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AGGIORNAMENTO AL
31.03.2016 |
ã |
IN EVIDENZA |
APPALTI:
Convenzioni Consip optional. Nessun
obbligo per gli enti. Acquisti extra senza nulla
osta. Lo conferma il Mef con
la circolare sul contenimento delle spese dei conti
pubblici.
Gli enti locali hanno la facoltà e non un obbligo di
aderire alle convenzioni-quadro della Consip o degli
altri soggetti aggregatori.
Lo conferma la
circolare 23.03.2016 n. 12 del Mef, in
tema di misure di contenimento delle spese dei
bilanci pubblici. Indirettamente, quindi, la
circolare conferma che agli enti locali non si
applicano (se non in parte) le disposizioni
contenute nell'articolo 1, comma 510, della legge
208/2015.
Come è noto, la disposizione da ultimo citata ha
suscitato una serie di problemi applicativi, perché
subordina la possibilità delle amministrazioni di
effettuare acquisizioni di beni e servizi al di
fuori delle convenzioni quadro solo previa
autorizzazione specificamente motivata resa da un
non meglio identificato «organo di vertice
amministrativo».
Nell'ambito degli enti locali si è immediatamente
posto il problema di identificare tale organo. Le
tesi in campo sono due. Secondo una prima tesi,
non essendo l'autorizzazione un atto inerente la
gestione ma la programmazione e il controllo, la
competenza è della giunta. Secondo la seconda tesi,
al contrario, spetta al segretario comunale emanare
l'autorizzazione.
In questo secondo filone interpretativo si è
inserita la Corte dei conti, sezione Liguria, con la
deliberazione 24.02.2016 n. 14. Una
decisione che, tuttavia, ha destato parecchie
perplessità, perché ha considerato l'autorizzazione
alla stregua di un atto gestionale ed ha, inoltre,
considerato come già vigente negli enti locali il «dirigente
apicale», che invece è solo oggetto di una
futura attuazione della legge 124/2015.
Non si è trattato degli unici elementi critici della
deliberazione della sezione Liguria. Tra essi, ha
spiccato proprio l'assenza dell'analisi in merito
all'obbligatorietà dell'articolo 1, comma 510, della
legge 208/2015 per gli enti locali. La sezione lo ha
dato per scontato.
Tuttavia, si tratta di un'omissione di analisi
piuttosto rilevante. Infatti, l'articolo 1, comma
510, della legge 208/2015 impone l'autorizzazione
preventiva per effettuare acquisizioni fuori
convenzioni solo alle «amministrazioni pubbliche
obbligate ad approvvigionarsi attraverso le
convenzioni di cui all'articolo 26 della legge
23.12.1999, n. 488, stipulate da Consip spa, ovvero
dalle centrali di committenza regionali».
Ma, come spiega la circolare 12/2016 alle
convenzioni-quadro «le amministrazioni pubbliche,
diverse dalle amministrazioni statali centrali e
periferiche, di cui all'articolo 1, comma 2, del
decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, nonché le
autorità indipendenti, hanno facoltà di ricorrere ai
sensi dell'articolo 1, comma 449, della legge
27.12.2006, n. 296, e fermo restando l'obbligo, in
caso di mancato ricorso, dell'utilizzo dei relativi
parametri di prezzo-qualità come limiti massimi per
la stipulazione dei contratti». E gli enti
locali rientrano tra le amministrazioni diverse da
quelle statali centrali e periferiche.
Non essendovi, dunque, per i comuni e le province,
l'obbligo di utilizzare le convenzioni-quadro, non
c'è nemmeno l'obbligo di far precedere le
acquisizioni extra convenzioni da alcuna
autorizzazione, né di trasmettere l'autorizzazione
alla sezione regionale di controllo della Corte dei
conti.
L'autorizzazione, invece, appare necessaria ai sensi
dell'articolo 1, comma 516, della legge 208/2015, ai
fini dell'acquisizione di beni e servizi
informatici. Allo stesso modo, l'autorizzazione è da
ritenere necessaria per l'acquisizione dei beni e
dei servizi previsti dal dpcm 24.12.2015 di
attuazione dell'articolo 9, comma 3, del dl 66/2014,
convertito in legge 89/2014.
In questi casi, resta ancora aperto il problema
dell'individuazione dell'organo di vertice
amministrativo competente negli enti locali
(articolo ItaliaOggi del 30.03.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
NEWS |
LAVORI PUBBLICI:
Per i piccoli lavori ridotte pubblicità e
trasparenza. Codice appalti. Sotto
il milione inviti a meno imprese.
Paletti più laschi sull’assegnazione
degli appalti sotto al milione di euro. È lo scenario che si
verificherà senza una correzione di rotta prima
dell’approvazione finale del nuovo codice dei contratti
pubblici.
Un paradosso clamoroso, considerando lo spirito della legge
delega approvata in Parlamento, mirata a garantire massima
trasparenza e rigore nella lotta alla corruzione, dopo le
inchieste sulle gare truccate messe in moto dalle procure di
mezza Italia.
Gli appalti sotto al milione rappresentano il cuore delle
opere pubbliche: circa l’80% delle gare (12.754 su 15.870,
secondo i dati Cresme 2015) riguardano interventi sotto
questa soglia. E proprio in questa fascia, dove si annida la
“zona grigia” degli appalti, il nuovo codice rischia
di alleggerire obblighi di pubblicità e concorrenza.
Vincoli, già tutt'altro che a a prova di bomba, considerata
anche la scelta di far cadere gli obblighi di pubblicità sui
giornali, per tutti gli appalti, dall’anno prossimo.
Nulla cambia per i piccoli contratti (sotto i 40 mila euro)
dove sia ora che in futuro rimane l’affidamento diretto a
imprese di fiducia della stazione appaltante. Per il resto,
non si può fare a meno di notare che viene anzitutto
confermata la scelta compiuta nel 2011 dal governo
Berlusconi di mantenere la soglia, raddoppiata allora da
500mila euro a un milione, per la procedura negoziata basata
su indagini di mercato.
Resta, così, la possibilità di assegnare sostanzialmente
senza gara un’ampia quota di lavori. Anche con il nuovo
codice, per i lavori sotto al milione, le Pa non dovranno
pubblicare alcun vero bando sull’intenzione di assegnare una
commessa, se si eccettua un semplice avviso pubblicato sul
proprio sito, per un periodo minimo di 15 giorni, con
l’indicazione dei requisiti necessari a svolgere il compito.
Più nel dettaglio, per i lavori fino a 150 mila euro, in
futuro si potranno invitare solo tre imprese invece che
cinque. Ma è soprattutto negli appalti tra 500mila euro e un
milione che avverrà la “semplificazione” maggiore.
Mentre ora servono almeno 10 inviti, in futuro ne basteranno
cinque. Addio poi alla pubblicità post-aggiudicazione di
valore più “formale”. Mentre ora bisogna pubblicare
la notizia dell’aggiudicazione e la lista degli invitati
sulla Gazzetta Ufficiale e su almeno due quotidiani (uno a
tiratura nazionale, l’altro locale, oltre che sui siti
istituzionali), il nuovo codice mantiene solo un generico
richiamo all’obbligo di pubblicità successiva. Non solo.
Insieme ai lavori, va segnalato anche che con il nuovo
codice raddoppia da centomila a 209mila euro le soglie per
gli affidamenti a “trattativa privata” degli
incarichi di progettazione.
Insomma, nessun faro acceso su i “piccoli” appalti. A
meno di un futuro intervento dell’Anac di Cantone, cui
toccherà il compito di «migliorare la qualità delle
procedure» per assegnare i tantissimi micro-cantieri,
che già oggi viaggiano all’ombra (articolo Il Sole 24 Ore del
30.03.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI: Niente
accatastamento per le reti di Tlc.
Infrastrutture. Il chiarimento è fornito dal decreto
attuativo della direttiva 2014/61.
Il decreto attuativo
della direttiva 2014/61 fa chiarezza: le infrastrutture di
reti di comunicazione elettronica non vanno accatastate. Le
infrastrutture di telecomunicazione non sono unità
immobiliari e, come tali, non vanno iscritte in catasto e
non soggiacciono alla fiscalità conseguente.
È d’impatto l’intervento del legislatore che, nell’ambito
del decreto legislativo 33/2016 attuativo della direttiva
2014/61/Ue sulla riduzione dei costi delle reti di
comunicazione elettronica ad alta velocità, ha deciso di
dare una svolta all’annosa questione dell’accatastamento
delle infrastrutture Tlc. Si tratta dei tralicci,
ripetitori, stazioni radio base, antenne -oltre alle opere
per l'installazione della rete- ancorati a muri o altri
supporti oppure impiantati dentro aree recintate.
In passato sia l’agenzia del Territorio (circolare 4/2006,
6/2012) sia la giurisprudenza si sono occupate del
trattamento catastale: la prima per affermarne l’obbligo di
accatastamento (in forma autonoma o come variazioni di
preesistenti unità immobiliari); la seconda talvolta si è
adeguata alla posizione dell’Agenzia, più spesso ha invece
accolto i ricorsi che ne sostenevano l’irrilevanza sul piano
catastale, specie in virtù dell’assimilazione alle «opere
di urbanizzazione primaria» (articolo 86, comma 3, del
Codice delle comunicazioni elettroniche).
Con il decreto legge Sblocca Italia del 2014 sembrava che la
questione fosse risolta a favore di questa seconda
interpretazione, essendo stabilito che le infrastrutture Tlc
costituiscono opere di urbanizzazione primaria.
La Corte di Cassazione però con la sentenza 24026/2015 in
materia di Ici (si veda «Il Sole 24 Ore» del 26.11.2015) ha
di recente sposato la tesi del Fisco. Invero, la Suprema
corte non ha minimamente affrontato il punto che il decreto
legge Sblocca Italia mirava a risolvere e, con scarna
motivazione, ha deciso per l’accatastamento dei ripetitori
di telefonia mobile nella categoria D.
L’articolo 12, comma 2, del decreto legislativo 33/2016
rimette ordine: non solo le reti ad alta velocità in fibra
ottica, ma tutte le infrastrutture comprese negli articoli
87-88 Cce, da chiunque possedute, sono da considerarsi beni
diversi dalle unità immobiliari in base al Dm 28/1998 e per
questo esclusi dall’accatastamento e dai tributi che ne
conseguono (Imu, Tasi, Ici a suo tempo).
Ciò che rileva, infatti, non è tanto l’autonomia funzionale
e reddituale di queste infrastrutture -e neppure la
destinazione a interesse collettivo per cui in passato sono
state talvolta classificate nella categoria E/3- ma il fatto
che il legislatore ne riconosca una «pubblica utilità»,
analoga per esempio a quella delle fognature o della rete
idrica. La norma, peraltro, dovrebbe avere portata
interpretativa, visto che, secondo la relazione
illustrativa, rappresenta un «chiarimento» volto a
esplicitare quanto già previsto dal Cce.
Natura questa confermata dalla sua collocazione sistematica,
nell’articolo 12 tra le «disposizioni di coordinamento»,
dove al comma 1 si ribadisce che in caso di discordanze
prevalgono le norme del Cce.
Per effetto, il Fisco e gli enti locali non solo dovranno
escludere dall’accatastamento le nuove infrastrutture di
telecomunicazione, ma anche rinunciare alle pretese di
accatastamento già avanzate (articolo Il Sole 24 Ore del
29.03.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI:
Giro di vite sugli appalti illeciti. Con la
depenalizzazione sanzioni fino a 50 mila euro.
I rischi per le aziende a seguito dell'entrata in
vigore il 6 febbraio scorso del dlgs 8/2016.
Arriva la depenalizzazione in materia di appalti illeciti,
ma per le aziende, forse, c'è poco di cui rallegrarsi.
Infatti, ciò non significherà meno «punizioni». Anzi. Dal 6
febbraio gli ispettori del lavoro sono in agguato per
contestare «in proprio» anche gli (ex) reati commessi nel
passato e non ancora prescritti. Per gli illeciti aumentano
anche le sanzioni, ora tra gli 5.000 e gli 50.000.
A partire dal 6 febbraio il dlgs n. 8/2016 ha reso illeciti
amministrativi molte fattispecie di reato di natura
contravvenzionale, punite per lo più con la sola ammenda
(ossia la minore pena pecuniaria). Tra di essi vi sono anche
i reati previsti dall'art. 18, dlgs 276/2003, quelli
attinenti la somministrazione illecita di manodopera, come
pure il distacco di personale e i pseudo appalti di servizi
labour intensive.
Insomma, il classico caso della cooperativa di lavoro che,
fingendo di appaltare un servizio, in realtà «impresta»
personale. Sul punto nei giorni scorsi si è espressa la
Corte di cassazione, con la sent. 10484/2016, ribadendo,
come anche lo stesso ministero del lavoro con la circolare
n. 6/2016, che fornire manodopera da parte di soggetti non
autorizzati (cioè, non agenzie per il lavoro), continua ad
essere vietato dall'ordinamento.
Ciò che oggi cambia, sono le sanzioni, non più penali,
dunque, e naturalmente, per così dire, l'approccio
repressivo. Che peggiora senz'altro. Va detto che fino a
oggi tutto il meccanismo punitivo era basato, in linea di
massima, sulla difficile sincronia tra l'azione degli
ispettori del Ministero del lavoro e quella delle procure
della repubblica. Soprattutto a causa del fatto che le
contestazioni in materia di somministrazione di lavoro era
poco «trattata degli uffici giudiziari» (dati i
sovente notevoli carichi di lavoro che li faceva propendere
per fattispecie di ben altra gravità penale e di ritenuto
maggiore disvalore sociale), gli stessi uffici del lavoro
sono apparsi non di rado in difficoltà nel reprimere
situazioni, talvolta, dubbie.
A disincentivare un'eccessiva attenzione su tali divieti si
aggiungeva la circostanza di un sistema repressivo che,
quantunque penalistico nominalmente, in realtà si era negli
anni già sostanzialmente depenalizzato. Senz'altro in forme
di maggiore favore rispetto alle quelle oggi previste dal
dlgs 8/2016. Infatti, grazie alla possibilità di
regolarizzare il reato, estinguendolo, con il pagamento di
una somma in via amministrativa (ex dlgs 758/1994),
bastavano spesso pochissimi euro per mettere le cose a
posto. Per esempio, nel caso di somministrazione illecita di
un lavoratore per dieci giorni, erano sufficienti 125 (ossia
un quarto dell'ammenda giornaliera, 50, come previsto per
legge) a definire il reato.
Oggi, ex art. 1, comma 6, dlgs 8/2016, la stessa somma in
via amministrativa «non può, in ogni caso, essere
inferiore a 5.000». In definitiva, chi non ha sanato
entro il 6 febbraio, si trova ora in questa esatta
condizione. Così oggi, tolte di mezzo per legge le Procure e
chiamate in causa le direzioni territoriali del ministero
del lavoro (e presto le sedi territoriali del nuovo
Ispettorato nazionale del lavoro), c'è da aspettarsi che la
gestione in proprio, con contestazioni da parte degli
ispettori e azioni di recupero pecuniario per mezzo delle
ingiunzioni degli uffici, creerà, rispetto al passato, una
ben diversa pressione e conseguente contenzioso.
Del resto, che quello della contestazione di appalti e
distacchi illeciti rischi di diventare un leitmotiv
ispettivo della seconda parte del 2016, sembra una non
difficile previsione, dato che il dlgs 8/2016 ha previsto
l'obbligo per le procure della repubblica di trasmettere
entro 90 giorni alle direzione del ministero del lavoro i
fascicoli in loro possesso.
Gli ispettori saranno poi chiamati per legge alle
contestazioni nei successivi 90 giorni. Come a dire che, se
tutto «fila liscio» (cioè nei tempi di legge), entro
agosto, alle aziende di cui sono stati rilevati reati gli
anni scorsi, dovrebbe essere richiesto il pagamento delle
nuove sanzioni amministrative
(articolo ItaliaOggi del 29.03.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
GIURISPRUDENZA |
PUBBLICO IMPIEGO:
A caccia durante la malattia: recesso valido.
Giusta causa. Il lavoratore aveva un regolare certificato
medico.
È valido il licenziamento del
dipendente che durante il periodo di malattia partecipa a
una battuta di caccia all’estero, anche se la sua assenza
sia giustificata da un regolare certificato di malattia
oppure dalla fruizione di congedi parentali.
Questa condotta, infatti, a prescindere dalla veridicità dei
certificati medici, si concretizza in una violazione dei
doveri di correttezza e buona fede che impongono al
dipendente di astenersi, durante la malattia, dall’adozione
di condotte stressanti per il fisico e, quindi,
incompatibili con la necessità di guarire rapidamente.
Questi i principi giuridici posti alla base di un
licenziamento convalidato in via definitiva dalla Corte di
Cassazione, Sez. lavoro (sentenza
29.03.2016 n. 6054).
Un lavoratore subordinato si era ripetutamente assentato dal
lavoro per brevi periodi, talvolta immediatamente
antecedenti a giorni festivi, per delle battute di caccia;
in occasioni di tali battute, il lavoratore aveva sovente
prolungato la propria assenza inviando dei certificati
medici oppure utilizzando dei giorni di congedo parentale.
Il datore di lavoro aveva contestato questa condotta e al
termine della procedura disciplinare aveva licenziato il
dipendente.
La Corte d’appello di Firenze ha considerato valido ed
efficace il licenziamento, rilevando che il dipendente,
recandosi all’estero per le battute di caccia, aveva
gravemente violato il proprio dovere di evitare attività
-come i viaggi e la caccia- capaci di ritardare la pronta e
rapida guarigione.
Il lavoratore ha proposto ricorso per Cassazione contro
questa decisione ma la Corte, con la sentenza sopra
ricordata, ha rigettato il gravame, ritenendo pienamente
legittima la scelta aziendale di contestare, da un lato, la
violazione dell’obbligo di astenersi da condotte che
ritardano la guarigione e, dall’altro, l’utilizzo improprio
dei congedi parentali per finalità diverse da quelle tipiche
dell’istituto.
La sentenza considera inoltre irrilevante ai fini della
decisione il tema dell’effettiva validità della
certificazione medica presentata dal dipendente, in quanto
la contestazione aziendale aveva per oggetto una condotta
complessiva articolata in diversi episodi, rispetto alla
quale la validità di singole certificazioni mediche
risultava irrilevante
(articolo Il Sole 24 Ore del
30.03.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: L’ente
ha determinato di respingere l’istanza di accertamento di
conformità, di cui si discute, non per ragioni sostanziali,
attinenti cioè alla eventuale non sanabilità, sotto il
profilo urbanistico, degli interventi realizzati, ma
unicamente per ragioni formali, rappresentate, nello
specifico, dalla dedotta carenza degli elaborati progettuali
e della documentazioni tecnico amministrativa, allegati alla
medesima istanza.
Un tale modo di procedere è sicuramente illegittimo, e
comporta, ritenuti assorbiti gli altri vizi dedotti,
l’accoglimento del ricorso, dovendo la constatazione, da
parte del Comune, dell’incompletezza della richiesta di
sanatoria (circostanza, tra l’altro, pure contestata dai
ricorrenti anche con certificazioni provenienti dal
protocollo dell’ente) condurre, in ogni caso, non già al
diniego o all’archiviazione della stessa, quanto piuttosto
ad una doverosa attività di integrazione della medesima.
In proposito la giurisprudenza è consolidata nel ritenere
che la carenza documentale, nell’ottica della leale,
reciproca, cooperazione procedimentale di cui alla legge n.
241 del 1990, può dar luogo ad una declaratoria di
improcedibilità dell’istanza del privato solo laddove la
pubblica amministrazione abbia preliminarmente formulato al
soggetto interessato una specifica richiesta di integrazione
della documentazione necessaria (in base alla legge, o agli
atti regolamentari o generali della medesima
amministrazione) ad un compiuto esame della fattispecie.
Pertanto, deve ritenersi illegittimo il diniego o
l’archiviazione dell’istanza di rilascio della concessione
edilizia in sanatoria di opere edilizie abusive motivato con
esclusivo riferimento alla incompletezza della
documentazione depositata dall’istante, trattandosi di
circostanza che può legittimare solo una richiesta di
integrazione documentale da parte dell’Autorità competente a
pronunciare sulla domanda”.
---------------
... per l'annullamento provvedimento prot. n. 45796 del
21/11/2014 con cui il responsabile dell'area V del Comune di
Capaccio ha disposto l'archiviazione dell'istanza di
accertamento di conformità prot. n. 44940/14 del 17.11.2014;
- di ogni atto connesso e per l’accertamento dell’obbligo
della P.A. di provvedere all’esame della pratica edilizia prot. n. 44940 del 17.11.2014 e sul connesso accertamento di
compatibilità paesaggistica nonché per la declaratoria di
illegittimità del silenzio serbato sull’istanza prot. n. 772
del 12.01.2015 con la quale il ricorrente ha chiesto
l’annullamento in autotutela dell’impugnato provvedimento di
archiviazione e sull’istanza prot. n. 44187 del 25.10.2010.
...
5.- Il ricorso è fondato e merita accoglimento, alla stregua
delle considerazioni che seguono.
In pratica, l’ente si sarebbe determinato a respingere
l’istanza di accertamento di conformità, di cui si discute,
non per ragioni sostanziali, attinenti cioè alla eventuale
non sanabilità, sotto il profilo urbanistico, degli
interventi realizzati, ma unicamente per ragioni formali,
rappresentate, nello specifico, dalla dedotta carenza degli
elaborati progettuali e della documentazioni tecnico
amministrativa, allegati alla medesima istanza.
Ma un tale modo di procedere è sicuramente illegittimo, e
comporta, ritenuti assorbiti gli altri vizi dedotti,
l’accoglimento del ricorso, dovendo la constatazione, da
parte del Comune, dell’incompletezza della richiesta di
sanatoria (circostanza, tra l’altro, pure contestata dai
ricorrenti anche con certificazioni provenienti dal
protocollo dell’ente) condurre, in ogni caso, non già al
diniego o all’archiviazione della stessa, quanto piuttosto
ad una doverosa attività di integrazione della medesima.
In proposito la giurisprudenza è consolidata nel ritenere
che la carenza documentale, nell’ottica della leale,
reciproca, cooperazione procedimentale di cui alla legge n.
241 del 1990, può dar luogo ad una declaratoria di
improcedibilità dell’istanza del privato solo laddove la
pubblica amministrazione abbia preliminarmente formulato al
soggetto interessato una specifica richiesta di integrazione
della documentazione necessaria (in base alla legge, o agli
atti regolamentari o generali della medesima
amministrazione) ad un compiuto esame della fattispecie.
Pertanto, deve ritenersi illegittimo il diniego o
l’archiviazione dell’istanza di rilascio della concessione
edilizia in sanatoria di opere edilizie abusive motivato con
esclusivo riferimento alla incompletezza della
documentazione depositata dall’istante, trattandosi di
circostanza che può legittimare solo una richiesta di
integrazione documentale da parte dell’Autorità competente a
pronunciare sulla domanda” (ex multis TAR Campania-Napoli, sez. IV,
05.08.2009, n. 4730).
6.- Le rassegnate conclusioni devono ritenersi satisfattive
della pretesa azionata in giudizio con plurime domande,
atteso che l’amministrazione è onerata a conformarsi a
quanto statuito in sentenza
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 16.03.2016 n. 609 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
Gara revocabile se c’è convenienza. L’apertura
delle «buste» non aumenta la speranza di vittoria dei
concorrenti. Tar Toscana. Lecito
confrontare i costi delle offerte pervenute, ma la scelta di
internalizzare va motivata.
Una gara bandita da
una pubblica amministrazione non può essere revocata a cuor
leggero: lo sottolinea il TAR Toscana -Sez. I- nella
sentenza 15.03.2016 n. 467, relativa ad un
servizio di sterilizzazione e noleggio di strumenti
chirurgici.
Prima di concludere la selezione, un’Azienda sanitaria
locale aveva revocato il bando di gara ritenendo fosse
conveniente internalizzare, cioè gestire in proprio il
servizio. L’Asl sosteneva che fossero presenti risorse
aziendali, il cui utilizzo avrebbe consentito un risparmio
di spesa.
Di parere opposto era una delle imprese che avevano
partecipato alla gara, la quale sosteneva che i risparmi,
posti a base della revoca della gara, fossero inattendibili.
Le opposte tesi, dell’amministrazione e dell’impresa che
aveva partecipato alla gara revocata prima di essere
conclusa, sono state valutate dal Tar sotto l’aspetto della
logicità e ragionevolezza, dell’adeguata motivazione e
dell’idonea istruttoria sulla possibilità di conseguire
forti risparmi di spesa.
Sono state quindi verificate le opzioni “make or buy”
che la stessa Azienda sanitaria aveva ipotizzato prima di
decidere di rivolgersi al mercato, calcolando le esigenze
del servizio di sterilizzazione e i costi dello strumentario
chirurgico che sarebbe stato fornito.
All’indomani di un primo annullamento (Tar Toscana, sentenza
numero 1449 del 2014) l’Asl aveva confermato la propria
opinione circa la convenienza economica dell’internalizzazione.
Ciò ha generato un’ulteriore sentenza (la numero 467 del
2016) la quale ha ribadito che l’ente pubblico, anche quando
si riservi nel bando la facoltà di non dar luogo alla gara o
all’aggiudicazione, è soggetto al sindacato del giudice
amministrativo.
Inoltre, per liberarsi da un procedimento di gara ed operare
in “make” (internalizzazione servizio) rispetto al “buy”
(esternalizzazione), occorre dimostrare la possibilità di
conseguire forti risparmi di spesa, individuare le criticità
delle operazioni, attualizzando l’esame dei fabbisogni sulla
base di dati certi e non presuntivi.
A tal fine, prima di decidere di internalizzare,
l’amministrazione deve inoltre tener presenti le offerte che
le sono pervenute grazie alla procedura di gara: tali
offerte sono infatti segrete e tutelate da riservatezza, ma
solo ai fini dell’imparzialità della gara, sicché le offerte
stesse ben possono essere aperte ed utilizzate per conoscere
il costo effettivo di un eventuale affidamento esterno.
Oltretutto, sottolinea il Tar Toscana, l’apertura delle
offerte di gara non aumenta la speranza di vittoria dei
concorrenti, speranza che rimane generica e quindi non
radica responsabilità se la conoscenza degli importi offerti
sia utilizzata per decidere se confermare l’affidamento
esterno o ricorrere risorse interne dell’ente pubblico. Non
avendo motivato adeguatamente la convenienza dell’internalizzazione
sulla base delle offerte già pervenute, l’Asl si quindi è
vista annullare una seconda volta la procedura.
Questo orientamento sarà utile anche nelle prime
applicazioni del futuro decreto legislativo di recepimento
delle direttive comunitarie sugli appalti, atteso per
l'aprile 2016 (legge 11 del 2016), perché conferma
l’opportunità del ricorso a procedure di “public sector
comparator” (articolo 181 dello schema di decreto
legislativo), con valutazione dell’equilibrio economico
finanziario e della qualità dei servizi, a monte della
decisione di parternariato pubblico privato (articolo Il Sole 24 Ore del
29.03.2016 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
Ascensore senza tutti i consensi.
La Cassazione a favore dei disabili.
Il Comune non può pretendere il consenso di tutti i
proprietari di immobili che si affacciano sul cortile prima
di autorizzare la costruzione dell'ascensore che serve al
disabile. Per il titolo edilizio che l'amministrazione
locale è chiamata a rilasciare al cittadino risulta
sufficiente il rispetto delle maggioranze prescritte dal
codice civile da parte dell'assemblea condominiale che
delibera l'intervento edilizio: il permesso a costruire
viene infatti rilasciato fatti salvi i diritti dei terzi, i
quali dunque devono rivolgersi al giudice civile se si
ritengono lesi.
È quanto emerge dalla
sentenza 09.03.2016 n. 561, pubblicata dalla II
Sez. del TAR Campania-Salerno.
Regola e deroga
Accolto il ricorso del condomino, che aveva superato perfino
gli ostacoli posti dalla Soprintendenza per l'impianto da
realizzare in area soggetta a vincolo ambientale: troppo
zelante l'ufficio tecnico dell'ente che blocca i lavori
dell'ascensore necessario a una signora malata di cancro
sostenendo che per il progetto serve l'assenso dei
proprietari di tutti gli appartamenti prospicienti il
cortile.
In realtà l'amministrazione ben può pronunciarsi ex articolo
11 del testo unico dell'edilizia senza che abbiano dato il
loro consenso al progetto tutti coloro che vantano un
diritto di servitù di passaggio nel cortile dove deve
sorgere l'impianto: affinché il via ai lavori abbia il
placet dell'ente, infatti, è sufficiente che la delibera
sia approvata dalla maggioranza degli intervenuti con un
numero di voti che rappresenta almeno un terzo del valore
dell'edificio.
L'unico limite è che l'installazione dell'impianto non deve
rendere inservibile il cortile, altrimenti si configura
l'innovazione vietata dall'articolo dell'articolo 1120,
secondo comma, Cc. Ma si tratta di un elemento che ha
rilievo soltanto sul piano civilistico.
Sbaglia ancora l'ufficio tecnico quando motiva lo stop al
progetto con la violazione dell'articolo 907 Cc: se serve a
eliminare le barriere architettoniche, l'ascensore ben può
essere installato in deroga alle norme sulla distanza delle
costruzioni dalle vedute, a patto che rispetti le
disposizioni sull'uso delle cose comuni
(articolo ItaliaOggi del 30.03.2016).
---------------
MASSIMA
... per l'annullamento del provvedimento del
Responsabile dell'U.T.C. - Area urbanistica del Comune di
Amalfi n. 10304 del 30.09.2006 -notificato il 30.10.2006-,
di rigetto della istanza presentata dal ricorrente di
rilascio dell'autorizzazione per la installazione di un
ascensore ai sensi della legge n. 13 del 09.01.1982;
...
1.- Il ricorso è fondato e merita di essere accolto.
È noto che l’art. 2 l. 09.01.1989 n. 13, recante norme per
favorire il superamento e l’eliminazione delle barriere
architettoniche negli edifici privati, ha previsto la
possibilità per l’assemblea condominiale di approvare le
innovazioni preordinate a tale scopo con le maggioranze
indicate nell’art. 1136, 2 e 3 comma, c.c., così derogando
all’art. 1120, 1° comma, che richiama il 5° comma dell’art.
1136 e, quindi, le più ampie maggioranze ivi contemplate:
cfr., fra le tante, Cass., sez. II, 24.07.2012, n. 12930.
L’unico limite è rappresentato,
ai sensi del successivo comma 3, dal
disposto dell’art. 1120, 2° comma, il quale vieta le
innovazioni che rendano talune parti comuni dell’edificio
inservibili all’uso e al godimento anche di un solo
condomino, comportandone una sensibile menomazione
dell’utilità, secondo l’originaria costituzione della
comunione.
Essendo tale ultimo profilo, di rilevanza esclusivamente
civilistica, estraneo ai confini della lite che ne occupa,
vale, perciò, puntualizzare che, ai fini
della verifica della legittimazione alla richiesta del
titolo abilitativo alla edificazione, rimessa alle
competenze dell’autorità amministrativa comunale ex art. 11
t.u. 380/2001, la deliberazione assembleare assunta con le
prescritte maggioranze deve ritenersi bensì necessaria, ma
anche sufficiente ai fini dell’assenso al titolo
abilitativo. Peraltro, il permesso di costruire viene sempre
rilasciato con salvezza dei diritti dei terzi che, ove
pregiudicati, potranno essere fatti valere nella competente
sede civilistica.
Sotto distinto profilo, è altresì noto che
l’installazione di un ascensore, al fine dell’eliminazione
delle barriere architettoniche, realizzata da un condomino
su parte di un cortile e di un muro comuni, deve
considerarsi indispensabile ai fini dell’accessibilità
dell’edificio e della reale abitabilità dell’appartamento, e
rientra, pertanto, nei poteri spettanti ai singoli condomini
ai sensi dell’art. 1102 c.c., senza che, ove siano
rispettati i limiti di uso delle cose comuni stabiliti da
tale norma, rilevi, la disciplina dettata dall’art. 907 c.c.
sulla distanza delle costruzioni dalle vedute
(cfr. Cass., sez. II, 16.05.2014, n. 10852).
2.- Il ricorso va, perciò, accolto. |
EDILIZIA PRIVATA:
L’accertamento dell’avvenuto inizio dei lavori
entro l’anno dal rilascio del permesso di costruire,
necessario a evitarne la decadenza, è questione di fatto, da
valutarsi caso per caso, onde accertare che l’avvio delle
opere sia effettivo, e non volto al solo scopo di evitare la
perdita di efficacia del titolo abilitativo.
---------------
In disparte il dato formale, pur pertinente, evidenziato
dalla difesa del Comune, della mancata comunicazione, da
parte del ricorrente, dell’inizio dei lavori, osserva il
Tribunale come, dall’esame della giurisprudenza in materia,
emerga la netta prevalenza di un indirizzo rigoroso, circa
l’accertamento giurisdizionale dell’inizio dei lavori, sotto
il profilo sostanziale, indirizzo espresso in massime, come
le seguenti:
- “La realizzazione di semplici movimenti di terra e gittata
di un strato di battuto di calcestruzzo tesi a circoscrivere
le fondamenta della costruzione da realizzare non integrano
la fattispecie di inizio dei lavori. Ai fini
dell’impedimento della decadenza del permesso di costruire,
infatti, l’avvio dei lavori può ritenersi sussistente solo
quando le opere intraprese siano tali da manifestare
l’univoca intenzione di realizzare il manufatto assentito;
tale requisito non è soddisfatto dal semplice sbancamento
del terreno, dalla pulitura del sito o dall’aver approntato
il cantiere ed i materiali necessari per l’esecuzione dei
lavori”;
- “Le opere di sbancamento, di sottofondazione e di
perimetrazione non sono sufficienti ad integrare il
requisito dell’avvio dei lavori, che deve comunque avvenire
entro un anno dal rilascio della concessione edilizia,
mentre i medesimi lavori devono terminare, a pena di
decadenza della concessione, entro tre anni”;
- “È legittimo il provvedimento di dichiarazione di
decadenza di un permesso di costruire per mancato inizio dei
lavori nel termine annuale, nell’ipotesi in cui entro detto
termine risultino eseguiti unicamente lavori di modesta
entità, quali opere di sbancamento e di demolizione
parziale”;
- “In ipotesi di rilascio di permesso di costruire per
sostituzione edilizia con demolizione di fabbricato ad uso
commerciale e ricostruzione ad uso residenziale, la
rimozione degli infissi interni ed esterni e lo smontaggio
dei controsoffitti configurano opere del tutto marginali e
volte solo ad impedire in limine la decadenza del titolo
stesso, comunque non idonee ad indicare l’avvenuto inizio
dei lavori”.
---------------
Circa le doglianze volte a stigmatizzare la mancata
osservanza, da parte dell’Amministrazione, delle
disposizioni della l. 241/1990, volte a favorire la
partecipazione del privato al contenuto del provvedimento
finale, vale a dire l’obbligo di comunicare l’avvio del
procedimento di decadenza e la conseguente impossibilità,
per l’interessato, di rassegnare memorie, da valutarsi da
parte della P.A., anche in funzione deflattiva del
contenzioso, possono essere oggetto di disamina congiunta,
smentite come sono dal prevalente indirizzo
giurisprudenziale, espresso in decisioni, come quelle che
seguono:
- “Ai sensi dell’art. 15, comma 2, d.lgs. n. 380 del 2001,
la pronunzia di decadenza del permesso a costruire ha
carattere strettamente vincolato all’accertamento del
mancato inizio e completamento dei lavori entro i termini
stabiliti dalla norma stessa (rispettivamente un anno e tre
anni dal rilascio del titolo abilitativo, salvo proroga) ed
ha natura ricognitiva del venir meno degli effetti del
permesso a costruire per l’inerzia del titolare a darvi
attuazione. Siffatta decadenza, peraltro, opera di diritto e
non è richiesta a tal fine l’adozione di un provvedimento
espresso”;
- “La decadenza della concessione edilizia (ora permesso di
costruire) per mancato inizio lavori nel termine previsto si
verifica per legge in modo automatico tanto che non residua
all’amministrazione alcun margine per valutazioni di ordine
discrezionale; da ciò deriva che il provvedimento di
annullamento della proroga della concessione edilizia,
motivato dalla intervenuta decadenza della concessione
edilizia per l’inutile scadenza anche del prorogato termine
di inizio lavori, non richiede la previa adozione di un
provvedimento dichiarativo della decadenza né tanto meno la
comunicazione di avvio del procedimento”;
- “La decadenza della concessione edilizia per mancata
osservanza del termine di inizio o di completamento dei
lavori ovvero per sopravvenuta incompatibilità con lo
strumento urbanistico sopravvenuto, opera “di diritto”, con
la conseguenza che il provvedimento, ove adottato, ha
carattere meramente dichiarativo di un effetto verificatosi
“ex se” con l’inutile decorso del termine; da ciò consegue
che l’eventuale provvedimento di decadenza è
sufficientemente motivato col richiamo alla norma applicata,
senza che sia necessaria una comparazione tra l’interesse
del privato e quello pubblico, essendo quest’ultimo “ope
legis” prevalente sul primo e che non è necessaria la
comunicazione di avvio del procedimento, essendo la
decadenza un effetto che si verifica “ipso iure”, senza che
residui all’amministrazione alcun margine per valutazioni di
ordine discrezionale”.
----------------
Quanto all’evidenziata carenza di motivazione e
d’istruttoria, che connoterebbe –secondo il ricorrente– il
provvedimento gravato, il Tribunale ritiene che la censura
sia priva di pregio; valga, per disattenderla, oltre al
riferimento alle massime già riferite, anche il richiamo
alle seguenti, ulteriori, decisioni:
- “L’adozione del provvedimento di decadenza dal titolo
edilizio autorizzatorio per inosservanza dei termini
d’inizio dei lavori o di ultimazione delle opere non
comporta la valutazione degli interessi pubblico e privato
coinvolti, stanti il carattere ricognitivo con effetti ex
tunc e la natura vincolata del provvedimento in parola,
elementi quest’ultimi significativi della prevalenza ope
legis dell’interesse pubblico, conseguendone che non rileva
il tempo decorso tra l’effetto verificatosi e l’adozione
dell'atto, e che, per le medesime ragioni, è bastevole come
motivazione l’indicazione della norma applicata”;
- “La decadenza dalla concessione edilizia per mancato
inizio dei lavori nel termine prefissato è atto meramente
dichiarativo di una situazione verificatasi “ope legis”,
senza che residui alcun margine per valutazioni
discrezionali: conseguentemente, non è configurabile, in
tale atto, il vizio di eccesso di potere per perplessità e
contraddittorietà della motivazione”.
----------------
... per
l’annullamento:
-a) del provvedimento, n. prot. 5613 del 19.03.2014,
notificato in data 01.04.2014, emesso dalla Città di
Campagna, avente ad oggetto la declaratoria della decadenza
del permesso di costruire in sanatoria e completamento, n.
89/2012 del 19.06.2012, relativo a un fabbricato rurale
destinato a deposito agricolo e box pertinenziale,
catastalmente individuato al foglio n. 89 –particella n.
609– del Comune di Campagna e del conseguente ordine di
demolire;
-b) della diffida dell’08.03.2013, prot. 5605, di cui si
legge nell’atto, impugnato al punto precedente;
-c) d’ogni altro atto, anche non conosciuto, presupposto,
consequenziale o comunque connesso, nella parte in cui,
anche interpretata, determini la decadenza del permesso di
costruire, n. 89/12, nonché l’inefficacia della d. i.a.,
presentata in data 11.02.2013, prot. 3727, pratica n. 19/13,
o comunque ponga a carico del ricorrente la demolizione del
fabbricato che ci occupa o comunque impedisca l’accoglimento
delle conclusioni, di cui al ricorso;
...
Il ricorso non è fondato.
Iniziando dall’analisi della prima censura, premesso che,
secondo la giurisprudenza, “l’accertamento dell’avvenuto
inizio dei lavori entro l’anno dal rilascio del permesso di
costruire, necessario a evitarne la decadenza, è questione
di fatto, da valutarsi caso per caso, onde accertare che
l’avvio delle opere sia effettivo, e non volto al solo scopo
di evitare la perdita di efficacia del titolo abilitativo”
(Consiglio di Stato, Sez. IV, 20/12/2013, n. 6151), osserva
il Collegio come le opere, indicate in ricorso come
indicative dell’estrinsecazione dell’animus aedificandi
del ricorrente, consistite in “chiusura del vano scala
che dal piano seminterrato conduce al piano sottotetto, tale
da creare indipendenza tra i piani seminterrato, rialzato e
sottotetto; chiusura dei vani finestra al piano
seminterrato, tale da rendere l’attuale piano seminterrato
un volume tecnico inaccessibile; svuotamento, mediante
rimozione di mobili e suppellettili, dai vani abitativi
posti al piano rialzato, al fine di utilizzare quest’ultimo
come deposito agricolo e box auto” (opere, testimoniate
anche dalla relazione tecnica di parte, allegata all’atto
introduttivo del giudizio, ove le stesse erano, in maniera
parzialmente difforme, così sintetizzate: “anche se in
misura minima, ma dimostrando la sua totale volontà di
eseguire tutto quanto previsto nel p. di c., eseguiva
piccoli lavori di adeguamento, quali la rimozione della
scalinata interna di comunicazione tra il piano rialzato e
il piano seminterrato, la chiusura del vuoto posto nel
solaio di calpestio del sottotetto” e “l’apposizione
di terreno vegetale nella parte retrostante del fabbricato,
per un’altezza di circa mt. 1,00 lungo tutto il lato”),
non assurgano a un livello tale, da costituire un effettivo
e concreto inizio dei lavori.
In disparte il dato formale, pur pertinente, evidenziato
dalla difesa del Comune di Campagna, della mancata
comunicazione, da parte del ricorrente, dell’inizio dei
lavori, osserva il Tribunale come, dall’esame della
giurisprudenza in materia, emerga la netta prevalenza di un
indirizzo rigoroso, circa l’accertamento giurisdizionale
dell’inizio dei lavori, sotto il profilo sostanziale,
indirizzo espresso in massime, come le seguenti: - “La
realizzazione di semplici movimenti di terra e gittata di un
strato di battuto di calcestruzzo tesi a circoscrivere le
fondamenta della costruzione da realizzare non integrano la
fattispecie di inizio dei lavori. Ai fini dell’impedimento
della decadenza del permesso di costruire, infatti, l’avvio
dei lavori può ritenersi sussistente solo quando le opere
intraprese siano tali da manifestare l’univoca intenzione di
realizzare il manufatto assentito; tale requisito non è
soddisfatto dal semplice sbancamento del terreno, dalla
pulitura del sito o dall’aver approntato il cantiere ed i
materiali necessari per l’esecuzione dei lavori”
(Consiglio di Stato, Sez. IV, 15/04/2013, n. 2027);
- “Le opere di sbancamento, di sottofondazione e di
perimetrazione non sono sufficienti ad integrare il
requisito dell’avvio dei lavori, che deve comunque avvenire
entro un anno dal rilascio della concessione edilizia,
mentre i medesimi lavori devono terminare, a pena di
decadenza della concessione, entro tre anni” (TAR Latina
(Lazio), Sez. I, 19/07/2010, n. 1170);
- “È legittimo il provvedimento di dichiarazione di
decadenza di un permesso di costruire per mancato inizio dei
lavori nel termine annuale, nell’ipotesi in cui entro detto
termine risultino eseguiti unicamente lavori di modesta
entità, quali opere di sbancamento e di demolizione parziale”
(TAR Toscana, Sez. III, 17/11/2008, n. 2533);
- “In ipotesi di rilascio di permesso di costruire per
sostituzione edilizia con demolizione di fabbricato ad uso
commerciale e ricostruzione ad uso residenziale, la
rimozione degli infissi interni ed esterni e lo smontaggio
dei controsoffitti configurano opere del tutto marginali e
volte solo ad impedire in limine la decadenza del titolo
stesso, comunque non idonee ad indicare l’avvenuto inizio
dei lavori” (Consiglio di Stato, Sez. IV, 20/12/2013, n.
6151).
A fronte di tale severo orientamento, teso alla verifica di
un serio e concreto intento di procedere alle opere, di cui
al titolo abilitativo, le opere cui s’è appellato il
ricorrente (definite “minime” nella stessa relazione
tecnica di parte), ovvero i “piccoli lavori di
adeguamento”, consistiti nella rimozione di una scala
interna, nella chiusura di un vuoto tecnico e in modesti
riporti di terreno vegetale, oltre che –come riferito in
ricorso– nell’anodina “rimozione di mobili e
suppellettili, dai vani abitativi posti al piano rialzato,
al fine di utilizzare quest’ultimo come deposito agricolo e
box auto”, appaiono, obiettivamente, di tale scarsa
entità, da sconfinare quasi nell’irrilevanza, e, in ogni
caso, del tutto inidonei a dimostrare che il ricorrente
voleva, effettivamente, accingersi all’esecuzione dei lavori
autorizzati.
La seconda e terza doglianza dell’atto introduttivo del
giudizio, volte a stigmatizzare la mancata osservanza, da
parte dell’Amministrazione, delle disposizioni della l.
241/1990, volte a favorire la partecipazione del privato al
contenuto del provvedimento finale, vale a dire l’obbligo di
comunicare l’avvio del procedimento di decadenza e la
conseguente impossibilità, per l’interessato, di rassegnare
memorie, da valutarsi da parte della P.A., anche in funzione
deflattiva del contenzioso, possono essere oggetto di
disamina congiunta, smentite come sono dal prevalente
indirizzo giurisprudenziale, espresso in decisioni, come
quelle che seguono:
- “Ai sensi dell’art. 15, comma 2, d.lgs. n. 380 del
2001, la pronunzia di decadenza del permesso a costruire ha
carattere strettamente vincolato all’accertamento del
mancato inizio e completamento dei lavori entro i termini
stabiliti dalla norma stessa (rispettivamente un anno e tre
anni dal rilascio del titolo abilitativo, salvo proroga) ed
ha natura ricognitiva del venir meno degli effetti del
permesso a costruire per l’inerzia del titolare a darvi
attuazione. Siffatta decadenza, peraltro, opera di diritto e
non è richiesta a tal fine l’adozione di un provvedimento
espresso” (TAR Catania (Sicilia), Sez. I, 10/06/2015, n.
1622);
- “La decadenza della concessione edilizia (ora permesso
di costruire) per mancato inizio lavori nel termine previsto
si verifica per legge in modo automatico tanto che non
residua all’amministrazione alcun margine per valutazioni di
ordine discrezionale; da ciò deriva che il provvedimento di
annullamento della proroga della concessione edilizia,
motivato dalla intervenuta decadenza della concessione
edilizia per l’inutile scadenza anche del prorogato termine
di inizio lavori, non richiede la previa adozione di un
provvedimento dichiarativo della decadenza né tanto meno la
comunicazione di avvio del procedimento” (TAR Latina
(Lazio), Sez. I, 27/11/2015, n. 788);
- “La decadenza della concessione edilizia per mancata
osservanza del termine di inizio o di completamento dei
lavori ovvero per sopravvenuta incompatibilità con lo
strumento urbanistico sopravvenuto, opera “di diritto”, con
la conseguenza che il provvedimento, ove adottato, ha
carattere meramente dichiarativo di un effetto verificatosi
“ex se” con l’inutile decorso del termine; da ciò consegue
che l’eventuale provvedimento di decadenza è
sufficientemente motivato col richiamo alla norma applicata,
senza che sia necessaria una comparazione tra l’interesse
del privato e quello pubblico, essendo quest’ultimo “ope
legis” prevalente sul primo e che non è necessaria la
comunicazione di avvio del procedimento, essendo la
decadenza un effetto che si verifica “ipso iure”, senza che
residui all’amministrazione alcun margine per valutazioni di
ordine discrezionale” (TAR Napoli (Campania), Sez. II,
30/01/2009, n. 542).
Tanto, in disparte la pur rilevante circostanza,
opportunamente posta in risalto dalla difesa del Comune,
secondo cui nello stesso p. di c. in sanatoria era
specificato che il mancato inizio dei lavori, nel termine
annuale, ne avrebbe comportato la decadenza, con conseguente
piena consapevolezza di tal effetto automatico, da parte del
suo titolare.
Del resto, attesa la, già riferita, sostanziale irrilevanza
delle opere realizzate, non si vede come l’Amministrazione,
anche se informata dal ricorrente dell’esecuzione delle
stesse, avrebbe potuto determinarsi altrimenti.
Quanto, infine, all’evidenziata carenza di motivazione e
d’istruttoria, che connoterebbe –secondo il ricorrente– il
provvedimento gravato, il Tribunale ritiene che la censura
sia priva di pregio; valga, per disattenderla, oltre al
riferimento alle massime già riferite, anche il richiamo
alle seguenti, ulteriori, decisioni:
- “L’adozione del provvedimento di decadenza dal titolo
edilizio autorizzatorio per inosservanza dei termini
d’inizio dei lavori o di ultimazione delle opere non
comporta la valutazione degli interessi pubblico e privato
coinvolti, stanti il carattere ricognitivo con effetti ex
tunc e la natura vincolata del provvedimento in parola,
elementi quest’ultimi significativi della prevalenza ope
legis dell’interesse pubblico, conseguendone che non rileva
il tempo decorso tra l’effetto verificatosi e l’adozione
dell'atto, e che, per le medesime ragioni, è bastevole come
motivazione l’indicazione della norma applicata” (TAR
Salerno (Campania), Sez. II, 06/04/2012, n. 654);
- “La decadenza dalla concessione edilizia per mancato
inizio dei lavori nel termine prefissato è atto meramente
dichiarativo di una situazione verificatasi “ope legis”,
senza che residui alcun margine per valutazioni
discrezionali: conseguentemente, non è configurabile, in
tale atto, il vizio di eccesso di potere per perplessità e
contraddittorietà della motivazione” (TAR Napoli
(Campania), Sez. IV, 29/04/2004, n. 7513)
(TAR
Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 24.02.2016 n. 448 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PATRIMONIO:
La lite sulla proprietà della strada spetta al
giudice ordinario. Dismissioni immobiliari. L’iscrizione
nell’elenco delle vie pubbliche ha portata dichiarativa, non
ablativa.
Stop al Tar sull’accertamento di
proprietà della strada inclusa nel piano comunale delle
cessioni immobiliari: si va al giudice ordinario.
La questione è importante perché è possibile che un privato
veda il proprio immobile compreso nell’elenco del Piano
comunale delle alienazioni immobiliari. Il privato ha
ragione di preoccuparsi, perché l’immobile sembra,
inopinatamente, essere divenuto di proprietà pubblica. A
quale giudice dovrà rivolgersi per far accertare che
l’immobile è di sua proprietà? Il Tar Campania ha risposto:
il giudice ordinario.
Vediamo i termini della questione.
L’articolo 58 del Dl 112/2008 stabilisce che per procedere
al riordino e valorizzazione del patrimonio immobiliare di
Regioni, Province, Comuni e altri enti locali, ciascun ente
individua, redigendo un elenco sulla base della
documentazione esistente presso i propri archivi, i singoli
beni immobili ricadenti nel territorio di competenza, non
strumentali all’esercizio delle proprie funzioni
istituzionali, suscettibili di valorizzazione o dismissione.
La VII Sez. del TAR Campania-Napoli, con la
sentenza 18.02.2016 n. 870 ha ritenuto che
l’elenco del Piano delle alienazioni immobiliari abbia
natura puramente dichiarativa e non costitutiva del diritto
di proprietà. Pertanto non trattandosi di un atto
autoritativo di carattere ablativo della proprietà, la
giurisdizione in merito all’accertamento della natura
privata o pubblica del bene spetta al giudice ordinario, con
il rito decisamente più lungo e complesso.
Nel caso di specie, due condòmine avevano impugnato la
delibera comunale che aveva incluso nel Piano delle
alienazioni immobiliari un viale che le stesse affermavano
essere di proprietà del condominio.
Il Tar ricorda che rientrano nella giurisdizione del giudice
ordinario le controversie in tema di proprietà pubblica o
privata delle strade, in quanto tali questioni hanno ad
oggetto l’accertamento dell’esistenza di diritti soggettivi,
sia dei privati che della Pubblica Amministrazione. Pertanto
la contestazione circa la possibilità di sua inclusione nel
Piano di alienazioni immobiliari, in considerazione della
natura privata del viale in questione, appartiene alla
giurisdizione del giudice ordinario.
Il Tar richiama il principio secondo il quale l’iscrizione
di una strada nell’elenco delle vie pubbliche o gravate da
uso pubblico non ha natura costitutiva e portata assoluta,
ma riveste funzione puramente dichiarativa della pretesa del
Comune; essa pone una semplice presunzione di pubblicità
dell’uso, superabile con la prova contraria della natura
della strada e dell’inesistenza di un diritto di godimento
da parte della collettività mediante un’azione negatoria di
servitù in sede giudiziaria civile (articolo Il Sole 24 Ore del
29.03.2016).
---------------
MASSIMA
... per l'annullamento, previa sospensione
dell’efficacia:
a) della deliberazione del Consiglio Comunale del Comune di
Lettere n. 20 del 06.07.2015, pubblicata mediante affissione
all'albo pretorio dal 15.07.2015 al 30.07.2015, ad oggetto "Approvazione
piano delle alienazioni e delle valorizzazioni dei beni
strumentali", nella parte in cui include nel piano delle
alienazioni e delle valorizzazioni immobiliari previsto
dall'art. 58 della L. 06.08.2008 n. 133 il tratto di strada
individuato nella particella 649, foglio 13 ed indicato
quale prolungamento di "Via Casa Marangi";
b) della successiva deliberazione dello stesso Consiglio
Comunale di Lettere, n. 26 del 31.8.2015, pubblicata
mediante affissione all'albo pretorio dal 04.09.2015 al
19.09.2015, avente ad oggetto "Mozione per la revoca in
autotutela della delibera di Consiglio Comunale n. 20 del
06/07/2015, ai sensi dell'art. 21-quinques legge 241/1990,
art. 43, comma 1, D.lgs. 267/2000, art. 13, comma 1 e 2, del
vigente Statuto Comunale, artt. 15, 16 e 17 del Regolamento
per il funzionamento del Consiglio Comunale", con la
quale si delibera "di non approvare relativamente
all'argomento in oggetto la suddetta mozione di
deliberazione così come formulata a cura del consigliere
Manzo Filippo, facendo proprio il contenuto della proposta
sindacale";
...
7. Il Collegio al riguardo, richiamandosi
ai propri precedenti in materia
(da ultimo Tar Campania, sez. VII sent. n. 1752 del
25/03/2011; n. 1397 del 12/03/2010; n. 1651 del 25/03/2010;
n. 16427 del 29/06/2010) non può che
rilevare il difetto di giurisdizione dell’adito G.A..
7.1 Va ribadito, infatti, che, secondo la
giurisprudenza assolutamente prevalente
(cfr. Cass. civ. Sez. U., ordinanza n. 1624 del 27/01/2010;
Sez. U, ordinanza n. 6406 del 17/03/2010; Consiglio di
Stato, Sez. V, n. 5422 del 10.09.2009; Consiglio di Stato
sez. V, n. 522 del 07.04.1995; Cass. SS. UU. n. 5457 del
13.10.1980; Cass. SS.UU. n. 3302 del 12.06.1979; TAR Valle
d’Aosta n. 86 del 13.11.2009; TAR Campania Napoli n. 2040
del 20.04.2009; TAR Liguria n. 2053 del 27.11.2008; TAR
Trentino Alto Adige-Trento n. 286 del 10.11.2008; TAR
Lazio-Roma n. 3419 del 19.04.2007),
rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario le
controversie in tema di proprietà, pubblica o privata, delle
strade e circa l’esistenza di diritti di uso pubblico su
strade private, in quanto tali questioni hanno ad oggetto
l’accertamento dell’esistenza e dell’estensione di diritti
soggettivi, sia dei privati che della pubblica
Amministrazione.
7.2 Ed invero, nell’ipotesi di specie, parte ricorrente
contesta l’esistenza stessa dei presupposti per
l’inserimento della strada de qua fra le strade pubbliche e
pertanto la possibilità di sua inclusione nel piano di
alienazioni immobiliari, in considerazione della natura
privata del viale in questione.
7.3 Né al riguardo rilevano le specifiche censure dedotte da
parte ricorrente sub specie di difetto di istruttoria, in
quanto è noto che la giurisdizione si
determina in base alla domanda e, ai fini del riparto tra
giudice ordinario e giudice amministrativo, rileva non già
la prospettazione delle parti, bensì il "petitum"
sostanziale, il quale va identificato non solo e non tanto
in funzione della concreta pronuncia che si chiede al
giudice, ma anche e soprattutto in funzione della "causa
petendi", ossia della intrinseca natura della posizione
dedotta in giudizio ed individuata dal giudice con riguardo
ai fatti allegati ed al rapporto giuridico del quale detti
fatti costituiscono manifestazione
(fra le altre Cass. civ. Sez. U., ordinanza n. 12378 del
16/05/2008; Sez. U, ordinanza n. 15323 del 25/06/2010).
7.4 A tal riguardo è indubbio che la posizione fatta valere
da parte ricorrente sia di diritto soggettivo in quanto per
la giurisprudenza prevalente sia della Suprema Corte che del
Consiglio di Stato (da ultimo Civ., Sez. Un., 27.01.2010, n.
1624 cit.; Consiglio di Stato, Sez. V - sentenza 07.12.2010
n. 8624) “l’iscrizione di una strada
nell'elenco delle vie pubbliche o gravate da uso pubblico
non ha natura costitutiva e portata assoluta, ma riveste
funzione puramente dichiarativa della pretesa del Comune,
ponendo una semplice presunzione di pubblicità dell’uso,
superabile con la prova contraria della natura della strada
e dell’inesistenza di un diritto di godimento da parte della
collettività mediante un’azione negatoria di servitù";
analogamente Consiglio di Stato, Sez. V - sentenza
01.12.2006 n. 7081 ritiene che l’iscrizione
di una strada vicinale nell’elenco delle strade di uso
pubblico del Comune comporta una presunzione di pubblicità
della strada stessa, superabile solo con l’accertamento in
sede giudiziaria civile della sua natura privata.
7.6. Né vale a fondare il radicamento della giurisdizione
dell’adito G.A. la circostanza che il carattere pubblico
della strada sia stato rappresentato negli atti impugnati ai
fini della sua inclusione nel pieno di alienazioni
immobiliari, in quanto, come correttamente rappresentato
dalla difesa della controinteressata, nella stessa prima
delibera di C.C. n. 20 del 2015 oggetto di impugnativa si
afferma che l’inserimento dei beni immobili nel Piano ne
determina la classificazione come bene disponibile e la
destinazione urbanistica, anche in variante, ai vigenti
strumenti urbanistici e che la stessa ha effetto
dichiarativo della proprietà, anche in assenza di precedente
trascrizione, producendo gli effetti previsti dall’art. 2644
c.c..
La natura puramente dichiarativa
dell’elenco del Piano delle Alienazioni immobiliari di cui
alle citate delibere, al pari di quella discendente
dall’iscrizione della strade tra quelle pubbliche o di uso
pubblico, non lascia pertanto spazi per la sussistenza della
giurisdizione dell’adito G.A., non potendo detta inclusione,
in quanto di carattere meramente dichiarativo –e non
costitutivo- e pertanto di natura paritetica, rilevare come
atto autoritativo di carattere ablativo della proprietà
privata.
7.5 Né può ritenersi la sussistenza della giurisdizione
dell’adito G.A. ai sensi dell’art. 34 D.Lgs. n. 80/1998 (ora
ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. f), c.p.a.) in quanto
come ritenuto dal Consiglio di Stato sez. V, con sentenza
del 10.09.2009, n. 5422, (avente ad oggetto l’annullamento
di una nota comunale di inclusione di una strada privata fra
le strade vicinali, ossia fra le strade ad uso pubblico) la
disposizione citata va interpretata in senso
costituzionalmente orientato (Corte Cost. n. 204/2004 e n.
191/2006 ) e, quindi, deve escludersi che essa abbia esteso
l'alveo della giurisdizione amministrativa a liti -come la
presente- non riconducibili, nemmeno mediatamente,
all'esercizio di un pubblico potere.
8. Va quindi dichiarato il difetto di
giurisdizione dell’adito G.A. in favore del G.O., con
conseguente inammissibilità dell’odierno ricorso.
9. Restano salvi gli effetti processuali e
sostanziali della domanda se il processo è riproposto
innanzi al G.O. nel termine perentorio di tre mesi dal
passaggio in giudicato della presene sentenza, ex art. 11
c.p.a. (traslatio iudicii). |
EDILIZIA PRIVATA: In
generale, rientra nel concetto di costruzione ogni
manufatto, di qualunque materiale esso sia costituito, che
emerga in modo sensibile al di sopra del livello del suolo o
non sia completamente interrato e che, pur difettando di una
propria individualità, per struttura, solidità, compattezza,
consistenza e sporgenza dal terreno, sia idoneo a creare
quelle intercapedini dannose, in quanto impediscono il
passaggio di aria e luce, che la legge, stabilendo la
distanza minima fra le costruzioni, intende evitare.
Pertanto, alla luce delle suesposte considerazioni, appare
coerente con le finalità di pubblico interesse l’esclusione
dalla disciplina delle distanza dei manufatti non più alti
di un metro in quanto, appunto, configurano entità
trascurabili rispetto all'interesse tutelato dalla norma
considerato nel suo triplice aspetto della tutela della
sicurezza, della salubrità e dell'igiene.
---------------
L’argomento della ricorrente, che attiene invero più
all’interpretazione giurisprudenziale della normativa
vigente che a concreti profili di illegittimità delle norme
genericamente richiamate, non trova peraltro riscontro nel
testo del R.E.
L’art. 11, comma 2, in materia di “distanze minime dei
fabbricati dai confini di proprietà”, stabilisce infatti che
“La distanza dei fabbricati dai confini di proprietà viene
determinata quale distanza minima tra il fabbricato in
qualsiasi punto, anche se aggettante, ed il confine”.
L’art. 12, comma 1°, dello stesso R.E., in materia di
“Distanze minime tra edifici” precisa che con tale
definizione si intende “…la distanza minima fra le
proiezioni verticali dei fabbricati, misurata nei punti di
massima sporgenza ad esclusione degli aggetti praticabili e
non praticabili compresi entro m. 1,20. I distacchi variano
da zona a zona ma è fissato un minimo assoluto”.
Il 2° comma dello stesso articolo precisa che “E’ prescritta
in tutti i casi la distanza minima assoluta di 10 metri tra
pareti finestrate e tra pareti di edifici antistanti”.
Alla luce dei ricordati testi normativi non è dato
comprendere sotto quale aspetto la previsione comunale si
ponga in concreto ed effettivo contrasto con i parametri
normativi richiamati.
Del pari privo di pregio è il rilievo che sarebbe
illegittima la disposizione impugnata nella parte in cui
prevede che “Fanno eccezione alla distanza minima così
definita i manufatti di qualsiasi genere, compresi gli
interrati e i seminterrati, non più alti in ogni punto di
1,00 metro dalla quota del piano stradale o del piano di
campagna allo stato naturale se più sfavorevole”.
Ed invero la pacifica giurisprudenza è concorde nel ritenere
che ratio della disposizione in oggetto sia quella di
impedire che tra costruzioni vicine si creino intercapedini
che, per la loro esiguità, abbiano a risultare pericolose
(sotto il profilo dell’insalubrità nonché dell’ordine
pubblico).
In generale, rientra nel concetto di costruzione ogni
manufatto, di qualunque materiale esso sia costituito, che
emerga in modo sensibile al di sopra del livello del suolo o
non sia completamente interrato e che, pur difettando di una
propria individualità, per struttura, solidità, compattezza,
consistenza e sporgenza dal terreno, sia idoneo a creare
quelle intercapedini dannose, in quanto impediscono il
passaggio di aria e luce, che la legge, stabilendo la
distanza minima fra le costruzioni, intende evitare.
Pertanto, alla luce delle suesposte considerazioni, appare
coerente con le finalità di pubblico interesse l’esclusione
dalla disciplina delle distanza dei manufatti non più alti
di un metro in quanto, appunto, configurano entità
trascurabili rispetto all'interesse tutelato dalla norma
considerato nel suo triplice aspetto della tutela della
sicurezza, della salubrità e dell'igiene
(TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza 03.02.2016 n. 98 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il c.d. piano "in pilotis " o piloty è lo spazio
a livello del suolo su cui insiste un edificio costruito su
piloni.
Esso, dunque, fintanto che resta aperto su tutti i lati e
destinato a parcheggio, sebbene non qualificabile come un
volume tecnico, non concorre a formare la volumetria
dell'edificio, rilevando in tal senso soltanto solo allorché
venga chiuso per essere utilizzato ad altri fini.
---------------
in materia urbanistico-edilizia il presupposto per
l'esistenza di un volume edilizio è costituito dalla
costruzione di (almeno) un piano di base e due superfici
verticali contigue, così da ottenere appunto una superficie
chiusa su un minimo di tre lati, non potendosi dunque
escludere in via generale dal computo della volumetria tale
tipologia di manufatti.
---------------
C – R.E. Artt. 13 e 126: contrasto con l’orientamento
giurisprudenziale consolidato in materia di volumi tecnici:
la censura va respinta senza necessità di alcuna
argomentazione non essendo stato individuato da parte della
ricorrente alcun parametro normativo violato dal Comune di
Tortoli.
D – R.E. Art. 14 - NTA del PUC, art. 45, comma 8, lettera
e): Violazione articoli 4 e 5 del decreto Floris - contrasto
con l’orientamento giurisprudenziale consolidato in materia
di calcolo dei volumi: in quanto la lettera b) del comma 2,
e i commi 3, 4 e 5 sarebbero in contrasto con l’orientamento
giurisprudenziale consolidato e con l’art. 4 del decreto Floris secondo cui costituisce volume urbanistico qualunque
spazio chiuso lateralmente per almeno tre lati.
Orbene, il riferimento al comma 2, lettera b) dell’art. 14 è
relativo alla detraibilità dal computo dei volumi del piano
pilotis per un’altezza pari a mt. 2,50.
La censura non merita accoglimento.
Il c.d. piano "in pilotis " o piloty è lo spazio a livello
del suolo su cui insiste un edificio costruito su piloni.
Esso, dunque, fintanto che resta aperto su tutti i lati e
destinato a parcheggio, sebbene non qualificabile come un
volume tecnico, non concorre a formare la volumetria
dell'edificio, rilevando in tal senso soltanto solo allorché
venga chiuso per essere utilizzato ad altri fini (in
termini, TAR Lazio, Sez. II-ter, n. 8644 dell’11.09.2009).
L’altro vizio di legittimità contestato dalla Regione
riguarda il 3° comma dell’art. 14, per il quale “Sono
inoltre escluse dal computo dei volumi le superfici chiuse
lateralmente su tre lati con profondità inferiore ai 2,50
metri”.
Tale censura merita accoglimento.
Ed invero in materia urbanistico-edilizia il presupposto
per l'esistenza di un volume edilizio è costituito dalla
costruzione di (almeno) un piano di base e due superfici
verticali contigue, così da ottenere appunto una superficie
chiusa su un minimo di tre lati (cfr. Tar Campania, Napoli, IV, 24.05.2010, n. 8342; Tar Piemonte, 12.07.2005, n. 2824),
non potendosi dunque escludere in via generale dal computo
della volumetria tale tipologia di manufatti.
Di qui l’annullamento dell’art. 14, comma 3°, del R.E.
(TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza 03.02.2016 n. 98 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Non esiste una differenza di ordine qualitativo
tra ampliamento e nuova costruzione.
L'ampliamento, infatti, costituisce una “modalità” di
realizzazione di una nuova costruzione che si concreta
essenzialmente nella realizzazione di nuovi manufatti che si
aggiungono alla struttura edilizia preesistente
modificandone l' estensione e la consistenza, con incremento
del valore originario; pertanto, il detto intervento si
traduce nella costruzione di corpi aggiunti, il cui
inserimento modifica la fisionomia strutturale e accresce la
consistenza volumetrica dell' edificio sul quale si
interviene, che risulta trasformato dalla realizzazione
della nuova opera..
In sostanza, ciò che distingue l'ampliamento dalla nuova
costruzione è l’iniziale relazione di accessorietà tra un
manufatto nuovo ed uno preesistente principale.
Pertanto il concetto di “nuova costruzione” riguarda non
solo la realizzazione di un manufatto su un'area libera, ma
anche ogni intervento di ristrutturazione che rende un
manufatto oggettivamente diverso da quello preesistente, in
considerazione dell'entità delle modifiche; tenendo presente
che l'oggettiva diversità del manufatto, come emerge
dall'articolo 8 della legge 28.02.1985 n. 47 (relativo alla determinazione delle variazioni essenziali),
si ha per il solo fatto che sussiste "il mutamento della
destinazione d'uso che implichi la variazione degli standard".
In buona sostanza, ciò che distingue l'ampliamento dalla
nuova costruzione è la natura totalmente autonoma del
manufatto realizzato su un terreno inedificato ovvero
radicalmente innovativa rispetto alla costruzione
preesistente che caratterizza la seconda rispetto al primo.
Tali tipologie di intervento restano quindi assoggettate al
medesimo regime urbanistico senza che possa dunque ritenersi
legittimo introdurre in sede di pianificazione comunale, con
riguardo ad ampliamenti di notevole portata (fino al 40%) e
al fine di assoggettarli ad una diversa disciplina
urbanistica, una diversa qualificazione giuridica di
interventi edilizi sostanzialmente omogenei.
---------------
E – Regolamento Edilizio – art. 16 – Violazione principi
giurisprudenziali consolidati in materia – Contrasto con
l’orientamento giurisprudenziale consolidato in materia:
analogamente a quanto sopra rilevato sub C), la censura va
respinta senza necessità di alcuna argomentazione non
essendo stato individuato da parte della ricorrente alcun
parametro normativo violato dal Comune di Tortoli.
F) – Regolamento Edilizio – articoli 21 e 27 – Violazione
art. 3 del DPR n. 380/2001 e ss.mm.: con riguardo alla
modifica delle definizioni contenute nell’anzidetta
normativa statale, in particolare la definizione di
“manutenzione straordinaria” non può essere diversa da
quella prevista dalla lettera b) e la definizione di
“ampliamento” non può essere diversa da quella prevista
dalla lettera e.1) dello stesso DPR, secondo cui è “nuova
costruzione” ogni ampliamento realizzato all’esterno della
sagoma esistente, e non solo quello che supera il 40% del
volume.
Quanto al primo profilo, in mancanza del benché minimo
argomento dal quale ricavare quale sia il profilo di
contrasto con l’art. 3 del DPR n. 380/2001 individuato dalla
Regione (né aiuta il verbale n. 8 del CTRU a pag. 10,
parimenti generico), la definizione di “manutenzione
straordinaria” di cui all’art. 21 del R.E. appare coerente
con quanto previsto dalla normativa statale, con conseguente
reiezione della censura.
Merita invece accoglimento il secondo rilievo relativo
all’art. 27, comma 1 e 2, del R.E. per il quale “Si
definisce ampliamento di edificio esistente l’intervento che
comporta un incremento fino ad un massimo del 40% delle
superfici esistenti…; 2. Per incrementi superiori
l’intervento si considera di nuova costruzione”.
Va anzitutto premesso che non esiste una differenza di
ordine qualitativo tra ampliamento e nuova costruzione.
L'ampliamento, infatti, costituisce una “modalità” di
realizzazione di una nuova costruzione che si concreta
essenzialmente nella realizzazione di nuovi manufatti che si
aggiungono alla struttura edilizia preesistente
modificandone l' estensione e la consistenza, con incremento
del valore originario; pertanto, il detto intervento si
traduce nella costruzione di corpi aggiunti, il cui
inserimento modifica la fisionomia strutturale e accresce la
consistenza volumetrica dell' edificio sul quale si
interviene, che risulta trasformato dalla realizzazione
della nuova opera..
In sostanza, ciò che distingue l'ampliamento dalla nuova
costruzione è l’iniziale relazione di accessorietà tra un
manufatto nuovo ed uno preesistente principale.
Pertanto il concetto di “nuova costruzione” riguarda non
solo la realizzazione di un manufatto su un'area libera, ma
anche ogni intervento di ristrutturazione che rende un
manufatto oggettivamente diverso da quello preesistente, in
considerazione dell'entità delle modifiche; tenendo presente
che l'oggettiva diversità del manufatto, come emerge
dall'articolo 8 della legge 28.02.1985 n. 47 (relativo alla determinazione delle variazioni essenziali),
si ha per il solo fatto che sussiste "il mutamento della
destinazione d'uso che implichi la variazione degli standard"
(Cons. St., Sez. V, 03.02.1999, n. 98; Sez. V, 22.06.1998,
n. 921).
In buona sostanza, ciò che distingue l'ampliamento dalla
nuova costruzione è la natura totalmente autonoma del
manufatto realizzato su un terreno inedificato ovvero
radicalmente innovativa rispetto alla costruzione
preesistente che caratterizza la seconda rispetto al primo.
Tali tipologie di intervento restano quindi assoggettate al
medesimo regime urbanistico senza che possa dunque ritenersi
legittimo introdurre in sede di pianificazione comunale, con
riguardo ad ampliamenti di notevole portata (fino al 40%) e
al fine di assoggettarli ad una diversa disciplina
urbanistica, una diversa qualificazione giuridica di
interventi edilizi sostanzialmente omogenei.
Di qui l’accoglimento della censura e l’annullamento
dell’art. 27, comma 1 e 2, del R.E. (TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza 03.02.2016 n. 98 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Le disposizioni di cui al D.M. 05.07.1975,
finalizzate alla tutela di preminenti interessi pubblici,
integrano una normativa di rango primario e pertanto ad
esse, al pari di quanto accade per le disposizioni in
materia di sicurezza statica e di prevenzione degli incendi
e degli infortuni, dev’essere data un’interpretazione
strettamente letterale, con la conseguenza che tali
prescrizioni sono inderogabili da parte dei regolamenti
comunali.
---------------
G) – Regolamento Edilizio – articoli 26, 29, 30, 31, 32, 38,
39, 40 e ss. fino al 53 – Violazione della legge regionale
n. 23/1985, artt. 10-bis, 11, 14, 15 e 15-ter.
Sostiene in particolare la Regione che:
G.1) L’art. 26 del R.E. in materia di mutamenti di
destinazione d’uso sarebbe in contrasto con l’art. 11 della
L.R. n. 23/1985;
G.2) Gli artt. 29, 30, 31 e 32 che disciplinano le opere
interne, le opere minori, la sistemazione dei terreni e
l’arredo urbano sarebbero in contrasto con gli artt. 10-bis
e 15 della L.R. n. 23/1985;
G.3) Gli artt. 38, 39 e 40 che disciplinano le modalità per
la realizzazione di opere di edilizia libera, di opere
soggette a permesso di costruire e di opere soggette a
DIA/Autorizzazione edilizia sarebbero in contrasto con gli
artt. 10-bis, 15, 15-ter della L.R. n. 23/1985.
Ritiene il Collegio che le censure in esame, per come
genericamente formulate dalla ricorrente che, per ognuna di
esse si limita a richiamare un parametro normativo (peraltro
dal contenuto articolato e complesso) senza spendere neppure
un argomento per evidenziare profili di illegittimità
censurati vadano tutte respinte per genericità, non
potendosi ammettere che l’onere probatorio incombente sulla
parte ricorrente possa, nel giudizio amministrativo,
limitarsi ad una generico giudizio di difformità della
disposizione urbanistica impugnata rispetto alla normativa
di riferimento del tutto avulsa dalla prospettazione di
puntuali vizi dell'atto concretamente incidenti sugli
interessi riconducibili alla sfera giuridica della parte
ricorrente.
H – Regolamento Edilizio – Art. 73: Violazione dell’art. 1
del DM Sanità 05.07.1975.
La censura della Regione riguarda il 2° comma dell’art. 73
R.E. per il quale le disposizioni sulle altezze minime dei
locali abitabili “…non si applicano per gli interventi di
recupero del patrimonio edilizio esistente..”.
Tale previsione, infatti, sarebbe in contrasto col
richiamato decreto del 1975 che consente la deroga alle
altezze minime solo per i locali di abitazione di edifici
situati in ambito di Comunità montane sottoposti ad
interventi di recupero edilizio e di miglioramento delle
caratteristiche igienico sanitarie quando l’edificio
presenti caratteristiche tipologiche specifiche del luogo
meritevoli di conservazione.
Il motivo è fondato.
Le disposizioni di cui al D.M. 05.07.1975, finalizzate alla
tutela di preminenti interessi pubblici, integrano, infatti,
una normativa di rango primario e pertanto ad esse, al pari
di quanto accade per le disposizioni in materia di sicurezza
statica e di prevenzione degli incendi e degli infortuni, dev’essere data un’interpretazione strettamente letterale,
con la conseguenza che tali prescrizioni sono inderogabili
da parte dei regolamenti comunali.
Di qui l’illegittimità dell’art. 73, comma 2, del R.E. del
Comune di Tortolì (TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza 03.02.2016 n. 98 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il vincolo cimiteriale persegue la finalità di
pubblico interesse di assicurare, in primo luogo, condizioni
di igiene e di salubrità mediante la conservazione di una
"cintura sanitaria" intorno allo stesso cimitero e, in
secondo luogo, garantire la tranquillità e il decoro ai
luoghi di sepoltura.
Sul punto non è superfluo richiamare la giurisprudenza
formatasi in materia per la quale “La fascia di rispetto
cimiteriale prevista dall'art. 338 t.u. leggi sanitarie
27.07.1934 n. 1265, misurata a partire dal muro di cinta del
cimitero, costituisce un vincolo assoluto d'inedificabilità,
tale da imporsi anche a contrastanti previsioni di piano
regolatore generale, che non consente in alcun modo
l'allocazione sia di edifici che di opere incompatibili col
vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici interessi
pubblici che tale fascia di rispetto intende tutelare e che
sono da individuarsi in esigenze di natura
igienico-sanitaria, nella salvaguardia della peculiare
sacralità che connota i luoghi destinati all'inumazione e
alla sepoltura, nel mantenimento di un'area di possibile
espansione della cinta cimiteriale…”.
---------------
O.1 - Inoltre l’art. 58 delle NTA definisce le aree di
rispetto cimiteriale ma si pone in contrasto con l’art. 338
del TU leggi sanitarie in quanto la misura della fascia di
rispetto è pari a 200 metri e può essere ridotta, salvo
specifica autorizzazione ASL, solo per la costruzione di
nuovi cimiteri o l’ampliamento di quelli già esistenti e per
dare esecuzione ad un’opera pubblica o all’attuazione di un
intervento urbanistico.
L’art. 338 del T.U. delle leggi sanitarie (R.D. 27.07.1934 n. 1265) stabilisce che:
“I cimiteri devono essere collocati alla distanza di almeno
200 metri dal centro abitato. È vietato costruire intorno ai
cimiteri nuovi edifici entro il raggio di 200 metri dal
perimetro dell'impianto cimiteriale, quale risultante dagli
strumenti urbanistici vigenti nel comune o, in difetto di
essi, comunque quale esistente in fatto, salve le deroghe ed
eccezioni previste dalla legge.
…
Il consiglio comunale può approvare, previo parere
favorevole della competente azienda sanitaria locale, la
costruzione di nuovi cimiteri o l'ampliamento di quelli già
esistenti ad una distanza inferiore a 200 metri dal centro
abitato, purché non oltre il limite di 50 metri, quando
ricorrano, anche alternativamente, le seguenti condizioni:
a) risulti accertato dal medesimo consiglio comunale che,
per particolari condizioni locali, non sia possibile
provvedere altrimenti;
b) l'impianto cimiteriale sia separato dal centro urbano da
strade pubbliche almeno di livello comunale, sulla base
della classificazione prevista ai sensi della legislazione
vigente, o da fiumi, laghi o dislivelli naturali rilevanti,
ovvero da ponti o da impianti ferroviari.
Per dare esecuzione ad un'opera pubblica o all'attuazione di
un intervento urbanistico, purché non vi ostino ragioni
igienico-sanitarie, il consiglio comunale può consentire,
previo parere favorevole della competente azienda sanitaria
locale, la riduzione della zona di rispetto tenendo conto
degli elementi ambientali di pregio dell'area, autorizzando
l'ampliamento di edifici preesistenti o la costruzione di
nuovi edifici. La riduzione di cui al periodo precedente si
applica con identica procedura anche per la realizzazione di
parchi, giardini e annessi, parcheggi pubblici e privati,
attrezzature sportive, locali tecnici e serre.
…”.
Il rilievo della Regione è fondato e merita accoglimento sia
in ordine alla previsione di una ridotta fascia di rispetto
(100 m.) sia con riferimento alla mancata indicazione dei
casi tassativi in cui può essere derogata la previsione
normativa.
Il vincolo cimiteriale, infatti, persegue la finalità di
pubblico interesse di assicurare, in primo luogo, condizioni
di igiene e di salubrità mediante la conservazione di una
"cintura sanitaria" intorno allo stesso cimitero e, in
secondo luogo, garantire la tranquillità e il decoro ai
luoghi di sepoltura.
Sul punto non è superfluo richiamare la giurisprudenza
formatasi in materia per la quale “La fascia di rispetto
cimiteriale prevista dall'art. 338 t.u. leggi sanitarie
27.07.1934 n. 1265, misurata a partire dal muro di cinta del
cimitero, costituisce un vincolo assoluto d'inedificabilità,
tale da imporsi anche a contrastanti previsioni di piano
regolatore generale, che non consente in alcun modo
l'allocazione sia di edifici che di opere incompatibili col
vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici interessi
pubblici che tale fascia di rispetto intende tutelare e che
sono da individuarsi in esigenze di natura
igienico-sanitaria, nella salvaguardia della peculiare
sacralità che connota i luoghi destinati all'inumazione e
alla sepoltura, nel mantenimento di un'area di possibile
espansione della cinta cimiteriale…” (Cons. Stato, Sez. IV,
n. 4403 del 2011).
Di qui l’annullamento dell’art. 58 delle NTA del PUC per
quanto in contrasto con l’art. 338 del T.U. leggi sanitarie
(TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza 03.02.2016 n. 98 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Pacifica
è la diversa natura degli oneri di urbanizzazione,
che compensano la collettività per il nuovo ed ulteriore
carico urbanistico che si riversa sulla zona, rispetto ai
costi di costruzione che vogliono essere una
compartecipazione comunale all’incremento di valore della
proprietà immobiliare del costruttore, a seguito della nuova
edificazione; si tratterebbe, quindi, di una prestazione
patrimoniale aggiuntiva, di carattere paratributario, che
non sarebbe negoziabile.
La terminologia adoperata di “sgravio”, “scomputo”,
“compensazione”, implica, in presenza di una convenzione
edilizia, una negoziazione inter partes, che non significa
affatto rinunce e/o abbuoni di somme dovute, ma serve per
concordare soluzioni per adempiere alle obbligazioni
previste e stabilite, in modo equivalente e sostitutivo,
fermo restando la corrispondenza all’importo pecuniario
quantificato; attraverso di essa, la parte pubblica tende a
realizzare, in modo tempestivo e proficuo, ulteriori opere a
vantaggio della collettività, circostanza che giustifica
l’utilizzo di siffatte somme paratributarie.
L’art. 16 del DPR n. 380/2001, su cui fa perno la tesi del
Comune, prevede la corresponsione di un contributo
commisurato all’incidenza degli oneri sociali di
urbanizzazione, nonché al costo di costruzione; esso,
pertanto, è composto da due quote distinte: gli
oneri di urbanizzazione, che non sono dovuti se il
titolare del permesso si obbliga a realizzare direttamente
tali opere, le quali resteranno acquisite al patrimonio
indisponibile del Comune (cd. scomputo totale e/o parziale),
ed il costo di costruzione, che, invece, essendo una
percentuale (dal 5 al 20%) rapportata non ad opere da fare
per la collettività, ma ai costi di costruzione per
tipologia edilizia, adeguati annualmente, non sono
suscettibile di entrare in quel meccanismo dello scomputo,
ma non per questo è possibile ricavare la regola fiscale di
un pagamento pecuniario.
Quel che va verificato, una volta che il Comune ha richiesto
lavori aggiuntivi alle stesse opere di urbanizzazione, è la
loro adeguatezza ai costi di costruzione dovuti; la
indisponibilità, infatti, è nel senso che essi sono previsti
e quantificati per legge, ma la forma del pagamento, con
compensazione o meno, è rimessa all’accordo delle parti.
L’art. 16 citato non costituisce, quindi, un impedimento ad
un eventuale accordo sostitutivo anche per il costo di
costruzione, né esso si pone come norma imperativa in senso
negativo, solo perché lo scomputo è oggettivamente possibile
unicamente per gli oneri urbanistici; ciò spiega il perché
la norma si è limitata ad indicare i soli oneri urbanistici
come scomputabili, ma non è affatto possibile affermare che
sussiste un divieto tassativo per forme alternative di
pagamento e/o compensazione con opere urbanistiche anche per
i costi di costruzione.
Nei casi di edilizia abitativa convenzionata (art. 17 DPR.
380/2001), invero, il costo di costruzione è barattabile con
i prezzi di vendita e i canoni di locazione (indicizzati),
mediante accordo tra Comune e costruttore.
---------------
La natura paratributaria se esclude ogni disponibilità del
quantum dovuto, che ha criteri prefissati, non impedisce al
Comune di negoziare tale importo per altri precisi
adempimenti urbanistici, quali infrastrutture ed opere
sociali e civiche.
Nella fattispecie il Comune ha espressamente compensato tali
costi con la richiesta di ulteriori lavori ed adempimenti
operativi, tanto è vero che si è premurato di stabilire il
tetto complessivo delle somme in compensazione, che, se
sforate in plus, restano a carico della sola società, senza
alcuno esborso da parte dell’ente.
Non è, pertanto, rilevabile alcuna nullità assoluta per la
clausola compensativa posta in convenzione, né è possibile
alcuna sostituzione automatica della stessa con la regola
del versamento pecuniario, che, nel caso di specie, sarebbe
aggiuntivo ed implicherebbe il pagamento, da parte del
Comune, delle opere ulteriori realizzate dalla ditta; la
forma solutoria dei costi di costruzione, fermo il quantum e
la doverosità, non ha alcuna tipizzazione monetaria
inderogabile.
---------------
... per l'annullamento DELLA DELIBERA N. 61 DELL'08.10.2009
CON CUI IL C.C. DEL COMUNE DI SPOLTORE CONVALIDA
PARZIALMENTE LA DELIBERA DI G.M. N. 49/2001 DI ADOZIONE
DELLE MODIFICHE ALLE N.T.A. DEL P.P. DIREZIONALE VILLA
RASPA; NONCHÈ DELLA DELIBERA DI G.M. N. 260 DEL 05.11.2009
NELLA PARTE IN CUI DISPONE NEI CONFRONTI DELLA DITTA
RICORRENTE IL PAGAMENTO DEL COSTO DI COSTRUZIONE E DEL
RICHIESTO PAGAMENTO.
...
La delibera comunale n. 61/2009 si prospetta come atto
modificativo dell’art. 8 delle NTA del P.P. (zona
direzionale Villa Raspa), sostituendo alla frase “potranno
essere scomputati dagli oneri concessori dovuti”, altra
che dice “potranno essere scomputati dagli oneri di
urbanizzazione primaria e secondaria dovuti”, e
dell’art. 6 della convenzione tipo allagata alle NTA,
prevedendo che “resta in ogni caso dovuto … l’importo
relativo ai costi di costruzione delle opere”; obbligo
riaffermato nel provvedimento di G.M. n. 260/2009.
IL soggetto attuatore, pertanto, dovrà realizzare a proprie
spese tutte le opere di urbanizzazione primaria, cedendole
con relative aree, infrastrutture, impianti ed attrezzature
pubbliche del comprensorio, per una percentuale del 5% “delle
Se delle zone a servizi previsti nel comprensorio”.
L’atto è stato reso immediatamente eseguibile.
IL Comune sostiene che si tratta di una variante adottata
che farà il suo percorso ex lege, ai fini
dell’approvazione, e che comunque per il richiesto pagamento
dei costi di costruzione è stato utilizzato l’art. 1419,
comma 2°, cod. civ. con la sostituzione automatica nella
convenzione della norma imperativa, rappresentata dall’art.
16 del DPR n. 380/2001, mentre gli annullamenti degli atti
rappresentano un’autotutela immediata.
Pacifica è la diversa natura degli oneri di
urbanizzazione, che compensano la collettività per il
nuovo ed ulteriore carico urbanistico che si riversa sulla
zona, rispetto ai costi di costruzione che vogliono
essere una compartecipazione comunale all’incremento di
valore della proprietà immobiliare del costruttore, a
seguito della nuova edificazione; si tratterebbe, quindi, di
una prestazione patrimoniale aggiuntiva, di carattere
paratributario, che non sarebbe negoziabile.
La terminologia adoperata di “sgravio”, “scomputo”,
“compensazione”, implica, in presenza di una
convenzione edilizia, una negoziazione inter partes,
che non significa affatto rinunce e/o abbuoni di somme
dovute, ma serve per concordare soluzioni per adempiere alle
obbligazioni previste e stabilite, in modo equivalente e
sostitutivo, fermo restando la corrispondenza all’importo
pecuniario quantificato; attraverso di essa, la parte
pubblica tende a realizzare, in modo tempestivo e proficuo,
ulteriori opere a vantaggio della collettività, circostanza
che giustifica l’utilizzo di siffatte somme paratributarie.
L’art. 16 del DPR n. 380/2001, su cui fa perno la tesi del
Comune, prevede la corresponsione di un contributo
commisurato all’incidenza degli oneri sociali di
urbanizzazione, nonché al costo di costruzione; esso,
pertanto, è composto da due quote distinte: gli
oneri di urbanizzazione, che non sono dovuti se il
titolare del permesso si obbliga a realizzare direttamente
tali opere, le quali resteranno acquisite al patrimonio
indisponibile del Comune (cd. scomputo totale e/o parziale),
ed il costo di costruzione, che, invece, essendo una
percentuale (dal 5 al 20%) rapportata non ad opere da fare
per la collettività, ma ai costi di costruzione per
tipologia edilizia, adeguati annualmente, non sono
suscettibile di entrare in quel meccanismo dello scomputo,
ma non per questo è possibile ricavare la regola fiscale di
un pagamento pecuniario.
Quel che va verificato, una volta che il Comune ha richiesto
lavori aggiuntivi alle stesse opere di urbanizzazione, è la
loro adeguatezza ai costi di costruzione dovuti; la
indisponibilità, infatti, è nel senso che essi sono previsti
e quantificati per legge, ma la forma del pagamento, con
compensazione o meno, è rimessa all’accordo delle parti.
L’art. 16 citato non costituisce, quindi, un impedimento ad
un eventuale accordo sostitutivo anche per il costo di
costruzione, né esso si pone come norma imperativa in senso
negativo, solo perché lo scomputo è oggettivamente possibile
unicamente per gli oneri urbanistici; ciò spiega il perché
la norma si è limitata ad indicare i soli oneri urbanistici
come scomputabili, ma non è affatto possibile affermare che
sussiste un divieto tassativo per forme alternative di
pagamento e/o compensazione con opere urbanistiche anche per
i costi di costruzione.
Nei casi di edilizia abitativa convenzionata (art. 17 DPR.
380/2001), invero, il costo di costruzione è barattabile con
i prezzi di vendita e i canoni di locazione (indicizzati),
mediante accordo tra Comune e costruttore.
La LRA n. 18/1983, quale modificata dalla LRA. n. 70/1995,
stabilisce anch’essa la corresponsione di un contributo
commisurato alle spese di urbanizzazione ed al costo di
costruzione (art.60), senza null’altro di particolare, il
che conferma l’assenza di ogni norma imperativa circa la
forma dell’incasso, mentre è essenziale che l’entrata
finanziaria vi sia, ancorché destinata, in contestuale, ad
altre opere pubbliche.
La natura paratributaria se esclude ogni disponibilità del
quantum dovuto, che ha criteri prefissati, non
impedisce al Comune di negoziare tale importo per altri
precisi adempimenti urbanistici, quali infrastrutture ed
opere sociali e civiche.
Nella fattispecie il Comune ha espressamente compensato tali
costi con la richiesta di ulteriori lavori ed adempimenti
operativi, tanto è vero che si è premurato di stabilire il
tetto complessivo delle somme in compensazione, che, se
sforate in plus, restano a carico della sola società,
senza alcuno esborso da parte dell’ente.
Non è, pertanto, rilevabile alcuna nullità assoluta per la
clausola compensativa posta in convenzione, né è possibile
alcuna sostituzione automatica della stessa con la regola
del versamento pecuniario, che, nel caso di specie, sarebbe
aggiuntivo ed implicherebbe il pagamento, da parte del
Comune, delle opere ulteriori realizzate dalla ditta; la
forma solutoria dei costi di costruzione, fermo il
quantum e la doverosità, non ha alcuna tipizzazione
monetaria inderogabile.
Che il Comune voglia cambiare il sistema adottato in
precedenza, è nella sua discrezionalità, ma vanno
salvaguardati gli effetti di quanto già concordato inter
partes; l’art. 136 L. n. 311/2004, invero, prevede come,
anche in ipotesi di provvedimenti illegittimi, sia
salvaguardata la posizione patrimoniale del privato che ha
il rapporto convenzionale con l’ente pubblico, rafforzando
quello che è l’affidamento del cittadino nei confronti
dell’Amministrazione, nonché gli equilibri economici
contrattati.
L’annullamento d’ufficio in autotutela risulta, inoltre,
conflittuale con l’art. 21-septies L. n. 241/1990, non
rinvenendosi nella fattispecie nessuna delle ipotesi
tassative di legge.
Conclusivamente il ricorso è accolto nei limiti degli
interessi di parte ricorrente e le spese seguono la
soccombenza
(TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 18.10.2010 n. 1142 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 29.03.2016 |
ã |
Non spetta l'incentivo
alla progettazione interna per i lavori di
manutenzione ordinaria e straordinaria
che dir si voglia.
AMEN!! |
Con l'AGGIORNAMENTO
AL 21.12.2015 davamo conto di come la
Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna,
avesse deferito alla Sezione delle Autonomie
ovvero alle Sezioni riunite il
quesito relativo alla
possibilità o meno di corrispondere l’incentivo alla
progettazione per le attività di manutenzione
straordinaria anche a seguito delle modifiche
normative introdotte dall’articolo 13-bis del
decreto-legge 24.06.2014, n. 90, convertito, con
modificazioni, in legge 11.08.2014, n. 114.
Ebbene, la Sez. Autonomie della Corte dei Conti ha
posto fine al variegato e contrastante panorama
interpretativo delle sezioni regionali in questi
termini: "la
corretta interpretazione dell’articolo 93, comma
7-ter, d.lgs. 163/2006, alla luce delle disposizioni
recate dal d.l. n. 90/2014 e dei criteri individuati
dalla legge delega n. 11/2016, è nel senso dell’esclusione
dall’incentivo alla progettazione interna di
qualunque attività manutentiva, senza distinzione
tra manutenzione ordinaria o straordinaria".
Di seguito il parere: |
INCENTIVO PROGETTAZIONE:
Questione di massima sulla corretta interpretazione
dell’articolo 93, comma 7-ter, d.lgs. n. 163/2006, alla luce
delle disposizioni recate dal d.l. n. 90/2014 e dei criteri
individuati dalla legge delega n. 11/2016.
La corretta interpretazione
dell’articolo 93, comma 7-ter, d.lgs. 163/2006, alla luce
delle disposizioni recate dal d.l. n. 90/2014 e dei criteri
individuati dalla legge delega n. 11/2016, è nel senso dell’esclusione
dall’incentivo alla progettazione interna di
qualunque attività manutentiva, senza distinzione tra
manutenzione ordinaria o straordinaria.
---------------
Resta ferma la necessità per gli enti locali di adeguare
tempestivamente la disciplina regolamentare in materia,
nella quale, peraltro, trova necessario presupposto
l’erogazione dei predetti incentivi.
---------------
PREMESSO
Con
parere 15.12.2015 n. 155 e
parere 15.12.2015 n. 156 la Sezione regionale di
controllo per l’Emilia Romagna, in esito alle richieste di
parere avanzate, rispettivamente, dai Sindaci dei Comuni di
Ferrara e di Coriano, ha sospeso i due giudizi in corso,
rimettendo i relativi atti al Presidente della Corte dei
conti, per il deferimento in un’unica soluzione –stante la
coincidenza dell’oggetto delle questioni poste- alla Sezione
delle autonomie, ai sensi dell’art. 6, comma 4, del d.l.
10.10.2012, n. 174, convertito, con modificazioni, dalla
legge 07.12.2012, n. 213 e s.m.i..
La richiesta di parere, articolata in tre quesiti dal Comune
di Ferrara, è volta a conoscere l’avviso della suddetta
Sezione Regionale di controllo in ordine alla corretta
interpretazione dell’art. 93, comma 7-ter, del d.lgs.
12.04.2006, n.163 a seguito delle modifiche recate dagli
articoli 13 e 13-bis del d.l. 24.06.2014, n. 90 convertito
dalla l. n. 114/2014.
L’Amministrazione comunale chiede, fra l’altro, se le opere
di manutenzione siano completamente escluse dal
riparto del fondo per la progettazione e l’innovazione,
oppure se sia possibile distinguere tra le attività di
manutenzione ordinaria, escluse dall’incentivo, e quelle
di manutenzione straordinaria, che, differenziandosi
dalle prime per tipologia e complessità dei lavori e
richiedendo un’attività progettuale specialistica, possano
essere oggetto di incentivazione.
Nel
parere 15.12.2015 n. 155,
la Sezione Regionale di controllo ha ritenuto di dare
soluzione solo a due dei tre quesiti posti dal Comune di
Ferrara, affermando che l’incentivo alla progettazione può
essere corrisposto alle sole figure professionali
espressamente indicate dal legislatore e precisando, per
quanto riguarda la questione di diritto intertemporale, che
debbono essere richiamati i principi contenuti nella
deliberazione 24.03.2015 n. 11 della Sezione
delle Autonomie.
In ordine, infine, all’ulteriore quesito proposto, la
Sezione, ravvisando un contrasto interpretativo fra le
Sezioni regionali di controllo, ha deciso di rimettere la
questione al Presidente della Corte dei conti.
Analogo esito ha avuto la richiesta formulata dal Comune di
Coriano concernente una questione similare alla precedente.
Nel
parere 15.12.2015 n. 156,
infatti, la suddetta Sezione ha rimesso la questione
all’odierno esame, evidenziando come l’orientamento che si
era consolidato prima della novella recata dal d.l. n.
90/2014 (Sez. Toscana
parere 19.03.2013 n. 15 e
parere 13.11.2012 n. 293; Sez. Lombardia
parere 06.03.2013 n. 72, Sez. Liguria
parere 10.05.2013 n. 24), fosse inteso a
riconoscere il predetto emolumento solo per la
manutenzione straordinaria, purché preceduta da
un’attività di progettazione e ad escluderlo, invece, nelle
ipotesi di interventi qualificabili come attività di
manutenzione ordinaria.
Successivamente, alla luce della nuova formulazione del
comma 7-ter dell’articolo 93 d.lgs. n. 163/2006,
che esclude espressamente dall’incentivazione le attività di
manutenzione, sarebbe venuta meno l’uniformità di
interpretazione da parte delle Sezioni regionali di
controllo, le quali hanno espresso in merito pareri
discordanti.
Alla luce di tale contrasto interpretativo, la Sezione
regionale di controllo per l’Emilia Romagna ha sottoposto la
questione al Presidente della Corte dei conti per il suo
deferimento alla Sezione delle autonomie, in ragione della
necessità di individuare un indirizzo interpretativo univoco
della normativa esaminata.
Il Presidente della Corte dei conti, con l’ordinanza n. 4
del 25.01.2016, ha deferito la questione alla Sezione delle
autonomie, fissando, con successiva convocazione, la
discussione della stessa questione al punto 2) dell’ordine
del giorno dell’odierna adunanza.
CONSIDERATO
1. La Sezione è chiamata ad esprimere il proprio avviso in
merito alla questione di massima sollevata, ai sensi
dell’art. 6, comma 4, del d.l. n. 174/2012, dalla Sezione
regionale di controllo per l’Emilia Romagna con il
parere 15.12.2015 n. 155
e
parere 15.12.2015 n. 156
e concernente l’interpretazione dell’articolo
93, comma 7-ter, del d.lgs. n. 163/2006, come
introdotto dall’art. 13-bis del d.l. n. 90/20014, convertito
con modificazioni dalla legge n. 114/2014 ed, in
particolare, in merito alla possibilità che l’incentivo alla
progettazione possa essere corrisposto in relazione ad
attività di manutenzione straordinaria, implicanti compiti
di progettazione specialistica, anche a seguito delle novità
introdotte dal citato art. 13-bis.
La questione è stata sollevata in ragione del contrasto
interpretativo emerso nell’ambito dell’attività consultiva
svolta ex art. 7, comma 8, della legge 05.06.2003, n. 131,
dalle Sezioni regionali di controllo.
In particolare, secondo un orientamento, al quale hanno
aderito la Sezione regionale per la Lombardia nel
parere 28.10.2015 n. 351 e la Sezione regionale
per le Marche nel
parere 17.12.2014 n. 141, l’incentivo alla
progettazione può essere riconosciuto per le attività di
manutenzione straordinaria, purché si sia resa necessaria
una preventiva attività di progettazione.
A diverse conclusioni ermeneutiche sono pervenute altre
Sezioni regionali di controllo, tra cui la Sezione Toscana
(cfr.
parere 28.10.2015 n. 490), la Sezione Umbria
(cfr.
parere 14.05.2015 n. 71), la Sezione Liguria
(cfr.
parere 24.10.2014 n. 60), nonché la Sezione
Veneto (cfr.
parere 17.12.2015 n. 568), alle quali si aggiunge
la Sezione remittente.
Secondo il predetto indirizzo l’interpretazione letterale
della norma porta a sostenere che nessuna tipologia di
attività manutentiva, a prescindere dalla presenza o meno di
una preventiva attività di progettazione, possa essere
remunerata con l’incentivo previsto dall’art.
93, comma 7-ter, d.lgs. n. 163/2006.
La prima tesi che riconosce l’attribuzione
dell’incentivo in esame a favore delle attività di
manutenzione straordinaria, precedute da attività di
progettazione, si fonda sull’opportunità di coniugare
l’interpretazione letterale delle disposizioni in parola con
un’interpretazione sistematica, che tenga conto anche di
altre norme. In tal senso devono essere considerati l’art.
3, comma 1, lett. b), del DPR 06.06.2001, n. 380 (Testo
unico in materia di edilizia), che definisce le attività di
manutenzione straordinaria, l’art. 3, commi 7 e 8, del
d.lgs. n. 163/2006, che include nell’ambito degli appalti
pubblici di lavori anche “le attività di costruzione,
demolizione, recupero, ristrutturazione, restauro,
manutenzione di opere”, nonché l’art. 3, comma 18,
lettere a) e b), della legge 24.12.2003, n. 350 (legge
finanziaria per il 2004), che equipara gli interventi di
manutenzione straordinaria alla costruzione di nuove opere,
qualificandoli come spese di investimento, per le quali è
consentito il ricorso all’indebitamento.
Il contrapposto indirizzo interpretativo si fonda,
invece, sui comuni canoni ermeneutici sanciti dall’articolo
12 delle preleggi – ove si prevede che l’interpretazione
della norma sia, innanzitutto e principalmente, secondo il
senso palesato dal significato stesso delle parole che la
compongono (sul punto cfr. Cassazione Sez. Lav., sent. n.
1111 del 26.01.2012). Muovendo da tali presupposti, anche
sulla base di un’interpretazione sistematica delle norme,
tale orientamento ritiene di escludere la possibilità di
corrispondere l’incentivo per le attività di manutenzione
complessivamente intese, giacché il richiamo operato dalla
citata legge finanziaria non sarebbe pertinente, in quanto
rispondente ad una differente ratio legis.
A sostegno delle predette argomentazioni la Sezione
remittente invoca, altresì, il disegno di legge delega al
Governo per l’attuazione delle direttive 2014/23/UE,
2014/24/UE e 2014/25/UE in materia di concessioni e di
contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture (Atto
Senato 1678-B), divenuto successivamente
legge 28.01.2016, n. 11, nel cui ambito il
criterio enunciato alla lettera “rr” dell’art. 1 esclude
l’attribuzione del compenso incentivante per la
remunerazione delle fasi della progettazione.
2. Ai fini del corretto inquadramento della tematica –nel
rammentare la precedente giurisprudenza della Sezione in
materia e segnatamente la
deliberazione 15.04.2014 n. 7
e
deliberazione 24.03.2015 n. 11,
che hanno fissato rispettivamente i presupposti per il
riconoscimento del diritto all’incentivazione ed i limiti
temporali per l’applicazione delle novelle recate dal d.l.
n. 90/2014 in materia di tetto massimo alla corresponsione
degli incentivi alla progettazione– occorre prendere le
mosse dalla pre-vigente disciplina.
In particolare dall’articolo 92, commi 5 e 6, del codice
degli appalti pubblici (rubricato “corrispettivi,
incentivi per la progettazione e fondi a disposizione delle
stazioni appaltanti”), che prevedeva la possibilità di
ripartire per ogni singola opera o lavoro, secondo criteri
previsti in sede di contrattazione decentrata ed assunti in
un regolamento, una somma non superiore al due per cento
dell'importo posto a base di gara dell'opera o del lavoro,
tra i dipendenti coinvolti, tenendo conto delle
responsabilità professionali connesse alle specifiche
prestazioni da svolgere.
In costanza dell’anzidetto regime normativo e nel silenzio
delle disposizioni sullo specifico aspetto, il consolidato
orientamento delle Sezioni regionali di controllo in sede
consultiva aveva escluso dal novero delle attività
incentivabili la manutenzione ordinaria ed aveva
riconosciuto il predetto emolumento solo a favore delle
attività di manutenzione straordinaria, purché si
fosse resa necessaria un’attività di progettazione.
Il riferito indirizzo si è andato consolidando intorno ad
alcuni principi cardine riguardanti, fra l’altro, la
riconoscibilità dell’incentivo limitatamente all’area degli
appalti di lavori, con esclusione dei servizi manutentivi.
Con l’entrata in vigore dell’art. 13 del d.l. 24.06.2014, n.
90, convertito dalla l. n. 114/2014, i commi 5 e 6 dell’art.
92 sono stati abrogati.
Il successivo articolo 13-bis, rubricato “Fondi per la
progettazione e l'innovazione”, ha aggiunto all’art. 93
del d.lgs. n. 163/2006 il comma 7-bis, che, nell’istituire
un apposito fondo per la progettazione e l’innovazione,
demanda ad un regolamento dell’ente la determinazione della
percentuale effettiva delle risorse (non superiori al 2 per
cento degli importi posti a base di gara di un’opera o di un
lavoro) da destinare alle predette finalità.
Le risorse così determinate possono essere devolute, in
forza di quanto disposto dal successivo comma 7-ter, per
l’80 per cento ai compensi incentivanti da suddividere tra
il responsabile del procedimento e gli incaricati della
redazione del progetto, del piano della sicurezza, della
direzione lavori, del collaudo, nonché tra i loro
collaboratori. Il restante 20 per cento è destinato, dal
comma 7-quater all’acquisto da parte dell’ente di beni,
strumentazioni e tecnologie funzionali a progetti di
innovazione, di implementazione di banche dati per il
controllo ed il miglioramento della capacità di spesa per
centri di costo, nonché all’ammodernamento ed
all’accrescimento dell’efficienza dell’ente e dei servizi ai
cittadini.
Il secondo periodo del comma 7-ter dell’articolo 93 d.lgs.
n. 163/2006 demanda, altresì, al potere regolamentare di
ciascun ente la definizione dei “criteri di riparto delle
risorse del fondo, tenendo conto delle responsabilità
connesse alle specifiche prestazioni da svolgere, con
particolare riferimento a quelle effettivamente assunte e
non rientranti nella qualifica funzionale ricoperta, della
complessità delle opere, escludendo le attività manutentive,
e dell’effettivo rispetto, in fase di realizzazione
dell’opera, dei tempi e dei costi previsti dal quadro
economico del progetto esecutivo”.
3. Alla luce del quadro normativo di
riferimento appare evidente come il legislatore, con le
disposizioni di cui trattasi, sia intervenuto a modificare
profondamente la disciplina degli incentivi alla
progettazione, ridefinendone gli ambiti di operatività, sia
sotto il profilo soggettivo che sotto quello oggettivo.
In riferimento al primo aspetto, è stato
limitato l’ambito dei destinatari del nuovo fondo istituito
dal citato art. 13-bis, confinandolo, innanzitutto, alle
figure professionali espressamente individuate dalle norme (responsabile
del procedimento ed incaricati della redazione del
progetto, del piano della sicurezza, della
direzione dei lavori e dei loro collaboratori)
con esclusione di quelle aventi qualifica dirigenziale, per
le quali prevale senz’altro, il criterio
dell’onnicomprensività del trattamento economico.
Inoltre, la corresponsione dell’incentivo è
stata prevista a vantaggio esclusivo dei soggetti che
abbiano effettivamente svolto attività di progettazione non
rientranti fra le competenze della qualifica funzionale
ricoperta, al fine di riconoscere un differenziale
retributivo connesso al maggior carico di lavoro e di
responsabilità assunto dai dipendenti dei ruoli tecnici, per
lo svolgimento di tali attività.
Sotto il profilo oggettivo, nell’ottica del contenimento
delle dinamiche retributive del personale,
è stato ridotto del 50 per cento il tetto massimo
riconoscibile a favore di ogni singolo dipendente, prima
individuato nel trattamento economico annuo lordo. Inoltre,
le quote corrispondenti a prestazioni non svolte o,
comunque, non accertate e validate da parte del responsabile
del servizio preposto alla struttura competente,
costituiscono economie di spesa.
4. Dalla sintetica ricostruzione normativa proposta,
appare evidente, altresì, come le disposizioni
introdotte dal d.l. n. 90/2014 e dalla relativa legge di
conversione, mirino non solo ad una finalità di contenimento
della spesa ma anche ad una sua razionalizzazione.
In quest’ultima prospettiva si collocano, infatti, la
finalizzazione del fondo non più alla mera incentivazione,
bensì alla progettazione ed all’innovazione, con
destinazione della quota del 20% alle dotazioni
infrastrutturali necessarie a raggiungere tale obiettivo.
Alla medesima finalità appare diretta la previsione di una
graduabilità dell’incentivo in relazione ad alcuni parametri
collegati anche a tempi e costi previsti nel progetto
esecutivo dell’opera, il cui mancato rispetto può dar luogo
alla riduzione delle risorse destinate al fondo.
Tali obiettivi, peraltro, emergono con chiarezza anche nei
lavori preparatori del decreto legge n. 90 (d.d.l. A.S. 1582
e A.C. 2486-B), che ridimensiona la portata dell’istituto in
esame, in luogo dell’originaria proposta di soppressione
dello stesso.
La disposizione vigente, con espressione
inequivoca, esclude dagli incentivi alla progettazione l’attività
di manutenzione, da intendersi, ai sensi dell’art. 3 del
DPR n. 05.10.2010, n. 207, come combinazione di tutte le
azioni tecniche, specialistiche ed amministrative volte a
mantenere o a riportare un’opera o un impianto nella
condizione di svolgere la funzione prevista dal progetto.
Tale esclusione prescinde da eventuali differenziazioni fra
manutenzione ordinaria e straordinaria, che
pure esistono e sono chiaramente definite dalla disciplina
di settore (cfr.
art. 3, comma 1, lettere a) e b), del DPR 06.06.2001, n. 380
in materia di edilizia).
A proposito, inoltre, di progettazione
della manutenzione, come previsto dall’art. 38 del
citato DPR n. 207/2010 e ribadito dal comma 5 dell’art. 93
del d.lgs. n. 267/2000 (TUEL), uno specifico piano di
manutenzione dell’opera deve essere adottato, quale
documento complementare al progetto esecutivo, al fine di
prevedere e pianificare l’attività di manutenzione degli
interventi, per la conservazione nel tempo della
funzionalità, delle caratteristiche di qualità,
dell’efficienza e del valore economico.
Tuttavia, alla luce di quanto previsto dal
successivo art. 105 del citato regolamento di attuazione del
codice degli appalti, l‘esecuzione di lavori di
manutenzione, che prevedono il rinnovo o la sostituzione
di parti strutturali di opere, non può avvenire a
prescindere dalla redazione ed approvazione del progetto
esecutivo. L’attività di manutenzione, dunque, deve trovare
necessaria coerenza con le indicazioni contenute già in sede
di progetto esecutivo e soprattutto con le esigenze
dell’amministrazione legate alla piena fruibilità, nei tempi
programmati, di un’opera di interesse pubblico.
5. Tale ultimo aspetto risulta particolarmente valorizzato
dalla recente
legge 28.01.2016, n. 11 concernente la delega al
Governo per l’attuazione delle direttive 2014/23/UE,
2014/24/UE e 2014/25/UE in materia, rispettivamente di
concessioni, appalti pubblici nei settori ordinari e nei
settori speciali, nonché per il riordino della disciplina
vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori,
servizi e forniture, con contestuale abrogazione del vecchio
codice degli appalti.
In tale ambito, il criterio di delega enunciato alla lettera
“rr” dell’art. 1 prevede la destinazione del 2% dell’importo
posto a base di gara non più alla remunerazione delle fasi
della progettazione, quanto piuttosto a beneficio delle fasi
della programmazione della spesa per investimenti, della
predisposizione e controllo delle procedure di bando e di
esecuzione dei contratti pubblici, della direzione dei
lavori e dei collaudi, con particolare riferimento ai
profili dei tempi e dei costi, allo scopo di incentivare la
realizzazione dell’opera a regola d’arte e nei tempi
previsti dal progetto, senza alcun ricorso a varianti in
corso d’opera.
Il suddetto criterio, che esclude espressamente
l’applicazione degli incentivi alla progettazione, trova
conferma nello
schema di decreto legislativo varato dal Consiglio dei
Ministri del 03.03.2016, di prossima
approvazione, che, agli articoli da 21 a 27, reca la nuova
disciplina in materia di progettazione delle amministrazioni
aggiudicatrici e che, in linea con l’enunciato criterio di
delega, nulla dispone in merito ai predetti incentivi.
6. Conclusivamente, si ritiene di poter osservare che
la chiara formulazione dell’art. 93, comma 7-ter,
desumibile dall’applicazione del fondamentale canone
ermeneutico dell’interpretazione letterale non lasci spazio
ad altri criteri per così dire sussidiari, che finirebbero
inevitabilmente per alterare la voluntas legis,
espressa in modo inequivoco dal tenore letterale delle
disposizioni (in claris non fit interpretatio).
Disposizioni quelle in esame che escludono tout court
la riconoscibilità dell’incentivo alla progettazione nei
confronti di tutte le attività qualificabili come
manutentive, senza differenziazioni di sorta ed a
prescindere dalla progettazione, che, come è stato già
precisato, risulta strettamente connessa alla realizzazione
degli interventi di manutenzione straordinaria.
