendita dei beni ordinariamente ricompresi in tali iniziative.
In linea puramente teorica, si deve ammettere che il legislatore ha dato un riconoscimento a tale lettura dell’attività delle aziende attive nel giardinaggio e ciò con i nuovi contenuti dell’art. 2135 c.c., secondo il quale «È imprenditore agricolo chi esercita una delle seguenti attività: coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento di animali e attività connesse. ... Si intendono comunque connesse le attività, esercitate dal medesimo imprenditore agricolo, dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione che abbiano ad oggetto prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo o del bosco o dall'allevamento di animali, nonché le attività dirette alla fornitura di beni o servizi mediante l’utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell’azienda normalmente impiegate nell’attività agricola esercitata, ivi comprese le attività di valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale e forestale, ovvero di ricezione ed ospitalità come definite dalla legge».
Quanto alla commercializzazione, i nuovi contenuti della figura dell’imprenditore agricolo vanno correlati ed insieme limitati con quanto riportato dall’art. 4 del D.Lgs. n. 228 del 2001, in particolare dal comma 1, per il quale «
Gli imprenditori agricoli, singoli o associati, iscritti nel registro delle imprese di cui all'art. 8 della legge 29.12.1993, n. 580, possono vendere direttamente al dettaglio, in tutto il territorio della Repubblica, i prodotti provenienti in misura prevalente dalle rispettive aziende, osservate le disposizioni vigenti in materia di igiene e sanità».
Per il successivo comma 5, «
La presente disciplina si applica anche nel caso di vendita di prodotti derivati, ottenuti a seguito di attività di manipolazione o trasformazione dei prodotti agricoli e zootecnici, finalizzate al completo sfruttamento del ciclo produttivo dell'impresa».
Ritiene la Sezione che
la lettura complessiva che se ne ricava è sicuramente quella di un’ampia liberalizzazione del commercio dei propri prodotti da parte delle aziende agricole, sia nella forma più semplice del fiore, del frutto o della pianta, ma anche in quella più complessa della loro manipolazione oppure di beni a questa connessi, fatto che può inevitabilmente comprendere cose non direttamente derivanti dall’agricoltura, ma ad essa strettamente connesse come vasi, strumenti di irrigazione, concimi, insetticidi o strumenti per l’immediato utilizzo della terra come rastrelli o vanghe.
Ritenuto ciò in generale, appare però evidente che
la commercializzazione dei prodotti agricoli o florovivaistici oppure la fornitura di beni connessi a queste attività deve rispettare le stesse regole che la ammettono, così come quelle attinenti altre attività come quella prettamente commerciale.
Infatti,
se ad un’azienda florovivaistica deve essere permessa la vendita dei propri prodotti e dei beni strettamente riconducibili alla sua attività, ciò non può comportare che la medesima si renda attiva nella vendita di prodotti che solamente in senso estremamente lato possono avvicinarsi al giardinaggio; dai barbecue carrellati ai vasi in ceramica, dalle padelle alle graticole, dai tavoli e sedie in vimini o in plastica alle case in legno prefabbricate ad uso deposito da giardino.
Né gli spazi di vendita, ove indicati in una superficie pari a mq. 20, possono essere ampliati ad oltre 200 senza segnalazione certificata di inizio attività nel rispetto del D.Lgs. 31.03.1998, n. 114, e successive modificazioni, e sempre nel rispetto dei relativi presupposti e delle relative leggi regionali di attuazione.
Alla luce di quanto finora rilevato, risulta evidente che l’attività dell’appellante ha largamente trasmodato le possibilità commerciali connesse con l’attività imprenditoriale agricola.

LAVORI PUBBLICI: Appalti, un soccorso istruttorio. L'impresa torna in gioco. Se iscritta in banca dati Anac. Tar Palermo: l'azienda può produrre in un secondo momento la documentazione.
Può essere il soccorso istruttorio a salvare l'azienda che punta all'appalto pubblico, ma solo se si è iscritta per tempo alla banca dati dell'Anac, l'autorità nazionale anticorruzione: il fatto di aver adempiuto all'obbligo di registrazione consente all'impresa candidata di produrre soltanto in un secondo momento il PassOe, vale a dire il documento che attesta la possibilità di verificare l'operatore economico con Avcpass, il sistema di controllo dei requisiti per ottenere lavori pubblici. Diversamente l'azienda sarà esclusa dalla procedura.