Qualora, infatti, l’art. 93, comma 7-ter,
avesse voluto circoscrivere la non remunerabilità alle sole
prestazioni tecniche relative ad interventi di
manutenzione ordinaria, peraltro già pacificamente
ammessa in via pretoria, avrebbe dovuto espressamente
disporre in tal senso (ubi lex voluit dixit, ubi noluit
tacuit). Oltre a ciò deve osservarsi che, ove limitata
ai soli interventi di manutenzione ordinaria, la
novella introdotta dall’art. 13-bis del d.l. n. 90/2014
sarebbe risultata priva di concreta portata innovativa
rispetto al regime antecedente, anche in termini di
risparmio di spesa.
Né a diverse conclusioni potrebbe giungersi sulla base
dell’art. 3, comma 18, lett. a) e b), della legge
24.12.2003, n. 350, invocato da alcune Sezioni regionali a
sostegno dell’attribuzione dell’incentivo a fronte di una
preventiva attività di programmazione, in quanto tale
disposizione appare tesa principalmente a limitare
l’utilizzo dell’indebitamento alle sole spese di
investimento, al fine di una corretta attuazione della
golden rule di cui all’art. 119, sesto comma, della
Costituzione.
Peraltro, all’interpretazione della norma nei sensi indicati
conduce anche l’evoluzione più recente del quadro normativo,
rappresentata dai criteri di delega contenuti nella
legge 28.01.2016, n. 11.
Resta ferma, infine, la necessità per gli
enti locali di adeguare tempestivamente la disciplina
regolamentare in materia, nella quale, peraltro, trova
necessario presupposto l’erogazione dei predetti incentivi.
P.Q.M.
La Sezione delle autonomie della Corte dei conti sulla
questione di massima rimessa dalla Sezione regionale di
controllo per l’Emilia Romagna, con il
parere 15.12.2015 n. 155 e
parere 15.12.2015 n. 156,
come ricostruita in parte motiva, pronuncia il seguente
principio di diritto: “la corretta
interpretazione dell’articolo 93, comma 7-ter, d.lgs.
163/2006, alla luce delle disposizioni recate dal d.l. n.
90/2014 e dei criteri individuati dalla legge delega n.
11/2016, è nel senso dell’esclusione dall’incentivo
alla progettazione interna di qualunque attività
manutentiva, senza distinzione tra manutenzione
ordinaria o straordinaria”.
La Sezione regionale di controllo per l’Emilia Romagna si
atterrà al principio enunciato nel presente atto di
indirizzo interpretativo, al quale si conformeranno tutte le
Sezioni regionali di controllo, ai sensi dell’art. 6, comma
4, del decreto legge 10.10.2012, n. 174, convertito dalla
legge n. 213/2012 (Corte dei Conti, Sez. Autonomie,
deliberazione 23.03.2016 n. 10). |
Si legga, anche,
un commento di stampa: |
INCENTIVO PROGETTAZIONE: Manutenzione, niente incentivi ai progettisti.
Il fondo per la progettazione e l'innovazione, quello che
destina compensi incentivanti non superiori al 2% degli
importi a base d'asta a determinate figure professionali
dell'ente, non può essere riconosciuto alle figure
dirigenziali per attività di manutenzione dell'opera né
ordinaria né straordinaria.
È quanto ha messo nero su bianco
la Sezione autonomie della Corte dei conti, nel testo della
deliberazione 23.03.2016 n. 10
con la quale ha chiarito la portata
delle innovazioni introdotte al codice degli appalti,
dall'articolo 13-bis del decreto legge n. 90/2014.
Nel dirimere la questione, la Corte ha principalmente
sottolineato che, nella nuova formulazione della norma,
essendo stati abrogati i commi 5 e 6 dell'articolo 92 del
dlgs n. 163/2006, l'erogazione dei compensi incentivanti
sono sottoposti a rigidi paletti.
Da un lato, l'80% va suddiviso tra il responsabile del
procedimento e gli incaricati della redazione del progetto,
del piano sicurezza, della direzione lavori e di collaudo,
mentre il restante 20% è destinato all'acquisto, da parte
dell'ente, di beni e strumenti che siano funzionali a
progetti di innovazione.
Da questa formulazione, pertanto, si deduce che vengono
esclusi dalla ripartizione delle risorse, quelle figure,
aventi qualifica dirigenziale che soggiacciono al criterio
dell'onnicomprensività del trattamento economico. In
pratica, le risorse vanno a che ha effettivamente svolto
attività di progettazione non rientrante tra la competenza
della qualifica funzionale ricoperta, così da riconoscere
una sorta di «differenziale retributivo connesso al maggior
carico di lavoro e di responsabilità che è stato assunto».
È pacifico, prosegue la Corte, che la
razionalizzazione del fondo non miri alla semplice
incentivazione, bensì alla progettazione ed
all'innovazione, soprattutto nella parte in cui
destina il venti per cento alle dotazioni
infrastrutturali necessarie a raggiungere tale
obiettivo.
Infine, è altrettanto chiaro (poiché non menzionate
dalla norma del codice degli appalti) che sono
escluse dagli incentivi alla progettazione, le mere
attività di manutenzione, senza differenziazioni di
sorta ed a prescindere dalla progettazione che,
pertanto, deve ritenersi strettamente connessa alla
realizzazione degli interventi di manutenzione
straordinaria
(articolo ItaliaOggi del 25.03.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
Ciò chiarito,
è giunta l'ora
di provvedere con urgenza alla ripetizione delle
somme (eventualmente) indebitamente erogate
a cura del Dirigente/P.O. -nei confronti dei propri
collaboratori- piuttosto che dell'Ufficio Personale
-nei confronti della P.O.- poiché, altrimenti, è
scontato che la Procura regionale contabile suonerà
il citofono di casa degli inadempienti colpevoli
(con dolo e colpa grave).
Al riguardo, giova qui ricordare altri soggetti
coinvolti e deputati al controllo quali:
il segretario
comunale, il ragioniere capo ed il Revisore dei
Conti e le
correlate personali responsabilità se non svolgono
il proprio dovere a' termini di legge (si legga una
variegata casistica raggruppata nell'apposito
dossier).
Non solo, la Corte delle Autonomie ricorda che "Resta
ferma la necessità per gli enti locali di adeguare
tempestivamente la disciplina regolamentare in
materia, nella quale, peraltro, trova necessario
presupposto l’erogazione dei predetti incentivi".
29.03.2016
- LA SEGRETERIA PTP |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
APPALTI:
F. Graziotto,
APPALTI PUBBLICI: il DURC deve essere regolare fin
dall’offerta - nota a sentenza n. 5/2016 Consiglio di Stato
– decisione in Adunanza Plenaria (23.03.2016
- tratto da www.ambientediritto.it). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, supplemento n. 13 del 29.03.2016, "Modifiche
alla legge regionale 09.12.2008, n. 31 (Testo unico delle
leggi regionali in materia di agricoltura, foreste, pesca e
sviluppo rurale) e alla legge regionale 16.08.1993, n. 26
(Norme per la protezione della fauna selvatica e per la
tutela dell’equilibrio ambientale e disciplina dell’attività
venatoria) conseguenti alle disposizioni della legge
regionale 08.07.2015, n. 19 e della legge regionale
12.10.2015, n. 32 e contestuali modifiche agli articoli 2 e
5 della l.r. 19/2015 e all’articolo 3 della l.r. 32/2015" (L.R.
25.03.2016 n. 7). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
Schema di decreto del Presidente della Repubblica
concernente regolamento recante disciplina semplificata
della gestione delle terre e rocce da scavo (Atto
del Governo n. 279):
●
Atto del Governo sottoposto a parere parlamentare -
26.02.2016
●
Schede di lettura - 09.03.2016 |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: "Attestazione di Prestazione Energetica (A.P.E.).
Descrizione dei servizi, della documentazione da produrre e
degli obblighi per il professionista" (Consiglio
Nazionale degli Ingegneri,
circolare 17.03.2016 n. 696). |
APPALTI FORNITURE - ENTI LOCALI - INCARICHI PROFESSIONALI -
PUBBLICO IMPIEGO:
OGGETTO: Enti ed organismi pubblici - bilancio di
previsione per l'esercizio 2016 - Circolare MEF-RGS n. 32
del 23.12.2015 - Ulteriori indicazioni (Ministero
dell'Economia e delle Finanze, Ragioneria Generale dello
Stato,
circolare 23.03.2016 n. 12).
---------------
Indice delle Schede
Scheda tematica G - Misure di contenimento della spesa
Scheda tematica G.1 - Efficientamento della spesa per
acquisti
Scheda tematica G.4 - Spese per organismi collegiali ed
altri organismi
Scheda tematica G.5 - Spese per acquisti di mobili e arredi
Scheda tematica G.6 - Spese per razionalizzazione degli
acquisti di beni e servizi informatici
Scheda tematica G.7 - Spesa per studi e incarichi di
consulenza
Scheda tematica G.8 - Spese per autovetture
Scheda tematica I - Indicazioni in materia di personale
Scheda tematica I.1 - Assunzioni, dotazioni organiche,
lavoro flessibile, ferie, riposi e permessi
Scheda tematica I.2 - Trattamento economico del personale
Scheda tematica I.3 - Contrattazione integrativa
Scheda tematica L - Piano degli indicatori e risultati
attesi di bilancio
Scheda tematica M - Monitoraggio della spesa pubblica e
versamenti al bilancio dello Stato |
PUBBLICO IMPIEGO:
Oggetto: Gestione Dipendenti Pubblici – Liquidazione
delle pensioni sul nuovo sistema (SIN 2) per i lavoratori
iscritti a gestioni diverse dalla Cassa Stato (INPS,
circolare
22.03.2016 n. 54). |
A.N.AC. (già
AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI) |
APPALTI: L'ex controllore pubblico non gareggia per l'appalto.
Delibera Anac chiarisce l'applicazione del «pantouflage».
A una gara pubblica non può partecipare una società il cui
socio e amministratore abbia rivestito cariche in una
società in house che in passato aveva gestito il servizio
oggetto dell'affidamento; la norma che impone l'applicazione
dell'istituto del «pantouflage» deve essere interpretata in
maniera ampia perché finalizzata a prevenire fenomeni
corruttivi e asimmetrie anticoncorrenziali.
È quanto ha
affermato l'Autorità nazionale anticorruzione con la
delibera
09.03.2016 n. 292 (affidamento in concessione
del servizio di parcheggi pubblici a pagamento senza
custodia - presunta violazione art. 53, comma 16-ter, del
d.lgs. n. 165/2001), rispetto ad una gara per
l'affidamento in concessione del servizio di parcheggi
pubblici a pagamento senza custodia a favore di una società
il cui presidente del consiglio di amministrazione e
proprietario del 50% delle quote sociali, aveva svolto la
funzione di direttore generale della società in house del
comune affidatario del servizio dal 2008 al 2014.
Il contenimento del rischio di situazioni di corruzione
connesse all'impiego del dipendente successivo alla
cessazione del rapporto di lavoro è disciplinato dall'art.
53, comma 16-ter, del dlgs 165/2001, stabilisce (per tre anni
dalla cessazione del servizio) il divieto di svolgimento di
attività professionale (cosiddetto «pantouflage») per i
dipendenti che, negli ultimi tre anni di servizio, hanno
esercitato poteri autoritativi o negoziali per conto delle
pubbliche amministrazioni; a tale divieto si aggiunge la
nullità dei contratti posti in essere in violazione del
divieto.
Si poneva, quindi il problema dell'estensione dei divieti e
delle nullità previste dal citato art. 53, comma 16-ter del
dlgs n. 165/2001, a un ex dipendente pubblico che abbia
deciso, successivamente alla cessazione del rapporto di
pubblico impiego, di costituirsi in proprio, anche in forma
societaria, per esercitare un'attività economica per la
quale abbia maturato specifica esperienza durante la
permanenza al servizio della pubblica amministrazione.
Secondo l'Avvocatura comunale, la norma nulla disporrebbe
con riferimento all'ex dipendente pubblico che decide di
diventare egli stesso operatore economico; viceversa l'Anac
accede ad una interpretazione ben più ampia.
La delibera chiarisce che le finalità perseguite dalla
disposizione impongono una lettura della stessa non limitata
al dato letterale ma ampia e conforme all'intenzione del
legislatore di contenere, attraverso l'istituto del «pantouflage»,
il rischio di situazioni di corruzione successive alla
cessazione del rapporto di lavoro e quindi si applica anche
se l'ex dipendente costituisce una propria società
prestandovi attività professionale. Diversamente, dice l'Anac,
si sarebbe determinata, in sede di formulazione
dell'offerta, un'asimmetria informativa in favore della
società aggiudicataria rispetto agli altri concorrenti, in
grado di minare il corretto svolgimento della procedura di
affidamento.
Inoltre, l'Anac specifica che, con riferimento
agli operatori economici presso i quali l'ex dipendente non
può prestare servizio nel periodo di raffreddamento devono
ritenersi inclusi anche gli operatori potenzialmente
destinatari dell'attività autoritativa e negoziale della
p.a. (nel caso tutti i partecipanti alla gara per
l'affidamento del servizio di gestione dei parcheggi a
pagamento del comune)
(articolo ItaliaOggi del 25.03.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
LAVORI PUBBLICI:
Il bollino Soa a maglie strette.
Più controlli sulle imprese edili per partecipare agli
appalti. L'Anac sui lavori oltre 150 mila euro. Perizia giurata e
codici Ateco per le verifiche.
Non è utilizzabile il silenzio-assenso nella verifica dei
documenti a comprova dei lavori privati per ottenere gli
attestati Soa (società organismo di attestazione); c'è
l'obbligo di fornire perizia giurata alla Soa per tutte le
operazioni di trasferimento che coinvolgono l'impresa di
costruzioni; la Soa può utilizzare anche i codici Ateco per
le verifiche sugli oggetti sociali delle imprese; è
illegittima la stipula del contratto di attestazione che
l'impresa edile stipula con la Soa nel periodo di
interdizione dell'impresa.
Sono questi alcuni dei
chiarimenti forniti dall'Autorità nazionale anticorruzione
con il
comunicato del Presidente 09.03.2016 siglato da Raffaele
Cantone e diffuso il 18 marzo che contiene diverse
precisazioni relative al «manuale sulla qualificazione per
l'esecuzione di lavori pubblici di importo superiore a 150
mila euro» del 16.10.2014 (pubblicato nella Gazzetta
Ufficiale del 28.10.2014).
Sono 22 i chiarimenti che,
nelle more di quanto verrà stabilito con il nuovo codice
appalti pubblici (che conferma l'utilizzo «di regola» del
sistema basato sulle Soa), vengono forniti su diverse
questioni interpretative. Fra i punti toccati, si ribadisce
la necessità che le Soa acquisiscano la perizia giurata per
tutte le operazioni che consolidano un trasferimento di
azienda (anche per scissioni, fusioni e operazioni
assimilabili); per l'Anac «gli altri documenti previsti dal
codice civile non risultano idonei».
Viene poi risolto un
problema di diritto transitorio relativo all'applicazione
delle nuove regole di valutazione alle operazioni di
cessioni/trasferimenti/affitti perfezionate prima
dell'entrata in vigore del Manuale alle imprese che chiedono
il rinnovo dell'attestazione. Rivedendo l'impostazione
iniziale l'Anac ritiene «possibile ammettere
l'inapplicabilità delle disposizioni del Manuale alle
operazioni di trasferimento aziendale sottoscritte in epoca
antecedente alla sua entrata in vigore e già oggetto di
valutazione ai fini del conseguimento dell'attestato di
qualificazione». Con riguardo alle verifiche sull'oggetto
sociale dell'impresa richiedente la qualificazione, l'Anac
ammette la richiesta dei Codice Ateco per tutte le società e
non solo per le ditte individuali, così da compiere una
ricognizione ampia delle attività svolte dalle imprese.
Il comunicato chiarisce poi che non è possibile
sottoscrivere il contratto di attestazione nel periodo di
interdizione dell'impresa. Per la dimostrazione dello stato
di fallimento e delle relative procedure concorsuali il
comunicato specifica le Soa dovranno rivolgersi alle
cancellerie dei Tribunali fallimentari di riferimento.
Sulle verifiche dei certificati di esecuzione lavori (Cel)
viene poi bocciata la proposta avanzata dalle Soa di evitare
la produzione della copia autenticata del progetto
approvato: per l'Anac «la copia autentica del progetto
approvato risulta tra la documentazione, individuata
specificatamente dal Regolamento attuativo, da esibire a
corredo dei Cel, riferiti a lavorazioni eseguite per
committenti non tenuti all'applicazione del Codice».
Per il Durc, ormai acquisibile dallo «Sportello Unico
Previdenziale», il comunicato chiarisce che non serve più
l'autodichiarazione e che le imprese possono ottenere in
tempo reale una certificazione valida 4 mesi di regolarità
contributiva. Importante il chiarimento sulle opere
superspecialistiche effettuate al di fuori della
contrattualistica pubblica: «potranno essere valutate
positivamente tutte le lavorazioni eseguite dall'esecutore
principale nelle categorie scorporabili senza alcuna
limitazione rispetto all'importo totale dell'intervento,
dovranno acquisire idonea documentazione contabile
sottoscritta dal direttore dei Lavori».
Il Comunicato
stabilisce poi che il silenzio assenso non può estendersi al
«riscontro di veridicità e sostanza», delle dichiarazioni e
dei documenti prodotti dalle imprese in sede di
qualificazione, effettuato dalle Soa presso le
amministrazioni pubbliche, trattandosi non di «assenso,
concerto, nulla osta» finalizzato all'adozione di un
provvedimento da parte della competente Pa, ma di mera
verifica/accertamento in ordine al contenuto di atti e
documenti prodotti dai privati ai fini del rilascio
dell'attestato
(articolo ItaliaOggi del 22.03.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Appalti, l'invito sarà la norma.
Servizi e forniture fino a 150 mila: l'80% verrà affidato.
La riforma del Codice appalti generalizza il ricorso alla
procedura negoziata per semplificare.
Affidamenti a trattativa privata, senza gara, con scarsa
qualità delle prestazioni; mancata rotazione di incarichi e
costi lievitati.
Sono questi alcuni dei di punti che
emergono dalla lettura della
delibera
02.03.2016 n. 207 (Oggetto: Roma Capitale –
Attività contrattuale con particolare riferimento alle
procedure negoziate - Attività ispettiva) dell'Autorità
nazionale anticorruzione sulla
gestione degli appalti a Roma nel periodo 2012-2014.
Le risultanze dell'approfondito lavoro dei tecnici di
Raffaele Cantone fanno riflettere anche in relazione alle
scelte che il governo sta compiendo con il nuovo Codice
appalti, un provvedimento che punta su una forte
semplificazione procedurale cui dovrebbe fare da contraltare
un sistema incisivo di vigilanza e controlli, favorito anche
da più alti livelli di trasparenza e pubblicità degli
affidamenti. Si tratta di una vera scommessa, molto
coraggiosa, che però alla luce dei recenti comportamenti di
un comune come Roma, potrebbe rivelarsi molto azzardata.
In estrema sintesi, il primo punto che l'Anac segnala nella
delibera è quello dell'utilizzo della procedura negoziata.
L'analisi si era già concentrata nei mesi scorsi su un
rilevante campione: 1.850 procedure negoziate (pari al 10%
del totale) espletate nel periodo 2012-2014; nella seconda
fase ne sono state selezionate 36 che sono state sottoposte
a ulteriori approfondimenti. Fra la prima e la seconda fase
ispettiva, però, si sono avute soltanto conferme di quelli
che Anac segnala come «rilevanti profili di criticità e
comportamenti delle strutture gestionali di Roma Capitale in
contrasto con le normative ed i regolamenti attuativi
vigenti».
L'elemento di maggiore rilevanza attiene alla carenza o al
difetto di motivazione dei presupposti per il ricorso alla
procedura negoziata oggi disciplinata dall'articolo 57 del
Codice dei contratti pubblici; i casi che l'Autorità segnala
sono quelli in cui l'affidamento è determinato da
fattispecie definite di estrema urgenza ma, in generale, si
può rilevare come la procedura negoziata senza bando a Roma
fosse divenuta la prevalente modalità di affidamento dei
contratti, per tutti i tipi di appalto, insieme agli
affidamenti diretti o in economia.
A tale riguardo, e in
prospettiva, il nuovo Codice appalti sembra muoversi non
coerentemente visto che, per servizi e forniture,
generalizza il ricorso alla procedura negoziata con invito a
tre fino a 150 mila euro e con verifica dei requisiti sul
solo aggiudicatario; si parla di un numero elevatissimo di
affidamenti (quasi l'80%) in cui la procedura negoziata ad
inviti diventerà un sistema generale e non, come dice anche
la giurisprudenza europea, eccezionale.
A ciò si aggiunga che il decreto conferma che, fino a 40
mila euro, la scelta può avvenire in via diretta. Su questo
punto la delibera evidenzia una generale violazione dei
principi di libera concorrenza, parità di trattamento, non
discriminazione, trasparenza e proporzionalità, per esempio,
negli affidamenti di servizi sociali e socio-sanitari e un
improprio ricorso all'affidamento diretto di servizi a
cooperative sociali.
In sostanza quindi, si denunciano «le ricadute negative
sulla qualità delle prestazioni, l'incremento dei costi, per
la lesione della concorrenza, come effetto della sottrazione
alle regole di competitività del mercato di una cospicua
quota di appalti, affidati per la maggior parte senza gara».
È lecito domandarsi se il nuovo Codice riuscirà a impedire
il ripetersi di questi comportamenti, assunti con le più
vincolistiche norme attuali. Molto dipenderà dall'incisività
dell'azione di vigilanza ex ante («collaborativa») ed ex
post (ispettiva) dell'Anac. Il nuovo Codice sembra
incentivare la discrezionalità delle amministrazioni. La
speranza è che non si tramuti in arbitrio
(articolo ItaliaOggi del 18.03.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
CORTE DEI CONTI |
PUBBLICO IMPIEGO: Comuni, niente incarichi lampo.
Impossibile attribuire ai funzionari obiettivi precisi.
Corte conti Liguria stigmatizza la prassi di affidare
posizioni organizzative per pochi giorni.
Illegittimi, ma prima di tutto illogici, gli incarichi a
funzionari nell'area delle posizioni organizzative per
periodi brevi, inferiori all'anno, così come illegittimi
sono gli incrementi alle risorse variabili del fondo decisi
ad anno finanziario avanzato.
La Corte dei conti, sezione regionale di controllo della
Liguria, con la
deliberazione 21.03.2016 n. 23 fa ordine
e chiarezza su due punti da sempre tutto sommato chiari
nella normativa, ma molto di frequente gestiti in modo
difforme dalla prassi.
Posizioni organizzative. Ai sensi dell'articolo 9, commi 1 e
4, del Ccnl 01.04.1999 «gli incarichi relativi all'area
delle posizioni organizzative sono conferiti dai dirigenti
per un periodo massimo non superiore a cinque anni, previa
determinazione di criteri generali da parte degli enti, con
atto scritto e motivato e possono essere rinnovati con le
medesime formalità. I risultati delle attività svolte dai
dipendenti cui siano stati attribuiti gli incarichi di cui
al presente articolo sono soggetti a valutazione annuale in
base a criteri e procedure predeterminati dall'ente».
La sezione, nel rinviare alla procura l'esame della
documentazione del comune di Alassio, ha rilevato che negli
anni 2013 e 2014 erano stati conferiti ripetuti incarichi di
posizione organizzativa a funzionari, di durata inferiore
all'anno, dei quali, per altro, molti di durata perfino non
superiore ai 15 giorni.
Secondo la sezione, tale prassi di per sé non risulta
convincente e rispettosa della normativa, specie perché gli
incarichi conferiti per periodi talmente brevi sono
risultati privi dell'individuazione e dell'attribuzione
degli obiettivi gestionali che ciascun titolare avrebbe
dovuto conseguire nel periodo di riferimento.
Il comune ha controdedotto, rilevando che la brevità degli
incarichi è stata effetto del processo di riorganizzazione
svolto in quel periodo. L'assunto non ha convinto la
magistratura contabile, in particolare per quel che riguarda
la durata degli incarichi. La sezione spiega che essi
debbono estendersi per un periodo temporale «tale da
consentire al titolare della posizione un ragionevole
margine di autonomia e discrezionalità, circostanza che pare
escludersi in casi di rinnovi ogni 15 giorni o ogni mese».
Non si tratta, nel caso di specie, del problema, pur
rilevante ma non trattato dalla sezione, della logicità
dell'azione amministrativa e della tutela dell'affidamento
dei dipendenti, ma del rispetto formale delle norme. Una
durata degli incarichi delle posizioni organizzative molto
breve e, comunque, inferiore al periodo necessario per la
gestione (almeno l'anno finanziario) fa venire meno, secondo
la sezione, la causa giuridica, e dunque la legittimità,
della retribuzione di posizione. Essa, infatti, finisce per
non potersi più considerare collegata allo svolgimento di
mansioni caratterizzate da un elevato grado di autonomia
gestionale e organizzativa o da contenuti di alta
professionalità e specializzazione, per trasformarsi in una
semplice integrazione retributiva, slegata dal suo
presupposto negoziale, cioè la gestione continuativa di
obiettivi.
Secondo la sezione Liguria, perfino la durata annuale degli
incarichi «si pone al limite della ragionevolezza, senza
peraltro superarla ad avviso di questo collegio, se si tiene
conto che l'art. 9 del Ccnl 01.04.1999 si riferisce a
«un periodo massimo non superiore a cinque anni»,
ipotizzando una naturale durata pluriennale dell'incarico,
anche in funzione di certezza dell'azione amministrativa e
di garanzia del dipendente pubblico di non rimanere
continuamente in balia delle decisioni del potere politico».
Dette considerazioni possono certamente estendersi anche
alla prassi altrettanto poco corretta, in voga presso molte
amministrazioni, di conferire incarichi dirigenziali per
periodi molto brevi, inferiori all'anno.
Incremento delle risorse variabili. La sezione ha, inoltre,
puntato l'attenzione su un'altra prassi illegittima,
consistente nel deliberare gli incrementi alla parte
variabile del fondo ai sensi dell'articolo 15, comma 5, del Ccnl
01.04.1999, in periodi molto avanzati dell'anno, da
agosto in poi, quando larga parte dell'attività dei
dipendenti è stata svolta.
In questi casi «l'eventuale corresponsione della
retribuzione variabile perderebbe il suo carattere di
pregnante stimolo a conseguire un risultato difficile da
ottenere per assumere quello, del tutto estraneo alla sua
funzione, di compensare prestazioni già svolte o in corso di
svolgimento quasi ultimato». Il parere ricorda la
copiosa giurisprudenza contabile che ha ravvisato
responsabilità amministrativa per questo modo di gestire le
risorse variabili
(articolo ItaliaOggi del 25.03.2016). |
CONSIGLIERI COMUNALI - SEGRETARI COMUNALI:
Danno erariale al sindaco per lo stipendio
«eccessivo» del segretario.
La produttività del segretario non può essere parametrata
anche alla retribuzione aggiuntiva percepita in virtù
dell'incarico di direttore generale.
Lo ha stabilito la Sez. giurisdizionale dell'Umbria della
Corte dei Conti con la
sentenza
09.03.2016 n. 21.
La vicenda
Il giudizio riguardava sulla legittimità dell'erogazione
dell'indennità di risultato al segretario nella parte in cui
è correlata alla retribuzione percepita in qualità di
direttore generale.
La difesa ha sostenuto che l'articolo 42 del contratto
nazionale dei segretari stabilisca il principio di
onnicomprensività della retribuzione di risultato con
riferimento a tutti gli incarichi attribuiti al segretario,
fatta eccezione per quello di direttore generale. Questo
comporta che l'indennità di risultato di quest'ultimo
costituisce espressa deroga al principio di
onnicomprensività, con specifico riguardo al cumulo di
funzioni.
Analogamente, l'articolo 44 stabilisce un'altra deroga al
principio di onnicomprensività, in quanto prevede
l'attribuzione di una specifica indennità, in aggiunta alla
retribuzione di posizione goduta quale segretario, in caso
di svolgimento delle funzioni di direttore.
Niente parametrazione
I magistrati contabili umbri non hanno condiviso le
argomentazioni e hanno ritenuto fondata la responsabilità
del presidente della Provincia in cui operava il segretario,
sulla base di un'interpretazione letterale degli articoli 42
e 44 del contratto nazionale dei segretari combinata con i
precedenti della Corte, gli orientamenti applicativi
dell'Aran e quelli dell'Agenzia autonoma per la gestione
dell'albo dei segretari.
Mentre l'indennità ex articolo 44 è corrisposta in aggiunta
alla posizione di retribuzione del segretario, affermano
nella sentenza, quella di risultato è calcolata tenendo
conto del complesso degli incarichi aggiuntivi conferitigli,
ma fatta eccezione per quello di direttore generale.
L'esclusione dell'incarico di direttore dai parametri di
determinazione del risultato è peraltro confermata dalla
deliberazione del Cda dell'Agenzia 389/2002, in cui vengono
elencate le voci retributive su cui calcolare l'indennità di
risultato e in cui non figurano sia i diritti di segreteria
che l'indennità di direttore generale.
Negli stessi termini si è espressa l'Aran negli orientamenti
applicativi, in cui ha sostenuto che la determinazione
dell'indennità di risultato richiede la preventiva
fissazione e il formale conferimento al segretario di
precisi obiettivi, tenendo conto del complesso degli
incarichi aggiuntivi conferiti, ad eccezione di quello di
direttore generale.
La colpa
Queste valutazioni portano la sezione Umbria a rilevare la
colpa grave del convenuto e, in quanto erano ben conosciuti
e chiari gli orientamenti espressi in materia, ad avallare
l'accusa di «colpa gravissima» formulata dalla
Procura, a motivo dell'elevato grado di responsabilità.
Elemento che peraltro non consente di esercitare il potere
riduttivo.
Di qui la condanna al pagamento della somma derivante
dall'illegittima erogazione dell'indennità di risultato al
segretario, quale titolare anche delle funzioni di direttore
generale, oltre agli interessi dalla data delle spese a
quella della sentenza, cui seguono spese di giustizia e agli
interessi legali (22.03.2016 - tratto da
www.quotidianoentilocali.ilsole24ore.com). |
CONSIGLIERI COMUNALI -
INCARICHI PROFESSIONALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Incarichi illegittimi, paga il sindaco. Corte dei
conti. Allo staff non possono essere assegnati compiti di
supporto amministrativo.
Matura responsabilità amministrativa
in capo al sindaco che assegna ai collaboratori dell’ufficio
di staff compiti di supporto agli uffici e, in questo caso,
si deve dare per presupposto il danno. La responsabilità non
si estende né al dirigente che ha dato il parere di
regolarità tecnica, né ai dirigenti e segretari che sono
intervenuti in una fase limitata, e il sindaco non può
invocare la carenza di specifica competenza professionale in
quanto si è in presenza di violazioni macroscopiche. A
riduzione del danno non possono essere invocati i vantaggi
comunque conseguiti dall’ente con l’attività dei
collaboratori.
Possono essere così sintetizzate le dure conclusioni della
Sez. di appello della Corte dei Conti della Sicilia, con
la
sentenza 17.02.2016 n. 27.
La Corte ha condannato il sindaco di un Comune che ha
assegnato incarichi di collaborazione ex articolo 90 del
Tuel a risarcire all’ente tutti i compensi erogati. La
sentenza deve essere segnalata soprattutto per la rigidità
con cui considera fonte di responsabilità amministrativa lo
svolgimento di compiti di supporto alle strutture
amministrative da parte dei collaboratori dell’ufficio di
staff, per la lettura assai riduttiva dell’esimente della
buona fede per gli amministratori e per la limitazione degli
ambiti di maturazione di responsabilità in capo ai dirigenti
che esprimono pareri contabili o intervengono in misura
limitata nel conferimento dell’incarico.
L’ufficio di staff è uno strumento di supporto dell’organo
politico e non può essere destinato a compiti analoghi nei
confronti delle strutture amministrative, perché in questo
caso sarebbe violato il principio di distinzione delle
competenze tra organi di governo e dirigenti. Da
sottolineare che la sentenza si riferisce a scelte compiute
prima dell’estate del 2014, cioè dell’entrata in vigore del
Dl 90/2014 che vietano espressamente agli uffici di staff di
adottare atti di gestione, rafforzando quindi il principio.
Il conferimento di incarichi con queste finalità deve
seguire le procedure ordinarie e rispettare i principi
dettati per le collaborazioni: il riferimento è all’articolo
7 del Dlgs 165/2001. Nel caso specifico, invece, gli
incarichi conferiti violavano questi principi in quanto non
erano di «alta specializzazione»; non era stata compiuta la
preventiva verifica dell’assenza di analoghe professionalità
all’interno dell’ente; non vi era l’individuazione in modo
chiaro dei compiti assegnati, con la connessa verifica che
non dovesse trattarsi di attività ordinarie, e non erano
stati individuati i criteri per la definizione dei compensi.
La sentenza aggiunge che, in questi casi, «i profili di
illegittimità degli atti costituiscono un sintomo della
dannosità per l’erario». Altrettanto rigida è la
considerazione sull’impossibilità di ridurre la sanzione in
ragione del vantaggio conseguito dall’ente in quanto si deve
escludere che «una qualche utilità possa attribuirsi ad una
prestazione conseguente a un incarico conferito contra legem».
La sentenza prende invece una posizione “garantista” sulla
maturazione di responsabilità amministrativa in capo al
dirigente che ha dato il parere di regolarità contabile in
quanto questa attività è limitata agli aspetti contabili
«con esclusione di qualsiasi valutazione in ordine
all’intrinseca legittimità del procedimento».
Analoga posizione viene assunta per il coinvolgimento del
dirigente del settore personale e del segretario, in quanto
il loro intervento si era limitato alla fase iniziale.
Infine, non costituisce esimente l’assenza di una specifica
competenza professionale in capo al sindaco che deve
«acquisire le necessarie cognizioni», soprattutto perché
sono stati «violati i principi fondamentali che presiedono
all’attività amministrativa, nonché disposizioni di facile
interpretazione» (articolo Il Sole 24 Ore del 21.03.2016). |
CONSIGLIERI COMUNALI - INCARICHI PROFESSIONALI - PUBBLICO
IMPIEGO: L’ufficio
di staff è organo strumentale allo svolgimento di funzioni
che sono proprie del sindaco; è, infatti, solo quest’ultimo
che può individuare in concreto le azioni per le quali abbia
necessità di supporto e delineare l’oggetto dell’incarico di
collaborazione così come come l’utilità attesa dallo
svolgimento dello stesso.
E' altrettanto evidente che tali incarichi di collaborazione
non possono risolversi in forme di supporto alla struttura
amministrativa dell’Ente, posto che, diversamente, verrebbe
meno quella separazione tra funzione di indirizzo e
coordinamento (propria dell’organo di vertice) e gestione
esecutiva (propria della struttura organizzativa) voluta
dalla recente riforma dell’ordinamento degli enti locali.
---------------
Nella fattispecie, in chiara violazione del predetto
precetto normativo, gli incarichi attribuiti non erano
evidentemente riferibili alle funzioni di indirizzo politico
e di controllo del sindaco ma comportavano lo svolgimento di
attività di amministrazione attiva rientranti nei compiti
istituzionali dell’Ente; ciò, rende evidente, nella
fattispecie, che lo strumento utilizzato (nomina di
componenti dell’ufficio di staff) è avvenuto per causa
diversa (attività di amministrazione attiva rientranti nei
compiti istituzionali dell’Ente) da quella prevista dalla
legge (funzioni di indirizzo politico e di controllo del
sindaco) con evidente illegittimità dovuta ad eccesso di
potere per “sviamento del potere dalla causa tipica”.
---------------
Sul punto, la giurisprudenza contabile ha affermato che è
illegittimo l'affidamento esterno di funzioni rientranti nel
compiti di strutture interne all'amministrazione,
determinando la sottrazione delle corrispondenti competenze
ad esse riservate e la nascita di una obbligazione
diseconomica (vietata dall'art. 1 della Legge n. 241/1990 e
dall'art. 97 della Costituzione) in quanto aggiuntiva
rispetto all'onere economico già relativo al competente
organo interno; inoltre , il conferimento di funzioni
dell’Ente a soggetti esterni rappresenta un’opzione
operativa percorribile solo in presenza di speciali
condizioni e, segnatamente, laddove sussistano (e vengano
conseguentemente esternate nella motivazione del pertinente
provvedimento di conferimento) i seguenti presupposti:
- assenza di una apposita struttura organizzativa ovvero una
carenza organica che impedisca o renda oggettivamente
difficoltoso l'esercizio di una determinata funzione, da
accertare per mezzo di una reale ricognizione;
- complessità dei problemi da risolvere che richiedono
conoscenze ed esperienze eccedenti le normali competenze del
personale;
- indicazione specifica dei contenuti e dei criteri per il
conferimento di funzioni dell’Ente a soggetti esterni;
indicazione della durata dell'incarico;
- proporzione fra il compenso corrisposto all'incaricato e
l'utilità conseguita dall’Amministrazione;
- detti presupposti sono cumulativi e, soprattutto, devono
essere oggettivamente sussistenti.
Nella vicenda in esame, come chiaramente rappresentato dal
Giudice di primo grado, di cui questo Collegio condivide le
motivazioni, il conferimento di funzioni dell’Ente a
soggetti esterni è avvenuto senza rispettare le predette
condizioni di legge e, infatti, dalla lettura dei
provvedimenti attributivi di funzioni a soggetti esterni, a
firma del Ni., emerge chiaramente che:
● non risultano esplicitati gli eventuali connotati di alta
specializzazione dei soggetti chiamati a prestare ausilio
all’Ente;
● non risulta essere stata compiuta alcuna concreta verifica
circa l’insussistenza di risorse interne che potessero
svolgere tali funzioni;
● non vi è una congrua ed analitica specificazione
dell’attività richiesta ai soggetti incaricati;
● non sono stati esplicitati i parametri in base ai quali
sono stati quantificati i compensi corrisposti agli
incaricati.
---------------
Secondo un orientamento giurisprudenziale pressoché
pacifico, i profili di illegittimità degli atti
costituiscono un sintomo della dannosità per l’erario delle
condotte che, all’adozione di quegli atti, abbiano concorso;
in altri termini, la non conformità dell’azione
amministrativa alle puntuali prescrizioni che ne regolano lo
svolgimento pur non essendo idonea a generare, di per sé,
una responsabilità amministrativa in capo all’agente, può
assumere rilevanza allorché quegli atti integrino una
condotta almeno gravemente colposa, foriera di un nocumento
economico per l’Amministrazione.
Tale principio, certamente valevole come enunciazione di
sintesi, deve comunque subire un’operazione di
attualizzazione e specificazione, per tener conto dei
peculiari connotati dell’agire pubblico che, di volta in
volta, viene portato all’attenzione del Giudice contabile.
Ebbene, tale operazione di taratura del principio porta il
Collegio a ritenere che le plurime e qualitativamente
significative devianze dalle vincolanti prescrizioni di
riferimento, in precedenza specificate, integrino fatti
dannosi per l’erario dell’Ente.
A tale conclusione induce la considerazione secondo la quale
gli stringenti limiti al conferimento di funzioni dell’Ente
a soggetti esterni sono posti a garanzia del preminente
interesse alla corretta ed oculata allocazione delle
risorse, nonché a presidio degli equilibri di finanza
pubblica; la preservazione di tali valori ha luogo, oltre
che attraverso la fissazione di tetti quantitativi alla
spesa, anche mediante l’imposizione di vincoli di carattere
modale che definiscono condizioni e procedure che
legittimano l’esborso.
In tale peculiare contesto, per quanto di rilievo nel
presente giudizio, il rispetto delle limitazioni di
carattere modale è presupposto di legittimità della spesa
sostenuta; le lacune procedurali, rilevabili per il tramite
della motivazione dei provvedimenti oggetto del presente
giudizio, quindi, non sono meri vizi inficianti l’azione
amministrativa con rilevanza circoscritta alla sfera di
legittimità dei provvedimenti stessi, ma si riverberano
anche sugli effetti economici prodotti da questi, rendendo,
automaticamente, dannosa per l’erario la conseguente spesa.
Tale ricostruzione è in linea con un orientamento
giurisprudenziale consolidato sia in primo grado che in
grado di appello.
In particolare, poi, tale indirizzo ha ricevuto anche
l’avallo di questa Sezione d’Appello, la quale, dopo aver
evidenziato che le speciali condizioni (….rispondenza
dell'incarico esternalizzato agli obiettivi dell'ente;
assenza di una apposita struttura organizzativa della P.A.
ovvero carenza organica che impedisca o renda oggettivamente
difficoltoso l'esercizio di una determinata funzione
pubblica, da accertare per mezzo di una reale ricognizione;
complessità dei problemi da risolvere che richiedono
conoscenze ed esperienze eccedenti le normali competenze del
personale della P.A. o dell'ente pubblico; indicazione
specifica dei contenuti e dei criteri per lo svolgimento
dell'incarico esternalizzato; indicazione della durata
dell'incarico, svolgimento da parte del privato di
un'attività non continuativa; proporzione fra il compenso
corrisposto all'incaricato e l'utilità conseguita
dall'amministrazione) che legittimano il conferimento di
funzioni dell’Ente a soggetti esterni alla P.A., ha
affermato che tali requisiti «….devono coesistere e,
soprattutto, devono essere oggettivamente sussistenti….».
Inoltre, ha precisato anche che, «….nei rapporti
pubblicistici (…) si deve tenere conto dei limiti posti dal
legislatore all'azione degli amministratori, soprattutto
quando, come nella specie, detti limiti mirano a tutelare
preminenti interessi pubblici, quali quelli che si
ricollegano alle esigenze di equilibrio della finanza
pubblica in un momento di grave crisi economico-finanziaria
del paese. Pertanto, quando, come nel caso in esame, il
legislatore pone agli amministratori pubblici determinati
vincoli di spesa, ritenendo implicitamente non utile tutte
quelle spese che non rispettino i limiti da esso posti, è
sufficiente che la spesa si effettui contra legem perché si
realizzi il danno….».
---------------
Ritiene, inoltre, il Collegio che, alla produzione del
predetto danno erariale, non abbia, inoltre, fornito alcun
effettivo contributo causale, giuridicamente apprezzabile,
il funzionario che ha espresso parere favorevole in ordine
alla regolarità contabile dei provvedimenti d’incarico
emessi dal sindaco in quanto il parere di regolarità
contabile, apposto dal funzionario preposto al Servizio
Finanziario sul provvedimento di nomina emesso dal sindaco,
resta limitato alla verifica della competenza del soggetto
che ha disposto l’effettuazione della spesa, dell’esistenza
della relativa copertura finanziaria, della corretta
imputazione al pertinente capitolo di bilancio ecc., con
esclusione, quindi, di qualsiasi valutazione in ordine
all’intrinseca legittimità del procedimento decisionale che
ha condotto all’emissione del provvedimento in questione.
--------------
Dalla lettura delle predette disposizioni di legge, emerge
chiaramente che l’ufficio di staff è organo strumentale allo
svolgimento di funzioni che sono proprie del sindaco; è,
infatti, solo quest’ultimo che può individuare in concreto
le azioni per le quali abbia necessità di supporto e
delineare l’oggetto dell’incarico di collaborazione così
come come l’utilità attesa dallo svolgimento dello stesso; è
altrettanto evidente che tali incarichi di collaborazione
non possono risolversi in forme di supporto alla struttura
amministrativa dell’Ente, posto che, diversamente, verrebbe
meno quella separazione tra funzione di indirizzo e
coordinamento (propria dell’organo di vertice) e gestione
esecutiva (propria della struttura organizzativa) voluta
dalla recente riforma dell’ordinamento degli enti locali.
Nella fattispecie, in chiara violazione del predetto
precetto normativo, gli incarichi attribuiti dal Ni. non
erano evidentemente riferibili alle funzioni di indirizzo
politico e di controllo del sindaco ma comportavano lo
svolgimento di attività di amministrazione attiva rientranti
nei compiti istituzionali dell’Ente; ciò, rende evidente,
nella fattispecie, che lo strumento utilizzato (nomina di
componenti dell’ufficio di staff) è avvenuto per causa
diversa (attività di amministrazione attiva rientranti nei
compiti istituzionali dell’Ente) da quella prevista dalla
legge (funzioni di indirizzo politico e di controllo del
sindaco) con evidente illegittimità dovuta ad eccesso di
potere per “sviamento del potere dalla causa tipica”.
Sul punto, la giurisprudenza contabile ha affermato che è
illegittimo l'affidamento esterno di funzioni rientranti nel
compiti di strutture interne all'amministrazione,
determinando la sottrazione delle corrispondenti competenze
ad esse riservate e la nascita di una obbligazione
diseconomica (vietata dall'art. 1 della Legge n. 241/1990 e
dall'art. 97 della Costituzione) in quanto aggiuntiva
rispetto all'onere economico già relativo al competente
organo interno (Corte dei conti, Sez. Giur. Trentino Alto
Adige, n. 8 del 22.03.2010); inoltre , il conferimento di
funzioni dell’Ente a soggetti esterni rappresenta un’opzione
operativa percorribile solo in presenza di speciali
condizioni e, segnatamente, laddove sussistano (e vengano
conseguentemente esternate nella motivazione del pertinente
provvedimento di conferimento) i seguenti presupposti:
assenza di una apposita struttura organizzativa ovvero una
carenza organica che impedisca o renda oggettivamente
difficoltoso l'esercizio di una determinata funzione, da
accertare per mezzo di una reale ricognizione; complessità
dei problemi da risolvere che richiedono conoscenze ed
esperienze eccedenti le normali competenze del personale;
indicazione specifica dei contenuti e dei criteri per il
conferimento di funzioni dell’Ente a soggetti esterni;
indicazione della durata dell'incarico; proporzione fra il
compenso corrisposto all'incaricato e l'utilità conseguita
dall’Amministrazione; detti presupposti sono cumulativi e,
soprattutto, devono essere oggettivamente sussistenti.
Nella vicenda in esame, come chiaramente rappresentato dal
Giudice di primo grado, di cui questo Collegio condivide le
motivazioni, il conferimento di funzioni dell’Ente a
soggetti esterni è avvenuto senza rispettare le predette
condizioni di legge e, infatti, dalla lettura dei
provvedimenti attributivi di funzioni a soggetti esterni, a
firma del Ni., emerge chiaramente che:
● non risultano esplicitati gli eventuali connotati di alta
specializzazione dei soggetti chiamati a prestare ausilio
all’Ente;
● non risulta essere stata compiuta alcuna concreta verifica
circa l’insussistenza di risorse interne che potessero
svolgere tali funzioni;
● non vi è una congrua ed analitica specificazione
dell’attività richiesta ai soggetti incaricati;
● non sono stati esplicitati i parametri in base ai quali
sono stati quantificati i compensi corrisposti agli
incaricati.
Tutto ciò premesso, non appare superfluo evidenziare che,
secondo un orientamento giurisprudenziale pressoché pacifico
(cfr., ex multis, Corte conti, Sez. Lombardia, 05.03.2007,
n. 141; id., Sez. App. III, 10.03.2003, n. 100/A; id.,
Sez. Molise, 04.04.2002, n. 65/E), i profili di
illegittimità degli atti costituiscono un sintomo della
dannosità per l’erario delle condotte che, all’adozione di
quegli atti, abbiano concorso; in altri termini, la non
conformità dell’azione amministrativa alle puntuali
prescrizioni che ne regolano lo svolgimento pur non essendo
idonea a generare, di per sé, una responsabilità
amministrativa in capo all’agente, può assumere rilevanza
allorché quegli atti integrino una condotta almeno
gravemente colposa, foriera di un nocumento economico per
l’Amministrazione.
Tale principio, certamente valevole come enunciazione di
sintesi, deve comunque subire un’operazione di
attualizzazione e specificazione, per tener conto dei
peculiari connotati dell’agire pubblico che, di volta in
volta, viene portato all’attenzione del Giudice contabile.
Ebbene, tale operazione di taratura del principio porta il
Collegio a ritenere che le plurime e qualitativamente
significative devianze dalle vincolanti prescrizioni di
riferimento, in precedenza specificate, integrino fatti
dannosi per l’erario dell’Ente.
A tale conclusione induce la considerazione secondo la quale
gli stringenti limiti al conferimento di funzioni dell’Ente
a soggetti esterni sono posti a garanzia del preminente
interesse alla corretta ed oculata allocazione delle
risorse, nonché a presidio degli equilibri di finanza
pubblica; la preservazione di tali valori ha luogo, oltre
che attraverso la fissazione di tetti quantitativi alla
spesa, anche mediante l’imposizione di vincoli di carattere
modale che definiscono condizioni e procedure che
legittimano l’esborso.
In tale peculiare contesto, per quanto di rilievo nel
presente giudizio, il rispetto delle limitazioni di
carattere modale è presupposto di legittimità della spesa
sostenuta; le lacune procedurali, rilevabili per il tramite
della motivazione dei provvedimenti oggetto del presente
giudizio, quindi, non sono meri vizi inficianti l’azione
amministrativa con rilevanza circoscritta alla sfera di
legittimità dei provvedimenti stessi, ma si riverberano
anche sugli effetti economici prodotti da questi, rendendo,
automaticamente, dannosa per l’erario la conseguente spesa.
Tale ricostruzione è in linea con un
orientamento giurisprudenziale consolidato sia in primo
grado (tra le tante, più di recente, Sez. Giur. Lazio Sent.
06.05.2008, n. 736; Sez. Giur. Sicilia Sent. 07.01.2008, n. 185;
Sez. Giur. Molise Sent. 28.02.2007, n. 50; Sez. Giur. Sicilia
Sent. 21.09.2007, n. 2492; Sez. Giur. Veneto Sent. 03.04.2007,
n. 303; Sez. Giur. Calabria Sent. 30.08.2006, n. 672), che in
grado di appello (ex pluribus: Sez. I App Sent. 28.05.2008,
n. 237; Sez. App. III Sent. 05.04.2006, n. 173; Sez. App. II
Sent. 20.03.2006, n. 122; Sez. App. II Sent. 16.02.2006, n.
107; Sez. App. III Sent. 06.02.2006, n. 74; Sez. App. I Sent.
04.10.2005, n. 304; Sez. App. I Sent. 08.08.2005, n. 259; Sez.
App. I Sent. 31.05.2005, n. 187; Sez. App. III Sent.
13.04.2005, n. 183; Sez. App. II Sent. 28.11.2005, n. 389).
In particolare, poi, tale indirizzo ha ricevuto anche
l’avallo di questa Sezione d’Appello (cfr. Sent. 101/A/2010;
196/A/2009; 284/A/2008; 206/A/2008; 122/A/2008; 48/A/2007),
la quale, dopo aver evidenziato che le speciali condizioni (….rispondenza dell'incarico esternalizzato agli obiettivi
dell'ente; assenza di una apposita struttura organizzativa
della P.A. ovvero carenza organica che impedisca o renda
oggettivamente difficoltoso l'esercizio di una determinata
funzione pubblica, da accertare per mezzo di una reale
ricognizione; complessità dei problemi da risolvere che
richiedono conoscenze ed esperienze eccedenti le normali
competenze del personale della P.A. o dell'ente pubblico;
indicazione specifica dei contenuti e dei criteri per lo
svolgimento dell'incarico esternalizzato; indicazione della
durata dell'incarico, svolgimento da parte del privato di
un'attività non continuativa; proporzione fra il compenso
corrisposto all'incaricato e l'utilità conseguita
dall'amministrazione) che legittimano il conferimento di
funzioni dell’Ente a soggetti esterni alla P.A., ha
affermato che tali requisiti «….devono coesistere e,
soprattutto, devono essere oggettivamente sussistenti….»;
inoltre, ha precisato anche che, «….nei rapporti
pubblicistici (…) si deve tenere conto dei limiti posti dal
legislatore all'azione degli amministratori, soprattutto
quando, come nella specie, detti limiti mirano a tutelare
preminenti interessi pubblici, quali quelli che si
ricollegano alle esigenze di equilibrio della finanza
pubblica in un momento di grave crisi economico-finanziaria del paese. Pertanto, quando, come nel caso in
esame, il legislatore pone agli amministratori pubblici
determinati vincoli di spesa, ritenendo implicitamente non
utile tutte quelle spese che non rispettino i limiti da esso
posti, è sufficiente che la spesa si effettui contra legem
perché si realizzi il danno….».
L’illegittimità dei conferimenti di funzioni dell’Ente a
soggetti esterni costituisce, quindi, nella fattispecie, il
presupposto antigiuridico che ha cagionato un danno erariale
per l’Ente (pari alle somme che sono state pagate a soggetti
esterni all’Ente stesso).
Le considerazioni che precedono escludono, quindi, che una
qualche utilità possa attribuirsi ad una prestazione
conseguente ad un incarico conferito contra legem con
conseguente impossibilità di considerare, ai fini della
quantificazione del danno risarcibile, l’eventuale vantaggio
conseguente all’attività del soggetto esterno all’Ente,
illegittimamente incaricato di svolgere funzioni che
avrebbero dovuto essere svolte da dipendenti dell’Ente
stesso (in quanto attività istituzionali), per lo
svolgimento delle quali i dipendenti medesimi ricevono una
congrua retribuzione.
Ciò premesso, ritiene il Collegio che non sia configurabile
un nesso di causalità tra la condotta della Giunta
municipale (che ha adottato la citata delibera n. 145/2008)
ed il danno azionato dal PM, in quanto, nella stessa, era
prevista, per altro su proposta del Ni. stesso,
l’istituzione di un ufficio di staff per lo svolgimento di
funzioni “intersettoriali” dando, quindi, al sindaco stesso
la possibilità di procedere alla nomina degli esterni da
effettuarsi, ovviamente in un momento successivo, nel
rispetto dei limiti di legge (utilizzando, cioè,
collaboratori esterni solo per funzioni di indirizzo
politico e di controllo proprie del sindaco e previa
verifica di indisponibilità di risorse interne).
Ciò che, invece, è stata causa del danno erariale in
questione è proprio la successiva nomina degli esterni da
parte del sindaco che ha conferito, a soggetti esterni,
incarichi che non erano riferibili, come già detto, alle
funzioni di indirizzo politico e di controllo proprie del
sindaco, e che non è stata preceduta da una preventiva
verifica di indisponibilità di risorse interne.
Ritiene, inoltre, il Collegio che, alla produzione del
predetto danno erariale, non abbia, inoltre, fornito alcun
effettivo contributo causale, giuridicamente apprezzabile,
il funzionario che ha espresso parere favorevole in ordine
alla regolarità contabile dei provvedimenti d’incarico
emessi dal sindaco in quanto il parere di regolarità
contabile, apposto dal funzionario preposto al Servizio
Finanziario sul provvedimento di nomina emesso dal sindaco,
resta limitato alla verifica della competenza del soggetto
che ha disposto l’effettuazione della spesa, dell’esistenza
della relativa copertura finanziaria, della corretta
imputazione al pertinente capitolo di bilancio ecc., con
esclusione, quindi, di qualsiasi valutazione in ordine
all’intrinseca legittimità del procedimento decisionale che
ha condotto all’emissione del provvedimento in questione.
Sempre in relazione al profilo del nesso di causalità, la
difesa dell’appellante ha affermato che, nella fattispecie,
i provvedimenti contestati si collocherebbero all'interno di
un procedimento amministrativo che si era aperto con la fase
istruttoria (in cui erano intervenuti il Responsabile del
procedimento ed il Dirigente dell'Ufficio competente, al
fine di comprovare, rispettivamente, la sussistenza dei
requisiti di legittimità della procedura e, dunque, degli
atti sindacali da deliberare, nonché la relativa regolarità
tecnica) e si era concluso con la stipula dei contratti
individuali di lavoro da parte del dirigente dell'Ufficio
Gestione Risorse Umane (e, talvolta, del Direttore
generale), attuativi delle scelte sindacali di nomina ma,
sempre, previa verifica della conformità a legge delle
stesse.
Sul punto si osserva che, nella fattispecie, il Ni. è
stato il proponente della delibera di giunta n. 145/2008, i
provvedimenti di nomina dei predetti collaboratori esterni
sono stati sottoscritti solo dal Ni. stesso e dal
funzionario preposto al Servizio Finanziario e le
convenzioni, per il conferimento dei singoli incarichi,
risultano sottoscritte solo dal collaboratore esterno e dal
Ni. stesso); inoltre, l’asserito intervento, nella
fattispecie, del dirigente dell'Ufficio Gestione Risorse
Umane (e, talvolta, del Direttore generale), in sede di
attuazione delle scelte sindacali di nomina (che avrebbe
dovuto verificare la conformità a legge delle stesse),
avrebbe, semmai, potuto riguardare soltanto taluni specifici
profili di esso (ad es.: la circostanza che il “Regolamento
comunale degli Uffici e dei Servizi” abbia previsto
espressamente l’esistenza di tale Ufficio; il fatto che non
venga superato il numero massimo di componenti che sia stato
eventualmente fissato dal predetto regolamento o da altra
deliberazione a carattere generale; la sussistenza di
specifici requisiti già previsti, in linea generale, da
norme di legge o di regolamento, la natura temporanea
dell’incarico conferito etc.), con esclusione, quindi, di
qualsiasi valutazione in ordine alla congruità delle
motivazioni relative all’effettiva necessità del
conferimento dell’incarico, alla concreta individuazione del
soggetto designato, alle mansioni da svolgere etc. (che
rientravano nelle prerogative del sindaco, unico soggetto
che poteva individuare in concreto le azioni per le quali
avesse necessità di supporto e delineare l’oggetto
dell’incarico di collaborazione così come come l’utilità
attesa dallo svolgimento dello stesso).
Infine, la difesa dell'appellante lamenta che erroneamente
il Giudice di primo grado abbia ritenuto la sussistenza
della colpa grave a carico del Ni.:
1. che non aveva le competenze professionali adeguate per
rendersi conto di eventuali illegittimità (data la
complessità della normativa regolante la fattispecie ed i
dubbi interpretativi conseguenti);
2. pur essendo asseritamente intervenuti, nel procedimento
di nomina dei predetti collaboratori esterni, funzionari
dell’Ente che nulla hanno eccepito in ordine alla
sussistenza di eventuali illegittimità.
A sostegno delle sue ragioni, ha richiamato la sentenza
della Prima Sezione Centrale d’Appello di questa Corte n.
107/2015.
Ha, inoltre, richiesto, a questa Corte, di sollevare una
questione di massima, innanzi alle SS.RR., per chiarire se
un amministratore, che deliberi dopo un procedimento
amministrativo (nel quale sono intervenuti gli organi
dell’apparato burocratico dell’Ente senza nulla eccepire in
ordine alla sussistenza di eventuali illegittimità dell’atto
da adottare) possa rispondere, per colpa grave, di eventuali
danni erariali conseguenti alla esecuzione della delibera
adottata.
In relazione al punto n. 1, si osserva, che la ricorrenza
dell’elemento soggettivo non può essere esclusa dal non
possedere adeguate cognizioni tecnico-giuridiche giacché chi
assume, per propria iniziativa, un munus pubblico ha anche
l’onere di acquisire le necessarie cognizioni per espletarlo
in conformità alla legge, altrimenti vi sarebbe una
condizione soggettiva precostituita che legittimerebbe
l’adozione di atti illegittimi, forieri di illeciti erariali
e senza alcuna conseguenza per l’autore; ciò sarebbe,
evidentemente, paradossale.
In relazione al punto n. 2, si osserva che, in disparte
dalla limitata partecipazione, nella fattispecie di
funzionari dell’Ente di cui si è già detto (in quanto il
Ni. è stato il proponente della delibera di giunta n.
145/2008, i provvedimenti di nomina dei predetti
collaboratori esterni sono stati sottoscritti solo dal
Ni. stesso e, come già detto, dal funzionario preposto
al Servizio Finanziario e, infine, le convenzioni per il
conferimento dei singoli incarichi risultano sottoscritte
solo dal collaboratore esterno e dal Ni. stesso) appare
evidente che, nel caso in esame, le determinazioni sopra
richiamate sono state adottate in macroscopico dispregio
della disciplina applicabile e tale comportamento, pertanto,
appare connotato quanto meno dall’elemento psicologico della
colpa grave, poiché l’amministratore ha violato i principi
fondamentali che presiedono all’attività amministrativa,
nonché disposizioni di facile interpretazione contenute
nella normativa di rango primario, nello statuto comunale e
nel regolamento di organizzazione.
Tali ultime considerazioni consentono, infine, di escludere
l’applicabilità di un eventuale potere riduttivo
dell’addebito.
In ordine, poi, alla richiesta di rimettere la prospettata
questione di massima alle SS.RR. di questa Corte si osserva
quanto segue.
L’art. 1, comma 7, del decreto legge 15.11.1993, n.
453, convertito, con modificazioni, nella l. 14.01.1994
n. 19, prevede espressamente che “Le sezioni riunite della
Corte dei conti decidono sui conflitti di competenza e sulle
questioni di massima deferite dalle sezioni giurisdizionali
centrali o regionali, ovvero a richiesta del procuratore
generale”.
A tale norma, l’art. 42, comma 2, della l. 18.06.2009 n.
69 ha aggiunto un ultimo periodo e precisamente “Il
Presidente della Corte può disporre che le sezioni riunite
si pronuncino sui giudizi che presentano una questione di
diritto già decisa in senso difforme dalle sezioni
giurisdizionali centrali o regionali e su quelli che
presentano una questione di massima di particolare
importanza. Se la sezione giurisdizionale, centrale o
regionale, ritiene di non condividere il principio di
diritto enunciato dalle sezioni riunite, rimette a queste
ultime, con ordinanza motivata, la decisione del giudizio.”.
E’ evidente che “…la decisione del giudizio" alla
quale fa riferimento l’ultima parte del comma aggiunto può
essere soltanto quella aventi ad oggetto i conflitti di
competenza, le questioni di diritto e le questioni di
massima, con esclusione di ogni possibile conferimento di
poteri di valutazione del merito delle questioni
controverse.
Una siffatta interpretazione della novella normativa si
inserisce, quindi, nel contesto dei poteri e delle
attribuzioni ben consolidate facenti capo alle Sezioni
riunite, per cui la norma, lungi dall’aver voluto creare una
nuova competenza (quella di esame del merito della
controversia) in capo al Supremo Organo giurisdizionale,
deve essere interpretata nell’unico significato possibile e
costituzionalmente orientato, consistente nel principio che
la rimessione del giudizio, in caso di dissenso, in tanto
sia possibile in quanto sia diretta ad approfondire e a
riesaminare sotto diversi profili la sola questione di
diritto, con ragioni che devono essere congruamente
esplicitate nell’ordinanza di rimessione.
In sostanza, le Sezioni riunite potrebbero, in caso di
dissenso adeguatamente motivato, rivedere il principio di
diritto affermato o dare una diversa soluzione alla
questione di massima presentata rispetto a quanto in
precedenza enunciato, rimettendo, poi, la definizione del
merito della fattispecie agli organi giurisdizionali
remittenti.
Nel caso di specie, facendo applicazione di predetti
principi, deve ritenersi inammissibile la richiesta della
difesa dell’appellante di sottoporre alle SS.RR. di questa
Corte la predetta questione (e, cioè, se un amministratore,
che deliberi dopo un procedimento amministrativo -nel quale
sono intervenuti gli organi dell’apparato burocratico
dell’Ente senza nulla eccepire in ordine alla sussistenza di
eventuali illegittimità dell’atto da adottare- possa
rispondere, per colpa grave, di eventuali danni erariali
conseguenti alla esecuzione della delibera adottata) in
quanto non è una questione di diritto ma una questione di
merito che deve essere risolta e decisa con riferimento ad
ogni singola ipotesi.
Infatti, secondo costante giurisprudenza di questa Corte, la
sussistenza della colpa grave non può essere affermata in
astratto ma deve essere valutata caso per caso.
Questo perché, non ogni condotta diversa da quella doverosa
implica colpa grave ma solo quella che sia caratterizzata da
particolare negligenza, imprudenza od imperizia e che sia
posta in essere senza l’osservanza, nel caso concreto, di un
livello minimo di diligenza, prudenza o perizia che dipende
dal tipo di attività concretamente richiesto all’agente in
quel settore della P.A. al quale è preposto e di tutte le
circostanze soggettive ed oggettive esistenti al momento in
cui la condotta causativa di danno è stata posta in essere.
Per le ragioni suesposte, l’appello deve essere respinto e
la sentenza impugnata appare meritevole di conferma.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in
dispositivo
(Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. appello Sicilia,
sentenza 17.02.2016 n. 27). |
QUESITI & PARERI |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/
Convocazioni senza dolo.
L'errata indicazione non sempre inficia i lavori.
Seduta legittima se al consigliere non è stato precluso di
esprimere il voto.
In materia di ritualità della convocazione del consiglio
comunale, la discordanza tra l'avviso pubblicato all'albo
pretorio online e le convocazioni consegnate ai consiglieri
e agli altri organi interessati, inficia i lavori del
consiglio comunale e quindi la legittimità della seduta
consiliare?
L'art. 32, comma 1, della legge 28.06.2009, n. 69,
recante norme per l'eliminazione degli sprechi relativi al
mantenimento di documenti in forma cartacea, dispone che
«gli obblighi di pubblicazione di atti e provvedimenti
amministrativi aventi effetto di pubblicità legale si
intendono assolti con la pubblicazione nei propri siti
informatici da parte delle amministrazioni e degli enti
pubblici obbligati».
Per gli enti locali, l'art. 124 del
decreto legislativo n. 267/2000 dispone l'obbligo della
pubblicazione delle deliberazioni all'albo pretorio (ora
sito istituzionale) dell'ente, per 15 giorni consecutivi,
mentre, l'articolo 38, comma 7, del medesimo decreto
legislativo stabilisce che le sedute del consiglio sono
pubbliche salvo i casi previsti dal regolamento. Il decreto
legislativo n. 33, del 14.03.2013, inoltre, disponendo il
riordino della disciplina degli obblighi di pubblicità,
trasparenza e diffusione delle informazioni da parte delle
pubbliche amministrazioni, ha rafforzato, in particolare, a
fini conoscitivi, l'esigenza di pubblicità degli atti.
Fermo
restando, dunque, che, per quel che riguarda gli enti
locali, l'obbligo di legge con valore di pubblicità legale è
limitato alla pubblicazione delle deliberazioni e delle
determinazioni dirigenziali (Cds n. 1370 del 15.03.2006),
nel caso di specie, in cui la rilevata difformità è
rappresentata dall'errata comunicazione di «seduta chiusa al
pubblico», effettuata all'albo pretorio online, a fronte
della corretta comunicazione di «seduta aperta al pubblico»,
riportata nell'avviso di convocazione consegnato ai
consiglieri, l'ente locale ha previsto nello statuto che «il
comune ha un albo pretorio per la pubblicazione degli atti e
avvisi previsti dalla legge, dallo Statuto e dai
regolamenti».
Il regolamento comunale prevede che l'elenco
degli argomenti da trattare in consiglio è pubblicato
all'albo del comune, stabilendo che tale pubblicazione deve
essere effettuata nel giorno precedente la riunione e in
quello in cui la stessa ha luogo. Inoltre stabilisce che
debbano essere elencati distintamente, nell'ambito
dell'ordine del giorno, sotto l'indicazione «seduta
segreta», gli argomenti che comportino valutazioni e
apprezzamenti su persone.
Pertanto, pur non avendo valore di pubblicità legale, la
pubblicazione delle convocazioni con l'esatta indicazione
dell'ordine del giorno, come prevista dal regolamento
comunale, scaturisce oltre che per la necessità di
trasparenza e diffusione delle informazioni, anche per
consentire l'effettiva partecipazione del pubblico alle
sedute di consiglio che non siano segrete.
Tuttavia, l'eventuale errata convocazione del consiglio
comunale può essere riconosciuta come tale quando possa
avere una effettiva efficacia preclusiva della piena
capacità del consigliere di esprimere il voto in seno al
collegio di appartenenza.
Nel caso di specie, la convocazione nei confronti dei
consiglieri comunali è stata effettuata nel rispetto della
normativa regolamentare, tant'è che la deliberazione
effettuata nella seduta consiliare di cui trattasi è stata
adottata in presenza di tutti i consiglieri comunali
assegnati.
Escludendo l'ipotesi di dolo, l'errata indicazione della
seduta, come segreta, riportata sul sito
dell'amministrazione, pur avendo potenzialmente impedito ad
una parte della cittadinanza di assistere alla riunione di
consiglio (nelle premesse della deliberazione il sindaco dà
atto della presenza di pubblico in sala), non può certo
avere l'effetto di inficiarne i lavori.
Infatti, il pubblico, ai sensi dell'articolo 42 del
regolamento non può interloquire con il consiglio,
orientandone le decisioni, e, in ogni caso, chiunque abbia
interesse può sempre accedere al verbale delle adunanze che,
ai sensi dell'articolo 55, comma 3, dello stesso regolamento
riporta il testo integrale delle dichiarazioni di voto,
della parte dispositiva e della deliberazione
(articolo ItaliaOggi del 25.03.2016). |
APPALTI - PUBBLICO IMPIEGO:
Affidamento al coniuge del Dirigente, l'utilizzo del MEPA
preserva dal conflitto di interessi?
IL CASO: un tecnico comunale risulta
essere il coniuge del titolare dell'impresa individuale che
si è aggiudicata vari appalti del Comune nel settore delle
manifestazioni e degli eventi.
Tutti gli affidamenti sono stati conferiti mediante
procedure MEPA, nella quale il dipendente in conflitto di
interesse, titolare di posizione organizzativa, non figurava
però come punto ordinante.
Il Comune ha valorizzato la circostanza che la parentela con
un dipendente non può essere motivo di esclusione, e ha
quindi proceduto agli affidamenti al coniuge del dipendente.
In definitiva, secondo la tesi del Comune, non avendo il
dipendente concorso all'affidamento, lo stesso non era
tenuto all'obbligo di astensione, non configurandosi un
conflitto di interesse.
(Risponde l'Avv. Nadia Corà)
La tesi del Comune non può essere condivisa. Ha errato il
Comune a limitare la valutazione in ordine alla sussistenza
o meno di un possibile conflitto di interesse alla sola fase
di avvio della procedura di scelta del contraente e al
concreto svolgimento di tale fase mediante acquisizione sul
MEPA a cura del punto ordinante.
La valutazione in ordine alla configurabilità di una
situazione di conflitto di interesse va fatta con
riferimento a tutta la procedura di affidamento, a partire
dalla fase della pianificazione, programmazione, e
progettazione della procedura di affidamento perché è
proprio in questa fase, che culmina nella determina a
contrarre, che si possono verificare gravi irregolarità,
abusi e conflitti d'interesse.
Va presidiato, ai fini di prevenzione della corruzione, il
momento in cui viene scelto il tipo di procedura, specie
laddove si tratti di affidamento diretto, nonché il momento
-altrettanto rischioso- in cui viene scelto il nominativo
dell'operatore economico destinatario dell'affidamento, sia
che si tratti di affidamento diretto sia che si tratti di
affidamento mediante procedura negoziata, con formazione
dell'Elenco degli operatori economici da invitare (c.d.
Elenco ditte).
Non c'è dubbio, infatti, che con riferimento a questi
adempimenti della procedura, possono trovare spazio, in
mancanza di adeguate misure di prevenzione della corruzione,
favoritismi, amicizie o, come nel presente caso, legami di
parentela idonee ad orientare la scelta del soggetto
affidatario non già verso il migliore contraente possibile
ma verso il soggetto che viene favorito.
Ne consegue che, laddove il dipendente, pur non avendo
svolto la fase di avvio della procedura mediante
l'acquisizione sul MEPA, abbia comunque potuto svolgere,
anche in via soltanto potenziale, un ruolo, a monte, nella
precedente fase della pianificazione, programmazione e
progettazione dell'acquisizione dei servizi correlati ad
eventi e manifestazioni, nella sua qualità di P.O. dell'area
tecnica, lo stesso avrebbe, doverosamente, dovuto astenersi,
tenuto conto che il conflitto di interesse che rileva ai
fini della prevenzione della corruzione non è soltanto il
conflitto di interesse reale ma è anche il conflitto di
interesse soltanto potenziale.
La stessa Autorità Nazionale Anticorruzione del resto ha
ribadito il proprio orientamento già maturato nel corso del
2015 (parere sulla normativa del 09/11/2015 - AG/76/2015),
ritenendo sussistente un conflitto di interesse c.d. "materiale".
Si è in presenza di un conflitto di interesse materiale, e
non formale, laddove il conflitto di interesse non sia
espressamente rinvenibile in una norma di legge, ma si
configuri in via di fatto, materialmente, in relazione alle
specifiche circostanze del caso, ricollegabili anche
indirettamente alle disposizioni che impongono l'astensione
dalla partecipazione alla decisione del titolare
dell'interesse e stabiliscono che il dipendente si astiene
dal partecipare all'adozione di decisioni o ad attività che
possano coinvolgere interessi propri, ovvero di suoi
parenti, affini entro il secondo grado, del coniuge o di
conviventi, oppure di persone con le quali abbia rapporti di
frequentazione abituale, ovvero, di soggetti od
organizzazioni con cui egli o il coniuge abbia causa
pendente o grave inimicizia o rapporti di credito o debito
significativi, ovvero di soggetti od organizzazioni di cui
sia tutore, curatore, procuratore o agente, ovvero di enti,
associazioni anche non riconosciute, comitati, società o
stabilimenti di cui sia amministratore o gerente o
dirigente.
Il dipendente si astiene in ogni altro caso in cui esistano
gravi ragioni di convenienza (tratto dalla newsletter
23.03.2016 n. 142 di http://asmecomm.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Osservatorio Viminale/
Vietato tacitare i consiglieri.
È legittima la disposizione regolamentare che assegna al
sindaco-presidente del consiglio comunale la facoltà di
negare il diritto di parola a un consigliere, qualora sullo
stesso argomento si sia pronunciato il proprio capogruppo?
L'esistenza dei gruppi consiliari non è espressamente
prevista dalla legge, ma si desume implicitamente da quelle
disposizioni del decreto legislativo n. 267/2000 che
contemplano diritti e prerogative in capo ai gruppi o ai
capigruppo.
In particolare, l'art. 38, comma 3, stabilisce che il
regolamento consiliare disciplina la gestione di tutte le
risorse attribuite per il funzionamento del consiglio e per
quello dei gruppi consiliari regolarmente costituiti.
Il successivo art. 39, comma 4, prevede, invece, che il
presidente del consiglio assicuri una adeguata e preventiva
informazione ai gruppi consiliari e ai singoli consiglieri
sulle questioni sottoposte al consiglio.
Infine, i capigruppo sono menzionati dall'articolo 125 il
quale stabilisce che le deliberazioni adottate dalla giunta
sono trasmesse in elenco a tali soggetti.
Le disposizioni citate, dunque, non assegnano ai gruppi e ai
capigruppo alcuna specifica funzione di rappresentanza dei
singoli consiglieri che possa essere esercitata durante le
sedute dei consigli. Invero, i gruppi appaiono essenziali,
in particolare, per la formazione delle commissioni
consiliari (ove costituite), mentre i capigruppo, di norma,
regolano le attività all'interno dei gruppi medesimi e
svolgono le funzioni necessarie per la costituzione di tali
commissioni.
Peraltro, il richiamato art. 38, al comma 2, demandando al
regolamento la disciplina del funzionamento del consiglio,
nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto, consente
anche l'adozione di norme per regolare «la discussione delle
proposte».
Tuttavia, è anche vero che l'articolo 43 del
decreto legislativo n. 267/2000, riconoscendo il diritto di
iniziativa dei consiglieri su ogni questione sottoposta alla
deliberazione del consiglio, non limita la facoltà in parola
alla sola presentazione delle proposte, ma intende, invece,
garantire a ogni singolo eletto il diritto di esprimere la
propria personale posizione nell'ambito del consiglio,
diritto non surrogabile da manifestazioni di volontà
collettive imposte dal regolamento.
Tant'è che anche l'articolo 78 del richiamato Tuel limitando
il diritto a prendere parte alla discussione solo nel caso
di delibere che riguardino interessi propri o di propri
parenti o affini sino al quarto grado, conferma
implicitamente la funzione relativa alla personale
partecipazione del singolo consigliere alla discussione
delle proposte.
Tale tesi trova conforto anche nella giurisprudenza (Tar
Campania Napoli, sez. I, 25/03/1999, n. 847) che, ritenendo
legittimo il regolamento per il funzionamento del consiglio
comunale nella parte in cui lascia al presidente il compito
di stabilire la durata delle discussioni, ha, altresì,
rilevato l'illegittimità del medesimo strumento nella parte
in cui consente al consiglio, a maggioranza, di troncare la
discussione quando ritenga che l'argomento sia
sufficientemente dibattuto e che le ulteriori richieste di
intervento abbiano carattere pretestuoso
(articolo ItaliaOggi del 18.03.2016). |
APPALTI:
I requisiti per l'affidamento dei contratti pubblici.
DOMANDA:
A seguito di partecipazione a confronto concorrenziale per
lavori in economia, mediante cottimo fiduciario, il legale
rappresentante della società aggiudicataria (società di
capitali) ha dichiarato il possesso dei requisiti d’ordine
generale di cui all'art. 38, comma 1, del D.Lgs. 163/2006
ed, in particolare, che “i soggetti di cui all'art. 38,
comma 1, lett. c), del D.Lgs. 163/2006 attualmente in carica,
non hanno riportato condanne passate in giudicato, decreti
penali di condanna divenuti irrevocabili e sentenze di
applicazione della pena su richiesta, ai sensi dell’art. 444
del codice di procedura penale, ivi comprese quelle per le
quali abbiano beneficiato della non menzione.”
Il punto indicava chiaramente che tali sentenze o decreti
dovevano essere obbligatoriamente dichiarati TUTTI, ad
eccezione delle condanne quando il reato è stato
depenalizzato ovvero per le quali è intervenuta la
riabilitazione ovvero quando il reato è stato dichiarato
estinto dopo la condanna ovvero in caso di revoca della
condanna medesima. In sede di verifica si è appurato che la
composizione societaria dell’aggiudicataria vede due soci
persone giuridiche al 50% l’una.
Si chiede pertanto:
1. se le verifiche di cui all’art. 38 d.lgs. 163/2006
lettere b) e c) siano da estendere anche ai soci non persone
fisiche, risultando ambiguo il dettato della norma con
riferimento ai soggetti in caso di società con meno di
quattro soci recitando: “degli amministratori muniti di
potere di rappresentanza o del direttore tecnico o del socio
unico persona fisica, ovvero del socio di maggioranza in
caso di società con meno di quattro soci, se si tratta di
altro tipo di società o consorzio” oppure se siano da
riferirsi solo al socio persona fisica (in caso di società
con meno di quattro soci).
Si chiede quindi se le dichiarazioni debbano intendersi, e
pertanto le verifiche da effettuarsi, non soltanto
relativamente al socio persona fisica ma anche per il socio
persona giuridica per quanto concerne sia le società con
socio unico che le società con meno di quattro soci
relativamente al socio di maggioranza, in ossequio al
principio della par condicio dei concorrenti;
2. se è possibile, ad aggiudicazione avvenuta, ricorrere
all'istituto del soccorso istruttorio per vedere rese le
eventuali ulteriori dichiarazioni, sostenendo
l’aggiudicataria di non aver reso le stesse per i soci
persone giuridiche;
3. se è possibile comunque ricorrere al soccorso istruttorio
in caso di omessa dichiarazione in merito alla lettera
m-quater dell’art. 38 D.Lgs. 163/2006, non avendo rilevato
tale omissione in sede di apertura offerte.
RISPOSTA:
1) L'AVCP, con determinazione del 16.05.2012 n. 1, ha
fornito “Indicazioni applicative sui requisiti di ordine
generale per l’affidamento dei contratti pubblici”
precisando, relativamente alle disposizioni dell’art. 38
comma 1 lett. b) e c) del Codice dei contratti pubblici
-concernenti l’esclusione dalle procedure di affidamento
disposta per i soggetti sottoposti a procedimenti per
l’irrogazione di misure di prevenzione antimafia, nonché
derivante dalla pronuncia di particolari sentenze di
condanna (per reati che incidono sulla moralità
professionale e reati di partecipazione ad un'organizzazione
criminale, corruzione, frode, riciclaggio)- che: «In
riferimento al primo profilo, si ritiene che l’accertamento
della sussistenza della causa di esclusione di cui all’art.
38, comma 1, lett. b) e c) vada circoscritto esclusivamente
al socio persona fisica anche nell’ipotesi di società con
meno di quattro soci, in coerenza con la ratio sottesa alle
scelte del legislatore: diversamente argomentando,
risulterebbe del tutto illogico limitare l’accertamento de
quo alla sola persona fisica nel caso di socio unico ed
estendere, invece, l’accertamento alle persone giuridiche
nel caso di società con due o tre soci, ove il potere del
socio di maggioranza, nella compagine sociale, è sicuramente
minore rispetto a quello detenuto dal socio unico».
Successivamente, con determinazione n. 2 del 02.09.2014, l'ANAC
-la quale ha assunto i compiti e le funzioni dell’Avcp- ha
constatato l’esistenza di alcuni profili di criticità in
ordine all’applicazione dell’art. 38, comma 1, lett. b) e c)
derivanti dall’entrata in vigore del Codice antimafia (D.Lgs.
06.09.2011 n. 159): "Le disposizioni del Codice antimafia
costituiscono ius superveniens rispetto al Codice dei
contratti ed al Regolamento. Deve ritenersi, pertanto, che
il Codice antimafia, pur non prevedendo l’abrogazione
espressa del citato art. 38, il quale continua quindi ad
esplicare i propri effetti, abbia senz’altro innovato la
disciplina dettata da tale disposizione".
Le verifiche contemplate nel Codice antimafia, tuttavia,
attengono al momento immediatamente antecedente alla stipula
del contratto ed alla fase esecutiva dello stesso e come
tali sono limitate all’aggiudicatari.
Consegue da quanto sopra che ai fini della verifica dei
requisiti di carattere generale dei concorrenti in sede di
gara, continua a trovare applicazione esclusivamente l’art.
38, comma 1, lett. b) e c), del Codice dei contratti,
trattandosi di disposizione normativa sulla quale non
incidono, in relazione a tale fase della procedura, le norme
dettate dal Codice antimafia. Al riguardo valgono, dunque,
le considerazioni espresse dall’Autorità nella
determinazione n. 1/2012.
Ai fini della stipula del contratto, invece, occorre
eseguire sull’aggiudicatario le verifiche contemplate dallo
stesso art. 38, comma 1, lett. b) e c), così come innovate
dal Codice antimafia, ossia estendendo le verifiche anche al
socio persona giuridica per quanto concerne sia le società
con socio unico che le società con meno di quattro soci
relativamente al socio di maggioranza, in ossequio al
principio della par conditio dei concorrenti.
Infatti, appare irrazionale che le condanne per i reati
previsti dal citato dispositivo normativo debbano produrre
effetto solo per il socio persona fisica e non per il socio
persona giuridica (cfr. sentenza del TAR Puglia Bari, Sez.
I, 30.08.2013 n. 1287 che afferma: «Invero, il
riferimento normativo contenuto nell’art. 38, comma 1, lett.
c), dlgs 12.04.2006, n. 163 ... al “socio di maggioranza”
deve essere interpretato anche nel senso di socio di
maggioranza - persona giuridica (e non solo persona fisica),
onde evitare la facile elusione della disciplina
legislativa). Se lo spirito del Codice dei contratti
pubblici è quello di assicurare legalità e trasparenza nei
procedimenti degli appalti pubblici, occorre garantire
l’integrità morale del concorrente sia se persona fisica che
persona giuridica. Tra l’altro, viceversa, verrebbe violato
il principio della par conditio dei concorrenti in quanto
una società concorrente con socio unico o socio di
maggioranza che sia persona fisica sarebbe soggetto alla
dichiarazione antimafia, mentre se si tratta di persona
giuridica non sarebbe soggetto alla dichiarazione antimafia».
2) Dal momento che l'estensione delle verifiche in oggetto
anche al socio persona giuridica attengono al momento
immediatamente antecedente alla stipula del contratto ed
alla fase esecutiva dello stesso, sarà successivamente
all'aggiudicazione (e senza che ciò implichi il ricorso al
soccorso istruttorio), che la società di capitali dovrà
rendere le ulteriori dichiarazioni relative a entrambi i
soci persona giuridica, nel rispetto della determinazione
ANAC n. 2 del 02.09.2014, e della disciplina del Codice
antimafia.
3) Oltre all'ipotesi di falsità, l'omissione o incompletezza
delle dichiarazioni da rendersi ai sensi dell'art. 38 da
parte di tutti i soggetti ivi previsti costituiscono, di per
sé, motivo di esclusione dalla procedura ad evidenza
pubblica anche in assenza di una espressa previsione del
bando di gara (ex multis, parere AVCP 16.05.2012, n.
74 e Cons. St., sez. III, 03.03.2011, n. 1371).
Le dichiarazioni sul possesso dei prescritti requisiti,
pertanto, non possono essere prodotte ex post,
qualora mancanti (cfr., AVCP Determinazione n. 4/2012;
Determinazione n. 1/2012), dunque nessuno spazio può avere
il dovere di soccorso istruttorio (cfr. Consiglio di Stato,
sez. III, 16.03.2012, n. 1471), nemmeno in caso di omessa
dichiarazione in merito alla lettera m-quater dell’art. 38
d.lgs. 163/2006 (link a www.ancirisponde.ancitel.it). |
NEWS |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Gestione dei rifiuti senza rischi. Modelli
organizzativi adeguati per prevenire gli ecoreati.
Le indicazioni Fise Assoambiente per
prevenire la responsabilità ex dlgs 231/2001.
Valutazione dell'esposizione a tutti i
reati previsti dal dlgs 231/2001, chiara definizione di
compiti e responsabilità aziendali, peculiare analisi dei
rischi legati alle aree sensibili dell'attività d'impresa.
Arriva da Fise-Assoambiente la guida che supporta le aziende
di gestione rifiuti nella redazione del «modello
organizzativo» utile ad arginare le dirette responsabilità
previste dal dlgs 231/2001 in caso di reati commessi da
propri collaboratori.
Approvate dal ministero della giustizia nel dicembre 2015 e
diramate nei giorni scorsi anche sul sito internet
www.assoambiente.org, le linee guida sviluppate in
collaborazione con CertiQuality integrano e declinano le più
generali istruzioni già dettate da Confindustria in materia
di responsabilità amministrativa degli enti.
Il contesto normativo.
In base al dlgs 231/2001 imprese ed enti rispondono
direttamente, con sanzioni amministrative sia pecuniarie che
interdittive, per determinati reati commessi nel loro
interesse o vantaggio da propri amministratori, dirigenti e
dipendenti. Le stesse entità non rispondono di tali illeciti
(c.d. «reati presupposto», elencati dal decreto) se
dimostrano: di aver adottato ed efficacemente attuato prima
della loro commissione un «modello di organizzazione e
gestione» idoneo a prevenirli; di aver svolto effettiva
vigilanza sulla sua osservanza; l'avvenuta fraudolentemente
elusione del protocollo da parte degli autori dell'illecito.
Il modello è considerato «idoneo» se risponde ai requisiti
essenziali sanciti dagli articoli 6 e 7 del dlgs 231/2001,
ossia: individua le attività nel cui ambito possono
commettersi i reati presupposto; prevede specifici
protocolli per formazione e attuazione delle azioni
preventive; dispone obblighi di informazione dell'Organo di
vigilanza; prevede un adeguato sistema sanzionatorio per la
violazione delle regole; è costantemente verificato ed
aggiornato. Una presunzione di conformità è sancita dallo
stesso dlgs 231/2001 per i protocolli riconosciuti dal
ministero della giustizia.
I reati presupposto.
Fondamentale nella redazione del modello, sottolineano le
nuove linee guida, è considerare tutte le fattispecie di
reato previste dal dlgs 231/2001, salvo poi affrontare le
specificità dei singoli illeciti cui l'attività dell'azienda
renda sensibilmente esposti. Sotto tale profilo, a titolo
esemplificativo le istruzioni Assoambiente elencano una
serie di reati presupposto che interessano anche le imprese
della gestione sui rifiuti.
Tra questi, vengono in primo luogo evidenziati gli illeciti
legati a rapporti e contatti con la pubblica
amministrazione, come malversazione, indebita percezione di
erogazioni, truffa ai danni dello Stato, concussione e
corruzione.
In relazione a tali illeciti, principali aree di rischio per
le aziende del settore ambientale appaiono essere:
partecipazione a gare pubbliche e negoziazioni; procedimenti
per rilascio di atti, provvedimenti e autorizzazioni.
Di rilevo, si evince dalle stesse linee guida, anche
l'associazione a delinquere, collegabile con il reato di
attività organizzata per il traffico illecito di rifiuti.
Ricettazione, riciclaggio e impiego di denaro, beni o
utilità di provenienza illecita possono altresì interessare
le attività di raccolta e smaltimento rifiuti come la
produzione di energie rinnovabili.
Sotto osservazione anche l'impiego di cittadini di paesi
terzi con soggiorno irregolare, illecito aggravato
dall'esposizione a situazioni lavorative di grave pericolo.
Tra gli altri reati di carattere generale, l'attenzione deve
altresì essere posta su falsità e frode informatica,
ricettazione, riciclaggio, impiego di denaro, beni o utilità
di provenienza illecita. Peculiare, per la trasversalità
delle fattispecie sottese, dovrà altresì essere la
prevenzione dei reati di omicidio e lesioni colpose commesse
in violazione delle norme sulla sicurezza sul lavoro,
elevati a illeciti «231» dalla legge 123/2007.
Tra gli illeciti di stretto carattere ambientale (che se non
già sottoposti a prevenzione impongono un rapido upgrade del
proprio modello organizzativo), si ricordano invece due
importanti upgrade del catalogo dei «reati 231»: quello
effettuato dlgs 121/2011, che vi ha inserito quelli in
materia di inquinamento di acque, aria e suolo, gestione dei
rifiuti, danneggiamento di fauna, flora e habitat; quello
recato dalla recente legge 68/2015 che vi ha introdotto i
nuovi eco-delitti (sia dolosi che colposi) di inquinamento e
disastro ambientale, traffico o abbandono di materiale ad
alta radioattività.
Il modello organizzativo.
Al fine di garantire l'efficace controllo dei rischi, nella
costruzione del «modello 231» particolare attenzione dovrà
essere posta nella chiara e formale definizione di compiti e
responsabilità delle figure aziendali.
Tra i protocolli di controllo per prevenire i reati (anche
nelle attività eco-sensibili) si citano a titolo di esempio
quelli relativi alle variazioni del ciclo produttivo
«trasversali» sia alla gestione ambientale (quali nuovi
scarichi, rifiuti o emissioni) che alla gestione della
sicurezza sul lavoro (come l'aggiornamento della valutazione
dei rischi per ricezione di nuovi rifiuti o utilizzo di neo
sostanze chimiche).
Analisi dei processi aziendali.
L'idonea prevenzione dei reati ex dlgs 231/2001 passa
attraverso l'individuazione dei rischi legati alle c.d.
«aree sensibili» dell'azienda. Nelle imprese di gestione
rifiuti, sottolineano le linee guida, figurano in tale senso
le attività di trattamento rifiuti, intermediazione,
trasporto, bonifiche.
In relazione al trattamento rifiuti, in particolare,
peculiare attenzione dovrà essere prestata a: processi di
pianificazione dei conferimenti; trasporti; gestione,
esercizio e manutenzione impianti; flussi in
ingresso/uscita; analisi di laboratorio; monitoraggi
ambientali (relativi a suolo, acque, aria); gestione delle
emergenze; gare e negoziazioni dirette; omologa rifiuti. In
relazione alla bonifica di siti inquinati particolare
attenzione dovrà inoltre essere posta su: attività
preliminari ed elaborazione dei progetti; caratterizzazioni
(come carotaggi ed emungimenti); messa in sicurezza;
bonifica delle falde; asportazione di strati contaminati e
trattamenti on site.
Fra i controlli specifici sul processo, l'attenzione dovrà
invece essere posta sui protocolli aziendali interni che
disciplinano anche: uso di sostanze chimiche; eventi
potenzialmente contaminanti di matrici ambientali; controlli
manuali a campione; censimento di impianti, macchinari,
attrezzature e dispositivi potenzialmente contenenti
sostanze lesive dell'ozono; nuove opere e manutenzioni
straordinarie anche in prossimità di aree naturali;
tracciabilità delle attività; verifica di titoli
autorizzatori in capo a soggetti terzi cui vengono conferiti
i rifiuti (inclusa verifica delle targhe dei mezzi);
gestione degli impianti con emissioni; verifica della
validità temporale delle autorizzazioni.
I sistemi di gestione ambientale volontari.
Le linee guida Assoambiente offrono infine utili indicazioni
per l'integrazione tra sistemi volontari di gestione
ambientali (Iso 14001 ed Emas) e modelli ex dlgs 231/2001.
Tali sistemi volontari, evidenziano le linee guida, mirano
proprio ad identificare gli aspetti ambientali con impatti
significativi al fine di effettuare gli interventi di
prevenzione, controllo, monitoraggio e miglioramento
necessari.
Fermo restando che solo l'adozione e l'attuazione del
«modello 231» può avere effetto contenitivo delle
responsabilità legate ai sottesi illeciti, i sistemi
volontari Iso ed Emas possono, con i dovuti adattamenti che
tengano conto delle relative prescrizioni legali,
contribuire proprio alla valida costruzione del documento di
prevenzione ex dlgs 231/2001
(articolo ItaliaOggi Sette del 27.03.2016). |
APPALTI FORNITURE - INCARICHI PROFESSIONALI:
Consulenze p.a. non oltre il 20% della spesa
2009. Circolare della Rgs.
La spending review va avanti e sotto la scure finiscono le
spese per mobili e arredi, per le auto, per i beni e i
servizi informatici, per gli studi e gli incarichi di
consulenza.
In una circolare indirizzata agli enti pubblici (circolare
23.03.2016 n.
12), la Ragioneria
generale dello Stato mette nero su bianco gli obblighi di
risparmio di spesa da rispettare nei bilanci di previsione
2016 alla luce delle disposizioni introdotte dalla legge di
Stabilità 2016 e dal decreto legge milleproroghe.
In particolare, sono previsti tagli alle spese per acquisti
e arredi che, si precisa, non possono superare il 20% della
spesa sostenuta in media negli anni 2010 e 2011, «se non
destinati all'uso scolastico e dei servizi dell'infanzia,
salvo che l'acquisto sia funzionale alla riduzione delle
spese connesse alla conduzione degli immobili».
E ancora,
scure sulle consulenze: le spese per studi e incarichi non
possono essere superiori al 20% di quella sostenuta nel
2009. Sforbiciata anche per le spese destinate a computer e
ai servizi informatici. «L'obiettivo annuale, da raggiungere
alla fine del triennio 2016-2018, è pari al 50% della spesa
annuale media per la gestione del solo settore informatico
relativa al triennio 2013-2015», si legge nella circolare.
Viene quindi ribadito il divieto per tutto il 2016 per le p.a
di acquistare autovetture
(articolo ItaliaOggi del 26.03.2016). |
APPALTI FORNITURE - INCARICHI PROFESSIONALI: Spending
review: al via scure su consulenze mobili e pc.
Parte la nuova fase di spending review per la pubblica
amministrazione. Le revisione della spesa prosegue sulle
linee guida tracciate negli ultimi anni, in primis con il
maxi-blocco del turnover al 25% previsto dalla legge di
stabilità, ma va avanti anche con operazioni più
chirurgiche: dallo stop agli acquisti di auto per l'intero
anno, fino al taglio delle spese per i mobili, i computer e
le consulenze.
Nella
circolare 23.03.2016 n. 12 che incorpora le disposizioni della legge
di stabilità e del Milleproroghe, la Ragioneria generale
dello Stato ricorda alla platea degli enti pubblici (tra gli
altri enti di previdenza, Inail, Camere di Commercio,
Università, Autorità indipendenti ecc...) quali sono i nuovi
obblighi da rispettare nei bilanci di previsione 2016,
invitando i ministeri a vigilare ciascuno sugli enti ed
istituti di propria competenza.
Si parte quindi dalle consulenze che lo scorso anno, secondo
una recente relazione della Funzione pubblica, sono
aumentate di ben il 60%. In base a quanto previsto dalla
legge di stabilità, se dal primo gennaio 2016 si vorrà
ricorrere a consulenti o collaboratori esterni non si potrà
spendere più del 20% di quanto speso nel 2009.
Paletti
strettissimi sono posti anche all'acquisto di mobili,
tavoli, sedie, armadi e altri elementi di arredamento.
Nessuna amministrazione, recita il documento firmato dal
ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan, potrà «effettuare
spese di ammontare superiore al 20% della spesa sostenuta in
media negli anni 2010 e 2011 per l'acquisto di mobili ed
arredi, se non destinati all'uso scolastico e dei servizi
all'infanzia».
La Ragioneria ricorda inoltre che per l'acquisto di pc,
prodotti informatici e connessioni ad internet, la legge di
stabilità 2016 ha introdotto l'obbligo per le
amministrazioni pubbliche e tutte le società inserite nel
conto economico consolidato della pubblica amministrazione,
di provvedere «esclusivamente tramite Consip o soggetti
aggregatori».
Una procedura che si affianca
all'obiettivo di risparmio di spesa annuale, da raggiungere
alla fine del triennio 2016-2018, pari al 50% della spesa
annuale media per la gestione corrente del solo settore
informatico, relativa al triennio 2013-2015.
L'attuale legislazione prevede infine il divieto di acquisto
di nuove auto o di stipula di contratti di leasing sino al
31.12.2016 (anche se una proposta di legge in esame in
Parlamento punta ad estendere il limite fino al 2017)
(25.03.2016
- tratto da www.ilsole24ore.com). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA: Nuova modulistica per il Durc telematico.
Nuova modulistica per il Durc online.
Con la nota prot. n.
5081/2016, infatti, il Ministero del lavoro ha aggiornato il
modello per la dichiarazione di «non commissione di illeciti
ostativi al rilascio del documento unico di regolarità
contributiva», ai sensi dell'articolo 1, comma 1175, della
legge n. 296/2006.
Il nuovo modello, aggiornato alle novità del decreto
interministeriale del 30.01.2015 (disciplina del Durc
online), va (re)inviato anche dai datori di lavoro che già
hanno rilasciato per la prima volta dopo il 01.07.2015
la dichiarazione sull'assenza delle cause ostative.
Durc online. Dal
01.07.2015 è operativa la procedura
semplificata di rilascio del Durc, che prevede la via
telematica quale unica modalità per le richieste e il
rilascio della regolarità contributiva. Tra l'altro il
documento ha una validità di 120 giorni e può essere
utilizzato a ogni fine di richiesta dalla legge.
La
disciplina è dettata dal decreto 30.01.2015 che,
all'articolo 8, prevede le cosiddette «cause ostative alla
regolarità», ossia una serie di violazioni previdenziale e
sulla sicurezza del lavoro (dettagliate nell'allegato A al
decreto) che, ai sensi del citato articolo 1, comma 1175,
della legge n. 296/2006, non consentono il rilascio del Durc.
Il comma 4 dell'articolo 8, stabilisce che, ai fini della
regolarità contributiva, l'impresa è tenuta ad
autocertificare alla competente direzione territoriale del
lavoro l'inesistenza a suo carico di provvedimenti,
amministrativi o giurisdizionali definitivi in ordine alla
commissione delle predette violazioni ovvero il decorso del
periodo indicato dallo stesso allegato relativo a ciascun
illecito.
Con la nota in esame, il ministero comunica di aver
aggiornato il modello di autocertificazione e di averlo
pubblicato nella sezione «strumenti e servizi» del
sito internet. Il modello va usato, oltre che per le
prossime dichiarazioni, anche dai datori di lavoro che lo
hanno già rilasciato per la prima volta a partire dal
01.07.2015
(articolo ItaliaOggi del 25.03.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
TRIBUTI:
Gli immobili vuoti non pagano la Tari.
Gli immobili vuoti non sono soggetti alla Tari. Il mancato
utilizzo di un immobile, privo di mobili o di allacci alle
reti idriche o elettriche, esonera il contribuente dal
pagamento della tassa rifiuti.
È questa la tesi dell'Ifel
espressa in uno schema di regolamento Tari predisposto per i
comuni, che all'articolo 4 elenca gli immobili esclusi dal
prelievo per inidoneità a produrre rifiuti.
È una questione dibattuta da anni e che ha fatto registrare
contrastanti prese di posizione della giurisprudenza, di
legittimità e di merito, e del ministero dell'economia e
delle finanze.
Ad oggi, però, solo la Cassazione non ha cambiato idea e ha
sempre mantenuto fermo il principio che non è decisiva ai
fini della tassazione la scelta del titolare di usare o meno
l'immobile. Ciò che conta è che l'immobile sia
oggettivamente utilizzabile o suscettibile di produrre
rifiuti. Occorre guardare alle condizioni del locale o
dell'area e non all'uso che intende farne l'occupante o il
detentore. La maggior parte delle amministrazioni locali,
invece, ha escluso dalla tassazione gli immobili
inutilizzati, se privi di allacci alle reti, idriche ed
elettriche, o di mobili.
È evidente, quindi, che la posizione espressa dall'Ifel con
il regolamento Tari si pone in contrasto con le regole da
tempo affermate dalla Suprema corte e, tra l'altro, con
l'interpretazione fornita dallo stesso istituto di finanza
locale con una nota del 01.09.2014. Nella nota Ifel,
correttamente, era stato precisato che la tassa è dovuta a
prescindere dall'uso degli immobili, purché siano
«potenzialmente in grado di produrre rifiuti urbani».
Dunque, «indipendentemente dalla circostanza che vi sia un
effettivo utilizzo del servizio pubblico». E la regola
stabilita dalla Cassazione per la Tarsu vale anche per Tares
e Tari.
In effetti la Cassazione (ordinanza 18022/2013), per
esempio, ha ritenuto legittima la pretesa del comune di
Bologna di applicare la Tarsu a un appartamento
inutilizzato. Per i giudici di legittimità, il cambio di
residenza del contribuente, la denuncia di cessazione
dell'occupazione dell'immobile e il mancato consumo di
energia elettrica non lo esonerano dal pagamento della tassa
rifiuti.
Vanno esclusi dalla tassazione solo gli immobili non
utilizzabili (inagibili, inabitabili, diroccati). Non ha
alcuna rilevanza la scelta soggettiva dei titolari di non
utilizzarli. Anche il mancato arredo non costituisce prova
dell'inutilizzabilità dell'immobile e della inettitudine
alla produzione di rifiuti. Un alloggio che il proprietario
lasci inabitato e non arredato si rivela inutilizzato, ma
non oggettivamente inutilizzabile.
Per la prima volta il principio è stato affermato con la
sentenza 16785/2002, poi ribadito con le sentenze 9920/2003,
22770/2009, 1850/2010 e altre. Sempre la Cassazione
(ordinanza 1332/2013) ha chiarito che l'esonero dal
pagamento non spetta neppure quando il contribuente fornisca
la prova dell'avvenuta cessazione di un'attività industriale
(nel caso di specie, un oleificio)
(articolo ItaliaOggi del 25.03.2016). |
APPALTI: Stazioni appaltanti contro le frodi. Il personale deve
prevedere misure anticorruzione. L'obiettivo è prevenire i conflitti di interesse per evitare
distorsioni della concorrenza.
Scatta la responsabilità disciplinare, amministrativa e
penale per il personale della stazione appaltante che è in
posizione di conflitto di interesse relativamente a una
procedura di appalto pubblico; ogni amministrazione deve
prevedere idonee misure di prevenzione della corruzione e
delle frodi connesse ad eventuali interessi economici,
finanziari o personali del personale che interviene nella
procedura di aggiudicazione.
È quanto stabilisce l'articolo 42 dello
schema di decreto
legislativo contenente il nuovo codice dei contratti
pubblici sul quale entro i primi di aprile si
dovranno esprimere con pareri che si annunciano corposi
(ormai sembrano almeno 30 i punti da ritoccare), le
commissioni parlamentari, il Consiglio di stato e la
Conferenza unificata (Schema di decreto legislativo
recante disposizioni per l'attuazione delle direttive
2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull'aggiudicazione dei
contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle
procedure d'appalto degli enti erogatori nei settori
dell'acqua, dell'energia, dei trasporti e dei servizi
postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in
materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e
forniture -
Atto del Governo n. 283 sottoposto a parere parlamentare).
La disposizione recepisce analoghe norme delle
direttive europee del 2014 che per la prima volta hanno
introdotto una disciplina sui problemi derivanti da
situazioni di conflitto di interesse che possono fare capo
ai responsabili delle stazioni appaltanti o al personale del
prestatore di servizi.
Il principio generale è che le stazioni appaltanti devono
prevedere misure adeguate per contrastare le frodi e la
corruzione e individuare, prevenire e risolvere in modo
efficace ogni ipotesi di conflitto di interesse nello
svolgimento delle procedure di aggiudicazione degli appalti
e delle concessioni.
L' obiettivo espressamente citato nella disposizione è
quello di evitare qualsiasi distorsione della concorrenza e
garantire la parità di trattamento di tutti gli operatori
economici, si tratta dello stesso scopo che persegue la
disciplina in materia di «partecipazione precedente di
candidati o offerenti» di cui all'articolo 67 dello schema
di decreto delegato, con la differenza che quest'ultima
norma è destinata soltanto a soggetti esterni alla stazione
appaltante, mentre l'articolo 42 riguarda anche i soggetti
interni e i prestazioni di servizi che hanno partecipato
alle fasi preliminari.
L'articolo 42 introduce quindi, in
maniera innovativa rispetto all'attuale codice, la
definizione di conflitto d'interesse facendo riferimento
alle situazioni in cui il personale di una stazione
appaltante o di un prestatore di servizi che, anche per
conto della stazione appaltante, interviene nello
svolgimento della procedura di aggiudicazione degli appalti
e delle concessioni o può influenzarne, in qualsiasi modo,
il risultato, ha, direttamente o indirettamente, un
interesse finanziario, economico o altro interesse personale
che può essere percepito come una minaccia alla sua
imparzialità e indipendenza nel contesto della procedura di
appalto o di concessione.
Il caso che si può immaginare è quello del soggetto che
supporta il responsabile del procedimento della stazione
appaltante nella predisposizione degli atti di gara.
La norma si indirizza al «personale» sia della stazione
appaltante, sia del prestatore di servizi, e stabilisce che
in questi casi il soggetto interessato deve astenersi dal
partecipare alla procedura di aggiudicazione degli appalti e
delle concessioni, pena l'incorrere (nel caso del personale
dipendente pubblico) in responsabilità disciplinare, fatte
salve le ipotesi di responsabilità amministrativa e penale
(che riguarda anche il prestatore di servizi). Si prevede
che le disposizioni trovino applicazione anche per la fase
di esecuzione dei contratti pubblici (esempio per la
direzione lavori).
La stazione appaltante dovrà vigilare sul rispetto delle
norme del nuovo codice e di quelle che essa stessa detterà
in via generale o nei singoli atti di gara, oltre che sul
rispetto della disciplina nazionale in materia di conflitti
di interesse e di lotta alla corruzione
(articolo ItaliaOggi del 25.03.2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il bonus del 65% al decollo.
Dall'Enea il portale ad hoc per la documentazione.
Tutto pronto per le domande relative ai lavori di
riqualificazione energetica.
Tutto pronto per la detrazione del 65% per i lavori di
riqualificazione energetica degli immobili. Dal 22 marzo è
infatti attivo sul sito dell'Enea il portale
http://finanziaria2016.enea.it/ per usufruire beneficio,
trasmettendo la documentazione tecnica per fruire della
detrazione per i lavori di risparmio energetico conclusi nel
2016.
L'Enea precisa che «attualmente il sito non può
accettare l'inserimento di documentazione relativa agli
interventi di building automation (dispositivi multimediali
per il controllo da remoto degli impianti), poiché siamo in
attesa di indicazioni operative da parte dei ministeri e
degli enti preposti».
Resterà attivo anche il sito relativo
all'anno fiscale 2015 (disponibile all'indirizzo
http://finanziaria2015.enea.it/), per consentire sia l'invio
delle ultime pratiche relative al 2015 sia le eventuali
modifiche di quanto già precedentemente trasmesso. Fino al
31.12.2016 è possibile usufruire delle detrazioni
fiscali del 65% per gli interventi di riqualificazione
energetica degli edifici esistenti: con la legge di
Stabilità 2016 (legge 28.12.2015, n. 208) sono state
prorogate fino a tale data sia la detrazione fiscale del 65%
per gli interventi di efficientamento energetico e di
adeguamento antisismico degli edifici, sia la detrazione del
50% per le ristrutturazioni edilizie. L'agevolazione
consiste in una detrazione dall'Irpef o dall'Ires ed è
concessa quando si eseguono interventi che aumentano il
livello di efficienza energetica degli edifici esistenti.
In particolare, la detrazione, che è pari al 65% per le
spese sostenute dal 06.06.2013 al 31.12.2016, è riconosciuta
se le spese sono state sostenute per la riduzione del
fabbisogno energetico per il riscaldamento, il miglioramento
termico dell'edificio (coibentazioni - pavimenti - finestre,
comprensive di infissi), l'installazione di pannelli solari
e la sostituzione degli impianti di climatizzazione
invernale. Dal 01.01.2017 il beneficio sarà del 36%, cioè
quello ordinariamente previsto per i lavori di
ristrutturazione edilizia.
Con la legge di Stabilità 2016 l'agevolazione è prevista
anche per l'acquisto, l'installazione e la messa in opera di
dispositivi multimediali per il controllo da remoto degli
impianti di riscaldamento o produzione di acqua calda o di
climatizzazione delle unità abitative, volti ad aumentare la
consapevolezza dei consumi energetici da parte degli utenti
e a garantire un funzionamento efficiente degli impianti
(articolo ItaliaOggi del 24.03.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Liquidazioni online per la Pa.
Pensioni. Eccetto i dipendenti statali.
Con la
circolare 110/2015 la gestione dipendenti pubblici dell’Inps
aveva dato avvio alla sperimentazione per la liquidazione
delle pensioni con la nuova procedura Sin2, superando nei
fatti il vecchio modello PA04, cioè la certificazione dello
stato di servizio con le relative retribuzioni. Nei fatti la
liquidazione delle pensioni da cartacea diventa telematica.
Il periodo transitorio ha riguardato 14 province. Con la
circolare
22.03.2016 n. 54 l’istituto di previdenza, a
seguito dell’esito della sperimentazione, estende a tutte le
sedi la liquidazione delle pensioni attraverso il canale
informatico, escluso i dipendenti statali. I datori di
lavoro, dal canto loro, dovranno fornire supporto ai
dipendenti prossimi alla pensione, invitandoli alla
presentazione della domande con un anticipo di almeno sei
mesi. Ricevuta la richiesta di pensione, dovranno verificare
la correttezza della posizione assicurativa alimentata
attraverso il flusso uniemens – sezione ListaPosPa.
Se nella fase di verifica dovessero emergere delle anomalie,
le stesse dovranno essere sistemate in funzione della
collocazione temporale. Per i periodi fino al 31.12.2004 la modifica della posizione assicurativa avviene
direttamente su Passweb, per i periodi compresi tra il 01.01.2005 e il 30.09.2012 le sistemazioni potranno
avvenire tramite flusso telematico o sistemazione “manuale”
sull’applicativo web, mentre per le correzioni da apportare
dal 01.10.2012 le rettifiche dovranno essere fatte
esclusivamente mediante l’invio di una nuova denuncia.
Inoltre dovranno essere inseriti i dati di ultimo miglio che
consistono nella funzione di “anticipo Dma” e
nell’inserimento delle retribuzioni valutabili in “quota A”
alla cessazione. La circolare precisa altresì che in nessun
caso l’anticipo Dma può essere utilizzato per coprire lacune
contributive, cui fanno seguito periodi per i quali è stata
presentata regolare denuncia attraverso il flusso mensile.
Ne deriva, a ulteriore conferma di quanto già affermato
nella circolare 12/2016, che il modello PA04 non dovrà più
essere trasmesso.
L’Inps effettuerà la liquidazione della pensione sulla base
dei dati presenti nella posizione assicurativa del
lavoratore prossimo alla pensione. In ogni caso la pensione
messa in pagamento è sempre da considerarsi provvisoria. La
pensione definitiva sarà liquidata una volta che saranno
consolidati gli uniemens relativi ai mesi per i quali l’ente
aveva effettuato l’anticipo Dma.
I modelli PA04 trasmessi
fino al 30.04.2016 potranno essere utilizzati per la
sistemazione dei periodi antecedenti il 01.10.2012
oppure per la compilazione dell’ultimo miglio e
dell’anticipo Dma. Dal 01.05.2016 il modello PA04
cesserà definitivamente di esistere (articolo Il Sole 24 Ore del 23.03.2016). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Il sindaco delude? Un referendum per revocarlo.
Se diretta è l'investitura, diretta potrà essere anche la
revoca. I sindaci che tradiscono il mandato degli elettori
potranno essere mandati a casa senza attendere la fine della
legislatura. Basterà aspettare 18 mesi e raccogliere le
firme del 15% dei votanti dell'ultima tornata elettorale.
Non servirà nessun quorum per la validità del referendum i
cui costi saranno a totale carico del comune. Se sfiduciato
dai propri cittadini, il sindaco si intenderà revocato e il
Viminale dovrà indire nuove elezioni entro i tre mesi
successivi.
La proposta di legge di Pino Pisicchio (Atto Camera
n. 3660) è appena stata presentata alla camera e fa già molto
discutere. Perché i sindaci (e soprattutto quelli dei
piccoli comuni che si sentono accerchiati da progetti di
associazionismo forzoso imposti in nome dell'efficienza e
dei risparmi di spesa) la interpretano come una spada di
Damocle agitabile per sovvertire l'esito democratico delle
elezioni.
«Ma in realtà», spiega Pisicchio, «si tratta di
uno strumento di democrazia continua, particolarmente
necessario in questo periodo storico in cui la crisi dei
partiti ha prodotto un forte deficit democratico». «Fino
alla fine degli anni 80», osserva il deputato pugliese, «gli
italiani iscritti ai partiti erano 4 milioni e mezzo, in
pratica il 10% del corpo elettorale. Ora questo numero sta
precipitando, c'è una forte disaffezione, l'astensionismo
sta raggiungendo livelli record e si fa fatica in questo
quadro a parlare di democrazia compiuta».
La scelta della
classe dirigente diventa quindi un problema reale e le
possibilità di commettere errori sono molto elevate. Il
ragionamento allora diventa molto semplice: visto che è
impossibile mandare a casa i deputati, perché la
Costituzione non lo consente, tanto vale iniziare dai comuni
«dove si verifica non di rado che il rapporto di fiducia tra
il capo dell'amministrazione locale, investito dal voto
popolare, e il corpo elettorale non sia più in sintonia».
E
dove, prosegue Pisicchio, spesso i consigli comunali, spinti
da una logica di autoconservazione, «finiscono per creare
condizioni di tutela del sindaco» anche quando ormai la sua
immagine è compromessa. Pisicchio, che è presidente del
Gruppo Misto, spera che i lavori in commissione affari
costituzionali possano iniziare prima dell'estate. E punta a
raccogliere un ampio consenso sul testo ma soprattutto una
discussione rapida. «Lo spiegherò nella conferenza dei
capigruppo», dice. «Non a caso ho formulato la proposta alla
vigilia delle amministrative»
(articolo ItaliaOggi del 22.03.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Solo il 46% dei comuni ha lo sportello unico edilizia.
Ad oggi, solo il 46% su 1.500 comuni ha istituito lo
sportello unico per l'edilizia (cd. Sue) e nell'89% dei casi
lo sportello è organizzato in forma singola. Nell'88% dei
casi il Sue costituisce l'unico punto di contatto con
l'utenza e si interfaccia direttamente con altri enti e
uffici coinvolti nel procedimento.
Questo è quanto emerge dal
report elaborato da Italia Semplice in merito alla
funzionalità dello sportello unico per l'edilizia.
Le
maggiori criticità riscontrate sono relative al livello di
collaborazione con gli enti coinvolti nei procedimenti
(giudicato scarso nel 25% dei casi), alla gestione della
pratica online e nei rapporti con il Suap (le pratiche di
edilizia produttiva arrivano direttamente al Sue tramite il
Suap solo nel 62% dei casi).
Le amministrazioni manifestano
esigenze di consulenza nell'interpretazione della normativa,
soprattutto relativa ad alcune tematiche specifiche quali l'efficientamento
energetico e le energie alternative, l'affiancamento sulle
modalità di accorpamento delle funzioni con altri Comuni, in
un'ottica di forma associata del Sue e la formazione
sull'iter del procedimento per tutti gli enti e uffici
coinvolti. Le azioni di affiancamento proseguiranno
nell'ambito del nuovo ciclo di programmazione dei fondi
strutturali.
Sono state individuate prime misure correttive
in materia di agibilità e sismica. La previsione della Scia
«unica» e la nuova disciplina della conferenza dei servizi,
approvate in via preliminare dal Consiglio dei ministri il
20.01.2016, affrontano i fondamentali nodi critici per
il funzionamento dei Sue.
Nei comuni che hanno istituito (o
aderito a) un Suap, le funzioni di Sue e Suap non sono
unificate nel 70% dei casi (in queste circostanze le
funzioni di edilizia produttiva sono gestite prevalentemente
dai Suap). Nell'oltre l'80% dei casi il Sue acquisisce
d'ufficio i documenti e le informazioni già in possesso
della pubblica amministrazione
(articolo ItaliaOggi del 22.03.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Edifici nuovi e ristrutturati, Ape con verifica in cantiere.
Nei casi di edifici di nuova costruzione e di
ristrutturazioni importanti, il servizio di Ape offerto dal
soggetto certificatore deve comprendere almeno la
valutazione della prestazione energetica dell'edificio a
partire dai dati progettuali, i controlli in cantiere nei
momenti costruttivi più significativi e una verifica finale
con l'eventuale utilizzo delle più appropriate tecniche
strumentali.
Questo è quanto si legge nella
circolare 17.03.2016 n. 696
del Consiglio nazionale degli ingegneri sulle modalità di
redazione Ape.
Il direttore dei lavori deve segnalare al soggetto
certificatore le varie fasi della costruzione dell'edificio
e degli impianti, quando rilevanti per le prestazioni
energetiche dell'edificio, al fine di consentire i previsti
controlli in corso d'opera. Il soggetto certificatore opera
nell'ambito delle proprie competenze e per l'esecuzione
delle attività di rilievo in sito, diagnosi, verifica o
controllo, può procedere alle ispezioni ed al collaudo
energetico delle opere, avvalendosi, ove necessario, delle
necessarie competenze professionali.
Per gli edifici esistenti al fine di ottimizzare la
procedura, il richiedente può rendere disponibili a proprie
spese i dati relativi alla prestazione energetica
dell'edificio o dell'unità immobiliare. Lo stesso può anche
richiedere il rilascio dell'attestato di prestazione
energetica sulla base di un attestato di qualificazione
energetica relativo all'edificio o alla unità immobiliare
oggetto di attestazione della prestazione, anche non in
corso di validità, evidenziando eventuali interventi su
edifici e impianti eseguiti successivamente e dal le
risultanze di una diagnosi energetica effettuata da tecnici
abilitati con modalità coerenti con i metodi di valutazione
della prestazione energetica attraverso cui si intende
procedere.
Il soggetto certificatore è tenuto a utilizzare e
valorizzare i documenti sopra indicati (e i dati in essi
contenuti), qualora esistenti e resi disponibili dal
richiedente, unicamente previa verifica di completezza e
congruità
(articolo ItaliaOggi del 22.03.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Amianto, rimozione finanziata.
Fondi anche per la posa in opera dei nuovi materiali.
Nelle Faq dell'Inail alcuni chiarimenti alle imprese per
accedere al Bando Isi 2015.
Scossaline e grondaie rientrano tra le spese finanziabili,
in caso di rifacimento della copertura per la rimozione di
amianto. E sono finanziabili anche le spese di posa in opera
del materiale sostitutivo di copertura, ma fino al massimo
di 25 euro a metro quadrato.
A precisarlo, tra l'altro, è
l'Inail in una
serie di Faq pubblicate sul sito internet
relative al
bando Isi 2015.
Il bando 2015. Il bando Isi 2015 ha stanziato 276.269.986
(sesta tranche di complessivi 1,2 miliardi di euro), con la
novità di prevedere uno specifico asse di finanziamento
dedicato ai progetti finalizzati alla rimozione di materiali
con amianto. Destinatarie dei finanziamenti sono tutte le
imprese, ad eccezione di quelle ammesse a contributo per
avvisi di anni precedenti o per il bando Fipit.
Tre le
tipologie di progetti ammessi: di investimento; di
responsabilità sociale e per l'adozione di modelli
organizzativi; di bonifica da amianto. Il contributo
concesso è pari al 65% delle spese con massimo di 130 mila
euro e minimo di 5 mila (minimo non operante per imprese
fino a 50 dipendenti in caso di progetti del secondo tipo).
Dal 1° marzo, si possono precaricare i progetti sul sito web
dell'Inail al fine di verificarne la compatibilità.
Il prezzo a metro quadro. Una prima Faq riguarda gli
interventi di rimozione di coperture in amianto e chiede di
sapere se i costi di posa in opera del materiale sostitutivo
possano o meno essere compresi tra quelli finanziabili. La
risposta è affermativa. Le spese di posa in opera della
nuova copertura, spiega l'Inail, rientrano tra quelle
indispensabili alla completezza dell'intervento; l'unica
limitazione riguarda il costo del materiale sostitutivo: va
computato nella misura massima di 25 euro per metro quadro
di copertura rimossa e da sostituire.
Pertanto, aggiunge
l'Inail, nei preventivi presentati in caso di superamento
del click day dovranno essere evidenziati i costi relativi
all'acquisto del materiale sostitutivo delle coperture
rimosse.
La copertura da rifare. Una seconda Faq chiede di sapere se,
sempre in caso di rimozione di coperture in amianto, sia
finanziabile il rifacimento della nuova copertura di
superficie maggiore di quella rimossa. La risposta è
negativa. In tal caso, spiega l'Inail, nel computo delle
spese di progetto si terrà conto unicamente della porzione
riferibile alla sostituzione della copertura rimossa e,
pertanto, la porzione eccedente resterà interamente a carico
del richiedente.
Capannoni in affitto. Un'ultima Faq, nel caso in cui
l'intervento di rimozione dell'amianto riguardi una porzione
di un immobile in locazione, chiede all'Inail se l'azienda
locataria possa ottenere il contributo sull'intera copertura
posto che, in caso di mancata eliminazione integrale
dell'amianto sul tutta l'intera copertura, il rischio
amianto comunque continuerebbe a sussistere per i propri
dipendenti.
La risposta è negativa anche in questo caso,
perché l'Avviso pubblico prevede che, nel caso di locazioni
parziali d'immobile, sia finanziata la sola quota parte dei
lavori che riguarda la porzione di immobile non locata e
utilizzata direttamente dai dipendenti dell'impresa
richiedente
(articolo ItaliaOggi del 22.03.2016). |
EDILIZIA PRIVATA -
TRIBUTI:
Catasto, rettifiche motivate. Nulli gli atti che
non indicano gli immobili comparabili o i lavori eseguiti.
Accertamento. Stretta della giurisprudenza di
legittimità e di merito: bocciate le esposizioni
schematiche.
Accertamenti
catastali a rischio di nullità se non adeguatamente
motivati: è il principio ormai costante che emerge dalla
giurisprudenza di legittimità e di merito, chiamata spesso,
negli ultimi tempi, ad affrontare cause legate alle
rettifiche operate dalla ex agenzia del Territorio.
Il classamento di un immobile è necessario per
l’attribuzione della rendita catastale, che di fatto,
esprime il valore di ogni unità. A questo fine, occorre
considerare sia le singole caratteristiche dell’immobile
(come ad esempio la dimensione, l’epoca di costruzione, la
struttura e la dotazione impiantistica, la qualità e lo
stato edilizio, la presenza di pertinenze comuni o
esclusive, il livello di piano), sia il contesto in cui è
ubicato (riscontrando il grado di urbanizzazione dell’area
circostante, la presenza di infrastrutture o la vicinanza
alle principali vie di comunicazione). In sintesi dunque,
ogni unità immobiliare è qualificata con una determinata
categoria e, in relazione alla “qualità” dell’immobile, con
una specifica classe.
Per ogni Comune è stabilita una tariffa per ogni classe che,
moltiplicata per la dimensione del fabbricato (vano, metro
quadrato o metro cubo) dà la rendita catastale. Gli uffici,
per “aggiornare” questo valore possono rettificare la
rendita sia di un singolo immobile, sia di tutte le unità
presenti in un determinato quartiere o zona. Le cause che
rendono necessario un riclassamento sono riconducibili a due
categorie:
-
la variazione subita dalla microzona comunale in cui è
ubicato l’immobile, come ad esempio il miglioramento della
viabilità, la realizzazione di scuole, ospedali;
-
l’esecuzione di opere a cura del possessore, volte alla
ristrutturazione del fabbricato.
Per la Cassazione (sentenza 6593/2015), a prescindere
dall’impulso che ha dato avvio alla procedura di classamento,
questa attività è (e resta) una procedura «individuale», che
va effettuata considerando i fattori posizionali ed edilizi
pertinenti a ciascuna unità immobiliare. Si tratta così di
un unico criterio che consente di identificare il «parametro
globale di apprezzamento» del fabbricato stesso.
Gli atti di accertamento catastali, sebbene possano
dipendere da vari fattori, spesso riportano una motivazione
sintetica e schematica che difficilmente risponde ai
requisiti minimi per la validità dell’atto.
La Suprema corte ha da tempo dichiarato la nullità degli
atti privi di motivazione poiché questa ha carattere
sostanziale e non solo formale: non si tratta infatti di un
elemento utile solo a provocare la difesa del contribuente,
ma circoscrive l’eventuale successivo giudizio (sentenza
20251/2015).
La Ctr di Milano, sezione staccata di Brescia
(sentenza 1043/67/2016), in virtù di questo principio, ha
affermato che la motivazione “integrata” nella costituzione
dell’ufficio, quindi dopo l’emissione dell’avviso di
accertamento, non consente al contribuente di difendersi e
pertanto l’atto è nullo (in questo senso anche Ctp Milano,
sentenza 1419/12/2016).
Per la Ctr di Roma (sentenza 1075/21/16), non può ritenersi
congruamente motivato il provvedimento che faccia
riferimento a un generico scostamento del valore
dell’immobile ovvero a non precisate opere edilizie
eseguite.
Occorre così che il provvedimento, per garantire il diritto
di difesa, contenga:
-
la menzione dei rapporti tra valore di mercato e catastale
nella microzona di riferimento, qualora la modifica sia
stata avviata su richiesta del Comune;
-
l’indicazione delle trasformazioni edilizie;
-
l’indicazione dei fabbricati, del loro classamento e delle
caratteristiche analoghe che li rendono simili all’unità
oggetto di riclassamento, quando l’atto sia conseguente a un
aggiornamento o a un’incongruità rispetto ad altri immobili
(sentenza 23247/2014).
Il contribuente quindi, dovrà comprendere i motivi della
variazione eseguita dall’ufficio, per riscontrarne la
correttezza ed eventualmente decidere di ricorrere al
giudice tributario.
---------------
Dal 2016 l’atto è soggetto a reclamo.
Le modalità dei ricorsi. Le modifiche introdotte dal Dlgs
156/2015 hanno creato un doppio binario in base alla data di
notifica.
L’accertamento
catastale va impugnato davanti alla commissione tributaria
secondo le regole ordinarie.
Recentemente, peraltro, le Sezioni unite della Cassazione
(sentenza 2950/2016) hanno confermato che, se il
contribuente contesta le risultanze dei pubblici registri e
richiede una variazione dei dati negli stessi contenuti, la
giurisdizione è, appunto, del giudice tributario.
Il ricorso deve essere notificato all’ufficio che ha emesso
il provvedimento entro 60 giorni dalla notifica dell’atto
stesso. In seguito alle modifiche introdotte dal Dlgs
156/2015, l’accertamento catastale è un atto reclamabile e
pertanto occorre attendere 90 giorni prima della
costituzione in giudizio. In questo arco temporale,
l’ufficio valuta le motivazioni del contribuente e, nel
caso, rettifica o annulla il provvedimento.
L’istituto del reclamo anche per gli atti catastali trova
applicazione con riferimento ai ricorsi notificati dal
contribuente a partire dal 01.01.2016. Poiché in
passato questi provvedimenti non erano soggetti a
mediazione, i ricorsi presentati entro il 31.12.2015
dovevano seguire le regole ordinarie.
Si pensi a un accertamento catastale notificato il 16.12.2015: il contribuente che ha notificato il ricorso
entro la fine del 2015, doveva costituirsi in giudizio entro
il 14.01.2016. Il contribuente che ha notificato il
ricorso dopo il 1° gennaio, invece, poiché questo ha anche
gli effetti del reclamo, dovrà attendere i 90 giorni
previsti prima della costituzione in giudizio.
La difesa del contribuente dovrà essere indirizzata
innanzitutto a contestare eventuali elementi errati
considerati dall’ufficio che possano influire sul valore del
fabbricato. Eventuali fotografie potrebbero meglio
rappresentare lo stato conservativo e documentare così che
la nuova rendita attribuita non ne rappresenta il reale
valore. Preliminarmente, però, ove i dati in base ai quali
l’ufficio ha rettificato il classamento non siano
chiaramente identificabili, occorrerà rilevare anche il
vizio di motivazione (si veda l’altro articolo in pagina).
Sebbene poi possa apparire singolare, davanti a un
accertamento catastale, il contribuente potrebbe chiedere
alla commissione che siano sospesi gli effetti dell’atto
nelle more del giudizio. Come infatti avviene nei ricorsi
contro gli avvisi di accertamento, è sempre possibile la
richiesta cautelare. Poiché però nella maggior parte dei
casi non sono pretese somme, occorrerà che il contribuente
documenti in che misura la nuova rendita può arrecargli un
danno grave e irreparabile.
Tutte le imposte la cui base
imponibile dipende da questo valore, infatti (Imu, imposta
di registro, ipotecaria o catastale, e così via) dovranno
essere calcolate secondo la nuova rendita accertata, a
prescindere dal fatto che il provvedimento risulti pendente (articolo Il Sole 24 Ore del 21.03.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Vincoli idrogeologici, stop al silenzio-assenso.
Più complesse le autorizzazioni per lavori nei territori a
rischio frane e alluvioni (l’88% dei Comuni).
Collegato ambientale. Dal 2 febbraio eliminato ogni
automatismo: necessario acquisire il parere preventivo
dell’Autorità di tutela prima di avviare gli interventi.
Il Collegato
ambientale (legge n. 221 del 28.12.2015) introduce
nuove procedure, più complesse, per mitigare il rischio
idrogeologico, aspetto che interessa gran parte del
territorio nazionale. In edilizia questo ha un impatto
immediato perché nelle numerose zone soggette a questo
vincolo le semplificazioni introdotte di recente sono
applicabili in misura limitata.
Secondo un recente studio di Ispra (Dissesto idrogeologico
in Italia – dicembre 2015), oltre l’88% dei Comuni è a
rischio idrogeologico e questa problematica interessa quasi
sette milioni di persone. A fronte di ripetuti tragici
eventi accaduti negli ultimi decenni (frane e alluvioni), il
legislatore è intervenuto a più riprese, rendendo
obbligatoria per i Comuni la redazione dei Piani di assetto
idrogeologico (legge n. 183/1989), prevedendo l’obbligo per i
Comuni ad alto rischio di predisporre un piano emergenziale
(legge n. 267/98), fino al più recente Dlgs n. 49/2010, che
ha dato attuazione alla direttiva 2007/60/Ce per la
prevenzione e mitigazione del rischio idrogeologico a
livello europeo.
Grazie, poi, all’assoggettamento di piani e programmi alle
procedure di Vas (valutazione ambientale strategica), il
rischio idrogeologico ha assunto sempre più rilevanza a
livello di pianificazione urbanistica.
La necessità di tutelare il territorio, però, si scontra con
l’altra faccia della medaglia, ovvero la necessità di
semplificare le procedure amministrative, incluse quelle in
materia edilizia.
Ci si riferisce in particolare alle modifiche introdotte
dalla legge n. 134/2012 rispetto allo sportello unico per
l’edilizia, che, attraverso la conferenza di servizi, è
competente ad acquisire tutti gli atti preliminari di
assenso necessari a completare l’istruttoria, inclusi quelli
delle autorità preposte alla tutela dell’ambiente, del
paesaggio del patrimonio storico-artistico e, oggi, anche
dell’assetto idrogeologico.
Ancor più rilevante la semplificazione introdotta dal Dl n.
69/2013 che ha esteso il silenzio assenso alle domande di
permesso di costruire che non vengono concluse con
provvedimento espresso motivato entro 30 giorni dal
completamento della relativa istruttoria.
Per non parlare poi dell’introduzione della Scia
(segnalazione certificata di inizio attività) e Cia
(comunicazione inizio lavori) anche in edilizia.
A seguito delle modifiche introdotte dal Collegato
ambientale, tuttavia, le semplificazioni edilizie –così
come quelle più generali introdotte al procedimento
amministrativo (legge n. 241/1990)– incontrano un ulteriore
limite applicativo oltre a quelli già preesistenti relativi
ad aspetti essenziali e primari, tra cui la tutela
dell’ambiente, del paesaggio, nonché la salute e sicurezza
delle persone.
Dal 2 febbraio scorso -data di entrata in vigore del
Collegato ambientale- a tali aspetti essenziali si aggiunge
anche il rischio idrogeologico, con conseguente maggior
attenzione agli interventi su immobili interessati da
vincolo idrogeologico (di fatto gran parte del patrimonio
edilizio esistente).
L’attività edilizia libera (ossia senza titolo edilizio), ad
esempio, deve comunque considerare e rispettare anche le
previsioni normative e regolamentari comunali poste a tutela
del rischio idrogeologico.
Gli interventi sottoposti a Dia, Scia o Cia (secondo le
specifiche discipline regionali) devono ottenere
preventivamente atti o pareri relativi all’assetto
idrogeologico laddove previsto dalla normativa applicabile.
Ed è escluso il ricorso alle autocertificazioni o a
attestazioni e asseverazioni da parte di tecnici abilitati.
Il permesso di costruire non si forma per silenzio assenso
nel caso in cui, rispetto all’intervento in progettazione
sussista un vincolo idrogeologico e non sia ottenuto il
relativo parere favorevole (momento da cui iniziano a
decorrere i 30 giorni per il silenzio-assenso). Anzi,
qualora venga rilasciato un parere negativo, la mancata
formale conclusione del procedimento principale, comporta il
rigetto della domanda di permesso di costruire.
L’equilibrio tra tutela del territorio e semplificazione
edilizia, dunque, si fa sempre più precario, considerato che
il rischio idrogeologico interessa una parte rilevante del
nostro patrimonio immobiliare.
Da un lato, non possono essere sicuramente trascurati
aspetti sempre più importanti per la tutela della
collettività, dall’altro, le amministrazioni dovranno
strutturarsi e operare in modo da non ostacolare o ritardare
lo sviluppo sostenibile evadendo le richieste dei privati
nei tempi di legge (articolo Il Sole 24 Ore del 21.03.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Ai privati l’iniziativa sul danno ambientale.
Siti di interesse nazionale. Le decisioni passano da Palazzo
Chigi al ministero.
Oltre all’intervento
sulle procedure edilizi, il Collegato ambientale (legge n.
221/2015) riscrive le procedure e i criteri per la
definizione transattiva del danno ambientale rispetto ai
siti di interesse nazionale.
L’articolo 31, infatti, abroga la precedente disciplina
(articolo 2 del Dl n. 208/2008) –salvi i procedimenti per i
quali sia già stato comunicato lo schema di contratto– e
introduce un nuovo articolo (306-bis) al Codice
dell’ambiente (Dlgs n. 152/2006).
La nuova procedura –ad una prima lettura– parrebbe più
semplice e snella di quella previgente, in quanto non è più
prevista l’approvazione dello schema di transazione da parte
della Presidenza del consiglio, bensì è il ministero
dell’Ambiente a gestire la transazione, ottenendo il
preventivo parere di Regione, Comuni e Ispra mediante
conferenza di servizi, nonché il successivo parere di
avvocatura dello Stato e Corte dei conti.
L’iniziativa, però, è sempre in mano al privato che avvia la
procedura presentando una propria proposta che:
-
individui gli interventi di riparazione primaria,
complementare e compensativa;
-
in caso di riparazione compensativa, tenga conto dei tempi
della riparazione primaria o della riparazione
complementare;
-
se non è possibile risarcire risorsa con risorsa e servizio
con servizio, contenga una liquidazione del danno per
equivalente economico;
-
preveda un piano di monitoraggio in caso di inquinamento
residuo ;
-
tenga conto degli interventi di bonifica già approvati e
realizzati;
-
in caso di concorso di più soggetti, sia formulata anche da
alcuni soltanto di essi con riferimento all’intera
obbligazione, salvo il regresso nei confronti degli altri;
-
contenga idonee garanzie finanziarie.
Alcuni dei criteri transattivi destano qualche perplessità.
In particolare, rimane la possibilità di quantificare il
danno residuo per equivalente economico, possibilità che è
stata messa in discussione in passato anche a livello
europeo e che aveva portato problemi applicativi, tanto che
questa possibilità,residuale, era stata limitata ai costi
del mancato ripristino in forma specifica (legge n.
97/2013).
Ulteriori dubbi desta altresì la necessità di prevedere una
proposta che consideri il danno ambientale cagionato anche
da altri soggetti, con sostanziale ribaltamento del diritto
di rivalsa dal ministero agli stessi privati proponenti la
transazione.
La procedura, peraltro, deve sempre presupporre la pendenza
di un giudizio e trova applicazione solo rispetto ai siti di
interesse nazionale.
Cosa succede per gli altri siti non di interesse nazionale?
Può il ministero definire transazioni anche rispetto a
questi siti? E come? La risposta non è scontata. La recente
novella, tuttavia, offre uno spunto di riflessione in più.
Il nuovo articolo 306-bis (Determinazione delle misure per
il risarcimento del danno ambientale e il ripristino
ambientale dei siti di interesse nazionale) è stato inserito
subito dopo l’articolo 306 (Determinazione delle misure per
il ripristino ambientale), il quale prevede la possibilità
per il ministero di valutare l’opportunità di un accordo con
l’operatore interessato attraverso accordi sostitutivi di
provvedimento (articolo 11 della legge n. 241/1990).
La conseguenzialità logica delle due norme e l’assonanza dei
relativi titoli potrebbe portare a ritenere che anche per i
siti non di interesse nazionale sia possibile definire
accordi transattivi con il ministero attraverso accordi
sostitutivi di provvedimento e, quindi, attraverso una
procedura più elastica, salvo voler applicare analogicamente
i principi stabiliti dall’articolo 306-bis. In tal caso,
però, il rischio è che tali transazioni difficilmente
possano andare a buon fine, soprattutto rispetto ad
operatori e situazioni minori (articolo Il Sole 24 Ore del 21.03.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
TRIBUTI:
Debiti fiscali pagati in natura. In diverse città
si può ricorrere al baratto amministrativo.
Dalla pulizia alla manutenzione: gli interventi
sul territorio fanno risparmiare in tasse.
Comuni in ordine sparso sul baratto amministrativo. Sono in
costante aumento gli enti che decidono di introdurre la
possibilità per i contribuenti di saldare «in natura» i
propri debiti col fisco locale. Dopo anni di federalismo
fiscale impazzito e complice anche il blocco dei tributi
imposto dall'ultima legge di stabilità, la fantasia dei
sindaci sembra avere trovato un nuovo canale per sfogarsi.
Ma non mancano i dubbi interpretativi e i rischi.
Il baratto è stato introdotto dall'art. 24 del dl 133/2014
(c.d. decreto «sblocca Italia»), rubricato «Misure di
agevolazione della partecipazione delle comunità locali in
materia di tutela e valorizzazione del territorio». In base
a tale norma, i comuni possono definire «i criteri e le
condizioni per la realizzazione di interventi su progetti
presentati da cittadini singoli e associati, purché
individuati in relazione al territorio da riqualificare».
Tali interventi, che possono riguardare la pulizia, la
manutenzione, l'abbellimento di aree verdi, piazze o strade
e in genere la valorizzazione di una limitata zona del
territorio urbano o extraurbano, danno diritto a riduzioni o
esenzioni relativi ai tributi inerenti al tipo di attività
posta in essere. Le agevolazioni fiscali, precisa ancora la
norma, possono essere concesse per un periodo limitato, per
specifici tributi e per attività individuate in ragione
dell'esercizio sussidiario di funzioni pubblicistiche.
Fin qui il dettato legislativo, che, come detto, i sindaci
(dopo un iniziale disinteresse nei confronti dell'istituto)
si stanno esercitando a riempire di contenuti.
Ad aprire la strada, come noto, è stato un piccolo comune
della provincia di Novara, Invorio, che la scorsa estate ha
varato un regolamento per consentire ai «compaesani» di
pagare Imu, Tasi, Tari attraverso prestazioni di pubblica
utilità.
Negli scorsi mesi diverse altre realtà si sono accodate,
comprese alcune grandi città, come Milano, Torino, Bologna,
Bergamo, Bari, Genova.
È questa, in effetti, la nuova frontiera del federalismo
fiscale: uno slogan che sembra aver perso molto dell'appeal
di un tempo, dopo che, colpo su colpo, è stato in buona
parte smantellato l'arsenale di balzelli in precedenza a
disposizione degli amministratori locali. L'ultimo tassello
del vecchio mosaico federale è stato tolto dalla legge
208/2015, che ha cancellato la Tasi sulla prima casa e ha
bloccato per tutto il 2016 la possibilità per i sindaci di
aumentare il prelievo. Il tutto in attesa di un ennesimo
restyling di cui, al momento, non si scorge neppure il
profilo.
Parallelamente (e un po' in sordina), si sta sviluppando una
sorta di federalismo al contrario, da un certo punto di
vista più virtuoso, perché a differenza del suo «fratello
maggiore» non comporta un incremento della pressione
fiscale, ma punta a offrire un modo alternativo e
sostenibile per pagare le tasse.
Ma l'elemento che accomuna i due federalismi sta
nell'incertezza delle regole, che rischia di generare
confusione, disparità di trattamento e magari anche
contenziosi.
Diversi sono, infatti, gli aspetti poco chiari della
disciplina sul baratto, a partire dal soggetto cui spetta
definirne le modalità applicative: nella maggior parte dei
casi è il consiglio comunale, ma non mancano esempi di
deliberazioni di giunta.
I dubbi maggiori riguardano, però, altri aspetti più di
sostanza, come l'individuazione dei potenziali beneficiari e
dei tributi «barattabili», i criteri per verificare
l'adeguatezza della controprestazione in natura, l'impatto
dello scambio sui bilanci comunali.
Su tali aspetti, sarebbero necessari maggiori punti fermi,
pur senza imbrigliare eccessivamente la normativa locale. Ma
l'esperienza insegna che devolution dovrebbe significare
poche regole ma certe e non totale assenza di regole.
---------------
Comuni fai-da-te su regole e limitazioni
da applicare.
Il baratto amministrativo può riguardare cittadini singoli o
associati. È questa l'unica, generica indicazione fornita
dall'art. 24 del dl 133. Logico, quindi, che i comuni si
siano mossi sulla base di criteri diversi per individuare i
potenziali beneficiari.
In generale, i regolamenti prevedono delle limitazioni in
base all'Isee, escludendo tutti coloro che superano un
valore minimo: ma a Invorio, quest'ultimo è fissato a 8.500
euro, a Oristano a 9.000 euro, mentre a Milano si sale a
21.000 euro. Difficile trovare la logica sottesa a tali
valori.
Solo alcuni regolamenti, inoltre, prevedono il requisito
della morosità incolpevole (ossia, come recita il bando
milanese, una situazione di sopravvenuta impossibilità a
provvedere al pagamento a ragione della perdita o
consistente riduzione della capacità reddituale del nucleo
familiare), mentre quasi nessuno valorizza il requisito
della sussidiarietà orizzontale, mettendo sullo stesso piano
le persone fisiche e, ad esempio, le associazioni no profit.
Quasi ovunque il baratto è limitato ai soli residenti,
mentre solo in alcuni casi sono previsti limiti di età (a
Carpi niente baratto per gli ultrasessantasettenni) e
requisiti di idoneità psicofisica ovvero la fedina penale
pulita (è il caso del capoluogo meneghino, che esclude tutti
coloro che siano stati condannati o abbiano patteggiato per
delitti contro la pa, il patrimonio, l'ordine pubblico o la
libertà personale).
Imu, Tasi, Tari, ma anche i loro antenati, ossia Ici, Tarsu,
Tia, Tares e chi più ne ha più ne metta nella lunga serie di
acronimi che ha scandito la travagliata storia del fisco
locale degli ultimi anni. Ma il baratto amministrativo può
riguardare anche entrate non tributarie, come le sanzioni
amministrative (ad esempio, per le violazioni al codice
della strada), oppure patrimoniali (canoni e proventi per
l'uso e il godimento dei beni comunali, corrispettivi,
tariffe per la fornitura di beni e per la prestazione di
servizi).
Anche dal punto di vista oggettivo, i comuni si sono
sbizzarriti e, a seconda dei casi, hanno ampliato o
ristretto l'ambito di applicazione dell'istituto, talvolta
magari forzando un po' la lettera della legge che, come
abbiamo visto, parla di esclusivamente di «tributi»,
prevedendo per di più che siano «specifici» ed «inerenti al
tipo di attività posta in essere» da chi ottiene la
possibilità di pagarli lavorando.
Ovviamente, non mancano le eccezioni: ad esempio, a Venaria
Reale il regolamento riguarda solo la tassa rifiuti, ma in
generale i comuni hanno preferito porre un limite di tipo
quantitativo (e non qualitativo) stabilendo delle soglie di
valore ai debiti fiscali al di sotto o al di sopra delle
quali il baratto non è ammesso. Ma anche qui senza alcuna
uniformità: se a Milano è previsto un minimo di 1500 euro,
in generale i comuni prevedono un tetto massimo sia per il
singolo contribuente che come somma massima autorizzata.
Un altro fattore di differenziazione è rappresentato dalla
scelta di includere o meno nel baratto anche i debiti
pregressi dei contribuenti, oltre che quelli che matureranno
dopo l'introduzione dell'istituto.
Sul punto, del resto, si registrano punti di vista diversi
anche all'interno delle associazioni rappresentative dei
sindaci, con l'Ifel che la ammette (nota del 22.10.2015), mentre l'Anci Emilia-Romagna propende per il no alla
luce del principio di indisponibilità e di irrinunciabilità
al credito tributario cui soggiacciono tutte le entrate
tributarie comunali (nota del 16/10/2015), con tutti i
correlati rischi di danno erariale.
Maggiore uniformità si registra, invece, sull'individuazione
delle prestazioni che chi aderisce al baratto può svolgere
in luogo del pagamento monetario. In genere, i comuni si
attengono al dettato normativo, che, come detto, menziona la
manutenzione, l'abbellimento di aree verdi, piazze, strade
ovvero gli interventi di decoro urbano, di recupero e riuso,
con finalità di interesse generale, di aree e beni immobili
inutilizzati. Di rado, però, si predilige la valorizzazione
di una limitata zona del territorio urbano o extraurbano.
Molto diversi, al contrario, i parametri per quantificare il
valore di tale prestazioni: a Milano, a ciascuna ora di
lavoro ai fini del baratto viene riconosciuto il valore di
10 euro, a Barzana (Bg) ogni 8 ore si scalano 60 euro di
debito, a Oristano bisogna lavorare 10 ore per vedersi
abbuonare 70 euro.
Un buco nero, infine, le modalità di contabilizzazione del
baratto nei bilanci comunali: nell'epoca dell'armonizzazione
contabile, sarebbe quindi auspicabile che almeno in questo
campo venissero definite regole uguali per tutti
(articolo ItaliaOggi Sette del 21.03.2016). |
APPALTI:
Il nuovo Codice degli appalti vissuto come una
sfida dai legali. Primi commenti
degli avvocati esperti del settore al pacchetto varato dal
governo.
Materia scivolosa quella degli appalti. Molta burocrazia,
poca trasparenza e una grossa fetta di spesa pubblica in
gioco. Questa l'immagine che l'argomento ha dato di sé fino
all'ultimo vecchio codice degli appalti e concessioni, il
«moloch» del 2006 con i suoi 1500 commi e 54 norme di
modifica.
Eppure, per questo agglomerato di articoli il momento della
pensione sembra essere sempre più vicino, visto il recente
varo da parte del governo del
decreto legislativo che
riforma il codice degli appalti, recepisce le direttive
europee e affida un ruolo fondamentale di vigilanza all'Anac
di Raffaele Cantone
(Schema
di decreto legislativo recante disposizioni per l'attuazione
delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE
sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli
appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti
erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei
trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino
della disciplina vigente in materia di contratti pubblici
relativi a lavori, servizi e forniture -
Atto del Governo n. 283 sottoposto a parere parlamentare).
Il recepimento delle nuove direttive europee «può costituire
l'occasione per ristrutturare il sistema italiano per
l'affidamento degli appalti. Tuttavia, il legislatore
dovrebbe finalmente garantire agli operatori che il nuovo
Codice sia –finalmente– un punto di arrivo e non un
ulteriore punto di partenza, come invece è stato il Codice
del 2006», commentano Nico Moravia e Marco Giustiniani dello
studio legale Pavia e Ansaldo.
Secondo i due professionisti, in quest'ottica, il governo in
sede di attuazione della delega avrebbe dovuto fare propria
questa considerazione di base: «affidare contratti pubblici
non è un mestiere semplice. Pertanto, più semplici, snelle e
trasparenti saranno le procedure, più si renderà semplice e
veloce il mestiere di chi aggiudica e quello di controlla la
correttezza degli affidamenti».
Il rischio, per Moravia e Giustiniani, è che il legislatore
insegua il mito della procedura perfetta che possa
prescindere da valutazioni soggettive sulle offerte, mentre
l'esperienza insegna che tanti appalti richiedono
necessariamente la valutazione di offerte tecniche e queste
non possono mai essere su criteri assolutamente oggettivi.
«Il tutto sembra orientato ad intervenire in modo innovativo
in un settore per troppi anni esposto alla complicazione e
alla paralisi», ha commentato invece Francesco Sciaudone,
managing partner di Grimaldi Studio Legale, da poco chiamato
a far parte della Commissione che contribuirà alla stesura
dei testi dei provvedimenti attuativi del Codice, costituita
dall'Anac e presieduta da Michele Corradino. «Uno stile di
recepimento copy out, un forte ricorso alla
deregolamentazione e un ruolo centrale riservato all'Anac
chiamata a completare e adeguare le norme di legge, con
interventi di cosiddetta soft law -continua Sciaudone-
sono indizi molto positivi per un deciso e convinto cambio
di passo che potrebbe essere foriero di una importante
spinta alla crescita economica».
Il decreto legislativo, secondo Alberto Fantini dello studio
legale Tonucci e Partners è sostanzialmente in linea con il
processo di riforma europeo ispirato a procedure di gara
semplici, innovative con ridotti oneri documentali, più
veloci, aperte a una maggiore partecipazione delle Pmi,
sensibili alle istanze ambientali e sociali, tracciabili e
controllabili dall'Anac.
Quindi, in generale il nuovo provvedimento, con i suoi i
principi e criteri, «dovrebbe favorire anche in Italia il
processo di integrazione europea, peraltro è da apprezzare
quanto indicato a proposito del sistema di qualificazione
gestito da Anac delle stesse stazioni appaltanti e non solo
degli operatori».
Tuttavia, ad una prima valutazione, come recita la legge
delega -sottolinea il professionista di Tonucci: «vi è una
elencazione di criteri che appaiono nella formulazione
maggiormente vincolanti rispetto all'ampia libertà di scelta
lasciata dal legislatore europeo per il recepimento delle
direttive, mentre altri appaiono più generici rispetto alla
necessità di sostanziare alcuni principi innovativi delle
direttive».
Ad esempio, riguardo al primo profilo, Fantini spiega che al
contrario del legislatore europeo, che punta a valorizzare
le procedure negoziate ovvero forme di consultazioni
preliminari del mercato e degli operatori al fine di rendere
l'approvvigionamento maggiormente aderente alle esigenze
della P.a, nel provvedimento si registra una maggiore
rigidità sul punto.
Mentre, riguardo al secondo aspetto, esempio di criterio
generico, è quello sui partenariati pubblico-privato e sul
partenariato per l'innovazione.
Come pure vi sono dei criteri direttivi in materia di rito
processuale abbreviato speciale che lasciano perplessi in
quanto poco coerenti con i principi di effettività e
attualità della lesione costringendo gli operatori a
promuovere ricorsi «al buio» aumentando piuttosto che
riducendo il contenzioso», conclude Fantini.
Un altro aspetto importante introdotto dal provvedimento è,
secondo Germana Cassar di Dla Piper, «l'aver affidato
all'Autorità Nazionale Anticorruzione un ruolo centrale
nella riforma con funzioni di controllo, monitoraggio e
anche sanzionatorie nonché di adozione di atti di indirizzo
quali linee guida, bandi e contratti tipo. Tale
accentramento dovrebbe essere garanzia di armonizzazione e
di rispetto dei principi di trasparenza e della concorrenza
e pertanto costituisce un punto di forza».
Nel testo della prima legge delega la professionista di Dla
Piper non ha invece riscontrato criteri o regole finalizzati
a risolvere le problematiche attuali relative ai cantieri
aperti o alle opere non completate ma assolutamente
necessarie al paese. «Sebbene vi sia l'espressa indicazione
di voler superare la legge obiettivo (legge 443/2001) con
l'aggiornamento e la revisione del piano generale dei
trasporti e della logistica e la riprogrammazione
dell'allocazione delle risorse alle opere in base ai criteri
individuati nel Documento pluriennale di pianificazione –continua Cassar- non è affatto chiaro quali saranno le
priorità e quale sarà la sorte delle opere pubbliche
«lasciate a metà» per mancanza di risorse.
A riguardo, occorrerà valutare in concreto se l'introduzione
dell'espressa previsione di misure volte a contenere il
ricorso a variazioni progettuali in corso d'opera possa
portare al compimento delle opere pubbliche il cui cantiere
è ancora in corso in tempi ragionevoli. Inoltre, è
interessante verificare se la possibilità di affidare la
continuazione delle opere anche a imprese fallite o ammesse
al concordato possa rappresentare un'opportunità di
risolvere la problematica delle opere incompiute», conclude
Cassar.
Sulla complessità oggettiva del sistema e sul fatto che non
esistano formule semplicistiche per risolvere i vari nodi
esistenti, non ha dubbi Alessandro Botto, socio di Legance
Avvocati Associati. La complessità però –chiarisce
l'avvocato– «non è spesso data dal numero e dalla
farraginosità delle norme, ma sono queste ultime che nella
stragrande maggioranza dei casi sono figlie della
complessità intrinseca del settore. Ciò detto, appare
comunque meritevole di condivisione l'intento di adottare un
atteggiamento sostanzialistico e rivolto a risolvere in
concreto i vari problemi sul tappeto»
Il decreto del governo comunque è composto da 217 articoli e
sancisce la fine del Codice degli appalti del 2006 che negli
anni si era andato via via ingigantendo a suon di modifiche
e integrazioni. Il vecchio Codice aveva infatti 660 articoli
e più di 1.500 commi. Nel corso degli anni è stato
modificato da 54 norme diverse a cui vanno aggiunte 19 leggi
di conversione.
Per far sì che questa sia davvero la «volta buona» della
semplificazione di questa materia, in teoria, con un
approccio anglosassone, secondo Botto basterebbe seguire una
sola norma: «comportatevi bene», lasciando alla
giurisprudenza il compiuto di individuare le best practices.
Il problema è che in questa disciplina si vogliono invece
inserire norme di varia natura (ad esempio anticorruzione,
antimafia ecc.) e si pretende anche di dettare una
disciplina molto dettagliata per paura di fenomeni
collusivi; ciò inevitabilmente crea ipertrofia normativa.
Il fatto, poi, che si sposti la disciplina a valle non
necessariamente semplifica il sistema (l'art. 5 della legge
delega per esempio rinvia a un decreto ministeriale su
proposta dell'Anac e sentite le Commissioni parlamentari).
Più duttile la soft regulation dell'Autorità, ma anche qui
occorre evitare una ipertrofia normativa di terzo livello,
spiega l'avvocato di Legance.
Che si vada verso la semplificazione se lo augura anche
Antonio Lirosi socio dello studio Gianni, Origoni, Grippo,
Cappelli & Partners, sottolineando però che bisognerà
aspettare la stesura definitiva del nuovo codice per
valutare se sia stato o meno raggiunto l'obiettivo della
semplificazione. «Il legislatore è ormai consapevole del
fatto che il continuo proliferare di norme e l'eccessivo
numero delle stesse comporta l'insorgere di interpretazione
contrastanti che si riflettono in termini di criticità sulle
procedure di gara, con tutto quel che ne consegue anche
sotto il profilo dei fenomeni corruttivi», ha spiegato Lirosi.
Pur apprezzando la buona volontà del legislatore, meno
ottimista si mostra Elena Giuffrè di Ashurst, secondo la
quale il reale contenimento delle disposizioni del nuovo
Codice è certamente di non facile attuazione. «Innanzitutto
in quanto il nuovo testo dovrà recepire ben tre direttive,
oltre ad includere le procedure per i contratti di importo
cosiddetti «sotto soglia», anche se l'inclusione di tali
ultimi contratti ha sollevato qualche dubbio di violazione
del divieto di gold plating, in quanto andrebbe oltre il
livello di regolazione definito a livello comunitario. In
aggiunta, si consideri che la riduzione delle disposizioni,
se da un lato semplifica il lavoro degli operatori,
dall'altro lato, potrebbe prestare il fianco ad eccessivi
margini di interpretazione delle norme con conseguente
apertura di contenziosi», ha aggiunto la professionista.
Con il nuovo testo arriva anche l'espresso divieto di
affidamento di contratti attraverso procedure derogatorie
rispetto a quelle ordinarie, a eccezione di singole
fattispecie connesse a urgenze di protezione civile
determinate da calamità naturali, per le quali devono essere
previsti adeguati meccanismi di controllo e di pubblicità
successiva.
Sullo stop alle deroghe, Giuffrè si augura che venga
lasciato comunque in piedi, come del resto consentito dalle
nuove direttive comunitarie, lo spazio per i casi limitati
di affidamento tramite procedura negoziata senza
pubblicazione del bando, pur con la massima trasparenza e
con i più opportuni controlli, onde evitare il rischio di
abusi. Ciò in quanto –ha spiegato l'avvocato di Ashurst–
«ci sono indubbiamente casi, al di là delle situazioni
emergenziali considerate dalla legge delega, in cui
l'espletamento di una gara aperta rallenta i tempi, creando
reali difficoltà operative alla stazione appaltante. I
principi di concorrenza e trasparenza, del resto, nei limiti
consentiti dalle direttive, devono anche tener conto delle
esigenze di efficienza della gestione pubblica. Spesso le
deroghe alle procedure aperte e ristrette vengono adottate
dalle stazioni appaltanti anche perché le lungaggini delle
procedure di gara rischiano di vanificare o pregiudicare gli
obiettivi del progetto. Anche per tale motivo, sicuramente
ci auspichiamo un reale snellimento e una maggiore rapidità
nella conclusione delle procedure di gara», ha concluso Giuffrè.
La gara dovrebbe garantire il miglior risultato nella scelta
del contraente, spiega invece Luca Raffaello Perfetti -
socio fresco di nomina di BonelliErede e responsabile del
dipartimento di diritto amministrativo dello studio –
aggiungendo che in Italia «dopo anni di fuga dalla gara, si
è passati all'estremo opposto». Più che escludere
affidamenti diretti, secondo lui occorrerebbe articolare
meglio le procedure: «per essere più aderenti alla realtà
infatti, in alcuni casi, la gara appare lo strumento meno
adatto per ottenere il risultato migliore. In Italia la
diffusa illegalità spinge ad affermare regole restrittive,
come quella della gara in ogni caso, che poi portano ad
aggiramenti. Meglio sarebbe dotarsi di strumenti adatti caso
per caso e far valere le responsabilità di chi li usi in
modo scorretto», conclude Perfetti.
La riduzione e la più specifica individuazione dei casi in
cui è consentito derogare alle modalità ordinarie di
affidamento per Mauro Pisapia, socio di Lombardi Molinari
Segni «mira a restringere l'ampia discrezionalità usata –e
in alcuni casi forse abusata– dalle stazioni appaltanti in
tema di procedure selettive. Il legislatore mira così ad
arginare il fenomeno, avente una certa diffusione,
dell'elusione dell'obbligo dell'evidenza pubblica, dietro il
quale spesso si celano condotte di dubbia liceità da parte
dei soggetti, pubblici e privati, coinvolti. Anche in
quest'ottica credo vada letto il potenziamento della
funzione di vigilanza attribuita ad Anac».
Mentre sul fatto che venga reintrodotto il controllo
preventivo della Corte dei conti -come previsto dalla legge
delega approvata alla Camera prima del decreto del Governo-
mediante una sua apposita sezione per gli appalti secretati
(carceri, caserme e altri impianti militari e, in alcuni
casi, giudiziari), Pisapia ha commentato: «la scelta appare
effettivamente poco coerente rispetto al complesso della
legge delega, che riconosce in via generalizzata ad Anac il
potere di vigilanza sugli appalti pubblici. Nondimeno, dalla
lettura della norma di riferimento (art. 1, comma 1, lett.
m) emerge che l'attribuzione alla Corte dei Conti del
controllo preventivo sugli appalti segretati risponde alla
necessità di tutelare le specifiche esigenze di riservatezza
che caratterizzano tale categoria di contratti. Si tratta di
una valutazione discrezionale del legislatore che,
verosimilmente, ha ritenuto preferibile affidare tale
delicata funzione alla magistratura contabile»
(articolo ItaliaOggi Sette del 21.03.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Esame del rischio di incendi per gli edifici sotto tutela.
Valutazione preliminare del rischio di incendio (per gli
occupanti e per i beni tutelati) per gli edifici sottoposti
a tutela. Sulla base della valutazione è necessaria una
strategia composta di soluzioni tecniche affinché sia
assicurato un grado di sicurezza antincendio equivalente a
quello della regola tecnica alla quale si intende derogare.
È con la
lettera-circolare 15.03.2016 n. 3181 di prot. del
dipartimento dei vigili del fuoco del ministero dell'interno
avente ad oggetto «linea guida per la valutazione, in
deroga, dei progetti di edifici sottoposti a tutela ai sensi
del dlgs 22.01.2004, n. 42, aperti al pubblico,
destinati a contenere attività dell'allegato 1 al dpr 01.08.2011 n. 151».
Negli edifici sottoposti a tutela, in
relazione alle destinazioni d'uso, dovranno osservarsi le
regole tecniche di prevenzione incendi, ovvero per le
attività non normate, si dovrà ricorrere ai criteri generali
di prevenzione e incendio. Oltre alla sicurezza antincendio,
vanno tenute in conto diverse problematiche quali la
conservazione, la tutela, il restauro e anche gli aspetti di
ordine strutturale, di uso e di anticrimine.
Diventa
fondamentale garantire che l'obiettivo della «salvaguardia
della vita umana» sia integrato con quello della
«salvaguardia del patrimonio culturale». Il vincolo imposto
all'immobile da tutelare comporta l'imprescindibile dovere
di conservazione e l'obbligo di autorizzazione preventiva,
da parte della sovraintendenza per ogni intervento sul
manufatto, limitatamente agli aspetti che si riferiscono
alle prescrizioni contenute nella dichiarazione di interesse
culturale della stessa. Il vincolo può essere posto
sull'immobile nella completezza, in una sua parte, sul suo
contenuto ma anche nel suo aspetto esteriore.
Rientrano in
questa fattispecie, il cosiddetto vincolo indiretto e quello pertinenziale,
che rispondono alla necessità di evitare che sia messa in
pericolo l'integrità dei beni immobili culturali
(articolo ItaliaOggi del 19.03.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO: P.a., arrivano le buste arancioni.
L'Inps calcola la pensione. E invita ad aderire a Spid.
L'annuncio ieri alla firma dell'accordo con Agid. Boeri:
puntiamo a coinvolgere i giovani.
A un milione e mezzo di dipendenti pubblici simulazione
della pensione in busta paga. Mentre a quelli privati
arriverà, con lo stesso obiettivo, la busta arancione
dell'Inps. In totale saranno sette milioni gli italiani
interessati dall'operazione, gran parte dai primi di aprile.
Lo ha detto il presidente dell'Inps, Tito Boeri, spiegando
che il cittadino troverà un fascicolo di quattro pagine con
alcune informazioni utili, dalla data di pensionamento alla
previsione dell'assegno mensile.
L'avvio dell'operazione da
150 mila lettere al giorno è stato annunciato ieri in
occasione della firma dell'accordo siglato tra Inps e Agid,
l'Agenzia per l'Italia digitale che dipende da Palazzo
Chigi, relativo all'iniziativa «Cittadino digitale», pensata
per avvicinare gli utenti ai servizi online della pubblica
amministrazione.
La finalità della busta arancione è quella
di riuscire a raggiungere diverse fasce di popolazione:
secondo i dati Istat, infatti, nel 2015, soltanto il 60%
degli italiani si è connesso a Internet e appena il 30%
degli utenti ha utilizzato la rete per interagire con la
pubblica amministrazione.
Sono proprio le persone che
attualmente non sono digitalizzate a necessitare
maggiormente di informazioni sul loro futuro previdenziale e
di una maggiore consapevolezza finanziaria nonché di
informazioni sui vantaggi derivanti dall'utilizzo dei
servizi online.
Spid. Per dare una sterzata ai rapporti con i cittadini, la
pubblica amministrazione punta sulle nuove opportunità
offerte da Spid, il Pin unico per interagire con la pubblica
amministrazione.
Lo Spid (Sistema pubblico per la gestione
dell'identità digitale) rimpiazza migliaia di codici
esistenti, per entrare via web da subito nei servizi
pubblici ma anche, in prospettiva, in quelli privati
(bancari, assicurativi ed e-commerce). L'accesso potrà
avvenire con pc, smartphone o tablet. Le credenziali di Spid
saranno rilasciate attraverso posta, mail o sms: chi ha già
una password rilasciata da una p.a. (come il pin dell'Inps)
potrà accelerare l'iter.
Accanto al prospetto con l'estratto
conto contributivo e la simulazione di base, Inps inviterà
gli utenti a richiedere Spid per accedere a tutte le
funzionalità offerte dal servizio. Come ha spiegato Boeri
attualmente sono 18,5 milioni i cittadini che possiedono un
pin Inps, di cui 13 milioni sono lavoratori attivi. Il
progetto punta soprattutto ai giovani che, secondo Boeri,
«non si pongono il problema della loro pensione futura».
Infatti dei 12 milioni di persone senza pin il 42% è
costituito da under 40. «Si tratta di un progetto che parte
dal lontano», ha commentato il direttore generale di Agid,
Antonio Samaritani, «l'Inps è stato tra i primi soggetti
sperimentati da Spid. Sul fronte della digitalizzazione
l'Italia è ancora indietro: siamo al 63% contro una media Ue
del 76%. Il problema è legato anche alla scarsa usabilità
dei servizi online»
(articolo ItaliaOggi del 18.03.2016). |
APPALTI: Codice appalti, cambi in corsa.
Modifiche su débat public e criteri di aggiudicazione.
l'orientamento emerso nelle commissioni parlamentari che
stanno esaminando il dlgs.
Modifiche in vista, concordate fra parlamento e ministero
delle infrastrutture, per il nuovo codice appalti su
subappalto, débat public, progettazione, qualificazione,
criteri di aggiudicazione e disciplina transitoria.
È quanto
inizia a emergere dal lavoro sullo
schema di decreto che
conterrà il nuovo codice dei contratti pubblici, approvato
il 3 marzo dal consiglio dei ministri, che stanno conducendo
le commissioni parlamentari di camera e senato che si
esprimeranno con un parere unificato (attesi anche quelli
del Consiglio di stato e della Conferenza unificata) da
rendere in tempi brevi per rispettare il termine del 18
aprile (Schema di decreto legislativo recante
disposizioni per l'attuazione delle direttive 2014/23/UE,
2014/24/UE e 2014/25/UE sull'aggiudicazione dei contratti di
concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure
d'appalto degli enti erogatori nei settori dell'acqua,
dell'energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché
per il riordino della disciplina vigente in materia di
contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture
-
Atto del Governo n. 283 sottoposto a parere parlamentare).
Dopo l'avvio dei lavori in commissione, con le
relazioni introduttive di Raffaella Mariani (commissione
ambiente della camera), che ha messo in guardia sugli
effetti derivanti dai molteplici rinvii sulla disciplina
transitoria, e di Stefano Esposito (commissione lavori
pubblici del senato), si è iniziato ad entrare nel merito
delle questioni con gli interventi dei parlamentari,
presente il viceministro Riccardo Nencini.
In particolare
ieri, con l'audizione di Raffaele Cantone, presidente
dell'Autorità nazionale anticorruzione, è stato posto subito
l'accento sul problema antimafia e subappalto: «Nel codice
degli appalti», ha detto Cantone, «non c'è alcun riferimento
alla disciplina antimafia e credo che non sarebbe male
richiamarne i riferimenti». Per il presidente dell'Anac «in
tempi brevi è stato fatto un lavoro egregio ma c'è qualche
problema, come, per esempio, la tecnica del rinvio; capisco
le ragioni ma si rischia di creare qualche confusione, e
qualche confusione nel codice c'è, per esempio sul
subappalto».
E anche negli interventi dei relatori il
subappalto è subito emerso come uno dei nodi da sciogliere,
soprattutto perché sono saltati i limiti oggi vigenti. Il
viceministro Riccardo Nencini, intervenuto il 15 marzo in
senato, aveva confermato la massima disponibilità del
governo a lavorare di concerto con la commissione «senza
alterare l'impianto complessivo del provvedimento e,
soprattutto, garantendo il rispetto dei tempi, al fine di
consentire l'adozione del decreto entro la scadenza
perentoria del 18 aprile».
E le principali materie oggetto
di modifiche ormai iniziano a essere chiare: dai contratti
sotto soglia, ai livelli della progettazione, al prezzo più
basso che molti vorrebbero rivedere per gli appalti di
lavori fra un milione e la soglia Ue.
Del tutto allineato il
ministero delle infrastrutture sul débat public di
cui condivide le posizioni del relatore Esposito che ha
parlato di «meccanismo lacunoso e inadeguato che lascia
anche eccessiva discrezionalità alle singole amministrazioni
pubbliche» e che «andrebbe integrato con disposizioni
specifiche, in attesa di una riforma più organica»
(articolo ItaliaOggi del 18.03.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
LAVORI PUBBLICI: Opere incompiute dentro i piani triennali delle p.a..
Obbligo di ricognizione per programmare gli investimenti.
Opere incompiute da aggiornare entro il 31 marzo 2016; a
fine giugno la pubblicazione dell'elenco aggiornato; nel
nuovo Codice appalti previsto l'obbligo di inserimento delle
opere pubbliche incompiute nella programmazione triennale al
fine di completarle o di individuare soluzioni alternative,
fra cui la cessione a titolo di corrispettivo per la
realizzazione di altra opera pubblica, la vendita o la
demolizione.
La richiesta di aggiornare il censimento delle opere
proviene dalla direzione generale per la regolazione e i
contratti pubblici del ministero delle infrastrutture che
nei giorni scorsi scritto ha chiesto a ministeri, regioni,
province autonome, ma anche all'Anci, all'Upi e agli altri
enti pubblici nazionali, regionali e locali, di aggiornare
in maniera completa ed esaustiva gli elenchi anagrafici
delle opere incompiute. Tutto ciò dovrà avvenire entro il 31.03.2016.
Sulla base dei dati ricevuti, si legge nella nota trasmessa
dal ministero, il dicastero di Porta Pia, unitamente alle
regioni e alle province autonome, ciascuno per le sezioni di
rispettiva competenza, pubblicheranno entro il 30.06.2016 le graduatorie delle opere pubbliche incompiute
aggiornate al 31.12.2015, secondo i criteri imposti
dalla legge che nel 2013 ha istituito il Simoi, il sistema
informativo di monitoraggio delle opere incompiute
accessibile dal sito del Servizio contratti pubblici
(consultabile al sito
www.serviziocontrattipubblici.it).
Lo scopo del Simoi è stato quello di creare a livello
informativo e statistico, una banca-dati costituita da
appositi elenchi-anagrafe delle opere incompiute di
competenza delle amministrazioni statali, regionali e
locali.
In questi anni è aumentato il numero delle stazioni
appaltanti iscritte al Simoi e, conseguentemente, delle
opere pubbliche incompiute inserite nella banca dati: si è
passati dalle 571 opere incompiute registrate nel 2013, a
689 opere monitorate nel 2014 e a 868 opere nel 2015.
Il tema delle opere incompiute viene peraltro trattato anche
nel nuovo Codice degli appalti (approvato in via preliminare
dal consiglio dei ministri del 3 marzo) dove si stabilisce
che le opere pubbliche incompiute siano inserite nella
programmazione triennale dei lavori pubblici, ai fini del
loro completamento o per l'individuazione di soluzioni
alternative quali il riutilizzo, anche dimensionato, la
cessione a titolo di corrispettivo per la realizzazione di
altra opera pubblica, la vendita o la demolizione.
In sostanza si profila l'obbligatorietà per ogni
amministrazione pubblica della ricognizione delle opere
incompiute in occasione di predisposizione dei piani
triennali degli investimenti.
Inoltre, sempre nello schema di decreto che adesso è
all'attenzione delle camere e del Consiglio di stato, si
stabilisce che con decreto del ministro delle infrastrutture
e dei trasporti, di concerto con il ministro dell'economia e
delle finanze, da adottare entro novanta giorni dalla data
di entrata in vigore del decreto, previo parere del Cipe e
sentita la Conferenza unificata, dovranno essere definiti
anche i «criteri e le modalità per favorire il
completamento delle opere incompiute»
(articolo ItaliaOggi del 18.03.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI - TRIBUTI:
Comuni, baratto in bilancio.
Le transazioni non monetarie vanno contabilizzate.
La nuova contabilità non disciplina il pagamento dei tributi
con prestazioni in natura.
Il baratto amministrativo deve essere adeguatamente
rappresentato nei bilanci dei comuni.
Lo prevede il dlgs
118/2011, che impone di dare evidenza anche alle transazioni
non monetarie. Tuttavia, il nuovo ordinamento contabile non
disciplina puntualmente le modalità di registrazione e
imputazione dell'operazione.
Come noto, il baratto amministrativo, introdotto dall'art.
24 del dl 133/2014, consente ai comuni di concedere sconti
ai contribuenti in cambio di prestazioni in natura.
In pratica, è possibile pagare (in tutto o in parte)
tributi, tariffe e sanzioni svolgendo attività di pulizia,
manutenzione, abbellimento di aree verdi, piazze o strade e
in genere di valorizzazione del territorio.
Anche se il numero di amministrazioni che decidono di
introdurre tale istituto è in continua crescita, la sua
estensione e le relative modalità applicative sono ancora
incerte, così come il suo impatto sulle scritture contabili
comunali.
Si tratta di una lacuna grave, dato che, nell'era
dell'armonizzazione dei bilanci, non è ammissibile che vi
siano prassi diverse da ente a ente.
In attesa degli opportuni chiarimenti da parte della
Commissione Arconet, è opportuno innanzitutto ricordare che
il dlgs 118/2011 impone di rilevare anche le transazioni da
cui non derivano flussi di cassa, al fine di attuare
pienamente il contenuto autorizzatorio degli stanziamenti di
previsione.
In base al punto 1 del principio contabile applicato sulla
contabilità finanziaria (allegato 4/2 del dlgs 118), la
registrazione delle transazioni non monetarie è effettuata
attraverso le regolarizzazioni contabili, costituite da
impegni cui corrispondono accertamenti di pari importo e da
mandati versati in quietanza di entrata.
Ciò premesso, per quanto concerne nello specifico il baratto
amministrativo, occorre ancora distinguere a seconda che
esso riguardi debiti già scaduti ovvero debiti futuri non
ancora maturati.
Per la verità, la possibilità di barattare debiti pregressi
non è pacifica, almeno per quelli di natura tributaria. L'Ifel
che la ammette (nota del 22.10.2015), mentre l'Anci
Emilia-Romagna propende per il no alla luce del principio di
indisponibilità e di irrinunciabilità al credito tributario
cui soggiacciono tutte le entrate tributarie comunali (nota
del 16/10/2015).
Laddove si proceda comunque in tal senso, non pare corretto
cancellare solo il residuo attivo. Si ritiene, infatti, che
si debba prevedere fra le spese correnti uno stanziamento
per la prestazione in natura che sarà svolta dal debitore e
chiudere la transazione non monetaria con un mandato versato
in quietanza di entrata sul residuo da incassare.
Laddove il residuo attivo fosse stato cancellato in quanto
ritenuto ormai inesigibile, è necessario procedere ad una
rettifica in aumento dei residui attivi, e non
all'accertamento di nuovi crediti di competenza
dell'esercizio (punto 9.1 del principio contabile). Inoltre,
per evitare rischi di danno erariale, occorre quantificare
in modo trasparente e motivato il valore della prestazione
sostitutiva del pagamento.
Nel secondo caso (debito non ancora maturato), si suggerisce
di accertare normalmente l'entrata secondo le modalità
indicate dai principi contabili e di procedere al
contestuale impegno della spesa, da regolarizzare,
successivamente al ricevimento della prestazione, con un
mandato versato in quietanza in entrata a chiusura
dell'accertamento.
Ovviamente, in entrambi i casi, la spesa impatterà sugli
equilibri, a meno che si tratti di un'uscita che comunque
sarebbe stata prevista
(articolo ItaliaOggi del 18.03.2016). |
LAVORI PUBBLICI: Ripartono le opere pubbliche.
Il pareggio di bilancio può ridare slancio agli investimenti.
Ma per gli enti locali restano in vigore il monitoraggio del
Patto 2015 e le sanzioni.
Il pareggio di bilancio, seppure in forma «temperata», andrà
a sostituire il controverso patto di stabilità: è questa una
delle novità previste dalla legge di stabilità 2016.
Introdotto dalla Ue nel 2012, a garanzia di una più rigorosa
politica di bilancio da parte dei paesi membri, il principio
del pareggio è stato recepito dall'Italia attraverso la
legge costituzionale del 20.04.2012 e la legge del 24.12.2012 n. 243, che ne ha deliberato criteri tecnici e
modalità di calcolo.
Rispetto agli originari parametri previsti da quest'ultima,
pareggio di competenza e di cassa, la legge di stabilità
2016 prevede il pareggio per la sola competenza.
L'utilizzo del pareggio di bilancio a fronte del patto di
stabilità è di certo una buona notizia per tutti quegli enti
che disponevano di risorse finanziarie bloccate dai vincoli
di spesa della finanza pubblica: si apre così uno spiraglio
per l'avvio di opere pubbliche e servizi a favore
dell'utenza e dell'economia locale.
Tuttavia, relativamente al secondo semestre 2015, resta in
vigore l'obbligo di monitoraggio del patto di stabilità e
l'obbligo della certificazione finale entro il 31.03.2016. Inoltre continueranno ad applicarsi le sanzioni per
gli enti inadempienti negli anni precedenti, nonché la
compensazione delle quote cedute o acquisite nell'ambito del
patto regionale o nazionale orizzontale. Le voci per la
determinazione del saldo, in termini di competenza, sono le
entrate finali dei primi cinque titoli e le spese finali dei
primi tre, il cui saldo per essere in regola deve essere
maggiore o uguale a zero.
La legge di stabilità introduce ulteriori novità per il solo
2016: l'istituzione di alcune voci migliorative delle
entrate, quali il Fondo pluriennale vincolato di parte
corrente e quello di parte capitale al netto delle quote
finanziate da debito, e una voce peggiorativa relativa al
contributo ex art. 1, comma 20 (Imu-Tasi).
Anche nelle uscite il legislatore ha previsto delle voci
migliorative per il solo 2016, quali le spese di bonifica
ambientale (c. 716) e le spese «Sisma 2012» (solo per enti
locali di Emilia Romagna, Lombardia e Veneto) entrambe sia
di parte corrente che in conto capitale; le spese per
l'edilizia scolastica in conto capitale (c. 713) e le spese
per la realizzazione del Museo nazionale della Shoah per
Roma.
Altre poste nella sezione relativa alle spese, non solo per
il 2016, sono il fondo crediti di dubbia esigibilità, sia di
parte corrente che in conto capitale calcolato sul bilancio
di previsione 2016 e gli accantonamenti destinati a
confluire nel risultato d'amministrazione, quali il fondo
contenzioso e gli «altri accantonamenti».
Infine occorrerà sommare o sottrarre gli eventuali spazi
finanziari ceduti o acquisiti tramite stato o regione.
Anche il sistema sanzionatorio è stato oggetto di revisione,
tra le novità, il comma 721 prevede che se entro 30 giorni
dal termine stabilito per l'approvazione del rendiconto di
gestione l'ente non provveda alla trasmissione della
certificazione del pareggio di bilancio (positivo o
negativo) il presidente dell'organo dei revisori diventerà
automaticamente commissario ad acta e dovrà provvedere, pena
la decadenza, a trasmettere la predetta certificazione entro
i successivi 30 giorni. In ogni caso il ritardato inoltro
bloccherà qualsiasi trasferimento da parte del ministero
degli interni fino all'effettivo invio.
La trasmissione oltre i 60 giorni, anche in caso di
conseguimento del saldo, comporterà la sospensione di tali
erogazioni. Il mancato rispetto del pareggio di bilancio
prevede: la riduzione del fondo di solidarietà comunale in
misura pari all'importo corrispondente allo scostamento
registrato; l'impossibilità d'impegnare spese correnti in
misura superiore all'importo dei corrispondenti assunti
nell'anno precedente a quello di riferimento;
l'impossibilità di ricorrere all'indebitamento per gli
investimenti; l'impossibilità di procedere a qualsiasi tipo
d'assunzione di nuovo personale; la riduzione del 30% delle
indennità di funzione e dei gettoni di presenza degli
amministratori comunali.
Nel caso in cui la Corte dei conti accerti che il rispetto
dei vincoli di pareggio sia stato raggiunto
artificiosamente, il responsabile amministrativo incorrerà
in una sanzione fino a tre mesi di retribuzione, mentre per
gli amministratori fino a dieci volte l'indennità di carica
(articolo ItaliaOggi del 18.03.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Commissioni di gara, cambiano le nomine.
CODICE APPALTI 1/ Nuovi criteri nel dlgs.
Nuove modalità di nomina delle commissioni di
aggiudicazione, nel
codice degli appalti, approvato in
Consiglio dei ministri il 03.03.2016, presentato in
parlamento, il 5 marzo, in attuazione delle direttive Ue del
2014, nn. 23, 24 e 25 (Schema di decreto legislativo
recante disposizioni per l'attuazione delle direttive
2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull'aggiudicazione dei
contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle
procedure d'appalto degli enti erogatori nei settori
dell'acqua, dell'energia, dei trasporti e dei servizi
postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in
materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e
forniture -
Atto del Governo n. 283 sottoposto a parere parlamentare)
Tra le novità, l'art. 77, introduce criteri e procedure
nuove, per la nomina delle commissioni di gara, per
contratti di appalti e concessioni, limitatamente ai casi di
aggiudicazione con il criterio dell'offerta economicamente
più vantaggiosa, sulla base del miglior rapporto
qualità/prezzo. Il primo requisito richiesto, ai componenti
delle commissioni chiamati a valutare le offerte dal punto
di vista tecnico ed economico, è la specifica esperienza nel
settore cui afferisce l'oggetto del contratto.
La
commissione, dispone l'art. 77, è costituita da un numero
dispari di commissari, non superiore a cinque, individuato
dalla stazione appaltante e, importante novità, può lavorare
a distanza, con procedure telematiche che salvaguardino la
riservatezza delle comunicazioni. Si prevede, inoltre,
l'istituzione, presso l'Anac, di un apposito albo, in cui
saranno iscritti gli esperti, da individuare quali
commissari da parte delle stazioni appaltanti.
L'iscrizione all'albo comporterà il pagamento di una tariffa
e saranno previsti, con apposito decreto, i compensi massimi
erogabili. Il metodo di individuazione dei commissari sarà
il pubblico sorteggio, da una lista di candidati costituita
da un numero di nominativi almeno doppio rispetto a quello
dei componenti da nominare. Sono previste eccezioni, nel
caso di affidamento di contratti di importo inferiore alle
soglie di rilievo comunitario e nel caso di affidamenti che
«non presentano particolare complessità»: in tali
casi la stazione appaltante può nominare componenti interni.
Il codice ha tipizzato, inoltre, un caso in cui le procedure
sono considerate di non particolare complessità,
individuandole in quelle svolte attraverso piattaforme
telematiche di negoziazione, come dallo stesso decreto
disciplinate dall'art. 58. Sono previste, infine, una serie
di incompatibilità: i commissari non possono svolgere, né
devono aver svolto altre funzioni in relazione al contratto
del cui affidamento si tratta; non possono essere nominati
tra coloro i quali, nel biennio precedente, presso
l'Amministrazione affidataria, abbiano ricoperto cariche di
pubblico amministratore.
Si applicano, inoltre, a tutti i componenti, compresi i
segretari, l'articolo 35-bis del decreto legislativo 30
marzo 2001, n. 165 e le cause di astensione previste
dall'articolo 51 del codice di procedura civile
(articolo ItaliaOggi del 18.03.2016). |
APPALTI: Affidamenti diretti sotto i 40 mila euro.
CODICE APPALTI 2/ Per lavori e forniture.
Il
nuovo codice degli appalti riforma, tra i vari
interventi, le acquisizioni di lavori, servizi e forniture
in economia. Nel dlgs n. 163/2006, come è noto, è l'art. 125
a disciplinare la materia, distinguendo, altresì, sulla base
degli importi economici, i procedimenti per amministrazione
diretta e quelli per cottimo fiduciario.
Tutto questo nel nuovo codice, all'esame parlamentare, non è
più previsto (Schema di decreto legislativo recante
disposizioni per l'attuazione delle direttive 2014/23/UE,
2014/24/UE e 2014/25/UE sull'aggiudicazione dei contratti di
concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure
d'appalto degli enti erogatori nei settori dell'acqua,
dell'energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché
per il riordino della disciplina vigente in materia di
contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture
-
Atto del Governo n. 283 sottoposto a parere parlamentare).
Si introduce, invero, per i soli lavori nel settore dei beni
culturali, la previsione dell'affidamento in economia
all'art. 148, comma 7, limitatamente alle ipotesi di somma
urgenza, laddove ogni ritardo sia pregiudizievole alla
pubblica incolumità o alla tutela del bene, fino all'importo
di 300 mila euro, tanto in amministrazione diretta, che per
cottimo fiduciario.
Altra eccezione, sempre prevista dal medesimo comma, per gli
stessi limiti di importo, riguarda particolari tipi di
intervento individuati con i decreti di cui all'articolo
146, comma 4. A un'attenta lettura, peraltro, l'affidamento
diretto per lavori, servizi e forniture, è dettagliatamente
disciplinato dall'art. 36 del nuovo codice. Si prevede
infatti che l'affidamento e l'esecuzione di lavori, servizi
e forniture di importo inferiore alle soglie comunitarie,
avvengano nel rispetto dei principi di economicità,
efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza,
proporzionalità.
Si fa salvo, inoltre, il principio di rotazione e la
necessità di assicurare l'effettiva possibilità di
partecipazione delle micro, piccole e medie imprese. Per
affidamenti di importo inferiore a 40.000 euro, si procede
mediante affidamento diretto, adeguatamente motivato o per i
lavori in amministrazione diretta.
Per affidamenti di importo superiore a 40.000 e fino alle
soglie di rilievo comunitario (per servizi e forniture)
ovvero fino a 150.000 euro per lavori, si ritorna alla
procedura negoziata, sostanzialmente riprendendo i criteri
previsti dall'art. 125 del vigente codice, laddove l'art. 36
prevede la previa consultazione di almeno tre operatori,
individuati sulla base di indagini di mercato o tramite
elenchi di operatori economici, nel rispetto di un criterio
di rotazione degli inviti. L'abolizione, pertanto, è
soltanto apparente
(articolo ItaliaOggi del 18.03.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
GIURISPRUDENZA |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Rinuncia al ricorso con la procura speciale.
Sezioni unite. Il passo indietro totale o parziale rispetto
all’impugnazione, anche se proposta dal difensore, resta una
scelta dell’imputato
Senza procura speciale il difensore non può rinunciare,
totalmente o parzialmente all’impugnazione, anche se da lui
proposta. Può farlo solo se il suo assistito è presente alla
dichiarazione in udienza e non si oppone.
Le Sezioni unite
penali della Corte di Cassazione (sentenza
25.03.2016 n. 12603) chiariscono i dubbi sorti nella
giurisprudenza di legittimità sulla possibilità di fare un
passo indietro da parte del difensore non munito di una
procura “ampia”.
Per il Supremo collegio l’impugnazione continua a essere una
“scelta” dell’imputato, il che giustifica che questo resti
l’unico soggetto a poter togliere effetto all’impugnazione
proposta dal suo legale, nei modi previsti per la rinuncia,
e non viceversa. Il semaforo rosso scatta per il difensore
che non ha una procura speciale sia nel caso di rinuncia
totale sia parziale.
Se la rinuncia è un atto dispositivo
del rapporto processuale non riconducibile al semplice
esercizio della difesa tecnica, la stessa natura va
riconosciuta alla rinuncia parziale. Anche in quest’ultima
ipotesi si abdica, infatti, alla possibilità, già esercitata
per conto dell’imputato, di ottenere la riforma o la caducazione di un capo o di un punto del provvedimento
impugnato, seppure con effetti più limitati rispetto alla
totale.
Diversa è invece l’ipotesi di una rinuncia a una o più
argomentazioni o motivazioni su cui si fondano le diverse
parti di impugnazione relative a diversi capi impugnati: in
tal caso si può parlare di rinuncia a uno o più motivi,
facendola rientrare tra gli atti di difesa squisitamente
tecnici.
Allo stesso modo non può essere considerato una vera e
propria rinuncia, neppure parziale, il mancato svolgimento
orale delle ragioni già esposte nei motivi di impugnazione.
Infine è rimessa alla autonoma valutazione del difensore,
senza necessità di procura speciale, la prospettazione,
argomentata e provata, delle ragioni di una sopravvenuta
carenza di interesse della parte a coltivare l’impugnazione.
Il giudice rileva allora d’ufficio l’inammissibilità
dell’impugnazione per carenza d’interesse che, se
sopravvenuta, evita la pronuncia di condanna alle spese e
alla sanzione pecuniaria (articolo Il Sole 24 Ore del 26.03.2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: E'
illegittimità l'ordinanza sindacale di rimozione dei
materiali e dei rifiuti abbandonati in un'area di proprietà
del ricorrente laddove risulta che la stessa
si rivela connotata da difetto di istruttoria per
non avere l’Amministrazione comunale verificato se realmente
la situazione fosse -o meno- interamente addebitabile alla
società destinataria dell'ordinanza de qua.
---------------
...
per l’annullamento, previa sospensione dell’efficacia
esecutiva:
- dell’ordinanza del 22.07.2015 prot. n. 2461 a firma
del Sindaco del Comune di Trieste, adottata ai sensi e per
gli effetti dell’articolo 192 D.Lgs. del 03.04.2006, n. 152,
nei confronti della società ricorrente, avente a oggetto
l’eliminazione di un abbandono di materiali e rifiuti sulle pp.cc.nn. 5779/36, 5779/48, 5779/53 del C.C. di Santa Maria
Maddalena Inferiore in Trieste;
- di ogni altro atto connesso, presupposto o consequenziale,
ivi compreso l’eventuale verbale di sopralluogo, effettuato
dal Comune di Trieste in data 10.04.2013.
...
Viene sottoposta al vaglio di questo Tribunale
amministrativo l’ordinanza ex articolo 192 D.Lgs. n.
152/2006, con la quale il Comune di Trieste ha intimato alla
società Ar.En. S.p.A. la rimozione dei materiali e
dei rifiuti abbandonati in un’area di proprietà dell’Ente,
ma già nella disponibilità dell’impresa destinataria del
provvedimento medesimo.
L’ordinanza in esame assume quale proprio presupposto
essenziale che dell’abbandono in questione sia responsabile
la società Ar.En. S.p.A., in quanto l’evento si
sarebbe verificato nel periodo in cui l’area era nella
custodia dell’impresa medesima.
Tale presupposto è contestato da parte ricorrente.
In effetti, come si è dato conto nella parte in fatto, il
Comune –con una condotta non certo conforme ai canoni di
diligenza cui deve essere improntata la tutela dei diritti
dominicali– ha accettato la restituzione dell’area senza
aver effettuato precedentemente una ricognizione in
contraddittorio dello stato dell’immobile.
Né al riguardo rileva che –come documentato in atti–
controparte si sia sottratta al confronto, ben apprestando
l’ordinamento rimedi per tale eventualità.
Lo stesso, non giustificato, ritardo (quattordici mesi dalla
restituzione dell’area) per l’avvio del procedimento ex
articolo 192 D.Lgs. n. 152/2006, è suscettibile di recidere
qualsivoglia collegamento tra la situazione preesistente,
quando cioè l’area era nella disponibilità della società
odierna ricorrente, e quella successiva nella quale si è
constata la presenza dei materiali e dei rifiuti si cui si è
ordinata la rimozione.
Nondimeno, considerato che agli atti vi sono riprese
fotografiche dell’area per cui è causa, effettuate in epoca
antecedente alla restituzione della medesima, questo
Tribunale disponeva una verificazione volta ad appurare, ove
possibile, la corrispondenza di quella situazione fattuale a
quella attuale.
Gli esiti della verificazione in relazione alle tredici zone
di deposito di materiali e rifiuti in cui è stata suddivisa
l’area esterna e per i vari piani del fabbricato ivi
insistente possono così essere sintetizzati:
- per due zone (segnatamente, la 5 e la 6 nella numerazione
utilizzata nella relazione del verificatore) non è possibile
fare alcun confronto in assenza di documentazione
descrittiva della situazione pregressa;
- per cinque zone (segnatamente, la 1, la 2, la 3, la 7 e la
8) e per i piani interrato e primo la situazione è solo
parzialmente coincidente, essendo stati rinvenuti rifiuti in
misura maggiore e/o di natura diversa di quanto rilevato in
precedenza;
- per sei aree (segnatamente, la 4, la 9, la 10, la 11, la
12 e la 13) e per il piano secondo la situazione è
sostanzialmente immutata;
- il piano terzo è sgombro di rifiuti e materiali
abbandonati.
Il verificatore, peraltro, ha avuto cura di precisare che il
confronto è stato necessariamente superficiale in assenza di
una identificazione precisa, nella documentazione in atti,
di materiali e volumetrie esistenti antecedentemente alla
riconsegna del bene al Comune.
Alla luce delle suesposte risultanze, si rivela fondato il
primo motivo di impugnazione con il quale parte ricorrente
ha stigmatizzato il difetto di istruttoria, per non avere
l’Amministrazione comunale verificato se realmente la
situazione fosse o meno interamente addebitabile alla
società Ar.En. S.p.A..
In effetti, un più accurato approfondimento della situazione
giuridico-fattuale avrebbe consentito di apprezzare
l’esistenza all’interno dell’area in questione di zone per
le quali la rimozione di quanto ivi accatastato non può
essere posta a carico degli odierni ricorrenti non essendovi
allo stato prova che tale situazione risalga al momento nel
quale il bene era nella disponibilità della società Ar.En. S.p.A..
Così come avrebbe consentito di apprezzare la presenza in
altre zone dell’area de qua di materiali ulteriori e/o
diversi, abbandonati in epoca più recente, verosimilmente
gettati dalla strada o introdotti dalle aperture nelle
recinzioni, come ipotizzato dallo stesso verificatore.
Sicché, sulla scorta degli elementi probatori sin qui
disponibili, nemmeno della rimozione di tali ulteriori e/o
diversi materiali possono essere onerati gli odierni
ricorrenti.
D’altro canto, poiché questo Tribunale deve esaminare
l’ordinanza impugnata nel suo complesso e non per stralci,
il provvedimento gravato è da ritenersi interamente
illegittimo, vieppiù tenendo conto che il riconosciuto
difetto di istruttoria è idoneo a inficiare integralmente
l’atto comunale, che, pertanto, viene interamente annullato.
Peraltro, non sussistendo i presupposti indicati
dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (cfr.,
sentenza n. 5/2015) per procedere all’assorbimento dei
motivi di impugnazione, il Collegio deve esaminare anche il
secondo profilo di illegittimità dedotto da parte
ricorrente.
Il motivo non è fondato, non ravvisandosi nell’azione
amministrativa comunale i presupposti dello sviamento di
potere, ovverosia il perseguimento di uno scopo diverso da
quello per il quale è stato attribuito il potere esercitato
(cfr., TAR Umbria, sentenza n. 99/2015).
Invero, secondo il consolidato orientamento
giurisprudenziale, cui questo Tribunale aderisce, la censura
di sviamento di potere per poter essere favorevolmente
apprezzata necessita di un adeguato supporto probatorio che
appalesi la divergenza dell’atto dalla sua funzione tipica
(cfr., TAR Lazio–Roma, Sez. III, sentenza n.
9731/2015).
Nel caso di specie, il fatto che l’Amministrazione abbia
atteso quattordici mesi dalla restituzione dell’area per
avviare il procedimento e un ulteriore anno per concluderlo,
denota trascuratezza nella cura dell’interesse pubblico, ma
non certo il perseguimento di uno scopo eccentrico rispetto
agli obiettivi della norma attributiva del potere.
Al contempo, la circostanza che il Comune si sia determinato
a riprendere i lavori di ristrutturazione dell’immobile de
quo, quale che ne sia l’efficacia causale o concausale
rispetto al provvedimento che qui si esamina, resta allo
stato circostanza –per stessa ammissione di parte
ricorrente– suffragata esclusivamente da notizie di stampa.
In conclusione, il ricorso è fondato e, per l’effetto,
l’ordinanza comunale qui impugnata è annullata.
Tenuto conto, tuttavia, che all’esito dell’istruttoria
svolta in corso di causa è emerso che almeno in parte
l’abbandono di materiali e rifiuti risale all’epoca nella
quale l’area era nella disponibilità e sotto la custodia
della società ricorrente, il Collegio ritiene equo
compensare tra le parti le spese di giudizio.
Viene, invece, posto a carico del Comune resistente, in
applicazione della regola della soccombenza, il compenso del
verificatore, nella misura che sarà liquidata con separato
provvedimento
(TAR Friuli Venezia Giulia,
sentenza 24.03.2016 n. 107 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Meno paletti per le moschee. L'edificazione non è
legata al rispetto della Costituzione.
La Consulta ha cassato (in parte) la legge lombarda del
2005. No alle telecamere.
Per edificare una moschea in Lombardia i musulmani non sono
tenuti a impegnarsi al rispetto dei principi della
Costituzione italiana, perché ciò non ha alcuna rilevanza a
fini urbanistici. Nella normativa urbanistica, infatti, non
si possono discriminare le confessioni religiose senza
intesa con lo stato, poiché esse hanno diritto a costruire
come le altre i propri edifici di culto.
Anche se la regione conserva il potere di regolare e
limitare l'edificazione di immobili religiosi, tenendo conto
dell'entità della presenza sul territorio dell'una o
dell'altra confessione e delle esigenze di culto della
popolazione. In ogni caso, comunque, la regione non può
imporre sistemi di videosorveglianza, né alle moschee né
agli edifici di culto di altre religioni.
Cerca così di bilanciare opposti interessi e di non entrare
in un dibattito tutto politico sul trattamento dei musulmani
in Italia la Corte costituzionale, che, con la
sentenza 24.03.2016 n. 63, ha cassato parzialmente la
legge della Lombardia n. 12/2005, dedicata alla disciplina
urbanistica degli immobili di culto.
La legge, impugnata
dalla presidenza del consiglio, ha subito alcune bocciature,
ma è stata salvata anche in molte parti.
Religioni senza intesa.
La legge lombarda distingue tre gruppi: gli enti della
Chiesa cattolica; gli enti delle altre confessioni religiose
con una legge d'intesa con lo stato; gli enti di tutte le
altre confessioni religiose.
A questa terza categoria di
enti, collegati alle confessioni «senza intesa», la
possibilità di costruire edifici di culto è stata
condizionata all'accertamento della diffusione della
confessione religiosa negli ambito comunale e alla presenza
negli statuti delle confessioni medesime di formule di
accettazione dei principi e dei valori della Costituzione
italiana. Questi requisiti devono essere oggetto di una
valutazione preventiva, anche se non vincolante, di una
consulta regionale (da costituirsi).
La Corte
costituzionale, se da un lato ammette che le regioni possano
disciplinare la programmazione e realizzazione di luoghi di
culto, dall'altro ha bocciato le norme descritte, perché
impongono regimi differenziati e norme più rigide alle sole
confessioni senza intesa.
Pianificazione.
La legge lombarda prevede un particolare strumento di
pianificazione urbanistica, il Piano per le attrezzature
religiose (Pat): per elaborarlo si devono acquisire i pareri
di organizzazioni, comitati, questure e prefetture per agoni
di sicurezza pubblica; inoltre obbliga a installare in
ciascun edificio di culto un impianto di videosorveglianza
esterno all'edificio, collegato con gli uffici della polizia
locale o forze dell'ordine. Le norme sono state bocciate
perché occupandosi di sicurezza pubblica, invadono la
competenza legislativa esclusiva dello Stato.
Convenzione urbanistica.
La Corte ha salvato le norme regionali che prevedono che gli
enti delle confessioni religiose diverse dalla Chiesa
cattolica devono stipulare una convenzione a fini
urbanistici con il comune interessato e che le convenzioni
devono prevedere espressamente la possibilità della
risoluzione o della revoca per violazione della convenzione.
La Consulta ha precisato, però, che i comuni possono
revocare la convenzione solo per ragioni urbanistiche e che
devono agire con proporzionalità: la revoca va applicata
solo in assenza di alternative meno severe
(articolo ItaliaOggi del 25.03.2016). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
●
Va dichiarata l’illegittimità costituzionale
dell’art. 70, commi 2-bis, limitatamente alle parole «che
presentano i seguenti requisiti:» e alle lettere a) e
b), e 2-quater, della legge della Regione Lombardia
11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio),
introdotti dall’art. 1, comma 1, lettera b), della legge
della Regione Lombardia 03.02.2015, n. 2, recante «Modifiche
alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo
del territorio) – Principi per la pianificazione delle
attrezzature per servizi religiosi»;
●
Va dichiarata l’illegittimità costituzionale
dell’art. 72, commi 4 e 7, lettera e), della legge reg.
Lombardia n. 12 del 2005, introdotti dall’art. 1, comma 1,
lettera c), della legge reg. Lombardia n. 2 del 2015;
---------------
4.1.–
L’ordinamento repubblicano è contraddistinto dal
principio di laicità, da intendersi, secondo l’accezione che
la giurisprudenza costituzionale ne ha dato,
non come indifferenza di fronte all’esperienza
religiosa, bensì come salvaguardia della libertà di
religione in regime di pluralismo confessionale e culturale:
compito della Repubblica è «garantire le condizioni che
favoriscano l’espansione della libertà di tutti e, in questo
ambito, della libertà di religione», la quale «rappresenta
un aspetto della dignità della persona umana, riconosciuta e
dichiarata inviolabile dall’art. 2» Cost..
Il libero esercizio del culto è un aspetto essenziale della
libertà di religione (art. 19) ed è, pertanto, riconosciuto
egualmente a tutti e a tutte le confessioni religiose (art.
8, primo e secondo comma), a prescindere dalla stipulazione
di una intesa con lo Stato.
Come questa Corte ha recentemente ribadito, altro è la
libertà religiosa, garantita a tutti senza distinzioni,
altro è il regime pattizio (artt. 7 e 8, terzo comma,
Cost.), che si basa sulla «concorde volontà» del
Governo e delle confessioni religiose di regolare specifici
aspetti del rapporto di queste ultime con l’ordinamento
giuridico statale (sentenza n. 52 del 2016).
Data l’ampia discrezionalità politica del Governo in
materia, il concordato o l’intesa non possono costituire
condicio sine qua non per l’esercizio della libertà
religiosa; gli accordi bilaterali sono piuttosto finalizzati
al soddisfacimento di «esigenze specifiche di ciascuna
delle confessioni religiose (sentenza n. 235 del 1997),
ovvero a concedere loro particolari vantaggi o eventualmente
a imporre loro particolari limitazioni (sentenza n. 59 del
1958), ovvero ancora a dare rilevanza, nell’ordinamento, a
specifici atti propri della confessione religiosa»
(sentenza n. 52 del 2016).
Per questo, in materia di libertà religiosa, la
giurisprudenza di questa Corte è costante nell’affermare che
«il legislatore non può operare discriminazioni tra
confessioni religiose in base alla sola circostanza che esse
abbiano o non abbiano regolato i loro rapporti con lo Stato
tramite accordi o intese (sentenze n. 346 del 2002 e n. 195
del 1993)».
Di conseguenza, quando tale libertà e il suo esercizio
vengono in rilievo, la tutela giuridica deve abbracciare
allo stesso modo l’esperienza religiosa di tutti, nella sua
dimensione individuale e comunitaria, indipendentemente dai
diversi contenuti di fede; né in senso contrario varrebbero
considerazioni in merito alla diffusione delle diverse
confessioni, giacché la condizione di minoranza di alcune
confessioni non può giustificare un minor livello di
protezione della loro libertà religiosa rispetto a quella
delle confessioni più diffuse.
4.2.– L’apertura di luoghi di culto, in quanto forma e
condizione essenziale per il pubblico esercizio dello
stesso, ricade nella tutela garantita dall’art. 19 Cost., il
quale riconosce a tutti il diritto di professare la propria
fede religiosa, in qualsiasi forma, individuale o associata,
di farne propaganda e di esercitare in privato o in pubblico
il culto, con il solo limite dei riti contrari al buon
costume. L’esercizio della libertà di aprire luoghi di
culto, pertanto, non può essere condizionato a una previa
regolazione pattizia, ai sensi degli artt. 7 e 8, terzo
comma, Cost.: regolazione che può ritenersi necessaria solo
se e in quanto a determinati atti di culto vogliano
riconnettersi particolari effetti civili.
Più in particolare, nell’esaminare questioni in parte simili
alle odierne, questa Corte ha già affermato che,
in materia
di edilizia di culto, «tutte le confessioni religiose
sono idonee a rappresentare gli interessi religiosi dei loro
appartenenti» e la previa stipulazione di un’intesa non
può costituire «l’elemento di discriminazione
nell’applicazione di una disciplina, posta da una legge
comune, volta ad agevolare l’esercizio di un diritto di
libertà dei cittadini», pena la violazione del principio
affermato nel primo comma dell’art. 8 Cost., oltre che
nell’art. 19 Cost..
Al riguardo, vale il divieto di discriminazione, sancito in
generale dall’art. 3 Cost. e ribadito, per quanto qui
specificamente interessa, dagli artt. 8, primo comma, 19 e
20 Cost.; e ciò anche per assicurare «l’eguaglianza dei
singoli nel godimento effettivo della libertà di culto, di
cui l’eguale libertà delle confessioni di organizzarsi e di
operare rappresenta la proiezione necessaria sul piano
comunitario».
Ciò non vuol dire
che a tutte le
confessioni debba assicurarsi un’eguale porzione dei
contributi o degli spazi disponibili: come è naturale
allorché si distribuiscano utilità limitate, quali le
sovvenzioni pubbliche o la facoltà di consumare suolo, si
dovranno valutare tutti i pertinenti interessi pubblici e si
dovrà dare adeguato rilievo all’entità della presenza sul
territorio dell’una o dell’altra confessione, alla
rispettiva consistenza e incidenza sociale e alle esigenze
di culto riscontrate nella popolazione.
5.– Alla luce di tali principi, costantemente affermati
dalla giurisprudenza di questa Corte, sono
fondate le questioni di legittimità costituzionale aventi ad
oggetto i commi 2, 2-bis, lettere a) e b), e 2-quater,
dell’art. 70 della legge regionale n. 12 del 2005, come
modificati dall’art. 1, comma 1, lettera b), della legge
regionale n. 2 del 2015, per violazione degli artt. 3, 8, 19
e 117, secondo comma, lettera c), Cost..
---------------
5.2.–
La normativa regionale illustrata, in quanto
disciplina la pianificazione urbanistica dei luoghi di
culto, attiene senz’altro al «governo del territorio»,
cosicché, riguardata dal punto di vista materiale, rientra
nelle competenze regionali concorrenti, ai sensi dell’art.
117, terzo comma, Cost..
Nondimeno,
la valutazione sul rispetto del riparto di
competenze tra Stato e Regioni, richiede di tenere conto,
oltre che dell’oggetto, anche della ratio della
normativa impugnata e di identificare correttamente e
compiutamente gli interessi tutelati, nonché le finalità
perseguite.
Il legislatore regionale, nell’esercizio
delle sue competenze, qual è quella in materia di «governo
del territorio» che qui viene in rilievo, non può mai
perseguire finalità che esorbitano dai compiti della
Regione.
Da questo punto di vista occorre ribadire che
la legislazione regionale in materia di edilizia del
culto «trova la sua ragione e giustificazione –propria
della materia urbanistica– nell’esigenza di assicurare uno
sviluppo equilibrato ed armonico dei centri abitativi e
nella realizzazione dei servizi di interesse pubblico nella
loro più ampia accezione, che comprende perciò anche i
servizi religiosi».
In questi limiti soltanto la regolazione
dell’edilizia di culto resta nell’ambito delle competenze
regionali. Non è, invece, consentito al legislatore
regionale, all’interno di una legge sul governo del
territorio, introdurre disposizioni che ostacolino o
compromettano la libertà di religione, ad esempio prevedendo
condizioni differenziate per l’accesso al riparto dei luoghi
di culto.
Poiché la disponibilità di luoghi dedicati è condizione
essenziale per l’effettivo esercizio della libertà di culto,
un tale tipo di intervento normativo eccederebbe dalle
competenze regionali, perché finirebbe per interferire con
l’attuazione della libertà di religione, garantita agli
artt. 8, primo comma, e 19 Cost., condizionandone
l’effettivo esercizio.
Pertanto, una lettura unitaria dei principi costituzionali
sopra richiamati ed evocati dal ricorrente porta a
concludere che la Regione è titolata, nel
governare la composizione dei diversi interessi che
insistono sul territorio, a dedicare specifiche disposizioni
per la programmazione e realizzazione di luoghi di culto;
viceversa, essa esorbita dalle sue competenze, entrando in
un ambito nel quale sussistono forti e qualificate esigenze
di eguaglianza, se, ai fini dell’applicabilità di tali
disposizioni, impone requisiti differenziati, e più
stringenti, per le sole confessioni per le quali non sia
stata stipulata e approvata con legge un’intesa ai sensi
dell’art. 8, terzo comma, Cost..
Per queste ragioni, deve essere dichiarata
l’illegittimità costituzionale dell’art. 70, commi 2-bis,
sia nelle lettere a) e b), sia nella parte dell’alinea che
le introduce (vale a dire, nelle parole «che presentano i
seguenti requisiti:»), e 2-quater, della legge reg.
Lombardia n. 12 del 2005.
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8.– Dell’art. 72 della legge regionale n. 12 del 2005
(interamente novellato dall’art. 1, comma 1, lettera c,
della legge regionale n. 2 del 2015), sono censurati i commi
4 e 7, lettera e).
Il comma 4 –qui considerato solo nel suo primo periodo–
prevede che, nel corso del procedimento per la
predisposizione del piano delle attrezzature religiose di
cui allo stesso art. 72 (denominato «Piano per le
attrezzature religiose» nella rubrica di tale articolo),
vengano acquisiti «i pareri di organizzazioni, comitati
di cittadini, esponenti e rappresentanti delle forze
dell’ordine oltre agli uffici provinciali di questura e
prefettura al fine di valutare possibili profili di
sicurezza pubblica, fatta salva l’autonomia degli organi
statali».
La seconda disposizione censurata esige che, nel piano
predetto, sia prevista, per ciascun edificio di culto (se
non già esistente all’entrata in vigore della legge
regionale n. 2 del 2015, in virtù dell’art. 72, comma 8), «la
realizzazione di un impianto di videosorveglianza esterno
all’edificio, con onere a carico dei richiedenti, che ne
monitori ogni punto di ingresso, collegato con gli uffici
della polizia locale o forze dell’ordine».
Prescrivendo l’acquisizione di pareri inerenti a questioni
di sicurezza pubblica, nonché l’installazione di impianti di
videosorveglianza, le disposizioni censurate entrerebbero
nella materia «ordine pubblico e sicurezza», rimessa
alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, anche con
riguardo alle possibili forme di coordinamento con le
Regioni (artt. 117, secondo comma, lettera h, e 118, terzo
comma, Cost.).
La questione è fondata.
Nella Costituzione italiana ciascun diritto
fondamentale, compresa la libertà di religione, è predicato
unitamente al suo limite; sicché non v’è dubbio che le
pratiche di culto, se contrarie al «buon costume»,
ricadano fuori dalla garanzia costituzionale di cui all’art.
19 Cost.; né si contesta che, qualora gli appartenenti a una
confessione si organizzino in modo incompatibile «con
l’ordinamento giuridico italiano», essi non possano
appellarsi alla protezione di cui all’art. 8, secondo comma,
Cost..
Tutti i diritti costituzionalmente protetti sono soggetti al
bilanciamento necessario ad assicurare una tutela unitaria e
non frammentata degli interessi costituzionali in gioco, di
modo che nessuno di essi fruisca di una tutela assoluta e
illimitata e possa, così, farsi “tiranno”
(sentenza n. 85 del 2013).
Tra gli interessi costituzionali da tenere
in adeguata considerazione nel modulare la tutela della
libertà di culto –nel rigoroso rispetto dei canoni di
stretta proporzionalità, per le ragioni spiegate sopra– sono
senz’altro da annoverare quelli relativi alla sicurezza,
all’ordine pubblico e alla pacifica convivenza.
Tuttavia, il perseguimento di tali
interessi è affidato dalla Costituzione, con l’art. 117,
secondo comma, lettera h), in via esclusiva allo Stato,
mentre le Regioni possono cooperare a tal fine solo mediante
misure ricomprese nelle proprie attribuzioni
(ex plurimis, sentenza n. 35 del 2012).
Nel caso di specie, invece, le disposizioni
censurate, considerate nella loro ratio e nel loro
contenuto essenziale
(sentenze n. 118, n. 35 e n. 34 del 2012),
perseguono evidenti finalità di ordine pubblico e sicurezza:
da valutare ex ante, nella programmazione (art. 72,
comma 4: «[n]el corso del procedimento di predisposizione
del piano […] vengono acquisiti i pareri di […]
rappresentanti delle forze dell’ordine oltre agli uffici
provinciali di questura e prefettura, al fine di valutare
possibili profili di sicurezza pubblica»); e da gestire
a posteriori, in ogni nuovo luogo di culto, mediante la
realizzazione di capillari sistemi di videosorveglianza,
collegati con le forze dell’ordine (art. 72, comma 7,
lettera e).
Sotto questo profilo, pertanto, le disposizioni censurate
sono da ritenersi costituzionalmente illegittime, in quanto
eccedono dai limiti delle competenze attribuite alla
Regione.
---------------
1.– Con ricorso notificato il 03-07.04.2015 e depositato
il 09.04.2015 (reg. ric. n. 47 del 2015), il Presidente del
Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato, ha impugnato gli artt.
70, commi 2, 2-bis, 2-ter e 2-quater, e 72, commi 4, 5 e 7,
lettere e) e g), della legge della Regione Lombardia
11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio),
come modificati dall’art. 1, comma 1, lettere b) e c), della
legge della Regione Lombardia 03.02.2015, n. 2, recante «Modifiche
alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo
del territorio) – Principi per la pianificazione delle
attrezzature per servizi religiosi».
2.– L’intervento nel giudizio dell’Associazione VOX –
Osservatorio italiano sui Diritti non è ammissibile.
Il giudizio di costituzionalità delle leggi, promosso in via
d’azione ai sensi dell’art. 127 della Costituzione e degli
artt. 31 e seguenti della legge 11.03.1953, n. 87 (Norme
sulla costituzione e sul funzionamento della Corte
costituzionale), si svolge esclusivamente tra soggetti
titolari di potestà legislativa, fermi restando, per i
soggetti privi di tale potestà, gli altri mezzi di tutela
giurisdizionale eventualmente esperibili.
Pertanto, non è
ammesso, nei giudizi di costituzionalità delle leggi
promossi in via d’azione, l’intervento di soggetti privi di
potere legislativo (ex plurimis, sentenze n. 118 e n.
31 del 2015, n. 210 del 2014, n. 285, n. 220 e n. 118 del
2013).
3.– Le disposizioni regionali impugnate apportano alcune
modificazioni alla legge regionale per il governo del
territorio n. 12 del 2005, intervenendo sui principi
relativi alla pianificazione delle attrezzature per i
servizi religiosi. Il ricorso del Presidente del Consiglio
si articola in numerose censure che lamentano tanto la
violazione dell’eguale libertà religiosa di tutte le
confessioni, garantita dai principi costituzionali e dal
diritto internazionale e sovranazionale, quanto l’eccesso di
competenza legislativa da parte della Regione.
4.– All’esame delle singole censure, occorre premettere
alcune considerazioni sui principi costituzionali in materia
di libertà religiosa e di status delle confessioni religiose
con e senza intesa con lo Stato.
4.1.– L’ordinamento repubblicano è contraddistinto dal
principio di laicità, da intendersi, secondo l’accezione che
la giurisprudenza costituzionale ne ha dato (sentenze n. 508
del 2000, n. 329 del 1997, n. 440 del 1995, n. 203 del
1989), non come indifferenza di fronte all’esperienza
religiosa, bensì come salvaguardia della libertà di
religione in regime di pluralismo confessionale e culturale:
compito della Repubblica è «garantire le condizioni che
favoriscano l’espansione della libertà di tutti e, in questo
ambito, della libertà di religione», la quale «rappresenta
un aspetto della dignità della persona umana, riconosciuta e
dichiarata inviolabile dall’art. 2» Cost. (sentenza n.
334 del 1996).
Il libero esercizio del culto è un aspetto essenziale della
libertà di religione (art. 19) ed è, pertanto, riconosciuto
egualmente a tutti e a tutte le confessioni religiose (art.
8, primo e secondo comma), a prescindere dalla stipulazione
di una intesa con lo Stato.
Come questa Corte ha recentemente ribadito, altro è la
libertà religiosa, garantita a tutti senza distinzioni,
altro è il regime pattizio (artt. 7 e 8, terzo comma,
Cost.), che si basa sulla «concorde volontà» del
Governo e delle confessioni religiose di regolare specifici
aspetti del rapporto di queste ultime con l’ordinamento
giuridico statale (sentenza n. 52 del 2016).
Data l’ampia discrezionalità politica del Governo in
materia, il concordato o l’intesa non possono costituire
condicio sine qua non per l’esercizio della libertà
religiosa; gli accordi bilaterali sono piuttosto finalizzati
al soddisfacimento di «esigenze specifiche di ciascuna
delle confessioni religiose (sentenza n. 235 del 1997),
ovvero a concedere loro particolari vantaggi o eventualmente
a imporre loro particolari limitazioni (sentenza n. 59 del
1958), ovvero ancora a dare rilevanza, nell’ordinamento, a
specifici atti propri della confessione religiosa»
(sentenza n. 52 del 2016).
Per questo, in materia di libertà religiosa, la
giurisprudenza di questa Corte è costante nell’affermare che
«il legislatore non può operare discriminazioni tra
confessioni religiose in base alla sola circostanza che esse
abbiano o non abbiano regolato i loro rapporti con lo Stato
tramite accordi o intese (sentenze n. 346 del 2002 e n. 195
del 1993)» (sentenza n. 52 del 2016).
Di conseguenza, quando tale libertà e il suo esercizio
vengono in rilievo, la tutela giuridica deve abbracciare
allo stesso modo l’esperienza religiosa di tutti, nella sua
dimensione individuale e comunitaria, indipendentemente dai
diversi contenuti di fede; né in senso contrario varrebbero
considerazioni in merito alla diffusione delle diverse
confessioni, giacché la condizione di minoranza di alcune
confessioni non può giustificare un minor livello di
protezione della loro libertà religiosa rispetto a quella
delle confessioni più diffuse (sentenza n. 329 del 1997).
4.2.– L’apertura di luoghi di culto, in quanto forma e
condizione essenziale per il pubblico esercizio dello
stesso, ricade nella tutela garantita dall’art. 19 Cost., il
quale riconosce a tutti il diritto di professare la propria
fede religiosa, in qualsiasi forma, individuale o associata,
di farne propaganda e di esercitare in privato o in pubblico
il culto, con il solo limite dei riti contrari al buon
costume. L’esercizio della libertà di aprire luoghi di
culto, pertanto, non può essere condizionato a una previa
regolazione pattizia, ai sensi degli artt. 7 e 8, terzo
comma, Cost.: regolazione che può ritenersi necessaria solo
se e in quanto a determinati atti di culto vogliano
riconnettersi particolari effetti civili (sentenza n. 59 del
1958).
Più in particolare, nell’esaminare questioni in parte simili
alle odierne, questa Corte ha già affermato che,
in materia
di edilizia di culto, «tutte le confessioni religiose
sono idonee a rappresentare gli interessi religiosi dei loro
appartenenti» e la previa stipulazione di un’intesa non
può costituire «l’elemento di discriminazione
nell’applicazione di una disciplina, posta da una legge
comune, volta ad agevolare l’esercizio di un diritto di
libertà dei cittadini», pena la violazione del principio
affermato nel primo comma dell’art. 8 Cost., oltre che
nell’art. 19 Cost. (sentenza n. 195 del 1993).
Al riguardo, vale il divieto di discriminazione, sancito in
generale dall’art. 3 Cost. e ribadito, per quanto qui
specificamente interessa, dagli artt. 8, primo comma, 19 e
20 Cost.; e ciò anche per assicurare «l’eguaglianza dei
singoli nel godimento effettivo della libertà di culto, di
cui l’eguale libertà delle confessioni di organizzarsi e di
operare rappresenta la proiezione necessaria sul piano
comunitario» (sentenza n. 346 del 2002).
Ciò non vuol dire –come ha chiarito la stessa giurisprudenza
già citata e come si dirà ancora più avanti–
che a tutte le
confessioni debba assicurarsi un’eguale porzione dei
contributi o degli spazi disponibili: come è naturale
allorché si distribuiscano utilità limitate, quali le
sovvenzioni pubbliche o la facoltà di consumare suolo, si
dovranno valutare tutti i pertinenti interessi pubblici e si
dovrà dare adeguato rilievo all’entità della presenza sul
territorio dell’una o dell’altra confessione, alla
rispettiva consistenza e incidenza sociale e alle esigenze
di culto riscontrate nella popolazione.
5.– Alla luce di tali principi, costantemente affermati
dalla giurisprudenza di questa Corte, sono
fondate le questioni di legittimità costituzionale aventi ad
oggetto i commi 2, 2-bis, lettere a) e b), e 2-quater,
dell’art. 70 della legge regionale n. 12 del 2005, come
modificati dall’art. 1, comma 1, lettera b), della legge
regionale n. 2 del 2015, per violazione degli artt. 3, 8, 19
e 117, secondo comma, lettera c), Cost..
5.1.– In virtù delle modifiche apportate dalla legge
regionale n. 2 del 2015, la legge regionale n. 12 del 2005,
sul governo del territorio, nel capo dedicato alla
realizzazione di edifici di culto e di attrezzature
destinate a servizi religiosi (artt. 70-73), distingue tre
ordini di destinatari: gli enti della Chiesa cattolica (art.
70, comma 1); gli enti delle altre confessioni religiose con
le quali lo Stato abbia già approvato con legge un’intesa
(art. 70, comma 2); gli enti di tutte le altre confessioni
religiose (art. 70, comma 2-bis).
A questa terza categoria di enti, collegati alle confessioni
“senza intesa”, i citati artt. 70-73 sono applicabili
solo a condizione che sussistano i seguenti requisiti: «a)
presenza diffusa, organizzata e consistente a livello
territoriale e un significativo insediamento nell’ambito del
comune nel quale vengono effettuati gli interventi
disciplinati dal presente capo; b) i relativi statuti esprim[a]no
il carattere religioso delle loro finalità istituzionali e
il rispetto dei principi e dei valori della Costituzione».
In virtù del comma 2-quater dell’art. 70, la valutazione di
tali requisiti è obbligatoriamente rimessa al vaglio
preventivo, ancorché non vincolante, di una consulta
regionale, da istituirsi e nominarsi con provvedimento della
Giunta regionale della Lombardia.
Tuttavia, come affermato in udienza dalla difesa regionale,
la consulta non è ancora stata istituita, benché sia passato
oltre un anno dall’entrata in vigore della censurata legge
regionale n. 2 del 2015.
5.2.–
La normativa regionale illustrata, in quanto
disciplina la pianificazione urbanistica dei luoghi di
culto, attiene senz’altro al «governo del territorio»,
cosicché, riguardata dal punto di vista materiale, rientra
nelle competenze regionali concorrenti, ai sensi dell’art.
117, terzo comma, Cost. (ex plurimis, sentenze n.
272, n. 102 e n. 6 del 2013).
Nondimeno,
la valutazione sul rispetto del riparto di
competenze tra Stato e Regioni, richiede di tenere conto,
oltre che dell’oggetto, anche della ratio della
normativa impugnata e di identificare correttamente e
compiutamente gli interessi tutelati, nonché le finalità
perseguite (ex plurimis, sentenze n. 140 del 2015, n.
167 e n. 119 del 2014).
Il legislatore regionale, nell’esercizio
delle sue competenze, qual è quella in materia di «governo
del territorio» che qui viene in rilievo, non può mai
perseguire finalità che esorbitano dai compiti della
Regione.
Da questo punto di vista occorre ribadire che
la legislazione regionale in materia di edilizia del
culto «trova la sua ragione e giustificazione –propria
della materia urbanistica– nell’esigenza di assicurare uno
sviluppo equilibrato ed armonico dei centri abitativi e
nella realizzazione dei servizi di interesse pubblico nella
loro più ampia accezione, che comprende perciò anche i
servizi religiosi»
(sentenza n. 195 del 1993).
In questi limiti soltanto la regolazione
dell’edilizia di culto resta nell’ambito delle competenze
regionali. Non è, invece, consentito al legislatore
regionale, all’interno di una legge sul governo del
territorio, introdurre disposizioni che ostacolino o
compromettano la libertà di religione, ad esempio prevedendo
condizioni differenziate per l’accesso al riparto dei luoghi
di culto.
Poiché la disponibilità di luoghi dedicati è condizione
essenziale per l’effettivo esercizio della libertà di culto,
un tale tipo di intervento normativo eccederebbe dalle
competenze regionali, perché finirebbe per interferire con
l’attuazione della libertà di religione, garantita agli
artt. 8, primo comma, e 19 Cost., condizionandone
l’effettivo esercizio.
Pertanto, una lettura unitaria dei principi costituzionali
sopra richiamati ed evocati dal ricorrente porta a
concludere che la Regione è titolata, nel
governare la composizione dei diversi interessi che
insistono sul territorio, a dedicare specifiche disposizioni
per la programmazione e realizzazione di luoghi di culto;
viceversa, essa esorbita dalle sue competenze, entrando in
un ambito nel quale sussistono forti e qualificate esigenze
di eguaglianza, se, ai fini dell’applicabilità di tali
disposizioni, impone requisiti differenziati, e più
stringenti, per le sole confessioni per le quali non sia
stata stipulata e approvata con legge un’intesa ai sensi
dell’art. 8, terzo comma, Cost..
Per queste ragioni, deve essere dichiarata
l’illegittimità costituzionale dell’art. 70, commi 2-bis,
sia nelle lettere a) e b), sia nella parte dell’alinea che
le introduce (vale a dire, nelle parole «che presentano i
seguenti requisiti:»), e 2-quater, della legge reg.
Lombardia n. 12 del 2005.
Per contro, non sono oggetto del presente giudizio l’art.
72, comma 1, della stessa legge regionale n. 12 del 2005, il
quale ricollega alla valutazione delle «esigenze locali»,
previo esame delle diverse istanze confessionali, la
programmazione urbanistica delle attrezzature religiose; e
il successivo art. 73, comma 3, il quale fa riferimento alla
«consistenza ed incidenza sociale» delle diverse
confessioni nel territorio di un Comune, ai fini della
ripartizione da parte di quest’ultimo dei contributi di cui
allo stesso art. 73.
6.– È censurato anche il comma 2-ter dell’art. 70
(introdotto anch’esso dall’art. 1, comma 1, lettera b),
della legge regionale n. 2 del 2015), il quale prevede che
gli enti delle confessioni religiose diverse dalla Chiesa
cattolica, di cui ai commi 2 e 2-bis, «devono stipulare
una convenzione a fini urbanistici con il comune interessato»
e che tali convenzioni devono prevedere espressamente «la
possibilità della risoluzione o della revoca, in caso di
accertamento da parte del comune di attività non previste
nella convenzione».
Il ricorrente lamenta la lesione dell’art. 19 Cost., poiché
la disposizione impugnata definirebbe con una formula troppo
generica i presupposti della risoluzione o revoca della
convenzione, tra l’altro interferendo con la libertà di un
ente confessionale di svolgere anche attività diverse da
quelle strettamente attinenti al culto (ad esempio,
culturali o sportive). La censura, dunque, si riferisce
esclusivamente al secondo periodo del comma 2-ter.