È quanto emerge dalla sentenza 15.01.2016 n. 150, pubblicata dalla I Sez. del TAR Sicilia-Palermo.
Dal 01.07.2014 un'impresa che vuole partecipare alle procedure pubbliche deve iscriversi alla banca dati dell'Anac, che apre un fascicolo virtuale per ogni operatore economico: grazie alle credenziali ottenute l'azienda inserisce di volta in volta il Cig, codice che identifica la gara che la interessa, per poter generare il PassOe, lo strumento necessario alle stazioni appaltanti per verificare tramite interfaccia web che la società candidata ha le carte in regola. E il pass deve essere presentato dall'impresa concorrente nella domanda per partecipare alla selezione.
Una volta perfezionata l'iscrizione al registro Anac, il prerequisito è soddisfatto e il PassOe può essere qualificato come «dichiarazione», in quanto serve al controllo dei requisiti di partecipazione e in quanto tale risulta funzionalmente analogo alle «dichiarazioni sostitutive attestanti il possesso dei requisiti» di cui al codice dei contratti pubblici (articolo ItaliaOggi Sette del 29.02.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).
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MASSIMA
Quanto al merito, non ha pregio la censura, svolta dalle ricorrenti, circa il metodo seguito per il calcolo dell’anomalia.
Il Collegio, sul punto, rileva che
giurisprudenza consolidata, anche di secondo grado (da ultimo, C.G.A. 13.06.2013, n. 575 e 09.06.2014, n. 306; C.d.S., V, 12.11.2009, n. 7042 e 22.01.2015, n. 268) precisa che, in assenza di puntuale e specifica disposizione del bando, per il calcolo della soglia di anomalia deve considerarsi tutta l’offerta, senza troncamenti, giacché “ogni arrotondamento costituisce una deviazione dalle regole matematiche da applicare in via automatica; ciò premesso, deve ritenersi che gli arrotondamenti siano consentiti solo se espressamente previsti dalle norme speciali della gara (C.d.S., V, 12.11.2009, n. 7042).
Nella specie, la lex specialis (cfr. disciplinare di gara, art. 3) prevedeva che l’offerta economica dovesse indicare “l’importo complessivo finale offerto per l’esecuzione dei lavori … ed il conseguente ribasso percentuale” rispetto all’ammontare posto a base di gara; la lex specialis, peraltro, proseguiva precisando che “la percentuale di ribasso potrà riportare fino ad un massimo di tre decimali. In caso di offerte con quattro o più decimali la terza cifra decimale sarà arrotondata all’unità superiore qualora la quarta cifra decimale sia pari o superiore a cinque”.
Nessuna simile disposizione veniva dettata in relazione al giudizio di anomalia, per il quale il disciplinare (art. 4) si limitava a rimandare ai criteri previsti dall’art. 86 del D.Lgs. 163/2006, che, come noto, riferendosi alla “media aritmetica dei ribassi percentuali di tutte le offerte ammesse”, fa evidentemente riferimento all’offerta come predisposta dal singolo concorrente, senza alcun intervento manipolativo da parte del seggio di gara.
I
n assenza, dunque, di alcuna previsione, negli atti di gara, dell’adozione di criteri particolari (quali l’arrotondamento od il troncamento) per l’individuazione della soglia di anomalia, deve prendersi in considerazione l’offerta così come formulata dal concorrente, sia perché, altrimenti, sarebbe indebitamente manipolata la volontà negoziale espressa dai partecipanti e potenzialmente falsato l’esito della procedura, sia perché il giudizio di anomalia risponde ad esigenze (eliminazione di offerte che appaiano, in base ad un confronto comparativo con la media delle altre, economicamente ed imprenditorialmente insostenibili) ed è retto da criteri (individuazione, normativamente indirizzata, di una soglia di valore al di sotto della quale si apre l’area della potenziale anomalia economica) diversi da quelli che presiedono alla selezione comparativa dei concorrenti in base al (mero) confronto algebrico fra le rispettive offerte.
E’, inoltre, destituita di fondamento l’argomentazione, svolta dai ricorrenti, secondo la quale il disciplinare di gara, ove prescrive che “la percentuale di ribasso potrà riportare fino ad un massimo di tre decimali”, limita e conforma per così dire a monte le modalità di formulazione dell’offerta ad ogni effetto, ivi incluso il calcolo di anomalia.
A ben vedere, infatti, l’offerta, a tenore del disciplinare, è costituita dall’indicazione dello “importo complessivo finale offerto per l’esecuzione dei lavori”, cui deve essere affiancato pure “il conseguente ribasso percentuale”, quale mera proiezione frazionaria dell’offerta rispetto all’importo a base d’asta; tale ribasso, pertanto, concreta una mera modalità di espressione (appunto relativa e frazionaria) dell’offerta, comunque rappresentata dall’ammontare dei lavori espresso in valore monetario assoluto.
La stazione appaltante ha, poi, ritenuto di limitare le cifre decimali di tale ribasso, con ogni evidenza per finalità di semplificazione di calcolo ed omogeneizzazione delle offerte, ma ciò non autorizza a ritenere che tale manipolazione delle offerte possa valere anche ai (diversi) fini del giudizio di anomalia, per il quale deve prendersi in considerazione, ai sensi del richiamato art. 86 D.Lgs. 163/2006, l’offerta, qui rappresentata dal valore assoluto dei lavori e, ai fini de quibus, da una formula percentuale indicante il conseguente ribasso che, in assenza di puntuali e specifiche disposizioni derogatorie della lex specialis, non può subire interventi manipolativi da parte dell’Amministrazione.
E’, altresì, infondata la censura relativa all’assunta violazione dell’art. 38, comma II-bis, D.Lgs. 163/2006.
Osserva, anzitutto, il Collegio che
la disposizione in parola, introdotta dal D.L. 90/2014, collega la definitiva cristallizzazione del calcolo della soglia di anomalia al completamento della “fase di ammissione, regolarizzazione o esclusione delle offerte”; tale “fase”, in considerazione delle novità normative contestualmente apportate dal D.L. 90 al testo del codice appalti, deve a sua volta essere riferita, con ogni verosimiglianza, all’effettiva attivazione del sub-procedimento del “soccorso istruttorio”, del resto delineato dalla novella quale dovere procedimentale gravante sul seggio di gara (in termini, TAR Palermo, I, 03.03.2015, n. 583, da ultimo confermata da C.G.A. 22.12.2015, n. 740).
Ove si dovesse argomentare diversamente, peraltro, non avrebbe senso né il richiamo alla “regolarizzazione” (introdotta, quale principio generale, proprio dall’attuale disciplina dell’istituto in commento) né, prima ancora, l’utilizzo del termine “fase”, giacché, ove si prescinda dal soccorso istruttorio, la “ammissione … o esclusione delle offerte” si concentrano ed esauriscono in un’unica determinazione provvedimentale.
Inoltre, ritiene il Collegio, la norma in parola deve comunque essere interpretata in maniera compatibile sia con il fondamentale valore della continuità del potere pubblico, precipitato tecnico del principio costituzionale di buon andamento dell’azione amministrativa, sia con basilari esigenze di logica e ragionevolezza: in particolare, pare illogico che, già prima dell’aggiudicazione definitiva, l’Amministrazione sia tout court privata del potere di emenda, la cui attivazione consenta alla stazione appaltante, in ipotesi quale quella in esame, di evitare di emanare un atto di aggiudicazione illegittimo, con conseguente prospettica esposizione ad istanze risarcitorie.
Nel caso di specie, dunque, la revoca dell’aggiudicazione provvisoria ed il conseguente ricalcolo della soglia di anomalia non presentano i censurati profili di illegittimità, sia perché adottati prima della conclusione della “fase di ammissione, regolarizzazione o esclusione delle offerte”, dunque in un momento in cui la soglia di anomalia non era ancora normativamente immodificabile, sia, comunque, perché derivanti dal riconoscimento, da parte del seggio di gara, di un previo errore proprio nelle modalità di computo di detta soglia, cui il detto ricalcolo è finalizzato, nel doveroso perseguimento dell’interesse pubblico, a porre rimedio.
Fondate, invece, le doglianze in punto di mancata produzione, da parte della contro-interessata, del protocollo di legalità e del PassOE.
Rileva il Collegio che, in base a quanto documentato dall’Amministrazione in adempimento all’incombente istruttorio disposto con ordinanza n. 851, la contro-interessata, debitamente richiesta dalla stazione appaltante con la procedura del soccorso istruttorio, ha prodotto il documento PassOE (in origine non allegato all’offerta) in data 20.11.2014.
Il Collegio osserva, in proposito, che
AVCpass” è un nuovo sistema di verifica dei requisiti di partecipazione alle gare pubbliche, in attuazione dell’art. 6-bis, comma I, del D.Lgs. 163/2006: in virtù di tale disposizione, come noto, le stazioni appaltanti sono obbligate ad acquisire, con modalità informatiche, la documentazione comprovante i requisiti di carattere generale, tecnico-organizzativo ed economico-finanziario dichiarati dai concorrenti nelle domande di partecipazione a gare pubbliche esclusivamente attraverso la “Banca Dati Nazionale dei Contratti Pubblici – B.D.N.C.P.”, istituita presso l’attuale A.N.A.C..
A partire dal 01.07.2014 (a seguito di proroga da ultimo disposta con la L. 27.02.2014, n. 15, di conversione, con modificazioni, del D.L. 30.12.2013 n. 150, nel corpo del cui art. 9 ha inserito il comma 15-ter), qualunque operatore economico che intenda partecipare ad una gara pubblica è tenuto (ai sensi dell’art. 6-bis, D.Lgs. 163/2006, cui ha dato applicazione la Deliberazione A.N.A.C. n. 111 del 20.12.2012) a registrarsi ai servizi informatici dell’A.N.A.C. seguendo i manuali dalla stessa messi a disposizione: la registrazione comporta la creazione di un fascicolo virtuale dell’operatore economico. A seguito dell’accesso al sistema con le credenziali ricevute dall’Autorità, l’operatore economico deve inserire, volta per volta, il Codice Identificativo della Gara (il “C.I.G.”) cui intende partecipare per poter generare il relativo “PassOE”, strumento necessario alle stazioni appaltanti per procedere alla verifica, tramite interfaccia web, dei menzionati requisiti e che, dunque, deve essere incluso nella documentazione amministrativa prodotta dal concorrente in uno con la domanda di partecipazione.
Mentre, dunque, la registrazione ai servizi informatici dell’A.N.A.C. è un atto unico, la generazione del PassOE deve essere ripetuta per ogni gara.