La questione non è fondata, nei sensi di seguito precisati.
La convenzione prevista dalla disposizione in esame,
necessaria nella fase di applicazione della normativa in
questione da parte del Comune, deve essere ispirata alla
finalità, tipicamente urbanistica, di assicurare lo sviluppo
equilibrato e armonico dei centri abitati. Naturalmente la
convenzione potrà stabilire le conseguenze che potranno
determinarsi nel caso in cui l’ente che l’ha sottoscritta
non ne rispetti le stipulazioni, graduando l’effetto delle
violazioni in base alla loro entità.
La disposizione impugnata consente di annoverare tra queste
conseguenze, a fronte di comportamenti abnormi, la
possibilità di risoluzione o di revoca della convenzione. Si
tratta, con ogni evidenza, di rimedi estremi, da attivarsi
in assenza di alternative meno severe. Nell’applicare in
concreto le previsioni della convenzione, il Comune dovrà in
ogni caso specificamente considerare se, tra gli strumenti
che la disciplina urbanistica mette a disposizione per
simili evenienze, non ve ne siano altri, ugualmente idonei a
salvaguardare gli interessi pubblici rilevanti, ma meno
pregiudizievoli per la libertà di culto, il cui esercizio,
come si è detto, trova nella disponibilità di luoghi
dedicati una condizione essenziale.
Il difetto della ponderazione di tutti gli interessi
coinvolti potrà essere sindacato nelle sedi competenti, con
lo scrupolo richiesto dal rango costituzionale degli
interessi attinenti alla libertà religiosa.
La disposizione in questione, così interpretata, si presta a
soddisfare il principio e il test di proporzionalità, che
impongono di valutare se la norma oggetto di scrutinio,
potenzialmente limitativa di un diritto fondamentale, qual è
la libertà di culto, sia necessaria e idonea al
conseguimento di obiettivi legittimamente perseguiti, in
quanto, tra più misure appropriate, prescriva di applicare
sempre quella meno restrittiva dei diritti individuali e
imponga sacrifici non eccedenti quanto necessario per
assicurare il perseguimento degli interessi ad essi
contrapposti.
7.– In un ulteriore motivo di ricorso, i commi 2-bis, 2-ter
e 2-quater dell’art. 70 della legge regionale n. 12 del 2005
(tutti introdotti dall’art. 1, comma 1, lettera b), della
legge regionale n. 2 del 2015) sono censurati congiuntamente
per violazione dell’art. 117, commi primo e secondo, lettera
a), Cost., in relazione ai «principi europei ed
internazionali in materia di libertà di religione e di culto».
In particolare sono richiamati gli artt. 10, 17 e 19 del
Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE); gli
artt. 10, 21 e 22 della Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione europea (proclamata a Nizza il 07.12.2000 e
adattata a Strasburgo il 12.12.2007); e, infine, l’art. 18
del Patto internazionale sui diritti civili e politici
(adottato a New York il 16.12.1966, ratificato e reso
esecutivo in Italia con legge 25.10.1977, n. 881).
La questione è inammissibile.
Per giurisprudenza costante, il ricorso in via principale
deve identificare esattamente la questione nei suoi termini
normativi, indicando le norme costituzionali (ed
eventualmente interposte) e ordinarie, la definizione del
cui rapporto di compatibilità o incompatibilità costituisce
l’oggetto della questione e, inoltre, deve contenere una
argomentazione di merito a sostegno della richiesta
declaratoria di illegittimità costituzionale (sentenze n.
251, n. 233, n. 218, n. 153 e n. 142 del 2015).
Sul punto, invece, il ricorso, dopo avere menzionato nel
proprio titolo le disposizioni sovranazionali e regionali
ritenute reciprocamente incompatibili, illustra
sinteticamente il contenuto delle prime, ma trascura del
tutto le seconde. Di conseguenza, non risulta chiaro quali
siano gli specifici contenuti della normativa regionale
ritenuti incompatibili con i principi sovranazionali e
nemmeno in quali esatti termini si ponga l’incompatibilità.
Tale difetto argomentativo non può essere rimediato mediante
una lettura complessiva del ricorso: la quale, al contrario,
rende ancor più oscuro il senso del motivo ora in esame. In
particolare, non è chiaro se il Presidente del Consiglio dei
ministri abbia inteso semplicemente sottolineare il rilievo
anche sovranazionale dei principi di eguaglianza e libertà
religiosa, richiamati in altri motivi di ricorso, oppure
denunciare l’incompatibilità, con gli anzidetti principi
sovranazionali, di specifici contenuti dei commi censurati
dei quali non è stata messa in dubbio la compatibilità con i
corrispondenti principi della Costituzione italiana.
In riferimento alle disposizioni della Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea, la censura presenta un
ulteriore profilo di inammissibilità. A norma del suo art.
51 (nonché dell’art. 6, paragrafo 1, primo alinea, del
Trattato sull’Unione europea e della Dichiarazione n. 1
allegata al Trattato di Lisbona) e di una consolidata
giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea,
le disposizioni della Carta sono applicabili agli Stati
membri solo quando questi agiscono nell’ambito di
applicazione del diritto dell’Unione: «[l]e disposizioni
della presente Carta si applicano […] agli Stati membri
esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione»
(art. 51 della Carta).
Come questa Corte ha già affermato, perché la Carta dei
diritti UE sia invocabile in un giudizio di legittimità
costituzionale, occorre, dunque, che la fattispecie oggetto
di legislazione interna «sia disciplinata dal diritto
europeo –in quanto inerente ad atti dell’Unione, ad atti e
comportamenti nazionali che danno attuazione al diritto
dell’Unione, ovvero alle giustificazioni addotte da uno
Stato membro per una misura nazionale altrimenti
incompatibile con il diritto dell’Unione– e non già da sole
norme nazionali prive di ogni legame con tale diritto»
(sentenza n. 80 del 2011).
L’assenza di qualsiasi argomentazione in merito ai
presupposti di applicabilità delle norme dell’Unione europea
alla legge in esame rende il riferimento a queste ultime
generico (sentenze n. 199 del 2012 e n. 185 del 2011),
peraltro in un caso in cui i punti di contatto tra l’ambito
di applicazione di tali norme e quello delle disposizioni
censurate sono tutt’altro che evidenti (vedi, a contrario,
sentenza n. 114 del 2012).
Lo stesso vale, a maggior ragione, per gli artt. 10, 17 e 19
del TFUE, i quali si rivolgono esplicitamente all’Unione e
alle sue istituzioni e non stabiliscono ulteriori obblighi
in capo agli Stati membri.
Ciò costituisce un ulteriore difetto di motivazione, e
quindi causa di inammissibilità, del motivo di ricorso in
esame, cui si deve infine aggiungere l’inconferenza del
riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera a), Cost.,
il quale non può essere considerato un diverso ed ulteriore
presidio, rispetto agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.,
del rispetto della conformità ai vincoli comunitari
(sentenza n. 185 del 2011).
8.– Dell’art. 72 della legge regionale n. 12 del 2005
(interamente novellato dall’art. 1, comma 1, lettera c,
della legge regionale n. 2 del 2015), sono censurati i commi
4 e 7, lettera e).
Il comma 4 –qui considerato solo nel suo primo periodo–
prevede che, nel corso del procedimento per la
predisposizione del piano delle attrezzature religiose di
cui allo stesso art. 72 (denominato «Piano per le
attrezzature religiose» nella rubrica di tale articolo),
vengano acquisiti «i pareri di organizzazioni, comitati
di cittadini, esponenti e rappresentanti delle forze
dell’ordine oltre agli uffici provinciali di questura e
prefettura al fine di valutare possibili profili di
sicurezza pubblica, fatta salva l’autonomia degli organi
statali».
La seconda disposizione censurata esige che, nel piano
predetto, sia prevista, per ciascun edificio di culto (se
non già esistente all’entrata in vigore della legge
regionale n. 2 del 2015, in virtù dell’art. 72, comma 8), «la
realizzazione di un impianto di videosorveglianza esterno
all’edificio, con onere a carico dei richiedenti, che ne
monitori ogni punto di ingresso, collegato con gli uffici
della polizia locale o forze dell’ordine».
Prescrivendo l’acquisizione di pareri inerenti a questioni
di sicurezza pubblica, nonché l’installazione di impianti di
videosorveglianza, le disposizioni censurate entrerebbero
nella materia «ordine pubblico e sicurezza», rimessa
alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, anche con
riguardo alle possibili forme di coordinamento con le
Regioni (artt. 117, secondo comma, lettera h, e 118, terzo
comma, Cost.).
La questione è fondata.
Nella Costituzione italiana ciascun diritto
fondamentale, compresa la libertà di religione, è predicato
unitamente al suo limite; sicché non v’è dubbio che le
pratiche di culto, se contrarie al «buon costume»,
ricadano fuori dalla garanzia costituzionale di cui all’art.
19 Cost.; né si contesta che, qualora gli appartenenti a una
confessione si organizzino in modo incompatibile «con
l’ordinamento giuridico italiano», essi non possano
appellarsi alla protezione di cui all’art. 8, secondo comma,
Cost..
Tutti i diritti costituzionalmente protetti sono soggetti al
bilanciamento necessario ad assicurare una tutela unitaria e
non frammentata degli interessi costituzionali in gioco, di
modo che nessuno di essi fruisca di una tutela assoluta e
illimitata e possa, così, farsi “tiranno”
(sentenza n. 85 del 2013).
Tra gli interessi costituzionali da tenere
in adeguata considerazione nel modulare la tutela della
libertà di culto –nel rigoroso rispetto dei canoni di
stretta proporzionalità, per le ragioni spiegate sopra– sono
senz’altro da annoverare quelli relativi alla sicurezza,
all’ordine pubblico e alla pacifica convivenza.
Tuttavia, il perseguimento di tali
interessi è affidato dalla Costituzione, con l’art. 117,
secondo comma, lettera h), in via esclusiva allo Stato,
mentre le Regioni possono cooperare a tal fine solo mediante
misure ricomprese nelle proprie attribuzioni
(ex plurimis, sentenza n. 35 del 2012).
Nel caso di specie, invece, le disposizioni
censurate, considerate nella loro ratio e nel loro
contenuto essenziale
(sentenze n. 118, n. 35 e n. 34 del 2012),
perseguono evidenti finalità di ordine pubblico e sicurezza:
da valutare ex ante, nella programmazione (art. 72,
comma 4: «[n]el corso del procedimento di predisposizione
del piano […] vengono acquisiti i pareri di […]
rappresentanti delle forze dell’ordine oltre agli uffici
provinciali di questura e prefettura, al fine di valutare
possibili profili di sicurezza pubblica»); e da gestire
a posteriori, in ogni nuovo luogo di culto, mediante la
realizzazione di capillari sistemi di videosorveglianza,
collegati con le forze dell’ordine (art. 72, comma 7,
lettera e).
Sotto questo profilo, pertanto, le disposizioni censurate
sono da ritenersi costituzionalmente illegittime, in quanto
eccedono dai limiti delle competenze attribuite alla
Regione.
9.– È censurato anche l’art. 72, comma 4, secondo periodo,
della legge regionale n. 12 del 2005, a norma del quale, con
riguardo al piano delle attrezzature religiose, «[r]esta
ferma la facoltà per i comuni di indire referendum nel
rispetto delle previsioni statutarie e dell’ordinamento
statale».
Il ricorso lamenta la violazione dell’art. 19 Cost., in
quanto, affermando la facoltà dei Comuni di indire tali
referendum, farebbe sì che la possibilità di destinare a
edilizia di culto determinate aree risulti «subordinata a
decisioni espressione di maggioranze politiche o culturali o
altro».
La questione è inammissibile.
Come è evidente dal suo chiaro tenore testuale, la
disposizione non modifica in alcun modo il procedimento di
approvazione del piano, né incide sulla disciplina dei
referendum comunali, limitandosi, in proposito, a rinviare a
quanto già previsto dalla rilevante normativa locale e
nazionale.
La disposizione è quindi meramente ricognitiva, priva di «autonoma
forza precettiva o, se si preferisce, di quel carattere
innovativo che si suole considerare proprio degli atti
normativi» (sentenza n. 346 del 2010); sicché deve
ritenersi insussistente l’interesse della parte ricorrente a
impugnarla (sentenze n. 230 del 2013 e n. 401 del 2007).
10.– Il vigente art. 72, comma 7, lettera g), della legge
regionale n. 12 del 2005 prevede che il piano delle
attrezzature religiose garantisca «la congruità
architettonica e dimensionale degli edifici di culto
previsti con le caratteristiche generali e peculiari del
paesaggio lombardo, così come individuate nel PTR». La
citata lettera g) è censurata per violazione degli artt. 3,
8 e 19 Cost. perché, richiamando con formula ambigua le
caratteristiche del paesaggio lombardo, attribuirebbe
all’amministrazione una discrezionalità troppo ampia, tale
da consentire facilmente applicazioni discriminatorie.
La questione non è fondata, nei sensi precisati di seguito.
Diversamente da quanto suggerito dal rimettente, la
disposizione impugnata non richiede, genericamente, che gli
edifici di culto si conformino a non meglio identificate
caratteristiche del «paesaggio lombardo»; essa
specifica invece che le caratteristiche a cui debbono
conformarsi anche gli edifici di culto sono quelle «individuate
nel PTR», vale a dire, nel piano territoriale regionale,
di cui agli artt. 19 e seguenti della stessa legge regionale
n. 12 del 2005.
Letta nella sua integralità, comprensiva del rimando al
piano territoriale regionale, la disposizione esige che, nel
valutare la conformità paesaggistica degli edifici di culto,
si debba avere riguardo, non a considerazioni estetiche
soggettive, occasionali ed estemporanee, come tali
suscettibili di applicazioni arbitrarie e discriminatorie,
bensì alle indicazioni predeterminate dalle pertinenti
previsioni del piano territoriale regionale.
Si conferma così che quest’ultimo, anche con riguardo allo
specifico ambito qui considerato, è atto di orientamento di
tutta la programmazione e pianificazione territoriale locale
della Lombardia, nonché quadro di riferimento per le
valutazioni sulla compatibilità degli atti di governo del
territorio, anche comunali, sulle cui eventuali previsioni
contrastanti ha la prevalenza.
Così intesa, la disposizione censurata non è altro che una
specificazione di quanto previsto, in generale, dagli artt.
19 e 20 della legge regionale n. 12 del 2005. Un eventuale
cattivo uso della discrezionalità programmatoria, atto a
penalizzare surrettiziamente l’insediamento delle
attrezzature religiose, potrà essere censurato nelle sedi
competenti.
11.– A norma del vigente art. 72, comma 5, della legge
regionale n. 12 del 2005, «[i] comuni che intendono
prevedere nuove attrezzature religiose sono tenuti ad
adottare e approvare il piano delle attrezzature religiose
entro diciotto mesi dalla data di entrata in vigore della
[legge regionale n. 2 del 2015]» (primo periodo); «[d]ecorso
detto termine il piano è approvato unitamente al nuovo PGT»
(secondo periodo).
Il citato comma 5, ad avviso della difesa statale,
contrasterebbe con l’art. 117, secondo comma, lettera l),
Cost., in quanto stabilirebbe la mera facoltà, per i Comuni
che intendano farlo, di prevedere la realizzazione di nuove
attrezzature religiose attraverso l’apposito piano.
In tal modo, la disposizione si porrebbe in contrasto con il
decreto del Ministero dei lavori pubblici 02.04.1968, n.
1444 (Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza,
di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra spazi
destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e
spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al
verde pubblico o a parcheggi da osservare ai fini della
formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione
di quelli esistenti, ai sensi dell’art. 17 della legge
06.08.1967, n. 765) e, in particolare, con il suo art. 3, a
norma del quale negli insediamenti residenziali deve essere
assicurata, per ogni abitante, una dotazione minima di 18
metri quadrati per spazi pubblici o riservati alle attività
collettive, a verde pubblico o a parcheggio, da ripartire
normalmente in modo tale che 2 metri quadrati siano
destinati ad attrezzature di interesse comune, anche «religiose»,
oltre che «culturali, sociali, assistenziali, sanitarie,
amministrative, per pubblici servizi» e altre.
Il ricorrente ricorda che la giurisprudenza costituzionale
ha già ricollegato alla competenza di cui all’art. 117,
secondo comma, lettera l), Cost. alcune previsioni del d.m.
n. 1444 del 1968: sono citate, in proposito, le sentenze di
questa Corte n. 232 del 2005 e n. 120 del 1996.
La questione è manifestamente inammissibile.
A prescindere da ogni considerazione circa la correttezza
dell’interpretazione data dal ricorrente al censurato art.
72, comma 5, è assorbente il rilievo che, per come è
evocato, il parametro risulta del tutto inconferente
(sentenze n. 269 e n. 121 del 2014).
Il ricorrente non spiega in alcun modo perché la disciplina
delle dotazioni urbanistiche contenuta nell’art. 3 del d.m.
n. 1444 del 1968, dovrebbe ritenersi attinente all’art. 117,
secondo comma, lettera l), Cost. Sul punto, pertanto, il
ricorso non è sufficientemente e adeguatamente motivato.
In ogni caso, il cattivo o il mancato esercizio del potere
da parte delle autorità urbanistiche potrà essere censurato
nelle sedi competenti.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara inammissibile l’intervento dell’Associazione VOX
– Osservatorio italiano sui Diritti, nel giudizio promosso
dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso in
epigrafe;
2) dichiara l’illegittimità costituzionale
dell’art. 70, commi 2-bis, limitatamente alle parole «che
presentano i seguenti requisiti:» e alle lettere a) e
b), e 2-quater, della legge della Regione Lombardia
11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio),
introdotti dall’art. 1, comma 1, lettera b), della legge
della Regione Lombardia 03.02.2015, n. 2, recante «Modifiche
alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo
del territorio) – Principi per la pianificazione delle
attrezzature per servizi religiosi»;
3) dichiara l’illegittimità costituzionale
dell’art. 72, commi 4 e 7, lettera e), della legge reg.
Lombardia n. 12 del 2005, introdotti dall’art. 1, comma 1,
lettera c), della legge reg. Lombardia n. 2 del 2015;
4) dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la
questione di legittimità costituzionale dell’art. 70, comma
2-ter, ultimo periodo, della legge reg. Lombardia n. 12 del
2005, introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera b), della
legge reg. Lombardia n. 2 del 2015, promossa, in riferimento
all’art. 19 della Costituzione, dal Presidente del Consiglio
dei ministri con il ricorso in epigrafe;
5) dichiara inammissibile la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 70, commi 2-bis, 2-ter e 2-quater,
della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, introdotti
dall’art. 1, comma 1, lettera b), della legge reg. Lombardia
n. 2 del 2015, promossa –in riferimento all’art. 117, commi
primo e secondo, lettera a), Cost., in relazione agli artt.
10, 17 e 19 del Trattato sul funzionamento dell’Unione
europea, agli artt. 10, 21 e 22 della Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea (proclamata a Nizza il
07.12.2000 e adattata a Strasburgo il 12.12.2007) ed
all’art. 18 del Patto internazionale sui diritti civili e
politici (adottato a New York il 16.12.1966,
ratificato e reso esecutivo in Italia con legge 25.10.1977,
n. 881)– dal Presidente del Consiglio dei ministri con il
ricorso in epigrafe;
6) dichiara inammissibile la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 72, comma 4, ultimo periodo, della
legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, introdotto dall’art. 1,
comma 1, lettera c), della legge reg. Lombardia n. 2 del
2015, promossa, in riferimento all’art. 19 Cost., dal
Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso in
epigrafe;
7) dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la
questione di legittimità costituzionale dell’art. 72, comma
7, lettera g), della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005,
introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera c), della legge
reg. Lombardia n. 2 del 2015, promossa, in riferimento agli
artt. 3, 8 e 19 Cost., dal Presidente del Consiglio dei
ministri con il ricorso in epigrafe;
8) dichiara manifestamente inammissibile la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 72, comma 5, della
legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, introdotto dall’art. 1,
comma 1, lettera c), della legge reg. Lombardia n. 2 del
2015, promossa, in riferimento all’art. 117, secondo comma,
lettera l), Cost., dal Presidente del Consiglio dei ministri
con il ricorso in epigrafe
(Corte Costituzionale,
sentenza 24.03.2016 n. 63). |
ATTI
AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: Com’è
noto una particolare fattispecie di responsabilità della
P.A. è quella del cd. danno da ritardo. A tale categoria
concettuale -che trova oggi un aggancio normativo nell’art.
2-bis della legge n. 241 del 1990- sono riconducibili tre
distinte ipotesi:
a) l'adozione tardiva di un provvedimento legittimo ma
sfavorevole per il privato interessato;
b) l'adozione di un provvedimento favorevole ma tardivo;
c) la mera inerzia e cioè la mancata adozione del
provvedimento.
---------------
La fattispecie per cui è causa è riconducibile all’ipotesi
sub b) -danno da ritardato conseguimento del bene della
vita- venendo in considerazione l'adozione di un
provvedimento favorevole ma tardivo.
Il ricorrente ha, infatti, conseguito il bene della vita cui
aspirava (autorizzazione all’apertura del distributore di
carburante), ma con notevole ritardo rispetto ai tempi
normativamente prefissati (art. 2 L. n. 241/1990 e
regolamenti attuativi; art. 4, comma 7, DPR n. 447/1998),
avendo il Comune rilasciato il titolo abilitativo richiesto
a distanza di oltre cinque anni dall’avvio del procedimento.
Il danno non è stato, dunque, causato direttamente dal
provvedimento, che anzi risulta legittimo, ma dalla mancata
conclusione del procedimento nel termine previsto: il
pregiudizio lamentato dal ricorrente è quello subìto per
aver ottenuto in ritardo il bene della vita cui aveva
titolo.
Sussistono tutti i presupposti per affermare la
responsabilità aquiliana dell’Ente Locale ex art. 2043 c.c..
In particolare nella fattispecie è riscontrabile:
a) la condotta antigiuridica della P.A., risultante dal
comportamento illecito (ritardo ingiustificato nell’adozione
di un provvedimento favorevole), oltre che dall’adozione di
un illegittimo atto soprassessorio (sull’illegittimità della
sospensione sine die del procedimento amministrativo la
giurisprudenza amministrativa è pacifica);
b) l’evento dannoso (danno ingiusto) ovvero la lesione
dell’interesse legittimo pretensivo del privato. Il rilascio
tardivo del provvedimento richiesto dimostra ex se la
spettanza del bene della vita, dispensando il giudice del
compito di effettuare il giudizio prognostico;
c) il nesso di causalità tra la condotta antigiuridica
dell’amministrazione e l’evento dannoso;
d) l’elemento soggettivo, essendo il danno riferibile ad una
condotta colposa della. P.A.. Al riguardo il Collegio
ritiene di dover fare applicazione del consolidato
orientamento secondo cui al privato, il quale assuma di
essere stato danneggiato da un provvedimento illegittimo o
dall’inerzia della P.A., non è richiesto un particolare
impegno per dimostrare la colpa della stessa, potendo egli
limitarsi ad allegare l'illegittimità dell'atto o lo spirare
del termine di conclusione del procedimento e per il resto
farsi applicazione, al fine della prova dell'elemento
soggettivo, delle regole di comune esperienza e della
presunzione semplice di cui all'art. 2727 c.c.; di
conseguenza a quel punto spetta all'Amministrazione
dimostrare, se del caso, che si è verificato un errore
scusabile, il quale è configurabile in caso di contrasti
giurisprudenziali sull'interpretazione di una norma, di
formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore, di
rilevante complessità del fatto, d'influenza determinante di
comportamenti di altri soggetti o di illegittimità derivante
da una successiva dichiarazione d'incostituzionalità della
norma applicata.
---------------
...
per l'annullamento:
-
della nota prot. n. 31550 datata 25.02.2010 e pervenuta
l'01.03.2010, con cui il Responsabile della Struttura Unica
Attività Produttive del Comune di Taranto sospendeva sine
die i termini del procedimento in merito alla pratica
edilizia prot. n. 356/06 di cui all'istanza, presentata dal
ricorrente, in data 07.06.2006, finalizzata all'ottenimento
delle autorizzazioni per la realizzazione di una stazione di
servizio di vendita di carburanti;
-
nonché, ove necessario e per quanto di interesse, dei
verbali della Conferenza di servizi svoltasi in data
9/2/2010 presso l'assessorato Assetto del Territorio della
Regione Puglia nonché della nota di indizione della stessa
Conferenza di Servizi mai conosciuti e/o notificati;
-
dei verbali della Conferenza di servizi svoltasi in data
30/06/2009 presso lo Sportello Unico delle Attività
Produttive del Comune di Taranto nonché della nota di
indizione della stessa Conferenza di Servizi;
- della nota n.
2869 del 12.03.2008 della Direzione Urbanistica ed
Edilizia del Comune di Taranto e dell'ivi allegata Relazione
Tecnica del 07.03.2008;
-
della nota n. 6241 del 20.6.08, della Direzione Urbanistica
ed Edilizia del Comune di Taranto mai conosciuta e/o
notificata;
-
di tutti gli atti presupposti, connessi e consequenziali;
-
per la condanna del Comune di Taranto al risarcimento dei
danni derivanti dall’illegittimo esercizio dell’attività
amministrativa o dal mancato esercizio di quella
obbligatoria nonché di quelli derivanti dell’inosservanza
dolosa o colposa del termine di conclusione del
procedimento;
...
L’azione di annullamento va dichiarata improcedibile per
sopravvenuta carenza d’interesse, avendo l’istante
conseguito, sia pur con notevole ritardo, il bene della vita
cui aspirava.
La domanda con cui il ricorrente chiede il risarcimento del
danno derivante dall’inosservanza dei termini di conclusione
del procedimento merita parziale accoglimento.
Com’è noto una particolare fattispecie di responsabilità
della P.A. è quella del cd. danno da ritardo. A tale
categoria concettuale -che trova oggi un aggancio normativo
nell’art. 2-bis della legge n. 241 del 1990- sono
riconducibili tre distinte ipotesi:
a) l'adozione tardiva di un provvedimento legittimo ma
sfavorevole per il privato interessato;
b) l'adozione di un provvedimento favorevole ma tardivo;
c) la mera inerzia e cioè la mancata adozione del
provvedimento.
La fattispecie per cui è causa è riconducibile all’ipotesi
sub b) -danno da ritardato conseguimento del bene della
vita- venendo in considerazione l'adozione di un
provvedimento favorevole ma tardivo.
Il ricorrente ha,
infatti, conseguito il bene della vita cui aspirava
(autorizzazione all’apertura del distributore di
carburante), ma con notevole ritardo rispetto ai tempi
normativamente prefissati (art. 2 L. n. 241/1990 e regolamenti
attuativi; art. 4, comma 7, DPR n. 447/1998), avendo il
Comune di Taranto rilasciato il titolo abilitativo richiesto
a distanza di oltre cinque anni dall’avvio del procedimento.
Il danno non è stato, dunque, causato direttamente dal
provvedimento, che anzi risulta legittimo, ma dalla mancata
conclusione del procedimento nel termine previsto: il
pregiudizio lamentato dal ricorrente è quello subìto per
aver ottenuto in ritardo il bene della vita cui aveva
titolo.
Sussistono tutti i presupposti per affermare la
responsabilità aquiliana dell’Ente Locale ex art. 2043 c.c..
In particolare nella fattispecie è riscontrabile:
a) la condotta antigiuridica della P.A., risultante dal
comportamento illecito (ritardo ingiustificato nell’adozione
di un provvedimento favorevole), oltre che dall’adozione di
un illegittimo atto soprassessorio (sull’illegittimità della
sospensione sine die del procedimento amministrativo la
giurisprudenza amministrativa è pacifica);
b) l’evento dannoso (danno ingiusto) ovvero la lesione
dell’interesse legittimo pretensivo del privato. Il rilascio
tardivo del provvedimento richiesto dimostra ex se la
spettanza del bene della vita, dispensando il giudice del
compito di effettuare il giudizio prognostico;
c) il nesso di causalità tra la condotta antigiuridica
dell’amministrazione e l’evento dannoso;
d) l’elemento soggettivo, essendo il danno riferibile ad una
condotta colposa della. P.A.. Al riguardo il Collegio ritiene
di dover fare applicazione del consolidato orientamento
secondo cui al privato, il quale assuma di essere stato
danneggiato da un provvedimento illegittimo o dall’inerzia
della P.A., non è richiesto un particolare impegno per
dimostrare la colpa della stessa, potendo egli limitarsi ad
allegare l'illegittimità dell'atto o lo spirare del termine
di conclusione del procedimento e per il resto farsi
applicazione, al fine della prova dell'elemento soggettivo,
delle regole di comune esperienza e della presunzione
semplice di cui all'art. 2727 c.c.; di conseguenza a quel
punto spetta all'Amministrazione dimostrare, se del caso,
che si è verificato un errore scusabile, il quale è
configurabile in caso di contrasti giurisprudenziali
sull'interpretazione di una norma, di formulazione incerta
di norme da poco entrate in vigore, di rilevante complessità
del fatto, d'influenza determinante di comportamenti di
altri soggetti o di illegittimità derivante da una
successiva dichiarazione d'incostituzionalità della norma
applicata (in tal senso, ex plurimis: Cons. Stato, V, 12.02.2013, n. 798; id., V, 19.11.2012, n. 5846;
id., IV, 31.01.2012, n. 482).
Nel caso di specie l’odierno ricorrente ha assolto all’onere
di allegazione dell’illegittimità dell’atto e/o del ritardo
della P.A. nella conclusione del procedimento, forieri del
pregiudizio patrimoniale.
L’amministrazione, ad avviso del Collegio, non ha viceversa
fornito un’adeguata prova in ordine alla scusabilità
dell’errore che ha determinato la tardiva adozione del
provvedimento favorevole, risultando dagli atti che il
provvedimento favorevole è stato rilasciato, a cinque anni
di distanza dall’avvio del procedimento, sulla scorta dei
pareri già allegati dall’istante nel 2006, meramente
“confermati” o “aggiornati” nel corso del procedimento,
nonché senza alcun ricorso alla procedura di variante
urbanistica di cui all’art. 5, D.P.R. 447/1998, ritenuta in
definitiva non necessaria dal Comune, come sostenuto sin
dall’inizio dal ricorrente.
Per tali ragioni, il Collegio è dell’avviso che la domanda
di risarcimento del danno patrimoniale avanzata dal
ricorrente sia meritevole di ammissione a risarcimento (an
debeatur).
Il danno-conseguenza (quantum debeatur) non può tuttavia
essere liquidato, come richiesto dall’interessato, in misura
pari ad € 370.400 per le ragioni di seguito indicate.
Il contratto preliminare di affitto d’azienda, stipulato dal
ricorrente il 02.04.2008 con altra impresa già operante
nel settore, per un corrispettivo annuo di € 60.000,00 (€
5.000,00 mensili) e una durata di anni sei, prevedeva
l’obbligo di stipulare il contratto definitivo entro un anno
dalla sottoscrizione del preliminare.
Ciò posto, è verosimile ritenere che le parti non avrebbero
stipulato il contratto definitivo di affitto azienda prima
della scadenza dell’anno (01.04.2009), tenuto conto che
il titolo abilitativo non era stato ancora rilasciato;
l’operazione economica presentava profili di complessità; la
funzione del preliminare è proprio quella di consentire ai
contraenti il controllo delle sopravvenienze prima della
stipulazione definitiva; l’affittuario d’azienda,
utilizzando la diligenza propria dell’operatore economico
avveduto (homo eiusdem condicionis et professionis), non
avrebbe stipulato il definitivo senza prima aver svolto le
opportune verifiche in ordine al rilascio del titolo
abilitativo; non risulta dagli atti (manca un’allegazione
sul punto) che fossero iniziati i lavori di adeguamento
delle aree interessate -destinate a “Verde di rispetto
stradale" o "Strada di PRG”- alla diversa utilizzazione dei
suoli né che il concedente o l’affittuario disponessero già,
al momento del preliminare, delle attrezzature necessarie
per adibire le aree in questione a distributore di
carburante, con annesso punto di ristorazione.
E’ pertanto verosimile ritenere che il contratto definitivo
di affitto d’azienda sarebbe stato stipulato alla scadenza
del termine annuale, sicché il ricorrente avrebbe potuto
percepire i canoni (€ 5000 mensili) solo a far data dal 01.04.2009. Considerato che il provvedimento favorevole è
stato rilasciato il 17.07.2011, il ricorrente avrebbe
ipoteticamente diritto a conseguire a titolo di risarcimento
del danno la somma di € 137.500 (€ 5000 x 27,5 mesi:
01.04.2009-17.07.2011), pari ai canoni mensili non
percepiti a causa del colpevole ritardo della P.A.
nell’adozione del provvedimento favorevole.
Detto importo deve, tuttavia, essere decurtato di una somma
pari a circa la metà, risultando dagli atti che il
ricorrente -pur avendo stigmatizzato nel corpo del ricorso
introduttivo la condotta soprassessoria della P.A. e il
ritardo nella conclusione del procedimento- ha dapprima
chiesto un duplice rinvio dell’udienza camerale fissata per
la decisione dell’istanza cautelare e poi definitivamente
rinunciato alla tutela cautelare medesima (si vedano i
verbali delle udienze camerali del 27.05.2010, 29.07.2010, 21.10.2010).
Tale contegno ha aggravato il danno ed è dunque rilevante ex
art 30, comma 3, c.p.a. (“Nel determinare il risarcimento il
giudice valuta tutte le circostanze di fatto e il
comportamento complessivo delle parti e, comunque, esclude
il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare
usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento
degli strumenti di tutela previsti”): la disposizione, pur
non evocando in modo esplicito il disposto dell’art. 1227,
comma 2, del codice civile, afferma che l'omessa attivazione
degli strumenti di tutela previsti costituisce, nel quadro
del comportamento complessivo delle parti, dato valutabile,
alla stregua del canone di buona fede e del principio di
solidarietà, ai fini dell’esclusione o della mitigazione del
danno evitabile con l’ordinaria diligenza (Cons. St. Ad Pl.
n. 3/2011).
Nel caso di specie è plausibile ritenere, sulla base di un
giudizio di prognosi postuma fondato sulla stessa
giurisprudenza di questo Tar citata dal ricorrente
nell’atto introduttivo del giudizio, che, ove l’istante
avesse insistito sull’istanza cautelare o comunque chiesto
l’adozione di una misura cautelare atipica che compulsasse
il Comune a concludere il procedimento in itinere, ormai
avviato da circa quattro anni, il Collegio avrebbe accolto
l’istanza medesima.
Nessun danno può dirsi risarcibile per il periodo anteriore
all’aprile 2009, mancando una prova certa del pregiudizio
patito e non avendo la parte ricorrente inviato al Comune
uno specifico e tempestivo “avviso di danno” (dagli atti
risulta solo una generica diffida a concludere il
procedimento nei termini, dd. 03.03.2008, scevra di
qualsiasi riferimento all’esistenza di danni attuali o
potenziali): anche tale contegno omissivo appare rilevante
nella prospettiva degli artt. 30, co. 3, c.p.a. e 1227, co.
2., c.c., costituendo il cd. avviso di danno un
comportamento non eccedente la soglia del sacrificio
significativo, esigibile anche dalla vittima di una condotta
illecita alla stregua del principio di auto-responsabilità,
del canone di buona fede di cui all’art. 1175 e del
principio di solidarietà di cui all’art. 2 Cost..
La scelta della parte ricorrente di non inviare al Comune
uno specifico e tempestivo avviso di danno, di differire più
volte le udienze camerali e di rinunciare alle misure
cautelari previste dall’ordinamento processuale -apprezzata
congiuntamente alla successiva proposizione di una domanda
tesa ad ottenere il risarcimento di un danno, quello da
ritardo, che l’attivazione dei suddetti rimedi avrebbe
plausibilmente (ossia più probabilmente che non) evitato o
mitigato- integra violazione dell’obbligo di cooperazione,
che spezza il nesso causale e, per l’effetto, impedisce il
risarcimento dei danni evitabili (arg. in base a Cons. St.
Ad Pl. n. 3/2011).
Alla luce delle suesposte considerazioni, il Collegio, in
applicazione del combinato disposto degli artt. 2056 e 1226
del codice civile, valutata l’incidenza sul piano della
causalità giuridica del comportamento omissivo del
danneggiato (artt. 30 c.p.a. e 1227, co. 2, c.c.), reputa
congruo liquidare in via equitativa il danno patrimoniale
subito dal ricorrente in misura pari a € 70.000 (euro
settantamila/00).
Sulla somma in tal modo determinata, che costituisce debito
di valore, dovranno essere corrisposti la rivalutazione
monetaria e gli interessi compensativi sulla somma via via
rivalutata con utilizzo del cd. metodo a scalare, secondo i
modi e nei limiti precisati dalle Sezioni Unite della
Cassazione nella sentenza n. 1712/1995.
Il Comune di Taranto va altresì condannato a rifondere al
ricorrente le spese di lite, liquidate come da dispositivo.
Spese compensate nei rapporti con le altre parti del
giudizio (TAR Puglia-Lecce, Sez. II,
sentenza 23.03.2016 n. 549 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sanzioni omogenee per i lavori su beni di valore
paesaggistico. Corte costituzionale. Illogica la disciplina
attuale.
Passo indietro nella
tutela dei beni paesaggistici, con sanzioni penali più
diluite: questa è la strada che la Corte costituzionale è
stata costretta a percorrere con la
sentenza
23.03.2016 n. 56.
A causa di una legislazione definita «ondivaga», la Consulta
ha dovuto comparare le varie sanzioni previste per chi
esegue lavori su beni paesaggistici (articolo 181 del
decreto legislativo 42/2004). Queste sanzioni sono state
ritenute illogicamente più severe a seconda del tipo di
vincolo che tutela il bene: l’illogicità, consistente in
pene più gravi per gli stessi lavori a seconda del tipo di
vincolo imposto sul bene, ha causato un livellamento verso
il basso, cioè una diluizione delle sanzioni allineandole a
quelle più miti.
Le conseguenze della sentenza della Corte
riguardano unicamente i procedimenti penali, mentre
rimangono immutate le sanzioni amministrative (riduzione in
pristino, sanzioni pecuniarie). Il ragionamento svolto dal
giudice delle leggi riguarda una norma del 2004 (Codice
Urbani dei beni culturali e del paesaggio) che prevedeva
pene diverse per chi esegue lavori su beni paesaggistici a
seconda che il bene fosse stato vincolato per legge pure con
specifico provvedimento amministrativo (decreto
ministeriale).
I beni tutelati per legge sono elencati
nell’articolo 142 del predetto codice e cioè sono quelli che
ricadono nei 300 m dalla battigia del mare e dei laghi,
nella fascia di 150 m dai corsi d’acqua, ad altezze alpine
superiori a 1600 m ed a 1200 m nell’Appennino, parchi e
riserve nazionali, boschi e foreste, zone di usi civici,
zone umide, vulcani, zone di interesse archeologico.
A fianco di queste categorie, c’è una seconda categoria di
immobili, cioè quelli che per loro caratteristiche
paesaggistiche sono dichiarati di notevole interesse
pubblico con apposito provvedimento (decreto ministeriale di
vincolo).
Nella sentenza, la Consulta si accorge che i
lavori eseguiti su tali categorie di immobili (quella
vincolata per legge perché adiacenti corsi d’acqua; quella
vincolata da specifico provvedimento ministeriale) hanno
sanzioni penali diverse: sanzioni più gravi se il vincolo è
quello imposto per categorie (distanza dal mare, dai fiumi,
zone montane ecc.) rispetto alle sanzioni imposte su beni
singolarmente vincolati. Questa disparità di trattamento non
è ritenuta giustificata dalla Corte, che quindi allinea le
sanzioni a quelle per singoli beni vincolati.
La conseguenza è che i reati si allineano e diventano tutti
contravvenzionali, con termini di prescrizione inferiori (4
anni) rispetto alla qualificazione come «delitti»
(prescritti in 6 anni), applicabile in in precedenza per i
lavori su beni paesaggistici. Inoltre, tutti gli interventi
si estinguono se vi è una riduzione in pristino da parte del
trasgressore prima che venga disposta la demolizione da
parte dell’autorità amministrativa e comunque prima che
intervenga la condanna.
Diventa di applicazione generale
anche la possibilità di “accertamento di compatibilità
paesaggistica”, che fino ad oggi non era possibile per le
zone oggetto di vincolo imposto per legge. L’unificazione
delle sanzioni genererà anche procedimenti penali più
omogenei, senza distinzione a seconda del tipo di vincolo
violato (articolo Il Sole 24 Ore del 24.03.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Beni tutelati, pena soft.
Niente reclusione per i lavori non autorizzati.
Consulta: normativa irragionevole. Il reato diventa
contravvenzione.
Niente più reclusione da uno a quattro anni per chi senza
autorizzazione esegua lavori su immobili o aree dichiarati
di notevole interesse pubblico con provvedimento ad hoc o
tutelati per legge.
Queste fattispecie delittuose, previste
dal Codice dei beni culturali e del paesaggio (art. 181,
comma 1-bis, lettere a) e b) del dlgs 42/2004), vengono
cancellate e assorbite nella generica condotta di chi, senza
autorizzazione o in difformità di essa, esegue lavori di
qualsiasi genere su beni paesaggistici.
Una condotta,
quest'ultima, prevista dal comma 1 dell'art. 181 e di natura contravvenzionale, quindi punita con l'arresto fino a due
anni e l'ammenda da 30.986 a 103.290 euro. La reclusione
resta prevista solo per l'ipotesi in cui i lavori realizzino
opere di notevole impatto volumetrico (aumento di volumetria
superiore al 30%, ampliamento superiore a 750 metri cubi o
nuova costruzione con volumetria superiore ai 1.000 metri
cubi).
Con la
sentenza
23.03.2016 n. 56 la Corte costituzionale ha riscritto
completamente la disciplina dei reati incidenti su beni
paesaggistici, dando ragione al Tribunale di Verona che
aveva sollevato la questione di legittimità dell'art. 181,
comma 1-bis, lettera a) del dlgs 42/2004 per violazione
degli artt. 3 e 27 della Carta.
Il giudice rimettente ha
chiamato in causa la Consulta ritenendo la norme censurata
(comma 1-bis) viziata da irragionevolezza, visto che puniva
la condotta di chi realizza senza autorizzazione lavori su
immobili o aree, dichiarati di interesse pubblico con
provvedimento, in modo più severo (reclusione fino a quattro
anni) rispetto alla generica condotta (comma 1) di chi senza
autorizzazione o in difformità di essa, esegue lavori di
qualsiasi genere su beni paesaggistici che invece
costituisce una semplice contravvenzione.
Le condotte
incidenti su beni vincolati per effetto di un provvedimento,
osservava il Tribunale di Verona, erano configurate come
delitto e per di più non godevano delle ipotesi di non
punibilità o estinzione, previste invece per gli autori dei
reati di cui al comma 1 nell'ipotesi di accertamento di
compatibilità paesaggistica o di rimessione in pristino da
parte del trasgressore prima della decisione dell'autorità
amministrativa e comunque prima della condanna. Così
delineata, dunque, la condotta di cui al comma 1-bis avrebbe
violato l'art. 27 Cost. «rendendo la pena ingiusta e quindi
priva della sua finalità rieducativa».
Nella sentenza redatta dal giudice Giancarlo Coraggio, la
Corte ha dovuto riconoscere i vizi della normativa, definita
«ondivaga e non giustificata né da sopravvenienze fattuali
né dal mutare degli indirizzi culturali di fondo». E già
questo, ammette la Consulta, «è sintomo di irragionevolezza
della disciplina». Una irragionevolezza che si manifesta
nella «rilevantissima disparità tanto nella configurazione
dei reati (nel primo caso delitto, nel secondo
contravvenzione) quanto nel trattamento sanzionatorio, in
relazione sia alla entità della pena che alla disciplina
delle cause di non punibilità ed estinzione del reato».
Per questo la Corte ha deciso di ricondurre le condotte
incidenti su «beni provvedimentali» alla fattispecie del
comma 1, salvo che, «al pari delle condotte incidenti sui
beni tutelati per legge, si concretizzino nella
realizzazione di lavori che comportino il superamento di
soglie volumetriche».
Tribunale di Orvieto. Con una sentenza anch'essa redatta dal
giudice Giancarlo Coraggio (n. 59/2016) la Consulta ha
dichiarato in parte inammissibile e in parte non fondata la
questione di legittimità costituzionale relativa alla
soppressione del Tribunale ordinario di Orvieto
(articolo ItaliaOggi del 24.03.2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
Lavori su beni paesaggistici, la Corte costituzionale
parifica le sanzioni.
E' illegittimo l’art. 181, comma 1-bis
del Codice dei beni culturali e del paesaggio nella parte in
cui differenzia le sanzioni a seconda che le condotte
incidano su beni sottoposti a vincoli puntuali o invece su
beni vincolati per legge.
Con la
sentenza 23.04.2016 n. 56, la Corte
Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale
dell’art. 181, comma 1-bis, del Codice dei beni culturali e
del paesaggio (decreto legislativo 22.01.2004, n. 42), nella
parte in cui prevede «: a) ricadano su immobili od aree
che, per le loro caratteristiche paesaggistiche siano stati
dichiarati di notevole interesse pubblico con apposito
provvedimento emanato in epoca antecedente alla
realizzazione dei lavori; b) ricadano su immobili od aree
tutelati per legge ai sensi dell’articolo 142 ed».
Secondo la Consulta è fondata la questione di legittimità
costituzionale sollevata dal Tribunale ordinario di Verona
in merito all'art. 181, comma 1-bis, lettera a), del decreto
legislativo 22.01.2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e
del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge
06.07.2002, n. 137), nella parte in cui, anche quando non
risultino superati i limiti quantitativi previsti dalla
successiva lettera b), punisce con la sanzione della
reclusione da uno a quattro anni, anziché con le pene più
lievi previste dal precedente comma 1 −che rinvia all’art.
44, comma 1, lettera c), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380
(Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari
in materia edilizia – Testo A)– colui che, senza la
prescritta autorizzazione o in difformità di essa, esegua
lavori di qualsiasi genere su immobili o aree che, per le
loro caratteristiche paesaggistiche, siano stati dichiarati
di notevole interesse pubblico con apposito provvedimento
emanato in epoca antecedente alla realizzazione dei lavori.
LEGISLAZIONE ONDIVAGA.
La Corte costituzionale ricorda che con le modifiche
apportate all’art. 181 del codice dalla legge 15.12.2004, n.
308 (Delega al Governo per il riordino, il coordinamento e
l’integrazione della legislazione in materia ambientale e
misure di diretta applicazione) il legislatore è tornato a
distinguere le fattispecie: “non solo ha invertito la
risposta sanzionatoria, punendo più gravemente le condotte
incidenti su beni sottoposti a vincoli puntuali rispetto a
quelle incidenti su beni vincolati per legge, ma ha anche
delineato un complessivo trattamento sanzionatorio delle
prime di gran lunga più severo rispetto a quello riservato
alle seconde”.
Infatti “i lavori eseguiti sui beni vincolati in via
provvedimentale senza la prescritta autorizzazione o in
difformità da essa integrano sempre un delitto e sono puniti
con la reclusione da uno a quattro anni; mentre i lavori
eseguiti sui beni vincolati per legge integrano una
contravvenzione e sono puniti con l’arresto fino a due anni
e l’ammenda da 30.986,00 a 103.290,00 euro, a meno che non
costituiscano, ai sensi dell’art. 181, comma 1-bis, lettera
b), opere di notevole impatto volumetrico, nel qual caso
sono puniti alla stessa stregua dei primi. Solo per i reati
commessi su beni sottoposti a vincolo legale, poi, operano,
alle condizioni specificamente previste, le cause di non
punibilità e di estinzione del reato rispettivamente
introdotte dai commi 1-ter e 1-quinquies”.
Secondo la Consulta “si è dunque in presenza di una
legislazione ondivaga, non giustificata né da sopravvenienze
fattuali né dal mutare degli indirizzi culturali di fondo
della normativa in materia; e già questo è sintomo di
irragionevolezza della disciplina attuale”.
Questa irragionevolezza “è resa poi manifesta dalla
rilevantissima disparità tanto nella configurazione dei
reati (nell’un caso delitto, nell’altro contravvenzione),
quanto nel trattamento sanzionatorio, in relazione sia alla
entità della pena che alla disciplina delle cause di non
punibilità ed estinzione del reato”.
PARIFICAZIONE DELLA RISPOSTA SANZIONATORIA.
Pertanto “dalla fondatezza della questione consegue la
parificazione della risposta sanzionatoria (secondo
l’assetto già sperimentato dal legislatore al momento della
codificazione), con la riconduzione delle condotte incidenti
sui beni provvedimentali alla fattispecie incriminatrice di
cui al comma 1, salvo che, al pari delle condotte incidenti
sui beni tutelati per legge, si concretizzino nella
realizzazione di lavori che comportino il superamento delle
soglie volumetriche indicate al comma 1-bis”.
Questo risultato “si ottiene mediante l’eliminazione
dell’inciso dell’art. 181, comma 1-bis, che va dai «:», che
seguono le parole «di cui al comma 1», e precedono la
lettera a), alla congiunzione «ed» di cui alla lettera b)”.
Quindi, per la Corte costituzionale l’art. 181, comma 1-bis
deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo nella
parte in cui prevede «: a) ricadano su immobili od aree
che, per le loro caratteristiche paesaggistiche siano stati
dichiarati di notevole interesse pubblico con apposito
provvedimento emanato in epoca antecedente alla
realizzazione dei lavori; b) ricadano su immobili od aree
tutelati per legge ai sensi dell’articolo 142 ed».
“Restano assorbiti gli altri profili di censura e la
questione proposta in via subordinata. Quest’ultima, in
particolare, risulta superata a seguito dell’intervento
sull’art. 181, comma 1-bis. Da esso consegue che le condotte
incidenti sui beni paesaggistici individuati in via
provvedimentale, consistenti nella realizzazione di lavori
che non comportino il superamento delle soglie volumetriche
ivi indicate, e ora regolate dal comma 1 dell’art. 181,
possono beneficiare degli istituti della non punibilità per
accertamento postumo della compatibilità paesaggistica e
della estinzione del reato per ravvedimento operoso,
rispettivamente previsti dall’art. 181, comma 1-ter, e comma
1-quinquies, che richiamano appunto il comma 1 per definire
il loro ambito di applicazione” (commento tratto da e
link a www.casaeclima.com).
---------------
MASSIMA
Dichiarata l’illegittimità
costituzionale dell’art. 181, comma 1-bis, del decreto
legislativo 22.01.2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e
del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge
06.07.2002, n. 137), nella parte in cui prevede «: a)
ricadano su immobili od aree che, per le loro
caratteristiche paesaggistiche siano stati dichiarati di
notevole interesse pubblico con apposito provvedimento
emanato in epoca antecedente alla realizzazione dei lavori;
b) ricadano su immobili od aree tutelati per legge ai sensi
dell’articolo 142 ed».
---------------
1.− Con ordinanza depositata il 06.08.2014, il Tribunale
ordinario di Verona ha sollevato, in riferimento agli artt.
3 e 27 della Costituzione, questione di legittimità
costituzionale dell’art. 181, comma 1-bis, lettera a), del
decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 (Codice dei beni
culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della
legge 06.07.2002, n. 137), nella parte in cui, anche
quando non risultino superati i limiti quantitativi previsti
dalla successiva lettera b), punisce con la sanzione della
reclusione da uno a quattro anni, anziché con le pene più
lievi previste dal precedente comma 1 −che rinvia all’art.
44, comma 1, lettera c), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380
(Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari
in materia edilizia – Testo A)– colui che, senza la
prescritta autorizzazione o in difformità di essa, esegua
lavori di qualsiasi genere su immobili o aree che, per le
loro caratteristiche paesaggistiche, siano stati dichiarati
di notevole interesse pubblico con apposito provvedimento
emanato in epoca antecedente alla realizzazione dei lavori.
La disposizione censurata, secondo il giudice a quo,
violerebbe l’art. 3 Cost., per l’irragionevolezza del
«deteriore» trattamento sanzionatorio riservato all’autore
del reato da essa previsto, sia rispetto alle condotte
identiche poste in essere su beni paesaggistici sottoposti a
vincolo legale previste dal comma 1, sia rispetto alla
fattispecie disciplinata dalla lettera b) della medesima
disposizione, riguardante condotte poste in essere sugli
stessi beni paesaggistici di significativo impatto
ambientale, sia, infine, rispetto all’art. 734 del codice
penale.
Ed infatti, ai sensi del comma 1 dell’art. 181 del d.lgs. n.
42 del 2004 (d’ora in avanti «codice dei beni culturali e
del paesaggio» o «codice»), le condotte incidenti su beni
paesaggistici vincolati ex lege integrano, qualora non
superino i limiti quantitativi previsti dal successivo comma
1-bis, reati contravvenzionali; gli autori non sono punibili
ai sensi del comma 1-ter, qualora sopravvenga l’accertamento
di compatibilità paesaggistica dell’autorità preposta; e, ai
sensi del successivo comma 1-quinquies, i reati si
estinguono in ipotesi di rimessione in pristino da parte del
trasgressore prima che venga disposta d’ufficio
dall’autorità amministrativa e comunque prima che intervenga
la condanna. Ai sensi dell’art. 181, comma 1-bis, lettera
a), invece, le condotte incidenti su beni vincolati in via
provvedimentale integrano un delitto e non godono delle
predette ipotesi di non punibilità o estinzione.
L’irragionevole trattamento sanzionatorio apprestato dalla
disposizione censurata violerebbe anche l’art. 27 Cost.,
rendendo la pena ingiusta e quindi priva della sua finalità
rieducativa.
La lesione dei menzionati parametri deriverebbe anche dal
trattamento omogeneo che ricevono le due differenti
fattispecie disciplinate dall’art. 181, comma 1-bis. Le
opere menzionate nella lettera b), incidenti su beni
vincolati ex lege, sarebbero, difatti, di straordinario
impatto ambientale ma equiparate, quanto a regime
sanzionatorio, alle ben più lievi ipotesi disciplinate dalla
lettera a), incidenti su beni sottoposti a vincolo
provvedimentale.
Infine, la violazione degli artt. 3 e 27 Cost. sarebbe
evidente ove si ponga a raffronto l’art. 181, comma 1-bis,
lettera a), del codice con l’art. 734 cod. pen., che commina
l’ammenda fino a 6.197,00 euro a colui che distrugge o
altera le bellezze naturali soggette a speciale protezione
dell’autorità.
2.– In via subordinata, il giudice rimettente ha sollevato,
in riferimento agli artt. 3 e 27 Cost., questione di
legittimità costituzionale dell’art. 181, commi 1-ter,
1-quater e 1-quinquies, del codice dei beni culturali e del
paesaggio, nella parte in cui esclude dal proprio ambito
applicativo le condotte previste dall’art. 181, comma 1-bis,
lettera a). Sarebbe, difatti, parimenti irragionevole
escludere le cause di non punibilità e di estinzione del
reato là dove si tratti di condotte identiche, quali quelle
previste dai commi 1 e 1-bis del medesimo articolo.
3.– La questione sollevata in via principale è fondata.
4.− È noto che la discrezionalità di cui gode il legislatore
nel delineare il sistema sanzionatorio penale trova il
limite della manifesta irragionevolezza e dell’arbitrio,
come avviene a fronte di sperequazioni tra fattispecie
omogenee non sorrette da alcuna ragionevole giustificazione
(sentenze n. 81 del 2014, n. 68 del 2012, n. 161 del 2009,
n. 324 del 2008 e n. 394 del 2006).
4.1.– Facendo applicazione di tali principi nella materia in
esame, questa Corte ha dichiarato non fondata la questione
di legittimità costituzionale dell’art. 1-sexies del
decreto-legge 27.06.1985, n. 312 (Disposizioni urgenti
per la tutela delle zone di particolare interesse
ambientale), introdotto dall’art. 1 della legge di
conversione 08.08.1985, n. 431, che dettava una
disciplina inversa a quella odierna, perché puniva più
severamente le violazioni incidenti sui beni sottoposti a
vincolo legale.
In quell’occasione la Corte ha affermato che «la ratio della
introduzione di vincoli paesaggistici generalizzati (in base
a tipologie di beni) risiede nella valutazione che
l’integrità ambientale è un bene unitario, che può risultare
compromesso anche da interventi minori e che va, pertanto,
salvaguardato nella sua interezza (sentenze n. 247 del 1997,
n. 67 del 1992 e n. 151 del 1986; ordinanze n. 68 del 1998 e
n. 431 del 1991)» e che la severità del relativo trattamento
sanzionatorio «trova giustificazione nella entità sociale
dei beni protetti e nel ricordato carattere generale,
immediato ed interinale, della tutela che la legge ha inteso
apprestare di fronte alla urgente necessità di reprimere
comportamenti tali che possono produrre danni gravi e
talvolta irreparabili all’integrità ambientale (sentenze n.
269 e n. 122 del 1993; ordinanza n. 68 del 1998)» (ordinanza
n. 158 del 1998).
La più rigorosa risposta sanzionatoria nei confronti dei
reati incidenti su beni paesaggistici vincolati per legge è
stata quindi ritenuta non irragionevolmente discriminatoria
per il fatto che introduce «una tutela del paesaggio (per
vaste porzioni del territorio individuate secondo tipologie
paesistiche, ubicazioni o morfologiche), improntata a
integrità e globalità, implicante una riconsiderazione
assidua dell’intero territorio nazionale alla luce e in
attuazione del valore estetico-culturale (v., da ultimo,
ordinanze n. 68 del 1998 e n. 431 del 1991)» (ordinanza n.
158 del 1998).
4.2.– Tale assetto ha subito una modifica in occasione della
“codificazione” della materia paesaggistica, prima con
l’art. 163 del decreto legislativo 29.10.1999, n. 490
(Testo unico delle disposizioni legislative in materia di
beni culturali e ambientali, a norma dell’articolo 1 della
L. 08.10.1997, n. 352) e poi con l’originario art. 181
del codice dei beni culturali e del paesaggio.
Con tali norme il legislatore, innalzando il grado di tutela
dei beni vincolati in via provvedimentale allo stesso
livello di quelli tutelati per legge, ha optato per
l’identità di risposta sanzionatoria, evidentemente sul
presupposto di una ritenuta sostanziale identità dei valori
in gioco.
4.3.– Con le modifiche apportate all’art. 181 del codice
dalla legge 15.12.2004, n. 308 (Delega al Governo per
il riordino, il coordinamento e l’integrazione della
legislazione in materia ambientale e misure di diretta
applicazione) il legislatore è tuttavia tornato a
distinguere le fattispecie.
Nel fare ciò, non solo ha invertito la risposta
sanzionatoria, punendo più gravemente le condotte incidenti
su beni sottoposti a vincoli puntuali rispetto a quelle
incidenti su beni vincolati per legge, ma ha anche delineato
un complessivo trattamento sanzionatorio delle prime di gran
lunga più severo rispetto a quello riservato alle seconde.
Ed infatti, i lavori eseguiti sui beni vincolati in via
provvedimentale senza la prescritta autorizzazione o in
difformità da essa integrano sempre un delitto e sono puniti
con la reclusione da uno a quattro anni; mentre i lavori
eseguiti sui beni vincolati per legge integrano una
contravvenzione e sono puniti con l’arresto fino a due anni
e l’ammenda da 30.986,00 a 103.290,00 euro, a meno che non
costituiscano, ai sensi dell’art. 181, comma 1-bis, lettera
b), opere di notevole impatto volumetrico, nel qual caso
sono puniti alla stessa stregua dei primi. Solo per i reati
commessi su beni sottoposti a vincolo legale, poi, operano,
alle condizioni specificamente previste, le cause di non
punibilità e di estinzione del reato rispettivamente
introdotte dai commi 1-ter e 1-quinquies.
5.− Si è dunque in presenza di una legislazione ondivaga,
non giustificata né da sopravvenienze fattuali né dal mutare
degli indirizzi culturali di fondo della normativa in
materia; e già questo è sintomo di irragionevolezza della
disciplina attuale.
Tale irragionevolezza è resa poi manifesta dalla
rilevantissima disparità tanto nella configurazione dei
reati (nell’un caso delitto, nell’altro contravvenzione),
quanto nel trattamento sanzionatorio, in relazione sia alla
entità della pena che alla disciplina delle cause di non
punibilità ed estinzione del reato.
6.− Dalla fondatezza della questione consegue la
parificazione della risposta sanzionatoria (secondo
l’assetto già sperimentato dal legislatore al momento della
codificazione), con la riconduzione delle condotte incidenti
sui beni provvedimentali alla fattispecie incriminatrice di
cui al comma 1, salvo che, al pari delle condotte incidenti
sui beni tutelati per legge, si concretizzino nella
realizzazione di lavori che comportino il superamento delle
soglie volumetriche indicate al comma 1-bis.
Tale risultato si ottiene mediante l’eliminazione
dell’inciso dell’art. 181, comma 1-bis, che va dai «:», che
seguono le parole «di cui al comma 1», e precedono la
lettera a), alla congiunzione «ed» di cui alla lettera b).
6.1.– L’art. 181, comma 1-bis, deve pertanto essere
dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui
prevede «: a) ricadano su immobili od aree che, per le loro
caratteristiche paesaggistiche siano stati dichiarati di
notevole interesse pubblico con apposito provvedimento
emanato in epoca antecedente alla realizzazione dei lavori;
b) ricadano su immobili od aree tutelati per legge ai sensi
dell’articolo 142 ed».
7.– Restano assorbiti gli altri profili di censura e la
questione proposta in via subordinata.
Quest’ultima, in particolare, risulta superata a seguito
dell’intervento sull’art. 181, comma 1-bis. Da esso consegue
che le condotte incidenti sui beni paesaggistici individuati
in via provvedimentale, consistenti nella realizzazione di
lavori che non comportino il superamento delle soglie
volumetriche ivi indicate, e ora regolate dal comma 1
dell’art. 181, possono beneficiare degli istituti della non
punibilità per accertamento postumo della compatibilità
paesaggistica e della estinzione del reato per ravvedimento
operoso, rispettivamente previsti dall’art. 181, comma
1-ter, e comma 1-quinquies, che richiamano appunto il comma
1 per definire il loro ambito di applicazione.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 181, comma
1-bis, del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 (Codice dei
beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10
della legge 06.07.2002, n. 137), nella parte in cui prevede
«: a) ricadano su immobili od aree che,
per le loro caratteristiche paesaggistiche siano stati
dichiarati di notevole interesse pubblico con apposito
provvedimento emanato in epoca antecedente alla
realizzazione dei lavori; b) ricadano su immobili od aree
tutelati per legge ai sensi dell’articolo 142 ed»
(Corte Costituzionale,
sentenza
23.03.2016 n. 56). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Entrambe le
adottate ordinanze sindacali contingibili ed urgenti sono
illegittime poiché sono sfornite di elementi
istruttori e di motivazione in grado di rappresentare
un’effettiva situazione di grave pericolo che minaccia
l’incolumità dei cittadini (art. 54, comma 2, d.lgs. n. 267
del 2000), solo in ragione della quale si giustifica
l’eccezionale deroga al principio di tipicità degli atti
amministrativi e alla disciplina vigente attuata mediante
l’utilizzazione di provvedimenti extra ordinem (sulla
necessità che il presupposto delle ordinanze contingibili e
urgenti -mezzo per far fronte a situazioni di carattere
eccezionale e impreviste costituenti minaccia per la
pubblica incolumità e per le quali sia impossibile
utilizzare gli ordinari mezzi approntati dall’ordinamento-
sia suffragato da istruttoria e motivazione adeguate la
giurisprudenza di questo Consiglio di Stato è costante).
---------------
1. Con il primo motivo d’appello, il Comune di Roccantica
censura la sentenza di primo grado per travisamento dei
fatti e per essere sconfinata nel merito amministrativo,
contestando in particolare che la strada di via Ciliciano
sia interpoderale e che il traffico veicolare su di essa sia
modesto, come invece ritenuto dal Tribunale amministrativo,
e le conclusioni conseguentemente tratte circa la situazione
di pericolo ravvisata dai provvedimenti impugnati.
Con il secondo motivo l’amministrazione appellante rileva
che a fronte dell’oggettiva pericolosità di tale situazione,
la violazione delle garanzie procedimentali dedotta
dall’avvocato Li. degrada a irregolarità non invalidante
ex art. 21-octies l. 07.08.1990, n. 241. Inoltre, il
Comune evidenzia che la questione delle condizioni
fitosanitarie, sollevata da controparte, è irrilevante a
fronte della pericolosità delle piante, derivanti dalla loro
inclinazione verso la sede stradale.
Con il terzo ed ultimo motivo l’appellante osserva che il
mancato richiamo all’art. 54 d.lgs. n. 267 del 2000 nella
seconda ordinanza non invalida il provvedimento, essendo
chiari i presupposti di pericolosità sulla cui base è stato
emanato. Inoltre, il motivo sottolinea che l’ordinanza
dispone anche la potatura di alcuni alberi ed è dunque
riconducibile al paradigma astratto di cui al citato art. 29
Cod. strada, espressamente richiamato nell’atto.
2. Nessuna di queste censure è fondata e l’appello deve
quindi essere respinto.
Entrambe le ordinanze impugnate sono sfornite di elementi
istruttori e di motivazione in grado di rappresentare
un’effettiva situazione di grave pericolo che minaccia
l’incolumità dei cittadini (art. 54, comma 2, d.lgs. n. 267
del 2000), solo in ragione della quale si giustifica
l’eccezionale deroga al principio di tipicità degli atti
amministrativi e alla disciplina vigente attuata mediante
l’utilizzazione di provvedimenti extra ordinem (sulla
necessità che il presupposto delle ordinanze contingibili e
urgenti -mezzo per far fronte a situazioni di carattere
eccezionale e impreviste costituenti minaccia per la
pubblica incolumità e per le quali sia impossibile
utilizzare gli ordinari mezzi approntati dall’ordinamento-
sia suffragato da istruttoria e motivazione adeguate la
giurisprudenza di questo Consiglio di Stato è costante; da
ultimo: Cons. Stato, III, 29.05.2015, n. 2697; V, 23.09.2015, n. 4466,
02.03.2015, n. 988, 25.05.2012, n. 3077, 20.02.2012, n. 904; VI,
05.09.2005, n. 4525).
Né emerge in alcun modo perché una siffatta
situazione, evidentemente non generatasi improvvisamente,
non possa essere, sempre che ne sussistano i presupposti,
affrontata con i mezzi ordinari.
La violazione delle garanzie partecipative –qui di
particolare pregnanza, atteso il valore sia ornamentale che
economico delle storiche querce e comunque il costo
immaginabile della rimozione delle piante e
dell’estirpazione dei ceppi– è vizio conseguente.
3. In particolare, entrambi i provvedimenti si fondano su
relazioni di servizio (rispettivamente nn. 1648 e 2986 del
17 giugno e 19.11.2010) in cui viene riportata la
presenza di piante, in prevalenza querce secolari, site
sulla scarpata a monte della strada, asserite comportare una
situazione di pericolo per l’incolumità pubblica a causa del
fatto che sono «inclinate verso la carreggiata stradale» e
tali da impedire «anche la visibilità, essendo poste in
curva» e, nella seconda relazione, anche il passaggio degli
autoveicoli con i loro rami «posti ad altezza inferiore ai
limiti dettati dal codice della strada».
A supporto di queste asserite, eccezionali ed urgenti e non
altrimenti fronteggiabili circostanze, non vi sono –e
soltanto nella seconda relazione- altro che fotografie
relative alla singola pianta, scattate ad una distanza
talmente ravvicinata da impedire di verificare se
effettivamente queste costituiscano un ostacolo alla
visibilità o al transito viario. Quindi, entrambe le
ordinanze, emesse nello stesso giorno della rispettiva
relazione, recepiscono pedissequamente queste ultime.
4. A fronte di tali evidenti carenze nella rappresentazione
dei presupposti necessari per l’esercizio del potere il
Tribunale amministrativo ha accolto l’impugnativa dell’avv.
Li. con motivazione condivisibile, puntuale e ben
argomentata, in grado di resistere alle censure sollevate
dal Comune di Roccantica con il presente appello.
In primo luogo, quest’ultimo adduce in contrario (I motivo
d’appello) elementi di prova non citati nelle ordinanze
impugnate, e cioè la relazione del vicino Comune di Poggio
Catino del 10.09.2010, addirittura successivi alla
sentenza appellata, come la relazione dei carabinieri di Casperia del
09.11.2011. Con ciò l’amministrazione
tenta in modo inammissibile di integrare davanti al giudice
la motivazione dei propri provvedimenti e viola al contempo
il divieto di ius novorum sancito dall’art. 104, comma 2,
Cod. proc. amm..
Inoltre, nell’accogliere le censure dedotte dall’avv. Li.,
il giudice di primo grado non ha operato alcuno
sconfinamento in valutazioni discrezionali, ma bene ha
riscontrato vizi evidenti quali la violazione delle garanzie
partecipative, la carenza di presupposti, l’insufficiente
istruttoria e lo sviamento di potere, del tutto sindacabili
nell’ambito della giurisdizione generale di legittimità del
giudice amministrativo.
5. L’indimostrata sussistenza dei presupposti per emettere
le ordinanze contingibili oggetto del presente giudizio, non
supplita dalle prove offerte dal Comune di Roccantica di cui
al motivo sopra esaminato, impedisce di invocare
fondatamente la “sanatoria processuale” prevista dall’art.
21-octies, comma 2, l. n. 241 del 1990 (II motivo
d’appello).
A questo specifico riguardo, occorre soggiungere che le
censure con cui l’originario ricorrente aveva lamentato di
non avere potuto esercitare le ricordate garanzie
partecipative procedimentali assumono rilievo sostanziale,
alla luce dell’assenza di elementi istruttori a base dei
provvedimenti impugnati in grado di rappresentare in modo
adeguato una effettiva situazione di pericolo per la
pubblica incolumità.
6. Alla luce di tale fondamentale carenza è quindi vano
invocare il principio secondo cui l’errata indicazione delle
norme fondanti l’esercizio del potere non comporta
invalidità dell’atto amministrativo quando i relativi
presupposti sono chiaramente espressi nella motivazione
dello stesso (III motivo d’appello).
Infatti, alla luce di
quanto sinora rilevato, difetta proprio il presupposto che
avrebbe legittimato il sindaco del Comune di Roccantica ad
avvalersi degli eccezionali poteri di ordinanza ex art. 54.
7. Da ultimo, nemmeno può sostenersi che la seconda
ordinanza sarebbe comunque riconducibile al potere di cui
all’art. 29 Cod. strada, in essa richiamato.
La disposizione prevede pone a carico dei proprietari
confinanti con la strada il dovere di manutenzione delle
piante ed in particolare di potatura dei rami «che si
protendono oltre il confine stradale e che nascondono la
segnaletica o che ne compromettono comunque la leggibilità
dalla distanza e dalla angolazione necessarie».
Ma come per
il pericolo per l’incolumità pubblica, ed in disparte i
sintomi di sviamento evincibili dal promiscuo ed apodittico
richiamo a quest’ultima dedotti in primo grado dall’avv. Li., neanche a dimostrazione di questo presupposto sono
forniti nell’ordinanza e negli atti presupposti elementi
istruttori adeguati (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 22.03.2016 n. 1189 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Moralità, oneri legittimi?
Quesito del Cds alla corte di giustizia ue.
A rischio di legittimità comunitaria le norme del codice dei
contratti pubblici che impongo oneri per gli ex
amministratori di imprese concorrenti ai fini della verifica
della moralità professionali.
Potrebbe essere questo l'esito
della pronuncia Ue richiesta dal Consiglio di Stato, Sez. VI, con l'ordinanza 21.03.2016 n. 1160.
La Corte di giustizia dovrà quindi esaminare la questione
pregiudiziale di compatibilità comunitaria in merito alla
disciplina dell'art. 38 del dlgs 12.04.2006, n. 163
sulla cosiddetta moralità professionale degli ex
amministratori di imprese concorrenti.
In particolare, i giudici hanno chiesto alla Corte europea
di chiarire in primo luogo se contrasti con la vigente
direttiva 2004/18/Ce la norma che estende il contenuto
dell'obbligo dichiarativo sull'assenza di sentenze
definitive di condanna (comprese le sentenze di applicazione
della pena su richiesta delle pari), per i reati che
incidono sulla moralità professionale, ai soggetti titolari
di cariche nell'ambito delle imprese concorrenti, cessati
dalla carica nell'anno antecedente la pubblicazione del
bando, configurando anche una correlativa causa di
esclusione dalla gara, qualora l'impresa non dimostri che vi
sia stata completa ed effettiva dissociazione dalla condotta
penalmente sanzionata di tali soggetti.
Per i giudici italiani va chiarito se sia corretto rimettere
alla discrezionalità della stazione appaltante la
valutazione sull'integrazione della condotta dissociativa
che consente alla stazione appaltante di introdurre, su un
piano effettuale, a pena di esclusione dalla gara oneri
informativi e dichiarativi relativi a vicende penali non
ancora definite con sentenza irrevocabile (e, quindi, per
definizione di esito incerto), non previsti dalla legge
neppure in ordine ai soggetti in carica; oneri di
dissociazione spontanea, indeterminati quanto alla tipologia
delle condotte scriminanti, al relativo riferimento
temporale (anche anticipato rispetto al momento di
irrevocabilità della sentenza penale) e alla fase della
procedura in cui devono essere assolti; e infine oneri di
leale collaborazione dal contorno indefinito, se non con
richiamo alla clausola generale della buona fede»
(articolo ItaliaOggi del 25.03.2016).
---------------
MASSIMA
7. Nel merito, ritiene il Collegio che nella presente
controversia assuma carattere pregiudiziale la questione
della compatibilità con il diritto euro-unitario della
previsione dell’art. 38, comma 1, lett. c), d.lgs.
12.04.2006, n. 163, come modificato dall’art. 4, comma 2,
lett. b), d.l. 13.05.2011, convertito nella legge 12.07.2011, n. 106, applicabile
ratione temporis alla fattispecie
sub iudice (v. sopra sub § 1.3.), nella parte in cui estende
ai soggetti cessati dalle cariche sociali ivi specificate
nell’anno antecedente la pubblicazione del bando di gara la
causa di esclusione costituita dalla pronuncia di sentenza
di condanna passata in giudicato, di decreto penale di
condanna divenuto irrevocabile, oppure di sentenza di
applicazione della pena su richiesta ai sensi dell’art. 444
Cod. proc. pen., per i reati contemplati nella citata
disposizione legislativa, «qualora l’impresa non dimostri
che vi sia stata completa ed effettiva dissociazione della
condotta penalmente sanzionata» (così, testualmente, la
citata disposizione).
Come già esposto sopra sub § 1.4., nella specie viene in
rilievo la posizione dell’ing. B. in seno alla Mantovani, il
quale vi aveva rivestito la carica di amministratore
delegato munito di rappresentanza legale fino al 06.03.2013 –dunque entro l’anno antecedente la pubblicazione del
bando, avvenuta il 15.07.2013–, data delle sue
dimissioni ‘forzate’ in seguito a misure cautelari
restrittive della libertà personale cui lo stesso è stato
assoggettato pochi giorni prima per i reati che hanno
condotto alla pronuncia della sentenza di applicazione della
pena su richiesta delle parti.
Tale sentenza, pronunciata dal Giudice per le indagini
preliminari presso il Tribunale di Venezia il 05.12.2013 in camera di consiglio (e, dunque, non in udienza
pubblica dibattimentale), è stata pubblicata completa di
motivazione in data 03.02.2014 e divenuta irrevocabile
il 29.03.2014, quindi successivamente alle dichiarazioni
sull’assenza di cause ostative ex art. 38, comma 1, lett.
c), d.lgs. n. 163 del 2006, rese dal legale rappresentante
della Mantovani il 4 ed il 16.12.2013, con conseguente inconfigurabilità della causa escludente della falsità delle
dichiarazioni rese in sede di gara, sorgendo l’obbligo
dichiarativo solo con l’irrevocabilità delle sentenze penali
contemplate dalla citata disposizioni normativa (infatti,
anche l’art. 45 della Direttiva 2004/18/CE richiede la
definitività della sentenza penale).
Sebbene la pendenza del procedimento penale fosse di
pubblico dominio ancora prima della pubblicazione e del
passaggio in giudicato della sentenza penale nei confronti
dell’ex-amministratore –tant’è che l’autorità di gara, sin
dalla seduta del 09.01.2014, ha ammesso l’a.t.i.
Mantovani con riserva alle ulteriori fasi di gara (v. sopra
sub § 1.5.), in funzione del chiarimento della posizione
dell’ex-amministratore–, e sebbene la stazione appaltante,
nell’esercizio dei poteri istruttori, avesse acquisito il
certificato del casellario giudiziale relativo all’ing. B.
(con richiesta dell’08.05.2014 alla Procura della
Repubblica presso il Tribunale di Bolzano; v. doc. 7 del
fasc. di primo grado), da cui risultava la pronuncia della
sentenza penale a carico di quest’ultimo (e la data in cui
la stessa era divenuta irrevocabile), la stazione
appaltante, a scioglimento della riserva, ha escluso l’a.t.i.
Mantovani dalla gara in ragione dell’insufficiente e tardiva
dimostrazione della dissociazione dalla condotta penalmente
rilevante dell’ex amministratore ing. B., desunta
principalmente dall’elemento indiziario costituito dalla
mancata tempestiva comunicazione alla stazione appaltante
degli eventi penalmente rilevanti concernenti tale soggetto,
qualificata come violazione del dovere di leale
collaborazione con la stazione appaltante (v. p. verbale del
27.02.2015), alla cui luce gli atti indicati dall’a.t.i.
Mantovani come dissociativi nella memoria procedimentale del
10.06.2006 sono stati ritenuti inadeguati e tardivi.
La motivazione della stazione appaltante si muove in
sostanziale aderenza all’interpretazione dell’art. 38, comma
1, lett. c), d.lgs. n. 163 del 2006 nella parte concernente
i soggetti cessati dalla carica nell’anno antecedente la
pubblicazione del bando, fornita dall’Autorità di vigilanza
nel parere del 27.02.2015 (v. sopra sub § 1.10.) in
risposta al secondo quesito formulato dalla stazione
appaltante, nonché in aderenza all’ivi richiamato
orientamento giurisprudenziale.
Orbene, ritiene il Collegio che, ai fini della decisione
della causa, in particolare ai fini della decisione del
motivo d’appello sub § 3.a), sia necessario investire la
Corte di Giustizia dell’Unione Europea della questione
pregiudiziale comunitaria sulla compatibilità con il diritto
dell’Unione Europea di una normativa nazionale, quale quella
dell’art. 38, comma 1, lett. c), d.lgs. n. 163 del 2006,
nella parte in cui estende il contenuto dell’ivi previsto
obbligo dichiarativo sull’assenza di sentenze definitive di
condanna (comprese le sentenze di applicazione della pena su
richiesta delle pari) ai soggetti titolari di cariche
nell’ambito delle imprese concorrenti, cessati dalla carica
nell’anno antecedente la pubblicazione del bando, e
configura una correlativa causa di esclusione dalla gara,
qualora l’impresa non dimostri che vi sia stata completa ed
effettiva dissociazione dalla condotta penalmente
sanzionata, rimettendo alla discrezionalità della stazione
appaltante la valutazione sull’integrazione della condotta
dissociativa, che consente alla stazione appaltante –anche
alla luce del sopra citato parere dell’Autorità di Vigilanza
e dell’ivi richiamata giurisprudenza nazionale– di
introdurre, su un piano effettuale, a pena di esclusione
dalla gara:
(i) oneri informativi e dichiarativi relativi a vicende
penali non ancora definite con sentenza irrevocabile (e,
quindi, per definizione di esito incerto), non previsti
dalla legge neppure in ordine ai soggetti in carica;
(ii) oneri di dissociazione spontanea, indeterminati quanto
alla tipologia delle condotte scriminanti, al relativo
riferimento temporale (anche anticipato rispetto al momento
di irrevocabilità della sentenza penale) e alla fase della
procedura in cui devono essere assolti;
(iii) oneri di leale collaborazione dal contorno indefinito,
se non con richiamo alla clausola generale della buona fede.
Quali parametri del giudizio di compatibilità con il diritto
dell’Unione Europea vengono in rilievo l’art. 45, paragrafi
2, lettere c) e g), e 3, lett. a) della Direttiva 2004/18/CE
del Parlamento europeo e del Consiglio del 31.03.2004 del
31.03.2004 –applicabile ratione temporis alla
fattispecie dedotta in giudizio– ed i principi di diritto
europeo di tutela del legittimo affidamento e di certezza
del diritto, di parità di trattamento, di proporzionalità e
di trasparenza, di divieto di aggravio del procedimento e di
massima apertura alla concorrenza del mercato degli appalti
pubblici, nonché di tassatività e determinatezza delle
fattispecie sanzionatorie.
Non ricorrendo le condizioni di esenzione del giudice di
ultima istanza dall’obbligo di rinvio ai sensi dell’art. 267
del Trattato (cfr. Corte Giust., 06.10.1982, Cilfit,
C-283/81; 15.09.2005, Intermodal Transports, C-495/03), la
Corte di Giustizia deve essere investita delle seguenti
questioni pregiudiziali ex art. 267 T.F.U.E. (in parte
sollecitate dall’odierna appellante sia nell’atto d’appello,
sia nella memoria del 19.11.2015, e in parte formulate
d’ufficio): «Se osti alla corretta
applicazione dell’art. 45, paragrafi 2, lettere c) e g), e
3, lett. a) della Direttiva 2004/18/CE del Parlamento
europeo e del Consiglio del 31.03.2004 e dei principi di
diritto europeo di tutela del legittimo affidamento e di
certezza del diritto, di parità di trattamento, di
proporzionalità e di trasparenza, di divieto di aggravio del
procedimento e di massima apertura alla concorrenza del
mercato degli appalti pubblici, nonché di tassatività e
determinatezza delle fattispecie sanzionatorie, una
normativa nazionale, quale quella dell’art. 38, comma 1,
lett. c), d.lgs. 12.04.2006, n. 163 (Codice dei contratti
pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in
attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE) e
successive modificazioni, nella parte in cui estende il
contenuto dell’ivi previsto obbligo dichiarativo
sull’assenza di sentenze definitive di condanna (comprese le
sentenze di applicazione della pena su richiesta delle
pari), per i reati ivi indicati, ai soggetti titolari di
cariche nell’ambito delle imprese concorrenti, cessati dalla
carica nell’anno antecedente la pubblicazione del bando, e
configura una correlativa causa di esclusione dalla gara,
qualora l’impresa non dimostri che vi sia stata completa ed
effettiva dissociazione dalla condotta penalmente sanzionata
di tali soggetti, rimettendo alla discrezionalità della
stazione appaltante la valutazione sull’integrazione della
condotta dissociativa che consente alla stazione appaltante
di introdurre, su un piano effettuale, a pena di esclusione
dalla gara:
(i) oneri informativi e dichiarativi relativi a vicende penali non
ancora definite con sentenza irrevocabile (e, quindi, per
definizione di esito incerto), non previsti dalla legge
neppure in ordine ai soggetti in carica;
(ii) oneri di dissociazione spontanea, indeterminati quanto alla
tipologia delle condotte scriminanti, al relativo
riferimento temporale (anche anticipato rispetto al momento
di irrevocabilità della sentenza penale) e alla fase della
procedura in cui devono essere assolti;
(iii) oneri di leale collaborazione dal contorno indefinito, se non
con richiamo alla clausola generale della buona fede».
Il Collegio reputa, altresì, opportuno precisare che la
decisione di adire la Corte in via pregiudiziale spetta
unicamente al giudice nazionale, a prescindere dal fatto che
le parti del procedimento principale ne abbiano o meno
formulato l’intenzione, con la conseguente ammissibilità
della formulazione di questioni anche d’ufficio, senza
attenersi ai quesiti proposti dalle parti.
Alla Corte di Giustizia della Unione Europea vanno perciò
sottoposti i quesiti sopra formulati, e il presente giudizio
va per l’effetto sospeso in attesa della relativa decisione. |
ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: E'
legittima l'ordinanza sindacale contingibile ed urgente che
ha ingiunto al condominio di
lasciare libera da cose e persone l’autorimessa di
proprietà, in quanto priva delle necessarie autorizzazioni
contro gli incendi.
Ciò poiché in atti risulta che ormai da molti mesi è in corso un
carteggio tra il comune, il condominio e le autorità
preposte alla sicurezza pubblica proprio relativamente allo
stato dell’autorimessa condominiale; la certificazioni per
gli incendi è scaduta da tempo, e l’amministrazione dello
stabile non ha ottemperato alle ingiunzioni ricevute volte a
conseguire la sanatoria della situazione irregolare in atto.
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E’ impugnata un’ordinanza contingibile e urgente con cui il
sindaco del comune di Sanremo ha ingiunto al condominio di
lasciare libera da cose e persone l’autorimessa di
proprietà, in quanto priva delle necessarie autorizzazioni
contro gli incendi.
In atti risulta che ormai da molti mesi è in corso un
carteggio tra il comune, il condominio e le autorità
preposte alla sicurezza pubblica proprio relativamente allo
stato dell’autorimessa condominiale; la certificazioni per
gli incendi è scaduta da tempo, e l’amministrazione dello
stabile non ha ottemperato alle ingiunzioni ricevute volte a
conseguire la sanatoria della situazione irregolare in atto.
Risulta da ciò che è sussistente la situazione di urgenza
che ha indotto il sindaco a provvedere: nonostante i
reiterati solleciti a non far uso del parcheggio sino al
conseguimento dei titoli mancanti, lo spazio è tuttora
impiegato per la sosta delle vetture, cosa che integra la
situazione di rischio per l’incolumità.
Oltre a ciò va notata l’insussistenza dell’obbligo di
inviare la previa comunicazione di avvio del procedimento,
posto che la ricordata esistenza del risalente carteggio
sulla questione aveva reso edotta l’amministrazione
condominiale circa la possibilità dell’adozione dell’atto di
che si tratta.
Consegue da ciò che era necessario per l’autorità provvedere
con un atto capace di far cessare l’uso improprio dello
spazio condominiale tuttora in corso, sì che anche la
censura di incompetenza del sindaco è infondata e va
disattesa
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 19.03.2016 n. 268 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
Sulla legittimità della gestione in
autoproduzione del servizio di raccolta e trasporto dei
rifiuti solidi urbani da parte degli enti locali, i quali
possano operare anche in assenza di iscrizione all'Albo dei
gestori ambientali.
A seguito dell'entrata in vigore dell'art. 34, c. 20, del
d.l. n. 179/2012, non sussistono più limiti di sorta
all'individuazione da parte degli Enti locali delle concrete
modalità di gestione dei servizi pubblici locali di
rispettivo interesse.
La citata disposizione ha quindi superato il pregresso
orientamento (da ultimo rappresentato dall'art. 23-bis del
d.l.n. 112 del 2008 e, in seguito, dall'art. 4 del d.l. n.
138 del 2011) il quale disciplinava in modo estremamente
puntuale le modalità di gestione ammesse e limitava
oltremodo il ricorso al modello dell'autoproduzione.
Al riguardo si richiama l'orientamento eurounitario secondo
cui "un'autorità pubblica può adempiere ai compiti di
interesse pubblico ad essa incombenti mediante propri
strumenti senza essere obbligata a far ricorso ad entità
esterne non appartenenti ai propri servizi e [può] farlo
altresì in collaborazione con altre autorità pubbliche".
Il medesimo principio è stato ulteriormente ribadito al
considerando 5 della c.d. direttiva settori classici
2014/24/UE secondo cui "è opportuno rammentare che
nessuna disposizione della presente direttiva obbliga gli
Stati membri ad affidare a terzi o a esternalizzare la
prestazione di servizi che desiderano prestare essi stessi o
organizzare con strumenti diversi dagli appalti pubblici ai
sensi della presente direttiva".
Nel medesimo senso depone, inoltre, l'art. 2 della c.d.
direttiva concessioni 2014/23/UE (significativamente
rubricato 'Principio di libera amministrazione delle
autorità pubbliche'), il quale riconosce in modo
espresso la possibilità per le amministrazioni di espletare
i compiti di rispettivo interesse pubblico: i) avvalendosi
delle proprie risorse, ovvero ii) in cooperazione con altre
amministrazioni aggiudicatrici, ovvero -ancora iii) mediante
conferimento ad operatori economici esterni.
Si osservi che la direttiva da ultimo ricordata pone le tre
modalità in questione su un piano di integrale
equiordinazione, senza riconoscere alla modalità sub iii)
valenza -per così dire- paradigmatica e, correlativamente,
senza riconoscere alle modalità sub i) e ii) valenza
eccettuale o sussidiaria.
Del resto, la giurisprudenza ha a propria volta stabilito
che, stante l'abrogazione referendaria dell'art. 23-bis del
d.l. n. 112/2008 e la declaratoria di incostituzionalità
dell'art. 4 del d.l. n. 138/2011 e le ragioni del quesito
referendario (lasciare maggiore scelta agli enti locali
sulle forme di gestione dei servizi pubblici locali, anche
mediante internalizzazione e società in house), è
venuto meno il principio, con tali disposizioni perseguito,
della eccezionalità del modello in house per la gestione dei
servizi pubblici locali di rilevanza economica.
Nell'ambito dell'art. 212 del Codice dell'ambiente (d.lvo
03.04.2006, n. 152) non è individuabile alcuna prescrizione
che impedisca in radice ai Comuni di esercitare le attività
di raccolta e trasporto di rifiuti. La mancata inclusione
dei Comuni nel novero degli enti che sono assoggettati a un
regime abilitativo semplificato non significa che agli
stessi sia in radice precluso l'esercizio delle richiamate
attività, bensì -più semplicemente- che tali enti possano
operare anche in assenza di iscrizione all'Albo.
Il parere del Comitato dell'Albo Nazionale dei gestori
ambientali secondo cui i Comuni non sono ricompresi fra i
destinatari dell'obbligo di iscrizione all'Albo deve esser
correttamente inteso nel senso che gli stessi possano
esercitare le relative attività senza dover soggiacere a un
adempimento formale come quello dell'iscrizione (e tanto,
anche alla luce del generale principio secondo cui "ubi
lex voluit dixit, ubi noluit tacuit") (Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 15.03.2016 n. 1034 - link a
www.dirittodeiservizipubbici.it). |
APPALTI:
Il requisito del pregresso svolgimento di
prestazioni analoghe, previsto in un bando di gara, non può
essere assimilato a quella di prestazioni identiche.
Nel caso in cui il bando di gara pubblica richieda quale
requisito il pregresso svolgimento di prestazioni analoghe,
tale nozione non può, se non con grave forzatura
interpretativa, essere assimilata a quella di prestazioni
identiche, dovendo dunque ritenersi soddisfatta la
prescrizione ove il concorrente abbia comunque dimostrato lo
svolgimento di servizi o forniture rientranti nel medesimo
settore imprenditoriale o professionale cui afferisce
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 15.03.2016 n. 1030 - link a
www.dirittodeiservizipubbici.it). |
APPALTI SERVIZI:
Sulla differenza tra la società in house e la
società mista.
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Sull'ammissibilità dell'affidamento di
un servizio pubblico (nel caso di specie per l'affidamento
del servizio di igiene urbana) ad una società mista a
condizione che si sia svolta in un'unica gara per la scelta
del socio e per l'individuazione del determinato servizio da
svolgere.
La differenza tra la società in house e la società
mista consiste nel fatto che la prima agisce come un vero e
proprio organo dell'amministrazione dal punto di vista
sostanziale, mentre la diversa figura della società mista a
partecipazione pubblica, in cui il socio privato è scelto
con una procedura ad evidenza pubblica, presuppone la
creazione di un modello nuovo, nel quale interessi pubblici
e privati trovino convergenza.
In quest'ultimo caso, l'affidamento di un servizio ad una
società mista è ritenuto ammissibile a condizione che si sia
svolta una unica gara per la scelta del socio e
l'individuazione del determinato servizio da svolgere,
delimitato in sede di gara sia temporalmente che con
riferimento all'oggetto.
La Corte di Giustizia ha, infatti, ritenuto l'ammissibilità
dell'affidamento di servizi a società miste, a condizione
che si svolga in unico contesto una gara avente ad oggetto
la scelta del socio privato (socio non solo azionista, ma
soprattutto operativo) e l'affidamento del servizio già
predeterminato con obbligo della società mista di mantenere
lo stesso oggetto sociale durante l'intera durata della
concessione.
La chiave di volta del sistema è rappresentato dal fatto che
l'oggetto sia predeterminato e non genericamente descritto,
poiché altrimenti, è evidente, sarebbe agevole l'aggiramento
delle regole pro-competitive a tutela della concorrenza.
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L'affidamento diretto di un servizio a una società mista non
è incompatibile con il diritto comunitario, a condizione che
la gara per la scelta del socio privato della società
affidataria sia stata espletata nel rispetto dei principi di
parità di trattamento, di non discriminazione e di
trasparenza.
Inoltre, i criteri di scelta del socio privato si devono
riferire non solo al capitale da quest'ultimo conferito, ma
anche alle capacità tecniche di tale socio e alle
caratteristiche della sua offerta in considerazione delle
prestazioni specifiche da fornire, in guisa da potersi
inferire che la scelta del concessionario risulti
indirettamente da quella del socio medesimo (Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 15.03.2016 n. 1028 - link a
www.dirittodeiservizipubbici.it). |
APPALTI SERVIZI:
Sulla facoltà dell'amministrazione di revocare
una gara per l'affidamento di un servizio.
La giurisprudenza ha da tempo valorizzato la facoltà
dell'amministrazione di ripensare le modalità tecniche di
erogazione e gestione di un determinato servizio e la
volontà di provvedere in autoproduzione come plausibili
giustificazioni della revoca degli atti di gara e degli atti
successivi, e concludono per la sindacabilità di tali scelte
solo in presenza di palesi e manifesti indici di
irragionevolezza.
La revoca, in consonanza con i limiti che incontra
l'esercizio del generale potere di autotutela
amministrativa, deve essere adeguatamente motivata e
supportata da idonea istruttoria circa la sussistenza dei
presupposti di opportunità per svolgere l'attività mediante
le strutture interne dell'ente: presupposti che ben possono
essere individuati nella possibilità di conseguire forti
risparmi di spesa attraverso la riorganizzazione e la
internalizzazione o reinternalizzazione del servizio (TAR
Toscana, Sez. I,
sentenza 15.03.2016 n. 467 - link a
www.dirittodeiservizipubbici.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
La commissione di concorso deve rispettare il principio del
collegio perfetto anche nella fase di valutazione delle
prove scritte.
Le operazioni concorsuali sono state
precedute, in una precedente seduta, dalla suddivisione
degli elaborati fra i membri della Commissione, ivi compresi
i supplenti, ai fini di una loro correzione individuale che
avrebbe costituito la “base” per le successive operazioni.
La Sezione è dell’avviso che tale modus procedendi non sia
effettivamente compatibile col rispetto del principio del
collegio perfetto che, per costante giurisprudenza, deve
permeare in primo luogo e soprattutto le attività della
Commissione di concorso nella fase di esame e valutazione
delle prove d’esame da correggere.
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6. Scendendo all’esame del merito dell’appello dell’Agenzia
delle Entrate, col primo mezzo si contesta l’avviso del
giudice a quo il quale, muovendo dalla constatazione che
nella specie i componenti supplenti risultavano aver
partecipato a tutte le sedute della Commissione
esaminatrice, unitamente a quelli effettivi, ha reputato
integrata la violazione dell’art. 9, comma 5, del d.P.R.
09.05.1994, nr. 487, laddove si statuisce che “i
supplenti intervengono alle sedute della commissione nelle
ipotesi di impedimento grave e documentato degli effettivi”.
In contrario, la difesa erariale assume –anche richiamando
pregressa giurisprudenza in materia- la non illegittimità
della partecipazione dei supplenti, purché ne sia
chiaramente indicata a verbale la qualità differenziandola
da quella dei componenti effettivi (come avvenuto nel caso
di specie), e anzi la sua opportunità in ragione di
elementari principi di buon andamento dell’azione
amministrativa, essendo utile che costoro si tengano edotti
dei criteri e parametri seguiti dalla Commissione nelle
operazioni di correzione, in modo da rendere più utile ed
efficace il loro successivo subentro.
Tuttavia, la Sezione non può non rilevare che nel caso che
qui occupa la partecipazione dei supplenti non ha avuto (o
non ha avuto soltanto) una tale ratio e finalità,
essendosi concretizzata in una costante integrazione della
Commissione nel suo complesso: in altri termini, e come
correttamente rilevato dal primo giudice, dall’esame dei
verbali relativi alle operazioni di correzione emerge che la
Commissione ha costantemente operato come un collegio “allargato”
anche ai supplenti, ancorché di questi ultimi fosse sempre
precisata tale qualità, di modo che apparentemente tutti i
componenti si sono sempre espressi su tutte le prove, senza
che sia possibile accertare quale sia il collegio che ha
valutato ciascuna singola prova di esame (e, quindi, se e in
quali casi i supplenti siano effettivamente subentrati in
luogo dei componenti effettivi).
Inoltre, come meglio si vedrà al punto successivo, i
componenti supplenti –con l’eccezione di uno di essi, cui
erano assegnati anche altri compiti– hanno partecipato anche
alla ripartizione delle tracce da correggere, ai fini della
successiva lettura individuale, con cui si è realizzata
l’ulteriore violazione del principio di collegialità.
7. A tale secondo aspetto afferisce il secondo motivo
dell’appello dell’Agenzia delle Entrate, col quale si mira a
dimostrare che il modus procedendi nella specie
seguito dalla Commissione esaminatrice non sarebbe
incompatibile con la necessaria collegialità che deve
connotare le operazioni di correzione degli elaborati.
Si assume, in particolare, che dai verbali in atti si
evincerebbe che la Commissione avrebbe dapprima proceduto ad
una “verifica” collegiale di tutti gli elaborati,
individuando e definendo i criteri da seguire per la loro
correzione, per poi procedere ad “una ulteriore
valutazione” dei soli elaborati che all’esito della
correzione presentavano determinate caratteristiche in
termini di punteggio potenzialmente attribuibile (verbale nr.
11 del 30.08.2012), e quindi, in una seduta successiva, alla
compilazione delle schede con l’assegnazione dei punteggi
finali a tutte le prove esaminate (verbale nr. 12).
In contrario, parte appellata evidenzia che le operazioni
così descritte sono state precedute, in una precedente
seduta, dalla suddivisione degli elaborati fra i membri
della Commissione, ivi compresi i supplenti, ai fini di una
loro correzione individuale che avrebbe costituito la “base”
per le successive operazioni (verbale nr. 8 del 04.06.2012).
La Sezione è dell’avviso che tale modus procedendi
non sia effettivamente compatibile col rispetto del
principio del collegio perfetto che, per costante
giurisprudenza, deve permeare in primo luogo e soprattutto
le attività della Commissione di concorso nella fase di
esame e valutazione delle prove d’esame da correggere (cfr.
Cons. Stato, sez. IV, 12.11.2015, nr. 5137; id., sez. VI,
29.07.2009, nr. 4708; id., sez. IV, 12.03.2007, nr. 1218).
Ed invero, dalla consecutio logica delle risultanze
dei verbali che si sono richiamati, emerge con evidenza che
il momento centrale e qualificante delle operazioni di
correzione è stato determinato, nella presente fattispecie,
dalla preliminare suddivisione degli elaborati da correggere
fra i componenti della Commissione, ai fini di una lettura
individuale; che cosa sia avvenuto a valle di tale lettura
individuale può evincersi solo induttivamente dai verbali
successivi, ma la ricostruzione più ragionevole,
contrariamente a quanto si assume dalla difesa erariale,
porta a escludere che vi sia stato un pieno rispetto della
regola del collegio perfetto.
Infatti, non è chiaro in che cosa sia consistita quella “verifica”
collegiale di tutti gli elaborati, di cui si legge nel
precitato verbale nr. 11 e su cui oggi insiste
l’Amministrazione appellante: tuttavia, deve ragionevolmente
escludersi che essa si sia tradotta in una integrale
rilettura collegiale di tutte le prove già esaminate dai
singoli componenti la Commissione, dal momento che è lo
stesso verbale nr. 11 a precisare che “una ulteriore
valutazione” collegiale vi fu solo per gli elaborati che
presentavano, all’esito del vaglio preliminare condotto dal
singolo commissario che li aveva letti, determinate
caratteristiche sotto il profilo del punteggio attribuibile.
Di conseguenza, deve ritenersi che per gli altri elaborati,
non rientranti nella predetta tipologia, la “verifica”
in discorso sia consistita nella mera individuazione del
punteggio di attribuire, nella migliore delle ipotesi sulla
base di una sorta di “relazione” sintetica svolta dal
componente che aveva letto la prova, nella peggiore
recependone acriticamente e passivamente il giudizio; in
entrambi i casi, la mancata sottoposizione al collegio della
prova nella sua interezza integra lesione della regola del
collegio perfetto (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 14.03.2016 n. 1011 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Rotazione non tassativa.
Rinnovo appalti a trattativa privata.
In una procedura senza pubblicazione del bando di gara,
l'applicazione del principio di rotazione non ha una valenza
precettiva assoluta dal momento che prevalgono sempre le
ragioni della massima concorrenza; pertanto il precedente
affidatario può essere legittimamente invitato.
È quanto ha
affermato il TAR Lazio-Roma, Sez. II, con la
sentenza 11.03.2016 n. 3119 con riguardo all'applicazione del
principio di rotazione nell'ambito di una gara (nel caso
specifico si trattava di un affidamento tramite gara
informale, indetta ai sensi dell'art. 30 del decreto
legislativo n. 163/2006, per l'affidamento della concessione
del servizio di rimozione veicoli in sosta d'intralcio a
Roma, per la quale non è stata disposta la convalida
dell'aggiudicazione provvisoria.
I giudici affermano che il principio di rotazione, essendo
funzionale ad assicurare un certo avvicendamento delle
imprese affidatarie, non ha una valenza precettiva assoluta
per le stazioni appaltanti. Il Tar ha evidenziato quindi che
l'episodica mancata applicazione del principio di rotazione
non vale a inficiare gli esiti di una gara già espletata,
una volta che questa si sia conclusa con l'aggiudicazione in
favore di un soggetto già in precedenza invitato a simili
selezioni, ovvero già affidatario del servizio.
Pertanto, se
non vi siano situazioni particolari, quali per esempio
precedenti inadempimenti contrattuali, non può essere
invocata la mancata applicazione del principio per escludere
un concorrente che chieda di essere invitato a partecipare a
una procedura negoziata.
In definitiva, dice la sentenza, considerato che l'articolo
57, comma 6, del codice degli appalti (che disciplina la
procedura negoziata senza bando e con inviti ad almeno
cinque concorrenti) pone sullo stesso piano i principi di
concorrenza e di rotazione, afferma che in ogni caso si
devono sempre privilegiare i valori della concorrenzialità e
della massima partecipazione. Da ciò discende quindi che in
linea di massima non sussistono ostacoli a invitare (anche)
il gestore uscente del servizio a prendere parte al nuovo
confronto concorrenziale.
In definitiva, quindi, il principio di rotazione può essere
considerato recessivo rispetto all'esigenza di assicurare la
massima concorrenza, invitando anche il precedente
affidatario del contratto, scaduto
(articolo ItaliaOggi del 18.03.2016).
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MASSIMA
9. Né può ritenersi che la decisione della stazione
appaltante sia adeguatamente supportata dalla volontà di
applicare il principio di rotazione degli operatori
economici da invitare nelle procedure negoziate,
espressamente richiamato dall’art. 57, comma 6, del codice
degli appalti. Difatti la giurisprudenza ha precisato che
il
principio di rotazione, essendo funzionale ad assicurare un
certo avvicendamento delle imprese affidatarie, non ha una
valenza precettiva assoluta per le stazioni appaltanti, di
guisa che:
A)
la sua episodica mancata applicazione non vale ex se
ad inficiare gli esiti di una gara già espletata, una volta
che questa si sia conclusa con l’aggiudicazione in favore di
un soggetto già in precedenza invitato a simili selezioni,
ovvero già affidatario del servizio
(Cons. Stato, Sez. VI,
28.12.2011, n. 6906);
B)
in difetto di situazioni particolari, riscontrabili ad
esempio in ipotesi di precedenti inadempimenti contrattuali,
non può essere invocato sic et simpliciter per
escludere un concorrente che chieda di essere invitato a
partecipare ad una procedura negoziata
(TAR Lombardia
Brescia, Sez. II, 14.10.2015, n. 1325; TAR Lombardia,
Milano, Sez. IV, 16.01.2015, n. 179; TAR Molise Campobasso,
Sez. I, 17.04.2014, n. 269).
In definitiva,
posto che l’art. 57, comma 6, del codice
degli appalti pone sullo stesso piano i principi di
concorrenza e di rotazione, la prevalente giurisprudenza si
è ripetutamente espressa nel senso di privilegiare i valori
della concorrenzialità e della massima partecipazione, per
cui in linea di massima non sussistono ostacoli ad invitare
(anche) il gestore uscente del servizio a prendere parte al
nuovo confronto concorrenziale.
Ciò posto, il Collegio ritiene che nel caso in esame il
principio di rotazione non possa essere utilmente invocato
per giustificare il mancato invito della ricorrente in
quanto la stessa nel quinto motivo del ricorso introduttivo,
oltre ad eccepire che ha regolarmente gestito il servizio
per oltre dieci anni, ha eccepito di essere il principale
operatore del settore attivo sul territorio capitolino,
circostanza che trova riscontro nel fatto che sia l’unico
soggetto che ha presentato un offerta nella prima gara.
Pertanto il suo invito, lungi dal pregiudicare
l’applicazione del principio di rotazione, avrebbe semmai
favorito la concorrenza. |
APPALTI:
La connotazione di consorzio stabile
comporta l’esecuzione delle prestazioni contrattuali ad
opera di un soggetto affidatario costituito in forma
collettiva, che stipula il contratto in nome proprio e per
conto delle consorziate, con la conseguenza che ai fini
della verifica dei requisiti di qualificazione, atti a
comprovare la capacità tecnica e la solidità generale, il
consorzio può cumulare quelli posseduti dalle imprese
consorziate e usufruirne in proprio.
Di conseguenza la giurisprudenza ha chiarito che
anche i consorzi
stabili, se in forza della natura di soggetto collettivo
legittimamente cumulano indistintamente i requisiti tecnici
e finanziari delle imprese consorziate, devono tuttavia
comprovare il possesso dei requisiti generali di cui
all’art. 38 del codice degli appalti in capo ad esse; del
resto, se così non fosse, per gli operatori economici privi
dei requisiti di cui all’art. 38 risulterebbe agevole,
anziché concorrere direttamente andando incontro a sicura
esclusione, aderire ad un consorzio da utilizzare come «copertura
elusiva» dell’obbligo di possedere i requisiti generali.
Di
conseguenza,
posto che l’affidabilità morale rappresenta un requisito
ineludibile e specifico per ogni singolo esecutore, la
carenza dei requisiti di cui all’art. 38 in capo alle
imprese consorziate indicate come esecutrici dell’appalto
non può non comportare l’esclusione del consorzio stabile.
----------------
4. Poste tali premesse, occorre procedere innanzi tutto
all’esame dei primi due motivi del ricorso introduttivo
(riproposti con i motivi aggiunti), con i quali la società
CLT censura la sua esclusione dalla prima gara.
In proposito
il Collegio ritiene che non possa essere accolto il primo
motivo (che avrebbe carattere assorbente), con il quale la
ricorrente -sulla base di un’articolata ricostruzione della
disciplina relativa ai consorzi stabili- perviene ad
affermare che, anche in ragione della peculiare natura della
gara in questione (procedura negoziata, indetta ai sensi
dell’art. 30 del codice degli appalti), la stazione
appaltante, invece di disporre l’esclusione della ricorrente
stessa in ragione della asserita carenza dei requisiti
generali in capo a due delle consorziate indicate
nell’offerta, ben avrebbe potuto limitarsi a precludere
l’esecuzione del servizio alle due consorziate, oppure
chiedere alla ricorrente di revocare la dichiarazione
presentata in sede di offerta, nella parte in cui essa
dichiara di concorrere anche per conto delle predette
consorziate.
Difatti, secondo la giurisprudenza (ex multis, Cons.
Stato, Sez. V, 22.01.2015, n. 244; id., Sez. III,
04.03.2014, n. 1030),
la connotazione di consorzio stabile
comporta l’esecuzione delle prestazioni contrattuali ad
opera di un soggetto affidatario costituito in forma
collettiva, che stipula il contratto in nome proprio e per
conto delle consorziate, con la conseguenza che ai fini
della verifica dei requisiti di qualificazione, atti a
comprovare la capacità tecnica e la solidità generale, il
consorzio può cumulare quelli posseduti dalle imprese
consorziate e usufruirne in proprio.
Di conseguenza la giurisprudenza (Cons. Stato, Sez. IV,
13.10.2015, n. 4703) ha chiarito che
anche i consorzi
stabili, se in forza della natura di soggetto collettivo
legittimamente cumulano indistintamente i requisiti tecnici
e finanziari delle imprese consorziate, devono tuttavia
comprovare il possesso dei requisiti generali di cui
all’art. 38 del codice degli appalti in capo ad esse; del
resto, se così non fosse, per gli operatori economici privi
dei requisiti di cui all’art. 38 risulterebbe agevole,
anziché concorrere direttamente andando incontro a sicura
esclusione, aderire ad un consorzio da utilizzare come «copertura
elusiva» dell’obbligo di possedere i requisiti generali.
Di conseguenza, posto che l’affidabilità morale rappresenta
un requisito ineludibile e specifico per ogni singolo
esecutore, la carenza dei requisiti di cui all’art. 38 in
capo alle imprese consorziate indicate come esecutrici
dell’appalto non può non comportare l’esclusione del
consorzio stabile.
Né giova alla ricorrente far leva sul fatto che l’art. 38
non sia espressamente richiamato dall’art. 30, comma 1, del
codice degli appalti. Difatti il terzo comma dell’art. 30
prevede espressamente che la scelta del concessionario deve
avvenire “nel rispetto dei principi desumibili dal
Trattato e dei principi generali relativi ai contratti
pubblici” e la stessa ricorrente finisce per ammettere
che le disposizioni dell’art. 38 -nel richiedere il
possesso dei requisiti di ordine generale- costituiscono
espressione di un principio di carattere generale e di
matrice comunitaria, come tale senz’altro applicabile anche
alle procedure per l’affidamento delle concessioni.
Pertanto resta solo da evidenziare che -qualora si accedesse
all’ulteriore prospettazione della ricorrente, secondo la
quale nelle procedure per l’affidamento delle concessioni il
principio sotteso all’art. 38 (secondo il quale sono esclusi
dalla gara i soggetti privi dei requisiti generali) comunque
non implica che la carenza dei requisiti generali in capo ad
uno dei consorziati designati per l’esecuzione dell’appalto
determini automaticamente l’esclusione del consorzio
stabile- in tali procedure si riproporrebbe il rischio
dell’adesione al consorzio come mero espediente per eludere
l’applicazione del principio sotteso all’art. 38 (TAR Lazio-Roma, Sez. II,
sentenza 11.03.2016 n. 3119
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Con
riferimento al requisito di regolarità fiscale di cui
all’art. 38, comma 1, lett. g), del codice degli appalti,
costituiscono violazioni definitivamente accertate quelle
relative all’obbligo di pagamento di debiti per imposte e
tasse certi, scaduti ed esigibili.
Infatti,
solo in tal caso l’inadempimento tributario può
ritenersi indicativo del mancato rispetto degli obblighi
relativi al pagamento di imposte e tasse, mentre non è
sufficiente la circostanza che l’operatore economico sia
destinatario di una cartella esattoriale, attesa la
necessità non solo che la pendenza con l’Erario sia stata
debitamente accertata dai competenti organi come esistente
ad una determinata data, ma anche che la pretesa tributaria
si sia consolidata in favore della Amministrazione
finanziaria per l’inutile decorso del termine di
impugnazione.
---------------
Si deve rammentare che, secondo la giurisprudenza,
l’impresa
che abbia ottenuto una rateizzazione del debito tributario
deve essere considerata in regola ai fini della
presentazione della domanda di partecipazione alla gara,
stante il valore novativo che tali atti assumono, fermo
restando che la sussistenza del requisito della regolarità
fiscale deve essere valutata con riferimento al momento
ultimo per la presentazione delle offerte; pertanto la mera
presentazione di una richiesta di rateizzazione del debito
tributario non esclude -anzi conferma- il carattere della
definitività del debito stesso, perché la rateizzazione
implica la certezza dell’ammontare e dell’esistenza della
pretesa erariale, la quale non può essere più contestata in
sede giudiziale, e non è comunque pienamente certo il suo
accoglimento prima della adozione del relativo atto, con
l’ulteriore conseguenza che la dichiarazione di non aver
commesso infrazioni definitivamente accertate non può essere
validamente resa prima dell’effettivo accoglimento della
domanda di rateizzazione.
----------------
5. Passando al secondo motivo di ricorso -con il quale la
ricorrente mira a dimostrare l’insussistenza delle
violazioni gravi rispetto agli obblighi tributari, che la
stazione appaltante ha ritenuto “definitivamente
accertate” in capo alle consorziate Al. e
Au. e che hanno determinato la sua esclusione dalla
gara ai sensi dell’art. 38, comma 1, lett. g), del codice
degli appalti- il Collegio preliminarmente osserva che non
vi è motivo per disporre l’integrazione del contraddittorio
nei confronti dell’Agenzia delle Entrate o per disporre
l’esecuzione una verificazione sulla posizione fiscale delle
predette consorziate, potendosi ritenere la stessa già
adeguatamente acclarata in base alla documentazione versata
in atti.
Ciò premesso il Collegio osserva innanzi tutto che,
con
riferimento al requisito di regolarità fiscale di cui
all’art. 38, comma 1, lett. g), del codice degli appalti,
costituiscono violazioni definitivamente accertate quelle
relative all’obbligo di pagamento di debiti per imposte e
tasse certi, scaduti ed esigibili
(cfr. parere dell’ANAC n.
199 del 05.12.2012).
Infatti,
solo in tal caso l’inadempimento tributario può
ritenersi indicativo del mancato rispetto degli obblighi
relativi al pagamento di imposte e tasse, mentre non è
sufficiente la circostanza che l’operatore economico sia
destinatario di una cartella esattoriale, attesa la
necessità non solo che la pendenza con l’Erario sia stata
debitamente accertata dai competenti organi come esistente
ad una determinata data, ma anche che la pretesa tributaria
si sia consolidata in favore della Amministrazione
finanziaria per l’inutile decorso del termine di
impugnazione.