Ora, nella specie risulta che il PassOE (richiesto a pena di esclusione dal disciplinare di gara) è stato prodotto dalla contro-interessata, in esito a soccorso istruttorio, in data (20.11.2014) successiva alla scadenza del termine di presentazione della domanda (27.10.2014), giacché, a tale data, “la procedura per l’ottenimento dello stesso non era stata completata” (così la stazione appaltante si è espressa nell’atto di soccorso istruttorio).
Peraltro, in esito all’ordinanza istruttoria disposta in esito all’udienza pubblica del 10.07.2015, l’A.N.A.C. ha reso noto che la registrazione presso il sistema da parte della contro-interessata è avvenuta in data 13.11.2014 e, pertanto, “l’impresa è abilitata da tale data alla produzione e rilascio del PassOE”.
Risulta, quindi, che, al momento della scadenza del termine per la partecipazione alla gara, la contro-interessata non era ancora iscritta al sistema “AVCpass” e, quindi, non poteva presentare –né, prima ancora, ottenere– il PassOE.
Ritiene, in proposito, il Collegio che l’elemento dirimente, ai fini della legittima ammissione alla gara, è proprio la data di effettuazione della registrazione presso i servizi informatici dell’A.N.A.C.:
se, alla scadenza del termine di presentazione della domanda, la registrazione sia già stata perfezionata, il PassOE può essere prodotto pure in seguito (in particolare, in esito alla procedura del soccorso istruttorio), giacché il prerequisito fondamentale (appunto, la registrazione) è stato perfezionato e, dunque, ai sensi e per gli effetti dell’art. 38, comma II-bis, D.Lgs. 163/2006, il PassOE può essere qualificato come “dichiarazione”, in considerazione della sua natura di strumento necessario al seggio di gara per verificare il possesso, in capo al concorrente, dei requisiti di partecipazione e, come tale, funzionalmente analogo alle “dichiarazioni sostitutive attestanti il possesso dei requisiti” di cui al comma II dell’art. 38, cui rimanda il mentovato comma II-bis.
In caso contrario, ossia di registrazione non completata prima della scadenza del termine per partecipare alla gara, non si ravvisano margini per procedere al soccorso istruttorio, perché non si tratta più di rendere ex novo, ovvero di integrare o regolarizzare ex post, una “dichiarazione”, ma, viceversa, di adempiere tardivamente ad un obbligo di legge (conforme TAR Campania–Salerno, II, 23.03.2015, n. 663, emessa in un caso in cui era documentato che, alla scadenza del termine per la presentazione delle offerte, la società non si era ancora registrata ai servizi informatici dell’A.N.A.C.).
L’esposta conclusione non cambia se si pone mente al comma 1-ter dell’art. 46 del D. Lgs. 163/2006, che parla di “ipotesi di mancanza, incompletezza o irregolarità degli elementi e delle dichiarazioni, anche di soggetti terzi, che devono essere prodotte dai concorrenti”, mentre qui, alla data di scadenza del termine per proporre la domanda di partecipazione, non mancavano semplicemente “elementi o dichiarazioni”, bensì difettava in rerum natura la possibilità stessa di produrli (data dalla sola registrazione).
L’ammissione della contro-interessata alla gara (e, conseguentemente, l’aggiudicazione in suo favore) è, peraltro, illegittima anche sotto un ulteriore profilo.
Risulta, infatti, dai chiarimenti qui forniti dall’Amministrazione che non è stata attivata la procedura del soccorso istruttorio in relazione al protocollo di legalità, anch’esso richiesto dal disciplinare di gara a pena di esclusione e non prodotto dalla contro-interessata.
In proposito, il Collegio rileva che,
ad aggiudicazione definitiva disposta, dunque a procedimento amministrativo concluso, non è evidentemente più possibile attivare il soccorso istruttorio, fase strutturalmente endo-procedimentale finalizzata proprio a consentire la legittima conclusione del procedimento di selezione del contraente e, dunque, ontologicamente non percorribile “ora per allora”.
Del resto, la suggestiva argomentazione per cui, così ragionando, si fa di fatto pagare al concorrente l’omissione di un adempimento doveroso da parte della stazione appaltante non vale ad elidere la circostanza per cui l’omissione di un adempimento doveroso ai fini di gara (appunto, la produzione del protocollo di legalità) è, comunque, prima di tutto stata del concorrente; in termini più generali, inoltre, l’aggiudicazione disposta senza la previa (doverosa) regolarizzazione della posizione dell’aggiudicatario è, oggettivamente e strutturalmente, illegittima.
L’aggiudicazione impugnata è, pertanto, illegittima e deve essere annullata.
Sussistono, inoltre, i presupposti per la configurazione della responsabilità aquiliana della stazione appaltante: l’illegittima ammissione (recte, la mancata esclusione) della contro-interessata ha, infatti, impedito alla ricorrente C.M.R. (seconda classificata), cui poi è subentrata la Aurora, l’ottenimento dell’appalto, mentre per condivisibile orientamento, non è necessario provare la colpa dell’Amministrazione (cfr., da ultimo, C.d.S., VI, 15.09.2015, n. 4283, punto 13.2; v. anche C.d.S., III, 10.04.2015, n. 1839: “
in materia di risarcimento da mancato affidamento di gare pubbliche di appalto, non è necessario provare la colpa dell’amministrazione aggiudicatrice, poiché il rimedio risarcitorio risponde al principio di effettività previsto dalla normativa comunitaria e le garanzie di trasparenza e di non discriminazione operanti in materia di aggiudicazione dei pubblici appalti fanno sì che qualsiasi violazione degli obblighi di matrice comunitaria consente alla impresa pregiudicata di ottenere un risarcimento dei danni, a prescindere da un accertamento in ordine alla colpevolezza dell’ente e alla imputabilità soggettiva della lamentata violazione”).
La domanda di risarcimento in forma specifica, tuttavia, non può essere accolta, alla luce dell’intervenuta ultimazione dei lavori, attestata dalla documentazione prodotta dalla contro-interessata alla pubblica udienza del 18.12.2015.
La ricorrente Aurora, dunque, quale soggetto che avrebbe beneficiato di una corretta condotta dell’Amministrazione, ha diritto al risarcimento per equivalente del danno “subito e provato” (cfr. art. 124 c.p.a.).
Rileva, in proposito, il Collegio che l’Amministrazione, nel corso del giudizio, non ha contestato, neppure in forma generica, che Aurora disponga effettivamente “dei requisiti di ordine generale, di ordine speciale, nonché dei requisiti necessari in base agli eventuali criteri selettivi utilizzati dalla stazione appaltante ai sensi dell'articolo 62” (cfr. art. 51 D.Lgs. 163/2006), per la dimostrazione dei quali, oltretutto, consta che Aurora abbia prodotto alla stazione appaltante, in uno con la comunicazione del proprio subentro nella posizione procedimentale di C.M.R., la necessaria documentazione.
In ordine alle voci di danno concretamente riconoscibili, osserva il Collegio che niente spetta a titolo di danno emergente, non solo non provato né quantificato ma, prima ancora, neppure allegato (C.d.S., V, 08.08.2014, n. 4242).
Quanto al lucro cessante, può riconoscersi alla ricorrente Aurora, pur in difetto di una qualunque sua allegazione sul punto, un mancato guadagno pari presuntivamente (e prudenzialmente) al 5% del complessivo importo a suo tempo offerto da C.M.R. per l’esecuzione dei lavori: anche in assenza di una puntuale prova in merito, infatti, costituisce fatto notorio la circostanza che, dall’esecuzione di un appalto, un operatore economico trae, secondo l’id quod plerumque accidit, un utile. La (ragionevolmente sicura) affermazione della ricorrenza, nell’an, di un danno consente, pertanto, al Collegio il ricorso al meccanismo presuntivo di cui all’art. 1226 c.c..
Niente, invece, spetta (in ossequio alla natura soggettiva del giudizio amministrativo) a titolo di danno curriculare, non allegato e, prima ancora, non specificamente richiesto, quale voce autonoma di pregiudizio, dalle ricorrenti (C.d.S., V, 22.01.2015, n. 285 e 01.08.2015, n. 3769).

EDILIZIA PRIVATAIl carattere precario di un’opera edilizia va valutata con riferimento non alle modalità costruttive bensì alla funzione cui essa è destinata, con la conseguenza che non possono essere considerati quali opere destinate a soddisfare esigenze meramente temporanee quelle adibite ad un utilizzo perdurante nel tempo, tale per cui l'alterazione del territorio –circostanza decisiva ai fini dell’autorizzazione paesaggistica- non può essere considerata irrilevante.
Da ciò consegue che, laddove si realizzi un manufatto destinato ad un uso prolungato nel tempo, anche in assenza di immobilizzazione al suolo o al solaio, la precarietà dello stesso non dipende dai materiali impiegati o dal suo sistema di ancoraggio al suolo, bensì dall'uso al quale il manufatto è rivolto e va quindi valutata alla luce dell'obiettiva ed intrinseca destinazione naturale dell’opera, senza che rilevino le finalità, ancorché temporanee, date o auspicate dai proprietari.

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Come chiarito da questa stessa Sezione, in adesione ad un indirizzo giurisprudenziale in materia consolidato, il carattere precario di un’opera edilizia va valutata con riferimento non alle modalità costruttive bensì alla funzione cui essa è destinata, con la conseguenza che non possono essere considerati quali opere destinate a soddisfare esigenze meramente temporanee quelle adibite ad un utilizzo perdurante nel tempo, tale per cui l'alterazione del territorio –circostanza decisiva ai fini dell’autorizzazione paesaggistica- non può essere considerata irrilevante (TAR Napoli, sez. III, 14.05.2013, n. 2505).
Da ciò consegue che, laddove si realizzi un manufatto destinato ad un uso prolungato nel tempo, anche in assenza di immobilizzazione al suolo o al solaio, la precarietà dello stesso non dipende dai materiali impiegati o dal suo sistema di ancoraggio al suolo, bensì dall'uso al quale il manufatto è rivolto e va quindi valutata alla luce dell'obiettiva ed intrinseca destinazione naturale dell’opera, senza che rilevino le finalità, ancorché temporanee, date o auspicate dai proprietari (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 13.01.2016 n. 137 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il passo carrabile non comprende la sbarra.
I proprietari di alcuni garage che ottengono le licenza per passo carrabile da posizionare all'ingresso del condominio non possono installare anche una sbarra automatica finalizzata a regolare meglio l'accesso dei veicoli ai box. Anche se la strada è cieca infatti si tratta pur sempre di una via pubblica che non può essere chiusa in modalità arbitraria.

Lo ha chiarito il TAR Liguria, Sez. II, con la sentenza 11.01.2016 n. 17.
I proprietari di alcune autorimesse posizionate in fondo a una strada senza uscita hanno ottenuto dal comune l'autorizzazione al posizionamento di un passo carrabile in prossimità del varco di accesso al fabbricato. Conseguentemente gli interessati hanno installato anche una sbarra automatica per regolare meglio l'accesso alla zona dei garage. A seguito di alcune segnalazioni dei vicini il comune ha ordinato la rimozione immediata della sbarra, posizionata in un'area pubblica, annullando anche la licenza di passo carrabile.
Contro questa severa misura gli interessati hanno proposto ricorso ai giudici amministrativi. La revoca della licenza di passo carrabile è illegittima perché anche se si tratta di una strettoia stradale pubblica la necessità di accedere ai fabbricati laterali deve essere riconosciuta ai proprietari dei veicoli. Ma non è possibile installare una sbarra sulla stessa area dove insiste un passo carrabile. Al massimo potranno essere utilizzati dei dissuasori di sosta regolarmente autorizzati (articolo ItaliaOggi Sette del 22.02.2016).
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MASSIMA
Occorre premettere come, alla luce delle emergenze documentali in atti (cfr. la documentazione di progetto dei box – doc. 10 delle produzioni 01.06.2015 di parte comunale, nonché il doc. 15 delle produzioni 04.11.2015), non possa seriamente contestarsi la natura pubblica della porzione di via Toti antistante i box, cui si accede per il tramite del passo carraio.
Stando così le cose,
pare al collegio che la revoca dell’autorizzazione per passo carrabile sia illegittima: la proprietà pubblica del sedime del varco non fa infatti venire meno il presupposto dell’autorizzazione, che è costituito, ex art. 22 del codice della strada, proprio dalla necessità di accedere –tramite esso– ai fabbricati laterali (nel caso di specie, i box).
Infondato è invece il ricorso avverso l’ingiunzione di rimozione della sbarra.
Premesso che il provvedimento di autorizzazione revocato (doc. 5 delle produzioni 13.5.2015 di parte ricorrente) non reca alcuna menzione della sbarra, che dunque è stata abusivamente installata, è evidente come la stessa precluda di fatto l’utilizzo pubblico del tratto di via abusivamente intercluso, per esempio per effettuare inversione di marcia (specialmente ai mezzi di soccorso).
L’ingiunzione di rimozione della sbarra, non consistendo in un atto di ritiro, non deve del resto necessariamente motivare in ordine alla sussistenza –ex art. 21-nonies L. n. 241/1990– di un interesse pubblico prevalente, interesse che pure è insito nella finalità di ripristino dell’uso pubblico della strada, ben potendo il contrapposto interesse privato all’effettivo utilizzo dell’accesso carraio essere adeguatamente tutelato altrimenti, per esempio mediante la posa di dissuasori negli spazi impropriamente utilizzati per la sosta dei veicoli, previa richiesta di occupazione del suolo pubblico ex art. 46, comma 3, del D.P.R. 16.12.1992, n. 495 (regolamento di esecuzione e di attuazione del nuovo codice della strada).