Ne consegue che, con particolare rifermento alla posizione
della società Al. -sebbene nell’attestazione
dell’Agenzia delle Entrate in data 07.08.2015 (richiamata
nella richiesta di chiarimenti formulata dalla stazione
appaltante con nota del 14.08.2015) venga qualificata come «violazione
definitivamente accertata» la seguente annotazione «Ricorso
avverso l’AVV. RETT. E LIQ. 2007 S. 1T N. 001067-000 A 001
per l’anno d’imposta 2007, relativo alla società in oggetto
deciso in I Grado con esito parzialmente favorevole
all’ufficio con importo accertato di Euro 215.284,00»-
tuttavia dal riferimento espresso ad un avviso di rettifica
e liquidazione, contenuto in tale annotazione, ben si poteva
desumere che il predetto importo di euro 215.284,00 non
equivaleva ad un debito di natura tributaria accertato nei
confronti della predetta società, bensì al valore accertato
dall’Agenzia delle Entrate, in relazione all’acquisto di un
terreno da parte della società stessa, peraltro
rideterminato dalla Commissione Tributaria Provinciale di
Roma, a seguito di ricorso presentato dalla medesima
società, in euro 182.122,50.
Coglie, quindi, nel segno la ricorrente quando afferma che
tale annotazione non consentiva alla stazione appaltante di
ritenere che la società Al. fosse priva del requisito
della regolarità fiscale al momento della presentazione
dell’offerta, perché -come si può evincere dalla
attestazione della medesima Agenzia delle Entrate in data
13.11.2015 (versata in atti anche da Roma Capitale)- solo in
tale data l’Agenzia delle Entrate ha provveduto alla
iscrizione a ruolo della somma complessiva di euro 38.297,99
a titolo di imposte, interessi e sanzioni.
6. Diverse considerazioni valgono -come già sommariamente
indicato da questa Sezione nell’ordinanza cautelare n. 5676
del 2015- per la posizione della società Autoturismo, in
relazione alla quale la stazione appaltante ha correttamente
ritenuto di poter desumere la mancanza del requisito della
regolarità fiscale non solo dall’attestazione dell’Agenzia
delle Entrate in data 13.08.2015, richiamata nella richiesta
di chiarimenti formulata con nota del 20.08.2015, ma anche
dalla risposta a tale richiesta fornita dalla predetta
società con nota del 10.09.2015.
Difatti
si deve rammentare che, secondo la giurisprudenza
(ex
multis, Cons. Stato, Sez. IV, 18.11.2011, n. 6084; TAR
Campania Napoli, sez. II, 13.09.2013, n. 4269),
l’impresa
che abbia ottenuto una rateizzazione del debito tributario
deve essere considerata in regola ai fini della
presentazione della domanda di partecipazione alla gara,
stante il valore novativo che tali atti assumono, fermo
restando che la sussistenza del requisito della regolarità
fiscale deve essere valutata con riferimento al momento
ultimo per la presentazione delle offerte; pertanto la mera
presentazione di una richiesta di rateizzazione del debito
tributario non esclude -anzi conferma- il carattere della
definitività del debito stesso, perché la rateizzazione
implica la certezza dell’ammontare e dell’esistenza della
pretesa erariale, la quale non può essere più contestata in
sede giudiziale, e non è comunque pienamente certo il suo
accoglimento prima della adozione del relativo atto, con
l’ulteriore conseguenza che la dichiarazione di non aver
commesso infrazioni definitivamente accertate non può essere
validamente resa prima dell’effettivo accoglimento della
domanda di rateizzazione.
Ciò posto, con riferimento alla fattispecie in esame non può
farsi a meno di evidenziare che la società Au. -nel
fornire i chiarimenti richiesti dalla stazione appaltante
con la suddetta nota del 20.08.2015, in relazione al
contestato mancato pagamento delle cartelle esattoriali n.
09720140092209401 (relativa ad un importo pari ad euro
14.445,05) e n. 09720130292330353 (relativa ad un importo
pari ad euro 22.572,91)- si è limitata a rappresentare
soltanto che le cartelle stesse «sono in fase di
istruttoria per la rateizzazione. Sarà premura di questa
Società trasmettere copia dell’avvenuta rateizzazione di
rateizzazione non appena l’Agenzia delle Entrate restituirà
l’apposita modulistica», senza fare alcun cenno
all’intenzione di impugnare tali cartelle esattoriali
innanzi alla competente Commissione Tributaria.
Risulta quindi evidente che:
A) da un lato, è stata la stessa società Autoturismo a
fornire alla stazione appaltante gli elementi in base ai
quali essa è stata ritenuta non in possesso del requisito di
cui all’art. 38, comma 1, lett. g), del codice degli
appalti;
B) dall’altro, nessun rilievo può assumere -ai fini della
valutazione della legittimità dell’esclusione della società
ricorrente- il fatto che la Commissione Tributaria
Provinciale di Roma abbia provveduto dapprima a sospendere
le predette cartelle, con il decreto presidenziale n.
2638/4/15 del 18.11.2015, e poi a dichiararle inefficaci con
la sentenza n. 2330/4/16 del 04.02.2016.
Difatti tali provvedimenti giurisdizionali sono successivi
non solo alla scadenza del termine ultimo per la
presentazione delle offerte (05.05.2015), ma anche
all’adozione dell’impugnata determinazione dirigenziale n.
1498 del 03.11.2015 (TAR Lazio-Roma, Sez. II,
sentenza 11.03.2016 n. 3119
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EDILIZIA PRIVATA:
L’art. 38 dpr 380/2001 prevede l’irrogazione
della sanzione pecuniaria alternativa all’ordinanza di
demolizione in caso di annullamento del permesso di
costruire solo “qualora non sia possibile, in base a
motivata valutazione, la rimozione dei vizi delle procedure
amministrative o la restituzione in pristino”; e, dunque,
come è fatto palese dal tenore letterale della norma e come
la condivisibile giurisprudenza ha avuto modo di precisare,
la fiscalizzazione dell’abuso edilizio può riguardare solo
vizi formali e procedurali e non sostanziali, e le ipotesi
in cui soltanto una parte del fabbricato risulti abusiva e
nel contempo risulti obiettivamente verificato che la
demolizione di tale parte esporrebbe a serio rischio la
residua parte legittimamente assentita.
La più recente giurisprudenza del Consiglio di Stato ha,
poi, precisato che anche in caso di annullamento del titolo
edilizio per vizi sostanziali la sanatoria (recte, la
rinnovazione del titolo, l’emanazione di un nuovo permesso
di costruire) è consentita, qualora si sia trattato di vizi
emendabili, che possono essere rimossi, mentre è preclusa
qualora si tratti di vizi inemendabili.
L’art. 38, secondo tale orientamento, è applicabile anche
nel caso di annullamento per vizi sostanziali, purché
emendabili, dovendosi procedere invece al ripristino a
fronte di vizi inemendabili.
---------------
La sanzione demolitoria prevista dalla norma, quale effetto
primario e naturale derivante dall’annullamento del permesso
di costruire (così come dalla sua mancanza ab origine: cfr.
art. 31, comma 2, del d.p.r. n. 380/2001 cit.), non richiede
all’amministrazione un particolare impegno motivazionale, ma
rinviene nella legalità violata la sua giustificazione in re
ipsa.
Ed invero, nel caso di annullamento del titolo abilitativo
edilizio, in disparte l'ipotesi di vizi di ordine meramente
procedurale e formale (o, al più, secondo la recente
giurisprudenza citata, anche di vizi sostanziali
emendabili), non ricorrente nella fattispecie in esame, il
modello legale tipico di atto consequenziale è proprio
quello dell'ordine di ripristino dello stato dei luoghi, in
quanto unico atto idoneo ad arrecare una piena soddisfazione
all'interesse pubblico alla rimozione delle opere in
contrasto con la disciplina urbanistica; cosicché, ove lo
sviluppo attuativo del pregresso annullamento della
concessione si incanali nell’alveo naturale della riduzione
in pristino, nessun onere di specifica motivazione ricade
sull’amministrazione procedente, il cui operato è
obbligatoriamente scandito dallo stesso legislatore; mentre,
solo in presenza di circostanze peculiari ed eccezionali,
idonee ad accreditare l’oggettiva impossibilità di attuare
la misura ordinaria della riduzione in pristino, sarà
possibile accedere alla misura residuale della sanzione
pecuniaria, occorrendo, però, in siffatta evenienza,
giustificare la deroga alla soluzione di ‘tutela reale’
privilegiata dal legislatore, mediante una congrua
motivazione che dia adeguatamente conto delle valutazioni
effettuate.
L’applicabilità della sanzione alternativa pecuniaria è,
invece, prevista dall’art. 38, comma 1, del d.p.r. n.
380/2001 per l’ipotesi in cui soltanto una parte di un
fabbricato risulti abusivamente realizzata e risulti, nel
contempo, accertato che la sua demolizione esporrebbe a
serio rischio statico la residua parte legittima del
fabbricato medesimo, e non già per il caso –verificatosi
nella specie– in cui l’intera opera sia stata assentita
mediante titolo abilitativo edilizio annullato; né,
peraltro, risulta in concreto dimostrata da parte ricorrente
l’effettiva e insuperabile impossibilità tecnica del
ripristino dello stato dei luoghi, giustificativa
dell’irrogazione della misura alternativa pecuniaria.
----------------
Con il primo motivo
i ricorrenti hanno dedotto che l’Amministrazione avrebbe
dovuto procedere, in applicazione del disposto dell’art. 38
D.P.R. 380/2001, all’irrogazione di una sanzione pecuniaria,
in luogo della demolizione del manufatto divenuto abusivo.
Il motivo è infondato.
Come già evidenziato da questa Sezione con la sentenza n.
33/2015, l’art. 38 citato prevede l’irrogazione della
sanzione pecuniaria alternativa all’ordinanza di demolizione
in caso di annullamento del permesso di costruire solo “qualora
non sia possibile, in base a motivata valutazione, la
rimozione dei vizi delle procedure amministrative o la
restituzione in pristino”; e, dunque, come è fatto
palese dal tenore letterale della norma e come la
condivisibile giurisprudenza ha avuto modo di precisare, la
fiscalizzazione dell’abuso edilizio può riguardare,
contrariamente a quanto si reputa da parte ricorrente, solo
vizi formali e procedurali e non sostanziali, e le ipotesi
in cui soltanto una parte del fabbricato risulti abusiva e
nel contempo risulti obiettivamente verificato che la
demolizione di tale parte esporrebbe a serio rischio la
residua parte legittimamente assentita (Cons. di Stato, Sez.
V, 22/05/2006 n. 2960; TAR Liguria, 05/02/2011 n. 235; TAR
Campania, Salerno, Sez. I, 19/04/2012 n. 738).
La più recente giurisprudenza del Consiglio di Stato ha,
poi, precisato che anche in caso di annullamento del titolo
edilizio per vizi sostanziali la sanatoria (recte, la
rinnovazione del titolo, l’emanazione di un nuovo permesso
di costruire) è consentita, qualora si sia trattato di vizi
emendabili, che possono essere rimossi, mentre è preclusa
qualora si tratti di vizi inemendabili (Cons. Stato, sez. VI,
n. 4221/2015, sez. IV, n. 7131/2010).
L’art. 38, secondo tale orientamento, è applicabile anche
nel caso di annullamento per vizi sostanziali, purché
emendabili, dovendosi procedere invece al ripristino a
fronte di vizi inemendabili.
Nel caso in esame, tuttavia, si verte pacificamente in
ipotesi di vizi sostanziali non emendabili, posto che, come
risulta chiaramente dalla sentenza n. 1099/2014 del
Consiglio di Stato, il permesso annullato non poteva essere
emesso in ragione della destinazione agricola dell’area e
dell’incompatibilità, con la stessa, delle opere progettate.
Il Consiglio di Stato, infatti, ha rilevato che le NTA del
PRG per la Zona E) - rurale prevedono che: “Gli
interventi in queste zone devono essere rivolti allo
sviluppo delle attività agricole-produttive ed alla tutela
del territorio non edificato. Sono consentite esclusivamente
le attività di coltivazione agricola, quelle residenziali
connesse, nonché le attività di trasformazione e
commercializzazione di prodotti agricoli di produzione
propria. Sono consentite, altresì, le attività di tipo
agrituristico, nel rispetto delle normative vigenti in
materia".
Secondo la sentenza di appello “in base alla predetta
disposizione, l’area in questione non poteva assolutamente
essere finalizzata alla realizzazione di un piazzale
destinato all'attività di deposito giudiziario ed
amministrativo di autoveicoli in quanto si risolveva in una
sostanziale inammissibile “deruralizzazione” dell’area”.
Deve infatti ritenersi “del tutto inconciliabile con la
finalità agricola, e non può dunque essere ammissibile, la
realizzazione in area agricola di opere di battitura del
terreno, riporto di sabbia e di materiali inerti con
asfaltatura per la realizzazione di una pavimentazione per
uno spessore di circa 50 cm.. La realizzazione del piazzale-
deposito altera lo stato dei luoghi e costituisce un
intervento di permanente trasformazione edilizia ed
urbanistica del territorio disciplinato dall'art. 3 d.P.R.
n. 380 del 2001 che, essendo subordinato al permesso di
costruire, deve necessariamente rispettare le tipologie e le
destinazioni d'uso funzionali consentite per la zona
agricola. Nella specie la realizzazione di un parcheggio
scoperto è assolutamente fuori dalle ipotesi di legittima
utilizzazione che il proprietario ritenga di fare del
proprio terreno”.
Acclarata la natura sostanziale e non emendabile del vizio
riscontrato, deve aggiungersi che la sanzione demolitoria
prevista dalla norma, quale effetto primario e naturale
derivante dall’annullamento del permesso di costruire (così
come dalla sua mancanza ab origine: cfr. art. 31,
comma 2, del d.p.r. n. 380/2001 cit.), non richiede
all’amministrazione un particolare impegno motivazionale, ma
rinviene nella legalità violata la sua giustificazione in
re ipsa.
Ed invero, nel caso di annullamento del titolo abilitativo
edilizio, in disparte l'ipotesi di vizi di ordine meramente
procedurale e formale (o, al più, secondo la recente
giurisprudenza citata, anche di vizi sostanziali
emendabili), non ricorrente nella fattispecie in esame, il
modello legale tipico di atto consequenziale è proprio
quello dell'ordine di ripristino dello stato dei luoghi, in
quanto unico atto idoneo ad arrecare una piena soddisfazione
all'interesse pubblico alla rimozione delle opere in
contrasto con la disciplina urbanistica; cosicché, ove lo
sviluppo attuativo del pregresso annullamento della
concessione si incanali nell’alveo naturale della riduzione
in pristino, nessun onere di specifica motivazione ricade
sull’amministrazione procedente, il cui operato è
obbligatoriamente scandito dallo stesso legislatore; mentre,
solo in presenza di circostanze peculiari ed eccezionali,
idonee ad accreditare l’oggettiva impossibilità di attuare
la misura ordinaria della riduzione in pristino, sarà
possibile accedere alla misura residuale della sanzione
pecuniaria, occorrendo, però, in siffatta evenienza,
giustificare la deroga alla soluzione di ‘tutela reale’
privilegiata dal legislatore, mediante una congrua
motivazione che dia adeguatamente conto delle valutazioni
effettuate (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. II, 21.03.2006,
n. 3124).
L’applicabilità della sanzione alternativa pecuniaria è,
invece, prevista dall’art. 38, comma 1, del d.p.r. n.
380/2001 per l’ipotesi in cui soltanto una parte di un
fabbricato risulti abusivamente realizzata e risulti, nel
contempo, accertato che la sua demolizione esporrebbe a
serio rischio statico la residua parte legittima del
fabbricato medesimo (Cons. Stato, sez. IV, 21.04.2008, n.
1776), e non già per il caso –verificatosi nella specie– in
cui l’intera opera sia stata assentita mediante titolo
abilitativo edilizio annullato; né, peraltro, risulta in
concreto dimostrata da parte ricorrente l’effettiva e
insuperabile impossibilità tecnica del ripristino dello
stato dei luoghi, giustificativa dell’irrogazione della
misura alternativa pecuniaria (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 10.03.2016 n. 1397 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'esercizio del potere repressivo degli abusi
edilizi costituisce manifestazione di attività
amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi
provvedimenti costituiscono atti vincolati, per la cui
adozione non è necessario l'invio della comunicazione di
avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti
partecipativi del destinatario dell'atto, anche alla luce
del disposto dell'art. 21-octies legge 241/1990 che osta
all’annullamento degli atti di natura vincolata per
violazioni formali.
---------------
Circa la doglianza relativa alla disparità di trattamento
che l’Amministrazione comunale avrebbe operato autorizzando
la sanatoria di altro immobile adibito ad uso palestra,
nonostante anche in tal caso l’attività non fosse
compatibile con l'originaria destinazione (agricola)
dell'area, in merito deve rilevarsi che il vizio di
disparità di trattamento non è certo invocabile per ottenere
dall’Amministrazione l’estensione di un provvedimento
illegittimo o viziato da violazione di legge e, quindi,
qualora nel caso analogo, rispetto al quale si lamenta il
trattamento deteriore, siano state consentite attività
illegittime secondo la disciplina vigente, come invece
sosterrebbero i ricorrenti.
Del resto, la repressione dell'abusivismo edilizio si
connota come un'attività vincolata nei cui confronti non è
configurabile l'eccesso di potere per ingiustizia manifesta
o disparità di trattamento, che è vizio tipico degli atti
discrezionali.
----------------
Con il quarto motivo
i ricorrenti hanno addotto il difetto dei presupposti
dell’ordinanza di demolizione, per non essersi perfezionata
l'inoppugnabilità della determina dirigenziale n. 508 del
22.07.2014, recante l'annullamento del permesso di
costruire.
Sul punto è agevole osservare che l’inoppugnabilità del
provvedimento presupposto non costituisce condizione di
efficacia dell’atto, non incidendo la mancata impugnazione
sulla produzione degli effetti del provvedimento, ma
unicamente sul loro consolidamento.
Quanto, poi, all’asserita impossibilità di spostare i
veicoli insistenti sull’area, che impedirebbe la riduzione
in pristino, come rappresentato con il quinto motivo, si
rileva che tale circostanza non influisce sulla materiale
impossibilità di demolire le opere, ma solo sulla difficoltà
delle eventuali operazioni prodromiche che, peraltro, come
evidenziato dall’Amministrazione comunale, avrebbero ben
potuto essere eseguite previo nulla osta delle Autorità
competenti sui sequestri e vincoli in essere sui veicoli
depositati.
Venendo all’esame del sesto motivo, si evidenzia che,
secondo costante indirizzo giurisprudenziale, da cui non vi
è ragione di discostarsi, l'esercizio del potere repressivo
degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività
amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi
provvedimenti costituiscono atti vincolati, per la cui
adozione non è necessario l'invio della comunicazione di
avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti
partecipativi del destinatario dell'atto (Consiglio di Stato
VI Sez. 29.11.2012 n. 6071; Consiglio di Stato, IV Sezione,
18.09.2012; Consiglio di Stato IV Sezione 10.08.2011, n.
4764; Consiglio di Stato, IV Sezione, 20.07.2011, n. 4403;
Consiglio di Stato, VI Sezione, 24.09.2010, n. 7129), anche
alla luce del disposto dell'art. 21-octies legge 241/1990
che osta all’annullamento degli atti di natura vincolata per
violazioni formali.
Va infine esaminata la doglianza relativa alla disparità di
trattamento che l’Amministrazione comunale avrebbe operato
autorizzando la sanatoria di altro immobile adibito ad uso
palestra, nonostante anche in tal caso l’attività non fosse
compatibile con l'originaria destinazione (agricola)
dell'area.
In merito deve rilevarsi, in primo luogo, che il vizio di
disparità di trattamento non è certo invocabile per ottenere
dall’Amministrazione l’estensione di un provvedimento
illegittimo o viziato da violazione di legge e, quindi,
qualora nel caso analogo, rispetto al quale si lamenta il
trattamento deteriore, siano state consentite attività
illegittime secondo la disciplina vigente, come invece
sosterrebbero i ricorrenti. Del resto, la repressione
dell'abusivismo edilizio si connota come un'attività
vincolata nei cui confronti non è configurabile l'eccesso di
potere per ingiustizia manifesta o disparità di trattamento,
che è vizio tipico degli atti discrezionali (così TAR
Umbria, n. 354 del 02.11.2011; ma cfr. anche Cons. di Stato
sez. VI, n. 6658 del 27.12.2007; Cons. di Stato sez. VI, n.
852 del 28.02.2006; TAR Calabria-Catanzaro, n. 2964 del
16.12.2010).
In secondo luogo, il Comune nei propri scritti difensivi ha
chiarito che l’impianto sportivo è stato autorizzato
all’esito del procedimento per il rilascio del permesso di
costruire in deroga ai sensi dell’art. 14 D.P.R. 380/2001 e
di deliberazione favorevole del Consiglio Comunale, di tal
che le due fattispecie non risultano comparabili
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 10.03.2016 n. 1397 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L'art. 53, par. 2, della dir. 2004/18/CE deve
essere interpretato nel senso che l'amministrazione
aggiudicatrice non è tenuta a rendere noto ai potenziali
offerenti, nel bando di gara o nel capitolato d'oneri, il
metodo di valutazione delle offerte.
L'articolo 53, paragrafo 2, della direttiva 2004/18/CE del
Parlamento europeo e del Consiglio, del 31.03.2004, relativa
al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli
appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, quale
modificata dal regolamento (UE) n. 1251/2011 della
Commissione, del 30.11.2011, letto alla luce del principio
della parità di trattamento e dell'obbligo di trasparenza,
deve essere interpretato nel senso che l'amministrazione
aggiudicatrice non è tenuta a rendere noto ai potenziali
offerenti, nel bando di gara o nel capitolato d'oneri, il
metodo di valutazione delle offerte adottato per esaminare
il grado di rispondenza ai criteri di aggiudicazione
pubblicati in precedenza nel bando o nel capitolato, purché
tale metodo, adottato dopo la scadenza del termine di
presentazione delle offerte ma prima dell'apertura delle
stesse:
a) non modifichi i criteri di aggiudicazione dell'appalto e
la ponderazione relativa di tali criteri, quali esposti nel
bando di gara o nel capitolato d'oneri,
b) non contenga elementi che, se fossero stati noti al
momento della preparazione delle offerte, avrebbero potuto
influire su tale preparazione e
c) non sia stato adottato tenendo conto di elementi che
possono avere un effetto discriminatorio nei confronti di
uno degli offerenti. Spetta al giudice del rinvio verificare
se tali condizioni siano soddisfatte nel procedimento
principale (Avvocato
Generale conclusioni 10.03.2016 causa n. C-6/15 -
link a http://curia.europa.eu). |
EDILIZIA PRIVATA:
Realizzazione di opere edilizie in zona
sottoposta a vincolo - Condotta che si protrae nel tempo -
Natura permanente del reato paesaggistico - Integrazione
dell'elemento soggettivo del reato - Sufficiente il dolo
generico - Artt. 167 e 181, c.1-bis, dlgs n. 42/2004.
Il reato di cui all'art. 181 del dlgs n. 42 del 2004,
qualora sia realizzato attraverso una condotta che si
protrae nel tempo, come nel caso di realizzazione di opere
edilizie in zona sottoposta a vincolo, ha natura permanente
e si consuma con l'esaurimento totale dell'attività o con la
cessazione, per qualsiasi motivo, della condotta (Corte di
cassazione, Sezione III penale, 11/06/2015, n. 24690).
Inoltre, ai fini della integrazione dell'elemento soggettivo
del reato di cui all'art. 181, comma 1-bis, del dlgs n. 42
del 2004 è sufficiente il dolo generico, sussistente ove
l'agente non abbia dimostrato di avere convenientemente
adempiuto al dovere di informarsi preventivamente circa
l'eventuale assoggettamento a vincoli dell'area interessata
dalla esecuzione delle opere in questione (Corte di
cassazione, Sezione III penale, 28/12/2011, n. 48478).
Manufatto realizzato in assenza dei
prescritti nullaosta paesaggistici ceduto a terzi -
Impedimento alla efficacia dell'ordine di ripristino -
Esclusione - Rimessione in pristino dello stato dei luoghi a
spese del condannato - Finalità - Scopo risarcitorio del
danno patito dal bene ambientale.
La finalità della previsione che impone, in caso di
condanna, la rimessione in pristino dello stato dei luoghi a
spese del condannato è, infatti, quella di rimuovere gli
effetti dannosi che derivano dall'avvenuta commissione del
reato; premesso che, pertanto, la sua funzione, ancorché
indefettibilmente connessa all'avvenuto riscontro della
penale responsabilità dell'agente, non è strettamente
punitiva (come è evidenziato proprio dal fatto che alla sua
realizzazione può essere subordinata la concessione della
sospensione condizionale della pena) ma è volta, con scopo
per quanto possibile risarcitorio del danno patito dal bene
ambientale, alla cosiddetta restituito in integrum
della situazione preesistente alla commissione del reato, la
circostanza che il manufatto realizzato in assenza dei
prescritti nullaosta paesaggistici sia stato ceduto a terzi,
non avendo alcun effetto lenitivo del danno ambientale
verificatosi, non costituisce impedimento alla efficacia
dell'ordine di ripristino impartito ai sensi dell'art. 181,
comma 2, del dlgs n. 42 del 2004 (sostanzialmente nello
stesso senso (Corte di cassazione, Sezione III penale,
11/04/2014, n. 16035).
Inoltre, non sussiste alcuna sovrapposizione di competenze
fra la subordinazione della concessione della sospensione
condizionale della pena all'avvenuta rimessione in pristino
dello stato dei luoghi a cura del condannato e la previsione
di cui all'art. 167 del dlgs n. 42 del 2004, posto che
quest'ultima disposizione disciplina l'intervento solo
surrogatorio della Autorità amministrativa nella
restituzione allo status quo ante dei luoghi laddove
il condannato (primario destinatario dell'ordine di
ripristino di essi, indipendentemente dall'essere o meno
detto ripristino condizione per la sospensione della
esecuzione della pena) non abbia ottemperato ad esso (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 04.03.2016 n. 9134 -
link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Realizzazione di opere edilizie in zona vincolata
- Assenza delle prescritte autorizzazioni - Responsabilità
del direttore dei lavori - Rinuncia all'incarico -
Segnalazione contestuale della irregolarità - Fattore
esimente della penale responsabilità - Intervenuta decadenza
del permesso a costruire ai sensi dell'art. 15 del dPR n.
380/2001 - Doveri di diligenza - Limiti - Art. 29, c.2 e 44
del dPR n. 380/2001.
In tema di realizzazione di opere edilizie in assenza delle
prescritte autorizzazioni, siano esse specificamente
connesse alla normativa di tutela urbanistica ovvero siano
riferite a quella a garanzia del patrimonio paesaggistico ed
ambientale, devono essere qualificati come reati comuni e
non come reati a soggettività ristretta, va precisato che
siffatto principio cessa tuttavia di avere validità per quel
che concerne la posizione del direttore dei lavori, per il
quale deve, viceversa, ritenersi che la specifica qualifica
rivestita sia elemento necessario ai fini della integrazione
del reato, trattandosi, pertanto, limitatamente a tale
soggetto, di un reato proprio (Corte di cassazione, Sezione
III penale, 19/12/2007, n. 47083).
Nella specie, ai sensi dell'art. 29, comma 2, del dPR n. 380
del 2001, costituisce fattore esimente la penale
responsabilità del direttore dei lavori il fatto che questi
abbia rinunziato all'incarico conferitogli dalla committenza
dei lavori, segnalando contestualmente la irregolarità di
questi, non si è, parimenti, rilevato che, essendo venuto
meno l'incarico del direttore dei lavori per effetto della
intervenuta decadenza del permesso a costruire ai sensi
dell'art. 15 del dPR n. 380 del 2001, la sua responsabilità
non poteva essere collegata esclusivamente al mancato
rispetto dei doveri di diligenza connessi alla qualifica,
non più rivestita, di direttore dei lavori (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 04.03.2016 n. 9134 -
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ATTI AMMINISTRATIVI: I limiti alla retroattività della legge secondo il Consiglio
di Stato.
La retroattività della legge, sebbene
non costituzionalmente preclusa nelle materie diverse da
quella penale, richiede, tuttavia, una esplicita previsione
che renda chiara ed univoca la scelta del legislatore.
Il principio di irretroattività, invero, sebbene non
costituzionalizzato fuori dalla materia penale:
- rappresenta un principio generale dell’ordinamento, come
si desume dall’art. 11 della Preleggi che espressamente
statuisce che la «legge non dispone che per l’avvenire: essa
non ha effetto retroattivo»;
- trova un suo fondamento ulteriore nei principi di tutela
dell’affidamento e della certezza del diritto, la cui
crescente importanza è confermata anche dalla giurisprudenza
sovranazionale, tanto della Corte di giustizia quanto della
Corte europea per la tutela dei diritti dell’uomo;
- assume un rilievo ancora maggiore laddove la legge in
ipotesi retroattiva consente, come accade nel caso di
specie, l’adozione di provvedimenti sostanzialmente
ablatori, in grado di produrre nella sfera giuridica del
privato effetti fortemente negativi, che incidono tanto
sulla reputazione individuale (perché presuppongono
l’assenza dei requisiti di onorabilità) quanto sulla libertà
di iniziativa economica (perché precludono la titolarità di
partecipazioni al capitale di determinate società);
provvedimenti, quindi, in senso lato espropriativi, perché
sottraggono al soggetto che ne è destinatario un prerogativa
(la possibilità di essere titolari di rapporti di
partecipazione societaria oltre una certa soglia) che
attiene alla sua stessa capacità giuridica, dando luogo a
una forma di incapacità speciale.
In questo contesto è evidente che la scelta nel senso della
retroattività, sebbene non astrattamente preclusa al
legislatore, deve, tuttavia, essere esplicita e univoca.
La retroattività della legge (specie quando la legge fonda
il potere di adottare provvedimenti fortemente restrittivi
della sfera giuridica del privato) rappresenta, infatti,
un’eccezione e, come tale, deve essere esplicita, dovendosi,
in mancanza di una previsione univoca, optare per
l’interpretazione che esclude la retroattività, in
conformità ai richiamati principi generali dell’ordinamento
giuridico.
---------------
52. Va, peraltro,
evidenziato che gli elementi significativi della fattispecie
oggetto del presente giudizio si collocano tutti
anteriormente alla data di entrata in vigore delle nuove
norme che hanno esteso alla SP. i requisiti di onorabilità.
È anteriore, infatti, sia l’acquisto della partecipazione
sia la perdita del requisito di onorabilità.
La tesi sostenuta dalla sentenza appellata, secondo cui la
nuova disciplina troverebbe, comunque, applicazione, stante
l’inoperatività della norma transitoria di cui all’art. 2
d.m. n. 144 del 1998, presuppone, quindi, la natura
retroattività delle nuove disposizioni.
Al riguardo deve rilevarsi che la retroattività della legge,
sebbene non costituzionalmente preclusa nelle materie
diverse da quella penale, richiede, tuttavia, una esplicita
previsione che renda chiara ed univoca la scelta del
legislatore.
Il principio di irretroattività, invero, sebbene non
costituzionalizzato fuori dalla materia penale:
- rappresenta un principio generale dell’ordinamento, come
si desume dall’art. 11 della Preleggi che espressamente
statuisce che la «legge non dispone che per l’avvenire:
essa non ha effetto retroattivo»;
- trova un suo fondamento ulteriore nei principi di tutela
dell’affidamento e della certezza del diritto, la cui
crescente importanza è confermata anche dalla giurisprudenza
sovranazionale, tanto della Corte di giustizia quanto della
Corte europea per la tutela dei diritti dell’uomo;
- assume un rilievo ancora maggiore laddove la legge in
ipotesi retroattiva consente, come accade nel caso di
specie, l’adozione di provvedimenti sostanzialmente
ablatori, in grado di produrre nella sfera giuridica del
privato effetti fortemente negativi, che incidono tanto
sulla reputazione individuale (perché presuppongono
l’assenza dei requisiti di onorabilità) quanto sulla libertà
di iniziativa economica (perché precludono la titolarità di
partecipazioni al capitale di determinate società);
provvedimenti, quindi, in senso lato espropriativi, perché
sottraggono al soggetto che ne è destinatario un prerogativa
(la possibilità di essere titolari di rapporti di
partecipazione societaria oltre una certa soglia) che
attiene alla sua stessa capacità giuridica, dando luogo a
una forma di incapacità speciale.
In questo contesto è evidente che la scelta nel senso della
retroattività, sebbene non astrattamente preclusa al
legislatore, deve, tuttavia, essere esplicita e univoca.
La retroattività della legge (specie quando la legge fonda
il potere di adottare provvedimenti fortemente restrittivi
della sfera giuridica del privato) rappresenta, infatti,
un’eccezione e, come tale, deve essere esplicita, dovendosi,
in mancanza di una previsione univoca, optare per
l’interpretazione che esclude la retroattività, in
conformità ai richiamati principi generali dell’ordinamento
giuridico (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 03.03.2016 n. 882 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'art. 16 D.P.R. n. 380 del 2001 (e prima l’art.
11 della legge n. 10/1977) prevede per il rilascio del
permesso di costruire la corresponsione di un contributo
composto da due quote distinte: gli oneri di urbanizzazione,
che non sono dovuti se il titolare del permesso si obbliga a
realizzare direttamente tali opere, ed il costo di
costruzione che, invece, essendo una percentuale rapportata
non ad opere da fare per la collettività ma ai costi di
costruzione per tipologia edilizia, adeguati annualmente,
non sono suscettibili di entrare nel meccanismo dello
scomputo.
Tuttavia, una volta che il Comune, nell’esercizio della sua
ampia discrezionalità, ha consentito lavori di
urbanizzazione svolti direttamente dal beneficiario del
titolo edilizio, la loro realizzazione da parte dell’istante
ben può sostituire quanto dovuto per costo di costruzione.
L’indisponibilità di cui al citato art. 16, infatti, è nel
senso che essi sono previsti e quantificati per legge ma
nulla impedisce che la forma del pagamento, con
compensazione o meno, sia rimessa all’accordo delle parti.
La natura paratributaria di tale onere, se esclude ogni
disponibilità del quantum dovuto che ha criteri prefissati,
non impedisce cioè al Comune di negoziare tale importo per
altri precisi adempimenti urbanistici, quali infrastrutture
ed opere sociali e civiche.
L’art. 16 citato non costituisce, quindi, un impedimento ad
un eventuale accordo sostitutivo anche per il costo di
costruzione, né esso si pone come norma imperativa in senso
negativo solo perché lo scomputo è oggettivamente possibile
unicamente per gli oneri urbanistici; ciò spiega il perché
la norma si è limitata ad indicare i soli oneri urbanistici
come scomputabili, ma non è affatto possibile affermare che
sussiste un divieto tassativo per forme alternative di
pagamento e/o compensazione con opere urbanistiche anche per
i costi di costruzione.
-----------------
Il ricorso è
fondato.
A fronte del silenzio sostanzialmente serbato dal Comune di
Alghero rispetto alle richieste di rimborso ripetutamente
presentate dal sig. Co., il difensore del Comune giustifica
il mancato pagamento per cui è causa con una serie di
argomentazioni che risultano in contrasto con gli atti posti
in essere dallo stesso Comune di Alghero, sui quali si è
fondato l’affidamento dell’odierno ricorrente.
Risulta invero che, con nota del 27.07.2001, il Comune di
Alghero aveva determinato gli oneri concessori dovuti dal
sig. Co. in relazione alla pratica edilizia n. 2001/0448 in
complessivi euro 17.535,87.
La stessa nota determinativa degli oneri precisava, per
quanto qui interessa, quanto alle modalità di pagamento che:
- il totale della prima rata è pari a euro 5.260,76 (50%
oneri di urbanizzazione + 30% costo costruzione).
E’ incontestato che il sig. Co. ha provveduto al pagamento
dell’intero importo richiesto.
Al fine di definire l’urbanizzazione circostante il
fabbricato oggetto dei lavori di ristrutturazione, in data
09.07.2003 il ricorrente chiedeva al Comune l’assenso
all’esecuzione delle opere a parziale scomputo di quanto
dovuto per oneri concessori.
Come si ricava dalla relazione tecnica presentata, le opere
consistevano essenzialmente:
- nel rifacimento di un tratto di fognatura sulla via
Leopardi a cui era già precariamente allacciato il
fabbricato;
- nel rifacimento dei marciapiede in corrispondenza del
tratto della via Leopardi antistante il fabbricato;
- nella sostituzione delle alberature esistenti con essenze
meno invasive;
- nel rifacimento del manto bituminoso del tratto della via
Leopardi antistante il fabbricato.
A seguito di tale richiesta, visto il parere favorevole
della Commissione edilizia espresso nella seduta del
07.11.2003, il Comune di Alghero, accertato che i prezzi
utilizzati nell’elaborato contabile (computo metrico
estimativo) risultavano congrui rispetto a quanto previsto
dal prezziario regionale, autorizzava quanto richiesto
affidando al funzionario tecnico geom. Ca.Lo. l’alta
vigilanza sulla regolare esecuzione dei lavori.
Il sig. Co., quindi, realizzava le anzidette opere e con
nota del 24.03.2004, pervenuta al Comune di Alghero il
02.04.2004, comunicava l’ultimazione dei lavori.
Sostiene oggi il Comune di Alghero che lo scomputo richiesto
dal ricorrente non può essere riconosciuto perché ai sensi
dell’art. 11 della legge 28.01.1977 n. 10 esso riguarderebbe
solo la quota di contributo di cui al precedente art. 5
(concernente gli oneri di urbanizzazione) mentre, nella
specie, gli oneri dovuti per la concessione n. 303/2001
sarebbero riferiti esclusivamente ai costi di costruzione.
In tal senso depone anche la delibera del Consiglio comunale
n. 92 del 23.12.1999 richiamata nella concessione n.
381/2003.
L’errata indicazione nella nota del 27.07.2001, prosegue il
Comune, non sarebbe decisiva in quanto la somma richiesta
corrisponde esattamente a quanto dovuto a titolo di costo di
costruzione sulla base del valore totale del computo metrico
dei lavori da eseguire.
Come detto il ricorso merita accoglimento a prescindere da
eventuali errori commessi dal Comune di Alghero nella
qualificazione degli oneri richiesti.
L'art. 16 D.P.R. n. 380 del 2001 (e prima l’art. 11 della
legge n. 10/1977) prevede per il rilascio del permesso di
costruire la corresponsione di un contributo composto da due
quote distinte: gli oneri di urbanizzazione, che non sono
dovuti se il titolare del permesso si obbliga a realizzare
direttamente tali opere, ed il costo di costruzione che,
invece, essendo una percentuale rapportata non ad opere da
fare per la collettività ma ai costi di costruzione per
tipologia edilizia, adeguati annualmente, non sono
suscettibili di entrare nel meccanismo dello scomputo.
Tuttavia, una volta che il Comune, nell’esercizio della sua
ampia discrezionalità, ha consentito lavori di
urbanizzazione svolti direttamente dal beneficiario del
titolo edilizio, la loro realizzazione da parte dell’istante
ben può sostituire quanto dovuto per costo di costruzione.
L’indisponibilità di cui al citato art. 16, infatti, è nel
senso che essi sono previsti e quantificati per legge ma
nulla impedisce che la forma del pagamento, con
compensazione o meno, sia rimessa all’accordo delle parti.
La natura paratributaria di tale onere, se esclude ogni
disponibilità del quantum dovuto che ha criteri
prefissati, non impedisce cioè al Comune di negoziare tale
importo per altri precisi adempimenti urbanistici, quali
infrastrutture ed opere sociali e civiche.
L’art. 16 citato non costituisce, quindi, un impedimento ad
un eventuale accordo sostitutivo anche per il costo di
costruzione, né esso si pone come norma imperativa in senso
negativo solo perché lo scomputo è oggettivamente possibile
unicamente per gli oneri urbanistici; ciò spiega il perché
la norma si è limitata ad indicare i soli oneri urbanistici
come scomputabili, ma non è affatto possibile affermare che
sussiste un divieto tassativo per forme alternative di
pagamento e/o compensazione con opere urbanistiche anche per
i costi di costruzione (in termini: TAR Pescara 18.10.2010
n. 1142).
Nel caso di specie è avvenuto proprio questo.
Con la concessione n. 381/2003 il Comune di Alghero ha
sostanzialmente inteso rinunciare a quanto dovuto dal sig.
Co. a titolo di oneri concessori in cambio
dell’effettuazione di lavori di urbanizzazione.
Ne segue che la pretesa del ricorrente alla restituzione,
fino all’importo dei lavori svolti, per il quale il Comune
aveva espresso un giudizio di accettazione dei prezzi
utilizzati in quanto ritenuti congrui in base a quanto
previsto dal prezziario regionale, è fondata, con
conseguente condanna del Comune alla corresponsione del loro
importo.
Sotto questo profilo non rileva l’argomento per il quale gli
interventi realizzati sarebbero primariamente utili allo
stesso ricorrente in relazione ai lavori di ristrutturazione
effettuati in quanto, oltre al rilievo che la loro
realizzazione è stata espressamente consentita dal Comune,
si tratta comunque di opere fruibili dall’intera
collettività e non riservate all’uso esclusivo del sig. Co..
Di qui la condanna del Comune di Alghero al pagamento in
favore del sig. Sa.Co. della somma di euro 13.092,32.
Il ricorrente chiede anche il pagamento degli interessi
legali su detta somma.
Occorre quindi stabilire il dies a quo di tale
obbligo accessorio.
Va anzitutto precisato che il mancato esercizio del collaudo
non può risolversi a vantaggio dell’amministrazione inerte
perché ciò si tradurrebbe in un ingiusto sacrificio
economico a danno del privato.
Nel caso di specie il direttore dei lavori ha comunicato al
Comune di Alghero che i lavori erano terminati il 24.03.2004
(nota protocollata in arrivo al Comune di Alghero il
02.04.2004).
Con nota dell’11.01.2005 il ricorrente ha chiesto al
medesimo Comune di Alghero il collaudo delle opere (di tale
nota, peraltro, non viene fornita prova sulla data di
ricezione da parte dell’amministrazione).
Da questo momento è iniziata una ingiustificata inerzia
degli uffici comunali che si è protratta fino al 09.12.2006,
data in cui i tecnici comunali hanno provveduto ad eseguire
le operazioni di collaudo.
Inerzia tanto più ingiustificata nel rilievo che il Comune
aveva nominato un funzionario tecnico col compito proprio di
vigilare sulla corretta esecuzione dei lavori per cui è
causa.
In sostanza, quindi, merita accoglimento la richiesta di
interessi avanzata dal sig. Co. che dovranno essere
quantificati sulla somma da restituire come sopra
determinata a decorrere dal 10.04.2006, data nella quale
risulta che il sig. Co., con raccomandata r.r., ha
formalmente comunicato al Comune di Alghero di essere pronto
a porre in essere ogni adempimento necessario
all’effettuazione del collaudo.
In conclusione, quindi, il ricorso merita accoglimento nei
sensi sopra precisati
(TAR Sardegna,
Sez. II,
sentenza 01.03.2016 n. 193 -
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PUBBLICO IMPIEGO: Buoni pasto illegittimamente distribuiti: gli enti locali
non possono attivare il recupero per equivalente monetario.
Invero le citate condivisibili decisioni
hanno stigmatizzato l’iniziativa recuperatoria intrapresa
dall’amministrazione in quanto è stato “del tutto obliterato
di considerare la struttura e funzione dei buoni-pasto,
sostitutivi della fruizione gratuita del servizio mensa
presso la sede di lavoro ed escludenti «ogni forma di
monetizzazione indennizzante» (v. così, testualmente,
l’accordo quadro del 31.10.2003).
Infatti, a prescindere dalla natura assistenziale o
retributiva dell’istituto in questione, è decisivo rimarcare
che, nel caso di specie, i dipendenti non hanno percepito
somme in denaro, bensì titoli non monetizzabili destinati
esclusivamente ad esigenze alimentari in sostituzione del
servizio mensa e, per tale causale, pacificamente spesi nel
periodo di riferimento, e che, pertanto, si tratta di
benefici destinati a soddisfare esigenze di vita primarie e
fondamentali dei dipendenti medesimi, di valenza
costituzionale, con conseguente inconfigurabilità di una
pretesa restitutoria, per equivalente monetario, del maggior
valore attribuito ai buoni-pasto nel periodo di
riferimento.”
Tale approdo ha così dato continuità e consolidato un
precedente, conforme, opinamento della giurisprudenza
amministrativa di merito che aveva valorizzato il “principio
giurisprudenziale secondo il quale la buona fede del
lavoratore non può essere invocata ad impedimento per
l’Amministrazione per procedere al recupero di un indebito,
dato che questo principio, sia pure valido per le somme
percepite a titolo di retribuzione, non può essere applicato
per le somme elargite a titolo assistenziale, soprattutto
nel caso di specie in cui i lavoratori non hanno percepito
somme ma titoli idonei ad essere spesi unicamente per
esigenze alimentari nel periodo di riferimento, in
sostituzione del servizio mensa.”
---------------
FATTO
Con la sentenza n. 9093/2013 in epigrafe impugnata il
Tribunale amministrativo regionale del Lazio ha scrutinato
il ricorso (proveniente da trasposizione di ricorso
straordinario), con il quale gli odierni appellanti avevano
gravato i provvedimenti attuativi di recupero dei buoni
pasto emessi tra il 19/8 e il 19/10/2011, aventi ad oggetto
le esecuzioni della Ordinanza Commissariale n. 297 del
13/06/2011, della Determinazione Direttoriale n. 130 del
19/07/2011, della Determinazione Dipartimentale n. 122 del
04/08/2011, in quanto atti presupposti di contenuto
dispositivo determinativo dei singoli provvedimenti
attuativi di recupero dei suddetti buoni pasto.
In punto di fatto era accaduto che con ordinanza n. 297 del
13/06/2011 il Commissario Straordinario aveva dato mandato
al Direttore Generale di procedere alla nomina della
responsabile del procedimento di recupero dei buoni pasto
del personale appartenente al Corpo Militare C.R.I.; il
successivo 19/07/2011, con Determinazione Direttoriale n.
130, il Direttore Generale aveva nominato responsabile del
procedimento di recupero dei buoni pasto il Capo
Dipartimento Risorse Umane e quest’ultimo con Determinazione
Dipartimentale n. 122 del 04/08/2011 aveva avviato il
procedimento di recupero delle suddette somme: nei confronti
di tutti gli originari ricorrenti era stato quindi disposto
il recupero dei buoni pasto percepiti.
Gli odierni appellanti erano quindi insorti, sostenendo che
i buoni pasto avessero natura fungibile e meramente
assistenziale e non retributiva e che, conseguentemente, le
dette erogazioni non fossero ripetibili.
Il Tar non ha condiviso tale tesi ed ha in primo luogo
puntualizzato che, a suo avviso, considerato che gli
originari ricorrenti non erano dipendenti civili dell’ente
pubblico Croce Rossa Italiana, bensì appartenenti al Corpo
Militare della stessa (il personale in servizio acquisiva lo
status di “militare” ed era “sottoposto alle norme
della disciplina militare e dei codici penali militari”
ex art. 1653 del D.Lgs. n. 66/2010) non erano a costoro
applicabili le disposizioni e i principi riguardanti gli
impiegati civili dello Stato e delle altre Amministrazioni
pubbliche (cfr. TAR Lazio, n. 464/1998).
Nel merito, ha scrutinato i motivi di censura contenuti
nell’atto introduttivo del giudizio e li ha respinti in
quanto infondati, sostenendo che la contestata iniziativa
recuperatoria si presentasse come un atto dovuto a
prescindere dalla natura retributiva o assistenziale delle
predette somme.
Ci si trovava infatti al cospetto –ad avviso del Tar- di un
indebito oggettivo, erogato illegittimamente ed il recupero
aveva natura di atto dovuto ex art. 2033 c.c..
Irrilevanti, erano –secondo il primo giudice- i principi di
“affidamento” e di “buona fede”, invocabili
soltanto in ordine al quomodo del recupero e del pari
ricorreva il requisito dell’“interesse pubblico” specifico
che deve caratterizzare il provvedimento di recupero, insito
nell’acclaramento della non spettanza degli emolumenti
percepiti dal dipendente.
Anzi, il diritto dell’Amministrazione al recupero delle
somme rientrava tra i diritti soggettivi irrinunciabili e,
posto che l’azione recuperatoria era stata congruamente
motivata, l’azione amministrativa era immune dai lamentati
vizi.
Il mezzo è stato quindi integralmente disatteso.
Gli originari ricorrenti rimasti soccombenti hanno impugnato
la detta decisione, criticando la tesi con la quale era
stata affermata la ripetibilità delle somme erogate.
Ripercorso l’iter del contenzioso, anche infraprocedimentale,
intercorso hanno sostenuto che l’iniziativa recuperatoria
fosse del tutto illegittima, anche in relazione alla natura
(non retributiva, ma assistenziale) della “prestazione”
erogata dall’Amministrazione.
Con memoria depositata l’11/11/2015 gli appellanti hanno
chiesto la sospensione della provvisoria esecutività della
gravata decisione, hanno rammentato che sulla vicenda de quo
la giurisprudenza amministrativa si è di recente pronunciata
in senso conforme alla loro pretesa ed hanno chiesto che la
controversia venga decisa con sentenza succintamente
motivata.
Alla odierna camera di consiglio del 14.01.2016 fissata per
la delibazione del petitum cautelare la causa è stata
trattenuta in decisione dal Collegio.
DIRITTO
1. Stante la completezza del contraddittorio, la non
necessità di disporre incombenti istruttori e la mancata
opposizione delle parti, espressamente rese edotte dal
Collegio della possibilità di immediata definizione nel
merito della causa, l’appello può essere effettivamente
deciso nel merito.
1.1. Esso è fondato e va accolto, conformemente al recente
orientamento della giurisprudenza (Consiglio di Stato sez.
VI sent. nn. 5314/2014 e 5315/2014).
2. Invero le citate condivisibili decisioni hanno
stigmatizzato l’iniziativa recuperatoria intrapresa
dall’amministrazione in quanto è stato “del tutto
obliterato di considerare la struttura e funzione dei
buoni-pasto, sostitutivi della fruizione gratuita del
servizio mensa presso la sede di lavoro ed escludenti «ogni
forma di monetizzazione indennizzante» (v. così,
testualmente, l’accordo quadro del 31.10.2003). Infatti, a
prescindere dalla natura assistenziale o retributiva
dell’istituto in questione, è decisivo rimarcare che, nel
caso di specie, i dipendenti non hanno percepito somme in
denaro, bensì titoli non monetizzabili destinati
esclusivamente ad esigenze alimentari in sostituzione del
servizio mensa e, per tale causale, pacificamente spesi nel
periodo di riferimento, e che, pertanto, si tratta di
benefici destinati a soddisfare esigenze di vita primarie e
fondamentali dei dipendenti medesimi, di valenza
costituzionale, con conseguente inconfigurabilità di una
pretesa restitutoria, per equivalente monetario, del maggior
valore attribuito ai buoni-pasto nel periodo di riferimento.”
2.1. Tale approdo ha così dato continuità e consolidato un
precedente, conforme, opinamento della giurisprudenza
amministrativa di merito (Tar Piemonte, sentenza n.
1436/2009) che aveva valorizzato il “principio
giurisprudenziale secondo il quale la buona fede del
lavoratore non può essere invocata ad impedimento per
l’Amministrazione per procedere al recupero di un indebito,
dato che questo principio, sia pure valido per le somme
percepite a titolo di retribuzione, non può essere applicato
per le somme elargite a titolo assistenziale, soprattutto
nel caso di specie in cui i lavoratori non hanno percepito
somme ma titoli idonei ad essere spesi unicamente per
esigenze alimentari nel periodo di riferimento, in
sostituzione del servizio mensa.”
Esso è pienamente condiviso dal Collegio ed è peraltro
conforme a quello raggiunto in subiecta materia dalla
giurisprudenza civile (ex aliis, Corte appello Ancona
27/12/2006 n. 521).
3. Le superiori considerazioni rivestono (come è evidente,
in quanto escludono oggettivamente l’an della
ripetibilità di importi erogati in forma di “buoni-pasto")
portata troncante e militano -con portata assorbente- per la
riforma della gravata decisione e l’accoglimento del mezzo
di primo grado con conseguente annullamento degli atti
gravati.
Le questioni vagliate esauriscono la vicenda sottoposta alla
Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a
norma dell’art. 112 c.p.c., in aderenza al principio
sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e pronunciato
(come chiarito dalla giurisprudenza costante, ex plurimis,
per le affermazioni più risalenti, Cassazione civile, sez.
II, 02.03.1995 n. 3260 e, per quelle più recenti, Cassazione
civile, sez. V, 16.05.2012 n. 7663) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 29.02.2016 n. 850 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Durc, regolarità permanente. Negli appalti è
irrilevante la regolarizzazione postuma.
Il Consiglio di stato, con due sentenze
consecutive, sconfessa il ministero del lavoro.
Negli appalti pubblici la regolarizzazione postuma della
posizione previdenziale non è ammessa.
È quanto afferma il Consiglio di Stato, riunito in Adunanza
plenaria, in due sentenze consecutive,
la
sentenza 29.02.2016 n. 5 e
sentenza 29.02.2016 n. 6.
Secondo il massimo organo di giurisdizione
amministrativa, difatti, l'impresa che partecipa alla gara
pubblica deve essere in regola con l'assolvimento degli
obblighi previdenziali e assistenziali fin dalla
presentazione dell'offerta e conservare tale stato per tutta
la durata della procedura di aggiudicazione e del rapporto
con la stazione appaltante.
Si ricorda che il Durc è il certificato che,
contemporaneamente attesta la regolarità contributiva di un
operatore economico nei confronti dell'Inps, dell'Inail e
della Cassa edile (con riguardo alle sole imprese
appartenenti al settore edile).
Questo certificato è necessario, fra l'altro, per la
partecipazione ai pubblici appalti.
Il dm 30/01/2015 ha introdotto un profondo rinnovamento della
disciplina di riferimento prevedendo che dal 01.07.02015
la verifica della regolarità contributiva avvenga, fatte
salve alcune eccezioni, via web e in tempo reale (c.d. Durc
online).
Assenza di regolarità.
Il recente regolamento, riprendendo
la previsione dell'art. 31, comma 8, del dl n. 69/2013, ha
previsto che in tutti i casi in cui l'interrogazione non
fornisca l'esito di regolarità gli istituti devono invitare,
prima dell'emissione del Durc negativo, il soggetto
interessato a regolarizzare, entro il termine di 15 giorni,
la riscontrata non conformità indicando analiticamente le
cause d'irregolarità.
Il contrasto giurisprudenziale.
Con due distinte ordinanze
la quarta sezione del Cds ha rimesso alla Adunanza plenaria
la questione se l'obbligo degli istituti previdenziali di
invitare l'interessato alla regolarizzazione del Durc (c.d.
preavviso di Durc negativo) sussista anche nel caso in cui
la richiesta provenga dalla stazione appaltante in sede di
verifica della dichiarazione resa dall'impresa ai sensi
dell'art. 38, comma 1, lett. i) del dlgs n. 163/2006 (codice
dei contratti pubblici).
In altri termini viene chiesto all'Adunanza se la mancanza
dell'invito alla regolarizzazione impedisca di considerare
come «definitivamente accertata» la situazione di
irregolarità contributiva.
Al riguardo, difatti, sussistevano sulla questione due
orientamenti giurisprudenziali contrastanti: un primo
orientamento (tradizionale ma risalente), secondo il quale
l'invito alla regolarizzazione non si applica in caso di
Durc richiesto dalla stazione appaltante, atteso che
l'obbligo degli istituti di attivare la procedura di
regolarizzazione stride coi principi in tema dì procedure di
evidenza pubblica che non ammettono regolarizzazioni
postume; un secondo orientamento (minoritario ma più
recente) afferma, invece, che l'obbligo degli istituti
previdenziali di invitare l'interessato alla
regolarizzazione sussiste anche ove la richiesta sia fatta
in sede di verifica da parte della stazione appaltante.
A sostegno di quest'ultima ipotesi si valorizza la novità
rappresentata dall'art. 31, comma 8, del dl n. 69/2013 che,
secondo la tesi in esame, avrebbe implicitamente ma
sostanzialmente modificato il suddetto art. 38 del codice,
con la conseguenza che l'irregolarità contributiva potrebbe
considerarsi definitivamente accertata solo alla scadenza
del termine di quindici giorni assegnato dall'ente
previdenziale per la regolarizzazione della posizione
contributiva.
La sezione rimettente evidenzia come tale soluzione
interpretativa sia stata pure recepita dall'art. 4 del dm
30/1/2015 e dalla successiva circolare interpretativa n.
19/2015 del ministero del lavoro.
La decisione.
L'Adunanza plenaria del Cds, per mezzo delle
citate sentenze, ha risolto la disputa fondando la propria
decisione sulle seguenti motivazioni:
• nel comma 8 dell'art. 31 del dl 69/2013 manca qualsiasi
riferimento alla disciplina dell'evidenza pubblica o dei
contratti pubblici e in particolare all'art. 38, comma 1,
lett. i), ovvero la disposizione che prevede come causa
ostativa della partecipazione l'aver commesso «violazioni
gravi e definitivamente accertate, alle norme in materia di
contributi previdenziali e assistenziali» il quale non può,
dunque, considerarsi né implicitamente modificato né
tantomeno abrogato; pertanto l'invito alla regolarizzazione
è un istituto estraneo alla disciplina dell'aggiudicazione e
dell'esecuzione dei contratti pubblici;
• l'invito alla regolarizzazione costituisce una sorta di
preavviso di rigetto la cui applicazione, prevista dall'art.
10-bis della legge n. 241/1990, è espressamente esclusa
nell'ambito delle procedure concorsuali;
• la possibilità generalizzata di sanatoria (della falsa
dichiarazione e della mancanza del requisito sostanziale)
darebbe vita ad una palese violazione del principio della
parità di trattamento e dell'autoresponsabilità dei
concorrenti, in forza del quale ciascuno di essi sopporta le
conseguenze di errori, omissione e, a fortiori, delle
falsità, commesse nella formulazione dell'offerta e nella
presentazione delle dichiarazioni; difatti, arguisce
l'Adunanza, è fin troppo evidente che la «regolarizzazione
postuma» finirebbe per consentire ad una impresa di
partecipare alla gara senza preoccuparsi dell'esistenza a
proprio carico di una irregolarità contributiva, potendo
essa confidare sulla possibilità di sanare il proprio
inadempimento in caso di aggiudicazione (e, quindi, a
seconda della convenienza);
• in tal senso la Plenaria condivide e fa proprie le
conclusioni indicate nella determinazione n. 1/2015 dell'Anac
secondo la quale il nuovo istituto del soccorso istruttorio
«non può, in ogni caso, essere strumentalmente utilizzato
per l'acquisizione, in gara, di un requisito o di una
condizione di partecipazione, mancante alla scadenza del
termine di presentazione dell'offerta»;
• se fosse resa praticabile la regolarizzazione postuma
verrebbe consentita, al soggetto che abbia perso e poi
riacquisito il requisito della regolarità contributiva, di
conseguire l'aggiudicazione in violazione del «principio di
continuità» (cfr. Cons. stato, Ad. plen. 20.07.2014, n.
8), secondo il quale il possesso dei requisiti non può
essere perso dal concorrente neanche temporaneamente nel
corso della procedura;
• le sentenze in esame, infine, affermano che la
regolarizzazione postuma sarebbe pure contraria alla
giurisprudenza comunitaria (cfr. Cge pronuncia del 9/2/1996,
in cause riunite C-226/04 e C-228/04) la quale ha già da
tempo affermato che «la sussistenza del requisito della
regolarità fiscale e contributiva (che, pure, può essere
regolarizzato in base a disposizioni nazionali di
concordato, condono o sanatoria) deve comunque essere
riguardata con riferimento insuperabile al momento ultimo
per la presentazione delle offerte, a nulla rilevando una
regolarizzazione successiva la quale, pertanto, non potrà in
alcun modo incidere sul dato dell'irregolarità ai fini della
singola gara».
In base alle ragioni esposte l'Adunanza plenaria del
Consiglio di stato ha così risolto il precedente contrasto
affermando che anche dopo l'entrata in vigore dell'art. 31,
comma 8, del dl n. 69/2013 (conv. dalla legge 09.08.2013,
n. 98), non sono consentite regolarizzazioni postume della
posizione previdenziale, dovendo l'impresa essere in regola
con l'assolvimento degli obblighi previdenziali e
assistenziali fin dalla presentazione dell'offerta e
conservare tale stato per tutta la durata della procedura di
aggiudicazione e del rapporto con la stazione appaltante,
restando dunque irrilevante, un eventuale adempimento
tardivo dell'obbligazione contributiva.
L'istituto
dell'invito alla regolarizzazione (il c.d. preavviso di Durc
negativo), previsto a livello legislativo dall'art. 31,
comma 8, del dl n. 69/2013 e regolamentato dal dm
30/01/2015, può operare solo nei rapporti tra impresa ed
ente previdenziale, ossia con riferimento al Durc chiesto
dall'impresa e non anche al Durc richiesto dalla stazione
appaltante per la verifica della veridicità
dell'autodichiarazione resa ai sensi dell'art. 38, comma 1,
lett. i) ai fini della partecipazione alla gara d'appalto.
---------------
Doppio binario per la verifica.
La Plenaria, nella
sentenza 29.02.2016 n. 5, ha ribadito che
l'incameramento della cauzione provvisoria previsto
dall'art. 48 del Codice dei contratti pubblici, costituisce
una conseguenza automatica del provvedimento di esclusione,
come tale non suscettibile di alcuna valutazione
discrezionale con riguardo ai singoli casi concreti.
Non v'è dubbio che, di fatto, la decisione presa dal
Consiglio di stato vanifichi parzialmente i recenti
interventi legislativi di semplificazione finalizzati, fra
l'altro, a consentire il superamento dei vincoli che in
precedenza avevano limitato l'efficacia e l'utilizzo del
certificato in parola con riferimento al richiedente e al
singolo procedimento o fase del contratto, affermando così
il c.d. principio di unicità del Durc (sancito pure
dall'Inps nella circolare n. 126/2015).
La posizione così assunta impone, quindi, la necessità di
rivedere la procedura delineata nel decreto del ministero
del lavoro del 30/01/2015.
In futuro gli istituti dovranno, come già accadeva in
passato, utilizzare un doppio binario per la verifica della
regolarità contributiva:
- per gli appalti pubblici l'accertamento andrà
cristallizzato alla data che, di volta in volta, la stazione
appaltante dovrà espressamente indicare nella richiesta del Durc (indicazione che, peraltro, la procedura online
attualmente non prevede);
- per gli altri utilizzi (es. appalti privati in edilizia,
accesso a benefici e sovvenzioni ecc.) gli istituti, in caso
di riscontrata irregolarità, inviteranno, invece, il
soggetto interessato a regolarizzare la riscontrata non
conformità con conseguente emissione, in caso d'intervenuta
regolarizzazione, del Durc online.
In una prospettiva di armonizzazione, e al fine di
semplificare la procedura di rilascio del certificato,
sarebbe quindi auspicabile un intervento legislativo che,
magari nel corpo normativo dell'ormai imminente nuovo codice
dei contratti pubblici, contempli l'istituto dell'invito
alla regolarizzazione anche per le gare d'appalto,
tamponando così la breccia aperta dalla decisione del
Consiglio di stato
(articolo ItaliaOggi Sette del 21.03.2016). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
L'amministrazione deve motivare le decisioni
sulla Ztl. Tar Abruzzo.
Contrordine: la Ztl del centro storico resterà aperta alle
auto sabato pomeriggio, diversamente che in passato. Lo
stabilisce il sindaco, ma l'amministrazione locale non
fornisce una spiegazione della decisione adottata, tanto che
l'ordinanza è annullata per mancanza di motivazione.
Anche i
provvedimenti che disciplinano le zone a traffico veicolare
limitato, infatti, devono rendere conto dell'impatto che la
nuova regolamentazione avrà sulla circolazione e la
sicurezza nell'area, oltre che sull'ambiente e la salute dei
cittadini che vi abitano.
È quanto emerge dalla
sentenza
26.02.2016 n. 62, pubblicata dal TAR
Abruzzo-Pescara.
Impatto ambientale
- Accolto sul punto il ricorso proposto
da un gruppo di residenti e da un'associazione. Il sindaco
riduce i paletti della Ztl: lo stop alle auto scatta solo la
domenica pomeriggio e non più anche il sabato dalle ore 17
alle 20. Su questo fronte il comune è inattaccabile.
L'ordinanza risulta invece carente sull'apertura della Ztl
perché non dà conto dell'istruttoria svolta prima della
decisione che ha portato alla deregulation.
Il provvedimento del sindaco, infatti, si limita a
richiamare la vecchia regolamentazione dell'area senza
indicare i motivi che hanno portato alla modifica né
prefigurare l'impatto della decisione sul territorio e sul
patrimonio culturale e ambientale del centro storico. Spese
di giudizio compensate
(articolo ItaliaOggi del 26.03.2016).
---------------
MASSIMA
4 – Alla stessa conclusione non può pervenirsi riguardo
all’ordinanza 323/2015, con cui si è disposto “di
aggiornare la disciplina delle aree pedonali – zone a
traffico limitato – zone di sosta con disco orario –
parcheggi a pagamento” nonché “di integrare ai sensi
dell’art. 7 commi 8-11, del vigente C.d.S. le zone di
rilevanza urbanistica (ZRU) nelle aree Pescara “Centro” e
“Centro Storico”, già individuate con delibera di G.C. n.
136/2013 e s.m.i…”, oggetto del giudizio nella parte in
cui dispone in merito alla ZTL 3 con i seguenti orari “domenica
e festivi: 16.00-20.00” con sospensione della stessa per
il periodo dall’8 dicembre al 6 gennaio.
È pacifico tra le parti che effetto del provvedimento è che
la ZTL non è operante, a differenza della precedente
regolamentazione, il sabato pomeriggio dalle 17 alle 20
(cfr. relazione dell’ufficio, pag. 4).
Va osservato che
l’ordinanza non fornisce alcuna motivazione sul punto né dà
indicazioni dell’attività istruttoria svolta ai fini della
determinazione assunta, limitandosi a richiamare atti
pregressi senza evidenziare le ragioni che hanno reso
opportuno la loro modifica nel senso indicato.
La materia è regolata dall’art. 7, comma 9, del Codice della
Strada, a norma del quale “I comuni, con deliberazione
della giunta, provvedono a delimitare le aree pedonali e le
zone a traffico limitato tenendo conto degli effetti del
traffico sulla sicurezza della circolazione, sulla salute,
sull'ordine pubblico, sul patrimonio ambientale e culturale
e sul territorio. In caso di urgenza il provvedimento potrà
essere adottato con ordinanza del sindaco, ancorché di
modifica o integrazione della deliberazione del giunta”.
Tralasciando ogni rilievo in ordine al riparto delle
competenze tra Giunta e Sindaco, non essendovi specifiche
deduzioni al riguardo, va osservato che
è la stessa norma che delinea il quadro degli interessi che
l’amministrazione deve prendere in considerazione allorché
adotta provvedimenti in materia (“…tenendo conto degli
effetti del traffico sulla sicurezza della circolazione,
sulla salute, sull'ordine pubblico, sul patrimonio
ambientale e culturale e sul territorio”).
Era perciò necessario che l’Amministrazione desse conto
delle valutazioni effettuate in ordine all’incidenza delle
nuove misure sugli interessi pubblici sottesi alla
istituzione e disciplina della ZTL in questione.
La carenza di ogni motivazione sul punto, che non può essere
supplita dalle deduzioni difensive ed essendo comunque
irrilevante sulla legittimità dell’atto la circostanza che
l’Amministrazione abbia “in programma l’attuazione di
alcuni interventi strutturali sulla viabilità della zona di
Viale Regina Margherita”, conduce all’accoglimento del
motivo nella parte diretta contro l’ordinanza 323/2015. |
URBANISTICA:
L’impugnazione di strumenti urbanistici generali,
quale è il PGT, esclude l’esistenza di controinteressati, da
intendersi questi ultimi come soggetti individuati o
facilmente individuabili nel provvedimento impugnato, aventi
uno specifico e diretto interesse alla conservazione del
medesimo e quindi al rigetto del ricorso.
---------------
1.1 Il resistente
eccepisce dapprima l’inammissibilità del ricorso, ai sensi
dell’art. 41 del D.Lgs. 104/2010 (“Codice del processo
amministrativo” o c.p.a.), per omessa notificazione del
medesimo ad un controinteressato, da individuarsi nell’ente
pubblico proprietario del terreno condotto in affitto
agrario dall’esponente.
L’eccezione è infondata, in quanto l’impugnazione di
strumenti urbanistici generali, quale è il PGT, esclude
l’esistenza di controinteressati, da intendersi questi
ultimi come soggetti individuati o facilmente individuabili
nel provvedimento impugnato, aventi uno specifico e diretto
interesse alla conservazione del medesimo e quindi al
rigetto del ricorso (sulla nozione di “controinteressato”,
si veda, fra le tante, TAR Toscana, sez. I, 16.03.2015, n.
396).
Sull’inesistenza di controinteressati, in caso di
impugnazione di un atto generale quale è il Piano Regolatore
Generale (ora, nella Regione Lombardia, PGT), si veda, fra
le più recenti: Consiglio di Stato, sez. IV, 07.05.2015, n.
2316, con la giurisprudenza ivi richiamata
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 23.02.2016 n. 374 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Alla luce dell’evoluzione della giurisprudenza
amministrativa in materia, la normativa in materia di VAS
non impone una rigorosa separazione fra Autorità competente
e procedente, potendo le stesse essere scelta anche fra
articolazioni o organi della stessa amministrazione, anche
in caso di strutture amministrative di piccole dimensione,
come quelle di molti comuni.
---------------
2.1 Nel primo motivo
di ricorso, viene denunciata la violazione di una pluralità
di norme –di carattere comunitario, statale e regionale–
riguardante la disciplina della VAS (Valutazione Ambientale
Strategica, di cui alla direttiva 2001/42/CE), in quanto
sarebbe illegittima la scelta dell’Autorità competente e di
quella procedente per la VAS, individuate rispettivamente
nel Responsabile del Servizio Urbanistica del Comune di
Livraga e nel Sindaco del Comune stesso (cfr. i documenti 2
e 4 del ricorrente).
A detta dell’esponente, infatti, il rapporto di
subordinazione esistente fra il Responsabile del Servizio ed
il Sindaco finirebbe per ledere l’autonomia e l’indipendenza
di valutazione del primo, con conseguente lesione delle
garanzie di imparzialità e terzietà della valutazione
ambientale.
La doglianza deve reputarsi infondata, alla luce
dell’evoluzione della giurisprudenza amministrativa in
materia, a partire dalla pronuncia del Consiglio di Stato
sez. IV, 12.01.2011, n. 133, secondo cui la normativa in
materia di VAS non impone una rigorosa separazione fra
Autorità competente e procedente, potendo le stesse essere
scelta anche fra articolazioni o organi della stessa
amministrazione, anche in caso di strutture amministrative
di piccole dimensione, come quelle di molti comuni (cfr.,
fra le più recenti, Consiglio di Stato, sez. IV, 17.09.2012,
n. 4926 e TAR Liguria, sez. I, 21.11.2013, n. 1404)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 23.02.2016 n. 374 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
È illegittimo il silenzio-rifiuto delle Poste.
Tar Piemonte.
Il destinatario della raccomandata a/r ha perso la busta e
ora non sa più che data porta la lettera speditagli
dall'assicurazione. Il punto è che l'informazione è
fondamentale per dimostrare che nel frattempo è intervenuta
la prescrizione nella relativa controversia: risulta dunque
illegittimo il silenzio-rifiuto serbato in materia dalle
Poste, che dovranno invece consegnare entro un mese
all'interessato la copia dei registri di consegna da cui si
evincono la data e il numero di identificazione del plico. E
ciò anche se per gli uffici della Spa questo impone una
ricerca ad hoc, anche laboriosa.
È quanto emerge dalla
sentenza
18.02.2016 n. 207, pubblicata dalla I Sez. del TAR Piemonte.
Elaborazione esclusa
- Accolto il ricorso dell'utente che ha diritto all'accesso
ai documenti in base alla legge sulla trasparenza. È
evidente che Poste Italiane non può rispondere a ogni utente
che smarrisce la busta dalla raccomandata col relativo
timbro di spedizione.
L'interesse qualificato che consente l'ostensione dei
documenti, nel caso specifico, è proprio la sussistenza di
una controversia giudiziaria per la quale la data della
lettera inviata dall'assicurazione assume un valore
dirimente rispetto all'estinzione del diritto azionato.
E in effetti Poste ben può provvedere perché l'utente non
chiede un'attività che consiste in un'elaborazione di dati
ma soltanto una ricerca, per quanto non semplice, che si
risolve nel consultare il registro, estrarre il dato
richiesto e poi fare semplicemente la fotocopia della pagine
in cui sono stati trascritti i dati
(articolo ItaliaOggi del 26.03.2016).
---------------
MASSIMA
Il ricorso è fondato, nei limiti che verranno precisati.
Va premesso che la ricorrente chiede l’accesso ad una
raccomandata, al fine di dimostrare l’intervenuta
interruzione dei termini di prescrizioni nell’ambito di una
causa in materia assicurativa.
Ricopre quindi una posizione qualificata all'esercizio del
diritto di accesso, a tutela di un interesse evidentemente
funzionale ad una eventuale azione giudiziaria.
Va ricordato che,
secondo l’orientamento prevalente, l’accesso deve avere un
oggetto determinato o quanto meno determinabile; la domanda
non può essere generica e deve riferirsi a specifici
documenti senza necessità di un'attività di elaborazione di
dati da parte del soggetto destinatario della richiesta.
Se non può in linea di principio pretendersi che l’istante
in sede di accesso agli atti indichi specifici dati (quali
il numero di protocollo e la data di formazione di un atto)
non in suo possesso, deve in ogni caso rilevarsi come
l'Amministrazione, in detta sede, sia tenuta a produrre
documenti individuati in modo sufficientemente preciso e
circoscritto e non anche a compiere attività di ricerca ed
elaborazione degli stessi.
Ciò al fine di coniugare il diritto alla trasparenza con
l'esigenza di non pregiudicare, attraverso un improprio
esercizio del diritto di accesso, il buon andamento
dell'Amministrazione, riversando sulla stessa l'onere di
reperire documentazione inerente un determinato segmento di
attività.
Richieste generiche, infatti, sottoporrebbero
l'Amministrazione a ricerche incompatibili sia con la
funzionalità dei plessi, sia con l'economicità e la
tempestività dell'azione amministrativa.
In altri termini,
a prescindere dalla specifica indicazione della data e del
numero di protocollo attribuito agli atti richiesti, non v’è
dubbio come l'accesso non possa costringere
l'Amministrazione ad attività di elaborazione dati, di guisa
che la relativa istanza non può essere generica,
eccessivamente estesa o riferita ad atti non specificamente
individuati.
Nel caso di specie la difficoltà risiede proprio nel fatto
che la ricorrente chiede copia di un documento, proprio
perché interessata a conoscere i dati identificativi dello
stesso, mentre l’Amministrazione ritiene di non poter
risalire all’atto senza detti elementi identificativi.
Si poneva quindi in capo all’Amministrazione l’obbligo di
avviare una ricerca, presumibilmente consultando un registro
in cui sono trascritti giornalmente i dati della
corrispondenza (mittente, destinatario, data di consegna),
quindi di porre in essere una attività non di elaborazione,
ma di ricerca, consistente nel consultare il registro,
estrarre il dato richiesto, anche effettuando semplicemente
la fotocopia della pagine in cui sono stati trascritti i
dati.
In tal senso probabilmente la domanda di accesso poteva
essere soddisfatta, poiché non richiedeva una attività di
elaborazione di dati, ma solo una attività di ricerca, fase
connaturale ad ogni domanda di accesso.
Per tale ragione il ricorso va accolto, poiché il diniego
all’accesso è illegittimo in quanto sorretto da un interesse
giuridicamente rilevante e diretto ad ottenere un atto, il
cui rinvenimento non implica una attività elaborativa. |
VARI:
Anche la Cassazione striglia i call center sulle
chiamate mute. Dopo l'intervento del Garante una sentenza
ferma le telefonate generate automaticamente.
Stop alle telefonate mute: sono fuorilegge. Anche per la
Corte di Cassazione - Sez. I civile, che con la
sentenza 04.02.2016 n. 2196 bacchetta i call
center che utilizzano lo stratagemma dell'overbooking di
chiamate telefoniche. Ossia, un sistema automatizzato chiama
più numeri di quanti siano gli operatori disponibili, per
evitare tempi morti.
Così, a volte, c'è un utente in linea ma nessun addetto del
call center pronto a parlare. Il risultato è un trattamento
dei dati (il numero del chiamato) non corretto: perché
disturbare qualcuno e farlo stare in attesa e nell'ansia di
non sapere chi c'è all'altro capo del filo? Ma non si tratta
solo di una scorrettezza, si tratta di una vera e propria
illegittimità. Lo ha detto il Garante della privacy e lo ha
confermato la corte suprema, che ha convalidato una
decisione del collegio presieduto da Antonello Soro.
La pronuncia ha rilevato l'effettuazione delle chiamate
multiple attraverso un sistema, definito predictive. Esiste
cioè un compositore numerico che connette gli operatori (a
quei numeri che danno risposta positiva. In caso di minor
numero di operatori rispetto alle risposte positive, però,
il destinatario, proprio in considerazione della prescelta
modalità, è esposto al rischio di non ricevere risposta alla
chiamata. Il Garante della privacy ha ritenuto questo
sistema contrario ai principi del codice della privacy:
secondo gli articoli 4 e 11 del Codice della privacy, i dati
personali vanno gestiti rispettando i canoni della
correttezza, pertinenza e non eccedenza rispetto alle
finalità del loro utilizzo.
Anche i giudici hanno ritenuto scorretta la modalità di
trattamento del dato messa in atto dal sistema di
telemarketing, in quanto tale modalità mira a ottimizzare il
successo delle chiamate passate agli operatori, facendo
ricadere il rischio, e il disagio, della chiamata «muta» sui
soli destinatari. Per la Cassazione non ha alcuna importanza
se la percentuale delle telefonate «mute» è molto bassa.
Inoltre, la Cassazione aggiunge anche un altro motivo di
illegittimità: costituiscono un trattamento dei dati
personali con sistemi automatici di chiamata, che è
consentito dal Codice della privacy (artt. 129 e 130) solo
con il consenso dell'interessato.
L'esonero dall'obbligo di acquisire il previo consenso
riguarda solo il marketing diretto, effettuato mediante
l'uso del telefono con l'operatore. Mentre, prosegue la
sentenza in esame, non rientrano nel concetto di marketing
diretto con operatore, ma riguardano sistemi automatici di
chiamata, le telefonate con contatto abbattuto (quelle
appunto «mute»), proprio perché in esse l'operatore manca.
La Cassazione, quindi, conclude che l'articolo 130, comma
3-bis, del Codice della privacy, che consente, in deroga al
principio del consenso espresso, il trattamento dei dati
personali mediante l'impiego del telefono per le
comunicazioni di natura commerciale nei confronti di chi non
abbia esercitato il diritto di opposizione mediante
iscrizione della propria numerazione nel registro pubblico
delle opposizioni (regime dell'opt-out), non trova
applicazione nel caso in cui l'autore del trattamento abbia
inviato telefonate senza operatore, né in quello in cui
l'utenza chiamata non risulti inserita in uno degli elenchi
cartacei o elettronici a disposizione del pubblico (come per
esempio avviene per i telefoni cellulari).
---------------
I paletti dell'Autorità.
Comfort noise per evitare che il chiamato sia
raggiunto dalla telefonata di un malintenzionato. È uno
stratagemma per rendere meno fastidiose le chiamate di
telemarketing, alla ricerca di un non semplice equilibrio
tra esigenze commerciali e diritto alla tranquillità
individuale.
La prescrizione è inserita nel
provvedimento 20.02.2014 del Garante della
privacy, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 79 del
04.04.2014, con cui ha imposto agli operatori di
telemarketing di adottare specifiche misure per arginare il
fenomeno delle telefonate mute.
Il problema deriva dalle impostazioni dei sistemi
centralizzati di chiamata dei call center, rivolte a
massimizzare la produttività degli operatori.
Le regole fissate dal Garante per eliminare gli effetti
distorsivi di questa pratica commerciale, prevedono che i
call center devono tenere precisa traccia delle «chiamate
mute», che dovranno comunque essere interrotte trascorsi 3
secondi dalla risposta dell'utente.
Non possono verificarsi più di 3 telefonate «mute» ogni 100
andate «a buon fine». Tale rapporto deve essere rispettato
nell'ambito di ogni singola campagna di telemarketing.
L'utente non può essere messo in attesa silenziosa, ma il
sistema deve generare una sorta di rumore ambientale, il
cosiddetto «comfort noise» (come con voci di sottofondo,
squilli di telefono, brusio), per dare la sensazione che la
chiamata provenga da un call center e non da un eventuale
molestatore.
L'utente disturbato da una chiamata muta non potrà essere
ricontattato per cinque giorni e, al contatto successivo,
dovrà essere garantita la presenza di un operatore.
Infine i call center saranno tenuti a conservare per almeno
due anni i report statistici delle telefonate «mute»
effettuate per ciascuna campagna, così da consentire
eventuali controlli.
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Il telemarketing selvaggio resiste.
Il telemarketing «selvaggio» resiste. E si discute se il
Registro delle opposizioni sia stato davvero efficace contro
le chiamate indesiderate.
Chi non vuole ricevere comunicazioni telefoniche commerciali
iscrive il suo numero nel registro e dovrebbe essere al
riparo (http://www.registrodelleopposizioni.it).
Le aziende di marketing prima di lanciare una campagna
devono sottoporre le loro liste al registro, che le
ripulisce dalle linee iscritte.
Eppure stando all'ultima relazione annuale del Garante della
privacy (per il 2014), per quanto riguarda le utenze
telefoniche iscritte al Registro pubblico delle opposizioni
è alto numero di segnalazioni relative alla ricezione di
chiamate promozionali indesiderate. Segnalazioni e reclami
in materia di marketing telefonico sono stati 2.220 (quasi
il 50% del totale).
Numerose segnalazioni hanno riguardato anche telefonate a
carattere commerciale effettuate nei confronti di utenze
riservate, fisse e mobili, non presenti negli elenchi
telefonici e anche di utenze, non riservate e non iscritte
nel Registro pubblico delle opposizioni, per le quali è
stato negato il consenso al trattamento dei dati personali
nei confronti di una o più società.
In numerosi casi, rileva il Garante, le aziende che hanno
svolto attività a contenuto promozionale hanno operato anche
tramite terzi i quali, a loro volta, hanno ulteriormente
demandato l'attività promozionale ad altri soggetti, talora
stabiliti all'estero. Lo svolgimento dell'attività
istruttoria ha comportato la necessità di svolgere un previo
accertamento sulla titolarità delle utenze segnalate. In
numerosi casi, il numero chiamante è risultato oscurato
oppure solo apparentemente in chiaro (in quanto,
ricontattando l'utenza telefonica, la stessa è risultata
essere «inesistente»).
Nel 2014 il Garante ha trattato un totale di 1.398 pratiche,
delle quali, per più di 1.000, è stata conclusa l'attività
istruttoria. In più di 80 casi, inoltre, l'attività è stata
definita con la trasmissione degli atti al Dipartimento
competente per l'apertura di un procedimento sanzionatorio.
Gli accertamenti svolti nell'ambito delle istruttorie,
peraltro, hanno determinato in taluni casi la necessità di
effettuare attività di carattere ispettivo nei confronti sia
dei soggetti committenti l'attività di telemarketing, sia di
alcuni call center.
Al 01.03.2016 nel Registro pubblico delle opposizioni sono
presenti oltre 1.457.000 numerazioni, intestate ai cittadini
che hanno manifestato il diritto di opposizione alle
chiamate di telemarketing. Si ricorda che dal Registro
pubblico delle opposizioni vengono rimosse periodicamente le
numerazioni iscritte che sono cessate o per cui è cambiato
l'intestatario.
Dall'inizio delle attività del servizio al 01.02.2016, circa
il 58% delle iscrizioni sono state effettuate via web, il
36% tramite il numero verde, mentre il restante 6% di
registrazioni è avvenuto con le modalità e-mail, fax e
raccomandata.
Ma il Registro funziona? Secondo la Fondazione Bordoni, che
gestisce il registro, bisogna distinguere l'impianto
normativo con l'effettivo funzionamento del servizio. In
sostanza si può essere in disaccordo con la scelta di
lasciare la possibilità agli operatori di marketing di
effettuare chiamate senza il previo consenso (a certe
condizioni), ma la gestione del registro invece è ottimale.
Per quanto riguarda il servizio fornito agli abbonati, il
gestore ha gestito tutte le richieste di iscrizione
pervenute entro il giorno lavorativo successivo, ha iscritto
oltre un milione di cittadini, ha fornito assistenza e
supporto predisponendo un apposito help desk a disposizione
di tutti i cittadini e promosso iniziative di
sensibilizzazione sulle nuove regole e sugli strumenti di
tutela.
Certo è che con il varo del Registro sono stati introdotti
obblighi per gli operatori di telemarketing. Le imprese che
effettuano chiamate promozionali, si legge sul sito del
gestore del servizio, sono obbligati a: indicare con
precisione agli abbonati da dove sono stati estratti i loro
dati personali; informarli della possibilità di iscrizione
al Registro pubblico delle opposizioni al fine di non essere
più contattati; garantire la propria identificazione
mostrando il numero telefonico all'abbonato contattato.
Tra l'altro è un sistema adottato, oltre che dagli Stati
Uniti, da molti paesi europei: Belgio, Danimarca, Finlandia,
Francia, Islanda, Olanda, Norvegia, Regno Unito, Spagna.
All'estero le chiamo «liste Robinson».
Attenzione a non credere, però, che l'iscrizione al Registro
protegga da tutte le chiamate di telemarketing.
Gli operatori di telemarketing possono, infatti,
legittimamente chiamare se hanno ottenuto il diretto
consenso dell'interessato, indipendentemente dall'iscrizione
nel Registro. Il consenso potrebbe essere stato raccolto,
per esempio, durante la stipula di contratti con le aziende
dalle quali sono stati acquistati prodotti o servizi oppure
durante la sottoscrizione di tessere di fidelizzazione
cliente, raccolta punti: il consenso specifico non è
superato dall'iscrizione nell'elenco.
È sempre possibile revocare il consenso dato a terzi
inviando la richiesta cancellazione dei propri dati
direttamente al soggetto titolare del trattamento dei dati;
il titolare ha l'obbligo di rimuovere entro 15 giorni dalle
proprie liste il numero telefonico in questione.
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Come iscriversi al Registro opposizioni.
Possono iscriversi nel Registro pubblico delle opposizioni
gli abbonati (persona fisica, persona giuridica, ente o
associazione), il cui numero telefonico è presente negli
elenchi telefonici, che non desiderano essere contattati per
proposte commerciali.
L'iscrizione è gratuita, a tempo indeterminato e revocabile
senza alcuna limitazione.
Ci si può iscrivere in qualunque momento, a qualsiasi ora
anche nei giorni festivi. Si possono iscrivere
contemporaneamente più numerazioni intestate allo stesso
abbonato.
L'iscrizione, inoltre, è sicura e protetta contro l'accesso
abusivo.
L'accesso ai dati forniti dall'abbonato può avvenire solo
per finalità ispettive da parte del Garante della privacy o
dell'Autorità giudiziaria. L'iscrizione decade
automaticamente quando cambia l'intestatario o si verifica
la cessazione dell'utenza.
Per iscriversi nel Registro ci sono cinque modalità:
compilando il modulo elettronico sul sito
www.registrodelleopposizioni.it; chiamando il numero
verde 800.265.265; inviando il modulo predisposto
all'indirizzo di posta elettronica
abbonati.rpo@fub.it;
inviando la raccomandata al Gestore del Registro pubblico
delle opposizioni – Abbonati, Ufficio Roma Nomentano,
Casella Postale 7211, 00162 Roma; oppure spedendo il fax
allo 06.5422.4822.
L'iscrizione è effettuata entro il giorno lavorativo
successivo alla richiesta e diventa efficace al massimo
trascorsi 15 giorni: dopo questo lasso di tempo gli
operatori di telemarketing devono rispettare le opposizioni
del cittadino.
Se un abbonato continua a ricevere chiamate pubblicitarie
indesiderate, per prima cosa, deve verificare se
l'iscrizione al Registro sia avvenuta con successo.
Si può, per esempio, chiamare il numero verde 800.265.265
dal numero telefonico per cui è stata fatta la richiesta di
inserimento nel Registro. Occorre verificare, poi, se sono
trascorsi 15 giorni dall'iscrizione.
Ma soprattutto bisogna controllare di non avere dato il
consenso al trattamento dei propri dati per finalità di
telemarketing a soggetti terzi che effettuano chiamate
pubblicitarie da fonti diverse dagli elenchi telefonici
pubblici. Tale consenso, avvisa la Fondazione Bordoni, che
gestisce il registro, potrebbe essere stato raccolto, per
esempio, durante la stipula di contratti con le aziende
dalle quali sono stati acquistati prodotti o servizi oppure
durante la sottoscrizione di tessere di fidelizzazione
cliente, raccolta punti
(articolo ItaliaOggi Sette del 27.03.2016). |
APPALTI: Sì alla gara se c'è l'istanza di concordato.
Alle gare pubbliche di appalto possono partecipare non solo
le imprese che hanno già ottenuto il decreto di ammissione
al concordato con continuità aziendale, ma anche quelle che
hanno presentato domanda di concordato preventivo con
riserva.
Questo è il principio espresso dal Consiglio di
Stato -Sez. VI- con la
sentenza
03.02.2016 n. 426.
Nello
specifico, i giudici di Palazzo Spada sottolineano che è
consentita la partecipazione alle procedure di affidamento
di contratti pubblici non solo alle imprese che hanno già
ottenuto il decreto di ammissione al concordato con
continuità aziendale, «ma anche a quelle che abbiano
presentato domanda di ammissione al concordato preventivo»
con riserva, ai sensi dell'articolo 161, 6° comma, della Lf.,
in quanto, secondo la giurisprudenza prevalente, il deposito
della domanda di concordato preventivo con riserva (c.d.
«concordato in bianco») non comporta il venir meno dei
requisiti prescritti dall'articolo 38 del codice dei
contratti pubblici.
Il richiamato orientamento è del resto
coerente le finalità della riforma della Lf. (approvata con
il d.l. 22.06.2012, n. 83 del 2012, convertito dalla l. 07.08.2012, n. 134) che, nell'interesse del mercato e degli
stessi creditori, è volta a «guidare l'impresa oltre la
crisi», anche preservando «la capacita dell'impresa a
soddisfare al meglio i creditori attraverso l'acquisizione
di nuovi appalti».
Il principio generale della necessaria
corrispondenza tra quota di partecipazione e quota di
esecuzione -di cui al combinato dei commi 4 e 13
dell'articolo 37 del codice dei contratti pubblici- è posto
a garanzia della stazione appaltante e del buon esito del
programma contrattuale, con la conseguenza che la mancata
dimostrazione di tale corrispondenza comporta l'esclusione
dalla procedura.
Con riguardo all'articolo 37, 4° comma, e
all'indicazione delle parti del servizio imputate alle
singole imprese associate o associande, è necessario seguire
«un approccio ermeneutico di natura sostanzialistica che
valorizzi il dato teleologico del raggiungimento dello scopo
della norma senza che assuma rilievo dirimente il profilo
estrinseco del modo in cui siffatta esigenza sia soddisfatta»;
con la conseguenza che tale obbligo «dovrà allora
ritenersi assolto sia in caso di indicazione, in termini
schiettamente descrittivi, delle singole parti del servizio
da cui sia evincibile il riparto di esecuzione tra le
imprese associate, sia in caso di indicazione quantitativa,
in termini percentuali, della quota di riparto delle
prestazioni che saranno eseguite tra le singole imprese».
Un tale approccio ermeneutico, consente di ritenere che, in
questa circostanza, risulta pienamente soddisfatta
l'esigenza -cui risponde l'obbligo di specificazione delle
quote o delle parti del servizio assegnate a ciascuna
impresa- di garantire alle amministrazioni aggiudicatrici la
conoscenza preventiva del soggetto che eseguirà il servizio
(articolo ItaliaOggi del 18.03.2016).
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MASSIMA
1. – Va rilevata, in via preliminare, l’infondatezza
dell’eccezione di improcedibilità dell’appello dedotta dal
raggruppamento aggiudicatario in relazione all’istanza
-presentata al Tribunale di Roma in data 05.08.2015– con cui
Fa. s.p.a. ha domandato l’ammissione al concordato
preventivo con riserva, ai sensi dell’articolo 161, comma 6,
della legge fallimentare (approvata con R.D. 16.03.1942, n.
267).
Questa istanza, proprio in quanto riservata –sostiene il
raggruppamento appellato- non sarebbe idonea a garantire un
concordato preventivo con caratteristiche di continuità
aziendale secondo quanto previsto dall’articolo 186-bis
della legge fallimentare, con la conseguenza che Fa. s.p.a.
sarebbe ora priva del requisito di cui all’articolo 38,
comma 1, lettera a), del Codice dei contratti pubblici, ai
sensi del quale non possono partecipare a gare pubbliche i
soggetti che “si trovano in stato di fallimento, di
liquidazione coatta, di concordato preventivo, salvo il caso
di cui all’art. 186-bis del R.D. 16.03.1942, n. 267, o nei
cui riguardi sia in corso un procedimento per la
dichiarazione di una di tali situazioni”.
La questione è stata affrontata dalla
giurisprudenza che ha rilevato come la richiamata norma del
Codice dei contratti pubblici consenta la partecipazione
alle procedure di affidamento di contratti pubblici non solo
alle imprese che hanno già ottenuto il decreto di ammissione
al concordato con continuità aziendale, “ma anche a
quelle che abbiano presentato domanda di ammissione al
concordato preventivo”
(Cons. Stato, IV, 03.07.2014, n. 3344).
Né in senso contrario depone la circostanza che la domanda
di concordato preventivo sia stata presentata “in bianco”
o “con riserva”: come osserva l’appellante –e come
risulta dallo stesso stralcio di visura camerale riportato
nella memoria del raggruppamento appellato– Fa. s.p.a. ha
attivato una procedura finalizzata all’ammissione ad un
concordato preventivo con caratteristiche di continuità
aziendale ai sensi del richiamato articolo 186-bis della
legge fallimentare.
Anche sul punto la giurisprudenza si è
pronunciata espressamente affermando che il deposito della
domanda di concordato preventivo con riserva (c.d. “concordato
in bianco”) non comporta il venir meno dei requisiti
prescritti dall’articolo 38 del Codice dei contratti
pubblici (Cons.
Stato, V, 22.12.2014, n. 6303; 27.12.2013, n. 6272; IV, n.
3344 del 2013 cit.).
Il richiamato orientamento è del resto
coerente le finalità della riforma della legge fallimentare
(approvata con il decreto-legge 22.06.2012, n. 83 del 2012,
convertito dalla legge 07.08.2012, n. 134) che -nell’interesse
del mercato e degli stessi creditori- è volta a “guidare
l’impresa oltre la crisi”, anche preservando “la
capacita dell’impresa a soddisfare al meglio i creditori
attraverso l’acquisizione di nuovi appalti”
(Cons. St., V, n. 6272 del 2013 cit.). |
EDILIZIA PRIVATA:
La Dia serve entro un anno.
Edilizia/una sentenza del Tar Lombardia.
Addio lavori se non si dà corso alla Dia (Denuncia di inizio
attività) entro un anno né viene richiesta
all'amministrazione una proroga ad hoc del titolo edilizio.
Passa infatti l'orientamento giurisprudenziale più
restrittivo secondo cui serve un provvedimento espresso del
Comune che riconosce i motivi di forza maggiore per i quali
non sono cominciati in modo tempestivo gli interventi
previsti dalle denuncia di inizio attività.
È quanto emerge dalla
sentenza
29.01.2016 n. 201,
pubblicata dalla II Sez. del TAR Lombardia-Milano.
Impedimento oggettivo
Stop alla società che intendeva realizzare un nuovo edificio
a uso residenziale. Non bastano i lavori già realizzati
entro un anno dalla presentazione della Dia a dimostrare che
l'impresa abbia davvero la seria intenzione di realizzare
l'opera: risultano a tal proposito insufficienti
l'abbattimento della tettoia, la rimozione della
pavimentazione antistante, la deviazione della fognatura e
la chiusura delle finestre.
E ciò perché non solo non si
tratta di attività previste dalla denuncia presentata ma
soprattutto non risultano assolutamente necessarie per
costruire l'edificio che è oggetto della segnalazione
all'autorità.
Quanto alle cause di forza maggiore, serve un provvedimento
esplicito diversamente da quanto capita con l'accertamento
dell'intervenuta decadenza dalla possibilità di svolgere i
lavori.
Deve infatti escludersi che la sussistenza di cause di forza
maggiore di per sé impediscano la decadenza dalla denuncia
di inizio attività perché serve un esercizio di
discrezionalità da parte dell'amministrazione, che deve
verificare l'esistenza di un impedimento oggettivo
(articolo ItaliaOggi del 22.03.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
CONDOMINIO - VARI:
Stop ai «gattari» in terrazzo. Animali in
condominio. Le indicazioni del Tar Catania.
Prendersi cura in luogo privato
(quale un terrazzo di esclusiva proprietà) di gatti randagi,
dando loro da mangiare seppur ad intervalli non regolari,
espone chi pone in essere tale attività al rischio di
vedersi far carico dell’obbligo di provvedere alle
necessarie vaccinazioni ed altre incombenze relative ai
felini.
Questo è il
principio sancito dal TAR Sicilia-Catania, Sez. III, con
sentenza 12.01.2016 n. 3.
Il caso, segnalato dal blog “24zampe” del Sole24 Ore, era
nato da una denuncia di un condòmino, il quale aveva
segnalato con un esposto la presenza di una colonia di gatti
randagi che sostava spesso sul terrazzo di proprietà di un
altro condòmino, causando gravi inconvenienti igienico
sanitari all’intero condominio.
All’esposto faceva seguito una ordinanza del sindaco di
Avola che imponeva al proprietario del terrazzo e tenutario
della colonia felina di eliminare entro 10 giorni tutti gli
inconvenienti igienico sanitari generati dalla presenza
degli animali, nonché di provvedere entro breve, tanto a
ridurre la presenza di gatti sul terrazzo, quanto alle
necessarie vaccinazioni dei felini.
Contro l’ordinanza presentava ricorso al Tar il destinatario
del provvedimento amministrativo, sostenendo, in via
principale, che egli non essendo proprietario dei gatti, che
accudiva saltuariamente per puro spirito umanitario e senza
averne un ritorno economico, non poteva essere obbligato a
svolgere attività come quelle impostegli dal Comune.
Il Tar siciliano, tuttavia, respingeva il ricorso, in
applicazione della Direttiva dell’Assessorato Regionale per
la Sanità Ispettorato Veterinario del 13/02/2007, che al
punto 3, «detenzione e maltrattamento degli animali»,
prevede che «chiunque detenga un animale o abbia accettato
di occuparsene è responsabile della sua salute e del suo
benessere, deve provvedere alla sua sistemazione, ed è
severamente vietato abbandonarlo e/o maltrattarlo».
Sulla base di questo principio di diritto, pertanto, il Tar
confermava l’ordinanza emessa dal Comune di Avola.
Il punto, allora, è il seguente: chi decide di accudire
degli animali randagi (gatti in questo caso) in modo non
occasionale, in questo modo ne assume la custodia, e quindi
deve essere ritenuto responsabile della loro salute
(provvedendo anche alle vaccinazioni obbligatorie per legge)
e soprattutto è tenuto ad evitare i disagi e i problemi che
possano derivare ai condòmini dalla presenza dei predetti
felini. È chiaro, inoltre, che si potrebbe allora persino
ipotizzare che il “gattaro” sia tenuto personalmente a
rispondere di eventuali danni che gli animali potrebbero
causare ad altri condòminila scarsa igiene dovuta alla
presenza massiccia dei felini.
L’ordinanza del Tar potrà trovare amplie applicazioni
nell’ambito della vita in condominio, dove una presenza
massiccia di animali si può rivelare particolarmente gravosa
per i condòmini che debbano subirla.
Per quanto riguarda la presenza di animali domestici in
condominio, è utile ricordare la recente innovazione portata
dalla legge di riforma del diritto condominiale 220/2012,
che all’articolo 1138 del Codice civile prevede ora che le
norme del regolamento di condominio non possano vietare di
possedere o detenere animali domestici. Tale divieto,
tuttavia, può rimanere se introdotto dal regolamento di
condominio “contrattuale”, qualora cioè si sia espressa in
tal senso l’unanimità dei condòmini (articolo Il Sole 24 Ore del 22.03.2016). |
TRIBUTI:
Hotel, ko supertassa sui rifiuti.
Tar Emilia.
Addio al rincaro del tributo per i rifiuti. Per giustificare
il giro di vite, infatti, il comune non può limitarsi a
richiamare le esigenze di bilancio, deve invece motivare
l'aggravio rilevato nella copertura minima obbligatoria del
servizio.
Ancora. L'hotel non può pagare a metro quadro
importi quasi pari a 2,5 volte in più delle abitazioni se la
delibera non distingue, ad esempio, fra superficie delle
camere e locali destinati alla ristorazione.
È quanto emerge dalla
sentenza
02.12.2015 n. 1056, pubblicata dalla II Sez. del Tar Emilia Romagna-Bologna.
L'amministrazione non sfugge all'onere di motivare
l'aggravio introdotto anche se in questo caso l'aumento è
del per cento e non rappresenta uno scostamento «anormale o
eccessivo» (nella specie sulla Tarsu). Ma la delibera fa
riferimento solo alla regolarità contabile e non indica
elementi fondamentali come il costo e il gettito del
servizio l'anno prima e le spese preventivate nella stagione
in corso né quantifica l'ammontare di sgravi e rimborsi.
Insomma: l'ente locale deve dar conto dell'istruttoria
effettuata e consentire di ricostruire sul piano contabile
le motivazioni che hanno portato a decidere l'aumento delle
tariffe. Altrimenti scatta lo stop.
Veniamo agli alberghi. La delibera del comune viola il
principio eurounitario «chi inquina paga» perché non
considera che le camere degli hotel sono più o meno
assimilabili alle abitazioni private quanto a rifiuti
prodotti, mentre è l'area della ristorazione a produrre più
spazzatura: ecco perché risulta necessario distinguere fra
le superfici a destinazione diversa. Senza dimenticare che
la raccolta differenziata fa miracoli.
L'amministrazione avrebbe quindi dovuto fare riferimento a
dati statistici rilevati sulla base di studi ad hoc
riscontrabili dai cittadini per legittimare la scelta di
applicare agli hotel la tariffa maggiore rispetto a quella
applicata alle abitazioni civili mentre non poteva
semplicemente richiamare le delibere adottate negli anni
precedenti. Consiglio e Giunta dovranno adottare nuovi
provvedimenti
(articolo ItaliaOggi del 26.03.2016).
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MASSIMA
6. Nel merito il ricorso è fondato e deve essere
accolto.
6.1. Con una prima censura i ricorrenti lamentano che il
Comune di Riccione abbia fissato la misura della tassa 2011
per la classe F "alberghi, pensioni, locande, ospedali,
residenze turistiche alberghiere" in € 6,088/mq, ossia
in misura di gran lunga superiore a quella fissata, per lo
stesso anno, per la classe A "abitazioni, circoli, uffici
pubblici, stazioni FS, ostelli" pari ad € 2,513/mq, senza
neanche distinguere tra locali ad uso abitativo e locali ad
uso non abitativo.
La censura è fondata.
Il D.Lgs. 15.11.1993 n. 507 dispone testualmente, all'art.
65, comma 2: "Le tariffe per ogni categoria o
sottocategoria omogenea sono determinate dal comune, secondo
il rapporto di copertura del costo prescelto entro i limiti
di legge, moltiplicando il costo di smaltimento per unità di
superficie imponibile accertata, previsto per l'anno
successivo, per uno o più coefficienti di produttività
quantitativa e qualitativa di rifiuti" ed all'art. 69,
comma 2: "Ai fini del controllo di legittimità, la
deliberazione deve indicare le ragioni dei rapporti
stabiliti tra le tariffe, i dati consuntivi e previsionali
relativi ai costi del servizio discriminati in base alla
loro classificazione economica, nonché i dati e le
circostanze che hanno determinato l'aumento per la copertura
minima obbligatoria del costo ovvero gli aumenti di cui al
comma 3".
Ciò posto,
il Collegio rileva che, nel caso di specie, non risulta in
base a quali studi, indagini o ricerche istruttore, né in
base a quali dati siano state fissate le tariffe, con
particolare riferimento anche ai rapporti tra le varie
categorie.
Gli atti impugnati, infatti, non chiariscono attraverso
quale percorso logico ovvero per quali ragioni di carattere
politico-amministrativo siano state quantificate le tariffe
per le diverse classi di contribuenza: in concreto mancano
gli elementi motivazionali e, prima ancora istruttori,
relativi all'effettiva capacità di ciascuna tipologia di
locali di produrre rifiuti solidi urbani.
Il Comune di Riccione, viceversa, avrebbe dovuto fornire,
sulla base di dati statistici rilevati a seguito di studi
specifici ed oggettivamente riscontrabili, la dimostrazione
delle ragioni per le quali ha ritenuto di applicare agli
esercizi alberghieri una tariffa maggiore rispetto a quella
applicata alle abitazioni civili e non limitarsi alla mera
enunciazione di petizioni di principio o richiami a delibere
di anni precedenti, come già visto, in alcun modo
vincolanti.
6.2. Con un’altra censura i ricorrenti deducono la
violazione del principio "chi inquina paga",
affermatosi nella giurisprudenza della Corte di Giustizia
dell'Unione europea, e la violazione del D.Lgs. n. 507/1993,
segnatamente degli artt. 31, 58, 59, 61, 65, 68 e 69.
Anche tale censura è fondata.
L'art. 65, comma 1, D.Lgs. n. 507/1993 recita testualmente:
"La tassa può essere commisurata o in base alla quantità
e qualità medie ordinarie per unità di superficie imponibile
dei rifiuti solidi urbani interni ed equiparati producibili
nei locali ed aree per il tipo di uso, cui i medesimi sono
destinati, e al costo dello smaltimento oppure, per i comuni
aventi popolazione inferiore a 35.000 abitanti, in base alla
qualità, alla quantità effettivamente prodotta, dei rifiuti
solidi urbani e al costo dello smaltimento".
Il secondo comma del medesimo articolo dispone che la
determinazione delle tariffe per ogni categoria o
sottocategoria omogenea, deve essere effettuata "secondo
il rapporto di copertura del costo prescelto entro i limiti
di legge, moltiplicando il costo di smaltimento per unità di
superficie imponibile accertata, previsto per l'anno
successivo, per uno o più coefficienti di produttività
quantitativa e qualitativa di rifiuti".
Risulta chiaro, alla stregua della su riportata normativa,
che
la determinazione delle tariffe con riguardo alle diverse
categorie e sottocategorie deve aver luogo tenendo conto
della idoneità a produrre rifiuti dei locali e delle aree
tassabili.
Nel caso di specie, viceversa, il Comune di Riccione ha
utilizzato una differenziazione di tariffe che, sebbene
possa far ritenere, in linea di principio, giustificato un
regime di tassazione più elevato per gli alberghi con
servizio di ristorazione, in considerazione del fatto che
l'esercizio di un'attività di questo tipo può determinare
una produzione quantitativamente e qualitativamente
significativa di rifiuti, non appare corretto laddove non
prevede alcuna distinzione, nell'ambito degli alberghi, fra
le aree destinate esclusivamente a camere e quelle destinate
alla ristorazione.
Deve ritenersi illogico, infatti, che un'area che manifesta
una capacità di produrre rifiuti pari o, addirittura,
inferiore a quella delle abitazioni private, debba essere
assoggettata ad un regime di tassazione di gran lunga più
elevato rispetto a quello previsto per tale tipologia di
immobili.
Anche sotto questo profilo, dunque,
la delibera di Giunta n. 74 del 10.03.2011 è illegittima
laddove prevede per gli alberghi un importo per la Ta.r.s.u.
2011 pari 2,42 volte l'importo fissato per le abitazioni
private: queste ultime, infatti, sono autonomamente
produttive di rifiuti, tanto che i sistemi di raccolta più
recenti ne stanno perfezionando i metodi di differenziazione
(cfr. Cons. Stato, sez. V, 01.08.2015, n. 3781).
6.3. Con una terza censura i ricorrenti lamentano che la
delibera consiliare n. 14 del 17.02.2011 non ha motivato
affatto le ragioni dell’aumento delle tariffe nella misura
del 6% essendosi limitata ad affermare che, tenuto conto che
"l'Amministrazione Comunale ha sostenuto un notevole
aumento del costo del servizio sia dall'anno 2009 al 2010,
sia dal 2010 al 2011",…."con un aumento del 6 % nelle
tariffe dell'anno 2010 si raggiungerebbe un introito
Ta.r.s.u. 2011 di € 11.250.000,00 circa che coprirebbe il
96,71 % circa del costo del servizio ed assicurerebbe anche
una compilazione regolare del Bilancio di previsione 2011".
La censura è fondata.
L'art. 31 D.Lgs, 507/1993 dispone che, per determinare gli
importi dovuti per la Ta.r.s.u., occorre fare "riferimento
a dati del conto consuntivo comprovati da documentazioni
ufficiali e non si considerano addizionali, interessi e
penalità".
Alla stregua della suddetta disposizione l'ente locale,
nella delibera con la quale determina gli importi dovuti per
la Ta.r.s.u., deve esplicitare con chiarezza tutte le
risultanze istruttorie, fornendo motivazione dettagliata
delle ragioni delle proprie decisioni.
Nel caso di specie, viceversa, la delibera n. 14/2011 non
rappresenta affatto quale sia stato il costo di esercizio
del 2010, quale sia stato il gettito del servizio dello
stesso anno, quale sia il costo preventivato per l'anno
2011, quale sia stato l'importo (deducibile) relativo al
costo di raccolta dei rifiuti e l'ammontare della somma
relativa a sgravi e rimborsi né, infine, a quanto ammonti il
pur citato "notevole aumento della raccolta e dello
smaltimento rifiuti svolto da Hera" (cfr. pag. 3, 2°
cpv.).
In assenza dei dati suindicati l’aumento del 6%, per quanto
non rappresenti uno scostamento anormale o eccessivo, non
risulta motivato né sono altrimenti ricavabili elementi tali
da consentire di ricostruire contabilmente la correttezza
logica dell'iter argomentativo da cui è scaturito l’aumento
della tassa in discorso, non essendo sufficiente a tal fine
il mero richiamo a generiche esigenze di regolarità di
bilancio
(cfr. TAR Sicilia, Palermo, sez. I, 17.12.2009, n. 2017).
Ciò in aperta violazione dell'art. 69 comma 2, D.Lgs.
15.11.1993 n. 507, a tenore del quale il Comune deve
specificatamente indicare, nelle delibere che comportano un
incremento delle tariffe Ta.r.s.u., i dati e le circostanze
che hanno determinato l'aumento per la copertura minima
obbligatoria del costo del servizio.
Si tratta di una disposizione che prevede, in subjecta
materia, una deroga al principio della non necessità
della motivazione per gli atti a contenuto generale
(cfr. TAR Molise, 07.11.2014, n. 607).
In conclusione, assorbita ogni altra censura, il ricorso
deve essere accolto con conseguente annullamento, in parte
qua, delle delibere impugnate.
All'annullamento in sede giurisdizionale dei provvedimenti
tariffari consegue il dovere dell'amministrazione di
provvedere alla riedizione del potere esercitato, emendato
dai vizi riscontrati. |
AGGIORNAMENTO AL 23.03.2016 |
ã |
LA STORIA INFINITA DELL'INCENTIVO ALLA PROGETTAZIONE INTERNA:
la Sez.
controllo veneta della Corte dei Conti deferisce
alla Sezione Autonomie la seguente questione di
massima "Se
gli incentivi previsti e disciplinati dai commi
7-bis, 7-ter e 7-quater del D.lgs. n. 163 del
12.04.2006 possano essere riconosciuti ed erogati al
personale indicato dal comma 7-ter anche nel caso di
progettazione affidata e realizzata da soggetti
esterni alla stazione appaltante". |
INCENTIVO PROGETTAZIONE:
La
Sezione delibera di sospendere la pronuncia sulla richiesta
di parere formulata dal Comune di Gallio, disponendo la
rimessione degli atti al Presidente della Corte dei conti
per le sue valutazioni in ordine al deferimento della
questione di massima come si seguito specificata: “Se
gli incentivi previsti e disciplinati dai commi 7-bis, 7-ter
e 7-quater del D.lgs. n. 163 del 12.04.2006 possano essere
riconosciuti ed erogati al personale indicato dal comma
7-ter anche nel caso di progettazione affidata e realizzata
da soggetti esterni alla stazione appaltante”.
---------------
Il Sindaco del Comune di Gallio (VI) ha presentato
richiesta di parere ai sensi dell’art. 7, comma 8, della
legge 05.06.2003, n. 131, formulando il seguente quesito:
“In sede di revisione ed aggiornamento del regolamento
comunale per la erogazione degli incentivi connessi al Fondo
per la progettazione e l’innovazione disciplinato all’art.
93 del D.Lgs. n. 163/2006, come modificato dall’art. 13-bis
della L. n. 114/2014, è emerso il dubbio circa la
possibilità di erogare tali incentivi anche in presenza di
progettazione affidata all’esterno. Ciò in quanto non sembra
sussistere univocità di interpretazione tra le varie sezioni
dei magistrati contabili laddove la Corte dei Conti
Piemonte, nel proprio
parere 19.12.2013 n. 434 appare
chiaramente condizionare l’erogazione degli incentivi in
parola esclusivamente in presenza di progettazione interna,
mentre la Sezione della Lombardia nel
parere 20.07.2015 n. 236 evidenzia la
legittimità di erogazione anche nel caso in cui la
progettazione sia stata affidata all’esterno”.
...
Il quesito formulato dal Sindaco del Comune di Gallio,
inoltre, può essere considerato sufficientemente generale ed
astratto.
Lo stesso, come si dà atto nella stessa richiesta di parere,
è stato già affrontato da altre Sezioni regionali di
controllo e risolto in maniera contrastante.
In particolare, in merito si sono espresse la Sezione
regionale di controllo per il Piemonte (parere
19.12.2013 n. 434) e quella per la Lombardia (parere
20.07.2015 n. 236) nonché
parere 01.10.2014 n. 247
e
parere 28.10.2015 n. 351), con tesi discordanti:
la prima, infatti, ha affermato che la norma (allora
l’art. 92, comma 5, del D.lgs. n. 163/2006, successivamente
abrogata dall’art. 13-bis del D.L. n. 90/2014, conv. dalla
L. n. 114/2014 e sostituita, senza modifiche sostanziali,
dal comma 7-ter dell’art. 93, sempre del D.lgs. n. 163/2006)
ancorerebbe il riconoscimento del diritto ad ottenere
l’incentivo alla circostanza che la redazione dell’atto di
progettazione sia avvenuta all’interno dell’ente, sicché
escluderebbe, per converso, il diritto al compenso in capo
ai dipendenti dell’ufficio tecnico nel caso in cui tale
redazione sia stata affidata all’esterno; la seconda,
invece, ha affermato che, anche a seguito della modifica
legislativa prima richiamata, permarrebbe il potere
dell’amministrazione di disporre un riconoscimento economico
in favore del personale interno concernente la fase della
gestione degli appalti di opere anche nel caso di “esternalizzazione”
dell’attività di progettazione.