EDILIZIA PRIVATASanatoria straordinaria rigorosa. Tar Toscana sull'ammissione.
L'ammissione alla sanatoria straordinaria ha presupposti rigorosamente individuati dalla legge, tra cui la realizzazione delle opere abusive entro il termine fissato dalla legge.

A sottolinearlo sono stati i giudici della III sez. del TAR Toscana con la sentenza 22.12.2015 n. 1781.
Secondo i giudici amministrativi fiorentini, qualora tali presupposti individuati dalla legge non vengano rispettati, il diniego sarà legittimo e ciò non potrà essere superato in ragione di una asserita disparità di trattamento.
Nel caso sottoposto all'attenzione dei giudici toscani, la parte ricorrente censurava la motivazione dei dinieghi di sanatoria laddove essa poneva in evidenza la mancata ultimazione dei manufatti alla data di scadenza del condono, rilevando in contrario che i manufatti stessi alla data del 31.03.2003 erano dotati di copertura e tamponature in lamiera e quindi compiuti secondo quanto previsto dalla legge n. 47 del 1985.
Secondo il Tar la censura era infondata: infatti risultava dalla documentazione versata in atti, dalle foto prodotte e dalla stessa ricostruzione fattuale operata dalle parti che i manufatti originariamente realizzati e oggetto della domanda di condono del 10.12.2004 erano costituiti da «baracche con struttura in elevazione realizzata in profilati metallici, struttura portante la copertura in profilati metallici e pannelli ondulati a costituire sia la copertura che le tamponature laterali».
Gli stessi ricorrenti affermavano però nei ricorsi che il manufatto originario era stato nel tempo oggetto di modifiche. In realtà dall'esame della documentazione e delle fotografie in atti risultava che le baracche originarie avevano subito una profonda trasformazione che le aveva rese opere profondamente diverse da quelle originarie e non più riconducibili ai manufatti di cui era stato chiesto il condono.
Lo stesso tribunale amministrativa aveva sottolineato che se è possibile, in pendenza di condono, il semplice mutamento della tamponatura del manufatto, non è tuttavia legittimo un intervento in corso di procedimento di sanatoria che renda irriconoscibile il manufatto originario, come nel caso di inserimento di una struttura in cemento armato (articolo ItaliaOggi Sette del 29.02.2016).

INCARICHI PROFESSIONALILa prescrizione non si ferma. Il caso del cliente disinteressato alla pratica.
Se il cliente non mostra interesse per la propria pratica e non sollecita l'avvocato, la prescrizione maturerà comunque.

Lo dice la III Sez. civile della Corte di Cassazione con sentenza 21.12.2015 n. 25613.
I giudici hanno altresì affermato che nel caso in cui la decisione impugnata sia fondata su una pluralità di ragioni, tra di loro distinte e tutte autonomamente sufficienti a sorreggerla sul piano logico-giuridico, sarà necessario, perché si giunga alla cassazione della pronuncia, che il ricorso si rivolga contro ciascuna di queste, in quanto, in caso contrario, le ragioni non censurate sortirebbero l'effetto di mantenere ferma la decisione basata su di esse (si veda anche: Cass. 20.11.2009, n. 24540).
I giudici di piazza Cavour sono stati chiamati ad esprimersi sul seguente caso: con sentenza la Corte di appello, rigettando l'appello proposto da un cliente nei confronti del proprio avvocato, confermava la sentenza del Tribunale di rigetto della domanda proposta dall'appellante per il risarcimento dei danni conseguenti all'assoluta inerzia serbata dal professionista in ordine al mandato conferitogli di procedere ad azione esecutiva. Avverso detta sentenza l'assistito proponeva ricorso per cassazione.
Secondo gli Ermellini, non è stata affatto assunta come dies a quo della prescrizione la data dell'inadempimento del mandato professionale, ma è stata considerato un ulteriore lasso temporale, individuato nel decorso di un anno da quello in cui avrebbe potuto essere (e non venne) intrapresa l'azione esecutiva per cui era stato conferito il mandato, pertanto escludendo che, dopo tale data, il cliente del legale potesse (giustificatamente) accampare l'inconsapevolezza dell'inerzia del professionista e della sua rilevanza causale.
In base, poi ad un consolidato orientamento giurisprudenziale, richiamato dai giudici di piazza Cavour, il significato da attribuirsi all'espressione «verificarsi del danno» di cui all'art. 2935 cod. civ. è stato specificato nel senso che il danno si manifesta all'esterno quando diviene «oggettivamente percepibile e riconoscibile» anche in relazione alla sua rilevanza giuridica.
E quindi, il suddetto principio in tema di exordium praescriptionis «non apre la strada», secondo gli Ermellini, «a una rilevanza della mera conoscibilità soggettiva del soggetto leso e che l'indagine, circa l'evolversi nel tempo delle conseguenze del fatto illecito o dell'inadempimento, deve essere ancorata a rigorosi dati obiettivi» (articolo ItaliaOggi Sette del 29.02.2016).

EDILIZIA PRIVATA: Non può aver rilievo la circostanza che le opere in questione sono state realizzate da parecchi anni, in quanto per opinione unanime della giurisprudenza il mero decorso del tempo non è di per sé idoneo ad ingenerare un legittimo affidamento del privato.
Il potere di irrogare sanzioni in materia urbanistica ed edilizia, infatti, può essere esercitato in ogni tempo, atteso che la legge non lo sottopone a termini di prescrizione o di decadenza, riguardando una situazione di illiceità permanente, ossia una situazione di fatto attualmente contra jus.
Né i provvedimenti attraverso i quali l’autorità preposta alla tutela del territorio provvede alla repressione degli illeciti amministrativi in materia edilizia ed urbanistica richiedono alcuna particolare motivazione volta ad evidenziare le specifiche ragioni di pubblico interesse che impongano di dar corso al ripristino dello stato dei luoghi ed a comparare tale interesse pubblico con il sacrificio imposto al privato, in quanto la repressione degli abusi edilizi si connota come un preciso obbligo dell'Amministrazione, la quale non gode di alcuna discrezionalità al riguardo.
E' stato peraltro anche osservato che in tema di abusi edilizi ed urbanistici si è in presenza di illeciti di carattere permanente, caratterizzati dall’obbligo, perdurante nel tempo, di ripristinare “secundum jus” lo stato dei luoghi, con l’ulteriore conclusione che se l’Autorità emana un provvedimento repressivo di demolizione non emana un atto “a distanza di tempo” dall’abuso, ma reprime una situazione antigiuridica ancora sussistente con l’evidente inesistenza di alcun obbligo di motivare la scelta di amministrazione attiva, discendendo l’attività provvedimentale sanzionatoria da un preciso potere repressivo in relazione al quale l’Autorità non esercita alcuna discrezionalità.

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Ricorso straordinario al Presidente della Regione siciliana proposto da VI.SA. ed altri avverso ordinanza del Comune di Siracusa 03.09.2013, n. 183 di demolizione di opere edilizie abusivamente realizzate.
...
CONSIDERATO:
Il ricorso in esame, regolare sotto il profilo fiscale, appare ricevibile essendo stato notificato entro il termine di centoventi giorni dalla data di notifica ai ricorrenti del provvedimento impugnato. Esso è tuttavia infondato, come rilevato anche dall’Ufficio legislativo e legale della Presidenza della Regione.
Nel merito, con riguardo al primo motivo di gravame si osserva che non può aver rilievo la circostanza che le opere in questione sono state realizzate da parecchi anni, in quanto per opinione unanime della giurisprudenza il mero decorso del tempo non è di per sé idoneo ad ingenerare un legittimo affidamento del privato. Il potere di irrogare sanzioni in materia urbanistica ed edilizia, infatti, può essere esercitato in ogni tempo, atteso che la legge non lo sottopone a termini di prescrizione o di decadenza, riguardando una situazione di illiceità permanente, ossia una situazione di fatto attualmente contra jus (Cfr.: C.G.A., Sezioni riunite, 03.11.2009, n. 351/09; 17.04.2012, n. 1918/11).
Né i provvedimenti attraverso i quali l’autorità preposta alla tutela del territorio provvede alla repressione degli illeciti amministrativi in materia edilizia ed urbanistica richiedono alcuna particolare motivazione volta ad evidenziare le specifiche ragioni di pubblico interesse che impongano di dar corso al ripristino dello stato dei luoghi ed a comparare tale interesse pubblico con il sacrificio imposto al privato, in quanto la repressione degli abusi edilizi si connota come un preciso obbligo dell'Amministrazione, la quale non gode di alcuna discrezionalità al riguardo (cfr. C.G.A., Sezioni riunite, 29.11.2011, n. 1701; 29.01.2013, n. 1039/12).
E' stato peraltro anche osservato che in tema di abusi edilizi ed urbanistici si è in presenza di illeciti di carattere permanente, caratterizzati dall’obbligo, perdurante nel tempo, di ripristinare “secundum jus” lo stato dei luoghi, con l’ulteriore conclusione che se l’Autorità emana un provvedimento repressivo di demolizione non emana un atto “a distanza di tempo” dall’abuso, ma reprime una situazione antigiuridica ancora sussistente (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 16.04.2010, n. 2160) con l’evidente inesistenza di alcun obbligo di motivare la scelta di amministrazione attiva, discendendo l’attività provvedimentale sanzionatoria da un preciso potere repressivo in relazione al quale l’Autorità non esercita alcuna discrezionalità (cfr. C.G.A., Sezioni riunite, 26.05.2015, n. 608/14) (CGARS, parere 16.12.2015 n. 1225 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza ha affermato in più occasioni che “La recinzione di un fondo non può essere ostacolata dall'esistenza di una previsione vincolistica del piano regolatore, in quanto il legittimo esercizio dello jus excludendi, di per sé, non contrasta con la detta previsione, non avendo per fine quello di imprimere all'area una destinazione diversa da quella prevista dalle norme urbanistiche e non limitando in alcun modo l'amministrazione nell'esercizio dei poteri, eventualmente ablativi, che dal vincolo discendono”.
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Entrambi i ricorsi risultano essere fondati.
L’ordine di rimozione della si fonda sull’art. 84-bis della L.R.T. 1/2005 che consente al comune di esercitare i propri poteri repressivi anche dopo il trentesimo giorno dalla presentazione della s.c.i.a. nel caso in cui l’opera segnalata non risulti conforme agli strumenti urbanistici, oppure quando essa si fondi su una asseverazione non rispondente al vero.
La Sezione con ordinanza n. 469 del 2015 ha espresso dubbi sulla costituzionalità della predetta norma rimettendo la relativa questione alla Consulta.
Nel caso di specie, tuttavia, non è necessario riproporre nuovamente la questione di costituzionalità attesa la fondatezza del terzo motivo di ricorso.
La giurisprudenza ha, invero, affermato in più occasioni che “La recinzione di un fondo non può essere ostacolata dall'esistenza di una previsione vincolistica del piano regolatore, in quanto il legittimo esercizio dello jus excludendi, di per sé, non contrasta con la detta previsione, non avendo per fine quello di imprimere all'area una destinazione diversa da quella prevista dalle norme urbanistiche e non limitando in alcun modo l'amministrazione nell'esercizio dei poteri, eventualmente ablativi, che dal vincolo discendono” (TAR Pescara, I, 15/01/2015 n. 26; TAR Milano, II, 23/03/2012 n. 908).
Sicché, nel caso di specie non sussistevano i presupposti per l’esercizio del potere repressivo tardivo previsti dall’art. 84-bis della L.R.T. n. 1/2005 atteso che l’opera oggetto di s.c.i.a. non poteva ritenersi incompatibile con gli strumenti urbanistici approvati e che anche la contestata falsità della rappresentazione cartografica contenuta nella asseverazione si profilava del tutto ininfluente ai fini della conformità urbanistica della stessa
(TAR Toscana, Sez. III, sentenza 14.12.2015 n. 1703 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Come già altre volte affermato dalla Sezione, l’interesse pubblico all’annullamento in autotutela dei permessi edilizi non può considerarsi in re ipsa tutte le volte in cui vi sia stata una violazione dei parametri urbanistici previsti dal PRG, dovendo l’amministrazione di volta in volta specificare quale concreto pregiudizio abbia subito per effetto dell’opera realizzata l’assetto del territorio astrattamente prefigurato dallo strumento generale.
Né l’annullamento della variante al permesso di costruire può basarsi sulla asserita falsità della asseverazione allegata all’istanza presentata.
Invero, l’erroneità della asseverazione allegata alla istanza tesa ad ottenere un titolo edilizio può divenire presupposto per l’annullamento d’ufficio dello stesso solo nel caso in cui la rappresentazione di determinati stati di fatto sia obiettivamente idonea ad indurre in errore l’amministrazione.
Ciò non accade tutte le volte in cui dal contenuto del progetto, della relazione tecnica, o anche da precedenti atti riferibili al medesimo procedimento appaia chiara la ragione che ha indotto il professionista ad adottare una certa impostazione tecnica o giuridica che a posteriori può anche rivelarsi errata. In tali ipotesi, infatti, l’errore giuridico o tecnico è sempre evincibile dall’esame del progetto o degli atti ad esso correlati; esame che l’amministrazione è sempre tenuta a compiere nonostante l’asseverazione non avendo questa l’effetto di attenuare i controlli che la legge pone a sua carico.