Questa Sezione ritiene che
l’interpretazione più corretta sia quella offerta dalla
Sezione Lombardia. Quest’ultima si fonda sull’analisi della
“nuova” disposizione introdotta dal D.L. n. 90/2014
–ossia del comma 7-ter dell’art. 93 del D.lgs. n. 163/2006–
che, in deroga al principio di onnicomprensività della
retribuzione, vigente nel pubblico impiego, in continuità
con il previgente comma 5 dell’art. 92, attribuisce un
compenso ulteriore e speciale a soggetti tassativamente
individuati (responsabile del procedimento, incaricati della
redazione del progetto, del piano della sicurezza, della
direzione dei lavori, del collaudo e loro collaboratori),
subordinando, al pari della precedente, la corresponsione
del suddetto compenso, disposta dal dirigente o dal
responsabile di servizio preposto alla struttura competente,
al “previo accertamento positivo delle specifiche
attività svolte dai predetti dipendenti”, prevedendone,
in caso contrario (accertamento negativo) la devoluzione in
economia.
Presupposto indefettibile ai fini della erogazione
dell’incentivo in esame, dunque, risulta essere l’effettivo
espletamento, in tutto o in parte, di una o più attività
afferenti alla gestione degli appalti pubblici e non anche
il necessario svolgimento, all’interno dell’ente,
dell’attività di progettazione, con conseguente legittimità
del riconoscimento dell’emolumento anche in ipotesi di
affidamento della progettazione all’esterno (purché si
remuneri solo l’attività di supporto a quest’ultima, ove
effettivamente svolta dai dipendenti dell’ente).
Del resto, questa Sezione si era già espressa in tal nel
senso (vedasi
parere 26.07.2011 n. 337 e
parere 11.05.2012 n. 325).
E’ vero che la Sezione Piemonte, in un pronunciamento più
recente (parere
20.01.2015 n. 17), affrontando la questione della
spettanza dell’incentivo nel caso di progettazione
parzialmente (e non interamente) affidata all’esterno
dell’ente, ha affermato che “la normativa vigente non
richiede, ai fini della legittima erogazione, il necessario
espletamento interno di tutta l’attività progettuale, purché
il regolamento ripartisca gli incentivi in maniera conforme
alle responsabilità attribuite e devolva in economia la
quota relativa agli incarichi conferiti a professionisti
esterni”, ma non ci sono elementi per stabilire se si
tratta semplicemente di una apertura rispetto alla posizione
rigorosa emergente dalla precedente deliberazione del 2013 o
piuttosto un vero e proprio revirement, sicché il
contrasto, allo stato, sembra permanere.
In considerazione di ciò, in ossequio all’art. 6, comma 4,
del D.L. n. 174 del 10.10.2012, conv. dalla L. n. 213 del
07.12.2012 -secondo cui “Al fine di prevenire o risolvere
contrasti interpretativi rilevanti per l’attività di
controllo o consultiva o per la risoluzione di questioni di
massima di particolare rilevanza, la Sezione delle autonomie
emana delibera di orientamento alla quale le Sezioni
regionali di controllo si conformano”–
appare necessaria l’adozione di una pronuncia che risolva il
contrasto segnalato dal Comune di Gallio nella richiesta di
parere.
Questa Sezione, peraltro, è a conoscenza del fatto che,
su questione connessa a quella appena
rappresentata, è stato già richiesto dalla Sezione per
l’Abruzzo il deferimento alla Sezione delle Autonomie o alle
Sezioni Riunite, ma la questione di massima formulata appare
sostanzialmente diversa, involgendo la stessa la possibilità
di riconoscere l’incentivo di cui all’art. 93 nell’ipotesi
in cui “tutte le attività che la legge individua come
incentivabili, sia di progettazione sia di direzione lavori,
sia di collaudo, siano state svolte all’esterno dell’Ente da
professionisti all’uopo incaricati”
(deliberazione
22.12.2015 n. 358).
P.Q.M.
la Sezione regionale di controllo per il Veneto
DELIBERA
di sospendere la pronuncia sulla richiesta di parere
formulata dal Comune di Gallio, disponendo la rimessione
degli atti al Presidente della Corte dei conti per le sue
valutazioni in ordine al deferimento, ai sensi e per gli
effetti dell’art. 6, comma 4, del D.L. n. 174 del
10.10.2012, conv. dalla L. n. 213 del 07.12.2012, della
questione di massima come si seguito specificata: “Se
gli incentivi previsti e disciplinati dai commi 7-bis, 7-ter
e 7-quater del D.lgs. n. 163 del 12.04.2006 possano essere
riconosciuti ed erogati al personale indicato dal comma
7-ter anche nel caso di progettazione affidata e realizzata
da soggetti esterni alla stazione appaltante”
(Corte dei Conti, Sez. controllo Veneto,
deliberazione 04.03.2016 n. 123). |
Ed ancora sull'argomento, ecco che alla Camera dei
Deputati qualcuno si "sveglia" -con anni di
colpevole ritardo- e pone il problema dell'incentivo
in materia di pianificazione urbanistica ovverosia
di chiarire "se
l'intenzione del legislatore fosse quella di
corrispondere l'incentivo a tutti i tipi di
pianificazione oppure di circoscriverlo soltanto
agli atti di pianificazione collegati alla
realizzazione di opere pubbliche".
Ciò detto per il sol fatto che alcuni comuni (tra i
quali i comuni di Rivoli e Orbassano in provincia di
Torino) hanno già proceduto, sulla base della
pronuncia interpretativa -dirimente la querelle-
della Corte dei Conti
(Sez. autonomie,
deliberazione 15.04.2014 n. 7),
ad instaurare procedimenti per la ripetizione di
indebito nei confronti di propri dipendenti i quali
–sulla base di regolamenti comunale emanati
conformemente alla disciplina allora vigente– hanno
ricevuto i suddetti incentivi per attività di
pianificazione generale.
Di seguito, l'interrogazione presentata: |
INCENTIVO PROGETTAZIONE:
Atto Camera -
Interrogazione a risposta scritta 4-12464 del
10.03.2016, seduta n. 587, presentata
dall'On. BONOMO Francesca ed altri co-firmatari
(link a www.camera.it).
---------------
Al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, al
Ministro per la semplificazione e la pubblica
amministrazione. — Per sapere – premesso che:
►
la legge n.
109 del 1994, cosiddetta Legge Merloni, ha
introdotto l'istituto degli incentivi spettanti agli
Uffici per la progettazione interna agli enti
pubblici (articolo 17 e 18);
la ratio della disciplina consiste, da un
lato, nella valorizzazione delle professionalità
esistenti dell'ente e, dall'altro,
nell'esigenza di promuovere consistenti risparmi di
spesa pubblica, atteso che l'espletamento delle
mansioni ad opera del personale dipendente ha costi
comunque ben inferiori all'aggiudicazione del
servizio in favore di soggetti esterni
all'amministrazione;
►
l'articolo 18 della legge n. 109 del 1994, nella
versione originaria, consentiva di riconoscere una
quota non superiore all'1 per cento del costo
dell'opera o del lavoro in favore dell'ufficio «qualora
esso abbia redatto direttamente il progetto
esecutivo della medesima opera o lavoro»: la «legge
Merloni» trattava, dunque, solamente gli
incentivi per la redazione di progetti esecutivi di
opere o lavori pubblici;
►
tale disciplina –che inizialmente riguardava
soltanto gli incentivi per la redazione di progetti
esecutivi di opere o lavori pubblici– è stata
innovata, una prima volta, con l'articolo 6 del
decreto-legge n. 101 del 1995, che ha esteso
l'incentivo anche ai progetti (di opere o lavori)
preliminari e definitivi, alle indagini geologiche e
geognostiche nonché agli studi di impatto
ambientale, ed all'aggiornamento dei progetti già
esistenti «di cui sia riscontrato il perdurare
dell'interesse pubblico alla realizzazione dell'opera»;
►
successivamente, con legge 15.05.1997, n. 127
(articolo 6, comma 13), l'incentivo è stato esteso
anche alla redazione di atti di pianificazione:
l'articolo 18 della «legge Merloni» è stato
in tal sede modificato nel senso che «L'1 per
cento del costo preventivato di un'opera o di un
lavoro ovvero il 50 per cento della tariffa
professionale relativa ad un atto di pianificazione
generale, particolareggiata o esecutiva sono
destinati alla costituzione di un fondo interno da
ripartire tra il personale degli Uffici tecnici
dell'amministrazione aggiudicatrice o titolare
dell'atto di pianificazione, qualora essi abbiano
redatto direttamente i progetti o i piani, il
coordinatore unico di cui all'articolo 7, il
responsabile del procedimento e i loro collaboratori».
All'articolo 18 della legge n. 109 del 1994 fu
dunque aggiunto il comma 1-bis, secondo il quale «il
fondo di cui al comma 1 è ripartito per ogni singola
opera o atto di pianificazione, sulla base di un
regolamento dell'amministrazione aggiudicatrice o
titolare dell'atto di pianificazione...»;
►
la «legge Merloni» è stata successivamente
oggetto, in parte qua, di ulteriori novelle:
con la legge 17.05.1999, n. 144 (articolo 13, comma
4) sono stati riscritti i commi 1, 1-bis e 2
dell'articolo 18 della legge n. 109 del 1994. Il
primo comma dell'articolo 18 della legge n. 109 del
1994 è stato dedicato agli incentivi dovuti per la
redazione dei progetti, del piano-sicurezza, per la
direzione lavori ed il collaudo «di ogni opera o
lavoro» (da corrispondersi in misura non
superiore all'1,5 per cento dell'importo posto a
base di gara); il comma 1-bis del medesimo articolo
18 della «legge Merloni» ha invece imposto di
riconoscere ai «dipendenti dell'Amministrazione
aggiudicatrice che lo abbiano redatto» il «30
per cento della tariffa professionale relativa ad un
atto di pianificazione comunque denominato»;
►
tali previsioni sono state poi recepite dal decreto
legislativo n. 163 del 2006, cosiddetto «Codice
dei Contratti», ed in particolare dall'articolo
92, commi 5 e 6, in tema di incentivi alla
progettazione e pianificazione urbanistica. La norma
prevedeva compensi incentivanti sia in relazione
alla progettazione di opere pubbliche (comma 5) sia
in relazione alla redazione di atti di
pianificazione (comma 6). Con particolare
riferimento a questi ultimi, l'articolo 92, comma 6,
statuiva (come già i previgenti articoli 17 e 18
della legge 12.02.1994, n. 109) che «Il trenta
per cento della tariffa professionale relativa alla
redazione di un atto di pianificazione comunque
denominato è ripartito, con le modalità e i criteri
previsti nel regolamento di cui al comma 5, tra i
dipendenti dell'amministrazione aggiudicatrice che
lo abbiano redatto»;
►
l'articolo 13 del decreto-legge n. 90 del 2014,
convertito con modificazioni, dalla legge
11.08.2014, n. 114 (Gazzetta Ufficiale n. 144 del
24.06.2014) ha abrogato i commi 5 e 6 dell'orticolo
92 del codice dei contratti. Peraltro,
contestualmente la stessa normativa ha introdotto,
nel successivo articolo 93, commi 7-bis e seguenti,
una disciplina degli incentivi alla progettazione
del tutto analoga –per quanto qui interessa– alla
precedente;
►
in attuazione di tali disposizioni i comuni e, più
in generale, tutti gli enti pubblici dotati di
nuclei di progettazione all'interno dei propri
uffici, si sono dotati di un idoneo regolamento
attuativo, sulla base del quale hanno erogato gli
incentivi previsti dalla legge in favore dei propri
dipendenti (Regolamento per la definizione ed il
riparto dei fondi di incentivazione per la
progettazione di opere pubbliche e la pianificazione
urbanistica, ai sensi dell'articolo 92 del decreto
legislativo n. 163 del 2006);
►
la recente legge delega per l'attuazione della nuova
disciplina europea in materia di appalti pubblici e
concessioni (legge
28.01.2016, n. 11) ha previsto, al comma
1, lettera rr), una revisione della disciplina per
gli incentivi per la progettazione interna delle
pubbliche amministrazioni;
►
con riferimento alle disposizioni in vigore fin dal
1994, la disciplina del cosiddetto incentivo alla
progettazione è stata oggetto di dubbi
interpretativi, con particolare riferimento alla
corretta portata applicativa delle disposizioni
recate dall'articolo 92, comma 6, del decreto
legislativo 12.04.2006, n. 163: «Il trenta per
cento della tariffa professionale relativa alla
redazione di un atto di pianificazione comunque
denominato è ripartito, con le modalità e i criteri
previsti nel regolamento di cui al comma 5 tra i
dipendenti dell'amministrazione aggiudicatrice che
lo abbiano redatto» ed, in particolare, della
definizione ivi riportata «atto di pianificazione
comunque denominato»;
►
l'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici di
lavori, servizi e forniture (AVCP), (parere
sulla normativa 21.11.2012 - rif. AG-22/12),
nell'escludere la possibilità di estendere
l'incentivo alla pianificazione dei servizi
integrati di igiene urbana, ha diffusamente
argomentato l'applicabilità dell'articolo 92, comma
6, del codice alla attività di pianificazione «comunque
denominata», a prescindere dalla natura
(puntuale o generale) dello strumento in corso di
formazione;
►
secondo l'AVCP, «la pianificazione urbanistica,
anche se in forma mediata, inerisce anche a opere o
impianti pubblici... Infatti, i piani regolatori
contengono tra le altre sia previsioni di c.d.
zonizzazione... sia norme di localizzazione di aree
destinate a formare spazi di uso pubblico, ovvero
riservate a edifici pubblici o di uso pubblico...»;
►
l'Autorità ha sottolineato il nesso comunque
sussistente tra pianificazione urbanistica e
realizzazione di opere pubbliche: «la natura
stessa e il contenuto della pianificazione
urbanistica e in particolare dei piani regolatori
consente l'erogazione dell'incentivo ex articolo 92,
comma 6, del Codice dei contratti a favore dei
dipendenti che abbiano partecipato alla redazione di
tali strumenti urbanistici, in quanto tali atti
afferiscono, sia pure mediatamente, alla
progettazione di opere o impianti pubblici o di uso
pubblico, dei quali definiscono l'ubicazione nel
tessuto urbano»;
►
d'altro canto, l'orientamento dell'Autorità di
vigilanza assumeva il diritto all'incentivo per
l'attività di progettazione urbanistica –a
prescindere dalla natura puntuale o meno dello
strumento– sin dal 2000, in sede di interpretazione
dell'articolo 18 del codice dei contratti (determinazione
25.09.2000 n. 43,
G.U. 43/2000 del 25.09.2000), dove si recita
testualmente: «La dizione utilizzata dal
legislatore “atto di pianificazione comunque
denominato” fa ritenere che in esso possano
ricomprendersi, oltre che i vari tipi di atti di
pianificazione, anche quegli atti a contenuto
normativo, quali per esempio i regolamenti edilizi,
che accedono alla pianificazione, purché completi e
idonei alla successiva approvazione da parte degli
organi competenti»;
►
in nessun passo delle citate previsioni relative
alla progettazione urbanistica il legislatore àncora
la spettanza dell'incentivo alla natura di variante
puntuale, propedeutica all'approvazione del progetto
di opera pubblica, propria dello strumento redatto
dagli uffici;
►
di diverso avviso, tuttavia, le pronunce del giudice
contabile. La Corte dei Conti ha sottolineato, in
particolare, che l'incentivo in esame può essere
corrisposto esclusivamente nel caso in cui lo
strumento di pianificazione sia strettamente
connesso con la realizzazione di un'opera pubblica e
non anche in relazione alla redazione di atti di
pianificazione generale, quali possono essere il
piano regolatore o una variante generale, i quali
costituiscono diretta espressione dell'attività
istituzionale dell'ente e non giustificano la deroga
al principio dell'onnicomprensività della
retribuzione (in tal senso –dopo diversi e
contrastanti pronunce delle sezioni regionali– Corte
dei Conti, sezione delle autonomie,
deliberazione 15.04.2014 n. 7);
►
la Corte ha escluso la possibilità di riconoscere
l'incentivo alla progettazione urbanistica ex se,
dovendo concorrere –insieme alla redazione dell'atto
di pianificazione– un requisito ulteriore
individuato nella «intima connessione» tra lo
strumento urbanistico in corso di formazione e la
realizzazione di un'opera pubblica;
►
date le descritte incertezze interpretative, con
atto di segnalazione 25.09.2013 n. 4
al Governo, l'Autorità di vigilanza sui contratti
pubblici ha richiesto chiarimenti in merito alla
medesima questione; a tale atto, tuttavia, non è
stato dato alcun riscontro;
►
l'ANCI Toscana, nel
parere 20.06.2013
denominato «Gli incentivi per la progettazione
urbanistica interna – la posizione di ANCI Toscana»
ha illustrato come le intenzioni del legislatore
fossero quelle di corrispondere l'incentivo per
tutti i tipi di pianificazione urbanistica o
territoriale, anche non puntuale. L'Associazione
ritiene in particolare che: «La duplice ratio
legis (contenimento della spesa pubblica e
valorizzazione delle professionalità interne
all'Ente) induce ad attribuire l'incentivo anche
all'attività di pianificazione generale, altrimenti
da affidare necessariamente all'esterno
dell'Amministrazione. Inoltre, l'attività di
pianificazione generale non costituisce espletamento
di ordinarie mansioni dell'Ufficio, ricomprese nella
retribuzione ordinaria, quanto impegno straordinario
richiesto –in circostanze eccezionali (la redazione
di un nuovo strumento)– al pubblico dipendente»;
►
al contrario, alcuni comuni (tra i quali i comuni di
Rivoli e Orbassano in provincia di Torino) hanno già
proceduto, sulla base delle pronunce interpretative
della Corte dei Conti, a instaurare procedimenti per
la ripetizione di indebito nei confronti di propri
dipendenti i quali –sulla base di regolamenti
comunale emanati conformemente alla disciplina
allora vigente– hanno ricevuto i suddetti incentivi
per attività di pianificazione generale:
1-
se i
Ministri interpellati siano a conoscenza di questo
rilevante contenzioso e contrasto interpretativo in
merito all'originaria portata della disciplina
relativa alla incentivi alla progettazione e
pianificazione urbanistica ex articolo 92, commi 5 e
6, del decreto legislativo n. 163 del 2006;
2-
se non
ritengano di dover assumere iniziative per chiarire
con efficacia erga omnes quale fosse
l'effettiva intenzione del legislatore, data la
rilevanza dell'argomento –che incide su una delle
funzioni fondamentali dell'amministrazione– e la
gravità delle possibili conseguenze di un'errata
applicazione delle norme;
3-
se –in
particolare– si intenda chiarire l'intenzione del
legislatore fosse quella di corrispondere
l'incentivo a tutti i tipi di pianificazione (come
sembrerebbe dalla dizione «atto di pianificazione
comunque denominato») ovvero di circoscriverlo
soltanto agli atti di pianificazione collegati alle
opere pubbliche (varianti per il recepimento di
opere pubbliche), come i recenti pareri (non tutti
concordi) della Corte dei Conti hanno evidenziato;
4-
quali
iniziative di competenza, anche normative, intendano
assumere per evitare che le pubbliche
amministrazioni –solo in base alla citata pronuncia
della Corte dei Conti del 2014– utilizzino lo
strumento della ripetizione di indebito in un caso,
come quello in esame, dove i dipendenti hanno
percepito i descritti emolumenti in forza di atti e
regolamenti approvati dalle stesse amministrazioni
in attuazione della normativa citata. |
Staremo a vedere quali saranno gli sviluppi,
prossimamente...
23.03.2016 - LA SEGRETERIA PTPL |
IN EVIDENZA |
COMPETENZE PROGETTUALI: Ingegneri
junior confinati alla collaborazione.
Tecnici. I professionisti della sezione B sono autonomi solo
per le costruzioni semplici.
Limiti severi
per l’ingegnere junior nelle offerte di gara di appalto,
qualora si tratti di offrire soluzioni migliorative.
Lo
sottolinea il Consiglio di Stato, Sez. V, con la
sentenza 25.02.2016 n. 776, relativa a una gara di appalto in cui
l’offerta tecnica consentiva innovazioni rispetto al
progetto predisposto da un Comune.
I lavori messi in gara (completamento della rete fognaria e
di un impianto di depurazione), esigevano soluzioni
avanzate, innovative e sperimentali, ritenute di competenza
dell’ingegnere iscritto nella sezione “A” (laurea
magistrale) del Dpr 328/2001.
Il Consiglio di Stato sottolinea che le progettazioni
effettuate dall’ingegnere junior non erano ascrivibili a
mero concorso e collaborazione alle attività di
progettazione di un professionista abilitato per la
realizzazione di opere edilizie; «ciò in quanto tale
attività deve intendersi quale collaborazione concreta alla
redazione di un progetto in fieri e non quale attività di
apporto di migliorie ad un progetto già redatto, rispetto al
quale (le innovazioni, ndr) assumono carattere di
autonomia».
L’ingegnere junior -secondo il Consiglio di
Stato- può partecipare a progettazioni complesse solo sotto
la direzione e il controllo di un ingegnere iscritto nella
sezione “A”, può collaborare esclusivamente riguardo a opere
edilizie (realizzando, modificando, riparando o demolendo un
edificio, comprese le opere pubbliche) ed è autonomo per le
sole costruzioni civili semplici.
Tra tali competenze non vi sono quindi quelle «proposte
tecniche migliorative» che il Comune chiedeva, finalizzate
alla migliore funzionalità e fruibilità –nel caso esaminato– di una rete fognaria nonché quelle finalizzate alla
riduzione dei costi di manutenzione e gestione dell’opera,
alla funzionalità delle varie fasi del processo depurativo,
quelle per la gestione della sicurezza e dell’organizzazione
del cantiere.
Le rispettive competenze degli ingegneri juniores e seniores
non sono separate dall’uso (per i soli seniores) di
metodologie avanzate, innovative o sperimentali, ovvero
standardizzate: secondo il Consiglio di Stato le competenze
sono anche divise dalla possibilità, per gli juniores, di
operare solo in concorso e in collaborazione alle attività
proprie degli ingegneri per opere edilizie e di progettare
autonomamente solo costruzioni civili semplici.
Tutto questo ragionamento, coerente alle esigenze
dell’utenza che esige specifiche capacità, ha comunque un
peccato originale: nel caso specifico il progetto posto a
base d’asta, che era solo da migliorare, risultava redatto
da un geometra (articolo Il Sole 24 Ore
dell'01.03.2016). |
COMPETENZE PROGETTUALI:
Sulle competenze dell'ingegnere "junior".
L’art. 46, del d.P.R. n. 328 del 2001 stabilisce che: ”1.
Le attività professionali che formano oggetto della
professione di ingegnere sono così ripartite tra i settori
di cui all'articolo 45, comma 1:
a) per il settore "ingegneria civile e ambientale": la
pianificazione, la progettazione, lo sviluppo, la direzione
lavori, la stima, il collaudo, la gestione, la valutazione
di impatto ambientale di opere edili e strutture,
infrastrutture, territoriali e di trasporto, di opere per la
difesa del suolo e per il disinquinamento e la depurazione,
di opere geotecniche, di sistemi e impianti civili e per
l'ambiente e il territorio; ……
2. Ferme restando le riserve e le attribuzioni già stabilite
dalla vigente normativa e oltre alle attività indicate nel
comma 3, formano in particolare oggetto dell'attività
professionale degli iscritti alla sezione A, ai sensi e per
gli effetti di cui all'articolo 1, comma 2, le attività,
ripartite tra i tre settori come previsto dal comma 1, che
implicano l'uso di metodologie avanzate, innovative o
sperimentali nella progettazione, direzione lavori, stima e
collaudo di strutture, sistemi e processi complessi o
innovativi.
3. Restando immutate le riserve e le attribuzioni già
stabilite dalla vigente normativa, formano oggetto
dell'attività professionale degli iscritti alla sezione B,
ai sensi e per gli effetti di cui all'articolo 1, comma 2:
a) per il settore "ingegneria civile e ambientale": 1) le
attività basate sull'applicazione delle scienze, volte al
concorso e alla collaborazione alle attività di
progettazione, direzione dei lavori, stima e collaudo di
opere edilizie comprese le opere pubbliche; 2) la
progettazione, la direzione dei lavori, la vigilanza, la
contabilità e la liquidazione relative a costruzioni civili
semplici, con l'uso di metodologie standardizzate; 3) i
rilievi diretti e strumentali sull'edilizia attuale e
storica e i rilievi geometrici di qualunque natura; …”..
La ratio della norma deve individuarsi
nell’intento di attribuire all’ingegnere “junior” la
possibilità di partecipare a progettazioni complesse sotto
la direzione ed il controllo di un ingegnere iscritto nella
sezione “A” al precipuo scopo di evitare che nella concreta
fase di realizzazione delle stesse possano essere commessi,
per inesperienza legata alla mancata conclusione del ciclo
di studi completo, errori potenzialmente forieri di
conseguenze negative nella progettazione di opere più
rilevanti.
---------------
L’art.
46, comma 3, lettera a), n. 1), del d.P.R. n. 328 del 2001
stabilisce che gli ingegneri “junior” con laurea
triennale possano svolgere attività basate sull’applicazione
delle scienze, con mera attività di concorso e
collaborazione rispetto all’attività degli ingegneri della
sezione “A” e solo nel settore delle opere edili; solo in
materia di edilizia privata gli ingegneri “junior”
avrebbero competenze proprie, nei casi regolati dal comma 3,
lettera a), n. 2 di detto art. 46.
Per il settore ingegneria civile
ed ambientale l’ingegnere “junior” può svolgere la prevista
attività di collaborazione esclusivamente con riguardo ad
opere edilizie (cioè le opere, lavorazioni e interventi che
mirano a realizzare, modificare, riparare o demolire, di
norma, un edificio, e che, comunque individuate, devono
essere finalizzate alla realizzazione dello stesso comprese
le opere pubbliche) ed attività autonoma per le costruzioni
civili semplici.
---------------
Circa la tesi
prospettata sul rilievo che le rispettive competenze dei
suddetti ingegneri derivino dagli artt. 51 e 52 del r.d. n.
2537 del 1925, in base ai quali la distinzione qualitativa
conseguente ai percorsi formativi di accesso (relativi,
rispettivamente, alle lauree e alle lauree specialistiche)
si estrinsecherebbe solo nel riservare agli iscritti nella
sezione “A” le attività che implicano l’uso di metodologie
avanzate, innovative, o sperimentali, osserva al riguardo la Sezione che
dette norme non prevedono
la differenziazione in questione, che è individuata
dall’art. 46 del d.P.R. n. 328 del 2001, in precedenza
riportato, le cui disposizioni non pongono come unico
discrimine tra le attività consentite per gli ingegneri
iscritti alla sezione “A” e gli ingegneri iscritti alla
sezione “B” solo l’uso di metodologie avanzate, innovative o
sperimentali, ovvero standardizzate, ma anche la possibilità
per i secondi di operare solo in concorso e in
collaborazione alle attività proprie degli ingegneri per
opere edilizie e di progettare autonomamente solo
costruzioni civili semplici.
---------------
... per la riforma della sentenza del TAR Campania, Sezione
staccata di Salerno, Sezione II, n. 797 del 2015;
...
1.- La Eredi Pi.Ru.Co. s.a.s. di Ru.Pa. ha impugnato presso il TAR Campania, Sezione
staccata di Salerno, il provvedimento n. 296 del 19.01.2015 con cui il Comune di Lapio, previa approvazione degli
atti di gara, ha disposto l'aggiudicazione definitiva dei
lavori di completamento ed adeguamento della rete fognaria e
dell'impianto di depurazione alla società Av.Co. di G.Av. & C. s.a.s.; con il gravame
è
stata dedotta l’illegittimità dell’impugnato provvedimento
per violazione dell’art. 46 del d.P.R. 328 del 2001, in
quanto gli elaborati dell’offerta tecnica sarebbero stati
redatti e sottoscritti da un ingegnere “junior”,
appartenente alle Sezione “B” di detto d.P.R., non abilitato
a redigere i progetti richiesti dal bando di gara, di
competenza esclusiva degli ingegneri appartenenti alla
Sezione “A”.
La società ricorrente ha quindi chiesto
l’aggiudicazione della gara e, qualora il contratto fosse
già stato stipulato, che sia dichiarata l’inefficacia dello
stesso, con subentro della società ricorrente; in via
subordinata, ha chiesto il risarcimento dei danni patiti.
2.- Il TAR, con la sentenza in epigrafe indicata, ha
respinto il ricorso principale nel sostanziale assunto che
l’attività dell’ingegnere di cui trattasi, appartenente alla
sezione “B”, rientrava nelle ipotesi di concorso e
collaborazione alle attività di progettazione, direzione dei
lavori, stima e collaudo di opere edilizie (comprese le
opere pubbliche) da esso effettuabili in quanto il progetto
recante migliorie che aveva redatto si fondava su un
progetto già posto in essere dalla stazione appaltante e,
quindi, era stato elaborato in concorso o collaborazione ad
una progettazione relativa ad opere pubbliche.
Ciò
considerato che la società ricorrente non aveva provato che
le migliorie indicate nel progetto contestato avessero vita
a soluzioni avanzate, innovative o sperimentali, di
competenza dell’ingegnere iscritto nella Sezione “A”, ben
potendo un progetto contenente soluzioni migliorative
rispetto a quello predisposto della stazione appaltante
prevedere metodologie standardizzate.
3.- Con il ricorso in appello in esame la
Eredi Pi.Ru.Co. s.a.s. di Ru.Pa. ha chiesto
l’annullamento o la riforma di detta sentenza, nonché il
risarcimento dei danni in forma specifica o per equivalente,
deducendo i seguenti motivi:
a) Carenza, insufficienza, erroneità, contraddittorietà,
irrazionalità ed illogicità della motivazione. Error in
iudicando. Violazione dell’art. 46 del d.P.R. n. 328 del
2001. Violazione del bando di gara, sezione IX.3 (pag. 14).
Eccesso di potere per manifesta illogicità ed irrazionalità.
Difetto di istruttoria. Nullità dell’offerta tecnica.
Violazione dell’art. 90, comma 8, del d.lgs. n. 163 del
2006.
Il TAR avrebbe confuso l’attività di collaborazione che
all’ingegnere “junior” è consentito effettuare in concorso
con un ingegnere appartenente alla sezione “A” con quella
esperibile in collaborazione con l’U.T.C. del Comune di
Lapio; inoltre non avrebbe considerato che le attività
esperibili dall’ingegnere “junior” sarebbero riferite a
costruzioni semplici e non ad opere pubbliche.
4.- Con memoria depositata il 22.06.2015 si sono
costituiti in giudizio l’ingegnere “junior” Si.Ci.
ed il SIND.In.AR.3 (Sindacato Nazionale Ingegneri juniores e
Architetti juniores) che hanno dedotto l’infondatezza
dell’appello, concludendo per la reiezione, nonché hanno
chiesto di essere ammessi a chiamare in causa il M.I.U.R.,
per chiarire l’origine e la ratio del d.P.R. n. 328 del
2001, e comunque che sia ordinato ad esso di depositare i
relativi atti preparatori.
5.- Con memoria depositata il 30.10.2015 le suddette parti
controinteressate hanno sostanzialmente ribadito tesi e
richieste.
6.- Con memoria depositata il 06.11.2015 si è costituito in
giudizio il Comune di Lapio, che ha dedotto l’infondatezza
dell’appello, nonché ha escluso la possibilità di
attribuzione del risarcimento in forma specifica (stante
l’esecuzione di una parte notevole dei lavori appaltati) e
per equivalente (tenuto conto che la società appellante
avrebbe dovuto essere esclusa per le ragioni indicate nel
ricorso incidentale proposto in primo grado dalla società
aggiudicataria).
7.- Alla pubblica udienza del 17.11.2015 il ricorso in
appello è stato trattenuto in decisione alla presenza degli
avvocati delle parti, come da verbale di causa agli atti del
giudizio.
8.- L’appello è fondato.
9.- Con il primo motivo di gravame è stato dedotto che il
TAR avrebbe confuso l’attività di collaborazione e concorso
che poteva essere svolta da parte dell’ingegnere “junior”
per la presentazione del progetto di cui trattasi insieme ad
altro tecnico qualificato appartenente alla sezione “A”
(diverso dal progettista ed esterno), con quella esperibile
in concorso con l’U.T.C. del Comune di Lapio, con cui
l’ingegnere “junior” non avrebbe potuto aver
collaborato in quanto non era in rapporto di dipendenza con
esso; peraltro la tesi del primo giudice contrasterebbe con
il disposto dell’art. 90 del d.lgs. n. 163 del 2006, che
esclude dalla partecipazione agli appalti gli affidatari di
incarichi di progettazione.
Inoltre le attività previste dall’art. 46, n. 2, lettera a),
del d.P.R. n. 328 del 2001 sarebbero riferite a costruzioni
semplici e non ad opere pubbliche.
Sarebbe stata violata la lex specialis, che
prevedeva, pena l’esclusione, che gli elaborati dell’offerta
tecnica fossero sottoscritti da un progettista abilitato
alla progettazione, ai sensi della normativa vigente; nel
caso di specie gli elaborati suddetti erano stati redatti e
sottoscritti unicamente da un ingegnere “junior”, e
quindi non abilitato, sicché la controinteressata avrebbe
dovuto essere esclusa dalla gara.
L’art.
46, comma 3, lettera a), n. 1), del d.P.R. n. 328 del 2001
stabilisce che gli ingegneri “junior” con laurea
triennale possano svolgere attività basate sull’applicazione
delle scienze, con mera attività di concorso e
collaborazione rispetto all’attività degli ingegneri della
sezione “A” e solo nel settore delle opere edili; solo in
materia di edilizia privata gli ingegneri “junior”
avrebbero competenze proprie, nei casi regolati dal comma 3,
lettera a), n. 2 di detto art. 46.
Nel caso di specie quelle da progettare non sarebbero
nemmeno state opere edili, ma opere per la difesa del suolo,
per il disinquinamento e per le depurazioni, nonché sistemi
ed impianti civili per l’ambiente ed il territorio, che, ex
art. 45, comma 1, lettera a), del citato d.P.R., sarebbero
di esclusiva competenza di ingegneri iscritti nella sezione
“A” e per le quali non sarebbe prevista alcuna attività di
concorso o collaborazione.
9.1.- Osserva la Sezione che il TAR ha respinto il ricorso
introduttivo del giudizio nel sostanziale assunto che le
prescrizioni della lex specialis circa la necessità
che gli elaborati dell’offerta tecnica fossero sottoscritti
da un progettista abilitato non erano state violate, perché
l’attività svolta dall’ingegnere “junior” era
consistita nel caso di specie nel concorso e collaborazione
ad attività di progettazione di opere edilizie, comprese
quelle pubbliche di cui trattasi, attività che era già stata
svolta all’atto della redazione del progetto predisposto
dalla stazione appaltante; ciò considerato che la società
ricorrente non aveva provato che le migliorie indicate nel
progetto redatto dal’ingegnere “junior” avessero dato
vita a soluzioni avanzate, innovative o sperimentali, di
esclusiva competenza dell’ingegnere iscritto nella Sezione
“A”.
Il primo giudice ha quindi sostanzialmente ritenuto che le
migliorie da apportare al progetto esecutivo redatto dalla
stazione appaltante fossero identificabili in mera attività
di collaborazione alla progettazione delle opere ivi
indicate.
Osserva il collegio che il bando di gara, alla sezione IX -
contenuti dell’offerta-, al punto IX.3 - documentazione
tecnica-, prevedeva che, a pena di esclusione, gli elaborati
dell’offerta tecnica avrebbero dovuto essere sottoscritti da
un progettista abilitato all’esercizio della professione, ai
sensi della normativa vigente e sottoscritti anche dal
legale rappresentante in segno di accettazione; inoltre che
le proposte contenute nell’offerta tecnica avrebbero dovuto
essere sviluppate nel completo rispetto della normativa
vigente nazionale e regionale ed avrebbero costituito
integrazione delle corrispondenti indicazioni contenute
negli elaborati progettuali posti a base di gara.
Il bando stesso, al punto VI.2.1) -Valutazione
dell’offerta-, prevedeva che il progetto esecutivo non era
suscettibile di modificazioni che ne alterassero in modo
essenziale la sostanzialità e che erano ammesse proposte
solo migliorative (cioè quelle che avessero apportato
migliorie qualitativamente apprezzabili al progetto posto a
base di gara, senza tuttavia stravolgerne l’identità, tali
intendendosi solo le integrazioni esecutive, accorgimenti
tecnici incidenti sulla funzionalità e sulla durata,
proposte migliorative ed apporti di tecnologie innovative
sul risparmio energetico).
L’art. 46, del d.P.R. n. 328 del 2001 stabilisce che: ”1.
Le attività professionali che formano oggetto della
professione di ingegnere sono così ripartite tra i settori
di cui all'articolo 45, comma 1:
a) per il settore "ingegneria civile e ambientale": la
pianificazione, la progettazione, lo sviluppo, la direzione
lavori, la stima, il collaudo, la gestione, la valutazione
di impatto ambientale di opere edili e strutture,
infrastrutture, territoriali e di trasporto, di opere per la
difesa del suolo e per il disinquinamento e la depurazione,
di opere geotecniche, di sistemi e impianti civili e per
l'ambiente e il territorio; ……
2. Ferme restando le riserve e le attribuzioni già stabilite
dalla vigente normativa e oltre alle attività indicate nel
comma 3, formano in particolare oggetto dell'attività
professionale degli iscritti alla sezione A, ai sensi e per
gli effetti di cui all'articolo 1, comma 2, le attività,
ripartite tra i tre settori come previsto dal comma 1, che
implicano l'uso di metodologie avanzate, innovative o
sperimentali nella progettazione, direzione lavori, stima e
collaudo di strutture, sistemi e processi complessi o
innovativi.
3. Restando immutate le riserve e le attribuzioni già
stabilite dalla vigente normativa, formano oggetto
dell'attività professionale degli iscritti alla sezione B,
ai sensi e per gli effetti di cui all'articolo 1, comma 2:
a) per il settore "ingegneria civile e ambientale": 1) le
attività basate sull'applicazione delle scienze, volte al
concorso e alla collaborazione alle attività di
progettazione, direzione dei lavori, stima e collaudo di
opere edilizie comprese le opere pubbliche; 2) la
progettazione, la direzione dei lavori, la vigilanza, la
contabilità e la liquidazione relative a costruzioni civili
semplici, con l'uso di metodologie standardizzate; 3) i
rilievi diretti e strumentali sull'edilizia attuale e
storica e i rilievi geometrici di qualunque natura; …”..
9.2.- Tanto premesso ritiene il collegio fondate le censure
in esame, in quanto nel caso che occupa, posto che non si
verteva in materia di costruzioni civili semplici, non può
ritenersi che le progettazioni effettuate dall’ingegnere
“junior” fossero ascrivibili a mero concorso e
collaborazione alle attività di progettazione di un
professionista abilitato per la realizzazione di opere
edilizie; ciò in quanto tale attività deve intendersi quale
collaborazione concreta alla redazione di un progetto in
fieri e non quale attività di apporto di migliorie ad un
progetto già redatto, rispetto al quale assumono carattere
di autonomia.
La ratio della norma deve infatti individuarsi
nell’intento di attribuire all’ingegnere “junior” la
possibilità di partecipare a progettazioni complesse sotto
la direzione ed il controllo di un ingegnere iscritto nella
sezione “A” al precipuo scopo di evitare che nella concreta
fase di realizzazione delle stesse possano essere commessi,
per inesperienza legata alla mancata conclusione del ciclo
di studi completo, errori potenzialmente forieri di
conseguenze negative nella progettazione di opere più
rilevanti.
Nel caso che occupa le opere alle quali era previsto che le
concorrenti potessero apportare migliorie mediante
presentazione di elaborati redatti e sottoscritti da un
progettista abilitato alla professione, consistevano nel
completamento ed adeguamento della rete fognaria e di un
impianto di depurazione.
In particolare, al punto VI.2.1)
del bando di gara, era previsto che il progetto esecutivo
era insuscettibile di modificazioni, ma erano ammesse solo
proposte migliorie qualitativamente apprezzabili al progetto
posto a base di gara, tali da non stravolgerne l’identità,
tali intendendosi “esclusivamente le integrazioni esecutive,
oltre agli accorgimenti tecnici incidenti sulla funzionalità
e sulla durata, proposte migliorative ed apporti di
tecnologie innovative sul risparmio energetico”.
Non vi è dubbio quindi che le migliorie in questione
consistessero in autonoma attività professionale da svolgere
da parte dell’ingegnere abilitato, senza alcuna
collaborazione diretta e contestuale alla attività posta in
essere dal redattore del progetto esecutivo posto a base di
gara.
Peraltro dal tenore della norma sopra citata si evince con
sufficiente chiarezza che per il settore ingegneria civile
ed ambientale l’ingegnere “junior” può svolgere la prevista
attività di collaborazione esclusivamente con riguardo ad
opere edilizie (cioè le opere, lavorazioni e interventi che
mirano a realizzare, modificare, riparare o demolire, di
norma, un edificio, e che, comunque individuate, devono
essere finalizzate alla realizzazione dello stesso comprese
le opere pubbliche) ed attività autonoma per le costruzioni
civili semplici, tra le quali non sono computabili le opere
previste dal bando di cui trattasi.
Dall’elenco degli elementi oggetto di valutazione indicati
al bando di gara al punto VI.2.1) risulta infatti che le
proposte tecniche migliorative sono state individuate:
1) in
quelle finalizzate alla migliore funzionalità e fruibilità
dell’intera rete fognaria durante i ciclo di vita utile
dell’intera opera, nonché in quelle finalizzate alla
durabilità delle opere ed alla riduzione dei costi di
manutenzione e gestione dell’opera con disponibilità alla
presa in carico del servizio di gratuita manutenzione
ordinaria e straordinaria;
2) in quelle relative
all’impianto di depurazione, con particolare riguardo alla
funzionalità delle varie fasi del processo depurativo,
nonché alla sistemazione dell’area esterna dell’impianto;
3)
in quelle per la gestione della sicurezza e
dell’organizzazione del cantiere e per la riduzione dei
disagi, con minimizzazione delle interferenze con il
traffico veicolare e pedonale e informativa all’utenza.
Come risulta dalle pagine da 30 a 32 della memoria difensiva
di costituzione dei contro interessati, depositata il
22.06.2015, le migliorie sottoscritte dall’ingegnere
“junior” Ci. consistevano, con riguardo alla rete
fognaria, nella estensione della rete, nell’utilizzo di
misto cemento all’interno degli scavi, nel ripristino della
pavimentazione stradale, nella ottimizzazione delle stazioni
di sollevamento, nel rifacimento di una strada di accesso ad
una pompa di sollevamento, nel rifacimento di strade, nella
sistemazione di un canale di deflusso delle acque, nella
realizzazione di un muro di sostegno, nella progettazione e
calcoli strutturali delle opere in cemento armato; con
riguardo all’impianto depurativo consistevano nella
fornitura e posa in opera di un sistema di automazione di un
cancello, di una recinzione, nella messa in sicurezza di un
apparecchio per la grigliatura, nella manutenzione di un
canale di disabbiamento, nella fornitura di griglie, nella
realizzazione di vasche di denitrificazione e di
sedimentazione, nella fornitura di un nuovo sistema di
areazione, nella realizzazione di un locale tecnico a
servizio degli operatori, nel ripristino di una vasca di
sedimentazione, nella riprofilatura di una vasca di
contatto, nella fornitura di un sistema di dosaggio
automatico di disinfettante e di un sistema di
condizionamento, nella realizzazione di pavimentazione nella
pulizia e sistemazione di area a verde, nella fornitura e
posa in opera di un impianto di illuminazione con
alimentazione fotovoltaica, nonché nella progettazione e
calcoli strutturali per le opere in cemento armato.
Le opere progettate dall’ingegnere “junior” non erano
qualificabili come opere civili semplici.
Ciò posto, non possono condividersi nella fattispecie i
rilievi formulati dai controinteressati costituiti in
giudizio che (posto che disposizioni di cui agli art. 16 e
46, del d.P.R. n. 328 del 2001 individuano le competenze
degli iscritti alle Sezioni “A” e “B”, rispettivamente degli
architetti e degli ingegneri, facendo esclusivo riferimento
al concetto di "costruzioni civili semplici, con l'uso di
metodologie standardizzate") hanno affermato che l’unico
discrimine qualitativo tra le competenze dell’ingegnere
iscritto nella sezione “A” e quelle dell’ingegnere “junior”
sarebbe l’utilizzo di metodologie standardizzate da parte di
quest’ultimo e di metodologie avanzate, innovative o
sperimentali da parte del primo, mentre null’altro avrebbe a
valere il concorso e collaborazione o i riferimenti a
costruzioni civili semplici, che individuerebbero solo le
caratteristiche maggiormente caratterizzanti la professione.
La tesi è basata sul rilievo che le rispettive competenze
dei suddetti ingegneri derivino dagli artt. 51 e 52 del r.d.
n. 2537 del 1925, in base ai quali la distinzione
qualitativa conseguente ai percorsi formativi di accesso
(relativi, rispettivamente, alle lauree e alle lauree
specialistiche) si estrinsecherebbe solo nel riservare agli
iscritti nella sezione “A” le attività che implicano l’uso
di metodologie avanzate, innovative, o sperimentali.
Osserva al riguardo la Sezione che dette norme non prevedono
la differenziazione in questione, che è individuata
dall’art. 46 del d.P.R. n. 328 del 2001, in precedenza
riportato, le cui disposizioni non pongono come unico
discrimine tra le attività consentite per gli ingegneri
iscritti alla sezione “A” e gli ingegneri iscritti alla
sezione “B” solo l’uso di metodologie avanzate, innovative o
sperimentali, ovvero standardizzate, ma anche la possibilità
per i secondi di operare solo in concorso e in
collaborazione alle attività proprie degli ingegneri per
opere edilizie e di progettare autonomamente solo
costruzioni civili semplici.
A nulla vale, inoltre, che, come affermato nella memoria
depositata dalle parti contro interessate il 30.10.2015, il progettista dell’opera oggetto della gara di cui
trattasi fosse un geometra, non essendo stato
tempestivamente impugnato il bando laddove ha previsto, al
punto IX.3, che gli elaborati dell’offerta tecnica avrebbero
dovuto essere redatti e sottoscritti da un progettista
abilitato all’esercizio della professione; ciò comporta che,
essendo le migliorie proposte dalla Av.Co. di
G.Av. & C. s.a.s. sottoscritte dall’ingegner Ci.,
questi avrebbe dovuto comunque essere abilitato alla
redazione dei relativi elaborati.
10.- L’appello deve essere conclusivamente accolto nei
termini di cui in motivazione e, considerato che detta
s.a.s. non ha riproposto in appello il ricorso incidentale
formulato in primo grado, il collegio, in riforma della
prima decisione, accoglie il ricorso introduttivo del
giudizio e, per l’effetto, annulla i provvedimenti con esso
impugnati.
...
12.- Nella complessità delle questioni trattate il collegio
ravvisa eccezionali ragioni per compensare, ai sensi degli
artt. 26, comma 1, del c.p.a. e 92, comma 2, del c.p.c., le
spese del doppio grado di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione
Quinta, definitivamente decidendo, accoglie
l’appello in esame nei termini e nei limiti di cui in
motivazione e, per l’effetto, in riforma della sentenza di
primo grado, accoglie il ricorso originario proposto dinanzi
al TAR ed annulla i provvedimenti con esso impugnati
(Consiglio
di Stato, Sez. V, con la
sentenza 25.02.2016 n. 776
-
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
NOVITA' NEL SITO |
Inserito il nuovo bottone:
●
dossier CARTELLO DI CANTIERE |
UTILITA' |
EDILIZIA PRIVATA: Semplificazioni
in edilizia
(articolo ItaliaOggi Sette del 14.03.2016). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI:
Modulistica di Prevenzione Incendi (link a
www.vigilfuoco.it).
---------------
Prevenzione incendi: la nuova
modulistica dei Vigili del Fuoco.
L'entrata in vigore del decreto attuativo del D.P.R. n.
151/2011 (costituito dal Decreto 07.08.2012, in vigore dal
27 novembre dello stesso anno) ha comportato un riordino
generale della modulistica di prevenzione incendi, per
l'occasione denominata "Modulistica 2012".
Questa, in sostanza, ha riproposto -riadattandoli,
aggiornati ai nuovi riferimenti normativi o modificati in
virtù delle novità introdotte- quelli che erano i modelli "2008"
e "2011".
La modulistica "PIN 2012" è rimasta in vigore per
circa un anno e mezzo, fino al 30.04.2014, quando ne è stata
disposta la parziale sostituzione con dei nuovi moduli,
recanti lievi modifiche ed integrazioni, pur mantenendone
sostanzialmente inalterati i contenuti.
L'introduzione della nuova modulistica di prevenzione
incendi "PIN 2014", come del resto specificato
nell'art. 11, comma 2, del Decreto 07.08.2012, è stata
disposta da apposito decreto del Direttore Centrale per la
Prevenzione e Sicurezza Tecnica.
Nella fattispecie, il Decreto DCPST n. 252 del 10.04.2014,
diffuso alle Direzioni Regionali e ai Comandi Provinciali
VV.F., oltreché ai Consigli Nazionali delle varie categorie
di Professionisti abilitati alle certificazioni in materia
di prevenzione incendi tramite la nota prot. 4849
dell'11.04.2014, prevede la parziale modifica ed
integrazione di alcuni dei modelli PIN per la presentazione
delle segnalazioni, delle asseverazioni e delle
certificazioni.
La modulistica attualmente utilizzabile per i procedimenti
di prevenzione incendi è costituita dai seguenti modelli,
alcuni dei quali datati 2012 e 2014:
• Mod. PIN 1-2012: Richiesta di Valutazione Progetto
• Mod. PIN 2-2014: Segnalazione Certificata di Inizio
Attività
• Mod. PIN 2.1-2014: Asseverazione per SCIA
• Mod. PIN 3-2014: Attestazione di Rinnovo Periodico
• Mod. PIN 3.1-2014: Asseverazione per Rinnovo
• Mod. PIN 4-2012: Richiesta di Deroga
• Mod. PIN 5-2012: Richiesta del Nulla Osta di Fattibilità
• Mod. PIN 6-2012: Richiesta di Verifica in Corso d'Opera
• Mod. PIN 7-2012: Dichiarazione per Voltura (07.03.2016
- commento tratto da http://lavoripubblici.it). |
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mobili ed elettrodomestici (Agenzia delle
Entrate, marzo 2016). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
CONSIGLIERI REGIONALI - PUBBLICO IMPIEGO: B.U.R.
Lombardia, supplemento n. 11 del 18.03.2016, "Disposizioni
per la prevenzione e la repressione della corruzione e
dell’illegalità nella pubblica amministrazione regionale" (L.R.
17.03.2016 n. 5).
---------------
Al riguardo, si legga anche:
►
Progetto di legge istitutivo dell’ARAC – Regione
Lombardia. Richiesta di parere. Il Consiglio dell’Autorità
nazionale anticorruzione nell’adunanza del 09.03.2016 (A.N.AC.,
delibera 09.03.2016 n. 245 - link a
www.autoritalavoripubblici.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO - URBANISTICA: B.U.R.
Lombardia, supplemento n. 11 del 18.03.2016, "Revisione
della normativa regionale in materia di difesa del suolo, di
prevenzione e mitigazione del rischio idrogeologico e di
gestione dei corsi d’acqua" (L.R.
15.03.2016 n. 4). |
EDILIZIA PRIVATA:
G.U. 11.03.2016 n. 59 "Riorganizzazione del
Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo
ai sensi dell’articolo 1, comma 327, della legge 28.12.2015,
n. 208" (Ministero dei Beni e delle Attività
Culturali e del Turismo,
decreto 23.01.2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
G.U. 09.03.2016 n. 57 "Attuazione della direttiva
2014/61/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del
15.05.2014, recante misure volte a ridurre i costi
dell’installazione di reti di comunicazione elettronica ad
alta velocità" (D.Lgs.
15.02.2016 n. 33).
---------------
Reti di telecomunicazioni ad alta velocità: in Gazzetta il
decreto che attua la direttiva 2014/61/UE.
Semplificate le procedure amministrative di rilascio delle
autorizzazioni all’effettuazione di scavi per facilitare la
posa della fibra ottica (10.03.2016 - link a
www.casaeclima.com). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 10 dell'08.03.2016, "Pubblicazione
ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale
21.01.2001, n. 1, dell’elenco dei tecnici competenti in
acustica ambientale riconosciuti dalla Regione Lombardia
alla data del 29.02.2016, in attuazione dell’articolo 2,
commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447 e della
deliberazione di giunta regionale 06.08.2012, n. IX/3935" (comunicato
regionale 01.03.2016 n. 42). |
ENTI
LOCALI: G.U.
07.03.2016 n. 55 "Ulteriore
differimento dal 31 marzo al 30.04.2016 del termine per la
deliberazione del bilancio di previsione per l’anno 2016 da
parte degli enti locali, ad eccezione delle città
metropolitane e delle province, per le quali lo stesso
termine viene ulteriormente differito al 31.07.2016" (Ministero
dell'Interno,
decreto 01.03.2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
G.U. 07.03.2016 n. 55 "Attuazione della direttiva
2013/51/EURATOM del Consiglio, del 22.10.2013, che
stabilisce requisiti per la tutela della salute della
popolazione relativamente alle sostanze radioattive presenti
nelle acque destinate al consumo umano" (D.Lgs.
15.02.2016 n. 28). |
APPALTI:
Schema di decreto legislativo recante disposizioni per
l'attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e
2014/25/UE sull'aggiudicazione dei contratti di concessione,
sugli appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli
enti erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei
trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino
della disciplina vigente in materia di contratti pubblici
relativi a lavori, servizi e forniture (Atto del Governo
n. 283):
●
Atto del Governo sottoposto a parere parlamentare -
05.03.2016
●
Sintesi del contenuto - 15.03.2016
●
Schede di lettura - 17.03.206 |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie avvisi e concorsi n. 9 del
02.03.2016, "Commissione provinciale espropri di Bergamo
-
Delibera n. 1 dell’11.02.2016.
Determinazione dei valori agricoli medi riferiti all’anno
2015 e valevoli per l’anno 2016". |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
EDILIZIA PRIVATA:
L. Spallino,
Distanze in edilizia - REPERTORIO DI GIURISPRUDENZA (digesto
giurisprudenziale in materia di regime delle distanze in
edilizia, con particolare attenzione alla applicazione del
d.m. 1444/1968, art. 9) (20.03.2016 -
tratto da www.studiospallino.it
cliccando qui). |
APPALTI:
U. Valboa,
Il mercato elettronico della PA. Fonti normative. Strumenti
di acquisto nell’ambito della procedura telematica (ODA –
RDO). Principali fasi. Atto di determina (07.03.2016
- tratto da www.diritto.it). |
LAVORI PUBBLICI:
F. Mazzoni,
APPALTI: VALUTAZIONE DELLE RISERVE - 3^ parte (14.03.2016
- link a
www.ambientediritto.it). |
LAVORI PUBBLICI:
F. Mazzoni,
APPALTI: ESECUZIONE DEI LAVORI - Vademecum settori ordinari
- 2^ parte
(04.03.2016 - link a www.ambientediritto.it). |
APPALTI SERVIZI:
G. Gambardella,
I servizi pubblici locali con particolare riferimento al
servizio di gestione dei rifiuti solidi urbani ((Rassegna
Avvocatura dello Stato n. 4/2015).
---------------
SOMMARIO: 1. I servizi pubblici locali: profili
generali - 2. Servizi pubblici locali a rilevanza economica
e servizi privi di tale rilevanza - 3. Recenti interventi
legislativi sulle modalità di affidamento dei servizi
pubblici locali: dall’art. 23-bis del d.l. 25.06.2008 n. 112
all’art. 4 del d.l. n. 13.08.2011 n. 138 ed al decreto
Milleproroghe ”modifiche alla disciplina dei servizi
pubblici locali - 3.1 L’iniziativa referendaria e la
sentenza della Corte Costituzione del 26.01.2011, n. 24.
L’esito del referendum e la disciplina applicabile - 3.2 La
disciplina introdotta dall’art. 4 del d.l. n. 13.08.2011 n.
138 - 4. Brevi considerazioni sui rifiuti urbani e il loro
impatto sull’ambiente - 5. Nozioni introduttive dei rifiuti
solidi urbani. Disciplina comunitaria nazionale e regionale
- 6. Competenze statali, regionali, provinciali e comunali,
delle Camere di Commercio e delle ASL in materia ambientale
con particolare riferimento alla gestione dei rifiuti solidi
urbani - 7. Distinzione tra rifiuti urbani e rifiuti
speciali - 8. La gestione dei rifiuti: profili storici fino
all’entrata in vigore del testo unico - 8.1 La gestione dei
rifiuti prima del D.P.R. 10.09.1982 n. 915 - 8.2 La legge
20.03.1941 n. 366 sullo smaltimento dei rifiuti solidi
urbani - 9. I Principi della gestione dei rifiuti - 10. La
riforma della gestione dei rifiuti solidi urbani - 11.
Conclusioni. |
EDILIZIA PRIVATA:
Cartello di cantiere: soggetti obbligati e sanzioni.
L’approfondimento
(21.03.2015 - tratto da www.avvocaticcs.it). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI:
Cartello di Cantiere: ecco tutte le indicazioni necessarie
(06.11.2013 - link a www.ediltecnico.it). |
A.N.AC. (già
AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI) |
LAVORI PUBBLICI:
Oggetto: Ulteriori precisazioni in merito al “Manuale
sulla qualificazione per l’esecuzione di lavori pubblici di
importo superiore a 150.000 euro” (comunicato
del Presidente 09.03.2016 - link a
www.autoritalavoripubblici.it). |
LAVORI PUBBLICI:
Indicazioni sull’applicazione dell’art. 37, d.l.
24.06.2014, n. 90 convertito in legge 11.08.2014, n. 114
- In ragione di sollecitazioni pervenute da soggetti
operanti nel settore dei contratti pubblici ed emerse in
sede di ottemperanza all’obbligo di trasmissione all’ANAC
delle varianti in corso d’opera ex art. 37, comma 1, d.l.
90/2014 (conv. con l. 114/2014), ad integrazione del
Comunicato del Presidente dell’ANAC del 17.03.2015, si
forniscono le seguenti indicazioni interpretative
sull’applicazione della norma (comunicato
del Presidente 17.02.2016 -
link a www.autoritalavoripubblici.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Incarichi a contratto a rischio corruzione.
Gli incarichi dei dirigenti a contratto costituiscono un
rilevante rischio ai fini della lotta alla corruzione, della
quale le pubbliche amministrazioni debbono necessariamente
tenere conto.
È questo il principio più rilevante che emerge dalla
delibera
03.02.2016 n. 87 dell'Autorità nazionale anticorruzione, che ha stigmatizzato per una serie di
illegittimità varie incarichi dirigenziali assegnati dal
comune di Guidonia Montecelio (Roma) a un architetto.
La vicenda è estremamente intricata. La delibera dell'Anac
nota come nei confronti di un funzionario architetto
dell'ente siano stati assegnati in modo confuso e misto
incarichi sia di capo di gabinetto del sindaco e, dunque, in
staff all'organo di governo, sia incarichi dirigenziali
operativi, ai sensi dell'articolo 110, commi 1 (dotazionali)
e 2 (extradotazionali) del dlgs 267/2000, successivamente
alle modifiche apportate a tale norma dal dl 90/2014. Gli
incarichi sono stati conferiti in una prima fase con decreti
sindacali, in una seconda con decreti del vicesindaco e in
una terza modificati con deliberazione di giunta.
L'Anac
rileva una serie di possibili vizi di legittimità. Infatti,
il rinnovo/modifica degli incarichi dirigenziali al
destinatario da ultimo definiti dal vice sindaco sono stati
fondati sull'articolo 109, comma 2, del dlgs 267/2000, che
consente di assegnare incarichi dirigenziali a personale
privo della relativa qualifica, ma solo negli enti nei quali
non siano presenti dirigenti, mentre nel comune di Guidonia
le qualifiche dirigenziali sono previste.
In particolare,
comunque, l'Anac contesta al comune l'utilizzo delle norme
sugli incarichi a contratto, senza avere dato corso a una
procedura selettiva, nonostante fosse già vigente l'obbligo
in tal senso imposto dal dl 90/2014. La delibera Anac,
dunque, contesta all'attuale sindaco le numerose
illegittimità riscontrate, invitandolo a porvi rimedio e, in
particolare, osserva come il piano triennale anticorruzione
dell'ente non abbia previsto rischio alcuno di corruzione,
connesso al processo di reclutamento dei dirigenti a
contratto.
Secondo l'Anac si tratta di un vizio molto
rilevante, in contrasto aperto con le indicazioni del Piano
nazionale anticorruzione del 2013. La delibera dell'Anac,
infatti, ingiunge al comune di integrare il piano triennale
anticorruzione, considerando espressamente nella mappatura
dei rischi proprio i conferimenti di incarichi dirigenziali,
di funzioni dirigenziali, di posizioni organizzative con o
senza funzioni dirigenziali, indicando le misure necessarie
«per scongiurare il pericolo di abusi nel relativo processo
di individuazione e/o selezione del personale».
La delibera
nota che il conferimento degli incarichi a contratto ai
sensi dell'articolo 110 del dlgs 267/2000 è connotato dai
rischi specifici concernenti l'area del reclutamento del
personale definiti dal Piano nazionale anticorruzione e in
particolare l'«abuso nei processi di stabilizzazione
finalizzato al reclutamento di candidati particolari», le
«previsioni di requisiti di accesso “personalizzati” e
insufficienza di meccanismi oggettivi e trasparenti idonei a
verificare il possesso dei requisiti attitudinali e
professionali richiesti in relazione alla posizione da
ricoprire allo scopo di reclutare candidati particolari»,
l'«inosservanza delle regole procedurali a garanzia della
trasparenza e dell'imparzialità della selezione», e la
«motivazione generica e tautologica circa la sussistenza dei
presupposti di legge per il conferimento di incarichi
professionali allo scopo di agevolare soggetti particolari».
Per questo, la delibera dell'Anac esplicita la necessità che
il piano triennale anticorruzione preveda la nomina di una «Commissione
tecnica deputata all'accertamento del possesso di comprovata
esperienza pluriennale e specifica professionalità nelle
materie oggetto dell'incarico in capo ai candidati»,
oltre all'obbligo di definire e pubblicare un elenco di
idonei all'esito dei lavori
(articolo ItaliaOggi dell'01.03.2016). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
APPALTI:
Oggetto: Nuovo Codice dei contratti pubblici –
Aggiornamento (ANCE di Bergamo,
circolare 18.03.2016 n. 74). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Conto termico: aggiornate le regole di
incentivazione per efficienza energetica e fonti rinnovabili
(ANCE di Bergamo,
circolare 18.03.2016 n. 72). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Compendio di normativa ambientale. Edizione num.
6 – anno 2016 (ANCE di Bergamo,
circolare 18.03.2016 n. 70). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: linee guida all'applicazione del D.M. 20.12.2012
"Decreto impianti"
(Consiglio Nazionale degli Ingegneri,
circolare 17.03.2016 n. 697).
---------------
PREMESSA
Il CNI, nel corso della seduta di consiglio del 24/02/2016,
su proposta del GdL Sicurezza, ha condiviso le LINEE GUIDA
ALL’APPLICAZIONE DEL D.M. 20.12.2012 “Decreto impianti”,
elaborate dalla Commissione Sicurezza Antincendio della
Consulta Regionale degli Ordini degli Ingegneri della
Lombardia che rappresentano un utile supporto per i
professionisti nella formulazione delle Specifiche tecniche
degli impianti di protezione attiva contro l’incendio e
della relativa documentazione progettuale richieste dal D.M.
20.12.2012 nell’ambito dei procedimenti di prevenzione
incendi.
Il Decreto, che disciplina la progettazione, la costruzione,
l'esercizio e la manutenzione degli impianti di protezione
attiva contro l'incendio, così come definiti nella allegata
Regola tecnica di prevenzione incendi per gli impianti di
protezione attiva contro l'incendio installati nelle
attività soggette ai controlli di prevenzione incendi, al
cap. 3 precisa che la documentazione tecnica relativa agli
impianti, da presentare ai fini dei procedimenti di
prevenzione incendi di cui al D.P.R. 01.08.2011, n. 151, è
costituita dalla specifica dell'impianto che si intende
realizzare. (...continua). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: linee guida per la valutazione, in deroga, dei
progetti di edifici sottoposti a tutela ai sensi del d.lgs.
22.01.2004, n. 42, aperti al pubblico, destinati a contenere
attività dell'allegato 1 al D.P.R. 1 agosto
(Ministero dell'Interno, Direzione Centrale per la
Prevenzione e la Sicurezza,
lettera-circolare 15.03.2016 n. 3181 di prot.). |
APPALTI:
Oggetto: Sola fornitura in cantiere di calcestruzzo
preconfezionato (ANCE di Bergamo,
circolare 11.03.2016 n. 65).
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Il Ministero del lavoro ha diffuso la nota 2597 del
16.02.2016 con la quale ha chiarito le condizioni entro cui
la fornitura di calcestruzzo possa essere considerata “mera
fornitura di materiali”. (...continua). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Oggetto: SISTRI: confermata la proroga dell’entrata in
vigore delle sanzioni (ANCE di Bergamo,
circolare 11.03.2016 n. 64). |
COMPETENZE PROFESSIONALI:
COMPETENZE PROFESSIONALI – INTERVENTI SU EDIFICI
VINCOLATI – SENTENZA TAR SICILIA, CATANIA, 29.10.2015 N.
2519 – COMPETENZA DELL’INGEGNERE SULLA PARTE TECNICA -
ACCOGLIMENTO DEL RICORSO DEGLI INGEGNERI E ANNULLAMENTO DEL
PROVVEDIMENTO DELLA SOPRINTENDENZA - SENTENZA TAR EMILIA
ROMAGNA, BOLOGNA, 13.01.2016 N. 36 – RECUPERO DEL CASTELLO
DI BENTIVOGLIO DOPO GLI EVENTI SISMICI – AFFIDAMENTO
DELL’INTERVENTO DI RIPRISTINO STRUTTURALE AD UN INGEGNERE -
LEGITTIMITÀ - CONSIDERAZIONI (Consiglio Nazionale
Ingeneri,
circolare 07.03.2016 n. 690). |
APPALTI:
Oggetto: Contributo di gara ANAC per l’anno 2016
(ANCE di Bergamo,
circolare 04.03.2016 n. 63). |
APPALTI - LAVORI PUBBLICI:
Oggetto: Conversione in legge del decreto-legge “Milleproroghe”:
le disposizioni inerenti gli appalti pubblici (ANCE di
Bergamo,
circolare 04.03.2016 n. 62). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI:
Oggetto: Questioni interpretative prospettate dal
Coordinamento Nazionale dei Centri di Assistenza Fiscale e
da altri soggetti (Agenzia delle Entrate,
circolare 02.03.2016 n. 3/E).
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INDICE
1 QUESITI IN MATERA DI IMPOSTE SUI REDDITI
1.1 Spese per prestazioni di mesoterapia, ozonoterapia e
grotte di sale
1.2 Spese per pedagogista
1.3 Norma di riferimento per il riconoscimento dello status
di sordo
1.4 Pertinenza abitazione principale
1.5 Sostituzione Caldaia e “bonus mobili”
1.6 Spese per sostituzione sanitari
1.7 Condominio minimo - Detrazione spese per interventi di
recupero del patrimonio edilizio e di riqualificazione
energetica - ulteriori chiarimenti
1.8 Detrazione per spese di manutenzione, protezione o
restauro delle cose vincolate e detrazione per interventi di
recupero del patrimonio edilizio
1.9 Acquisto immobili da locare - deducibilità costo
d’acquisto
1.10 Acquisto immobili da locare - deducibilità interessi
passivi
1.11 Acquisto immobili da locare – limite di deducibilità
degli interessi passivi
1.12 Acquisto immobili da locare - limite temporale
deducibilità interessi passivi
1.13 Acquisto immobili da locare – durata del contratto di
locazione
1.14 Credito d’imposta per le imposte pagate all’estero
1.15 Spese per la frequenza scolastica |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: informativa “Intesa su definizioni
standardizzate del Regolamento edilizio unico” (Rete
Professioni Tecniche,
circolare 01.03.2016 n. 16/2016). |
PUBBLICO IMPIEGO:
OGGETTO: Estratto Conto Gestione Dipendenti Pubblici.
Invio delle comunicazioni personali a un primo contingente
di iscritti compresi nel Lotto 2 (INPS,
messaggio 29.02.2016 n. 940 - link a
www.inps.it). |
EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI - VARI:
D. Pompilio, L. Pascarella, T. Di Nardo, A. Gigliotti, G.
Scardocci,
IL COMODATO D’USO: PROFILI CIVILISTICI
E ANALISI DELLA DISCIPLINA FISCALE PREVISTA DALLA LEGGE DI
STABILITÀ 2016 (Fondazione Nazionale dei
Commercialisti, 29.02.2016 - tratto da
www.fondazionenazionalecommercialisti.it).
---------------
Sommario: 1. Premessa – 2. Essenziale gratuità del
comodato e comodato modale – 3. Obbligazioni del comodatario
– 4. Durata del comodato: il comodato a termine implicito e
il comodato c.d. precario – 4.1 Ipotesi applicative:
comodato di immobile destinato a soddisfare esigenze
abitative familiari – 4.2 Comodato immobiliare c.d. vita
natural durante – 5. Comodato scritto e comodato verbale:
perché preferire la forma scritta – 6. Le novità IMU e TASI
2016 per le abitazioni concesse in comodato d’uso – 7. La
disciplina vigente sino al 31.12.2015 – 8. Le modifiche
introdotte dalla Legge di Stabilità 2016 – 8.1 La
definizione di abitazione principale – 8.2 Gli immobili di
lusso – 8.3 La registrazione del contratto di comodato – 8.4
Il possesso di ulteriori immobili – 8.5 La dichiarazione IMU
– 9. Il comodato in numeri: analisi statistica delle novità
contenute nella Legge di Stabilità 2016. |
ENTI LOCALI - SEGRETARI COMUNALI:
Oggetto: Articolo 10, commi 1 e 2 del Decreto Legge
24.06.2014, n. 90. Chiarimenti
(Ministero dell'Interno, Albo Nazionale dei Segretari
Comunali e Provinciali,
nota 12.02.2016 n. 3483 di prot.). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Raccolta differenziata dei rifiuti: indicazioni del
Garante (Garante per la protezione dei dati personali,
documento 14.07.2015 n. 1149822 - link a
www.garanteprivacy.it).
---------------
Raccolta
differenziata e tutela della privacy. No a sacchetti
trasparenti nel "porta a porta" e a controlli
indiscriminati. Sì a codice a barre e microchip.
Viola la privacy l'obbligo previsto da
alcuni comuni di far utilizzare ai cittadini sacchetti dei
rifiuti trasparenti o con etichette adesive nominative per
la raccolta "porta a porta". Lecito, invece, contrassegnare
il sacchetto con un codice a barre, un microchip o con
etichette intelligenti (Rfid). No ai controlli
indiscriminati, ma ispezione dei sacchetti solo nei casi in
cui il cittadino, che non ha rispettato la normativa sulla
raccolta differenziata, non sia identificabile in nessun
altro modo.
Con un provvedimento a carattere generale, di cui è stato
relatore Giuseppe Fortunato, il Garante per la protezione
dei dati personali ha dato risposta a vari quesiti di enti
locali e a numerosi reclami e segnalazioni di cittadini che
lamentavano una possibile violazione della riservatezza,
derivante soprattutto dalle modalità di raccolta dei rifiuti
e dai controlli amministrativi, riguardo ai dati personali
rilevabili attraverso i sacchetti stessi o dall'ispezione
del loro contenuto.
Nei rifiuti finiscono, infatti, molti effetti personali
(corrispondenza, fatture telefoniche con i numeri chiamati,
estratti conto bancari), a volte relativi anche alla sfera
della salute (farmaci, prescrizioni mediche, ecc.) o a
convinzioni politiche, religiose, sindacali. Queste
informazioni, se trattate in modo non proporzionato o in
caso di abusi, possono comportare seri inconvenienti alle
persone.
Il Garante ha rilevato che la raccolta differenziata,
prevista da specifiche norme, risponde ad un importante
interesse pubblico. Ma non ha ritenuto proporzionato
l'obbligo imposto da alcuni enti locali ad utilizzare
sacchetti trasparenti per la raccolta "porta a porta",
perché chiunque si trovi a transitare sul pianerottolo o
nell'area antistante l'abitazione può visionare agevolmente
il contenuto. Sproporzionata anche la misura che obbliga ad
applicare al sacchetto targhette adesive in cui sia
riportato a vista nominativo ed indirizzo della persona cui
si riferiscono i rifiuti, in particolare se lasciati in
strada.
Invasiva è stata ritenuta anche la pratica di ispezioni
generalizzate dei sacchetti. Gli organi addetti ai controlli
possono procedere ad ispezioni selettive solo nei casi in
cui abbiamo ragione di ritenere che i rifiuti siano stati
lasciati senza osservare le norme in materia di raccolta
differenziata e il cittadino non sia identificabile in altro
modo.
Sì, invece, a codici a barre, microchip o Rfid che
consentono di delimitare l'identificabilità della persona
solo nel caso in cui sia accertata la violazione delle norme
sulla raccolta differenziata. In questo modo gli operatori
che verificano l'omogeneità del contenuto del sacchetto
(carta, vetro, plastica) non vengono a conoscenza
dell'identità della persona, che rimane riservata fino alla
decodifica dei codice a barre o del microchip da parte dei
soggetti che applicano la sanzione.
Per quanto riguarda infine le cosiddette "ecopiazzole",
il Garante ritiene lecito che i gestori di queste aree in
cui i cittadini portano i materiali per la raccolta
differenziata, registrino temporaneamente nominativi ed
indirizzo di chi conferisce i rifiuti, previa esibizione di
un documento di identità, anche per accertare la residenza
dei cittadini ed evitare che uno stesso soggetto conferisca
i rifiuti in più comuni aggirando i limiti quantitativi
ammessi senza oneri.
"Le lettere d'amore, le bollette, gli estratti conto, le
confezioni medicinali che decidiamo di buttare nei nostri
rifiuti non devono finire nelle mani di chiunque o essere
esposti a sguardi indiscreti -afferma Giuseppe Fortunato,
relatore del provvedimento- perché sono tutte informazioni
che fanno parte di noi, della nostra identità. Da esse si
può capire molto dei nostri gusti, delle nostre preferenze,
dei nostri stili di vita, del nostro stato di salute.
Quindi, sì ai controlli per sanzionare chi non rispetta la
raccolta differenziata, no a indebite invasioni nella nostra
privacy." (comunicato
stampa 22.07.2015 - link a
www.garanteprivacy.it). |
CORTE DEI CONTI |
PUBBLICO IMPIEGO:
Vigili, niente contratti flessibili per
assunzioni superiori a 5 mesi.
I comuni non possono utilizzare strumenti di acquisizione
flessibile di rapporti di lavoro che coprano disponibilità
dei ruoli della polizia municipale per periodi superiori
alle esigenze stagionali limitate a cinque mesi in un anno
solare.
La Corte dei conti, sezione regionale di controllo per il
Lazio, col
parere 08.03.2016 n. 43 torna sui vincoli alle
assunzioni degli agenti di polizia municipale utili per i
comuni al di fuori dei territori delle sei regioni
(Basilicata, Emilia-Romagna, Lazio, Marche, Piemonte e
Veneto) per le quali le assunzioni sono state «sbloccate» in
applicazione dell'articolo 1, comma 234, della legge
208/2015.
La sezione ha analizzato la possibilità per i comuni di
avvalersi, per coprire vacanze della polizia municipale,
dell'articolo 1, comma 557, della legge 311/2004, ai sensi
del quale «i comuni con popolazione inferiore ai 5.000
abitanti, i consorzi tra enti locali gerenti servizi a
rilevanza non industriale, le comunità montane e le unioni
di comuni possono servirsi dell'attività lavorativa di
dipendenti a tempo pieno di altre amministrazioni locali
purché autorizzati dall'amministrazione di provenienza».
Stante la previsione contenuta nell'articolo 5, comma 6, del
dl 78/2015, convertito in legge 125/2015, i comuni possono
utilizzare tale particolare formula di assunzione solo per
esigenze stagionali e per non oltre cinque mesi; se si
consentisse, infatti, di coprire le vacanze per periodi
superiori, si vanificherebbe il fine delle norme sulla
ricollocazione dei dipendenti provinciali in soprannumero.
Lo stesso ragionamento vale per un'altra formula flessibile
di acquisizione di dipendenti, l'articolo 92, comma 1, del dlgs 267/2000, a termini del quale «gli enti locali possono
costituire rapporti di lavoro a tempo parziale e a tempo
determinato, pieno o parziale, nel rispetto della disciplina
vigente in materia. I dipendenti degli enti locali a tempo
parziale, purché autorizzati dall'amministrazione di
appartenenza, possono prestare attività lavorativa presso
altri enti».
Secondo la sezione, «la clausola di garanzia della non
prorogabilità dei cinque mesi del lavoro stagionale si deve
intendere come clausola volta a evitare forme di aggiramento
della disposizione, tali da mascherare un impegno lavorativo
di durata superiore con contratti di lavoro stagionale
ripetuti nell'anno». Il parere, tuttavia, desta molte
perplessità laddove, proseguendo, afferma che «nulla invece
osta alla riproponibilità della formula del contratto
stagionale negli anni a venire», quando saranno stati
rimossi i vincoli alle assunzioni, una volta ricollocato
tutto il personale in soprannumero della polizia
provinciale.
L'affermazione lascia l'impressione che le amministrazioni
possano richiamare i dipendenti della polizia locale assunti
per esigenze stagionali, così come avviene nel settore
privato. Ma, questa conclusione non appare corretta. Nel
settore pubblico si assume solo attraverso concorsi
(articolo ItaliaOggi del 12.03.2016).
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MASSIMA
L’art. 5 del d.l. n. 78/2015,
convertito in legge n. 125/2015, prevede per i comuni il
divieto di assumere personale per lo svolgimento di funzioni
di polizia municipale con qualsiasi forma contrattuale se
prima non è completato il processo di assorbimento del
personale di provenienza provinciale.
In sede di conversione in legge è stata introdotta
l’eccezione (mancante nel testo originario del decreto
legge), a favore delle assunzioni di personale con funzione
di polizia locale, con contratto a tempo determinato e per
esigenze di carattere strettamente stagionale, sempreché il
contratto non abbia durata superiore a cinque mesi nell’anno
solare, non prorogabili.
Pertanto, le disposizioni contenute agli artt. 1, comma 557,
della legge n. 311/2004 e 92, comma 1, del TUEL, in tema di
utilizzazione reciproca di personale tra Comuni limitrofi,
non possono ritenersi abrogate con riguardo al personale
chiamato a svolgere funzioni di polizia municipale, ma
continuano ad essere a questo applicabili, a condizione che
il personale assunto sia stagionale, a tempo determinato e
con contratto di durata non superiore a cinque mesi, non
prorogabili nell’anno solare.
Detti contratti possono peraltro essere ripetuti negli anni
a venire, con nuovo contratto stagionale. Infatti, la
clausola di garanzia della non prorogabilità dei cinque mesi
del lavoro stagionale si deve intendere come clausola volta
ad evitare forme di aggiramento della disposizione, tali da
mascherare un impegno lavorativo di durata superiore con
contratti di lavoro stagionale ripetuti nell’anno. Nulla
invece osta alla riproponibilità della formula del contratto
stagionale negli anni a venire.
Al contrario, le disposizioni succitate devono ritenersi non
operanti per il personale di polizia municipale da assumere
“con qualsiasi altra forma contrattuale” fino al
completamento del “transito del personale di polizia
provinciale nei ruoli di quello di polizia municipale”.
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APPALTI: Deroghe Consip, la giunta è out.
Deve essere il dirigente apicale ad autorizzare gli acquisti.
Una delibera della Corte conti Liguria esclude la competenza
degli organi di governo.
Deve essere il dirigente apicale e non la giunta ad
autorizzare gli acquisiti in deroga agli obblighi di
utilizzo della Consip o di altri soggetti aggregatori,
previsti dalla legge 208/2015.
Lo ha stabilito la Corte dei Conti, Sez. regionale di
controllo della Liguria, con la
deliberazione 24.02.2016 n. 14, in merito a un provvedimento di autorizzazione adottato
da una giunta comunale, che aveva autorizzato a procedere
all'acquisto al di fuori del mercato elettronico gestito
dalla Consip sia un servizio di tv via cavo, sia di
assistenza per la caldaia dell'edificio comunale, a causa
dell'assenza di disponibilità del servizio tv via cavo sul
mercato elettronico e del sovradimensionamento delle caldaie
presenti sul mercato elettronico rispetto all'immobile da
riscaldare, con conseguente lesione del principio di
economicità dell'azione amministrativa.
La sezione regionale non ha avuto nulla da obiettare
rispetto al merito dell'autorizzazione, ritenendo
sussistenti i presupposti di legge per acquisire i servizi
sul mercato esterno al soggetto aggregatore.
Infatti, secondo i giudici contabili, il rispetto
dell'obbligo di ricorrere al mercato elettronico non può
«giungere fino a dovere imporre impegni di spesa
diseconomici e inconferenti rispetto alle esigenze da
soddisfare».
Invece, per quanto concerne l'organo competente ad
autorizzare gli acquisti, la Corte dei conti ritiene che
debba rinvenirsi nel «dirigente apicale» e non nella giunta.
La sezione Liguria richiama ampia giurisprudenza secondo la
quale l'articolo 107, comma 5, del dlgs 267/2000 a mente del
quale che i dirigenti hanno competenza esclusiva e
inderogabile per tutti i compiti gestionali, ivi compresi
gli atti discrezionali, laddove gli organi di governo,
consiglio e giunta comunale, possano operare con i soli
poteri di indirizzo e di controllo politico amministrativo.
Pertanto, conclude la sezione, «spettava al dirigente
apicale, e non alla giunta comunale, adottare il
provvedimento autorizzatorio», suggerendo di ricondurre gli
atti ai parametri della regolarità amministrativa,
attraverso un provvedimento col quale il dirigente apicale
competente può ratificare il contenuto della delibera della
giunta comunale.
La questione dimostra l'incertezza operativa scatenata
dall'articolo 1, comma 510, della legge 208/2015, la cui
formulazione risulta oscura e laconica nell'indicare come
competente ai fini dell'autorizzazione l'organo
amministrativo di vertice.
La decisione della sezione Liguria non appare, tuttavia, del
tutto conclusiva. In primo luogo, infatti, essa si incentra
su una competenza del «dirigente apicale», utilizzando
un'espressione diversa da quella contenuta nella legge, che
non si riferisce affatto a questo soggetto, per altro ancora
non vigente negli enti locali.
In secondo luogo, correttamente la deliberazione della
Sezione richiama l'inderogabilità del principio di
separazione tra politica e gestione, ma non pare cogliere
nel segno quando sostiene che l'autorizzazione sia un atto
attinente alla gestione.
Le autorizzazioni non appartengono alla sfera della
cosiddetta «amministrazione attiva», della quale fa parte
l'attività gestionale di competenza dei dirigenti. Nel caso
di specie, l'autorizzazione può considerarsi parte
essenziale del processo di programmazione e controllo
dell'attività gestionale, come tale rientrante nelle
competenze proprie degli organi di governo.
Non sarà certamente l'ultima pronuncia su un problema
interpretativo che ha già diviso gli interpreti, che
meriterebbe una soluzione certa mediante una revisione della
norma, che chiarisca meglio come identificare l'organo
amministrativo di vertice
(articolo ItaliaOggi dell'11.03.2016). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Assunzioni con il freno.
La deliberazione della corte dei conti.
La recente
deliberazione
04.02.2016 n. 4
della Corte dei conti, Sezione delle autonomie, agevola la
ricollocazione del personale afferente agli enti disciolti
per legge. Tuttavia, l'obbligo di riassorbire l'eventuale
sforamento dei limiti di spesa in base al turnover
consentito negli anni successivi rischia di congelare
ulteriormente le capacità assunzionali, già da tempo
bloccate per la gestione degli esuberi provinciali.
La pronuncia dei giudici contabili ha affermato il seguente
principio: «Nei casi di trasferimento di personale ad altro
ente pubblico derivante dalla soppressione di un ente
obbligatoriamente disposta dalla legge, non si ritiene
applicabile il limite assunzionale fissato dalla normativa
vigente in materia di spese di personale ai fini del
coordinamento di finanza pubblica. La deroga al detto
vincolo comporta, tuttavia, il necessario riassorbimento
della spesa eccedente negli esercizi finanziari successivi a
quello del superamento del limite».
In pratica, è possibile sforare il tetto previsto dai commi
557 e 562 della l. 296/2006 (rispettivamente per gli enti già
soggetti e per quelli esclusi dal Patto), ma tale sforamento
deve essere riassorbito negli anni seguenti «consumando» gli
spazi che avrebbero consentito all'ente ricevente di
effettuare nuove assunzioni.
In pratica, si tratta dello stesso meccanismo previsto per
gli ex provinciali, come definito dalla circolare 1/2015
della Funzione pubblica (circolare Madia). Quest'ultima,
infatti, afferma che l'incremento di spesa determinato dalle
mobilità obbligatorie va comunque quantificato e si decurta
gradualmente in coerenza con la disciplina del turn-over.
Pur con questa limitazione, si tratta comunque di
un'apertura rispetto agli orientamenti più restrittivi della
giurisprudenza precedente.
Rimangono peraltro ancora dubbi i casi in cui l'ente
soppresso esercitasse funzioni aggiuntive rispetto a quelle
dei comuni e non, come nel caso esaminato dalla pronuncia in
commento, le stesse funzioni. È il caso, ad esempio, delle
comunità montane che molte regioni hanno sciolto trasferendo
le loro competenze in materia di tutela e promozione della
montagna ai comuni singoli o associati. In tal caso, si
potrebbe argomentare che il superamento del tetto dipende
appunto dalle maggiori funzioni acquisite e che quindi non
vi sia obbligo di rientro.
Merita evidenziare, infine, che rimane aperto il problema
degli eventuali esuberi delle società partecipate pubbliche
che dovessero essere cancellate, almeno per i lavoratori
assunti con modalità privatistiche. La Sezione delle
autonomie, infatti, ha ribadito che non possono essere
ammessi nei ruoli dell'ente pubblico accipiente dipendenti
che non abbiano superato un pubblico concorso
(articolo ItaliaOggi del 05.03.2016). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Passaggi in libertà. Dall'ente soppresso al
comune. Sezione autonomie:
derogabili i vincoli assunzionali.
Il trasferimento di personale da un ente soppresso al comune
non soggiace ai limiti previsti in materia di assunzioni.
Fermo restando che, tuttavia, lo sforamento dei parametri
comporta il necessario riassorbimento della spesa eccedente
negli esercizi finanziari successivi. In ogni caso, il
trasferimento tout court dei dipendenti dall'ente soppresso
a un altro ente pubblico può essere ammesso solo per i
lavoratori che abbiano superato un concorso, in ossequio a
quanto previsto dall'art. 97 Cost..
Sono questi i principi stabiliti dalla sezione Autonomie
della Corte conti che nella
deliberazione
04.02.2016 n. 4, ha fornito
l'esatta interpretazione da dare a una legge della regione
Sicilia (n. 22/1986) che, nelle ipotesi di estinzione di
un'Istituzione pubblica di assistenza e beneficienza (Ipab),
disponeva l'assorbimento del relativo personale da parte del
comune.
Interrogata dal commissario straordinario del comune
di Licata (Ag), la sezione regionale di controllo della
Corte conti Sicilia, ha rimesso il quesito alla sezione
autonomie, visto che sul punto, nel corso degli anni, si è
formata una giurisprudenza piuttosto eterogenea da parte
delle sezioni regionali. Con alcune, come la Corte conti
Piemonte, che hanno propugnato una lettura restrittiva della
fattispecie, sostenendo che si dovessero applicare in modo
rigoroso i limiti in materia di contenimento del personale,
in quanto cogenti e finalizzati al riequilibrio della
finanza pubblica. E altre, come la sezione regionale della
Sardegna che, nell'ipotesi in cui la reinternalizzazione del
personale fosse imposta (come nel caso di specie) da una
legge regionale, hanno ammesso l'inapplicabilità dei vincoli
assunzionali nell'esercizio in corso con contestuale
recupero dello sforamento negli esercizi successivi.
La Corte conti Sicilia ha fatto propria quest'ultima tesi
ritenendo che contemperi «l'esigenza di rispettare il senso
letterale della norma, che introduce espressamente un
obbligo di assorbimento del personale, con l'esigenza
imperativa di dare attuazione ai vincoli cogenti di finanza
pubblica». La sezione autonomie ha condiviso questo
orientamento perché consente di bilanciare «le esigenze di
contenimento della spesa pubblica con le garanzie di
autonomia riservate alle regioni a statuto speciale».
Ciò posto, però, la sezione autonomie ha ribadito, come già
aveva fatto con la delibera n. 4/2012 (anche se relativa a
un'ipotesi di reinternalizzazione per scelta discrezionale)
che «non possa derogarsi al principio costituzionale del
pubblico concorso». L'assorbimento dei dipendenti dell'ente
soppresso sarà dunque ammissibile «nei limiti in cui il
personale interessato sia stato reclutato tramite pubblico
concorso»
(articolo ItaliaOggi dell'01.03.2016). |
QUESITI & PARERI |
PATRIMONIO:
Alienazione di terreni comunali tramite trattativa privata.
Pubblicità.
Poiché la normativa di settore in
materia di alienazioni del patrimonio pubblico nulla dispone
in merito alle forme di pubblicità da osservarsi per la
trattativa privata esperibile a seguito di asta pubblica
andata deserta, il Comune, in ossequio ai generali principi
di trasparenza, pubblicità e buon andamento dell'azione
amministrativa, può dare notizia dell'indizione della
procedura con modalità che esso stesso può individuare
discrezionalmente.
Il Comune, che non si è ancora dotato di un regolamento in
materia di alienazione del proprio patrimonio immobiliare,
di cui all'art. 12, comma 2 [1],
della legge 15.05.1997, n. 127, avendo esperito un'asta
pubblica, andata deserta, intende ora indire una trattativa
privata, ai sensi dell'art. 55 [2]
del regio decreto 17.06.1909, n. 454 [3],
al fine di alienare beni immobili del valore stimato di euro
390.000,00.
L'Ente chiede di conoscere se la pubblicazione dell'avviso
di indizione della procedura all'albo comunale e sul sito
Internet sia sufficiente a ritenere rispettato il requisito
dell'adeguata pubblicità.
Anzitutto, occorre rilevare che l'art. 3, primo comma, della
legge 24.12.1908, n. 783 [4],
dispone che «La vendita dei beni si fa mediante pubblici
incanti sulla base del valore di stima, previe le
pubblicazioni, affissioni ed inserzioni da ordinarsi
dall'amministrazione demaniale in conformità del regolamento
per la esecuzione della presente legge» e che il R.D.
454/1909 nulla dispone in merito alle forme di pubblicità da
osservarsi ove si ricorra alla trattativa privata
[5].
Occorre, poi, chiarire che la previsione di 'adeguata
pubblicità' è contenuta nel già richiamato art. 12,
comma 2, della L. 127/1997, il quale consente ai comuni e
alle province di alienare il proprio patrimonio immobiliare
derogando alla specifica disciplina di settore ed a quella
concernente la contabilità generale degli enti locali, ma
osservando, comunque, i princìpi generali dell'ordinamento
giuridico-contabile, a condizione che essi si dotino di un
apposito regolamento, che assicuri criteri di trasparenza e
«adeguate forme di pubblicità» per acquisire e
valutare concorrenti proposte di acquisto.
In tale contesto, quindi, la valutazione dell'adeguatezza
spetta unicamente all'ente locale, al quale il legislatore
rimette la scelta, di natura discrezionale, di individuare
le forme di pubblicità da garantire.
La medesima considerazione vale anche con riferimento al
caso di specie nel quale, in assenza di previsioni fornite
dalla normativa di settore, il Comune, in ossequio ai
generali principi di trasparenza, pubblicità e buon
andamento dell'azione amministrativa, intende diffondere,
con modalità che esso stesso può individuare
discrezionalmente, l'avviso di indizione della trattativa
privata.
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[1] «I comuni e le province possono procedere alle
alienazioni del proprio patrimonio immobiliare anche in
deroga alle norme di cui alla legge 24.12.1908, n. 783, e
successive modificazioni, ed al regolamento approvato con
regio decreto 17.06.1909, n. 454, e successive
modificazioni, nonché alle norme sulla contabilità generale
degli enti locali, fermi restando i princìpi generali
dell'ordinamento giuridico-contabile. A tal fine sono
assicurati criteri di trasparenza e adeguate forme di
pubblicità per acquisire e valutare concorrenti proposte di
acquisto, da definire con regolamento dell'ente
interessato.».
[2] Il cui primo comma prevede (analogamente a quanto
dispone l'art. 9, primo comma, della legge 24.12.1908, n.
783) che «È data facoltà all'Amministrazione di vendere a
partiti privati, quando lo ritenga conveniente, gli immobili
o lotti pei quali siansi verificate una o più diserzioni di
incanti, purché il prezzo e le condizioni dell'asta o
dell'ultima asta andata deserta non siano variati se non a
tutto vantaggio dell'Amministrazione stessa.».
[3] «Regolamento per l'esecuzione della legge 24.12.1908, n.
783, sulla unificazione dei sistemi di alienazione e di
amministrazione dei beni immobili patrimoniali dello Stato».
[4] «Unificazione dei sistemi di alienazione e di
amministrazione dei beni immobili patrimoniali dello Stato».
[5] Prescrivendo, invece, rigorose forme di pubblicazione
degli avvisi di indizione degli incanti (21.03.2016
-
link a
www.regione.fvg.it). |
APPALTI FORNITURE:
Acquisto carburante ai sensi della normativa vigente.
L'art. 1, comma 7, D.L. n. 95/2012,
stabilisce una disciplina speciale per l'approvvigionamento
da parte delle pubbliche amministrazioni di determinate
categorie merceologiche, tra cui i carburanti. Per detti
beni, la norma in commento prevede l'obbligo di
approvvigionamento mediante le Convenzioni Consip o gli
accordi quadro messi a disposizione da Consip o da centrali
di committenza regionali, ovvero attraverso autonome
procedure, nel rispetto della normativa vigente, utilizzando
i sistemi telematici di negoziazione resi disponibili dai
soggetti indicati. A quest'ultimo riguardo, l'Ente può
valutare in concreto la convenienza di utilizzare il MEPA,
quale alternativa di approvvigionamento consentita dalla
norma in commento.
È fatta salva, inoltre, la possibilità di procedere ad
affidamenti che conseguano ad approvvigionamenti da altre
centrali di committenza o a procedure ad evidenza pubblica,
a condizione che gli stessi prevedano corrispettivi
inferiori (del 3% nel caso dei carburanti) a quelli indicati
nelle convenzioni o accordi quadro messi a disposizione da
Consip Spa e dalle centrali di committenza regionali.
Il Comune rappresenta la propria situazione in merito alla
fornitura di combustibile per autotrazione, per cui, se da
un lato la società che ha stipulato la convenzione Consip,
in esito alla relativa gara, propone un ribasso rispetto al
prezzo di mercato superiore rispetto a quello a cui era
avvenuto l'affidamento alla precedente ditta fornitrice,
dall'altro lato, l'adesione alla convenzione Consip non
appare al Comune conveniente, posta la maggiore distanza del
distributore della ditta vincitrice, con conseguente impiego
di risorse per raggiungerlo, rispetto all'impianto della
precedente società affidataria, sito nel territorio
comunale.
Il Comune chiede, pertanto, se sia possibile incaricare
quest'ultima della fornitura di carburante, in deroga a
quanto previsto dalla normativa vigente, e attesa la
possibilità di dimostrare la convenienza di un tanto. L'Ente
precisa infine che la relativa spesa si aggira intorno ai
15.000 l'anno e rientra pertanto nell'ambito delle spese in
economia, di cui all'art. 125, D.Lgs. n. 163/2006.
Sentito il Servizio centrale unica di committenza di questa
Direzione centrale, si esprimono le seguenti considerazioni.
La disamina del quesito rende opportuna una rappresentazione
di sintesi del quadro normativo in materia di acquisti di
carburante, avuto riguardo alle recenti innovazioni
apportate dalla L. n. 208/2015 e anticipando sin da ora che
non sembra possibile discostarsi dalle considerazioni già
espresse nelle note nn. 8377/2015 e 2679/2013
[1].
L'art. 1, comma 7, D.L. n. 95/2012, stabilisce una
disciplina speciale per l'approvvigionamento da parte delle
pubbliche amministrazioni di beni, quali energia elettrica,
gas, carburanti rete e carburanti extra-rete (per quanto qui
di interesse), combustibili per riscaldamento, telefonia
fissa e telefonia mobile.
Il comma 7 richiamato prevede che la fornitura dei predetti
beni avvenga utilizzando le convenzioni o gli accordi quadro
messi a disposizione da Consip o da centrali di committenza
regionali ovvero attraverso proprie autonome procedure, nel
rispetto della normativa vigente, utilizzando i sistemi
telematici di negoziazione resi disponibili dai soggetti
indicati [2].
Il medesimo comma 7, come novellato dall'art. 1, comma 494,
L. n. 208/2015, fa salva la possibilità di procedere ad
affidamenti, nelle indicate categorie merceologiche, anche
al di fuori delle predette modalità, a condizione che gli
stessi conseguano ad approvvigionamenti da altre centrali di
committenza o a procedure di evidenza pubblica, e prevedano,
specificamente per i carburanti, corrispettivi inferiori
almeno del 3% rispetto ai migliori corrispettivi indicati
nelle convenzioni e accordi quadro messi a disposizione da
Consip Spa e dalle centrali di committenza regionali.
In tal caso, i contratti devono essere trasmessi
all'Autorità nazionale anticorruzione e sottoposti a
condizione risolutiva, con possibilità di adeguamento da
parte del contraente, per il caso in cui intervengano
convenzioni Consip e delle centrali di committenza regionali
che prevedano condizioni economiche di maggiore vantaggio in
percentuale superiore al 10 per cento rispetto ai contratti
già stipulati.
L'art. 1, comma 8, D.L. n. 95/2012, stabilisce che sono
nulli, costituiscono illecito disciplinare e sono causa di
responsabilità amministrativa i contratti stipulati in
violazione di quanto previsto dal comma 7.
Unica eccezione alla disciplina degli acquisti delle
particolari categorie merceologiche indicate dall'art. 1,
comma 7, D.L. n. 95/2012, si rinviene nella disposizione di
cui all'art. 1, comma 510, L. n. 208/2015, che consente alle
pp.aa. obbligate ad approvvigionarsi attraverso le
convenzioni stipulate da Consip S.p.a., ovvero dalle
centrali di committenza regionali, di procedere ad acquisti
autonomi, a seguito dell'apposita autorizzazione ivi
prevista, 'qualora il bene o il servizio oggetto di
convenzione non sia idoneo al soddisfacimento dello
specifico fabbisogno dell'amministrazione per mancanza di
caratteristiche essenziali', ipotesi non ricorrente nel
caso di specie.
La Corte dei conti, ancor prima delle novelle apportate
dalla L. n. 208/2015 in tema di acquisti delle pp.aa., ha
evidenziato la natura vincolistica delle disposizioni che
hanno innovato la disciplina degli affidamenti di beni e
servizi della pp.a.a, da cui consegue la necessità di
un'interpretazione rigorosa delle stesse, con prioritario
rilievo al criterio letterale [3].
Sotto questo profilo, si osserva che il tenore letterale
dell'art. 1, comma 7, D.L. n. 95/2012, subordina la
possibilità di procedere ad affidamenti sul libero mercato
alla duplice condizione che gli stessi conseguano a
procedure ad evidenza pubblica e prevedano corrispettivi
inferiori (del 3% nel caso dei carburanti) a quelli indicati
nelle convenzioni e accordi quadro messi a disposizione da
Consip Spa e dalle centrali di committenza regionali
[4].
Mentre non sono contemplati, nella norma in commento, altri
indici di risparmio di spesa pubblica diversi da quelli del
prezzo più basso, quali, nel caso di specie, potrebbero
essere i risparmi sui costi accessori derivanti dalla
maggiore lontananza dei distributori di carburante
convenzionati Consip.
Inoltre, con specifico riferimento alla necessità di
attivare procedure ad evidenza pubblica per la scelta in
autonomia del fornitore, e stante la precisazione dell'Ente
della riconducibilità della spesa da sostenersi (intorno ai
15.000 l'anno) nell'ambito delle spese in economia, di cui
all'art. 125, D.Lgs. n. 163/2006, è il caso di osservare che
la disposizione di cui all'art. 1, comma 7, D.L. n. 95/2012,
nell'indicare le 'procedure di evidenza pubblica',
sembra riferirsi a tutte le procedure di tipo
concorrenziale, nelle quali sia comunque garantita
l'evidenza pubblica dell'affidamento, che presuppone il
rispetto dei principi di cui all'art. 2, comma 1, D.Lgs. n.
163/2006, ed in particolare del principio di pubblicità,
trasparenza, e parità di trattamento.
In questo senso -ferma restando l'autonomia dell'Ente nella
scelta della procedura da seguire per la scelta del
contraente nella fattispecie concreta, ai sensi dell'art. 1,
comma 7, D.L. n. 95/2012- non sembra rientrare, tra le
procedure ad evidenza pubblica, la procedura in economia
dell'affidamento diretto. Un tanto, in assenza di
un'interpretazione autentica del legislatore o di pronunce
giurisprudenziali da cui risulti una diversa lettura della
disposizione in esame [5].
---------------
[1] Consultabili all'indirizzo web:
autonomielocali.regione.fvg.it
[2] In proposito, l'Ente può valutare concretamente la
convenienza di ricorrere al MEPA, quale alternativa
consentita dalla norma in commento per l'affidamento della
fornitura carburanti.
[3] Corte dei conti, sezione regionale di controllo per la
Lombardia, parere 21.03.2013, n. 89.
[4] In proposito, l'ANAC, a seguito dell'indagine sugli
affidamenti in deroga alle convenzioni Consip di energia
elettrica, gas, carburanti, combustibili per il
riscaldamento, telefonia mobile, ha dato un riscontro
positivo sull'operato delle stazioni appaltanti di porre a
base d'asta il prezzo definito nelle convenzioni Consip per
la tipologia di prestazioni di cui necessitavano, per
proposte al ribasso da parte degli operatori economici. E la
disponibilità degli operatori economici ad offrire prezzi
più bassi è stata apprezzata come impulso ad una maggiore
vivacità del mercato, con conseguente ottimizzazione
dell'utilizzo delle risorse pubbliche (Cfr. Comunicato del
Presidente ANAC del 04.11.2015, a seguito dell'indagine ANAC
di cui sopra, dell'ottobre 2015).
Considerazioni, queste, che non sembrano consentire di
discostarsi dal parametro del prezzo più basso a
giustificazione di una deroga agli obblighi di ricorrere
alle convenzioni Consip.
[5] Cfr. ANCI, parere 28.03.2013, secondo cui tra le
procedure ad evidenza pubblica rientrano anche le procedure
negoziate (anche senza previa pubblicazione del bando di
gara), potendosi escludere soltanto le acquisizioni in
economia mediante amministrazione diretta e l'affidamento
diretto. Nella nota, l'Associazione richiama la delibera n.
271 del 04.07.2012 della Corte dei conti Piemonte, che
include tra le procedure negoziate anche il cottimo
fiduciario, che prevede l'indizione di una gara informale,
con consultazione di almeno 5 operatori economici. La gara
ufficiosa -precisa il magistrato contabile- implica una
valutazione comparativa delle offerte, valutazione che è
insita nel concetto stesso di gara (Cons. Stato, sez. VI,
29.03.2001, n. 1881, ivi richiamato) (17.03.2016
-
link a
www.regione.fvg.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Conferimento incarico di direzione artistica a
professionista esterno.
Il Ministro per la semplificazione e la
pubblica amministrazione ha chiarito (cfr. circolare n.
6/2014) che, ai fini dei divieti imposti dall'art. 5, comma
9, del d.l. 95/2012, come modificato dal d.l. 90/2014,
occorre prescindere dalla natura del rapporto, dovendosi
invece considerare l'oggetto dell'incarico.
La predetta disciplina, dunque, non esclude alcuna delle
forme contrattuali contemplate dall'articolo 7 del d.lgs.
165/2001, ma impedisce di utilizzare quelle forme
contrattuali per conferire incarichi aventi il contenuto
proprio degli incarichi vietati.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine ad alcune
problematiche afferenti al conferimento di un incarico di
direzione artistica delle stagioni musicali a professionista
esterno.
L'Ente si è posto la questione se detto incarico possa
rientrare eventualmente tra le tipologie contemplate
all'art. 5, comma 9, del d.l. 95/2012, come modificato dal
d.l. 90/2014, e se, in particolare, lo stesso incarico
rientri tra quelli consentiti in relazione a quanto
precisato dalla circolare n. 4/2015 [1]
emanata in materia dal Ministro per la semplificazione e la
pubblica amministrazione, a integrazione delle indicazioni
già fornite con la precedente circolare n. 6/2014.
Il richiamato articolo 5, comma 9, del d.l. 95/2012 impone,
com'è noto, il divieto alle pubbliche amministrazioni di cui
all'art. 1, comma 2, del d.lgs. 165/2001 (enti locali
compresi) di attribuire incarichi di studio e di consulenza
a soggetti già lavoratori privati o pubblici collocati in
quiescenza.
Alle richiamate amministrazioni è altresì fatto divieto di
conferire ai medesimi soggetti incarichi dirigenziali o
direttivi o cariche in organi di governo delle
amministrazioni sopra indicate e degli enti e società da
esse controllati, ad eccezione dei componenti delle giunte
degli enti territoriali e dei componenti o titolari degli
organi elettivi degli enti di cui all'articolo 2, comma
2-bis [2],
del d.l. 101/2013, convertito, con modificazioni, dalla l.
125/2013.
Come chiarito dal Ministro per la semplificazione e la
pubblica amministrazione [3],
gli incarichi vietati dalla citata norma sono solo quelli
espressamente contemplati, nello specifico incarichi di
studio e consulenza, incarichi dirigenziali o direttivi,
cariche di governo nelle amministrazioni e negli enti e
società controllati. Si è inoltre precisato che 'la
disciplina in esame pone puntuali norme di divieto, per le
quali vale il criterio di stretta interpretazione ed è
esclusa l'interpretazione estensiva o analogica'
[4].
Nella stessa sede si è pertanto rimarcato come tutte le
ipotesi di incarico o collaborazione non rientranti nelle
categorie sopra elencate debbano ritenersi sottratte ai
divieti di cui alla disciplina in esame.
Si osserva in proposito che compete all'Ente istante
procedere ad un'attenta valutazione del contenuto delle
prestazioni richieste e delle caratteristiche peculiari
dell'incarico in argomento, al fine di verificare se lo
stesso possa configurarsi quale incarico dirigenziale
(riferito - come precisato dal Ministro per la
semplificazione e la pubblica amministrazione -a 'direzione
di struttura' e, quindi, rientrante tra le tipologie
vietate dalla disciplina in esame) o come incarico
specialistico conferito ad un professionista esterno
[5]
(riconducibile alla casistica normata dall'art. 7, comma 6,
del richiamato d.lgs. 165/2001), che non implichi in
concreto lo svolgimento di funzioni direttive.
Si rileva quanto evidenziato dal Ministro, che ha chiarito
-nelle circolari citate- come 'ai fini dell'applicazione
dei divieti, occorre prescindere dalla natura giuridica del
rapporto, dovendosi invece considerare l'oggetto
dell'incarico. La disciplina in esame, dunque, non esclude
alcuna delle forme contrattuali contemplate dall'articolo 7
del decreto legislativo n. 165 del 2001
[6],
ma impedisce di utilizzare quelle forme contrattuali per
conferire incarichi aventi il contenuto proprio degli
incarichi vietati'.
Nella circolare n. 6/2014 [7],
in particolare, il predetto Ministro ha rimarcato che
restano ferme le disposizioni vigenti relative ai requisiti
e alle modalità di scelta dei soggetti ai quali conferire
incarichi, e alle procedure di conferimento (come quelle
contenute nell'articolo 7 del d.lgs. 165/2001). Non è quindi
escluso il ricorso a personale in quiescenza per incarichi
che non comportino funzioni dirigenziali o direttive e
abbiano oggetto diverso da quello di studio e consulenza.
Per il legittimo conferimento di incarichi a professionisti
esterni, si rinvia da ultimo, in generale, alle osservazioni
più volte formulate dalla Giurisprudenza contabile
[8], che
ha evidenziato quali siano i presupposti per un corretto
affidamento dei medesimi.
---------------
[1] Cfr. punto 5, ove si menzionano, tra gli incarichi
consentiti, quelli di 'direttore musicale, direttore del
coro e direttore del corpo di ballo'.
[2] Gli ordini, i collegi professionali, i relativi
organismi nazionali e gli enti aventi natura associativa.
[3] Cfr. circolare n. 6/2014.
[4] Vedasi, in proposito, Corte dei conti, Sezione centrale
del controllo di legittimità sugli atti del Governo e delle
amministrazioni dello Stato, deliberazione n. 23/2014/PREV
del 30.09.2014.
[5] Le competenze richieste nella fattispecie in esame
sembrano assumere connotazioni ascrivibili a prestazioni
specialistiche, di elevata professionalità, in campo
artistico. Il TAR Veneto (cfr. sentenza n. 2187/2009) ha
sottolineato che il Direttore Artistico non è inquadrato
nell'ente e la procedura di reclutamento di tale figura non
è un concorso pubblico, considerato che trattasi di figura
professionale che rimane esterna all'ente medesimo.
[6] Il comma 6 dell'art. 7 disciplina il conferimento di
incarichi individuali, con contratti di lavoro autonomo, di
natura occasionale o coordinata e continuativa, ad esperti
di particolare e comprovata specializzazione, per
prestazioni altamente qualificate. Il comma 6-bis prevede
inoltre che le amministrazioni pubbliche disciplinino e
rendano pubbliche, secondo i propri ordinamenti, procedure
comparative per il conferimento degli incarichi di
collaborazione.
[7] Cfr. punto 5. Incarichi consentiti.
[8] Cfr., ex plurimis, Corte dei conti, sez. controllo
Piemonte, parere n. 194/2014 (16.03.2016 -
link a
www.regione.fvg.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Falsa dichiarazione per beneficiare di erogazioni pubbliche,
in quali casi si configura un reato penale e quale
fattispecie può essere contestata?
IL CASO: un cittadino sulla base di una
dichiarazione attestante un reddito imponibile non
corrispondente a quello reale, otteneva un finanziamento
regionale di circa € 1.000,00 per l'acquisto di un computer.
Da un controllo successivo eseguito dai funzionari
regionali, emergeva la falsità delle dichiarazioni e la
denuncia alle autorità giudiziarie.
(Risponde l'Avv. Guido Paratico)
Come affermato dalle Sezioni unite nella sentenza n. 16568
del 19.04.2007, la linea di discrimine tra il reato di cui
all'art. 316-ter c.p. (indebita percezione di erogazioni a
danno dello stato) e quello di cui all'art. 640-bis c.p.
(truffa aggravata per il perseguimento di erogazioni
pubbliche), che hanno in comune l'elemento della indebita
percezione di contributi da parte dello Stato o altri enti
pubblici o dalle Comunità europee, va ravvisato nella
mancata inclusione, tra gli elementi costitutivi del primo
reato, dell'effetto della induzione in errore del soggetto
passivo, presente invece nel secondo.
Occorre dunque guardare alle regole formali del procedimento
di concessione del contributo (o di altra erogazione
comunque denominata):
a) se il contributo consegue alla mera presentazione di
dichiarazioni o documenti falsi o attestanti cose non vere o
all'omissione di informazioni dovute, senza che rilevi che
l'ente pubblico possa essere tratto in errore da tale
condotta, è integrato il reato di cui all'art. 316-ter;
b) se invece la erogazione del contributo da parte dell'ente
pubblico è l'effetto di una induzione in errore circa i
presupposti che lo legittimano, dato che le regole del
relativo procedimento amministrativo non fanno derivare
dalla presentazione della dichiarazione un'automatica
conseguenza circa l'erogabilità di esso, è integrato il
reato di cui all'art. 640-bis c.p..
Nella specie non risulterebbe che, stando alle regole del
relativo procedimento amministrativo, l'assegnazione del
computer sia dipesa da un'induzione in errore degli organi
della regione, essendo invece da ritenere che essa
conseguisse automaticamente per il solo fatto di una
auto-dichiarazione da parte del richiedente di un reddito
rientrante nei limiti previsti, come spesso avviene nelle
erogazione dei contributi.
Il caso di specie, quindi, dovrebbe essere inquadrato nella
fattispecie di cui all'art. 316-ter, punti con la reclusione
da sei mesi a quattro anni.
La norma, tuttavia, prevede una soglia di non punibilità,
disciplinata dal comma 2: "Quando la somma indebitamente
percepita è pari o inferiore a 3.999,96 euro si applica
soltanto la sanzione amministrativa del pagamento di una
somma di denaro da 5.164 euro a 25.822 euro. Tale sanzione
non può comunque superare il triplo del beneficio conseguito".
Applicando la norma al caso di specie, quindi, deve
ritenersi sussistente la fattispecie di cui all'art. 316-ter
c.p., e, trattandosi di una erogazione di valore inferiore
alla soglia di punibilità ragguagliata al valore di Euro
3.999,96, integrata la violazione amministrativa a norma del
comma 2 del predetto articolo.
Infine, per completezza, non può essere contestato il reato
di falso in atto pubblico, posto che in conformità alla
giurisprudenza di legittimità di gran lunga prevalente, il
reato di cui all'art. 483 c.p. è assorbito nella fattispecie
di cui all'art. 316-ter c.p., trattandosi di reato complesso
ex art. 84 c.p., e non valendo, proprio per tale motivo, il
rilievo della diversità del bene giuridico tutelato dalle
due norme, dato che in ogni reato complesso si ha per
definizione pluralità di beni giuridici protetti, a
prescindere dalla collocazione sistematica della fattispecie
incriminatrice (tratto dalla newsletter 16.03.2016 n. 141
di http://asmecomm.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Impianti solari termici o
fotovoltaici aderenti o integrati nei tetti — Decreto
ministeriale 19.05.2015, recante: "Approvazione del
modello unico per la realizzazione, la connessione e
l'esercizio di piccoli impianti fotovoltaici integrati sui
tetti degli edifici" (MIBACT,
Ufficio Legislativo,
nota
15.03.2016 n. 7716 di prot.).
---------------
Si riscontra la nota prot. n. 581 del 15 febbraio con la
quale codesta Direzione, riprendendo i contenuti della
precedente richiesta del 21.12.2015, prot. n. 31357, chiede
l'avviso di questo Ufficio relativamente alla corretta
interpretazione da darsi, nel caso di rilascio
dell'autorizzazione paesaggistica per l'installazione di
impianti solari fotovoltaici, alle normative di settore per
lo sviluppo dell'efficientamento degli usi finali
dell'energia negli immobili ricadenti in aree tutelate
paesaggisticamente.
Le richieste di parere derivano dalle sollecitazioni
provenienti, nel primo caso, dalla Regione Lombardia
relativamente all'applicazione del Decreto ministeriale,
adottato dal Ministro dello Sviluppo economico il 19.05.2015
a seguito di quanto disposto dall'articolo 7-bis del decreto
legislativo n. 28 del 2011, recante: "Approvazione del
modello unico per la realizzazione, la connessione e
l'esercizio di piccoli impianti fotovoltaici integrati sui
tetti degli edifici", e, nel secondo caso, dalla
Soprintendenza Belle arti e paesaggio di Alessandria che,
nello specifico, fa riferimento alla sentenza n. 1946/2014,
con la quale il TAR Piemonte perviene alla conclusione di
considerare esclusi dalla necessità di acquisire
l'autorizzazione paesaggistica gli impianti in argomento, se
non già ricadenti in aree dichiarate ai sensi dell'articolo
136 del Codice, lett. b) e c). (...continua) |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Marostica (Vicenza),
dichiarazione di notevole interesse pubblico del centro
storico — decreto dirigenziale generale 22.02.2012 —
art. 146, comma 5, decreto legislativo 22.01.2004, n.
42 (MIBACT, Ufficio
Legislativo,
nota
11.03.2016 n. 7457 di prot.).
-----------------
La Direzione regionale per i beni culturali e
paesaggistici del Veneto, con nota prot. 10576 del
27.06.2014, integrata con nota prot. 12648 del 30.07.2014,
ha formulato specifico quesito in ordine agli effetti
giuridici in materia di rilascio dell'autorizzazione
paesaggistica che deriverebbero dall'adeguamento degli
strumenti urbanistici comunali alle prescrizioni d'uso
contenute nella dichiarazione d'interesse pubblico in
oggetto, all'esito della positiva verifica da parte del
Ministero.
A tal fine la suddetta Direzione ha precisato che la
componente prescrittiva di cui alla dichiarazione di
interesse pubblico de qua presenta un grado di dettaglio
equivalente a quello attribuito alle specifiche prescrizioni
d'uso di cui all'art. 143, comma 1, lett. b), del codice di
settore.
Il quesito riveste portata generale a fronte della mutata
natura (obbligatoria non vincolante, così detta "dequotazione")
che assume il parere del Soprintendente nel procedimento di
autorizzazione paesaggistica, ai sensi dell'art. 146, comma
5, del codice, in correlazione all'approvazione delle
prescrizioni d'uso dei beni paesaggisticamente tutelati e
alla positiva verifica da parte del Ministero dell'avvenuto
adeguamento degli strumenti urbanistici. (...continua). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Osservatorio
Viminale/
Commissione antimafia nello Statuto.
Un comune può istituire una commissione consiliare
antimafia?
In linea generale, l'articolo 38, comma 6, del decreto
legislativo n. 267/2000 prevede la possibilità, per il
consiglio comunale, di avvalersi di commissioni costituite
nel proprio seno con criterio proporzionale.
Tale disposizione ne demanda la previsione allo statuto
dell'ente e rinvia al regolamento comunale la determinazione
dei relativi poteri e la disciplina dell'organizzazione e
delle forme di pubblicità dei lavori.
Il successivo articolo 44, comma 2, dà, altresì, facoltà al
consiglio comunale di «istituire al proprio interno
commissioni di indagine sull'attività dell'amministrazione»,
precisando che «i poteri, la composizione e il funzionamento
delle suddette commissioni sono disciplinati dallo statuto e
dal regolamento consiliare».
Le commissioni, dunque, nell'ambito del vigente ordinamento
degli enti locali, costituiscono forme di articolazione
interna del consiglio e si configurano come un contenuto
facoltativo dello statuto dell'ente locale, mentre al
regolamento è demandata la disciplina delle modalità
organizzative con cui le stesse esercitano le funzioni
assegnate.
Premesso, pertanto, che tutte le commissioni consiliari
operano ordinariamente nell'ambito delle competenze dei
consigli, come disciplinate dall'articolo 42 del Tuel, in
virtù delle richiamate disposizioni, anche la commissione
comunale antimafia, per poter essere concretamente
istituita, deve trovare apposita previsione nello statuto
comunale.
Nel caso di specie, la partecipazione degli enti locali alle
attività di prevenzione dei fenomeni di criminalità
organizzata è prevista anche dalla legge regionale in
materia, che promuove il ruolo degli enti locali nel
perseguimento di tali peculiari obiettivi e adotta
specifiche iniziative per valorizzare e diffondere le
migliori politiche locali per la trasparenza, la legalità e
il contrasto al crimine organizzato.
Il legislatore regionale prevede, inoltre, la promozione di
specifiche azioni formative rivolte ad amministratori e
dipendenti degli enti locali sui temi della prevenzione e
del contrasto civile alle infiltrazioni della criminalità
organizzata, del riuso sociale dei beni confiscati, della
diffusione della cultura della legalità.
Ciò posto, la commissione di cui trattasi potrebbe
esercitare la facoltà di proposta nell'ambito delle funzioni
di supporto ed ausilio del consiglio.
L'eventuale funzione di accertamento di potenziali discrasie
amministrative deve, invece, essere ricondotta ai compiti
specifici della commissione di indagine sull'attività
dell'amministrazione, come prevista dal richiamato articolo
44 del decreto legislativo n. 267/2000. Restano, comunque,
ferme le competenze degli organi di controllo interno
dell'amministrazione, rispetto all'attività degli uffici,
che non possono essere surrogate dalla eventuale attività di
indagine della commissione consiliare
(articolo ItaliaOggi dell'11.03.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Dopo il patteggiamento, il dipendente deve anche risarcire
l'Ente per danno all'immagine?
IL CASO: il giudice penale ha applicato,
su richiesta della difesa del responsabile dell'Ufficio
Urbanistica, la sanzione penale e, tuttavia, la sentenza
patteggiata non include alcun risarcimento del danno
all'immagine sofferto dal Comune a causa comportamento
illecito del responsabile dell'ufficio urbanistica,
consistente nell'avanzare a vari imprenditori edili
richieste di pagamento di somme di denaro per ottenere le
pratiche edilizie presentate. Si tratta di stabilire se tale
danno sia dovuto e come il Comune possa ottenerne il
risarcimento.
(Risponde l'Avv. Nadia Corà)
La natura patteggiata della sanzione irrogata dal giudice
penale non consente di includere il capo di condanna al
risarcimento del danno all'immagine. Pertanto, nel caso di
specie, la risposta non può che essere demandata all'esito
del giudizio di responsabilità di competenza della Corte dei
conti.
Quand'anche il Comune abbia sofferto un tale danno a causa
del comportamento illecito del proprio funzionario,
l'effettiva risarcibilità, a favore del Comune, dipende,
infatti, dalla configurabilità, in concreto, della "responsabilità
amministrativa" del dipendente in questione.
Nel processo davanti alla Corte dei conti, che ha per
oggetto l'accertamento di una tale responsabilità, la
sentenza di applicazione pena, pur non avendo efficacia di
giudicato, ben può costituire, "un'autorevole fonte"
da cui trarre autonome valutazioni sulle risultanze
acquisite nel procedimento penale conclusosi con il
patteggiamento. L'assenza di un accertamento positivo della
responsabilità dell'imputato non impedisce alla Corte dei
conti, in virtù del principio di separatezza dei giudizi,
penale ed amministrativo-contabile, di poter comunque trarre
elementi di valutazione dal fascicolo del procedimento
penale ai fini dell'autonoma pronuncia in tema di
responsabilità amministrativa, per danno erariale.
In definitiva, la sentenza patteggiata, pur non potendosi
qualificare come sentenza di condanna, presuppone pur sempre
una ammissione di colpevolezza che esonera la controparte
dall'onere della prova. L'accertamento in ordine al
comportamento, oggettivamente tenuto dal funzionario del
Comune, non è tuttavia elemento di per sé sufficiente per
ottenere, nel giudizio davanti alla Corte dei conti, il
ristoro del danno all'immagine, dovendo altresì sussistere
l'elemento del dolo o della colpa grave, che è compito della
magistratura amministrativo-contabile accertare (tratto
dalla newsletter 09.03.2016 n. 140 di http://asmecomm.it). |
EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO:
Oggetto: Torino - immobili
demaniali di proprietà della città metropolitana denominati
"Palazzo della Prefettura" e "Caserma Chiaffredo Bergia" —
dichiarazione dell'interesse culturale particolarmente
importante di cui all'art. 10, comma 3, lett. d), del
decreto legislativo n. 42 del 2004 - conferimento a Invimit
Sgr S.p.A. (MIBACT, Ufficio
Legislativo,
nota
04.03.2016 n. 6747 di prot.).
---------------
Si riscontra il quesito di cui alla nota prot. 14325 del
09.12.2015 della Soprintendenza Belle arti e paesaggio per
il comune e la provincia di Torino, trasmessa a questo
Ufficio a cura del Segretariato generale con nota prot. 467
del 15.01.2016, in ordine alla legittimità del conferimento
a Invimit Sgr S.p.A. degli immobili demaniali di proprietà
della Provincia, ora città metropolitana, di Torino
denominati "Caserma Chiaffredo Bergia" e "Palazzo della
Prefettura", dichiarati di interesse culturale
particolarmente importante ai sensi dell'art. 10, comma 3,
lett. a) e d), del decreto legislativo n. 42 del 2004 con
decreti del Direttore regionale per i beni culturali e
paesaggistici del Piemonte adottati, rispettivamente, in
data 09.08.2013 e 10.10.2013.
La società di gestione del risparmio Invimit Sgr S.p.A. è
stata costituita dal Ministero dell'economia e delle finanze
secondo le previsioni dell'art. 33 del decreto-legge n. 98
del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 111
del 2011, per l'istituzione di uno o più fondi
d'investimento al fine di partecipare in fondi
d'investimento immobiliare chiusi, promossi o partecipati da
regioni, province, comuni, ed altri enti pubblici, o da
società interamente partecipate dai medesimi, al fine di
valorizzare e dismettere il proprio patrimonio immobiliare
disponibile.
Lo scrivente Ufficio ha già chiarito con precedente parere
(nota prot. 6328 del 19.03.2015) l'assoggettamento delle
alienazioni di beni immobili pubblici in favore della
società Invimit al regime autorizzatorio previsto dalla
Sezione I del Capo IV della Parte II del codice di settore.
L'art. 54 del codice, come è noto, prevede l'inalienabilità
dei beni del demanio culturale dichiarati di interesse
particolarmente importante ai sensi dell'art. 10, comma 3,
lett. d) del codice; i beni inalienabili possono essere
oggetto di trasferimento esclusivamente tra gli enti
pubblici territoriali ed essere utilizzati solo secondo le
previsioni del Titolo II (dedicato alla fruizione e
valorizzazione) della Parte II del codice. Ne consegue la
conclusione della inalienabilità, allo stato, in favore di
Invimit SGR S.p.A. degli immobili de quibus, gravati da
vincolo storico-identitario. (...continua). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Osservatorio Viminale/
Sugli enti locali decide la regione.
Per i comuni con popolazione inferiore a 3 mila abitanti, il
consiglio comunale deve essere composto da dieci
consiglieri? Può essere riutilizzato il simbolo della lista
già impiegato nelle precedenti elezioni?
In merito al primo dei quesiti, occorre evidenziare che, nel
caso di specie, l'ente locale insiste nel territorio di una
regione a statuto speciale. Secondo la carta statutaria,
l'ordinamento degli enti locali rientra nella competenza
della legislazione regionale, nel rispetto della
Costituzione, dei principi dell'ordinamento giuridico della
repubblica, degli obblighi internazionali e degli interessi
nazionali, nonché delle norme fondamentali delle riforme
economico-sociali della repubblica.
La disciplina prevista dalla legge n. 56/2014, in materia di
città metropolitane, è qualificata dall'art. 1, comma 5,
della stessa legge come normativa recante principi di
«grande riforma economica e sociale»; inoltre, la citata
legge, ai sensi del successivo comma 145, dispone che entro
dodici mesi dalla data di entrata in vigore della presente
legge, le regioni a statuto speciale Friuli Venezia Giulia e
Sardegna e la Regione siciliana adeguano i propri
ordinamenti interni ai principi della medesima legge.
Le
disposizioni di cui ai commi da 104 a 141 sono applicabili
nelle regioni a statuto speciale Trentino-Alto Adige e Valle
d'Aosta compatibilmente con le norme dei rispettivi statuti
e con le relative norme di attuazione, anche con riferimento
alla legge costituzionale 18.10.2001, n. 3.
Nella fattispecie in esame, tuttavia, la regione non ha
ancora provveduto a un riordino complessivo del proprio
ordinamento degli enti locali.
Pertanto, nelle more di un futuro riassetto della materia,
occorre fare riferimento alla normativa regionale
attualmente vigente, secondo cui il consiglio comunale dei
comuni con popolazione compresa tra 1.000 e 5 mila abitanti
è composto da 12 membri.
In merito al secondo quesito formulato, non si ravvisano
preclusioni al riutilizzo, da parte della formazione
politica interessata alle prossime elezioni comunali, del
medesimo contrassegno di lista presentato, e presumibilmente
ammesso, in occasione delle elezioni tenutesi nello stesso
comune.
Per completezza, si richiamano le disposizioni contenute
nell'art. 30, comma 1, lettera b), (per i comuni sino a 15
mila abitanti) e nell'art. 33, comma 1, lett. b) (per i
comuni con popolazione superiore a 15 mila abitanti) del dpr
n. 570/1960, da cui si evincono i criteri di ammissione dei
contrassegni di lista, con riferimento, tra l'altro, al
divieto di presentazione di contrassegni identici o comunque
confondibili con quelli presentati precedentemente per la
stessa consultazione o con quelli notoriamente usati da
altri partiti o raggruppamenti politici
(articolo ItaliaOggi del 04.03.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto:
"Castellamare di Stabia (Napoli), località Collina di Varano. Istanze del
Comune e di privati finalizzate a rideterminare i
provvedimenti di tutela diretti" (MIBACT,
Ufficio Legislativo,
nota
02.03.2016 n. 6433 di prot.).
---------------
Con nota prot. 17789 del 07.11.2014 la Soprintendenza di
Pompei formulava un quesito in ordine alla corretta
procedura da adottare in seguito alle istanze di privati e
enti finalizzate a rideterminare, in presenza di manufatti
abusivi, i vincoli diretti, adottati con decreti
ministeriali ai sensi della legge n. 1089 del 1939, gravanti
sulla collina di Varano.
Tali vincoli risulterebbero particolarmente estesi e non
corredati da planimetrie dei resti archeologici, secondo la
prassi dell'epoca. La collina di Varano sarebbe interessata
nella sua totalità non solo dalla presenza di tre ville
monumentali parzialmente riportate alla luce, ma anche da
assi viari antichi e numerosi altri rinvenimenti che nel
loro insieme testimoniano l'esistenza dell'antica città di
Stabiae.
Il Comune di Castellamare, a fronte di numerose istanze di
condono, avrebbe manifestato l'intenzione di sottoscrivere
un protocollo d'intesa con la Soprintendenza finalizzato a
eliminare e/o declassificare i vincoli esistenti, anche
ricorrendo all'utilizzo di indagini geoarcheologiche atte a
determinare l'esistenza o meno di resti antichi,
legittimanti la permanenza dei provvedimenti. Pendono
inoltre avanti il Giudice amministrativo una decina di
ricorsi per l'annullamento di alcuni dei vincoli, in ordine
ai quali la Soprintendenza, con la rappresentanza
dell'Avvocatura dello Stato, avrebbe predisposto idonee
argomentazioni difensive.
La Soprintendenza chiede a questo Ufficio di esprimersi
sulla legittimità della sottoscrizione del protocollo
d'intesa, nelle more della definizione dei giudizi
amministrativi, nonché sulle iniziative da avviare
nell'ipotesi in cui i saggi geoarcheologici diano esito
negativo. (...continua). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI:
Oggetto: Mancata partecipazione del componente del
Comando Provinciale VV.F. alla riunione della C.C.V.L.P.S.
riguardante parere esame progetto dello stadio comunale.
Quesito (Ministero dell'Interno, Dipartimento della
Pubblica Sicurezza,
nota
11.12.2015 n. 557 di prot.). |
NEWS |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Permessi sindacali con calcolo pro rata.
Pa. Le istruzioni dell’Aran per gli enti
interessati da riassetti organizzativi.
In questa fase ad
alto tasso di mobilità per la geografia della pubblica
amministrazione anche le regole della rappresentanza
sindacale devono adeguarsi ai confini interessati da
mutamenti più o meno rapidi. Per questa ragione l’Aran,
l’agenzia negoziale che rappresenta il “datore di lavoro”
pubblico, con la circolare 1/2016 interviene per
disciplinare il funzionamento delle Rsu e i calcoli su monte
ore e distribuzione dei permessi sindacali per le
amministrazioni che cambiano assetto.
Il principio da tradurre in pratica è quello fissato nel
contratto quadro del 2015, che sulla base di quanto
sperimentato nella scuola due anni prima punta a far
“sopravvivere” il più possibile il sistema della
rappresentanza alle ristrutturazioni degli enti, per evitare
che ogni riassetto imponga nuove elezioni inceppando i
meccanismi delle relazioni sindacali.
Con questa filosofia, le istruzioni dell’Aran si addentrano
nei criteri per il ricalcolo dei permessi sindacali nei tre
casi di riorganizzazione delle Pa: costituzione di un nuovo
ente dal trasferimento di funzioni e personale,
incorporazione da parte di un ente di funzioni e personale
di altre amministrazioni, e scorporo di personale da un ente
che però continua a sopravvivere, anche se alleggerito.
La regola generale prevede di fondare la quantificazione e
la distribuzione dei permessi sulla situazione che ogni
amministrazione al 31 dicembre dell’anno precedente. I
riassetti, però, possono avvenire in altre date, e in questi
casi la via è quella del calcolo «pro rata».
Se per esempio un ente passa da 100 a 50 dipendenti dal mese
di maggio, il monte ore dei permessi, misurato in base al
numero dei dipendenti a tempo indeterminato, va calcolato in
due fasi: per 4/12 (il periodo dal 1° gennaio al 30 aprile)
sulla base della vecchia struttura, e per 8/12 (dal 1°
maggio al 31 dicembre) in base alla nuova. Un’impostazione
di questo tipo, aggiunge l’Aran, può essere assunta anche “a
preventivo” negli enti che rischiano la soppressione e che
«dovranno adottare particolari cautele nella concessione
delle prerogative sindacali», adottando ad esempio «la
concessione pro rata». Anche perché i permessi di troppo
vanno restituiti, come prevedono i contratti quadro che
impongono la restituzione del «corrispettivo economico» o la
compensazione con un taglio di ore l’anno successivo (articolo Il Sole 24 Ore del 15.03.2016). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
Spazi per la fibra ottica agevolati in
condominio. Comunicazioni. Sarà
possibile affittarli alle società telefoniche.
Per gli
amministratori e i condòmini si fa strada una nuova
opportunità: è stato pubblicato sulla Gazzetta ufficiale n.
57 del 09.03.2016 il Dlgs 33/2016 «Attuazione della direttiva
2014/61/Ue del Parlamento europeo e del Consiglio, del
15.05.2014, recante misure volte a ridurre i costi
dell’installazione di reti di comunicazione elettronica ad
alta velocità», che completa l’attuazione della direttiva
2014/61/Ue (già avviata con la legge 164/2014).
Il tema sarà
trattato al convegno dedicato alla infrastrutture interne
multiservizio, di sabato 19 marzo a Erba, organizzato da
Anaci e Ance Como alle 15 alla Sala Lario di Lario Fiere in
viale Resegone.
Inserendo nel Dpr 380/2001 l’articolo
135-bis, dove sono definite regole per l’infrastrutturazione
digitale degli edifici, nelle nuove costruzioni e in
determinate tipologie di ristrutturazioni è imposta la
realizzazione di una «infrastruttura fisica multiservizio
passiva» interna e di accessi all’edificio per agevolare la
realizzazione di impianti di comunicazione elettronica.
La
novità si applica a tutti gli edifici (nuovi o già
esistenti) dotati (o che si doteranno) di questa
infrastruttura, definita nel luglio 2015: si tratta di
scatole e tubi dove collocare i cavi che le società
telefoniche posano per realizzare i collegamenti sino ai
singoli appartamenti. Come nella direttiva, sono considerati
sia gli ambiti pubblici, sia gli edifici privati.
In
particolare, per gli edifici dotati di infrastruttura ai
sensi del Dpr 380/2001, il proprietario o il condominio, ove
costituito (equiparabile a gestore di infrastruttura
fisica), potrà mettere l’infrastruttura a disposizione degli
operatori di rete, potendo (dovendo) soddisfare «tutte le
richieste ragionevoli di accesso presentate secondo termini
e condizioni eque e non discriminatorie, anche con riguardo
al prezzo». Tutti i condomìni, quindi, rientrano in queste
possibilità, compreso il pagamento di un fee da parte delle
società telefoniche se useranno quelle infrastrutture.
Quanto pagare lo deciderà l’Agcom.
Per i condomìni che ne siano sprovvisti esiste quindi la
possibilità, con una spesa ragionevole, di realizzare queste
infrastrutture (tubi e scatole come adeguati spazi
installativi ma volendo anche l’impianto in fibra ottica
passivo, pronto all’uso). Per gli edifici già esistenti può
essere complicato predisporli, a meno di non sfruttare
spazi già esistenti come i vecchi canali per la spazzatura
ormai chiusi, ma più semplice è predisporre la sola fibra
ottica (per poi poterla affittare a canoni interessanti).
Oppure, se si prospettano 4-5 abbonamenti, l’impianto può
essere regalato dalla società telefonica.
Insomma, ci sono
ampi margini per una trattativa che l’amministratore
potrebbe condurre.
È anche prevista l’identificazione degli edifici
«predisposti alla banda larga» con l’etichetta rilasciata da
tecnici abilitati , come previsto dalle guide Cei 306-2 e
64-100/1,2,3 (integrate nella GT-Cei 306-22).
Inoltre, ai fini dei permessi edilizi, «le opere di infrastrutturazione per la realizzazione delle reti di
comunicazione elettronica ad alta velocità in fibra ottica
in grado di fornire servizi di accesso a banda ultralarga,
effettuate anche all’interno di edifici, da chiunque
posseduti, non costituiscono unità immobiliari ai sensi
dell’articolo 2 del decreto del Ministro delle finanze 02.01.1998, n. 28, e non rilevano ai fini della
determinazione della rendita catastale»
(articolo Il Sole 24 Ore del 15.03.2016). |
ENTI LOCALI - VARI:
Automobilisti, in arrivo il countdown ai
semafori.
Novità per gli automobilisti. Tra poco verranno sdoganati i
pannelli luminosi che evidenziano a chi è in transito i
secondi residui di accensione della lanterna semaforica. E
potranno anche essere installati sulle strade dispositivi
che attivano il rosso in caso di eccesso di velocità.
L'impiego di questi sistemi è stato, infatti, previsto dalla
legge 120/2010 ma, senza il decreto di riferimento, non è
ancora possibile installarli effettivamente sulle strade.
Il chiarimento è arrivato il 10 marzo scorso (INTERROGAZIONE
A RISPOSTA IN COMMISSIONE 5/07622) dal
sottosegretario Umberto del Basso De Caro in risposta a
un'interrogazione che era stata presentata in Commissione
trasporti alla Camera.
L'articolo 60 della legge 120/2010 ha formalmente sdoganato
i semafori intelligenti e i tabelloni luminosi indicanti il
countdown del tempo residuo delle lanterne. Prima di
procedere con le installazioni, però, occorre stabilire con
decreto del ministero dei trasporti le caratteristiche
tecniche di questi impianti che potranno essere utilizzati
solo dopo la loro preventiva omologazione.
Il decreto del Mit però è stato condizionato dalla
necessaria sperimentazione tecnica dei nuovi sistemi. Per
questo motivo già un anno fa il governo era stato chiamato a
fornire chiarimenti sui tempi di messa a regime del sistema.
La risposta del sottosegretario si sofferma soprattutto
sulle sperimentazioni dei dispositivi countdown, utili per
evitare di attraversare gli incroci quando la lanterna sta
per cambiare colore.
«Queste prove», ha sottolineato il sottosegretario, «hanno
dato esito positivo». Il ministero ha quindi redatto una
bozza di decreto che approva le norme inerenti alle
caratteristiche tecniche per l'omologazione e per
l'installazione dei citati dispositivi. Il testo è
attualmente all'esame del Consiglio superiore dei lavori
pubblici per ogni ulteriore valutazione.
Spetterà poi alla Conferenza stato-città ed autonomie locali
mettere l'ultimo timbro sui faldoni, ovvero permettere ai
costruttori di iniziare a omologare i sistemi che prima di
essere posizionati sulle strade dovranno anche essere
acquistati dagli enti e posizionati correttamente.
Specialmente i semafori evoluti in grado di interferire con
le correnti di traffico troppo veloci
(articolo ItaliaOggi del 15.03.2016). |
TRIBUTI: Per lo sconto Imu, comodato da registrare.
La Fondazione nazionale dei commercialisti fa il punto sulla
norma.
Dal 1° gennaio scorso, il proprietario dell'immobile che
concede in comodato gratuito lo stesso a un parente in linea
retta (genitori e/o figli), fruisce dell'abbattimento del
50% della rendita catastale. Ma il contratto deve essere
registrato, il comodante deve risiedere nel medesimo comune
e deve possedere un solo altro immobile abitativo su tutto
il territorio nazionale.
Questa, in estrema sintesi, la situazione analizzata con il
documento 29.02.2016 (IL
COMODATO D’USO: PROFILI CIVILISTICI E ANALISI DELLA
DISCIPLINA FISCALE PREVISTA DALLA LEGGE DI STABILITÀ 2016) dalla Fondazione
nazionale commercialisti, in relazione alle novità
introdotte dalla legge 208/2015 (Stabilità 2016), che fanno
riferimento alle nuove agevolazioni Imu e Tasi.
Il documento analizza nei minimi termini le disposizioni, di
cui alla lettera b), del comma 10, dell'art. 1, della legge
208/2015 che hanno introdotto un'agevolazione fiscale, a
prescindere dalle eventuali determinazioni degli enti
comunali, per gli immobili concessi in comodato d'uso a
genitori e/o figli, condizionando la fruibilità a condizioni
estremamente stringenti.
Si evidenzia, preliminarmente, che al comma 3, dell'art. 13,
dl 201/2011, che ha previsto alcune riduzioni della base
imponibile dei tributi indicati è stata inserita la lettera
0a), con la quale si dispone che le unità immobiliari, non
di lusso (pertanto con esclusione delle categorie «A/1»,
«A/8» e «A/9»), concesse in godimento con un contratto di
comodato registrato a parenti in linea retta, le quali sono
utilizzate quali abitazioni principali, beneficiano della
riduzione del 50% della rendita catastale.
Il documento in commento evidenzia che, se nel biennio
2014/2015 non era rilevante né il numero di immobili
posseduti, né l'ubicazione degli stessi, a partire dal 1°
gennaio di quest'anno, al fine di fruire della detta
agevolazione, è necessario che l'unità immobiliare sia
concessa in comodato, che il proprietario non possieda che
un solo altro immobile su tutto il territorio italiano e che
il proprietario risieda nel comune ove è collocato
l'immobile concesso in godimento, ancorché sia proprietario
di due immobili ubicati in comuni diversi.
Di conseguenza, mentre nel biennio indicato (2014/2015) era
prevista l'esenzione Imu qualora i comodatari fossero poco
abbienti (Isee non superiore a 15 mila euro), attualmente,
il proprietario deve solo rispettare le condizioni appena
indicate e può beneficiare della riduzione della base
imponibile, come indicato, utilizzando il valore ridotto
della rendita.
Posta la gratuità del comodato, di cui agli articoli 1803 e
seguenti del codice civile, e l'analisi eseguita nel
documento sulle varie ipotesi (comodato a termine, precario,
vita natural durante, destinato a soddisfare le esigenze
abitative familiari e quant'altro), la nuova disciplina
impone la registrazione del contratto, con la conseguenza
che, per poter fruire dell'agevolazione per l'intero anno
2016, i contratti di comodato redatti in «forma scritta»
dovevano essere registrati entro la data del 16/01/2016, con
il pagamento dell'imposta di registro in misura fissa (euro
200).
Se, invece, il contratto è stato formato in «forma verbale»
ed è già in essere al 1° gennaio scorso, la registrazione
doveva essere eseguita entro lo scorso 1° marzo (ministero
dell'economia e delle finanze, nota 2472/2016).
Il comodante deve risiedere anagraficamente e deve dimorare
nel medesimo comune ove è ubicato l'immobile concesso in
comodato e non può possedere ulteriori immobili in Italia,
con l'esclusione di quello adibito ad abitazione principale,
facendo riferimento alle sole unità abitative e on tenendo
conto di immobili strumentali e/o terreni, per quanto
chiarito dal dicastero delle finanze recentemente.
Infine, il contribuente che vuole fruire della detta
agevolazione deve attestare il possesso dei requisiti
stabiliti dalle disposizioni richiamate con la presentazione
della dichiarazione Imu, di cui al comma 6, dell'art. 9,
dlgs 23/2011; per i contratti di comodato d'uso già in
essere al 1° gennaio scorso e per quelli concessi in
comodato nel corso del 2016, la dichiarazione dovrà essere
presentata entro e non oltre il 30/06/2017
(articolo ItaliaOggi del 15.03.2016). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Condomini, fibra ottica e meno costi.
Direttiva Ue.
Al via l'installazione della fibra ottica nelle
infrastrutture esistenti, compresi gli edifici e i
condomini. I proprietari di unità immobiliari già cablate, o
il condominio predisposto, hanno il diritto e l'obbligo di
consentire l'accesso agli operatori di rete per
l'installazione della fibra ottica.
È con il dlgs del 15.02.2016 n. 33 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del
09.03.2016 n. 57) che è stata recepita la direttiva
europea 2014/61/Ue per ridurre i costi dell'installazione di
reti di comunicazione elettronica ad alta velocità,
promuovendo l'uso dell'infrastruttura fisica esistente.
Ogni
gestore di infrastruttura fisica e ogni operatore di rete ha
il diritto di offrire ad operatori di reti l'accesso alla
propria infrastruttura fisica ai fini dell'installazione di
elementi di reti di comunicazione elettronica ad alta
velocità. Alla richiesta scritta è allegata una relazione
esplicativa, in cui sono indicati gli elementi del progetto
da realizzare, comprensivi di un cronoprogramma degli
interventi specifici.
I gestori di infrastruttura fisica e
gli operatori di rete, in caso di realizzazione,
manutenzione straordinaria sostituzione o completamento
della infrastruttura, hanno l'obbligo di comunicare i dati
relativi all'apertura del cantiere, al Sinfi (sistema
informativo nazionale federato delle infrastrutture), con un
anticipo di almeno novanta giorni salvo si tratti di
interventi emergenziali. In assenza di infrastrutture
disponibili, l'installazione delle reti di comunicazione
elettronica ad alta velocità è effettuata preferibilmente
con tecnologie di scavo a basso impatto ambientale.
Ogni gestore di infrastrutture fisiche e ogni operatore di
rete che esegue direttamente o indirettamente opere di genio
civile finanziate in tutto o in parte con risorse pubbliche
deve soddisfare ogni ragionevole domanda di coordinamento di
opere di genio civile, presentata da operatori di rete,
secondo condizioni trasparenti e non discriminatorie
(articolo ItaliaOggi del 15.03.2016). |
URBANISTICA:
Grandi magazzini, Comuni decisivi. Le scelte dei
piani urbanistici possono condizionare le nuove aperture nei
centri storici.
Commercio. Da contemperare i principi della libera
concorrenza con la tutela del paesaggio e della rete di
vendita esistente.
Si chiama high street retail e si intende l’offerta commerciale localizzata
nelle vie centrali delle principali città. Anche in Italia,
specie a Milano, Roma e Firenze ma anche nelle altre
maggiori città d’arte e commerciali, i capitali
internazionali (fondi sovrani, investitori asiatici e
opportunistici) sono a caccia di queste solide opportunità
di investimento, che tuttavia ormai scarseggiano o hanno
costi proibitivi in relazione al loro rendimento.
Se il prodotto è carente bisogna realizzarne di nuovo e
certo non mancano nel centro delle nostre città grandi
proprietà immobiliari liberatesi o che si stanno liberando
dagli uffici trasferiti nelle nuove aree terziarie. Il caso
dell’ormai quasi desertificata Piazza Cordusio a Milano è
paradigmatico.
La realizzazione di una nuova offerta commerciale nei
salotti e nelle vie dello struscio è peraltro idonea a
promuovere la rigenerazione urbana, l’efficientamento
energetico e la dotazione di nuove infrastrutture e servizi,
non necessariamente pubblici. Ma l’apertura dei department
store, ossia dei negozi più grandi, con offerta commerciale
articolata e superficie di vendita generalmente superiore a
2.500 metri quadrati, incontra le regole dell’urbanistica
commerciale. Si tratta del cosiddetto decreto Bersani (Dlgs
n. 114/1998) e della legislazione regionale applicativa,
assieme alle norme della sempre vigente legge urbanistica
nazionale (la n. 1150/1942) e delle disposizioni regionali
in materia di governo del territorio, del Testo unico
dell’edilizia (Dpr 380/2001) e soprattutto della disciplina
dei piani regolatori comunali.
La tutela del tessuto commerciale esistente, così come dei
valori paesaggistici e culturali delle nostre città, assieme
alla necessità di dotare il tessuto urbano dei servizi -quali parcheggi e aree a verde- necessari all’ordinato
sviluppo territoriale sono solitamente d’ostacolo
all’apertura in centro di nuovi department store.
Questa consolidata tendenza si pone però in conflitto con le
numerose riforme del commercio (Dl n. 223/2006, n. 138/2011
e n. 1/2012) finalizzate a garantire la libertà di
concorrenza in applicazione della Direttiva Bolkestein del
2005.
Nella mediazione del contrasto, in termini maggiormente
favorevoli alla libertà di iniziativa economica, spicca il
Comune di Milano: lo strumento urbanistico generale consente
infatti l’apertura delle grandi strutture nei nuclei di
antica formazione, pur assoggettandone l’insediamento al
reperimento o alla monetizzazione di una imponente dotazione
di aree per servizi pubblici, di interesse pubblico o
generale.
Sempre a Milano, non è richiesta la dotazione di parcheggi
per le grandi strutture di vendita localizzate nelle zone a
traffico limitato (chi parcheggia dove non si può arrivare
in auto?), norma tanto ragionevole quanto in contrasto con
la disciplina regionale della Lombardia che rispetto agli
stalli non distingue tra un centro commerciale in periferia
e l’offerta nelle aree pedonali delle città.
Nei tessuti della Città storica di Roma le funzioni
commerciali per grande struttura sono invece sostanzialmente
escluse e, più in generale, non sono ammesse in buona parte
della città. Nella Città storica l’apertura di grandi
strutture di vendita è tuttavia consentita per le “attività
tutelate” di cui alle delibere del Consiglio comunale n.
36/2006 e n. 86/2009 (quali librerie, rivendite di oggetti
di antiquariato, gallerie d’arte, vendite di prodotti di
alta moda e prèt à porter di marchi a diffusione nazionale
ed internazionale).
Sia nel Lazio che in Lombardia, l’apertura di grandi
strutture è poi subordinata alla determinazione favorevole
di una conferenza di servizi che vede la partecipazione di
Regione, Provincia e Comune, così come stabilito
dall’articolo 9 del Dlgs n. 114/1998.
Su quest’ultimo punto, merita di essere citata la regione
Veneto che, con Lr n. 50/2012, ha invece previsto che,
all’interno dei centri storici, l’autorizzazione commerciale
per le grandi strutture di vendita sia rilasciata
direttamente dal Comune cui è rimessa ogni valutazione circa
la localizzazione dei grandi negozi e la dotazione degli
standard urbanistici.
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I vincoli «locali» bocciati dai giudici.
Giurisprudenza. Norme da disapplicare.
Anche se dal
2001 con la riforma del Titolo V della Costituzione la
disciplina del commercio è di competenza legislativa
residuale delle Regioni, la redazione di norme in questa
materia non è libera. Come più volte affermato dalla Corte
costituzionale, la disciplina del commercio deve essere
armonizzata con quella di tutela della concorrenza, di
competenza statale.
I limiti introdotti dallo Stato in materia di tutela della
concorrenza, pertanto, vincolano e prevalgono rispetto alla
disciplina delle Regioni in materia di commercio.
Riguardo alla libera concorrenza, partendo dal dettato
dell’articolo 3 del Dl n. 223/2006 per arrivare al Dl n.
1/2012, lo Stato ha chiarito che -in coerenza con la
direttiva Bolkestein (2006/123/Ce) e con i principi
costituzionali– nel nostro Paese l’iniziativa economica è
libera secondo condizioni di piena concorrenza e pari
opportunità ed ammette solamente vincoli necessari ad
evitare danni alla salute, all’ambiente, al paesaggio, al
patrimonio artistico e culturale, alla sicurezza, alla
libertà, alla dignità umana e possibili contrasti con altri
valori di rango primario. Comuni, Province, Città
metropolitane e Regioni devono adeguare la propria normativa
a questi principi.
Numerose pronunce giurisprudenziali hanno dichiarato
l’abrogazione implicita o comunque l’inapplicabilità di
disposizioni regionali in materia di commercio (tra i tanti,
Tar Friuli Venezia Giulia, sentenza n. 145/2011) e di norme
contenute negli strumenti urbanistici locali (Tar Milano,
sentenza n. 2271/2013) che, a vario titolo, imponevano
contingentamenti o restrizioni all’insediamento di attività
commerciali.
Poiché l’iniziativa economica non può essere assoggettata ad
autorizzazioni o limitazioni, salvo che per motivi
imperativi rientranti nel catalogo formulato dalla Corte di
giustizia (Causa C-400/08), il contingentamento
dell’apertura di attività economiche, così come la
previsione di “limiti territoriali” al loro insediamento
ricadono nell’ambito delle limitazioni vietate (salvo motivi
imperativi d’interesse generale).
Eppure ancora oggi gli strumenti urbanistici di molti Comuni
prevedono generiche restrizioni all’insediabilità di
esercizi commerciali (specialmente se di medie e grandi
dimensioni) di dubbia legittimità. Sulla questione, è da
ultimo tornata una pronuncia del Consiglio di Stato (la n.
4856/2015), la quale –seppur inerente ad una fattispecie
antecedente all’introduzione delle più recenti norme in
materia di liberalizzazione- ha affermato la compatibilità
con la normativa nazionale e comunitaria sulla libera
concorrenza dei limiti all’insediamento delle attività
commerciali nel nucleo storico di Roma (delibera comunale n.
36/2006) e, così, ha riacceso il dibattito.
A prescindere dalle peculiarità dei singoli casi, resta la
responsabilità delle amministrazioni di dare attuazione ai
principi di liberalizzazione del settore, assumendo
strumenti di pianificazione urbanistica che, salvi i limiti
necessari a tutelare valori di rango primario, consentano il
libero insediamento delle attività commerciali
(articolo Il Sole 24 Ore del 14.03.2016). |
APPALTI:
Affidamenti semplici per servizi culturali,
sociali e ristorazione. Appalti. Le
procedure nel nuovo Codice.
L’affidamento
dei servizi sociali, culturali e di ristorazione potrà
essere sviluppato con regole più semplici e con riferimento
a una nuova soglia, molto più elevata rispetto a quella
prevista per gli altri servizi.
Lo
schema
del nuovo Codice degli appalti (Schema di
decreto legislativo recante disposizioni per l'attuazione
delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE
sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli
appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti
erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei
trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino
della disciplina vigente in materia di contratti pubblici
relativi a lavori, servizi e forniture -
Atto del Governo n. 283 sottoposto a parere parlamentare) conferma la
situazione di specialità che l’ordinamento comunitario
riserva da molti anni a varie categorie di servizi alla
persona, ma recependo la direttiva 2014/24 definisce per
tali attività elencate nell’allegato IX anche la nuova
soglia dedicata, determinata in 750mila euro contro i
209mila delle altre tipologie di servizi.
L’aumento della soglia di riferimento implica che le
acquisizioni di servizi sanitari, socio-assistenziali,
socio-educativi, culturali, formativi, per il tempo libero e
di ristorazione di valore inferiore siano assoggettati agli
obblighi previsti dalle norme di natura finanziaria che
regolano l’acquisto mediante i mercati elettronici o le
piattaforme telematiche, a partire in particolare dal comma
450 dell’articolo unico della legge n. 296/2006.
Già in molti contesti regionali, peraltro, le procedure
sottosoglia per l’affidamento di servizi alla persona sono
gestite mediante strumenti telematici e da qualche mese è
attivo anche un bando abilitante del Mepa-Consip, che
riguarda servizi di assistenza domiciliare e servizi
socio-educativi per la prima infanzia.
La semplificazione riguarderà anche le procedure di gara di
valore superiore alla soglia dei 750mila euro, per le quali
viene previsto l’obbligo di pubblicità mediante un bando di
gara o mediante un avviso di preinformazione (che può
coprire un periodo lungo), al quale faranno seguito
procedure che coinvolgeranno gli operatori che avranno
manifestato interesse.
Il nuovo Codice regola solo un aspetto della procedura
selettiva, indicando come criterio di valutazione delle
offerte da applicarsi obbligatoriamente a questi appalti il
parametro dell’offerta economicamente più vantaggiosa.
Rispetto al quadro normativo attuale, gli appalti di servizi
sociali compresi nell’allegato IX dello schema del nuovo
quadro normativo (corrispondente a quello della direttiva
comunitaria) non rientrano nel novero dei contratti esclusi
dall’applicazione del Codice, ma nell’ambito dei regimi
speciali di appalto.
Assumendo a riferimento l’articolo 76 della direttiva
2014/14, i principi regolatori delle procedure selettive per
questi appalti sono quelli comunitari, ai quali manca
tuttavia esplicito riferimento nelle norme del nuovo Codice.
Le particolari modalità di aggiudicazione lasciano tuttavia
spazio per l’applicazione di quelle norme procedurali
relative agli appalti ordinari che garantiscono il principio
di concorrenza come quelle sull’avvalimento dei requisiti.
Una novità rilevante è data dalle disposizioni che prevedono
la possibilità per le amministrazioni di indire per
determinate categorie di servizi socio-assistenziali ei
socio-educativi gare riservate a alcune categorie di
operatori economici, caratterizzati da scopo non lucrativo e
dalla partecipazione dei dipendenti alle decisioni
dell’impresa.
Questa norma, tuttavia, necessita di qualche correttivo, in
quanto presenta alcuni vincoli significativi in ordine al
coinvolgimento in tali procedure di soggetti che siano
risultati affidatari nel triennio precedente con gare
riservate (articolo Il Sole 24 Ore del 14.03.2016). |
ENTI LOCALI - VARI:
Un pass digitale e universale per dialogare con
le p.a.. Al via dal 15 marzo Spid,
il nuovo sistema di login per i servizi pubblici online.
Pin unico per i servizi con la Pubblica amministrazione. O
meglio un'unica credenziale.
Il sistema si chiama Spid (sistema pubblico di identità
digitale) e parte il 15.03.2016 con una sperimentazione
su larga scala.
Le prime amministrazioni che aderiscono sono l'Agenzia delle
entrate, Inps, Inail, comune di Firenze, comune di Venezia,
comune di Lecce, regione Toscana, regione Liguria, regione
Emilia-Romagna, regione Friuli Venezia Giulia, regione Lazio
e regione Piemonte.
E InfoCert, Poste Italiane e Tim stanno rendendo disponibili
le prime identità digitali.
L'idea è semplificare le modalità di fruizione telematica
dei servizi, consentendo al cittadino di dialogare
utilizzando una credenziale con tutti i soggetti coinvolti.
Vediamo cosa cambia per cittadini e imprese.
In dettaglio Spid è il nuovo sistema di login che permetterà
a cittadini e imprese di accedere con un'unica identità
digitale a tutti i servizi online di pubbliche
amministrazioni e imprese aderenti. Grazie a Spid si può
dire addio alle innumerevoli password, chiavi e codici
necessari oggi per utilizzare i servizi online di p.a. e
imprese. Tra i servizi fruibili con il sistema Spid possono
elencarsi: servizi Anagrafici, 730 precompilato, incentivi
alle imprese, certificazione Isee, iscrizione ad asili nido,
domanda d'iscrizione alla gestione separata, sportello
telematico Imu, Tari, Tasi, certificati energetici,
pagamenti contributi Inps lavoratori domestici, invio
domanda di disoccupazione, ritiro referti medici.
Altri servizi raggiungibili con il sistema Spid sono lo
Sportello unico per le attività produttive (Suap), lo
Sportello unico per l'edilizia (Sue) e la prenotazione
tramite Cup. Inoltre in alcune regioni si prevede
l'estensione all'accesso ad avvisi e bandi, al fascicolo
sanitario, al bollo auto e ai servizi per lo studente.
L'identità Spid è costituita da credenziali con
caratteristiche differenti in base al livello di sicurezza
richiesto per l'accesso. Ci sono tre livelli di sicurezza,
ognuno dei quali corrisponderà a tre diversi livelli di
identità Spid.
Il primo livello si basa su sistemi di autenticazione
informatica a un singolo fattore: per esempio
l'autenticazione tramite identificativo utente (Id) e
password scelta dall'interessato.
Il secondo livello di sicurezza prevede sistemi di
autenticazione informatica a due fattori: per esempio
tramite password e generazione di una One Time Password
inviata dall'utente oppure l'invio di un sms, liste-tabelle
predefinite o applicazioni mobili per smartphone o tablet
collegati in rete. Infine il terzo livello è un sistema di
autenticazione informatica a due fattori basati su
certificati digitali e criteri di custodia delle chiavi
private su dispositivi, come per esempio l'autenticazione
combinata tramite password e una smart card.
Pubbliche amministrazioni e privati definiranno
autonomamente il livello di sicurezza necessario per poter
accedere ai propri servizi digitali.
Le credenziali Spid garantiranno un accesso unico a tutti i
servizi da molteplici dispositivi.
L'identità Spid viene rilasciata dai Gestori di identità
digitale (Identity Provider), soggetti privati accreditati
da Agid che, nel rispetto delle regole emesse dall'Agenzia,
forniscono le identità digitali e gestiscono
l'autenticazione degli utenti.
Per ottenere un'identità Spid l'utente deve farne richiesta
al gestore, il quale, dopo aver verificato i dati del
richiedente, emette l'identità digitale rilasciando le
credenziali all'utente. Ogni gestore può scegliere tra
diverse modalità di verifica.
Il cittadino può scegliere il gestore di identità digitale
che preferisce.
Attualmente i gestori di identità digitale sono Poste
italiane Id, Infocert Id e Tim Id.
Il sistema prevede alcune cautele contro l'utilizzo abusivo
o fraudolento dell'identità digitale. A posteriori (dopo il
furto di identità) si può agire civilmente per il
risarcimento dei danni e si può denunciare penalmente: il
codice penale prevede la reclusione fino a tre anni (oltre a
una multa) per il gestore di identità (articolo
640-quinquies del codice penale).
In astratto potrebbe capitare anche che un service provider
si inventi che un cittadino ha acceduto a un servizio ed
effettuato determinate azioni dopo essersi autenticato con
una identità Spid. Tuttavia, spiega l'Agid, differentemente
dal caso in cui si utilizzasse una carta elettronica, con
l'uso dell'identità Spid il reato (sostituzione di persona,
frode informatica ecc.) sarebbe facilmente provabile. Il
gestore dell'identità infatti deve mantenere traccia dei
processi di autenticazione effettuati.
Le misure precauzionali adottate sono le seguenti. Se il
cittadino o l'impresa ritiene che la propria identità
digitale sia stata utilizzata abusivamente o
fraudolentemente da un terzo, potrà bloccare l'identità
digitale, chiedendone la sospensione al gestore della stessa
e, se conosciuto, anche al fornitore di servizi presso il
quale essa risulta essere stata utilizzata.
Se la richiesta sarà inviata con posta elettronica
certificata, o sottoscritta con firma digitale o firma
elettronica qualificata, il gestore dell'identità digitale e
il fornitore di servizi eventualmente contattato
provvederanno subito; negli altri casi si procederà previa
verifica della provenienza della richiesta di sospensione da
parte del soggetto titolare dell'identità digitale.
La sospensione durerà un massimo di 30 giorni, decorsi i
quali l'identità digitale dovrà essere ripristinata o
revocata. La revoca scatta quando il gestore avrà ricevuto
dall'interessato copia della denuncia presentata
all'autorità giudiziaria per gli stessi fatti su cui è stata
basata la richiesta di sospensione.
---------------
Previste forme di verifica.
Le identità digitali rilasciate all'utente contengono
obbligatoriamente il codice identificativo, gli attributi
identificativi e almeno un attributo secondario.
Per codice identificativo si intende il particolare
attributo assegnato dal gestore dell'identità digitale che
consente di individuare univocamente un'identità digitale
nell'ambito dello Spid.
Gli attributi identificativi, per le persone fisiche sono
nome, cognome, luogo e data di nascita, sesso, codice
fiscale, estremi di un valido documento d'identità, mentre
per le persone giuridiche sono ragione o denominazione
sociale, sede legale, codice fiscale o partita Iva, visura
camerale attestante lo stato di rappresentante legale del
soggetto richiedente l'identità per conto della società e
gli estremi del documento d'identità utilizzato dal
rappresentante legale.
L'attributo secondario serve per le comunicazioni tra il
gestore dell'identità digitale e l'utente. Gli attributi
secondari sono il numero di telefonia fissa o mobile,
l'indirizzo di posta elettronica, il domicilio fisico e
digitale ed eventuali altri attributi individuati dall'Agid
funzionali alle comunicazioni.
Per gli attributi secondari devono essere forniti almeno un
indirizzo di posta elettronica e un recapito di telefonia
mobile. I gestori devono accertare che l'indirizzo di posta
elettronica comunicato sia unico in ambito Spid, cioè non
sia stato precedentemente indicato per l'acquisizione di
un'identità digitale.
Infine sono attributi qualificati: le qualifiche, le
abilitazioni professionali e i poteri di rappresentanza e
qualsiasi altro tipo di attributo attestato da un gestore di
attributi qualificati.
Le identità digitali saranno rilasciate a domanda e si deve
verificare l'identità fisica del soggetto richiedente,
tramite esibizione a vista di un valido documento d'identità
e, nel caso di persone giuridiche, della procura attestante
i poteri di rappresentanza. In alternativa sono previste
forme di verifica dell'identità informatica (per esempio
mediante acquisizione del modulo di adesione allo Spid
sottoscritto con firma elettronica qualificata o con firma
digitale).
Una misura indirettamente precauzionale è quella che fa leva
sull'aggiornamento costante delle informazioni (attributi
identificativi) sul conto del titolare dell'identità. È,
infatti, previsto l'obbligo degli utenti di informare
tempestivamente il gestore dell'identità digitale di ogni
variazione degli attributi previamente comunicati; e il
gestore deve provvede tempestivamente ai necessari
aggiornamenti.
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La privacy non è a rischio.
Non ci sarà nessuna profilazione a scopi commerciali dei
dati dell'utente da parte degli Identity Provider.
Inoltre il sistema Spid protegge i dati personali più di una
smart-card. Con le carte elettroniche i dati personali utili
a verificare l'identità in rete sono tutti disponibili al
service provider.
Con Spid, sebbene l'utente sarà sempre autenticato con
assoluta certezza, saranno forniti al service provider,
previa autorizzazione dell'utente, solo i dati strettamente
necessari per la specifica transazione. Per esempio, per i
servizi che necessitano solo di verificare la maggiore età
del soggetto o di conoscere un indirizzo email, l'identity
provider fornirà al service provider solo le informazioni
strettamente necessarie.
In corso d'opera, tra l'altro, il Garante della privacy ha
fornito le sue osservazioni (provvedimento
17.12.2015 n. 660), chiedendo una rete di garanzie, tra le
quali: stringenti controlli dell'Agid in tema di sicurezza
informatica e protezione dei dati; una più puntuale
definizione delle modalità di conservazione della
documentazione inerente la creazione e il rilascio
dell'identità digitale; la specificazione delle
caratteristiche del servizio all'utente dell'avvenuto
utilizzo delle sue credenziali; una migliore esplicitazione
delle procedure di sospensione e revoca dei gestori. È stata
inoltre sancita la collaborazione tra Agid e Garante privacy
con l'obiettivo di vigilare sul funzionamento di un sistema
così delicato.
Il garante ha anche chiesto di specificare che, se il
gestore dell'identità digitale fornisce solo
l'identificazione da remoto come modalità per la verifica
dell'identità del richiedente, ciò deve essere messo in
evidenza, oltre che nelle condizioni e termini del
contratto, anche nell'informativa da rendere all'utente.
Sempre a protezione dei dati bisogna ricordare l'obbligo per
il gestore di comunicazione di eventuali violazioni o
intrusioni nei dati personali (i cosiddetti data breach) e
le procedure che l'Agid è tenuta ad adottare in caso di
inadempimenti del gestore.
Si potranno avere più identità Spid, senza che questo
provochi intoppi. Sul sito dell'Agid è trattato il caso del
cittadino dotato di due identità Spid fornite da due diversi
gestori, che inizi un procedimento amministrativo con una
identità Spid, e pone il quesito se quel cittadino dovrà
ricordarsi quale identità ha utilizzato per accedere
nuovamente a quella p.a. per seguire la propria pratica o
presentare altra documentazione. La risposta è negativa, in
quanto l'ufficio pubblico, sarà in grado di riconoscere il
cittadino e consentirgli di accedere ai propri dati e alle
proprie pratiche a prescindere dall'identità Spid utilizzata
dal cittadino.
Il cittadino non dovrà temere di avere dimenticato una
identità digitale. Non si corre il rischio di avere identità
digitali attive di cui si perda memoria. Le norme, infatti,
prescrivono al gestore dell'identità di tener traccia
dell'uso delle singole identità emesse e, non rilevandone
l'utilizzo per un periodo di 24 mesi, deve revocare
l'identità non utilizzata.
Per l'uso dell'identità Spid, tra l'altro, non sarà
obbligatorio l'uso di alcun lettore di carte ma potrà essere
utilizzata in diverse modalità (per esempio, pc, smartphone,
tablet ecc.). Il cittadino sarà libero di scegliere la
soluzione che offre il mercato e cambiarla quando vuole.
Una volta scelto un gestore di identità e ottenuta
l'identità, il cittadino non sarà vincolato a quel gestore,
in quanto potrà revocare l'identità ottenuta in qualunque
momento senza dover fornire alcuna motivazione.
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Adesione obbligatoria per gli enti.
Spid obbligatorio per le p.a. Per gli enti pubblici
l'adesione al sistema pubblico di identità digitale è
vincolante. Mentre per le imprese l'adesione allo Spid per
fornire i propri servizi in rete è facoltativo.
Lo precisa
la circolare 22.02.2016 n. 7 di Assonime, dedicata
all'illustrazione della novità in materia di
digitalizzazione dei servizi. La circolare richiama,
comunque, le disposizioni del codice dell'amministrazione
digitale, in base alle quali l'impresa, che aderisce allo
Spid per la verifica dell'accesso ai servizi erogati in rete
per i quali è richiesto il riconoscimento dell'utente, non è
tenuta a un obbligo generale di sorveglianza delle attività
sui propri siti ai sensi dell'articolo 17 del decreto
legislativo 09.04.2003, n. 70, sul commercio elettronico.
Invece, per gli enti pubblici, erogatori di servizi online,
per i quali è necessaria l'identificazione informatica
dell'utente, la normativa prescrive l'obbligo di consentire
l'identificazione degli utenti mediante lo Spid.
Le p.a., pertanto, hanno l'obbligo di aderire allo Spid.
Le p.a., inoltre, hanno 24 mesi di tempo, decorrenti dalla
data di iscrizione nel registro Spid del primo gestore di
identità digitale, per adeguare i sistemi di login dei
propri siti all'accesso tramite Spid.
La circolare Assonime ricorda che le pubbliche
amministrazioni possono anche affidare ai gestori di
identità dello Spid le funzioni di autenticazione
informatica e che le pubbliche amministrazioni in qualità di
fornitori di servizi possono utilizzare a titolo gratuito le
verifiche effettuate dai gestori di identità digitale e dai
gestori di attributi qualificati.
Le p.a., infine, devono trattare i dati nel rispetto della
disciplina sulla protezione dei dati personali: in
particolare i fornitori di servizi devono informare l'utente
che l'identità digitale e gli eventuali attributi
qualificati saranno verificati rispettivamente presso i
gestori dell'identità digitale e i gestori degli attributi
qualificati
(articolo ItaliaOggi Sette del 14.03.2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Mud in versione aggiornata. Focus su Cer,
materiali recuperati e specifici rifiuti.
Dall'Ispra le indicazioni per la denuncia
ambientale da effettuare entro il 30/04/2016.
Denuncia dei rifiuti oggetto di riclassificazione,
individuazione dei materiali effettivamente recuperati,
corretta indicazione dei flussi di Raee, veicoli fuori,
residui da manutenzione, costruzione e demolizione.
Questi alcuni dei nodi che le nuove istruzioni diramate nei
giorni scorsi dall'Ispra provvedono a sciogliere in vista
della dichiarazione ambientale Mud, in scadenza il prossimo
30.04.2016.
Le indicazioni (disponibili
cliccando qui)
arrivano in attuazione del Dpcm 21.12.2015 che, nel
confermare per la nuova dichiarazione la modulistica
introdotta dal Dpcm 17.12.2014, ha previsto l'adozione
di «informazioni aggiuntive» alle istruzioni riportate in
allegato al provvedimento del 2014.
Questo sia per
aggiornarle alle intervenute modifiche del quadro normativo
di riferimento, sia per superare alcune criticità
evidenziate dalla denuncia del 2015.
Nuovo elenco rifiuti.
Del Dpcm 17.12.2014, avvisano in
primis le nuove istruzioni, non è più valido l'allegato
Catalogo europeo dei rifiuti (Cer). Ciò in quanto dal 01.06.2015 l'unico elenco applicabile è quello contenuto
dalla decisione 2014/955/Ue in riformulazione della
decisione 2000/532/Ce. Allo stesso modo, avvisa l'Ispra
richiamandosi alla circolare MinAmbiente 11845/2015, non
risulta applicabile l'analogo elenco allegato al Dlgs
152/2006 (il c.d. «Codice ambientale»), superato dalla
stessa decisione Ue del 2014.
Le novità previste dal
rinnovato elenco europeo dei rifiuti riguardano la modifica
di alcuni codici e l'introduzione di nuove voci. Le
modifiche, ricorda l'Ispra, interessano in particolare i
codici: 010309 (ora «fanghi rossi derivanti dalla produzione
di allumina, diversi da quelli di cui alla voce 010310»);
190304* (che passa da «rifiuti contrassegnati come
pericolosi parzialmente stabilizzati» a «rifiuti
contrassegnati come pericolosi parzialmente stabilizzati,
diversi da quelli di cui al punto 190308»).
Le new entry
sono invece i codici: 010310* (fanghi rossi derivanti dalla
produzione di allumina contenenti sostanze pericolose,
diversi da quelli di cui alla voce 010307); 160307*
(mercurio metallico); 190308* (mercurio parzialmente
stabilizzato).
Classificazione dei rifiuti.
Particolare attenzione,
indicano le nuove istruzioni, dovrà essere adottata nella
compilazione del Mud 2016 alla luce dei rinnovati criteri
per la classificazione dei rifiuti in base alla loro
pericolosità in vigore dallo scorso 01/06/2015.
Tali criteri
sono, infatti, esclusivamente quelli riportati dal
regolamento Ue n. 1357/2014 in riformulazione della
direttiva 2008/98/Ce, anche in questo caso prevalenti su
quelli ex attuale 152/2006. Tale innovazione potrebbe,
sottolinea l'Ispra, aver determinato nel corso del 2015 la
necessità per gli operatori di riclassificare i rifiuti dai
cd. «codice a specchio», conferendo loro un nuovo Cer. In
caso di avvenuta riclassificazione dei rifiuti prodotti o
gestiti, le istruzioni Ispra indicano in primis come nel Mud
vadano riportati i dati presenti nei relativi registri di
carico/scarico e formulario di trasporto.
Nel caso, però, in
cui il cambio di classificazione abbia interessato rifiuti
in deposito presso il produttore al momento dell'evento,
occorrerà compilare: una scheda «Rif» con il codice Cer del
rifiuto valido al momento della produzione (indicando
l'effettiva quantità prodotta, ma come pari a zero quella
conferita e in giacenza); un'altra scheda «Rif» con il nuovo
codice Cer (indicando la quantità prodotta uguale a zero,
mentre quella conferita uguale al deposito iniziale).
La
doppia scheda, si evince dalle istruzioni, non sarà invece
necessaria qualora la mutata classe di pericolosità del
rifiuto non abbia reso necessario il cambio del Cer. In
nessun caso, però, dovranno essere effettuate fittizie
registrazioni cronologiche di scarico.
Informazioni sui materiali.
Nuove istruzioni ad hoc arrivano
per l'indicazione nelle comunicazioni rifiuti, veicoli fuori
uso, Raee e imballaggi dei quantitativi di materiali
costituenti «end of waste» o «Mps» (materie prime
secondarie), ossia fuoriusciti dal regime dei rifiuti a
seguito di attività di recupero dei sottesi rifiuti.
Qualora
detti materiali siano stati prodotti in cicli che prevedono
l'impiego in diversa quantità di rifiuti e materie prime,
sarà cura del dichiarante riportare tramite la migliore e
accurata stima solo la quota di queste ultime. Laddove i
materiali generati siano invece semilavoratori non
classificabili come «rottami», la quantità dovrà essere
riportata nella voce assimilabile per caratteristiche
merceologiche.
Comunicazione Raee.
Informazioni aggiuntive anche per la
denuncia dei tecno-rifiuti disciplinati dal dlgs 49/2014, da
indicare nel modulo «Comunicazione Raee» (laddove quelli sub
dlgs 152/2006 vanno invece denunciati nella «Comunicazione
rifiuti»).
Per i tecno-rifiuti in parola sarà cura degli
impianti di gestione fornire nelle relative schede (Tra-Raee),
oltre alle informazioni su rifiuti ricevuti e conferiti, i
dati relativi ai residui prodotti nelle unità locali in
seguito ai processi di trattamento. I Centri di raccolta
Raee dovranno invece utilizzare la dedicata e diversa scheda
«Cr-Raee», senza dunque duplicare le informazioni nella
sopra menzionata scheda.
Comunicazione veicoli fuori uso.
Istruzioni particolari per
i gestori di veicoli fuori uso rientranti nel dlgs 209/2003,
da denunciare con l'apposita «Comunicazione Vfu» (mentre
quelli ex dlgs 152/2006 vanno dichiarati nella citata
«Comunicazione rifiuti»).
Per i rifiuti in questione sarà
onere degli autodemolitori indicare come ricevuti da terzi
(da considerare soggetti «privati» solo se diversi da
imprese o enti) anche i mezzi a fine vita che provvedono in
prima persona a radiare dai pubblici registri. Rottamatori e
frantumatori dovranno invece porre attenzione
all'indicazione del netto del quantitativo dei rifiuti
ricevuti da terzi, che dovrà essere maggiore di zero e
risultare uguale al reimpiego.
Nell'indicare la destinazione
dei rifiuti in giacenza a fine 2015 (a volte non
preventivabile), la distinzione tra quantitativi avviati a
recupero o smaltimento dovrà coincidere: con i dati dei
formulari nel caso vi siano stati conferimenti nel 2016
antecedenti all'inoltro del nuovo Mud; con la stima
effettuata sulla base dei pregressi anni in caso differente.
Rifiuti da manutenzione, costruzione e demolizione.
I
rifiuti da attività di manutenzione prodotti fuori dalle
unità locali dovranno essere denunciati tramite l'apposito
modulo «Re», sia che vengano poi conferiti direttamente
all'impianto di trattamento sia che vengano trasportati in
un luogo di raggruppamento presso la sede del produttore.
Gestori e trasportatori che ricevono, invece, rifiuti da
costruzione e demolizione prodotti in cantieri che non
costituiscono unità locali dovranno indicare puntualmente
nel modulo «rifiuti ricevuti da terzi» (Rt) ogni singolo
cantiere da cui detti residui provengono
(articolo ItaliaOggi Sette del 14.03.2016). |
PATRIMONIO:
Niente sponsor su atti pubblici. Bocciata la
richiesta dell'Anci del 5% per i dipendenti.
Il Consiglio di stato rinvia all'Ambiente il
regolamento sul finanziamento delle spese verdi.
Tutto da rifare sulla sponsorizzazione dei documenti
comunali. L'innovativa chance, che consente ai municipi di
dare visibilità (su comunicati, brochure, volantini,
depliant, opuscoli, cataloghi, manifesti e locandine) alle
aziende private che finanzino la cura del verde urbano
favorendo l'assorbimento di anidride carbonica
nell'atmosfera, è destinata a restare ancora in naftalina.
E questo, nonostante sia stata prevista
da una legge del 1997, riformulata dalla legge n. 10/2013
sullo sviluppo degli spazi urbani. Il provvedimento del
ministero dell'ambiente, contenente la disciplina dei
contratti di sponsorizzazione (su cui la conferenza
unificata aveva dato l'ok lo scorso 17 dicembre) è stato
infatti bocciato senza appello dal Consiglio di stato.
Nel
parere 26.02.2016 n. 558 sullo "schema di
regolamento in materia di contratti di sponsorizzazione e
accordi di collaborazione, ai sensi dell’art. 43, comma 2,
della legge 27.12.1997, n. 449" i giudici della Sez.
consultiva per gli atti normativi hanno smontato punto per
punto lo schema di regolamento. Non solo sul piano
sostanziale, ma anche su quello formale.
Sotto il primo aspetto, palazzo Spada ha stigmatizzato
l'inserimento di una clausola, «senza copertura
legislativa», che avrebbe consentito di destinare
all'amministrazione comunale una quota «eventuale» (quindi
frutto dell'accordo tra l'ente e l'azienda), pari o non
superiore al 5% del valore della sponsorizzazione, da
destinare a copertura delle spese sostenute per il controllo
e la vigilanza degli spazi verdi urbani.
Una clausola inserita per espresso volere dell'Anci ma che
aveva subito sollevato perplessità da parte del ministero
dell'interno. Secondo il Viminale, «mancando nella fonte
primaria una specifica disposizione autorizzativa, non è
possibile porre a carico dello sponsor l'onere di
contribuire, sia pure in via residuale, al finanziamento di
attività (il controllo e la vigilanza di spazi verdi) che il
comune è tenuto a svolgere in via ordinaria».
Il Consiglio di stato ha accolto in toto la linea del
Mininterno bocciando il 5% voluto dall'Anci con motivazioni
molto dure: «Si tratta di un onere che non può essere
introdotto con lo strumento regolamentare e che, in ogni
caso, non sarebbe coerente con il ruolo di neutralità
dell'ente locale, in quanto potrebbe provocare
un'attenuazione dei caratteri di imparzialità e equidistanza
che devono ispirare l'azione amministrativa».
Non solo.
Palazzo Spada ha escluso che la clausola possa essere
legittimata per analogia con la quota del 5% dei risparmi di
spesa devoluta all'incremento dei fondi per l'indennità di
risultato «dei soli dirigenti statali». Questa quota è
espressamente prevista dalla legge n. 449/1997 e «non
comporta per gli sponsor ulteriori oneri rispetto a
previsioni di spesa già iscritte a bilancio».
Quella
patrocinata dall'Anci, invece, «non ha copertura legislativa
e comporterebbe per gli sponsor un esborso ulteriore, da
versare ai comuni per attività istituzionali di loro
competenza, con la prevedibile destinazione di dette somme
all'incremento del trattamento economico del personale
dipendente».
Tutto questo, per palazzo Spada, già è sufficiente per
bocciare lo schema di decreto, ma i giudici amministrativi
non hanno risparmiato agli estensori del testo anche una
sonora bacchettata sul piano formale per «le imperfezioni
e i non pochi refusi del testo che evidentemente non è stato
sottoposto a una revisione finale».
Tanto che per il futuro si suggerisce al ministero
dell'ambiente di attenersi alle regole indicate nella «Guida
alla redazione dei testi normativi» che la presidenza
del consiglio ha emanato nel maggio del 2001. E si invita il
dicastero guidato da Gian Luca Galletti a prendere contatti
con palazzo Spada per «l'eventuale approfondimento delle
questioni esaminate»
(articolo ItaliaOggi del 12.03.2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
Detrazione del 65% solo su immobili accatastati.
L'immobile oggetto della riqualificazione energetica alla
data della richiesta della detrazione del 65% deve essere
«esistente», ossia accatastato o con richiesta di
accatastamento in corso.
L'immobile ove si vogliono installare le schermature solari
e i generatori di caldaie a biomassa deve essere in regola
con il pagamento di eventuali tributi e dotato di impianto
di riscaldamento.
Queste le indicazioni principi che emergono da due vademecum
Enea (schermature solari e per i
lavori incentivanti
aggiornati al 17.02.2016 e 26.01.2015 con le diverse schede
tecniche).
Per usufruire della detrazione del 65% gli
interventi di riqualificazione energetica sugli immobili
devono rispondere a determinati requisiti. I lavori devono
rispettare limiti di dispersione che sono chiaramente tabellati o per l'intero edificio o per il singolo elemento
costruttivo oggetto dell'intervento.
Ricordiamo che la detrazione Irpef (per le persone fisiche)
e Ires (per le società) del 65% per la riqualificazione
energetica degli edifici esistenti, per le spese sostenute è
valida dal 1° gennaio al 31.12.2016. L'ambito
applicativo del bonus viene esteso, per le spese sostenute
dal 01.01.2015 al 31.12.2016, all'acquisto di
schermature solari con posa in opera.
Tale agevolazione ha un limite di 60.000 euro (fino a una
spesa totale quindi di 92.307 euro) detraibile in 10 anni.
Le spese sono detraibili se riferite all'acquisto compreso
di posa in opera di schermature solari dinamiche (come da
norme EN 13561 e EN 13665) applicate a pareti che siano
almeno parzialmente vetrate. È possibile usufruire di una
detrazione pari al 65% per l'installazione di caldaie a
legna o pellet e stufe a legna o pellet.
Sono inoltre ammesse alla detrazione anche le opere di
smontaggio e dismissione dell'impianto di climatizzazione
invernale esistente e la fornitura e posa in opera di tutte
le apparecchiature e accessori, o delle opere idrauliche e
murarie, necessarie per la sostituzione, a regola d'arte,
dell'impianto termico esistente con un generatore di calore
a biomassa
(articolo ItaliaOggi del 12.03.2016). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
P.a., la privacy in pasto a tutti. Il nuovo dlgs
trasparenza mette a rischio i dati personali.
Il Garante ha dato l'ok al decreto ma ha
richiesto una lunga lista di correzioni.
Dati contenuti negli archivi della p.a. in pasto a tutti,
senza limiti.
Lo scoperchiamento delle informazioni, anche quelle più
delicate, sul conto delle persone conservate dalla pubblica
amministrazione è l'effetto paradossale, denunciato dal
Garante della privacy (provvedimento
03.03.2016 n. 92), derivante dallo schema di decreto legislativo
correttivo sulla trasparenza della pubblica amministrazione.
Lo schema di decreto riformula in molte parti il precedente
decreto legislativo 33/2013 e, secondo il Garante, arriva ad
eccessi che mettono a repentaglio la riservatezza delle
persone.
Non a caso, la lista delle correzioni richieste è molto
lunga e riguarda le linee strutturali dello schema di
decreto. Vediamo alcuni esempi. A un comune potrebbe
arrivare una richiesta di accesso civico avente a oggetto la
lista dei nominativi dei minori iscritti a una scuola,
magari corredata da tutte le ulteriori informazioni,
dall'indirizzo di residenza alla composizione o allo stato
reddituale della famiglia, a eventuali disabilità.
All'anagrafe tributaria potrebbe arrivare la richiesta di
accesso civico ad oggetto tutti i dati detenuti da ogni
istituto di credito con riferimento a saldi, movimenti e
giacenza media di tutti i conti correnti. E non si possono
escludere richieste di accesso a informazioni sulla salute o
la vita sessuale.
Accesso civico.
L'accesso civico consente, secondo il
decreto legislativo 33/2013, di ottenere dalla p.a. i
documenti che devono essere obbligatoriamente pubblicati per
finalità di trasparenza (in particolare sono i documenti
inseriti nella sezione «amministrazione trasparente» dei
siti internet degli enti pubblici). Con lo schema di decreto
correttivo diventano conoscibili da chiunque e senza bisogno
di particolare motivazione tutti i dati detenuti dalla p.a.
(e non solo quelli da pubblicare per ragioni di
trasparenza).
È vero che la normativa è ispirata agli ordinamento
anglosassoni in cui vige il Freedom of Information Act, che
assicura a chiunque il diritto di chiunque di accedere a
dati e documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni,
anche senza motivazione. Ma è anche vero che il testo
proposto si pone pericolosamente ai limiti del rispetto
della privacy. È per questo che il Garante propone di
accogliere la richiesta di accesso solo in presenza di un
interesse prevalente rispetto al diritto alla riservatezza.
Incarichi pubblici.
Lo schema di decreto prevede la
pubblicazione della situazione patrimoniale dei titolari di
incarichi amministrativi di vertice. La conseguenza è che
sarebbero oltre 140 mila i dirigenti tenuti alla
pubblicazione della situazione patrimoniale, senza contare
coniugi e parenti fino al secondo grado. Il garante richiede
maggiore proporzionalità, distinguendo a seconda del ruolo e
della carica ricoperta.
Obblighi di trasparenza.
Il Garante chiede di definire gli obblighi di trasparenza,
soggetti alla speciale normativa (pubblicazione per 5 anni,
obbligo di indicizzazione, riutilizzo, accesso libero,
ecc.). Lo schema di decreto si riferisce genericamente a
quelli previsti dalla «normativa vigente». Ma questo
porta a risultati irragionevoli: ad esempio vi
rientrerebbero pubblicazioni matrimoniali o pubblicazioni di
albo pretorio il cui termine di pubblicazione sarebbe
esteso, senza giustificazione, a un intero quinquennio
(articolo ItaliaOggi del 12.03.2016). |
LAVORI PUBBLICI:
Entro il 31/3 il censimento delle opere
incompiute.
Arriva il censimento delle opere pubbliche incompiute.
A volerlo è il Ministero delle infrastrutture e dei
trasporti che ha scritto alle stazioni appaltanti
(ministeri, regioni, Anci, Upi) invitandoli ad assicurare
l'aggiornamento degli elenchi anagrafici delle opere
incompiute entro il 31.03.2016. Gli enti pubblici dovranno,
a loro volta, sensibilizzare le stazioni appaltanti sulle
quali svolgono attività di vigilanza per garantire
l'inserimento delle opere incompiute di competenza.
Sulla base dei dati ricevuti il ministero, le regioni e le
province autonome, ciascuno per le sezioni di rispettiva
competenza, pubblicheranno entro il 30.06.2016 le
graduatorie delle opere pubbliche incompiute aggiornate al
31.12.2015, secondo i criteri imposti dalla legge
(articolo ItaliaOggi del 12.03.2016). |
APPALTI: Offerte, pesa il rating d'impresa.
Nuovi indici per qualificare gli operatori economici.
Nella valutazione con il criterio dell'economicamente più
vantaggioso previsto dalla riforma.
Rating di legalità e certificazioni per gli appalti a
rischio di infrazione Ue se oggetto di valutazione in sede
di offerta.
È quanto potrebbe accadere in base alle
previsioni contenute nello
schema di decreto di riordino del
codice dei contratti pubblici (Schema di
decreto legislativo recante disposizioni per l'attuazione
delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE
sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli
appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti
erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei
trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino
della disciplina vigente in materia di contratti pubblici
relativi a lavori, servizi e forniture -
Atto del Governo n. 283 sottoposto a parere parlamentare) approvato una settimana fa dal
consiglio dei ministri e adesso all'attenzione delle camere
che dovranno rendere i pareri entro il 6 aprile (ma i
relatori Esposito e Mariani vorrebbero chiudere in tempi
rapidi).
Il tema del rating di legalità e più in generale quello dei
cosiddetti criteri reputazionali che guardano al
comportamento dell'impresa nei precedenti contratti pubblici
si inserisce all'interno delle norme che mirano a rendere
più incisiva ed effettiva l'analisi delle caratteristiche
delle imprese, anche ai fini della qualificazione che, come
è noto, può essere o gestita dagli organismi di attestazione
(Soa), o effettuata in sede di gara quando si tratta di
appalti di forniture e di servizi.
Nella legge delega (n.
11/2016) si prevede (lettera uu, dell'art. 1) un apposito
riferimento ai criteri reputazionali ai fini della revisione
del sistema di qualificazione degli operatori economici,
basati su «parametri oggettivi e misurabili e su
accertamenti definitivi concernenti il rispetto dei tempi e
dei costi nell'esecuzione dei contratti e la gestione dei
contenziosi, assicurando gli opportuni raccordi con la
normativa vigente in materia di rating di legalità».
Questo criterio di delega (valido per tutti gli operatori
economici) si ritrova attuato in primo luogo all'art. 83
(sui criteri di selezione), comma 10 dello schema che
istituisce un sistema di «premialità e di penalità» (per
tutti gli operatori) gestito dall'Anac connesso ai criteri reputazionali declinati alla lettera uu) citata.
In secondo luogo, si rinviene all'articolo 84 dedicato al
sistema di qualificazione degli esecutori di lavori
pubblici, dove si conia la definizione di «rating di
impresa», nozione ovviamente più ampia di quella afferente
alla disciplina del «rating di legalità» gestito
dall'Antitrust a ben altri fini (agevolazioni pubbliche,
accesso al credito); in questo caso si citano «indici
qualitativi e quantitativi che esprimono la capacità
strutturale, di affidabilità e reputazionale dell'impresa» e
si rinvia alle linee guida dell'Anac.
La «premialità» riferita ai «rating» ritorna,
problematicamente, quando si parla della valutazione delle
offerte: l'articolo 95, al comma 6, cita infatti il «rating
di legalità» (insieme a varie certificazioni) nell'elemento
«qualità» valutabile quando si aggiudica con il criterio
dell'offerta economicamente più vantaggiosa; al successivo
comma 13 si precisa inoltre che le stazioni appaltanti
devono indicare «i criteri premiali» da applicare alla
valutazione delle offerte «in relazione al maggiore rating
di legalità» (nessun «raccordo» quindi ma inserimento nella
fase di valutazione dell'offerta).
Tale disposizione, nonostante richiami il rispetto della
normativa del diritto della Ue, nel fatti si pone in
contrasto con una copiosa giurisprudenza della Corte di
giustizia e con le nuove direttive (in particolare con
l'articolo 67 della n. 24/2014) perché prende in
considerazione nella valutazione delle offerte un elemento
soggettivo come il rating di legalità dell'impresa, violando
il divieto di commistione fra aspetti soggettivi
(dell'offerente) da considerare in fase di ammissione alla
gara, e aspetti oggettivi da valutare nella fase di offerta
e ad essa relativi.
Da qui il rischio che la premialità in fase di valutazione
delle offerte legata al rating di legalità, possa essere
dichiarata in contrasto con il diritto e con la
giurisprudenza Ue, così come i riferimenti alle
certificazioni citate al comma 6 dell'articolo 95 dello
schema
(articolo ItaliaOggi dell'11.03.2016). |
APPALTI: Più discrezionalità alle stazioni appaltanti.
Con l'innalzamento alla soglia Ue per gli appalti senza gara.
Rischio trasparenza per i contratti sotto soglia di servizi
e forniture; facoltativo verificare i requisiti dei soggetti
non aggiudicatari.
È quanto si ricava dalle nuove norme
previste nello
schema di decreto di riordino del codice
appalti pubblici in materia di procedure di aggiudicazione
(Schema di
decreto legislativo recante disposizioni per l'attuazione
delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE
sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli
appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti
erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei
trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino
della disciplina vigente in materia di contratti pubblici
relativi a lavori, servizi e forniture -
Atto del Governo n. 283 sottoposto a parere parlamentare).
La materia è complessa e frammentata in più punti dello
schema, ma il dato di maggiore rilievo è quello di una
estrema semplificazione procedurale con conseguente
ampliamento della discrezionalità (ci si augura non
dell'arbitrio) delle stazioni appaltanti.
La norma di partenza è l'articolo 36 dedicato ai contratti
sotto-soglia che, premettendo l'utilizzabilità delle
procedure ordinarie (aperta, ristretta e negoziata con
bando), stabilisce che le stazioni appaltanti affidando
direttamente contratti sotto i 40 mila euro e i lavori in
amministrazione diretta; per lavori di importo pari o
superiore a 40 mila euro e inferiore a 150 mila euro e per
affidamenti di forniture e servizi di valore inferiore ai
209 mila, utilizzano invece la procedura negoziata «previa
consultazione, ove esistenti, di almeno tre operatori
economici».
I tre soggetti da invitare alla negoziazione dovranno essere
invitati sulla base di indagini di mercato o tramite elenchi
di operatori economici e dovrà essere rispettato il criterio
di rotazione degli inviti (ma l'Anac dettaglierà la
disciplina). Va considerato che per i servizi di ingegneria
e architettura, più di 100 articoli dopo e per la precisione
all'articolo 157, comma 2, si prevede che siano invitati,
sempre fino a 209 mila di importo (e non più da 40 mila fino
a 100 mila euro come è oggi), cinque soggetti con le stesse
modalità previste dall'articolo 36 (risulta incomprensibile
il riferimento all'art. 66, comma 6 citato).
La previsione di una procedura, che altro non è che una
procedura informale a tre inviti, coinvolgerà per quanto
riguarda il settore dei servizi, 4 miliardi in valore di
contratti (elaborando i dati della quadrimestrale Anac del
2015) per un numero di procedure che supera il 71% del
mercato complessivo dei contratti sotto soglia (la restante
parte riguarda i lavori).
Il dato risulta ancora più rilevante per i servizi di
ingegneria e architettura dove l'innalzamento da 100 mila a
209 mila della soglia oggi prevista per affidare con invito
a cinque, comprende l'89% del totale degli affidamenti di
questi servizi. Ma ci sono anche altri elementi da
considerare: in primis il fatto che l'innalzamento alla
soglia comunitaria degli affidamenti a procedura negoziata
senza bando comporterà una artificiosa suddivisione anche
degli appalti sopra la soglia Ue per evitare le gare europee
aperte; in secondo luogo il confronto a tre o a cinque
soggetti, con una concorrenza ridotta, determinerà
probabilmente un aumento dei costi.
Inoltre, va notato che in tutti questi affidamenti il nuovo
codice prescrive che «la verifica dei requisiti ai fini
della stipula del contratto avviene esclusivamente
sull'aggiudicatario», anche se «la stazione
appaltante può comunque estendere le verifiche agli altri
partecipanti». Può e non «deve», quindi il
rischio è che alla negoziazione partecipino anche soggetti
senza requisiti
(articolo ItaliaOggi dell'11.03.2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
Consumo suolo, decide il cdm.
Emendamenti alla camera. Niente dpcm.
Il potere sostitutivo di palazzo Chigi nei confronti della
Conferenza unificata per la mancata adozione delle delibere
di riduzione del consumo del suolo non scatterà
automaticamente. Prima arriverà una messa in mora con
ulteriori 15 giorni per adempiere. Decorso inutilmente tale
termine, si provvederà con deliberazione del consiglio dei
ministri. E non più con dpcm. La stessa procedura è prevista
nel caso in cui le regioni non intervengano a dettare
disposizioni per incentivare i comuni, singoli e associati,
a promuovere strategie di rigenerazione urbana. Gli
interventi di rigenerazione delle aree urbane degradate, che
saranno oggetto di una specifica delega al governo, non
riguarderanno i centri storici.
Sono alcune delle novità contenute nel pacchetto di
emendamenti che i relatori al ddl sul contenimento del
consumo del suolo (Atto
Camera n. 2039), Chiara Braga e Massimo Fiorio
hanno depositato ieri alla camera per recepire i rilievi
contenuti nei pareri delle commissioni di Montecitorio.
Il
pacchetto di modifiche non tocca però il clou dei rilievi
mossi dai comuni. A cominciare dal contestato articolo 11,
quello sulla disciplina transitoria che, fino all'adozione
dei provvedimenti volti alla riduzione del consumo del
suolo, e comunque non oltre il termine di tre anni, non
consente consumo del suolo tranne che per i lavori e le
opere inseriti negli strumenti di programmazione già
«adottati» delle amministrazioni.
La commissione cultura nel
proprio parere aveva chiesto di sostituire la parola
«adottati» con «approvati». «Una differenza sottile ma
sostanziale», osserva Claudia Mannino del M5s, «che i
relatori non hanno recepito negli emendamenti depositati».
«Moltissimi comuni», spiega Mannino, «hanno i Prg scaduti e
il nuovo Prg solo adottato. Con l'attuale formulazione
questo basterebbe per introdurre varianti di destinazione
urbanistica che sono lo strumento con cui si cementificano i
suoli agricoli». Tuttavia, la questione, (assieme agli
altri nodi ancora irrisolti) potrebbe essere affrontata
presto in aula. L'obiettivo dei relatori è di chiudere i
lavori in commissione entro la fine della prossima settimana
(articolo ItaliaOggi del 10.03.2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Nel Mud i dati dei registri di carico e scarico
rifiuti.
Nella compilazione del Mud andranno riportati i dati così
come inseriti nei registri di carico e scarico e nei
formulari di identificazione dei rifiuti trasportati. Non
dovranno essere inserite le registrazioni cronologiche di
scarico «fittizie» (previste dalla procedura Sistri)
effettuate per azzerare le quantità residue né le
corrispondenti registrazioni cronologiche di carico
effettuate per registrare le medesime quantità secondo i
nuovi criteri di classificazione. In particolare il
produttore non dovrà mai indicare nella registrazione di
scarico, se stesso quale destinatario del rifiuto.
Queste le
istruzioni aggiuntive fornite da Ispra in merito
alla presentazione entro il prossimo 30 aprile del Mud 2016.
Eventuali modifiche alle caratteristiche di pericolosità di
un rifiuto non sono rilevanti ai fini del Mud laddove non
venga modificato il codice Cer. Tutti gli impianti
autorizzati a svolgere operazioni di gestione (compresa la
messa in riserva) di rifiuti di imballaggio sono tenuti a
presentare la comunicazione imballaggi - sezione gestori
rifiuti di imballaggio.
Questo vale anche nel caso si tratti di attività di gestione
svolta su rifiuti prodotti dal dichiarante (e non ricevuti
da terzi), in questo caso quindi il produttore dovrà
indicare, nella comunicazione imballaggi, i rifiuti come
prodotti nell'unità locale. Gli impianti mobili di
smaltimento o di recupero presentano una dichiarazione unica
con riferimento a tutte le attività svolte
(articolo ItaliaOggi del 10.03.2016). |
VARI:
In arrivo nuovi contatori per l'elettricità.
Procedure di cambio fornitura e di voltura più veloci ed
efficienti, superamento del sistema delle fasce predefinite,
rendendo possibili nuove offerte con fasce orarie flessibili
definite dal venditore o con soluzioni prepagate,
disponibilità di dati dettagliati al quarto d'ora sul
proprio comportamento energetico per il risparmio e la
gestione innovativa dei consumi (energy footprint).
Sono queste alcune delle novità legate alle nuove
funzionalità definite dall'Autorità per i contatori di
seconda generazione approvate con la
delibera 08.03.2016
n. 87/2016/R/eel.
«Tra le diverse funzionalità dei nuovi
misuratori 2G», spiega l'Autorità, «viene, per esempio,
prevista la rilevazione dei dati dell'energia ogni 15 minuti
e la rilevazione continua della potenza, per avere un quadro
sempre aggiornato quotidianamente dei nostri prelievi
giornalieri e comportamenti di consumo, con dati da
visualizzare sul display o da trasferire a dispositivi
esterni.
Nella versione 2.0 dei contatori, quella di
immediata disponibilità, che già supporta tutti i benefici
definiti, vengono previste due possibili soluzioni di
connessione per la telelettura e telegestione, attraverso la
rete elettrica Plc (Power line carrier) o in radiofrequenza,
con la possibilità di lettura di tutti i registri, di
aggiornamento del funzionamento del misuratore in base agli
accordi contrattuali conclusi tra il cliente e il venditore.
Definito anche un canale di comunicazione diretto al
cliente, oltre al display a bordo contatore, per la
trasmissione dei dati ad un dispositivo «intelligente» che
può essere installato in casa. Una possibile evoluzione
futura, la versione 2.1, potrà integrare canali di
comunicazione oggi non ancora maturi per la specifica
applicazione dei misuratori 2G o non diffusi sull'intero
territorio nazionale, come quelli basati su tecnologie
wireless (nuova radiomobile dedicata) o wired (fibra
ottica)»
(articolo ItaliaOggi del 10.03.2016). |
APPALTI: Appalti, progetti senza «svolta».
I punti contestati: concorrenza ridotta, appalto integrato,
concorsi.
La riforma del Codice. Caute o critiche le reazioni dei
professionisti e delle società di ingegneria.
Cauzioni anche
per i piccoli progettisti, che rischiano di restare fuori
dal mercato. Concorrenza limitata: la soglia sotto la quale
non ci sarà una vera gara sale da 40mila fino a 209mila
euro. Poco coraggio sui concorsi di progettazione, che
restano uno strumento periferico. E regole troppo rigide
sull’appalto integrato.
Era uno dei capitoli più attesi del
codice. Ma, ascoltando imprese e professionisti, sulla
progettazione il
decreto di recepimento delle direttive
europee sui contratti pubblici, appena approdato in
Parlamento per i pareri, ha mancato il bersaglio (Schema
di decreto legislativo recante disposizioni per l'attuazione
delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE
sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli
appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti
erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei
trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino
della disciplina vigente in materia di contratti pubblici
relativi a lavori, servizi e forniture -
Atto del Governo n. 283 sottoposto a parere parlamentare).
Resta solo una nota positiva: la riforma dell’incentivo per
la progettazione interna della Pa, il cosiddetto “due per
cento”. I dipendenti delle amministrazioni riceveranno
compensi extra solo per la programmazione e il controllo
delle opere, non per la progettazione che, così, dovrebbe
uscire dalla loro orbita, aprendo il mercato. Per il resto,
le note dolenti sono parecchie.
Partiamo proprio dalla
cauzione che, per i piccoli progettisti, rappresenta un vero
incubo. L’articolo 93 del testo detta le regole sulle
garanzie per la partecipazione alle procedure di gara. E,
tra queste, include anche la cauzione pari al 2% del prezzo
indicato nel bando.
«Nel vecchio Codice i servizi di
progettazione venivano esclusi dall’obbligo di versare la
cauzione, nel nuovo questo non succede», spiega il
consigliere tesoriere del Cni, Michele Lapenna. Il carico
per i piccoli diventa quasi insostenibile: dovranno pagare
la cauzione e, in più, sottoscrivere una polizza per la
responsabilità professionale. Una situazione che fa dire al
presidente del Cni, Armando Zambrano: «Il testo tradisce lo
spirito della legge delega circa la centralità della
progettazione. Siamo di fronte ad un arretramento rispetto
alla normativa precedente».
Un secondo punto non piace alle società di ingegneria e
architettura dell’Oice: l’innalzamento da 40mila a 209mila
euro della soglia per le trattative private nei servizi, con
invito a tre soggetti, due meno di adesso. Gli operatori in
questione andranno individuati sulla base di indagini di
mercato o tramite elenchi. Traducendo queste regole in
cifre, significa che l’88,7% in numero e il 50% in valore
del mercato attuale degli affidamenti di progettazioni sarà
sottratto a una vera concorrenza.
Parla Andrea Mascolini,
direttore generale dell’Oice: «Con l’effetto incentivo che
questa misura porterà, è facile presumere che si possa
andare anche oltre: il 90% dei bandi sarà affidato senza
vere gare. E questo porterà anche un aumento dei costi di
progettazione per la pubblica amministrazione, perché con
meno partecipanti diminuirà la concorrenza».
C’è, poi, la questione dell’appalto integrato. Il problema,
per gli operatori, è che nel codice non vengono riprodotte
le previsioni della delega, che dava la possibilità di
affidare con questa formula progetti e lavori per opere ad
elevato contenuto tecnologico. Si dice, invece, che tutto
andrà affidato sulla base di un esecutivo, salvo eccezioni.
Un assetto troppo rigido che in futuro potrebbe essere
aggirato: sarebbe stato meglio regolare a monte alcuni casi
di appalto integrato. Infine, c’è il tema dei concorsi, uno
dei punti più cari negli ultimi anni al Consiglio nazionale
degli architetti del presidente Leopoldo Freyrie.
Ne parla
il vicepresidente del Cna, Rino La Mendola: «Non c’è nulla
di nuovo sul concorso, anzi abbiamo fatto qualche passo
indietro. Anche per le opere di particolare interesse
architettonico viene previsto che prima si verifichi la
possibilità di usare progettisti interni, ipotesi che oggi
non esiste. Sui concorsi si continua a fare solo
propaganda» (articolo Il Sole 24 Ore del
09.03.2016). |
ENTI LOCALI - VARI:
Pin unico per accedere alla p.a.. Dal 15 marzo le
identità digitali per entrare in Spid.
Le rilasceranno InfoCert, Poste e Tim. Samaritani (Agid):
6 milioni di profili entro il 2016.
Dal 15 marzo un Pin unico per accedere ai servizi della p.a.
Dalla prossima settimana infatti InfoCert, Poste Italiane e
Tim renderanno disponibili le prime identità digitali
nell'ambito del nuovo Sistema pubblico per l'identità
digitale (Spid).
Le aziende sono i primi tre soggetti accreditati da Agid,
l'Agenzia per l'Italia digitale, per essere «Identity trust
provider», in grado di rilasciare ai cittadini e alle
imprese le identità digitali, gestendo in totale sicurezza
l'autenticazione degli utenti.
Il progetto è stato presentato dal ministro per la
semplificazione e la pubblica amministrazione, Marianna
Madia, e dagli amministratori delegati di Poste Italiane,
Francesco Caio, di Tim, Marco Patuano, e di Infocert, Danilo
Cattaneo, assieme al numero uno dell'Agenzia per l'Italia
digitale, Antonio Samaritani.
Spid permetterà di accedere con credenziali uniche ai
servizi online delle pubbliche amministrazioni aderenti.
Si partirà con gli enti che hanno partecipato alla
sperimentazione, durata 18 mesi. E cioè Inps, Inail, Agenzia
delle entrate, i comuni di Firenze, Venezia e Lecce e le
regioni Toscana, Friuli Venezia Giulia, Emilia-Romagna,
Piemonte, Liguria e Marche. Ma l'auspicio dell'Agid e del
governo è che Spid possa presto attrarre anche i soggetti
privati interessati a consentire alla propria clientela un
accesso veloce e soprattutto sicuro ai propri servizi
online. Entro giugno dovrebbero essere oltre 600 i servizi a
cui si potrà accedere tramite Spid.
«Oggi parte una nuova grande infrastruttura immateriale
dell'Italia, un percorso che implica grandi cambiamenti
perché ogni cittadino potrà richiedere un'identità digitale
con oltre 300 servizi online delle pubbliche
amministrazioni. Il nostro obiettivo è Italia login: un pin
unico che dovrà diventare per tutti quello che è adesso il
codice fiscale e che consentirà di lasciarci alle spalle la
doppia F, ovvero file e faldoni», ha commentato il ministro
Madia nel corso della presentazione a palazzo Vidoni.
«Al
cittadino ciò che interessa è la semplicità delle risposte»,
ha proseguito Madia. «In questi anni amministrazioni
centrali, regioni ed enti locali si sono comportati come
isole e non come parti di un solo corpo. In realtà a un
cittadino non importa molto se una risposta non arriva per
colpa del comune, della regione o dello stato. Il fatto che
siamo qui tutti insieme a presentare Spid dimostra che siamo
tutti parte di un'unica amministrazione della Repubblica».
Senza dimenticare, come detto, l'appeal che Spid potrà avere
nei confronti dei soggetti privati intenzionati ad entrare
nel Sistema. «Quello che parte oggi», ha ribadito il
ministro, «è un percorso che richiederà aggiustamenti e
miglioramenti per far crescere la domanda di digitale tra
gli italiani e per aumentare l'offerta di servizi,
agganciando anche i servizi non solo della pubblica
amministrazione ma anche del settore privato».
Secondo una stima fatta da Antonio Samaritani di Agid
potrebbero essere già 6 milioni gli italiani che nel 2016 si
doteranno di un'identità unica digitale, divisi in 3 milioni
di nuovi accessi e 3 milioni di trasformazioni di vecchi Pin
già in uso presso altre amministrazioni come ad esempio Inps
o Agenzia delle entrate.
Come funziona Spid. Nato da un'idea dell'a.d. di Poste,
Francesco Caio, quando ricopriva il ruolo di «Mister agenda
digitale», Spid è una piattaforma alla quale si accede con
una coppia di credenziali che costituiranno la password
unica per accedere a tutti gli sportelli online.
Spid, è bene chiarirlo, non sostituisce i documenti di
identità rilasciati dallo Stato, che restano indispensabili
per avere un'identità digitale. Spid, invece, semplifica le
modalità con cui questa identità potrà essere riconosciuta
in rete. Rappresenta, al pari della tessera sanitaria, della
ricetta elettronica, della fatturazione elettronica e della
dichiarazione dei redditi precompilata, un classico
«servizio-killer» destinato cioè a modificare l'offerta on
line restituendo al titolare la possibilità di autorizzare
il trasferimento automatico delle sue informazioni senza
doverle continuamente digitare.
Ogni volta che vedremo comparire su un sito o accanto a un
servizio il pulsante «Accedi con Spid» si potrà effettuare
il login attraverso il Pin unico. «Si tratta di un progetto
importante per il Paese perché adottiamo standard europei e
diventiamo i primi», ha osservato l'ad di Poste Italiane,
prima azienda ad entrare nel progetto.
«Dal punto di vista
di Poste pensiamo ci sia una base di 4 milioni di clienti
che hanno tutte le caratteristiche per potersi dotare di
un'identità online. Siamo all'inizio di un percorso di
semplificazione in cui lo stato da fardello per i cittadini
può diventare veicolo per i servizi competitivi», ha
concluso Caio. Anche per l'a.d. di Telecom, Marco Patuano,
«si tratta di un calcio di inizio. Di solito si pensa sempre
solo alle infrastrutture fisiche ma con le sole
infrastrutture fisiche si fa molto meno di quanto si
potrebbe».
Tim Id e Poste Id. I clienti di Poste Italiane che hanno già
attivato un'identità digitale, attraverso l'app Poste Id
potranno trasformarla in Spid in pochi semplici passi.
Potranno infatti passare a Spid senza recarsi in ufficio
postale perché già in possesso dei prerequisiti necessari (i
clienti sono stati già identificati in un ufficio postale;
sono registrati sul sito www.poste.it e hanno già registrato
un numero di telefono certificato).
L'identità digitale di Tim (Tim Id) potrà essere richiesta
gratuitamente da tutti i cittadini effettuando la
registrazione sul portale www.nuvolastore.it e seguendo la
procedura di attivazione indicata. L'utente riceverà le
credenziali Tim Id via email e sms
(articolo ItaliaOggi del 09.03.2016). |
APPALTI:
Codice appalti. Entro il 6/4 il parere delle
camere.
È corsa contro il tempo per il nuovo codice appalti: il
parlamento dovrà esprimersi entro il 6 aprile ma il rischio
di superare il termine del 18 aprile imposto dall'Ue è alto.
È stato infatti trasmesso alle commissioni parlamentari il
testo «bollinato» dello schema di decreto legislativo che
attua le direttive europee 2014 n. 23, 24 e 25 e che riforma
l'attuale codice dei contratti pubblici (dlgs 163/2006)
(Schema
di decreto legislativo recante disposizioni per l'attuazione
delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE
sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli
appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti
erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei
trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino
della disciplina vigente in materia di contratti pubblici
relativi a lavori, servizi e forniture -
Atto del Governo n. 283 sottoposto a parere parlamentare).
Le
competenti commissioni parlamentari (la commissione lavori
pubblici e trasporti del Senato e la commissione ambiente,
territorio e avori pubblici della Camera) dovranno
esprimersi con un parere entro il 6 aprile.
Si tratterà di
una corsa contro il tempo dal momento che, ad esempio alla
camera, il presidente della commissione Ermete Realacci ha
già annunciato che verrà svolto un rapido ciclo di audizioni
con i rappresentati degli operatori pubblici e privati del
settore. Sullo schema approvato giovedì 3 marzo dal
consiglio dei ministri occorrerà anche acquisire il parere
del Consiglio di stato e della Conferenza unificata che si
pronunceranno entro venti giorni dalla trasmissione. Il
termine assegnato dalla legge alle commissioni parlamentari
competenti per materia e per i profili finanziari, è invece
di trenta giorni dalla trasmissione.
La rilevanza dei pareri parlamentari non è da poco dal
momento che «ove il parere delle Commissioni parlamentari
indichi specificamente talune disposizioni come non conformi
ai principi e criteri direttivi di cui alla presente legge,
il governo, con le proprie osservazioni e con eventuali
modificazioni, ritrasmette il testo alle camere per il
parere definitivo delle commissioni parlamentari competenti,
da esprimere entro 15 giorni dall'assegnazione; decorso
inutilmente tale termine il decreto legislativo può essere
comunque emanato».
In altre parole, se il parere arrivasse con osservazioni
pesanti e si dovesse procedere ad un secondo «giro»
parlamentare, il termine del 18 aprile per recepire le tre
direttive europee verrebbe ampiamente superato. Poca cosa
visto che prima di arrivare alle sanzioni passerebbero mesi
(articolo ItaliaOggi del 09.03.2016). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI:
Le istruzioni del fisco ampliano l’accesso al bonus sugli
arredi.
Ma l’agevolazione resta circoscritta ai casi di manutenzione
straordinaria.
A quali lavori
edilizi si può abbinare il bonus arredi? La domanda non è
nuova, ma di sicuro resta attuale anche al quarto anno di
applicazione della detrazione sull’acquisto di mobili ed
elettrodomestici.
Lo dimostra –tra l’altro– l’ultimo
chiarimento dettato dalle Entrate con la
circolare 02.03.2016 n. 3/E.
Senza dubbio l’incentivo piace alle famiglie e ha
contribuito a riportare in positivo nel 2015 il mercato
italiano dell’arredo, dopo il -45,5% registrato tra il 2007
e il 2014. Ma bisogna fare attenzione ai casi di lavori
edilizi “leggeri”.
Il cambio della caldaia
L’ultimo chiarimento riguarda la possibilità di “agganciare”
la detrazione sui mobili alla sostituzione della caldaia.
L’Agenzia spiega che il cambio della caldaia consente
l’accesso al bonus «in quanto intervento diretto a
sostituire una componente essenziale dell’impianto di
riscaldamento e come tale qualificabile intervento di
manutenzione straordinaria». E aggiunge: «Non rileva il
fatto che tale intervento sia riconducibile anche
nell’ambito della lettera h) dell’articolo 16-bis».
È una precisazione con una portata più ampia di quella che
appare a prima vista. Vediamo perché. L’articolo 16-bis del
Tuir è quello che detta la disciplina generale della
detrazione del 36% (ora maggiorata al 50%), mentre la
lettera h) è quella che agevola l’esecuzione di opere
finalizzate al risparmio energetico «anche in assenza di
opere edilizie propriamente dette». In pratica, questi
lavori sono agevolati con il 36-50% a prescindere
dall’inquadramento edilizio.
Ora le Entrate confermano che, per avere la detrazione sui
mobili, i lavori finalizzati al risparmio energetico devono
essere almeno “straordinari”. Dopodiché, ricordano che in
base al Testo unico dell’edilizia (articolo 123, comma 1)
gli interventi di utilizzo di fonti rinnovabili negli
edifici di per sé sono già «assimilati a tutti gli effetti
alla manutenzione straordinaria».
Ma questo corollario, pur
importante, non cambia la regola generale: dove l’articolo
16-bis premia certi lavori senza considerare la loro
qualificazione edilizia, per potervi abbinare il bonus
mobili occorre che i lavori siano inquadrabili nella
manutenzione straordinaria (o nelle più pesanti categorie
edilizie del restauro e risanamento conservativo e della
ristrutturazione edilizia). Oltre che per l’efficienza, il
principio vale per le altre casistiche dell’articolo 16-bis:
-
lavori finalizzati all’eliminazione delle barriere
architettoniche (lettera e);
-
misure per prevenire furti e altri illeciti (f);
-
cablatura degli edifici e il contenimento dell’inquinamento
acustico (g);
-
misure antisismiche (i);
-
bonifica dell’amianto e le opere anti-infortuni domestici
(l).
Quasi sempre questi lavori saranno di manutenzione
straordinaria, ma ci potrebbero essere casi in cui ricadono
in quella ordinaria. Si pensi al cambio di una serratura
nella porta blindata, all’installazione di impianto di
allarme senza lavori edilizi o elettrici, alla posa di un
pannello fonoassorbente o alla rimozione di amianto in
polvere da un sottotetto senza interventi murari. Tutte
spese che non danno diritto al bonus mobili.
Il «timing» dei lavori
Oltre ad aver eseguito un intervento “straordinario”,
bisogna anche beneficiare della detrazione del 50% sul
recupero edilizio. In questo senso un’apertura è arrivata a Telefisco 2016, in cui le Entrate hanno affermato che si
possono agevolare gli acquisti di arredi pagati entro la
fine del 2016 abbinandoli a spese per il recupero edilizio
sostenute dal 26.06.2012 (data in cui il 36% è stato
maggiorato al 50%) al prossimo 31 dicembre.
Le spese per gli arredi possono essere pagate prima di
quelle per la ristrutturazione, a patto che i lavori
comincino prima dell’acquisto dei mobili (circolare
29/E/2013). Farà fede la data della Scia, della
comunicazione di inizio lavori o dell’invio alla Asl. Per
l’attività libera basta una semplice autodichiarazione che
certifichi la non necessità, in base al regolamento edilizio
comunale, di provvedimento urbanistico.
Villette e condomìni
Fin qui si è parlato dei lavori all’interno delle singole
unità abitative, cioè in case monofamiliari o nei singoli
appartamenti dei condomìni. In realtà, anche gli interventi
su parti comuni permettono di avere il bonus mobili –e c’è
il vantaggio che in questo caso il 36-50% agevola anche la
manutenzione ordinaria, come la tinteggiatura– ma c’è una
limitazione: i mobili devono arredare parti comuni (ad
esempio, l’alloggio del portiere).
Questo vale anche per i “condomìni minimi”. Così, se in una
villetta bifamiliare viene rifatto il tetto, i proprietari
dei due alloggi non avranno il bonus mobili per arredare i
singoli alloggi.
Al contrario, se viene rifatto il tetto di
un’abitazione monofamiliare, il proprietario ne potrà
beneficiare. In tal caso, infatti, non esistono interventi
su parti comuni differenti rispetto a quelli interni
all’abitazione, e quindi è sufficiente che i lavori siano
inquadrabili come manutenzione straordinaria (a prescindere
dal fatto che siano eseguiti sulla parte esterna o interna
del fabbricato).
Gli altri interventi
Oltre al recupero edilizio, ci sono altri due tipi di lavori
che consentono di utilizzare il bonus mobili:
i lavori di ripristino di un immobile danneggiato da
calamità;
i lavori di restauro e risanamento conservativo, o di
ristrutturazione edilizia, su interi fabbricati, eseguiti da
imprese o cooperative edilizie che entro sei mesi dalla fine
dei lavori vendono o assegnano l’immobile.
L’Agenzia ha chiarito che il bonus mobili non spetta in caso
di realizzazione o acquisto box auto pertinenziali
(circolare 11/E/2014) (articolo Il Sole 24 Ore del
07.03.2016). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Incarichi Pa al test dei contratti.
Per la validità serve la forma scritta - Le insidie della
procura generale e delle delibere preliminari.
Negozi giuridici. La giurisprudenza ribadisce la necessità
della stesura formale sia per gli accordi di natura
pubblicistica che per quelli privati.
I contratti in cui è parte la pubblica amministrazione
richiedono sempre, per la loro validità, la forma scritta. È
un principio affermato dalla giurisprudenza di legittimità e
da quella di merito sia per gli accordi di natura
pubblicistica sia per i contratti in cui l’ente agisce
secondo il diritto privato.
I principi costituzionali
Un principio -quello della forma scritta ad substantiam-
che permette di individuare con precisione l’obbligazione
assunta e il contenuto negoziale dell’atto. Il requisito
della forma scritta, la cui mancanza determina la nullità
del contratto nei rapporti con la Pa, si può dunque
considerare -come affermato dalla Corte suprema-
espressione di due princìpi della Costituzione: quello
sancito nell’articolo 97, per il quale i pubblici uffici
sono organizzati secondo regole di buon andamento e
imparzialità dell’amministrazione; e quello contenuto
nell’articolo 81, da cui si desume l’esigenza di tutela
delle risorse e del patrimonio degli enti pubblici contro il
pericolo di impegni finanziari privi di adeguata copertura e
assunti senza consapevolezza dell’entità delle obbligazioni
da adempiere.
L’incarico all’avvocato
Anche recentemente il giudice di legittimità è tornato sulla
questione. Con l’ordinanza n. 2016 dello scorso 2 febbraio
ha esaminato la vicenda di un legale che chiedeva il
pagamento dei compensi per l’attività professionale prestata
per una Camera di commercio. Il giudice di merito aveva
respinto la domanda, ritenendo che fosse nullo il contratto
di patrocinio; ciò perché l’attività professionale era stata
svolta in base a una procura generale che, secondo il
Tribunale, non individuava con esattezza l’oggetto del
contratto, in quanto riferita a tutte le causa di recupero
di crediti.
La Cassazione ha annullato la sentenza,
ribadendo il principio secondo cui il requisito della forma
scritta è soddisfatto, nel contratto di patrocinio legale,
con il rilascio al difensore di una procura generale alle
liti, purché sia puntualmente fissato l’ambito delle
controversie. Sul punto, nell’ordinanza 2266/2012 la stessa
Corte aveva chiarito che l’esercizio della rappresentanza
giudiziale (attraverso la redazione e la sottoscrizione
dell’atto difensivo) perfeziona, «con l’incontro di volontà
fra le parti», l’accordo contrattuale in forma scritta.
La delibera preliminare
Il provvedimento con cui l’ente pubblico delibera di
stipulare un contratto è atto meramente preparatorio del
futuro negozio giuridico, e dunque non può spiegare effetti
nei riguardi dei terzi, essendo «inidoneo, di per sé solo, a
dar luogo alla conclusione di un contratto» (Cassazione,
sentenza 6443/2003). Le reciproche obbligazioni sorgeranno,
quindi, solo quando la volontà dell’ente sarà «estrinsecata
nei confronti dell’altra parte attraverso l’organo al quale
è attribuita la legale rappresentanza dell’ente stesso».
In ogni caso, una delibera della giunta municipale e la
successiva convenzione con il Comune, assunte nell’ambito
della procedura di riconoscimento di debiti fuori bilancio,
non possono sanare la nullità del rapporto fondamentale che
deriva dalla mancanza dell’attribuzione dell’incarico in
forma scritta (Cassazione, sentenza 27406/2008).
Lotti e partecipazioni
La regola della necessaria forma scritta è stata ribadita
anche dai giudici di merito. Il Tribunale di Roma, con la
sentenza del 31.07.2015, l’ha ritenuta applicabile anche
all’assunzione, da parte di enti pubblici, di partecipazioni
in società di capitali, in quanto tali partecipazioni
costituiscono negozi giuridici e determinano il sorgere di
obblighi verso la società.
Il tribunale di Oristano (sentenza del 16.10.2006) ha
inoltre stabilito che, nel caso di assegnazione di lotti ai
privati, la presentazione della domanda di assegnazione e il
versamento del prezzo non determinano il perfezionamento del
contratto di compravendita, che scatta solo con la
sottoscrizione dell’atto da parte del privato e del sindaco,
previa autorizzazione dell’organo competente.
Niente «fatti concludenti»
Nei contratti in cui è parte una Pa non è consentita la
conclusione a distanza; con la deroga prevista dall’articolo
17 del Rd 2440/1923, che consente la stipula del contratto
«per mezzo di corrispondenza, secondo l’uso del commercio»,
quando l’accordo intercorre con ditte commerciali.
Solo l’atto formale è, quindi, alla base dell’accordo valido
ed efficace. Di conseguenza, quando la Pa è parte del
contratto, non si può ipotizzare la costituzione di un
vincolo giuridico attraverso fatti concludenti. Anche su
questo principio la Cassazione non ammette deroghe.
Come
nella sentenza 1970/2002, in cui ha negato che si fosse
rinnovato tacitamente, per difetto di tempestiva disdetta,
un contratto di affitto agrario di un fondo di proprietà
comunale; e ciò sebbene l’articolo 4 della legge 203/1982
preveda (evidentemente solo per i rapporti tra privati) la
regola esattamente contraria.
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Iter violato, rispondono i funzionari.
Negli enti. Le responsabilità.
Se l’ente
locale acquisisce beni o servizi in assenza dell’impegno
contabile o dell’attestazione di copertura finanziaria e
senza aver prima stipulato un contratto scritto, chi deve
pagare?
Per casi come il conferimento di incarichi per
progettazioni, direzioni dei lavori di opere pubbliche,
richiesta di forniture, è prevista dagli anni 80 (oggi
articolo 191 del Dlgs 267/2000) una regola categorica: se
sono acquisiti beni e servizi senza il rispetto dell’iter
previsto per la legittimità della spesa, il rapporto
obbligatorio intercorre tra il privato fornitore e
l’amministratore, il funzionario o il dipendente che ha
consentito la fornitura.
Infatti, in questi casi -Corte di Cassazione, sentenza 14.11.2003 n.
17257- si ha una frattura nel rapporto organico tra
l’amministratore e l’ente. La ratio è impedire il formarsi
del disavanzo, disponendo che a ogni obbligazione faccia
«riscontro l’impegno contabile registrato sul competente
capitolo di bilancio».