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Anche il ricorso per motivi aggiunti risulta essere fondato.
L’impugnato annullamento d’ufficio della variante al permesso di costruire che ha assentito l’ampliamento del fabbricato non risulta supportato da una motivazione relativa all’interesse pubblico concreto avuto di mira dall’amministrazione, tale non potendo considerarsi il generico riferimento all’esigenza di impedire trasformazioni urbanistiche non consentite dal vigente piano regolatore.
Invero, come già altre volte affermato dalla Sezione, l’interesse pubblico all’annullamento in autotutela dei permessi edilizi non può considerarsi in re ipsa tutte le volte in cui vi sia stata una violazione dei parametri urbanistici previsti dal PRG, dovendo l’amministrazione di volta in volta specificare quale concreto pregiudizio abbia subito per effetto dell’opera realizzata l’assetto del territorio astrattamente prefigurato dallo strumento generale.
Né l’annullamento della variante al permesso di costruire può basarsi sulla asserita falsità della asseverazione allegata all’istanza presentata dalla To..
Invero, l’erroneità della asseverazione allegata alla istanza tesa ad ottenere un titolo edilizio può divenire presupposto per l’annullamento d’ufficio dello stesso solo nel caso in cui la rappresentazione di determinati stati di fatto sia obiettivamente idonea ad indurre in errore l’amministrazione.
Ciò non accade tutte le volte in cui dal contenuto del progetto, della relazione tecnica, o anche da precedenti atti riferibili al medesimo procedimento appaia chiara la ragione che ha indotto il professionista ad adottare una certa impostazione tecnica o giuridica che a posteriori può anche rivelarsi errata. In tali ipotesi, infatti, l’errore giuridico o tecnico è sempre evincibile dall’esame del progetto o degli atti ad esso correlati; esame che l’amministrazione è sempre tenuta a compiere nonostante l’asseverazione non avendo questa l’effetto di attenuare i controlli che la legge pone a sua carico.
Nel caso di specie la To. con l’istanza del 20/11/2011 aveva fatto presente al comune di Capannori di considerare il disallineamento fra i confini delle zone urbanistiche e quelli catastali della sua proprietà come un mero errore della cartografia del piano regolatore. Sulla base del medesimo assunto è stata successivamente presentata l’istanza del 04/02/2013 con cui è stato chiesto l’assenso del Comune per realizzare un ampliamento del fabbricato esistente in variante al relativo permesso di costruire.
Il comune di Capannori al momento del rilascio della predetta variante aveva, quindi, a disposizione tutti i dati per comprendere l’impostazione tecnica seguita dal progettista e per rilevare la sua erroneità alla luce dell’esatto rilievo dei confini fra le diverse zone urbanistiche.
Non avendolo fatto, esso non può lamentarsi di essere stato tratto in errore dalle rappresentazioni progettuali contenute nella istanza di variante atteso che l’errore non è imputabile alla Società istante (che aveva dichiarato da quali presupposti muoveva la sua impostazione progettuale) ma ad un difetto dell’istruttoria compiuta sulla domanda.
Per le suddette ragioni il ricorso ed i motivi aggiunti devono essere accolti
(TAR Toscana, Sez. III, sentenza 14.12.2015 n. 1703 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: Documenti, serve precisione. Nell'indicazione di motivi e sede processuale.
Nel ricorso per Cassazione la produzione del documento su cui fonda il motivo ed in quale sede processuale il documento stesso è stato prodotto, vanno espressamente indicati.

A sottolinearlo sono state le Sezz. Unite civili della Corte di Cassazione con la sentenza 04.12.2015 n. 24708.
Già la stessa Cassazione ebbe modo di sottolineare (si vedano: Cass. S.u. 02.12.2008 n. 28547, Cass. Cass. 23.09.2009 n. 20535, Cass. S.u. 25.03.2010 n. 7161 e Cass. S.u. 03.11.2011 n. 22726) che il requisito previsto dall'art. 366 c.p.c. n. 6, il quale sancisce che il ricorso deve contenere a pena d'inammissibilità la specifica indicazione degli atti processuali, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda, per essere assolto, «postula che sia specificato in quale sede processuale il documento è stato prodotto, poiché indicare un documento significa necessariamente, oltre che specificare gli elementi che valgono a individuarlo, allegare dove nel processo è rintracciabile».
Pertanto, la causa di inammissibilità prevista dal nuovo art. 366, n. 6 c.p.c., hanno meglio chiarito i giudici di piazza Cavour, è direttamente ricollegata al contenuto del ricorso, come requisito che si deve esprimere in una indicazione contenutistica dello stesso. Tale specifica indicazione, quando riguardi un documento, in quanto quest'ultimo sia un atto prodotto in giudizio, richiede che si individui dove è stato prodotto nelle fasi di merito e, quindi, anche in funzione di quanto dispone l'art. 369, comma 2, n. 4, c.p.c. prevedente un ulteriore requisito di procedibilità del ricorso, che esso sia prodotto in sede di legittimità.
Nel caso sottoposto all'attenzione degli Ermellini non risultava specificata in quale sede processuale fosse rinvenibile il documento sul quale si fondava la censura. Inoltre l'inosservanza della prescrizione non potrebbe essere sanata neppure dall'eventuale presenza dei documenti in parola nei fascicoli di parte o di quelli d'ufficio del giudizio del merito atteso che siffatta prescrizione vada, secondo i giudici della Cassazione, correlata a quella ulteriore, sancita a pena d'improcedibilità, di cui all'art. 369, secondo comma, n. 4, c.p.c. che deve ritenersi soddisfatta «qualora il documento sia stato prodotto nelle fasi di merito dallo stesso ricorrente e si trovi nel fascicolo di esse, mediante la produzione del fascicolo, purché nel ricorso si specifichi che il fascicolo è stato prodotto e la sede in cui il documento è rinvenibile» (articolo ItaliaOggi Sette del 29.02.2016).

EDILIZIA PRIVATALa fattispecie in esame si caratterizza per la realizzazione di opere abusive, incidenti su un preesistente fabbricato, realizzate senza alcun titolo abilitativo.
Ne consegue che non ricade nell’ambito applicativo dell’art. 34 –il quale presuppone l’esistenza di un permesso di costruire e della realizzazione di opere in parziale difformità da esso– bensì rientra nel campo di applicazione dell’art. 33 (Interventi di ristrutturazione edilizia in assenza di permesso di costruire o in totale difformità).
Tale disposizione, infatti, prevede, al comma 1, che gli interventi e le opere di ristrutturazione edilizia (che, ai sensi dell’art. 10, sono quelli che «portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici») «eseguiti in assenza di permesso o in totale difformità da esso, sono rimossi ovvero demoliti e gli edifici sono resi conformi alle prescrizioni degli strumenti urbanistico-edilizi entro il congruo termine stabilito dal dirigente o dal responsabile del competente ufficio comunale con propria ordinanza, decorso il quale l’ordinanza stessa è eseguita a cura del comune e a spese dei responsabili dell’abuso».
Il comma 2 del medesimo art. 33 dispone che: «Qualora, sulla base di motivato accertamento dell’ufficio tecnico comunale, il ripristino dello stato dei luoghi non sia possibile, il dirigente o il responsabile dell'ufficio irroga una sanzione pecuniaria pari al doppio dell’aumento di valore dell'immobile, conseguente alla realizzazione delle opere[…]», di cui vengono indicate le modalità di realizzazione.
La disposizione di esordio del comma 2, testé riportata (che ripete l’art. 9 della legge 28.02.1985 n. 47), va intesa, quanto al “ripristino dello stato dei luoghi” che “non sia possibile”, nel senso che soltanto nel caso in cui risulti oggettivamente impossibile il ripristino dello stato dei luoghi va irrogata una sanzione pecuniaria.

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3.– L’appello non è fondato.
3.1.– Con un primo motivo si assume l’erroneità della sentenza nella parte in cui non ha rilevato la violazione dell’art. 34 (Interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire) del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 del 2001 anche in relazione all’art. 7 della legge 07.08.1990, n. 241. L’amministrazione, infatti, non avrebbe consentito all’odierno appellante la partecipazione procedimentale al fine di dimostrare che la demolizione avrebbe «arrecato un pregiudizio alla struttura già esistente da tempo immomarabile».
In particolare, l’art. 34 imporrebbe all’amministrazione, nella scelta tra sanzione demolitoria e sanzione pecuniaria, di valutare «preventivamente se la demolizione possa avvenire senza pregiudizio della parte del fabbricato eseguita in conformità».
Il motivo non è fondato.
In via preliminare, è bene chiarire che la fattispecie in esame si caratterizza per la realizzazione di opere abusive, incidenti su un preesistente fabbricato, realizzate senza alcun titolo abilitativo. Ne consegue che non ricade nell’ambito applicativo dell’art. 34 –il quale presuppone l’esistenza di un permesso di costruire e della realizzazione di opere in parziale difformità da esso– bensì rientra nel campo di applicazione dell’art. 33 (Interventi di ristrutturazione edilizia in assenza di permesso di costruire o in totale difformità).
Tale disposizione, infatti, prevede, al comma 1, che gli interventi e le opere di ristrutturazione edilizia (che, ai sensi dell’art. 10, sono quelli che «portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici») «eseguiti in assenza di permesso o in totale difformità da esso, sono rimossi ovvero demoliti e gli edifici sono resi conformi alle prescrizioni degli strumenti urbanistico-edilizi entro il congruo termine stabilito dal dirigente o dal responsabile del competente ufficio comunale con propria ordinanza, decorso il quale l’ordinanza stessa è eseguita a cura del comune e a spese dei responsabili dell’abuso».
Il comma 2 del medesimo art. 33 dispone che: «Qualora, sulla base di motivato accertamento dell’ufficio tecnico comunale, il ripristino dello stato dei luoghi non sia possibile, il dirigente o il responsabile dell'ufficio irroga una sanzione pecuniaria pari al doppio dell’aumento di valore dell'immobile, conseguente alla realizzazione delle opere[…]», di cui vengono indicate le modalità di realizzazione.
La disposizione di esordio del comma 2, testé riportata (che ripete l’art. 9 della legge 28.02.1985 n. 47), va intesa, quanto al “ripristino dello stato dei luoghi” che “non sia possibile”, nel senso che soltanto nel caso in cui risulti oggettivamente impossibile il ripristino dello stato dei luoghi va irrogata una sanzione pecuniaria.
Nel caso in esame, dalla valutazione della natura delle opere quale risulta dagli atti del processo, consistenti nell’ampliamento di un fabbricato preesistente e nella tamponatura di una vecchia tettoia, non emerge alcun dato che possa indurre a ritenere che non fosse materialmente possibile ripristinare lo stato originario dei luoghi. L’appellante non ha del resto dedotto alcun elemento probatorio idoneo a condurre ad un diverso giudizio (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 29.11.2012 n. 6071 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l’ordinanza di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario l’invio della comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell’atto.
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3.2.– Con un secondo motivo si deduce la violazione degli artt. 7 e 8 della legge n. 241 del 1990, per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento, e il difetto di istruttoria per non avere l’amministrazione valutato il «carico urbanistico presente nella zona interessata».
Il motivo non è fondato.
La giurisprudenza del Consiglio di Stato, da cui non vi è ragione di discostarsi, è costante nel considerare che l’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l’ordinanza di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario l’invio della comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell’atto (tra gli altri Cons. Stato, IV, 18.09.2012; 10.08.2011, n. 4764; IV, 20.07.2011, n. 4403; VI, 24.09.2010, n. 7129).
Per quanto attiene, poi, all’assunta mancata valutazione del «carico urbanistico presente nella zona», la stessa -ammesso che non vi sia effettivamente stata- non ha, avuto riguardo alla normativa del settore, alcuna incidenza o valenza invalidante del provvedimento sanzionatorio, perché il doveroso ripristino della situazione antecedente l’abuso prescinde da un siffatto accertamento. Questo profilo è, pertanto, irrilevante nel giudizio di abusività delle opere (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 29.11.2012 n. 6071 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'art. 27 dpr 380/2001 prevede che il dirigente o il responsabile dell’ufficio ordina, qualora accerti la violazione delle norme in materia edilizia, «l’immediata sospensione dei lavori, che ha effetto fino all’adozione dei provvedimenti definitivi[…], da adottare e notificare entro quarantacinque giorni dall’ordine di sospensione dei lavori».
La norma attribuisce all’amministrazione un potere cautelare discrezionale che in quanto tale non rappresenta una fase necessaria del procedimento sanzionatorio orientato alla demolizione. La sua omissione, pertanto, non inficia la validità del provvedimento finale adottato dall’amministrazione comunale.

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3.2.– Con un terzo motivo si deduce la violazione dell’art. 27 (Vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia) del d.P.R. n. 380 del 2001 per non avere l’amministrazione adottato e comunicato l’ordine di sospensione dei lavori.
Il motivo non è fondato.
Il citato art. 27 prevede che il dirigente o il responsabile dell’ufficio ordina, qualora accerti la violazione delle norme in materia edilizia, «l’immediata sospensione dei lavori, che ha effetto fino all’adozione dei provvedimenti definitivi[…], da adottare e notificare entro quarantacinque giorni dall’ordine di sospensione dei lavori».
La norma attribuisce all’amministrazione un potere cautelare discrezionale che in quanto tale non rappresenta una fase necessaria del procedimento sanzionatorio orientato alla demolizione. La sua omissione, pertanto, non inficia la validità del provvedimento finale adottato dall’amministrazione comunale.
4.– Per le ragioni sin qui esposte, l’appello deve essere rigettato (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 29.11.2012 n. 6071 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

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