L’obbligazione sorge direttamente a carico
dell’amministratore anche se l’ente, nell’affidare
l’incarico, subordina il pagamento alla concessione di un
finanziamento. Ciò perché -Sezioni unite, sentenza
26657/2014- dal contratto sorge comunque un’obbligazione di
pagamento, ancorché condizionata.
Il contratto, dunque, non produce effetti nei confronti
dell’ente ma conserva validità tra i soggetti (privato e
amministratore) che l’hanno stipulato. E il fornitore,
potendo chiedere il pagamento direttamente
all’amministratore, non può agire nei confronti dell’ente
con l’azione di indebito arricchimento (articolo 2041 Codice
civile): tale azione non è proponibile se il danneggiato può
esercitare un’altra azione per farsi indennizzare (articolo
2042) (articolo Il Sole 24 Ore del
07.03.2016). |
INCENTIVI PROGETTAZIONE: Addio incentivi per i progettisti.
I premi si spostano su programmazione, gare ed esecuzione.
Codice appalti. Le novità per i dipendenti pubblici dal
decreto attuativo approvato dal consiglio dei ministri.
Stop agli
incentivi per i progettisti. Con il
nuovo Codice degli
appalti è finita la corsa agli incarichi di progettazione da
parte dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni (Schema
di decreto legislativo recante disposizioni per l'attuazione
delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE
sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli
appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti
erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei
trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino
della disciplina vigente in materia di contratti pubblici
relativi a lavori, servizi e forniture -
Atto del Governo n. 283 sottoposto a parere parlamentare). Al
contrario, i premi vengono indirizzati alle attività
tecnico-burocratiche un tempo non contemplate
(programmazione, procedure di gara, esecuzione dei contratti
pubblici, verifica della conformità eccetera).
Non è certo
un caso che gli storici incentivi alla progettazione si
trasformino in premi per funzioni tecniche; è una spinta per
la pubblica amministrazione sui suoi compiti di
realizzazione delle opere, lasciandole però progettare
all’esterno.
L’impianto complessivo ripercorre le disposizioni vigenti:
gli incentivi vanno finanziati all’interno degli oneri messi
a disposizione per la realizzazione dell’opera nel limite
massimo del 2% dell’importo a base di gara, limite rimesso
alla discrezionalità dell’ente che può anche azzerare
l’incentivo. Non è più previsto che in sede di definizione
della percentuale effettiva si debba tenere conto della
complessità dell’opera.
L’80% è destinato al responsabile unico del procedimento,
agli incaricati di funzioni tecniche e ai collaboratori. Le
modalità e i criteri di ripartizione dei premi sono oggetto
di contrattazione decentrata e vanno recepiti in un
regolamento ad hoc. Anche in questo caso è stato espunto
dalla norma l’obbligo di prevedere la distribuzione dei
premi in funzione delle responsabilità non connesse al
profilo professionale e della complessità dell’opera. Non
sono più espressamente citate le attività manutentive. Al
contrario sono confermate le penalizzazioni collegate al
mancato rispetto dei tempi e dei costi dell’opera; non
costituiscono più espliciti esimenti le cause di forza
maggiore.
Tornano in gioco anche i dirigenti, ma limitatamente alle
attività di collaudo e di verifica di conformità, in passato
completamente esclusi da qualsiasi premio. Sia per i
dipendenti sia per i dirigenti il fondo deve finanziare
anche gli oneri previdenziali e assistenziali a carico
dell’ente; ancora una volta si perde l’occasione per
chiarire il tema dell’Irap, lasciando aperta la strada del
contenzioso.
Il rimanente 20% viene destinato, come in passato,
all’acquisto di beni e tecnologie per gli uffici tecnici,
con particolare riferimento alle attività di controllo volte
al miglioramento della capacità di spesa. A questo si
aggiunge una nuova modalità di utilizzo che prevede
l’attivazione di tirocini formativi e di dottorati di
ricerca nel settore dei contratti pubblici. Le risorse
collegate all’attività svolta da soggetti esterni, un tempo
economia di bilancio, si sommeranno al 20% destinato al
miglioramento della strumentazione tecnica.
A circa due anni dall’ultima modifica delle norme in materia
di compensi Merloni, si ripropone un nuovo punto zero che
imporrà la riscrittura del relativo contratto decentrato
oltre all’approvazione del conseguente regolamento. Il
paradosso consiste nel fatto che molti enti, ad oggi, non
hanno ancora recepito dal modifica normativa del 2014: è da
ricordare che senza l’approvazione di questi adempimenti è
preclusa la corresponsione degli incentivi.
Che cosa succederà da ora in avanti? Fino all’entrata in
vigore del nuovo Codice degli appalti si applica, per chi
l’ha adottato, il regolamento vigente. Dopo si dovrebbero
bloccare ancora tutti gli incentivi, fino all’adozione dei
regolamenti, sperando che successive modiche non facciano
ripartire da capo il processo.
In tutta questa confusione sarà necessario definire
puntualmente la norma e il regolamento da applicare ratione
temporis in sede di liquidazione dei compensi.
L’orientamento costante della Corte dei conti ritiene che i
compensi vadano erogati con riferimento alle disposizioni
vigenti nel momento in cui l’attività premiata è
effettivamente resa (articolo Il Sole 24 Ore del
07.03.2016). |
APPALTI: Commissari a sorteggio dagli elenchi Anac.
La valutazione delle offerte. Nuove regole per evitare i
conflitti d’interesse: i componenti non possono svolgere
altri incarichi relativi al contratto.
I componenti
della commissione giudicatrice dovranno essere scelti tra
gli esperti inclusi in un elenco tenuto dall’Anac, ma per le
gare sottosoglia e per le procedure telematiche potranno
essere individuati tra i dipendenti della stazione
appaltante.
Il
nuovo Codice degli appalti
(Schema
di decreto legislativo recante disposizioni per l'attuazione
delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE
sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli
appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti
erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei
trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino
della disciplina vigente in materia di contratti pubblici
relativi a lavori, servizi e forniture -
Atto del Governo n. 283 sottoposto a parere parlamentare)
ridisegna nell’articolo 77
dello schema approvato dal Consiglio dei ministri le
modalità composizione dei collegi costituiti per la
valutazione delle offerte nelle gare con il metodo
dell’offerta economicamente più vantaggiosa, definendo un
sistema differenziato in relazione al valore e alla
complessità delle procedure. Il numero dei commissari deve
essere sempre dispari, con un massimo di cinque soggetti.
La stazione appaltante deve individuare i componenti e
nominarli (dopo la scadenza del termine di presentazione
delle offerte) mediante sorteggio pubblico da una lista di
candidati in numero almeno doppio a quello dei membri da
nominare, richiedendo questa lista all’Anac, che la elabora
e la comunica entro cinque giorni all’amministrazione
richiedente.
Il presidente della commissione è individuato dalla stazione
appaltante tra gli esperti sorteggiati: sia per lui sia per
gli altri componenti vale l’incompatibilità funzionale, in
quanto non possono aver svolto né possono essere destinati a
svolgere alcun altro incarico in relazione all’appalto; sono
poi prefigurati obblighi di astensione in caso di conflitto
di interessi (da dichiarare al momento dell’accettazione
della nomina).
La novità ha anche un’importante conseguenza operativa: le
stazioni appaltanti dovranno formalizzare gli incarichi agli
esperti, con relativi impegni di spesa, dovendo pertanto
prevedere le risorse nel quadro economico dell’appalto,
facendo riferimento al compenso massimo che verrà stabilito
con decreto ministeriale. Lo stesso decreto definirà la
quota che i commissari dovranno pagare per l’iscrizione
all’albo, fatta eccezione per i dipendenti pubblici che
potranno essere iscritti gratuitamente. Se però sono scelti
per gare della propria stazione appaltante, non riceveranno
alcun compenso.
Per le procedure di affidamento di importo inferiore alla
soglia comunitaria oppure per quelle di non particolare
complessità (individuate dalla stessa norma come le
procedure svolte attraverso piattaforme telematiche di
negoziazione) la stazione appaltante può nominare come
componenti propri dipendenti.
La definizione e la gestione dell’albo saranno definite
dall’Anac con proprie determinazioni: potranno iscriversi
soggetti interessati in possesso di requisiti di
compatibilità e moralità, oltre che di comprovata esperienza
e professionalità nel settore per cui si propongono.
Fino alla definizione dell’albo e alla sua effettiva
attivazione, le stazioni appaltanti potranno continuare a
nominare i componenti delle commissioni giudicatrici,
dovendo in ogni caso rispettare regole di trasparenza e di
competenza da definire preventivamente.
L’importanza di nominare nei collegi soggetti con elevata
professionalità viene evidenziata anche dal rafforzamento
qualitativo delle competenze della commissione, che può
anche giudicare inammissibile un’offerta quando ritenga che
sussistano gli estremi per la segnalazione alla Procura
della Repubblica in relazione a fenomeni di corruzione o
collusivi (articolo Il Sole 24 Ore del
07.03.2016). |
APPALTI:
Appalti, concorsi d'obbligo per opere di impatto
artistico. Lo schema di decreto delegato che riforma il
codice. Addio al progetto preliminare.
Concorsi di progettazione e di idee obbligatori per opere di
rilevante impatto storico- artistico, ambientale e
tecnologico; divieto di affidamento degli incarichi al
prezzo più basso; progetto preliminare sostituito dal
progetto di fattibilità che dovrà contenere le indagini e i
rilievi; premialità ai progettisti che usano la modellazione
elettronica (Bim, Building information modelling).
Sono alcune delle novità per i progettisti previste nello
schema di decreto delegato, che contiene il
nuovo codice degli appalti pubblici
(Schema
di decreto legislativo recante disposizioni per l'attuazione
delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE
sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli
appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti
erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei
trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino
della disciplina vigente in materia di contratti pubblici
relativi a lavori, servizi e forniture -
Atto del Governo n. 283 sottoposto a parere parlamentare).
Le nuove disposizioni, che devono
attuare il principio della centralità del progetto e
favorire la qualità della progettazione, prevedono il
superamento dello studio di fattibilità e del progetto
preliminare, sostituiti dal solo progetto di fattibilità,
tecnica ed economica.
In realtà, nella sostanza, quello che
si chiama progetto di fattibilità ricalca molto da vicino i
contenuti previsti per l'attuale progetto preliminare. Andrà
però valutato con attenzione l'impatto derivante dalla
soppressione dello studio di fattibilità che oggi
costituisce lo strumento per procedere alla programmazione
dei lavori e all'avvio delle procedure da realizzare con la
finanza di progetto, anche attraverso il cosiddetto
«promotore».
Nello schema si riproduce la norma attuale che
indica quale debba essere la finalità della progettazione:
deve in particolare assicurare il soddisfacimento dei
fabbisogni della collettività, la qualità architettonica e
tecnico-funzionale dell'opera, un limitato consumo del
suolo, il rispetto dei vincoli idrogeologici sismici e
forestali e l'efficientamento energetico.
Il progetto di
fattibilità dovrà essere redatto dopo lo svolgimento di
indagini geologiche e geognostiche e di verifiche preventive
dell'assetto archeologico, fermo restando che tra più
soluzioni possibili il progetto di fattibilità tecnica ed
economica deve individuare quella che presenta il miglior
rapporto tra costi e benefici per la collettività. Un punto
importante per tutti i progettisti e per le imprese di
costruzioni è l'introduzione di strumenti di modellazione
elettronica al fine di promuovere la qualità della
progettazione.
Diversamente dalle precedenti versioni dello
schema, che prevedevano un obbligo entro sei mesi di ricorso
a strumenti quali il Bim, nel testo entrato in Consiglio dei
ministri si prevede, più correttamente, una graduale
transizione verso questa metodologia progettuale, favorita
attraverso la possibilità di premiare, ai fini della loro
qualificazione da parte dell'Anac, le stazioni appaltanti
che la utilizzeranno. Ferma restando la possibilità di
eliminare un livello progettuale da parte del responsabile
del procedimento, lo schema, coerentemente a quanto
stabilisce la legge delega, prevede che di regola sia posto
a base di gara di un appalto di lavori il progetto
esecutivo, salvo nei casi in cui dispone diversamente lo
stesso decreto (per esempio nel caso del contraente
generale).
Lo schema prevede, ancora, che il responsabile
del procedimento stabilisca criteri, contenuti e momenti di
verifica tecnica dei vari livelli di progettazione;
disciplina inoltre le modalità di accesso per l'espletamento
delle indagini e delle ricerche necessarie all'attività di
progettazione. Si prevede inoltre che le progettazioni di
livello definitivo ed esecutivo siano, preferibilmente,
svolte dal medesimo soggetto, onde garantire omogeneità e
coerenza al processo.
Non è escluso che si possa affidare
anche ad altro progettista un livello, ma occorre motivare
le ragioni di affidamento disgiunto; il nuovo progettista
dovrà poi accettare l'attività progettuale svolta in
precedenza. In caso di affidamento esterno della
progettazione, che ricomprenda, come di norma, entrambi i
livelli di progettazione, l'avvio del progetto esecutivo
resta sospensivamente condizionato alla determinazione delle
stazioni appaltanti sulla progettazione definitiva.
Sono
confermate le disposizioni attuali in materia di soggetti
affidatari degli incarichi (professionisti, studi, società
di ingegneria e di professionisti, raggruppamenti e consorzi
stabili), ma cambia sensibilmente il regime degli
affidamenti. Altra novità è che i concorsi diventano
obbligatori in caso di opere di particolare rilevanza
storico-artistica, urbanistica, ambientale e tecnologica,
quando non sia la p.a. a progettare.
Per tutte le altre
opere da progettare si potrà procedere con affidamenti di
servizi di ingegneria e architettura che andranno
rigorosamente affidate con il criterio dell'offerta
economicamente più vantaggiosa e mai al massimo ribasso.
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Commissari di gara scelti a sorte.
Commissari di gara scelti a sorteggio da un elenco tenuto
dall'Anac per garantire trasparenza e qualità delle scelte
effettuate in sede di aggiudicazione; criteri di
indipendenza e professionalità per gli aspiranti commissari
di gara; all'Autorità forti poteri di regolazione.
È in
particolare sulle commissioni di aggiudicazione delle gare
che si giocherà la riuscita della riforma del nuovo codice
appalti, visto che anche le inchieste su Expo e sulle grandi
opere hanno confermato che proprio la permeabilità alle
«intrusioni» politiche nella fase di valutazione delle
offerte, hanno rappresentato una delle maggiori criticità
degli ultimi mesi. Viene quindi modificata radicalmente la
disciplina attuale per garantire la massima imparzialità e
indipendenza di giudizio.
In particolare, si prevede che la
commissione sia composta da esperti nello specifico settore
cui afferisce l'oggetto del contratto. La commissione sarà
costituta da un numero dispari di commissari, non superiore
a cinque, e potrà lavorare a distanza con procedure
telematiche che salvaguardino la riservatezza delle
comunicazioni. I commissari sono scelti fra gli esperti
iscritti all'Albo istituito presso l'Anac e sono individuati
dalle stazioni appaltanti mediante pubblico sorteggio da una
lista di candidati costituita da un numero di nominativi
almeno doppio rispetto a quello dei componenti da nominare.
La lista è comunicata dall'Anac alla stazione appaltante, di
norma entro 5 giorni dalla richiesta. Si prevede che la
stazione appaltante possa, in caso di affidamento di
contratti di importo inferiore alle soglie di rilevanza
comunitaria o per quelli che non presentano particolare
complessità, nominare componenti interni alla stazione
appaltante.
Al riguardo, si specifica cosa si intenda per
procedure di non particolare complessità. Si precisa che i
commissari non devono aver svolto né possano svolgere
alcun'altra funzione o incarico tecnico o amministrativo
relativamente al contratto del cui affidamento si tratta. Si
prevede, inoltre, che coloro che, nel biennio antecedente
all'indizione della procedura di aggiudicazione, hanno
ricoperto cariche di pubblico amministratore, non possono
essere nominati commissari giudicatori relativamente ai
contratti affidati dalle amministrazioni presso le quali
hanno esercitato le proprie funzioni d'istituto. La nomina
dei commissari e la costituzione della commissione devono
avvenire dopo la scadenza del termine fissato per la
presentazione delle offerte e che il Presidente della
commissione sia individuato dalla stazione appaltante tra i
commissari.
Infine, con specifica disposizione transitoria,
si stabilisce che fino alla adozione della disciplina in
materia di iscrizione all'Albo, la commissione continua a
essere nominata dall'organo della stazione appaltante
competente a effettuare la scelta del soggetto affidatario
del contratto, secondo regole di competenza e trasparenza
preventivamente individuate da ciascuna stazione appaltante.
Per quel che riguarda il ruolo di Anac, l'Autorità sarà
chiamata ad adottare atti di indirizzo quali linee guida,
bandi-tipo, contratti-tipo e altri strumenti di
regolamentazione flessibile, fornendo costante supporto
nell'interpretazione e nell'applicazione del codice.
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Al concessionario l'intero rischio.
Il concessionario dovrà sostenere l'intero rischio operativo
connesso alla realizzazione e gestione dell'opera; non
ammesso un contributo pubblico; disciplinato il Ppp
(Partenariato pubblico- privato) per ogni tipologia di
intervento. Sono questi alcuni dei punti fermi della
normativa che, mutuando i criteri specifici dettati dalla
legge delega, disciplina le concessioni (di lavori e di
servizi) recependo la direttiva 2014/23/UE.
Si prevede per
la prima volta, una regolamentazione che unifica le
concessioni di lavori, servizi e forniture e chiarendo che
si tratta di contratti di durata, caratterizzati dal rischio
operativo in capo al soggetto privato; ciò comporta che non
viene garantito al privato dal settore pubblico il recupero
degli investimenti effettuati o dei costi sostenuti per la
gestione dei lavori o dei servizi oggetto della concessione;
in sostanza il privato deve rischiare davvero sull'intera
operazione.
In coerenza, con la disciplina comunitaria e con
quanto previsto dal libro verde della Commissione europea,
il nuovo impianto normativo disciplina per la prima volta,
l'istituto del c.d. «partenariato pubblico privato», quale
forma di sinergia tra poteri pubblici e privati per il
finanziamento, la realizzazione o la gestione costruire
delle infrastrutture o dei servizi pubblici.
Si prevede che
i ricavi di gestione dell'operatore economico possano
provenire non solo dal canone riconosciuto dall'ente
concedente ma anche da qualsiasi altra forma di
contropartita economica, quale, per esempio, l'introito
diretto della gestione del servizio a utenza esterna. Si
chiarisce che il ricorso al Ppp è possibile sia per le c.d.
«opere a freddo» che per quelle «opere a caldo», cioè sia
per quelle in grado generare reddito attraverso ricavi da
utenza in misura tale da ripagare i costi di investimento e
remunerare adeguatamente il capitale investito, sia per le
altre (per le prime, si pensi per esempio alle carceri o
agli ospedali mentre per le seconde a un parcheggio o a una
piscina).
Nell'ambito del partenariato pubblico–privato, un
istituto assolutamente innovativo è quello dei c.d.
«interventi di sussidiarietà orizzontale», ossia la
partecipazione della società civile alla pulizia, alla
manutenzione, all'abbellimento di aree verdi, piazze o
strade, ovvero alla loro valorizzazione mediante iniziative
culturali di vario genere, interventi di decoro urbano, di
recupero e riuso con finalità di interesse generale, di aree
e beni immobili inutilizzati. All'interno di questi
interventi vi è anche la previsione del baratto
amministrativo.
Per quanto riguarda la durata massima delle
concessioni è stabilito che sia limitata e comunque
determinata nel bando di gara dall'amministrazione
aggiudicatrice o dall'ente aggiudicatore in funzione dei
lavori o servizi richiesti al concessionario, nonché
commisurata al valore della concessione.
Inoltre, si prevede
che per le concessioni ultraquinquennali la durata massima
della concessione non può essere superiore al periodo di
tempo necessario al recupero degli investimenti da parte del
concessionario, insieme a una remunerazione del capitale
investito, tenuto conto degli investimenti necessari per
conseguire gli obiettivi contrattuali specifici come
risultante dal piano economico-finanziario.
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Qualificazione Soa confermata.
Qualificazione imprese con il sistema Soa (Società organismo
di attestazione) confermata; introduzione di requisiti
premiali; qualificazione dei contraenti generali affidata
all'Anac; istituito l'albo dei direttori lavori e dei
collaudatori delle opere infrastrutturali; subappalto
liberalizzato ma con limite del 30% per l'affidamento di
lavori specialistici. Sono alcune delle misure di maggiore
rilievo per le imprese di costruzioni previste nello schema
di decreto delegato approvato giovedì scorso in via
preliminare dal Consiglio dei ministri.
Sul sistema di
qualificazione delle imprese lo schema di decreto si muove
analogamente a quanto già previsto dall'articolo 40 del
codice attuale, disponendo «di regola» l'obbligo di
attestazione Soa per i lavori pubblici di importo pari o
superiore a 150 mila di euro, rilasciata da organismi di
diritto privato autorizzati dall'Anac (le Soa).
Si rafforza
il ruolo dell'Anac che con proprie linee guida, individuerà
i livelli standard di qualità dei controlli che le Soa
devono effettuare, con particolare riferimento a quelli di
natura non meramente documentale, da verificare annualmente.
L'Autorità presieduta da Raffaele Cantone, che rimane
titolare della vigilanza, dovrà effettuare una ricognizione
straordinaria sul possesso dei requisiti di esercizio
dell'attività da parte delle Soa e relazionare parlamento e
governo su eventuali modifiche.
Anche le stazioni appaltanti
avranno l'obbligo di effettuare controlli, almeno a
campione, secondo modalità predeterminate, sulla sussistenza
dei requisiti oggetto dell'attestazione. Viene fissata in
cinque anni la durata della qualificazione della Soa, con
verifica entro il terzo anno del mantenimento dei requisiti
di ordine generale nonché dei requisiti di capacità
strutturale indicati nelle linee guida. La qualificazione
delle imprese avverrà sulla base dei requisiti di ordine
generale e di capacità tecnica, organizzativa ed economica.
Sarà valutata anche la performance dell'impresa attraverso
criteri reputazionali che l'Anac individuerà sulla base di
alcuni principi riguardanti i precedenti comportamenti
nell'esecuzione dei contratti. Dal punto di vista
dell'esecuzione del contratto lo schema elimina i limiti
alla possibilità di subappalto, a differenza della
disciplina attuale che contiene il limite del 30% per le
categorie prevalenti; si impone che il subappaltatore debba
garantire gli stessi prezzi e lo stesso standard qualitativo
delle prestazioni.
L'unica limitazione prevista per il
subappalto attiene alle categorie superspecialistiche, nel
limite del 30%. Con l'abrogazione della legge obiettivo,
viene riformata la disciplina del contraente generale,
legata al contratto di appalto di «fare eseguire con
qualsiasi messo» un'opera. Per farvi ricorso la stazione
appaltante dovrà fornire un'adeguata motivazione, in base a
complessità, qualità, sicurezza ed economicità dell'opera.
È
stato introdotto per il contraente generale o general
contractor il divieto di svolgere attività di direzione
lavori e a questa norma è collegata anche quella che
riguarda l'albo creato presso il ministero delle
infrastrutture un apposito albo nazionale cui devono essere
obbligatoriamente iscritti i soggetti che possono ricoprire
gli incarichi di direttore dei lavori e di collaudatore
negli appalti pubblici aggiudicati con la formula del
contraente generale. Il direttore dei lavori lo nominerà il
committente mediante sorteggio pubblico da una lista di
candidati indicati alle stazioni appaltanti in numero almeno
triplo per ciascun ruolo. Sarà poi sempre il dicastero di
Porta Pia a definire le modalità di iscrizione all'albo e di
nomina.
Va tenuto conto del fatto che non potranno ricevere
incarichi di collaudo coloro che hanno svolto o svolgono
attività di controllo, verifica, vigilanza e altri compiti
relativi al contratto da collaudare; una risposta ai casi
giudiziari che hanno riguardato alcune opere della Legge
obiettivo.
Per quel che riguarda la procedura di affidamento
non sarà più possibile ricorrere alla procedura ristretta e
a base di gara sarà posto il progetto definitivo e non più
il preliminare. In buona sostanza si tratta di un appalto
integrato classico, affidato sulla base di un progetto
definitivo, di cui appare difficile comprendere la
differenza rispetto a un normale appalto di lavori (se non
forse per la disciplina dei contratti a valle). Il sistema
di qualificazione dei contraenti generali, oggi assegnato
alla competenza del Ministero delle infrastrutture, viene
attribuito all'Anac
(articolo ItaliaOggi Sette del 07.03.2016). |
ENTI LOCALI - VARI:
Sosta gratuita invalidi, solo una facoltà.
I Comuni hanno solo la facoltà e non l'obbligo di rendere
gratuita la sosta dei veicoli al servizio di invalidi. Ma è
auspicabile che nella loro autonomia decidano di prevedere
tale beneficio.
Lo ha affermato il sottosegretario alle infrastrutture e dei
trasporti, Umberto Del Basso Del Caro, il 24 febbraio scorso
nella IX commissione trasporti della Camera, rispondendo
alla
INTERROGAZIONE A RISPOSTA IN COMMISSIONE 5/07565 dell'onorevole Mirella
Liuzzi (M5S).
Partendo dalla considerazione che alcuni
Comuni multano i veicoli con contrassegno invalidi
parcheggiati negli stalli blu senza il ticket, benché gli
altri spazi per invalidi siano occupati, l'on. Liuzzi ha
sollecitato con l'interrogazione n. 5-07565 il Ministero
delle infrastrutture e dei trasporti e il Ministero del
lavoro a emanare una circolare per disciplinare la
questione.
Nella risposta scritta, il sottosegretario Del
Basso Del Caro ha affermato che non può essere emanata una
direttiva che si discosti dal dettato normativo. Ai sensi
dell'art. 381 del regolamento di esecuzione e attuazione del
codice della strada di cui al dpr n. 495 del 16.12.1992, il Comune stabilisce, anche nell'ambito delle aree
destinate a parcheggio a pagamento gestite in concessione,
un numero di posti destinati alla sosta gratuita degli
invalidi muniti di contrassegno superiore al limite minimo
previsto dall'art. 11, comma 5, del dpr 503 del 24.07.1996 e può prevedere, inoltre, la gratuità della sosta per
gli invalidi nei parcheggi a pagamento qualora risultino già
occupati o indisponibili gli stalli a loro riservati.
Un'interpretazione estensiva e più favorevole a chi è munito
di contrassegno invalidi non è possibile, come peraltro già
ribadito dalla sentenza n. 21271 del 05.10.2009 della II
sezione civile della Corte di cassazione, secondo la quale
nessuna norma prevede la gratuità della sosta a pagamento
nel caso in cui gli stalli riservati ai veicoli al servizio
delle persone diversamente abili risultino occupati. Nella
loro autonomia, però, i Comuni, nel fissare le regole da
osservare per la sosta, possono disporre la gratuità del
parcheggio. Il sottosegretario ai trasporti, pertanto, si
appella al senso civico degli enti locali, che sono invitati
ad agevolare, nell'ambito del proprio potere discrezionale,
un'utenza stradale già fortemente svantaggiata.
In attesa che novità in tal senso possano arrivare dal
disegno di legge di riforma del codice stradale, che tra i
principi e i criteri fa espresso riferimento proprio
all'utenza vulnerabile
(articolo ItaliaOggi del 05.03.2016). |
APPALTI: Pa qualificate, rating per le imprese, poteri Anac: al via
il nuovo codice appalti. Delrio: semplificazione, lotta alla corruzione, trasparenza,
qualità parole-chiave.
Il Consiglio
dei ministri ha varato ieri il
decreto legislativo che
riforma il codice degli appalti e recepisce le direttive Ue
23, 24 e 25 del 2014 in materia di concessioni, appalti nei
settori ordinari e settori speciali (Schema
di decreto legislativo recante disposizioni per l'attuazione
delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE
sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli
appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti
erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei
trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino
della disciplina vigente in materia di contratti pubblici
relativi a lavori, servizi e forniture -
Atto del Governo n. 283 sottoposto a parere parlamentare).
Il provvedimento dovrà
tornare in Consiglio dei ministri, dopo il parere di
Consiglio di Stato, Conferenza Stato-Regioni e due pareri
delle commissioni parlamentari competenti, entro il 18
aprile. La novità più rilevante dell’ultimo passaggio è la
riduzione da un milione di euro a 150mila euro della soglia
di gara sotto la quale le imprese non sono obbligate ad
avere la certificazione Soa per partecipare.
È la pressante
richiesta che aveva fatto nelle ultime ore il presidente
dell’Ance, Claudio De Albertis. Con la modifica, in
sostanza, si torna a un sistema generalizzato di
qualificazione centralizzato per le imprese e si dà un
taglio drastico alla discrezionalità che avrebbero avuto
nella singola gara le singole stazioni appaltanti, definendo
autonomamente criteri per l’ammissione alla gara. Un sistema
che avrebbe potuto introdurre sperequazioni gravi.
Il ministro delle Infrastrutture, Graziano Delrio, ha
illustrato il provvedimento dopo il Consiglio dei ministri,
sottolineando soprattutto come l’estrema semplificazione che
lui stesso aveva voluto nella legge delega abbatta ora il
numero di articoli dai 660 del vecchio sistema codice più
regolamento generale ai 217 del nuovo codice che non avrà
regolamento generale.
Il passaggio alla soft law, affidata
in prima battuta a linee-guida varate dallo stesso ministero
delle Infrastrutture su proposta dell’Autorità
anticorruzione guidata da Raffaele Cantone, è sicuramente la
rivoluzione di maggiore impatto fra gli architravi del nuovo
sistema. «Semplificazione, lotta alla corruzione,
trasparenza e qualità sono le parole-chiave del
provvedimento», ha detto Delrio. Il tema delle nuove regole
non è stato invece sfiorato dal premier, che nei giorni
aveva battuto molto sulla necessità di finire le incompiute
e ieri è tornato invece a ribadire quel che aveva detto due
mesi fa sul Ponte sullo Stretto:che sarebbe utile farlo, ma
che prima bisogna completare opere come la Salerno-Reggio
Calabria e l’Alta velocità al Sud. Un obiettivo che non è
certo cosa dei prossimi mesi.
L’altra norma del codice degli appalti riformato su cui si è
concentrata la maggiore tensione in queste ultime ore è
quella sul subappalto. Anche qui c’erano le richieste
dell’Ance, che premeva per limitare i pagamenti diretti
delle stazioni appaltanti ai subappaltatori, ma c’erano
anche le richieste delle imprese superspecialistiche che
lamentavano la scomparsa di qualunque tetto al subappalto,
con il paradosso che il costruttore-appaltatore principale
avrebbe potuto prendere il lavoro e subappaltare quote molto
ampie di impianti e lavori specialistici di alto livello
tecnologico senza dover costituire con l’impresa
specialistica un’associazione temporanea.
Forte il rischio
di una destrutturazione del mercato anche per imprese, come
quelle delle attività superspecialistiche, che spesso hanno
livelli elevati di capacità tecnologica. Complessivamente
più equilibrata la nuova soluzione. Resta la
liberalizzazione del subappalto con l’eliminazione del tetto
ordinario del 30% previsto dalla legislazione vigente
(critiche molto dure sono arrivate dai sindacati mentre il
relatore della legge delega al Senato e “padre nobile” della
legge, il pd Stefano Esposito, ha già detto che chiederà
modifiche nel parere parlamentare).
Alla fine, però, si è trovato un compromesso per le opere
superspecialistiche e ad alto contenuto tecnologico: solo
per queste attività è stato introdotto un tetto del 30%.
A fronte della liberalizzazione il governo ha voluto
introdurre una maggiore vigilanza. Per gli appalti sopra la
soglia comunitaria sarà obbligatoria l’indicazione in sede
di offerta di una terna di subappaltatori, ma solo se i
bandi o gli avvisi di gara lo prevedono in maniera espressa.
Anche sotto soglia, le stazioni appaltanti potranno
richiedere nel bando di gara l’indicazione in sede di
offerta della terna.
Limitati i casi di pagamento diretto
del subappaltatore da parte della stazione appaltante, ma le
imprese subappaltatrici potranno comunque chiederlo. Il
contraente principale resta comunque responsabile in via
esclusiva nei confronti della stazione appaltante (articolo Il Sole 24 Ore del
04.03.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
LAVORI PUBBLICI: L’Ance «incassa» la modifica sulla soglia del sistema Soa.
La reazioni. De Albertis: ora paritetico rapporto
imprese-stazioni appaltanti.
Non mancherà
il lavoro per il passaggio dei pareri delle commissioni
parlamentari.
Le reazioni degli attori del mercato
all’approvazione in prima lettura del Codice appalti
sono, infatti, parecchio contrastate: tra i molti segnali di
soddisfazione, arrivano anche altrettante richieste di
correzioni e aggiustamenti
(Schema
di decreto legislativo recante disposizioni per l'attuazione
delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE
sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli
appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti
erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei
trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino
della disciplina vigente in materia di contratti pubblici
relativi a lavori, servizi e forniture -
Atto del Governo n. 283 sottoposto a parere parlamentare).
A partire dall’Ance. Il suo presidente, Claudio De Albertis
sottolinea che «nel nuovo testo ci sono una serie di
elementi che per noi sono molto positivi, come la
trasparenza, le regole chiare ma, soprattutto, un rapporto
paritetico tra imprese e stazioni appaltanti». Un chiaro
riferimento alle correzioni operate nella parte che riguarda
la qualificazione degli operatori economici: i costruttori
avevano chiesto la revisione della soglia da un milione di
euro per le attestazioni Soa e l’hanno ottenuta.
«Guardiamo
certamente con favore a questa modifica, anche se resta
qualche punto che potrà essere oggetto di correzione:
riguarda ancora la discrezionalità eccessiva delle stazioni
appaltanti», prosegue De Albertis. Non piace la possibilità
riconosciuta alla Pa di recedere dal contratto nel caso in
cui vengano iscritte riserve superiori al 15% e non piace il
riferimento troppo generico, tra i criteri reputazionali, ai
contenziosi precedenti delle imprese.
Chiede correzioni anche Maria Antonietta Portaluri,
direttore generale di Anie Confindustria: il Codice - spiega
- «va ancora rivisto in un’ottica di maggiore
semplificazione burocratica e di riduzione degli oneri». In
particolare, «non si comprende il mantenimento del soccorso
istruttorio a titolo oneroso per le imprese, mentre dovrebbe
essere abrogata una simile previsione. Deve essere ripensato
il sistema di qualificazione delle imprese sulla base del
principio secondo cui chi esegue le prestazioni deve essere
adeguatamente specializzato in tali attività, salvaguardando
la specificità dei settori speciali».
Qualche stoccata arriva anche dal lato dei progettisti. Il
presidente del Consiglio nazionale degli architetti,
Leopoldo Freyrie parla di «giudizio positivo» riferito
«all’impianto politico e culturale del provvedimento che
marca una significativa discontinuità rispetto alla
farraginosa normativa precedente». Meno positivo il
presidente del Consiglio nazionale degli ingegneri, Armando
Zambrano, che rimarca «il contrasto con i principi della
centralità della progettazione», promessi alla vigilia. Nel
testo, infatti, «manca un capitolo dedicato ai servizi di
ingegneria e architettura ed è un male perché non possiamo
essere accomunati a tutti gli altri servizi».
L’Anci, per bocca del suo delegato ai Lavori pubblici,
Alessandro Bolis, guarda con favore alla «netta
discontinuità rispetto al passato», ma sottolinea le
«possibili criticità che potrebbero emergere soprattutto
dalla definizione dei soggetti aggregatori e da quella
dell’offerta economicamente più vantaggiosa». Il
vicepresidente di Legambiente, Edoardo Zanchini, infine,
auspica che con il nuovo Codice si possa «chiudere una
brutta pagina, lunga quindici anni, segnata troppo spesso da
sprechi, corruzione e illegalità».
Fino ad oggi «con la
legge Obiettivo sono stati buttati decine di miliardi di
euro in grandi opere definite strategiche che avrebbero
dovuto modernizzare e rilanciare il Paese e che, invece,
hanno portato ad una serie di cantieri infiniti o di
progetti rimasti sulla carta» (articolo Il Sole 24 Ore del
04.03.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
LAVORI PUBBLICI: Uscita di scena graduale per il general contractor.
Grandi opere. Scompare il programma di infrastrutture
strategiche ma restano lavori per 36 miliardi affidati al
contraente generale.
L’addio alla
legge obiettivo, con il
nuovo Codice appalti,
è totale (Schema
di decreto legislativo recante disposizioni per l'attuazione
delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE
sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli
appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti
erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei
trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino
della disciplina vigente in materia di contratti pubblici
relativi a lavori, servizi e forniture -
Atto del Governo n. 283 sottoposto a parere parlamentare).
Scompare il programma delle infrastrutture stategiche (il
Pis), cioè in sostanza la cartina di Berlusconi con le opere
di serie A, e scompaiono le relative procedure speciali, con
delibere Cipe e possibilità di scavalcare gli enti locali e
la Commissione di impatto ambientale. Ora tutte le opere
pubbliche nazionali di trasporto (strade, ferrovie, porti,
aeroporti) confluiscono nel Piano nazionale dei trasporti e
della logistica e nel Documento pluriennale di
programmazione (Dpp), e la procedura approvativa sarà sempre
quella “ordinaria”, in conferenza di servizi. Con le
accelerazioni contenute nel Dlgs Madia, e cioè i tempi certi
di chiusura (silenzio-assenso per chi non si esprime),
chiusura sulla base dei “pareri prevalenti” e infine
possibilità di scavalcare il dissenso anche di enti di
tutela, con delibera del Consiglio dei ministri.
Addio senza rimpianti alla legge obiettivo, dunque, che
ormai non accelerava più nulla e di fatto aveva creato una
incomprensibile doppia programmazione nelle opere statali.
Quello che invece non scompare è il “braccio operativo”
della legge obiettivo, e cioè il general contractor,
l’affidamento ai privati “chiavi in mano” della
progettazione e realizzazione dell’opera. Sia perché
l'istituto resta in piedi anche nel nuovo Codice, sia
soprattutto perché sul mercato restano in piedi, con lavori
in corso o progetti approvati, opere per oltre 30 miliardi
affidate a general contractor.
Il governo ha ritenuto di lasciare aperta la possibilità di
affidare a soggetti con adeguate capacità tecniche,
organizzative e finanziarie la «realizzazione con qualsiasi
mezzo dell’opera», anche se con due profonde differenze
rispetto all’istituto pensato da Berlusconi e il suo
ministro Pietro Lunardi nel 2002. A gara dovrà andare il
progetto almeno definitivo, e non più anche il preliminare,
come accadde con ritardi e pesanti contenziosi, ad esempio,
per alcuni maxi-lotti della Salerno-Reggio e per la metro C
di Roma. E poi la direzione lavori (cioè il controllo dei
cantieri) non sarà più affidata agli stessi privati (fu una
vera assurdità) ma resterà in capo all’amministrazione
appaltante.
In ogni caso sul mercato restano lavori per 36 miliardi di
euro affidati a general contractor. Vediamo perché.
Primo: ci sono dieci appalti, per 10,3 miliardi, affidati
con gara a general contractor negli anni della legge
obiettivo (l’ultimo bando è stato nel 2009) e ancora in
corso. Uno di questi è il Ponte sullo Stretto, 3,9 miliardi
di euro, per ora congelato ma che il premier Renzi ha più
volte fatto capire di volere (prima o poi) rimettere in
pista. Tolto questo, i restanti 6,42 miliardi sono cantieri
in corso: ad esempio i due maxi-lotti del quadrilatero
stradale Marche-Umbria, il passante ferroviario di Palermo e
un tratto della ferrovia Palermo-Messina, la metro C di
Roma, il passante Fs di Firenze, un lotto della Ss
Palermo-Agrigento e uno della Ss 640 Agrigento-Caltanissetta,
un lotto della terza corsia della A4 (Tagliamento-Gonars) e
un lotto della Ss 106 Ionica.
Poi ci sono cinque grandi opere, per 17,3 miliardi di euro,
affidate senza gara a general contractors prima della
direttiva appalti del 1993: dal Mose (5,5 miliardi, finirà
nel 2018), al Terzo valico ferroviario ad alta velocità
Genova-Milano (6,2 miliardi), sempre l’Av Treviglio-Brescia
(2 miliardi), e le due linee del metrò di Napoli (linea 1,
2,4 miliardi; linea 6, 1,2 miliardi).
Infine ci sono due maxi-tratte dell’alta velocità, per 9,3
miliardi, che saranno affidate a breve, entro l’anno, sempre
ai vecchi general contractors del 1991 (nelle cordate
Saipem, Astaldi, Salini Impregilo, Pizzarotti, Condotte,
Maltauro), i cui contratti sono “giuridicamente vincolanti”.
La Brescia-Verona (3,9 miliardi, di cui 2,2 finanziati e 1,7
da finanziare) e la Verona-Vicenza-Padova (5,4 miliardi, di
cui 1,9 finanziati e 3,5 da finanziare) (articolo Il Sole 24 Ore del
04.03.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: Riforma Madia, su 8 decreti il «sì» di sindaci e governatori.
Esame il 24 per partecipate, servizi pubblici e autorità
portuali.
Pa. Intesa in Conferenza unificata anche sui licenziamenti -
Giudizio sospeso sulla delegificazione.
Primo via
libera della Conferenza unificata ad alcuni dei decreti
attuativi della riforma della Pa (legge 124/2015).
L'intesa
tra il Governo le Regioni e Comuni è stata raggiunta su otto
degli 11 decreti. In particolare hanno incassato il parere
positivo i testi di semplificazione della Conferenza dei
servizi telematica e della Scia, le modifiche al Codice
delle amministrazioni digitali, il decreto sulla trasparenza
(il cosiddetto freedom of information act all'italiana, già
all'esame anche delle Camere), le misure per i
licenziamenti dei dipendenti in caso di falsa attestazione
di presenza in ufficio con sanzioni rafforzate ai dirigenti
che non fanno scattare la disciplinare accelerata e le nuove
regole per il reclutamento dei direttori generali delle Asl.
Intesa raggiunta anche sul riordino delle forze di polizia e
l'accorpamento della Guardia forestale con trasferimento di
funzioni e personale all'Arma dei Carabinieri. Giudizio
sospeso per un approfondimento politico, invece, sul
regolamento di delegificazione che attribuisce poteri
sostitutivi alla presidenza del Consiglio per tagliare il
timing delle autorizzazioni di grandi opere o grandi
impianti produttivi.
Soddisfatta la ministra Marianna Madia:
«Il senso della Conferenza unificata, dopo l'incontro della
scorsa settimana, è quello di lavorare insieme -ha spiegato- con la consapevolezza che al cittadino interessa avere un
servizio di qualità con tempi e regole certe da parte della
Repubblica». Riguardo al rinvio dell'intesa sul regolamento
che accelera i tempi per gli insediamenti produttivi, Madia
ha spiegato che c'è «un emendamento delle regioni. È un
punto su cui fare un approfondimento e capire come vengono
scelti gli investimenti strategici sapendo che l'obiettivo è
velocizzare i grandi investimenti privati che portano
sviluppo e innovazione».
Non erano all'ordine del giorno ieri i testi su autorità
portuali, partecipate e servizi pubblici locali, anche
perché quest’ultimo ha ricevuto solo all’inizio di questa
settimana la «bollinatura» della Ragioneria generale. Questi
testi, che completano il primo pacchetto attuativo della
riforma della Pa, dovrebbero arrivare sui tavoli della
prossima Conferenza, in programma per il 24 marzo.
Oltre ai tre provvedimenti, nell’ordine del giorno di quella
riunione tornerà la questione Poste, e in particolare le
obiezioni che stanno emergendo in molti dei piccoli Comuni
per la consegna a giorni alterni. Ad annunciarlo è il
ministro degli Affari regionali Enrico Costa, che ha esteso
l’invito ai vertici di Poste per un tavolo di confronto
sulla razionalizzazione in corso, che ha prodotto anche un
ricco contenzioso davanti ai giudici amministrativi
(l’ultima sentenza in materia, la 698/2016 del Consiglio di
Stato, ha dato il via libera alla chiusura di un ufficio
postale decisa contro le obiezioni dell’ente).
A breve,
spiega sempre Costa, partirà anche il confronto con le
Regioni sulle concessioni demaniali la cui proroga è in
attesa della bocciatura Ue (articolo Il Sole 24 Ore del
04.03.2016 - tratto da
http://rstampa.pubblica.istruzione.it). |
APPALTI:
Appalti, no al massimo ribasso. Procedure
trasparenti e digitalizzate, misure premiali per le imprese
virtuose, affidamento dei lavori sui progetti esecutivi,
superpoteri all’Anac di Cantone.
Affidamenti diretti possibili fino a 40 mila euro, procedure
tutte online, stop alle aggiudicazioni al massimo ribasso,
premi alle aziende virtuose.
E ancora, commissioni di gara più trasparenti,
qualificazione delle stazioni appaltanti, più spazio all’Anac
(l’Autorità nazionale anticorruzione) che potrà proporre
pareri di precontenzioso vincolanti. Sono alcuni punti del
decreto di riordino degli appalti approvato ieri dal
consiglio dei ministri.
Appalti, riforma al primo step. Affidamenti
diretti fino a 40 mila , massimi ribassi ko.
Lo schema di decreto approvato dal consiglio dei
ministri. Iter online, premi ai virtuosi.
Primo passo per la rivoluzione degli appalti. Affidamenti
diretti possibili fino a 40 mila euro, procedure tutte
online, stop alle aggiudicazioni al massimo ribasso, premi
alle aziende virtuose dotate di rating di legalità.
E
ancora, riduzione delle stazioni appaltanti con una spinta
centralizzazione degli affidamenti, commissioni di gara più
trasparenti, qualificazione delle stazioni appaltanti,
trattative private con invito a tre o a cinque fino a 150
mila euro per servizi e forniture e fino a un milione per i
lavori, più spazio all'Anac (l'Autorità nazionale
anticorruzione) che potrà proporre pareri di precontenzioso
vincolanti, Avcpass (il sistema di verifica dei requisiti di
partecipazione alle gare pubbliche) trasferito al ministero
delle infrastrutture.
Sono questi alcuni punti dello
schema di decreto di riordino
della disciplina sui contratti pubblici che
recepisce le direttive europee e riforma l'attuale codice
dei contratti (il cosiddetto codice «De Lise»),
approvato ieri dal Consiglio dei ministri
(Schema
di decreto legislativo recante disposizioni per l'attuazione
delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE
sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli
appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti
erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei
trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino
della disciplina vigente in materia di contratti pubblici
relativi a lavori, servizi e forniture -
Atto del Governo n. 283 sottoposto a parere parlamentare).
Il testo adesso andrà alle
commissioni parlamentari, alla Conferenza unificata e al
Consiglio di stato per i previsti pareri. Si passa, ha detto
il ministro delle infrastrutture Graziano Delrio, «dal
vecchio codice da 660 articoli e 1.500 commi a 217 articoli
con una scelta di grandissima semplificazione e recepimento
delle direttive europee» (in realtà si passa da 253 articoli
del decreto 163/2016 ai 213 attuali).
A questo codice non
farà seguito un regolamento di esecuzione e di attuazione
(l'attuale dpr 207/2010) ma saranno emanate linee guida di
carattere generale, da approvarsi con decreto del ministro
delle infrastrutture su proposta dell'Anac e previo parere
delle competenti commissioni parlamentari. Si tratta della
cosiddetta soft law che nelle intenzioni del governo
dovrebbe assicurare maggiore trasparenza, omogeneità e
speditezza delle procedure, fornendo criteri unitari a
garanzia dell'utenza.
Viene dettata una disciplina specifica
e dettagliata delle concessioni puntando al trasferimento
del «rischio operativo» al concessionario, «cosa non
scontata», ha sottolineato Delrio, che ha evidenziato anche
l'aspetto della centralità del progetto e dell'innovazione
tecnologica per l'ingegneria derivante dall'applicazione del
Bim (Building information modeling, il processo di sviluppo,
crescita e analisi di modelli multidimensionali virtuali
generati in digitale per mezzo di programmi su computer).
Fra i tanti contenuti del decreto, emergono la riduzione del
numero delle stazioni appaltanti attraverso la
qualificazione Anac delle stazioni appaltanti, il graduale
passaggio a procedure interamente gestite in maniera
digitale, la riduzione degli oneri amministrativi mediante
la dematerializzazione degli atti con l'introduzione del
documento di gara unico europeo che autocertificherà i
requisiti previsti dalle stazioni appaltanti nei bandi di
gara. Una parte rilevante del decreto riguarda anche la
definizione di modalità finalizzate al riassetto, revisione
e semplificazione dei sistemi di garanzia per
l'aggiudicazione e l'esecuzione degli appalti pubblici di
lavori, servizi e forniture: viene soppresso il performance
bond, sostituito da una garanzia che coprirà anche gli
extra-costi a carico della stazione appaltante.
Per quel che
riguarda i requisiti di accesso alle gare, la materia è
largamente devoluta alle linee guida che proporrà l'Anac.
Per la disciplina dei contratti sotto la soglia Ue si
prevede l'affidamento diretto fino a 40 mila euro; la
procedura negoziata con tre inviti da 40 mila a 150 mila;
per i soli lavori da 150 mila a un milione, la procedura
negoziata con cinque invitati.
Si precisa che fino a 150
mila euro le stazioni appaltanti verificheranno soltanto i
requisiti di carattere generale, consultando il casellario
informatico presso Anac. Tutto questo nel presupposto di un
notevole rafforzamento dei poteri dell'Authority che dovrà
gestore l'albo che qualifica le stazioni appaltanti, l'albo
dei commissari di gara (che saranno scelti a sorteggio),
definire linee guida vincolanti e effettuare la vigilanza.
Per quanto riguarda i pareri di precontenzioso emessi dall'Anac
si prevede che su iniziativa della stazione appaltante o di
una o più delle altre parti, essa esprima parere, se c'è
accordo preventivo, vincolante, purché adeguatamente
motivato. Finisce l'era del massimo ribasso e si
aggiudicheranno sempre con il criterio dell'offerta
economicamente più vantaggiosa i servizi di ingegneria e
architettura e quelli «sociali», puntando molto sulla
qualità e non sul prezzo
(articolo ItaliaOggi del 04.03.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Scia unica a partire dal 01.01.2017. I pareri
della conferenza unificata sui decreti della riforma Madia.
«Abbiamo ricevuto l'intesa sulla Scia unica mentre abbiamo
rimandato quella sull'accelerazione dei procedimenti
amministrativi, perché abbiamo la necessità di più tempo per
un approfondimento politico. Su tutti gli altri
provvedimenti ci sono degli emendamenti delle regioni ma i
pareri sono tutti favorevoli».
Così il ministro della pubblica amministrazione Marianna
Madia, al termine della Conferenza unificata di ieri che ha
registrato l'intesa tra il governo, le regioni e i comuni su
otto degli 11 decreti attuativi della riforma della pubblica
amministrazione.
«La riforma procede a passo spedito grazie
anche al concorso delle regioni», ha detto il presidente
della Conferenza delle regioni Stefano Bonaccini. «Per
quello che riguarda l'attività di molti imprenditori è
fondamentale il fatto che si arrivi a una segnalazione
certificata di inizio attività unica che abbia come
riferimento uno sportello in ogni amministrazione. Abbiamo
chiesto che si possa partire dal 01.01.2017». «Abbiamo
espresso al governo l'auspicio di approfondire alcune
questioni rimaste ancora irrisolte», annuncia il
vicepresidente dell'Associazione nazionale dei comuni
italiani e sindaco di Chieti, Umberto Di Primio.
«Siamo
tornati a chiedere più attenzione sullo sblocco del
turnover. Sullo schema di decreto che regolerà la nuova
Scia, un miglior coordinamento tra le norme per evitare
lungaggini che potrebbero derivare da diverse
interpretazioni, laddove le sovrintendenze, per esempio,
dovessero non adeguarsi alle procedure seguite dai comuni».
Sullo schema di decreto sul Codice dell'amministrazione
digitale, il vicepresidente Anci Roberto Pella ne rimarca
«l'importanza, soprattutto per quanto riguarda la gratuità
per i comuni che vorranno accedere alle banche dati della
motorizzazione, finora a pagamento».
Sul tema piccoli
comuni, accordo su due decreti attuativi riguardanti
l'associazionismo comunale: individuazione per il 2016 dei
criteri di ripartizione dei fondi (circa 20 milioni di euro)
e percentuale di risorse da riservare all'associazionismo
(6,5%). Sul decreto sulla prevenzione della corruzione nelle
p.a. l'Anci ha chiesto «certezza di qualificazione del
soggetto che accede agli atti e degli atti stessi,
soprattutto se si tratta di sicurezza urbana»
(articolo ItaliaOggi del 04.03.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Opere edilizie minori, stop l'accatastamento d'ufficio.
Per le opere edilizie minori, niente più accatastamento
d'ufficio: dovrà pensarci l'interessato. Azzeramento in
vista della semplificazione di appena un anno e mezzo fa,
che prevedeva variazioni catastali a carico del comune:
l'interessato si limitava a fare la comunicazione di inizio
lavori (Cil) all'ufficio tecnico e questo valeva anche per
l'aggiornamento al catasto. Quindi non c'erano da fare due
pratiche (edilizia e catastale), ma una sola.
Un emendamento
al ddl concorrenza (Atto
Senato n. 2085), approvato mercoledì sera in commissione
industria al Senato, se confermato nei successivi passaggi
parlamentari, segnerà un ritorno al passato modificando
l'articolo 6, comma 5, del Testo unico per l'edilizia (n.
380/2001).
Ma vediamo di illustrare l'emendamento e i suoi effetti.
Nella versione attuale, la norma (introdotta dal dl
133/2014) prevede un'agevolazione per gli interventi
sottoposti a comunicazione di inizio lavori: manutenzione
straordinaria, compresa l'apertura di porte interne o lo
spostamento di pareti interne, sempre che non riguardino le
parti strutturali dell'edificio; opere contingenti e
temporanee; pannelli solari, fotovoltaici; aree ludiche
senza fini di lucro e gli elementi di arredo delle aree
pertinenziali degli edifici; modifiche interne sulla
superficie coperta e modifiche della destinazione d'uso dei
fabbricati adibiti d'impresa.
Per questi interventi la
comunicazione di inizio lavori, integrata con la
comunicazione di fine dei lavori, è valida anche per
l'accatastamento: è il comune che deve mandarla agli uffici
tributari.
Con l'emendamento in esame, invece, con riferimento a tutti
gli interventi minori dell'articolo 6 del Testo unico
edilizia, a dover fare le pratiche di aggiornamento
catastale tornerà a essere l'interessato. Si ripristina,
infatti, la formulazione anteriore al 2014, per la quale
l'interessato deve provvedere alla presentazione degli atti
di aggiornamento catastale (articolo 34-quinquies, comma 2,
lettera b), del decreto legge 4/2006).
L'emendamento stabilisce una disposizione transitoria per il
possessore degli immobili, nei quali si siano realizzate
opere cui segue un aggiornamento catastale. Stoppata la
procedura d'ufficio, l'interessato dovrà provvedere alle
necessarie pratiche entro sei mesi.
In caso di inerzia viene richiamata in proposito la
procedura prevista dall'articolo 1, comma 36, della legge
311/2004. Questo significa che i comuni richiederanno agli
interessati la presentazione di atti di aggiornamento da
predisporre entro novanta giorni: in mancanza si procederà
d'ufficio alle relative variazione e al trasgressore saranno
comminate sanzioni amministrative
(articolo ItaliaOggi del 04.03.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: Amianto, più flessibilità per smaltimento e riuso.
Parere del consiglio di stato sulla gestione delle terre di
scavo.
Più flessibili i limiti per lo smaltimento delle terre e
rocce da scavo nei cantieri, ma il consiglio di stato
contesta il limite massimo di presenza dell'amianto.
È
questo il quadro che si ricava dalla lettura del
parere
16.02.2016 n. 390 emesso dalla Sez. consultiva sugli atti normativi sullo schema di decreto del presidente
della repubblica recante la «disciplina semplificata
della gestione delle terre e rocce da scavo, ai sensi
dell’articolo 8 del decreto legge 12.09.2014, n. 133,
convertito, con modificazioni, dalla legge 11.11.2014, n.
164» che attua l'articolo
8 della legge 164/2014.
Lo schema di decreto è di particolare interesse per chi
opera nella realizzazione dei lavori perché definisce la
gestione delle terre e rocce da scavo qualificate come
sottoprodotti provenienti da cantieri di piccole dimensioni,
di grandi dimensioni e di grandi dimensioni non assoggettati
a valutazione di impatto ambientale o ad autorizzazione
integrata ambientale, e definisce la disciplina relativa al
deposito temporaneo delle terre e rocce da scavo qualificate
come rifiuti nonché quella relativa alle terre e rocce da
scavo nei siti oggetto di bonifica.
Il problema si pone
sull'articolo 2 dello schema di decreto che, alla lettera
b), reca uno specifico intervento in materia di amianto,
stabilendo che le terre e rocce da scavo possono contenere
questo materiale nel limite massimo di 100 mg/kg.
Il parere del consiglio di stato mette in evidenza che nella
relazione ministeriale si precisa che inserendo questo
limite è stato sostituito il divieto della presenza di
amianto nelle terre e rocce da scavo (in realtà oggi, con il
decreto n. 152/2006, si prevede un limite a 1.000 mg/kg).
Praticamente si passerebbe da un divieto assoluto di
riutilizzo del materiale contenente amianto alla possibilità
di riutilizzarlo senza doverlo smaltire appositamente
secondo determinate (e costose) procedure.
La disciplina diventa così meno vincolistica dal momento che
il limite previsto nel decreto corrisponde alla quantità di
amianto «verificabile con l'applicazione delle migliori
metodiche disponibili», così si legge nella relazione dello
schema. Il consiglio di stato nota che il valore «è stato
indicato dall'Istituto superiore di sanità in uno specifico
parere trasmesso dal ministero della salute e si basa
sull'esperienza operativa di alcune Arpa».
E qui il parere
sottolinea che «quanto comunicato dall'amministrazione
riferente non risulta documentato da alcun atto depositato
presso la segreteria della sezione da cui possano evincersi
i necessari elementi istruttori utilizzati
dall'amministrazione stessa per raggiungere le succitate
conclusioni».
Da questo il consiglio di stato fa discendere
che «conseguentemente la scelta di superare il divieto della
presenza di amianto non risulta adeguatamente motivata nella
relazione ministeriale, che peraltro si è limitata a
sostenere che tale modifica si è resa necessaria anche
perché la formulazione pregressa, consistente nel divieto
assoluto, non era verificabile in concreto».
Il parere è quindi netto laddove afferma che «non si può
in alcun modo condividere la scelta normativa operata
dall'amministrazione che, in assenza di motivazioni
puntualmente e accuratamente documentate richieste dalla
rilevanza della problematica in esame, va espunta dal testo
del regolamento in esame»
(articolo ItaliaOggi del 04.03.2016). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI: Il bonus arredi non si lesina.
Via libera all'agevolazione se si sostituisce la caldaia.
Circolare delle Entrate con le risposte a una serie di
quesiti del Coordinamento Caf.
Niente detrazione Irpef per la sostituzione della vasca da
bagno con un box doccia. Si tratta di una semplice
manutenzione ordinaria che, se non abbinata ad altri
interventi maggiori ed al contrario di quanto affermato da
media e imprese esecutrici, non dà diritto ad alcun
beneficio fiscale.
La sostituzione della caldaia invece, in quanto manutenzione
straordinaria, può aprire le porte anche al bonus arredi. Il
garage acquistato in comproprietà da due distinti soggetti
ed utilizzato da entrambi, può costituire pertinenza a
servizio delle abitazioni principali sulla base delle
rispettive quote di comproprietà.
Sono questi, in estrema sintesi, i chiarimenti forniti ieri
dall'Agenzia delle entrate con la
circolare
02.03.2016 n. 3/E in
risposta da una serie di questioni interpretative
prospettate dal Coordinamento nazionale dei centri di
assistenza fiscale e da altri soggetti.
Tutti i quesiti ai
quali l'Agenzia ha risposto con la circolare in argomento a
sono relativi alle imposte sui redditi.
Spese sanitarie. Dopo aver ricordato il principio generale
sulla base del quale non tutte le prestazioni rese da un
medico o sotto la sua supervisione sono ammesse alla
detrazione, ma solo quelle di natura sanitaria finalizzate
alla cura di una patologia, la circolare in commento si è
espressa in merito alla richiesta di detraibilità di alcune
prestazioni sanitarie.
Nello specifico l'Agenzia ha escluso la possibilità per i
contribuenti di portare in detrazione le spese sostenute per
le prestazioni rese da un pedagogista perché tale attività
non rientra nell'ambito delle professioni sanitarie.
Sono invece detraibili in quanto ascrivibili a trattamenti
di natura sanitaria, le spese relative ai trattamenti di
mesoterapia e ozonoterapia effettuati da personale medico o
da personale abilitato dalle autorità competenti in materia
sanitaria.
Bonus arredi e recupero patrimonio edilizio. Numerose le
risposte fornite nella circolare in argomento in materia di
bonus arredi ed interventi di recupero edilizio e risparmio
energetico.
In particolare potranno accedere al bonus arredi anche i
contribuenti che hanno effettuato la sostituzione della
caldaia. Tale intervento infatti, precisa la circolare, in
quanto intervento diretto a sostituire una componente
essenziale dell'impianto di riscaldamento e come tale
qualificabile come intervento di manutenzione straordinaria,
costituisce il necessario presupposto per l'accesso al bonus
arredi.
La sola sostituzione dei sanitari invece, in quanto semplice
manutenzione ordinaria, non può dare accesso ad alcun
beneficio fiscale per il contribuente.
Contrariamente a quanto asserito dai media e dalle imprese
esecutrici dei lavori nemmeno la sostituzione della vasca da
bagno con un box doccia può usufruire della detrazione Irpef
attualmente fissata al 50%. Tale spesa, si legge nella
circolare di ieri, non può considerarsi nemmeno agevolabile
quale intervento diretto alla eliminazione delle barriere
architettoniche, anche se in grado di ridurre, almeno in
parte, gli ostacoli fisici fonti di disagio per la mobilità
di chiunque e di migliorare la sicura utilizzazione delle
attrezzature sanitarie.
La sostituzione della vasca da bagno e dei sanitari in
genere potrà costituire intervento agevolabile ai fini Irpef
solo se integrata o correlata con altri interventi edili di
tipo maggiore aventi i requisiti per usufruire dei bonus
fiscali in vigore.
Acquisto immobili destinati alla locazione. Per quanto
riguarda il limite di 300 mila euro fissato dalla norma, la
circolare di ieri precisa che lo stesso costituisce
l'ammontare massimo di spesa su cui calcolare la deduzione
del 20% anche nell'ipotesi di acquisto di più di una
abitazione.
Ai fini della predetta agevolazione i contribuenti devono
inoltre considerare che gli interessi passivi relativi ai
contratti di mutuo stipulati per l'acquisto delle abitazioni
da concedere in locazione, hanno un loro autonomo limite di
deducibilità, ma vanno in ogni caso rapportati a una quota
capitale non superiore a 300 mila euro. Ai fini della loro
deducibilità gli interessi passivi rilevano secondo il
principio di cassa, contano cioè gli importi effettivamente
pagati, e non quelli maturati nel periodo d'imposta.
Condomini minimi.
Ammessi alla detrazione per gli interventi di recupero
edilizio e risparmio energetico anche i c.d. condomini
minimi, quelli cioè non in possesso del codice fiscale.
L'accesso alla detrazione trova, anche per queste tipologie
di condomini, il suo presupposto nel fatto che i bonifici
per i pagamenti dei lavori sulle parti comuni siano stati
assoggettati alla ritenuta da parte delle banche e delle
poste
(articolo ItaliaOggi del 03.03.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO: Dipendenti p.a..
Busta arancione in arrivo.
In arrivo 150 mila «buste arancioni» ai dipendenti pubblici.
Lo spiega l'Inps nel
messaggio
29.02.2016 n. 940. L'operazione fa
parte del progetto consolidamento della banca dati delle
posizioni assicurative dei dipendenti pubblici, avviato con
la circolare 124/2015. Completate le attività preventive di
sistemazione, l'Inps ha inviato le comunicazioni individuali
al primo contingente di circa 150 mila iscritti e ai
rispettivi datori di lavoro.
Per gli aspetti operativi e procedurali, l'istituto conferma
quanto illustrato nella citata circolare 124/2015, anche
relativamente alle modalità di accesso al servizio «Estratto
Conto», alla presentazione di richieste di variazione della
posizione assicurativa (Rvpa) e alle attività delle
strutture territoriali. Anche per questo contingente di
invii, l'Inps chiede agli enti datori di lavoro di fare da
tramite nel far pervenire ai propri dipendenti le
comunicazioni individuali relative alla disponibilità
dell'estratto conto, utilizzando l'account di posta
elettronica aziendale o istituzionale oppure con le altre
modalità ritenute più opportune.
L'indirizzo e-mail è utilizzabile soltanto se riconducibile
all'interessato (nome o iniziale e cognome); non saranno
presi in considerazione indirizzi riferiti a uffici o a
servizi. Gli iscritti che hanno comunicato all'Inps un
indirizzo e-mail, o il cui recapito di posta elettronica è
stato comunicato dall'ente di appartenenza, riceveranno la
comunicazione della disponibilità del servizio estratto
conto via posta elettronica.
Ciascun ente datore di lavoro riceverà, tramite pec (posta
elettronica certificata), i seguenti documenti: lettera
esplicativa dell'operazione con la richiesta di inoltrare ai
dipendenti interessati la comunicazione relativa alla
disponibilità dell'estratto conto; lettera standard per i
dipendenti; copia del messaggio n. 940/2016; file Excel con
l'elenco dei dipendenti interessati dall'invio
(articolo ItaliaOggi del 02.03.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO: Pa, limitato al 2015 il congedo parentale.
Welfare. Per la contribuzione figurativa secondo l’Inps.
Arrivano dopo
otto mesi dall’entrata in vigore del Dlgs 80/2015 i
chiarimenti dell’Inps in materia di congedo parentale per
gli iscritti alla gestione dipendenti pubblici.
Con la
circolare 23.02.2016 n. 40, l’istituto di
previdenza fornisce le indicazioni tecniche per la
comunicazione dei dati necessari ai fini dell’accredito
figurativo dei contributi per i periodi di congedo
parentale.
Le novità consistono nella possibilità di fruire
del congedo parentale (ex astensione facoltativa) fino ai
dodici anni di vita del minore o di ingresso dello stesso in
affidamento o in adozione nel nucleo familiare (prima gli
anni erano otto), sempreché permanga la minore età.
Inoltre, anche in assenza di contrattazione di settore, il
congedo parentale può essere fruito a ore. In realtà sarebbe
necessario parlare di mezza giornata, poiché la norma
prevede che, in assenza di previsioni contrattuali di
settore, la fruizione su base oraria è consentita in misura
pari alla metà dell’orario medio giornaliero del periodo di
paga quadrisettimanale o mensile immediatamente precedente a
quello nel corso del quale ha inizio il congedo parentale.
Vengono istituiti ulteriori codici di “Tipo servizio” utili
ai fini della compilazione della “ListaPosPA”, cioè quella
parte della denuncia mensile Uniemens che interessa gli
iscritti all’ex Inpdap. Durante il periodo di fruizione del
congedo parentale, la retribuzione viene ridotta al 30% e
poi viene azzerata.
Per la tredicesima mensilità, l’istituto non aveva finora
fornito i chiarimenti necessari, giunti con la circolare 40,
in cui si afferma che i datori di lavoro dovranno denunciare
la parte di tredicesima persa, indicando altresì il numero
dei mesi di riferimento della tredicesima mensilità. Ciò
crea problemi operativi in quegli enti che adottano il Ccnl
Regioni-Autonomie locali dove la tredicesima viene
corrisposta in 365esimi e pertanto non si può –in nessun
caso– far riferimento alla tredicesima su base mensile (è
il caso di segretari comunali, università, servizio
sanitario nazionale).
La circolare precisa altresì che la fruizione del congedo
parentale fra il 25.06.2015 e il 31.12.2015 è
coperta da contribuzione 0figurativa fino al 12esimo anno di
vita. Ciò appare in palese contrasto con le premesse della
circolare dove si cita espressamente il Dlgs 148/2015
inerente allo stanziamento dei fondi necessari a dare
copertura a tali misure di sostegno alla maternità anche
dopo il 2015, considerato che il Dlgs 80/2015 ne prevedeva
l’applicabilità solo al 2015.
Inoltre la circolare prevede che le ore fruite a titolo di
congedo parentale debbano essere rapportate a giorni.
Tuttavia, se la fruizione può avvenire solo a mezza giornata
(o a giornata intera), non appare possibile denunciare
valori decimali diversi dall’unità o da un cifra con
decimale 0,50, come invece riportato nella circolare. A ciò
deve aggiungersi che in fase di consultazione dell’estratto
conto dei dipendenti, le retribuzioni figurative ancora non
sono visualizzate (articolo Il Sole 24 Ore
dell'01.03.2016). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Distacco dal centralizzato sempre più difficile.
Molti dubbi dopo la legge 220 e le pronunce della Cassazione.
Impianti comuni. La richiesta resta elevata anche se
contraria al risparmio energetico.
Il «distacco»
piace ancora molto. Nonostante l’approssimarsi della scadenza
dell’obbligo di installare i contabilizzatori di calore, che
renderanno più individuale il consumo, la Cassazione e la
legge (da ultimo la riforma del 2012) si sono assiduamente
dedicate al problema.
Anzitutto va richiamata l’attenzione sull’articolo 4 del Dpr
59/2009 che afferma «in tutti gli edifici esistenti con più di
quattro unità abitative e in ogni caso per potenze nominali
del generatore di calore dell’impianto centralizzato
maggiore o uguale a 100 kW è preferibile il mantenimento di
impianti centralizzati laddove esistenti».
La norma precisa
anche che le cause tecniche o di forza maggiore per
ricorrere a eventuali interventi finalizzati alla
trasformazione dei centralizzati in impianti con generatore
di calore separata per singola unità abitativa devono essere
dichiarate nella relazione di cui al successivo comma 25
dello stesso Dpr 59/2009, cioè nella relazione attestante la
rispondenza delle prescrizioni per il contenimento del
consumo di energia degli edifici e relativi impianti termici
che, come prescritto dall’articolo 28, comma 1, della legge
10/1991, il proprietario dell’edificio deve depositare presso
le amministrazioni competenti insieme alla denuncia
dell’inizio dei lavori relativi alle opere di cui agli
articoli 25 e 26 della stessa legge n. 10/1991.
Nonostante tale esplicita dichiarazione legislativa di
preferenza per il centralizzato, una successiva pronuncia
della Cassazione (5331/2012) riaffermava il principio
secondo cui «il condomino può legittimamente rinunciare
all’uso del riscaldamento centralizzato e distaccare le
proprie diramazioni della sua unità abitativa senza
necessità di autorizzazione e approvazione degli altri
condomini. Fermo restando il suo obbligo di pagamento delle
spese per la conservazione dell’impianto, è tenuto a
partecipare a quelle di gestione se e nei limiti in cui il
suo distacco non si risolve in una diminuzione degli oneri
del servizio di cui continuano a godere gli altri
condomini». Veniva così affermato con questa pronuncia anche
un altro principio: quello della possibilità del rinunciante
a distaccarsi , anche in presenza di aggravi di spesa per
gli altri utenti, previo accollo di tale maggior onere
derivante dal distacco.
Tali principi, ispirati come già detto a un evidente favore
per il “distaccante”, sembrano poi, sostanzialmente anche se
non completamente, recepiti dalla legge 220/2012 che,
modificando l’articolo 1118 del Codice civile, quarto comma,
statuisce che: «il condomino può rinunciare all’utilizzo
dell’impianto centralizzato di riscaldamento o di
condizionamento se dal suo distacco non derivano notevoli
squilibri o aggravi di spesa per gli altri condomini. In tal
caso il rinunciante resta tenuto a concorrere al pagamento
delle sole spese per la manutenzione straordinaria
dell’impianto e per la sua conservazione e messa a norma».
Molti punti della norma sono tuttavia parsi subito poco
chiari dando luogo a sostanziali contrasti interpretativi.
In primo luogo ci si è chiesti e ci si chiede se l’aggettivo
«notevoli» si riferisca solo agli squilibri o anche agli
aggravi di spesa: se l’aggettivo si riferisce solo agli
squilibri, interpretazione che sarebbe preferibile alla luce
dell’uso del disgiuntivo “o” anziché della congiunzione “e”,
si arriverebbe a un’interpretazione che rende di fatto il
distacco irrealizzabile o difficilmente realizzabile, poiché
un aggravio qualsivoglia deriva sempre e comunque dal
distacco del singolo.
Resta anche un altro dubbio sostanziale: se possa trovare
applicazione anche oggi l’orientamento della Cassazione,
formatosi quando non esisteva alcuna norma sul distacco, sul
fatto che, in presenza di aggravi di spesa per gli altri
condòmini, il distacco stesso possa ritenersi legittimo
qualora l’aspirante ”distaccante” si accolli l’aggravio, di
qualunque entità esso sia, notevole o minimo.
Va infine aggiunto che nel frattempo molte legislazioni
regionali (per esempio la legge della Regione Piemonte
13/2007), accogliendo il suggerimento del legislatore del
2009 e mostrando di aderire in modo netto e incondizionato
all’orientamento contrario all’installazione di impianti
autonomi individuali (in quanto contrari alla finalità del
risparmio energetico e del contenimento dei consumi), hanno
emanato normative che vietano tale installazione quando le
unità immobiliari nel condominio siano superiori a un certo
numero, di volta in volta diverso, a seconda della
legislazione regionale.
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Occorre la diagnosi energetica.
L’incidenza dei costi. Un decreto impone calcoli che
scoraggiano l’intervento.
Le difficoltà
per chi intende abbandonare l’impianto centralizzato sono
aumentate di recente con la normativa contenuta nel decreto
dello Sviluppo economico del 26.06.2015 intitolato che,
all’allegato 1, punto 5.3. prevede che , «nel caso di
ristrutturazione o di nuova installazione di impianti
termici di potenza tecnica monomiale del generatore maggiore
o uguale a 100 kW e anche nel caso di distacco dall’impianto
centralizzato di un solo utente/condomino deve essere
eseguita una diagnosi energetica dell’edificio e
dell’impianto che metta a confronto le diverse soluzioni
impiantistiche compatibili e la loro efficacia sotto il
profilo dei costi complessivi, cioè investimento, esercizio
e manutenzione».
La disposizione introduce importanti elementi di novità
rispetto al passato. Infatti, chi intenda distaccarsi
dovrebbe preventivamente far eseguire a sue spese una
diagnosi energetica (quindi non una mera perizia tecnica).
Questa diagnosi (che deve riguardare non solo l’impianto ma
anche l’edificio) avrebbe lo scopo di rendere evidente
quanto il distacco possa incidere sui costi complessivi e se
esso possa determinare o meno disfunzioni nell’impianto o
spese eccessive per gli altri condomini. La norma precisa
anche che la diagnosi energetica deve considerare una serie
di soluzioni alternative come ad esempio quella
dell’impianto centralizzato dotato di caldaia a
condensazione con contabilizzazione e termoregolazione del
calore per singola unità abitativa.
Il problema è, però, come possa un decreto ministeriale,
norma secondaria, legittimamente introdurre modifiche di
questa portata a una norma primaria quale l’articolo 1118,
comma 4, del Codice civile, che non fa il benché minimo
riferimento a diagnosi energetiche obbligatorie e tanto meno
a diagnosi aventi a oggetto non solo l’impianto, ma
addirittura l’intero edificio e introducendo quindi a carico
dei cittadini obblighi e oneri non previsti dalla normativa
primaria.
Va poi evidenziato che alcuni problemi in materia di
distacco possono sorgere anche alla luce della nuova
normativa contenuta nel Dlgs 102/2014. Secondo calcoli
recentemente effettuati, la riqualificazione del
centralizzato richiede a ogni condòmino investimenti
inferiori a quelli necessari per operare il distacco e per
la realizzazione dell’autonomo.
Al costo per l’investimento bisogna inoltre aggiungere la
partecipazione alle spese condominiali per la qualificazione
del centralizzato, che fanno ulteriormente salire il costo
complessivo della soluzione dell’impianto autonomo.
Circostanze che sembrano rendere il distacco meno
conveniente, senza tener conto delle spese per le valvole
termostatiche e la contabilizzazione, alle quali il
distaccante dovrà comunque partecipare, come in genere a
tutte le spese di messa a norma e straordinaria manutenzione
e conservazione (articolo Il Sole 24 Ore
dell'01.03.2016). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI:
Locali per spettacoli pubblici, autorizzazione valida solo
se la commissione di vigilanza è al completo.
La commissione comunale (o provinciale)
di vigilanza sui locali per gli spettacoli pubblici,
disciplinata dall'articolo 80 del Tulps, è un collegio
perfetto, per la cui valida costituzione delle sedute
occorre la presenza fisica di tutti i componenti e il cui
parere va reso per iscritto congiuntamente.
È, invece, possibile che i componenti titolari, in caso di
impedimento temporaneo e non permanente, possano farsi
sostituire da membri supplenti individuati nel provvedimento
di nomina e non da ulteriori soggetti delegati da loro
stessi, perché ciò renderebbe superfluo l'atto di nomina
quale componente dell'organismo che ha validità triennale.
Infine, è rilevante in seno alla commissione il ruolo del
rappresentante del Comando provinciale dei Vigili del Fuoco,
legittimato non solo a rendere il parere quale componente
del collegio ma anche a rilasciare il certificato di
prevenzione contro gli incendi ex Dpr 151/2011.
Il caso sottoposto al ministero
A precisarlo, con il
parere 11.12.2015 n. 557 di prot., è il Ministero
dell'Interno - Dipartimento della Pubblica Sicurezza,
interpellato da un Comune in ordine a quanto ottenuto in
occasione di una seduta della Commissione, convocata dal
Sindaco per l'esame di un'istanza volta a ottenere
l'autorizzazione di pubblici spettacoli ex articolo 68 del
Tulps (nella specie si trattava dello stadio).
Era accaduto che il referente dei Vigili del Fuoco non aveva
materialmente preso parte alla seduta della Commissione,
inviando tuttavia al Presidente una preventiva nota scritta
recante il parere di competenza. Conseguentemente il Comune
chiedeva al Viminale se la seduta fosse valida a causa
dell'assenza fisica del soggetto convocato.
Per il Ministero evidentemente no.
Il parere
La presa di posizione ministeriale interviene su una delle
numerose questioni aperte, spinose e spesso fonte di errate
interpretazioni da parte degli addetti ai lavori nell'ambito
della materia dei pubblici spettacoli, che richiedono per il
loro svolgimento due autorizzazioni del Comune. Una ex
articolo 68 del Tulps sullo spettacolo, che costituisce
un'autorizzazione di tipo personale in quanto rilasciata
all'organizzatore dell'evento previa verifica dei requisiti
morali.
L'altra ex articolo 80 del Tulps, non sostituibile da Scia,
sui locali o sui luoghi in cui si svolge la manifestazione,
che costituisce un'autorizzazione di tipo reale, cioè sulla
res e cioè il locale appunto, previo parere
favorevole espresso dalla commissione di vigilanza composta
dal Sindaco o suo delegato, dirigente della polizia locale o
suo delegato, dirigente dell'ufficio tecnico comunale o suo
delegato, dirigente dell'Asl o suo delegato, dirigente del
Comando Provinciale dei Vigili del Fuoco o suo delegato,
infine esperto di elettronica e, all'occorrenza, anche un
esperto di acustica, oltre ai rappresentanti delle
organizzazioni di categoria.
La Commissione è tenuta normalmente a riunirsi due volte: la
prima sull'esame preventivo del progetto e l'altra,
all'esito del montaggio della struttura e degli impianti, in
sede di sopralluogo, salvo il caso di cui al Dpr 311/2001
per eventi fino a 200 posti in cui è sufficiente la
relazione asseverata di un tecnico attestante la sussistenza
delle condizioni tecnico-impiantistiche per lo svolgimento
dell'evento.
Precisa il Viminale, essendo la commissione un collegio
perfetto è richiesto per il quorum di validità delle
sue sedute la presenza fisica totalitaria di tutti i
componenti, infungibile con la trasmissione di un parere
scritto in assenza di un confronto contestuale con tutti gli
altri componenti.
Va inoltre aggiunto in materia che il membro effettivo può
effettuare la delega al solo supplente e non ad altri. Per
esempio, il dirigente del comando provinciale dei vigili del
fuoco non può delegare il responsabile dell'ufficio tecnico
comunale, ma solo un funzionario apicale della sua
amministrazione.
Sul presupposto per cui la delega cui si riferisce il Dpr
311/2001, in assenza di diverse espresse disposizioni di
legge, è solo quella interorganica, cioè all'interno dello
stesso ente e non intersoggettiva, cioè fra enti diversi,
che è invece possibile solo se espressamente previsto da una
legge. Come per esempio accade per l'articolo 146 del Codice
del paesaggio che prevede la delega nel rilascio
dell'autorizzazione paesaggistica dalla Regione al Comune in
possesso dei necessari requisiti (18.02.2016 - tratto
da www.quotidianoentilocali.ilsole24ore.com). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: Strada
vicinale, quando sussiste il diritto di uso pubblico?
Le caratteristiche indispensabili della servitù di uso
pubblico in una sentenza del Tar Lombardia-Milano.
La costante giurisprudenza amministrativa, che il
Tar Lombardia condivide nella sentenza n. 507/2016, afferma
che affinché il diritto di uso pubblico della strada possa
ritenersi sussistente “occorre che il bene privato sia
idoneo ed effettivamente destinato al servizio di una
collettività indeterminata di soggetti considerati uti cives,
ossia quali titolari di un pubblico interesse di carattere
generale, e non uti singuli, ossia quali soggetti che si
trovano in una posizione qualificata rispetto al bene
gravato”.
Tale indirizzo è perfettamente conforme a quello della
Cassazione, nel quale ha da ultimo ribadito che la
servitù di uso pubblico è caratterizzata dall’utilizzazione
da parte di una collettività indeterminata di persone del
bene privato idoneo al soddisfacimento di un interesse della
stessa.
Caratteristiche indispensabili di questo diritto sono:
1. il passaggio esercitato iure servitutis pubblicae,
da una collettività di persone qualificate dall'appartenenza
ad un gruppo territoriale;
2. la concreta idoneità del bene a soddisfare esigenze di
carattere generale, anche per il collegamento con la
pubblica via;
3. un titolo valido a sorreggere l’affermazione del diritto
di uso pubblico, che può anche identificarsi nella
protrazione dell’uso da tempo immemorabile.
La destinazione delle strade vicinali “ad uso pubblico”,
imposta dal codice della strada di cui al d.lgs. n. 285/1992
(art. 3, comma 1, n. 52) fa sì che queste debbano
necessariamente interessate da un transito generalizzato,
tale per cui, a fronte della proprietà privata del sedime
stradale e dei relativi accessori e pertinenze (spettante ai
proprietari dei fondi latistanti), l’ente pubblico comunale
possa vantare su di essa, ai sensi dell’art. 825 cod. civ.,
un diritto reale di transito, con correlativo dovere di
concorrere alle spese di manutenzione della stessa (pro
quota rispetto al consorzio privato di gestione ai sensi
dell’art. 3 D.lgs.lgt. n. 1446/1918, “Facoltà agli utenti
delle strade vicinali di costituirsi in Consorzio per la
manutenzione e la ricostruzione di esse”), onde
garantire la sicurezza della circolazione che su di essa si
realizza.
Non è quindi sufficiente che l’utilizzo della strada avvenga
in favore di proprietari di fondi vicini, né di personale
dei consorzi irrigui incaricati della gestione del canale
(commento tratto da www.casaeclima.com).
---------------
Affinché il diritto di uso pubblico della strada possa
ritenersi sussistente <<occorre che il bene privato sia
idoneo ed effettivamente destinato al servizio di una
collettività indeterminata di soggetti considerati uti cives,
ossia quali titolari di un pubblico interesse di carattere
generale, e non uti singuli, ossia quali soggetti che si
trovano in una posizione qualificata rispetto al bene
gravato.
L’indirizzo ora citato è perfettamente conforme a quello
della Cassazione, nel quale ha da ultimo ribadito che la
servitù di uso pubblico è caratterizzata dall’utilizzazione
da parte di una collettività indeterminata di persone del
bene privato idoneo al soddisfacimento di un interesse della
stessa.
Caratteristiche indispensabili di questo diritto sono:
1. il passaggio esercitato iure servitutis pubblicae, da una
collettività di persone qualificate dall'appartenenza ad un
gruppo territoriale;
2. la concreta idoneità del bene a soddisfare esigenze di
carattere generale, anche per il collegamento con la
pubblica via;
3. un titolo valido a sorreggere l’affermazione del diritto
di uso pubblico, che può anche identificarsi nella
protrazione dell’uso da tempo immemorabile.
Va poi soggiunto che la destinazione delle strade vicinali
“ad uso pubblico”, imposta dal codice della strada di cui al
d.lgs. n. 285/1992 (art. 3, comma 1, n. 52) fa sì che queste
debbano necessariamente interessate da un transito
generalizzato, tale per cui, a fronte della proprietà
privata del sedime stradale e dei relativi accessori e
pertinenze (spettante ai proprietari dei fondi latistanti),
l’ente pubblico comunale possa vantare su di essa, ai sensi
dell’art. 825 cod. civ., un diritto reale di transito, con
correlativo dovere di concorrere alle spese di manutenzione
della stessa (pro quota rispetto al consorzio privato di
gestione ai sensi dell’art. 3 D.lgs.lgt. n. 1446/1918,
“Facoltà agli utenti delle strade vicinali di costituirsi in
Consorzio per la manutenzione e la ricostruzione di esse”),
onde garantire la sicurezza della circolazione che su di
essa si realizza.
Non è dunque sufficiente che l’utilizzo della strada avvenga
in favore di proprietari di fondi vicini, né di personale
dei consorzi irrigui incaricati della gestione del canale>>
---------------
... per l’annullamento
●
quanto al ricorso n. 3588 del 2014:
- dell’ordinanza n. 95 dell’11.12.2014, notificata il 18.12.2014,
con la quale il Sindaco di Teglio ha ordinato al ricorrente
di astenersi da qualsiasi comportamento che possa recare
ostacolo o comunque modificare l’originaria possibilità di
pubblico transito lungo il tratto di strada vicinale
indicato nelle premesse, rimuovendo ogni opera o segnaletica
idonee a pregiudicare la piena fruizione pubblica della
strada vicinale, il tutto entro il termine perentorio di 15
giorni decorrenti dal ricevimento dell’ordinanza, avvertendo
che in caso di mancata ottemperanza entro il termine di cui
sopra, il ripristino sarebbe stato attuato d’ufficio,
ponendo le relative spese a carico degli inadempienti;
- nonché di ogni altro atto o provvedimento alle stesse
presupposto, conseguente o comunque connesso;
●
quanto al ricorso n. 868 del 2015:
- del provvedimento 01.04.2015 prot. n. 2975, concernente il
divieto di prosecuzione dell’attività e di rimozione di una
recinzione in rete metallica e paletti;
- nonché di ogni altro atto allo stesso presupposto, conseguente o
comunque connesso ivi inclusa l’ordinanza 23.03.2015 n. 2356
e la comunicazione del Comune di Teglio 27.02.2015 n. 1737,
nonché ogni norma contenuta nel PGT da cui possa emergere
che la recinzione sia non conforme alla previsione del PGT
stesso approvato in data 24.07.2013 e, occorrendo,
specificamente, l’art. 13 delle NTA del PdS e relativa
tavola inviata in data 13.04.2015 in risposta all’istanza di
accesso agli atti inviata il 13.04.2015.
...
6. Passando all’esame del merito dei ricorsi, possono essere
esaminate congiuntamente le censure aventi carattere
assorbente, contenute in entrambi i gravami, attraverso le
quali si eccepisce l’illegittimità dei provvedimenti
comunali inibitori, in ragione della non classificabilità,
quale strada vicinale ad uso pubblico, della fascia di
terreno prospiciente l’abitazione del ricorrente.
6.1. Va premesso che i provvedimenti impugnati con entrambi
i ricorsi –ovvero l’ordinanza sindacale n. 95 dell’11.12.2014, con cui si impone al ricorrente di rimuovere
qualsiasi opera in grado di impedire il pubblico transito
nella strada vicinale situata nel terreno di sua proprietà e
il provvedimento comunale del 01.04.2015 prot. n. 2975,
concernente il divieto di prosecuzione dell’attività e di
rimozione di una recinzione in rete metallica e paletti–
sono motivati sostanzialmente con la circostanza che la
recinzione impedirebbe il transito su un’area destinata a
strada di uso pubblico, non essendo state invece indicate le
ragioni del contrasto della predetta recinzione con le
previsioni del PGT, solo genericamente affermata nel secondo
provvedimento.
A ciò consegue che non assume rilievo
determinate la circostanza fattuale, su cui le parti
sembrano in disaccordo, in ordine alla identità o meno della
recinzione originaria con quella di cui alla SCIA del 27.03.2015 (c.d. intervento 1 e 2) e non appare nemmeno
decisiva l’assenza di un titolo idoneo per realizzare la
recinzione, visto che nel primo provvedimento comunale tale
aspetto non viene in rilievo.
6.2. Il Comune di Teglio, per affermare la natura di strada
vicinale ad uso pubblico del terreno di proprietà del
ricorrente su cui è stata apposta la recinzione, ha
evidenziato come il predetto tratto stradale risulterebbe
notoriamente utilizzato dalla collettività –sia a piedi che
con automezzi prevalentemente ad uso agricolo– da tempo
immemore, come dimostrato altresì dalle numerose
dichiarazioni di cittadini e confermato dalle risultanze
documentali del sistema informativo territoriale della
Regione Lombardia, in particolare dalla Carta tecnica
regionale del 1981 e dai coevi rilievi aerofotogrammetrici.
Inoltre il tratto stradale in questione soddisferebbe
esigenze di carattere generale giacché, oltre a collegare le
strade comunali Via San Giacomo per Carona e Via delle
Tavole, farebbe parte di un sistema di viabilità secondaria
particolarmente importante per una realtà montana, avente
caratteristiche morfologiche peculiari, e sarebbe destinato
garantire la migliore fruizione possibile del territorio.
6.3. Come evidenziato dalla costante giurisprudenza
amministrativa, che il Collegio condivide, affinché il
diritto di uso pubblico della strada possa ritenersi
sussistente <<occorre che il bene privato sia idoneo ed
effettivamente destinato al servizio di una collettività
indeterminata di soggetti considerati uti cives, ossia quali
titolari di un pubblico interesse di carattere generale, e
non uti singuli, ossia quali soggetti che si trovano in una
posizione qualificata rispetto al bene gravato (Sez. V,
14.02.2012 n. 728; in senso conforme: Sez. IV, 15.05.2012,
n. 2760; Sez. V, 05.12.2012, n. 6242, quest’ultima citata
dall’appellante).
L’indirizzo ora citato è perfettamente conforme a quello
della Cassazione, nel quale ha da ultimo ribadito che la
servitù di uso pubblico è caratterizzata dall’utilizzazione
da parte di una collettività indeterminata di persone del
bene privato idoneo al soddisfacimento di un interesse della
stessa (Sez. II, sentenza del 10.01.2011, n. 333).
Caratteristiche indispensabili di questo diritto sono:
1. il passaggio esercitato iure servitutis pubblicae, da una
collettività di persone qualificate dall'appartenenza ad un
gruppo territoriale;
2. la concreta idoneità del bene a soddisfare esigenze di
carattere generale, anche per il collegamento con la
pubblica via;
3. un titolo valido a sorreggere l’affermazione del diritto
di uso pubblico, che può anche identificarsi nella
protrazione dell’uso da tempo immemorabile.
Va poi soggiunto che la destinazione delle strade vicinali
“ad uso pubblico”, imposta dal codice della strada di cui al
d.lgs. n. 285/1992 (art. 3, comma 1, n. 52) fa sì che queste
debbano necessariamente interessate da un transito
generalizzato, tale per cui, a fronte della proprietà
privata del sedime stradale e dei relativi accessori e
pertinenze (spettante ai proprietari dei fondi latistanti),
l’ente pubblico comunale possa vantare su di essa, ai sensi
dell’art. 825 cod. civ., un diritto reale di transito, con
correlativo dovere di concorrere alle spese di manutenzione
della stessa (pro quota rispetto al consorzio privato di
gestione ai sensi dell’art. 3 D.lgs.lgt. n. 1446/1918,
“Facoltà agli utenti delle strade vicinali di costituirsi in
Consorzio per la manutenzione e la ricostruzione di esse”),
onde garantire la sicurezza della circolazione che su di
essa si realizza.
Non è dunque sufficiente che l’utilizzo della strada avvenga
in favore di proprietari di fondi vicini, né di personale
dei consorzi irrigui incaricati della gestione del canale>>
(Consiglio di Stato, V, 19.04.2013, n. 2218).
Nel caso di specie, il Comune, pur evidenziando l’assenza di
un elenco di strade ad uso pubblico, ha cercato di
dimostrare la sussistenza dell’uso pubblico con le
dichiarazioni rese da alcuni cittadini e con il riferimento
alla documentazione ricavabile dal sistema cartografico
regionale. Quanto a quest’ultimo aspetto va evidenziato come
il riferimento risulti assolutamente generico e quindi
inidoneo a fungere da prova dell’uso pubblico della strada.
Con riguardo invece alla dichiarazione resa da un gruppo di
cittadini (all. 8 del Comune al ricorso R.G. n. 3588/2014) e
prescindendo dalla loro concreta identificabilità (sul
valore probatorio di tali dichiarazioni, cfr. TAR Lombardia,
Brescia, I, 28.03.2015, n. 473), va evidenziato come nella
stessa si afferma che “tale opera (ovvero la recinzione)
impedisce ai proprietari di raggiungere i propri terreni
percorrendo la strada interpoderale su cui, da più di 50
anni, esiste un passaggio mappato”. Ciò non sembra
concretare il presupposto dell’utilizzo generalizzato della
strada, quanto piuttosto un uso da parte dei proprietari dei
fondi contigui. Inoltre, il ricorrente ha allegato al
ricorso delle dichiarazioni di alcuni cittadini residenti o
abitanti a Teglio che smentiscono quanto affermato dal
Comune (all. 6 al ricorso R.G. n. 3588/2014).
Anche dalle fotografie prodotte in giudizio dal Comune (all.
6) non si è in grado di stabilire se la strada sia
effettivamente oggetto di un transito generalizzato, vista
la sua collocazione tra un fabbricato e altri manufatti, da
cui potrebbero scaturire problemi di sicurezza sia per
coloro che transitano sia per coloro che abitano in loco o
lo frequentano (in tal senso, Consiglio di Stato, VI,
10.05.2013, n. 2544; sul contesto in cui dovrebbero essere
collocate le strade ad uso pubblico, TAR Lombardia, Brescia,
I, 28.03.2015, n. 473).
6.4. Pertanto, non può dirsi provato con certezza l’uso
pubblico della strada e nemmeno l’esistenza stessa di un
tratto viario idoneo a consentire il passaggio di automezzi
(cfr. le fotografie allegate al ricorso R.G. n. 3588/2014;
sulla necessità di una compiuta ed esauriente istruttoria in
tali fattispecie, cfr. Consiglio di Stato, V, 23.09.2015, n.
4450; TAR Lombardia, Brescia, I, 28.03.2015, n. 473).
6.5. In senso contrario, non appaiono dirimenti nemmeno le
ulteriori considerazioni contenute nella memoria del Comune
resistente, attesa la loro non decisività e comunque
configurabili alla stregua di una motivazione postuma,
generalmente non ammessa in sede giurisdizionale (TAR
Lombardia, Milano, III, 05.03.2015, n. 628).
6.6. Pertanto, le scrutinate censure devono ritenersi
fondate (TAR Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 11.03.2016 n. 507 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Il provvedimento impugnato –ossia
l’ordinanza sindacale con cui si impone al ricorrente di
rimuovere qualsiasi opera in grado di impedire il pubblico
transito nella strada vicinale situata nei pressi della sua
abitazione– non menziona alcuno specifico soggetto
beneficiario dello stesso, quindi non ci si trova al
cospetto di controinteressati in senso formale.
Nemmeno si può ritenere l’esistenza di soggetti
controinteressati, intesi in senso sostanziale, visto che,
secondo la consolidata giurisprudenza, tale qualità <<va
riconosciuta non già a chi abbia un interesse, anche
legittimo, a mantenere in vita il provvedimento impugnato e
tanto meno a chi ne subisca conseguenze soltanto indirette o
riflesse, ma solo a chi dal provvedimento medesimo riceva un
vantaggio diretto e immediato, ossia un positivo ampliamento
della propria sfera giuridica.
Secondo tale orientamento il riconoscimento della qualità di
controinteressato non opera in relazione ad esigenze
processuali, ma deve essere condotto sulla scorta del
combinato di due elementi: quello cosiddetto “sostanziale”,
che richiede l’individuazione della titolarità di un
interesse analogo e contrario alla posizione legittimante
del ricorrente e quello cosiddetto “formale”, che richiede
l’indicazione nominativa nel provvedimento di colui che ne
abbia un interesse qualificato alla conservazione.
La trasposizione alla materia edilizia di questo principio
ha condotto la giurisprudenza ad affermare che in sede di
impugnazione di provvedimenti sanzionatori “non sono
configurabili controinteressati nei confronti dei quali sia
necessario instaurare un contraddittorio, anche nel caso in
cui sia palese la posizione di vantaggio che scaturirebbe
per il terzo dall’esecuzione della misura repressiva ed
anche quando il terzo avesse provveduto a segnalare
all’amministrazione l’illecito edilizio da altri
commesso”>>.
---------------
... per l’annullamento
●
quanto al ricorso n. 3588 del 2014:
- dell’ordinanza n. 95 dell’11.12.2014, notificata il 18.12.2014,
con la quale il Sindaco di Teglio ha ordinato al ricorrente
di astenersi da qualsiasi comportamento che possa recare
ostacolo o comunque modificare l’originaria possibilità di
pubblico transito lungo il tratto di strada vicinale
indicato nelle premesse, rimuovendo ogni opera o segnaletica
idonee a pregiudicare la piena fruizione pubblica della
strada vicinale, il tutto entro il termine perentorio di 15
giorni decorrenti dal ricevimento dell’ordinanza, avvertendo
che in caso di mancata ottemperanza entro il termine di cui
sopra, il ripristino sarebbe stato attuato d’ufficio,
ponendo le relative spese a carico degli inadempienti;
- nonché di ogni altro atto o provvedimento alle stesse
presupposto, conseguente o comunque connesso;
●
quanto al ricorso n. 868 del 2015:
- del provvedimento 01.04.2015 prot. n. 2975, concernente il
divieto di prosecuzione dell’attività e di rimozione di una
recinzione in rete metallica e paletti;
- nonché di ogni altro atto allo stesso presupposto, conseguente o
comunque connesso ivi inclusa l’ordinanza 23.03.2015 n. 2356
e la comunicazione del Comune di Teglio 27.02.2015 n. 1737,
nonché ogni norma contenuta nel PGT da cui possa emergere
che la recinzione sia non conforme alla previsione del PGT
stesso approvato in data 24.07.2013 e, occorrendo,
specificamente, l’art. 13 delle NTA del PdS e relativa
tavola inviata in data 13.04.2015 in risposta all’istanza di
accesso agli atti inviata il 13.04.2015.
...
1. In via preliminare va disposta la riunione dei ricorsi,
in quanto connessi oggettivamente e soggettivamente,
trattandosi di una controversia relativa alla stessa
questione fattuale, ovvero la posizione di una rete di
recinzione a chiusura di una strada qualificata come
vicinale ad uso pubblico, e intercorrente tra le stesse
parti.
2. Nelle controversie de quibus sussiste certamente
la giurisdizione di questo Tribunale, atteso che il giudice
amministrativo può conoscere in via incidentale di diritti
soggettivi quando tale sindacato è necessario per accertare
la legittimità di un provvedimento amministrativo. Difatti,
la verifica in ordine alla esistenza di una servitù di uso
pubblico sulla strada in esame è finalizzata a stabilire se
i provvedimenti comunali impugnati siano o meno legittimi
(Consiglio di Stato, VI, 10.05.2013, n. 2544).
3. Sempre in via preliminare va esaminata l’eccezione di
inammissibilità delle memorie, una per ogni ricorso,
depositate dal Comune il 22.12.2015, in quanto non sarebbe
stato rispettato il termine di cui all’art. 73, comma 1,
cod. proc. amm..
3.1. L’eccezione è fondata.
Le memorie prodotte dalla difesa comunale, in vista
dell’udienza del 21.01.2016, sono state depositate in data
22 dicembre, ossia non rispettando il termine di trenta
giorni liberi prima dell’udienza di trattazione della
controversia, come stabilito dall’art. 73, comma 1, cod.
proc. amm., che consente, il deposito delle memorie fino a
trenta giorni liberi prima dell’udienza e delle memorie di
replica fino a venti giorni liberi antecedenti (TAR
Lombardia, Milano, IV, 29.01.2013, n. 259).
3.2. Pertanto, tali memorie non possono essere prese in
considerazione.
4. Ancora in via preliminare, va esaminata l’eccezione di
inammissibilità del ricorso R.G. n. 3588 del 2014, formulata
dalla difesa comunale, per mancata evocazione in giudizio di
almeno un controinteressato, non risultando idonea
l’integrazione successiva al termine di proposizione del
ricorso.
4.1. L’eccezione è infondata.
Il provvedimento impugnato –ossia l’ordinanza sindacale n.
95 dell’11.12.2014, con cui si impone al ricorrente di
rimuovere qualsiasi opera in grado di impedire il pubblico
transito nella strada vicinale situata nei pressi della sua
abitazione– non menziona alcuno specifico soggetto
beneficiario dello stesso, quindi non ci si trova al
cospetto di controinteressati in senso formale.
Nemmeno si può ritenere l’esistenza di soggetti
controinteressati, intesi in senso sostanziale, visto che,
secondo la consolidata giurisprudenza, tale qualità <<va
riconosciuta non già a chi abbia un interesse, anche
legittimo, a mantenere in vita il provvedimento impugnato e
tanto meno a chi ne subisca conseguenze soltanto indirette o
riflesse, ma solo a chi dal provvedimento medesimo riceva un
vantaggio diretto e immediato, ossia un positivo ampliamento
della propria sfera giuridica.
Secondo tale orientamento il riconoscimento della qualità di
controinteressato non opera in relazione ad esigenze
processuali, ma deve essere condotto sulla scorta del
combinato di due elementi: quello cosiddetto “sostanziale”,
che richiede l’individuazione della titolarità di un
interesse analogo e contrario alla posizione legittimante
del ricorrente e quello cosiddetto “formale”, che richiede
l’indicazione nominativa nel provvedimento di colui che ne
abbia un interesse qualificato alla conservazione.
La trasposizione alla materia edilizia di questo principio
ha condotto la giurisprudenza ad affermare che in sede di
impugnazione di provvedimenti sanzionatori “non sono
configurabili controinteressati nei confronti dei quali sia
necessario instaurare un contraddittorio, anche nel caso in
cui sia palese la posizione di vantaggio che scaturirebbe
per il terzo dall’esecuzione della misura repressiva ed
anche quando il terzo avesse provveduto a segnalare
all’amministrazione l’illecito edilizio da altri commesso”>>
(Consiglio di Stato, VI, 16.07.2015, n. 3553).
4.2. Ciò determina il rigetto della predetta eccezione (TAR Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 11.03.2016 n. 507 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Concreta esercizio abusivo di una professione,
punibile a norma dell’art. 348 cod. pen., il compimento
senza titolo, anche se posto in essere occasionalmente e
gratuitamente, di atti da ritenere attribuiti in via
esclusiva a una determinata professione.
--------------
1. Il ricorso è inammissibile per le ragioni di seguito
illustrate.
2. Manifestamente infondata è la censura relativa alla
erronea applicazione dell'art. 348 cod. pen.
Il principio invocato dal ricorrente (Sez. U, n. 11545 del
15/12/2011, Cani, Rv. 251819) è stato invero affermato dalle
Sezioni Unite in relazione alla configurabilità del reato di
esercizio abusivo della professione in presenza del
compimento di atti, che, pur di competenza di una
determinata professione, non siano attribuiti ad essa in via
esclusiva. In tal caso, il Supremo Consesso ha ritenuto
dirimenti le modalità con cui tali atti siano realizzati: le
stesse, per continuatività, onerosità e (almeno minimale)
organizzazione, devono creare le oggettive apparenze di
un'attività professionale svolta da soggetto regolarmente
abilitato.
Le Sezioni Unite nella medesima sentenza hanno invece
ribadito che concreta esercizio abusivo di una professione,
punibile a norma dell'art. 348 cod. pen., il compimento
senza titolo, anche se posto in essere occasionalmente e
gratuitamente, di atti da ritenere attribuiti in via
esclusiva a una determinata professione.
E tale è il caso in esame, nel quale l'imputato ha posto in
essere atti tipici -come in premessa indicati- della
professione forense, ad essa attribuiti in via esclusiva e
quindi riservati a chi legittimamente tale professione può
esercitare (Corte
di Cassazione, Sez. VI,
sentenza
10.03.2016 n. 9957). |
EDILIZIA PRIVATA:
La demolizione non è una sanzione.
Cassazione. I giudici italiani in contrasto con la Corte
dei diritti dell’uomo.
Un modesto
intervento abusivo nell’isola d’Ischia è l’occasione per
delimitare i confini tra la Corte di cassazione e la Corte
europea dei diritti dell’uomo.
Con la
sentenza 10.03.2016 n. 9949
(tratta da www.lexambiente.it) la III Sez. penale della
Corte di Cassazione utilizza un banale abuso edilizio per
rivendicare la generica possibilità che la magistratura
penale possa disporre la demolizione di opere illegittime.
Demolizione e confisca possono infatti essere disposte dal
giudice penale anche senza una sentenza di condanna.
Spesso accade che i reati urbanistici, in quanto
contravvenzioni (e non delitti) si prescrivano in termini
brevi (4 anni, che diventano 5 se nei quattro anni inizia un
procedimento penale). Il giudice penale, quindi, deve
dichiarare estinto il reato, ma può sempre disporre la
demolizione o la confisca (in caso di lottizzazione)
dell’immobile abusivo.
Queste sanzioni, tuttavia, sembrano
contrastare con la Convenzione sui diritti dell’uomo che,
nell’articolo 7 e nell’articolo 1 del Protocollo n. 1
consentono pene afflittive solo se vi è una condanna penale.
Se il reato è prescritto, osservano i giudici europei, non
vi è condanna penale e, in conseguenza, non è possibile che
il giudice penale intervenga sugli immobili. Avviene così
che, tutte le volte che un magistrato penale ha disposto la
confisca di immobili abusivi, i costruttori hanno utilizzato
la scappatoia della prescrizione per sottrarsi
all’eliminazione del bene. Un diverso potere sanzionatorio
spetta ai Comuni, ma è nota l’inerzia di tali enti.
L’antagonismo tra l’autorità giudiziaria italiana e la Corte
europea dei diritti dell’uomo è giunto a livelli
incandescenti: la nostra Corte costituzionale nel marzo 2015
(sentenza 49) ha sottolineato che il giudice penale può
confiscare immobili abusivi anche in presenza di reati
prescritti, qualora la responsabilità penale sia stata
accertata in tutti i suoi elementi (e quindi anche se manca
una sentenza di condanna). In senso opposto, si è espressa
la Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo
sui ricorsi 19029/2011, 34163/2007 e 1828/2006.
I giudici nazionali, e in particolare la Cassazione (anche
in questa sentenza), puntano ora sulla natura amministrativa
della confisca, che quindi potrebbe avvenire anche senza una
condanna penale. La confisca, secondo i giudici nazionali, è
impermeabile a tutte le vicende estintive del reato e della
pena: si confisca anche in caso di amnistia ed indulto, e
finanche se muore il reo (dopo una sentenza irrevocabile).
Di fatto, quindi, i giudici penali intendono difendere a
spada tratta l’assetto del territorio, compensando i brevi
termini dell’estinzione del reato con la possibilità di
confiscare o demolire l’immobile abusivo anche quando il
reato è prescritto.
Ma altrettanto intransigente è la Corte
dei diritti dell’uomo che non entra nel merito della
pesantezza della sanzione penale, perché richiede che
l’eliminazione dell’immobile sia la conseguenza di un
accertamento effettivo, avvenuto con sentenza. L’abuso
nell’isola d’Ischia sarà quindi demolito a meno che i
giudici di Strasburgo non intervengano sul governo centrale (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.03.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).
---------------
MASSIMA
In tema di reati edilizi, e
specificamente in materia di ripristino o demolizione dello
stato dei luoghi anteriore alla realizzazione del fabbricato
abusivo, l’ordine di demolizione previsto dall’art. 31,
ultimo comma, d.P.R. n. 380/2001 costituisce atto dovuto,
espressivo di un potere autonomo e non meramente suppletivo
del giudice penale.
Esso pertanto, ferma restando l’esigenza di coordinamento in
fase esecutiva, non si pone in rapporto alternativo con
l’ordine omologo impartito dalla pubblica amministrazione.
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4. Il quarto motivo è manifestamente infondato.
Invero, il ricorso censura l'omessa dichiarazione della
prescrizione, ai sensi dell'art. 173 cod. pen., dell'ordine
di demolizione, in quanto sanzione 'sostanzialmente
penale', alla luce di una interpretazione 'convenzionalmente'
conforme alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo.
La tesi è fondata, come noto, su una decisione, del tutto
isolata, di un giudice di merito (Tribunale Asti, ordinanza
del 03/11/2014, Delorier), che ha dichiarato l'estinzione
per decorso del tempo dell'ordine di demolizione, sul
presupposto che si trattasse non già di una sanzione
amministrativa, bensì di una vera e propria "pena",
nella declinazione 'sostanzialistica' fornita dalla
giurisprudenza della Corte di Strasburgo; in tal senso,
dunque, anche all'ordine di demolizione sarebbe applicabile
l'art. 173 cod. pen. sulla prescrizione delle pene.
4.1. Ebbene, anche qualora si volesse accedere a tale
ricostruzione, la censura proposta sarebbe palesemente
infondata, in quanto non sarebbe decorso neppure il termine
di cinque anni previsto per la prescrizione delle pene
(principali).
Invero, se il dies a quo va individuato nella
irrevocabilità della condanna (artt. 172, comma 3, e 173,
comma 3, cod. pen.), che nella fattispecie è intervenuta il
20/04/2009, non risulta decorso il preteso termine di
prescrizione dell'ordine di demolizione, in quanto
l'ingiunzione è stata notificata il 13/01/2012.
4.2. In ogni caso, va evidenziato che la tesi della natura 'sostanzialmente
penale' dell'ordine di demolizione, oltre ad essere,
come si dirà, frutto di una applicazione del diritto
eurounitario eccentrica rispetto al sistema costituzionale
delle fonti, è infondata.
Al riguardo, la giurisprudenza di
legittimità ha elaborato una serie di principi che hanno
costantemente ribadito la natura amministrativa della
demolizione, quale sanzione accessoria oggettivamente
amministrativa, sebbene soggettivamente giurisdizionale,
esplicazione di un potere autonomo e non alternativo al
quello dell'autorità amministrativa, con il quale può essere
coordinato nella fase di esecuzione
(ex multis, Sez. 3, n. 3685 del 11/12/2013 (dep.
2014), Russo, Rv. 258518; Sez. 3, n. 37906 del 22/05/2012,
Mascia, non massimata; Sez. 6, n. 6337 del 10/03/1994,
Sorrentino Rv. 198511; si vedano anche Sez. U, n. 15 del
19/06/1996, RM. in proc. Monter); in tale
quadro, coerentemente è stata negata l'estinzione della
sanzione per il decorso del tempo, ai sensi dell'art. 173
cod. pen., in quanto tale norma si riferisce alle sole pene
principali, e comunque non alle sanzioni amministrative
(Sez. 3, n. 36387 del 07/07/2015, Formisano, Rv. 264736;
Sez. 3, n. 43006 del 10/11/2010, La Mela, Rv. 248670);
ed altresì è stata negata l'estinzione per la
prescrizione quinquennale delle sanzioni amministrative,
stabilita dall'art. 28 l. 24.11.1981, n. 689, in quanto
riguardante le sanzioni pecuniarie con finalità punitiva ("il
diritto a riscuotere le somme ... si prescrive"), mentre
l'ordine di demolizione integra una sanzione 'ripristinatoria',
che configura un obbligo di fare, imposto per ragioni di
tutela del territorio
(Sez. 3, Sentenza n. 16537 del 18/02/2003, Filippi, Rv.
227176).
Ebbene, la tesi della natura
intrinsecamente penale della demolizione risulta fondata su
una serie di indici 'diagnostici' della "materia
penale", ovvero la pertinenzialità rispetto ad un
fatto-reato, la natura penale dell'organo giurisdizionale
che la adotta, l'indubbia gravità della sanzione e
l'evidente finalità repressiva; sulla base di tali indici si
afferma la natura penale, facendone poi discendere una
disinvolta operazione di applicazione analogica dell'art.
173 cod. pen..
4.3. Nel solco di quanto già evidenziato da questa Corte di
Cassazione (Sez. 3, n. 49331 del 10/11/2015, Delorier, non
ancora massimata), nel sindacato di legittimità
dell'ordinanza del Tribunale di Asti, il quadro normativo
che disciplina la demolizione delle opere abusive esclude,
innanzitutto, che ricorra l'indice, indiziante la natura
penale della misura, della pertinenzialità rispetto ad un
fatto reato; invero, l'art. 27 d.P.R. 380 del 2001
disciplina la c.d. demolizione d'ufficio, disposta
dall'organo amministrativo a prescindere da qualsivoglia
attività finalizzata all'individuazione di responsabili, sul
solo presupposto della presenza sul territorio di un
immobile abusivo; una demolizione, dunque, che ha una
finalità esclusivamente ripristinatoria dell'originario
assetto del territorio.
L'art. 31 T.U. edil. disciplina l'ingiunzione alla
demolizione delle opere abusive, adottata dall'autorità
amministrativa nel caso non venga disposta la demolizione
d'ufficio; in caso di inottemperanza, è prevista
l'irrogazione di una sanzione amministrativa pecuniaria, e,
comunque, l'acquisizione dell'opera abusiva al patrimonio
del Comune, finalizzata alla demolizione 'in danno',
a spese dei responsabili dell'abuso, salvo che con specifica
deliberazione consiliare non venga dichiarata l'esistenza di
prevalenti interessi pubblici, e sempre che l'opera non
contrasti con rilevanti interessi urbanistici ed ambientali.
Il comma 9 del medesimo art. 31 prevede che la demolizione
venga ordinata dal giudice con la sentenza di condanna, "se
ancora non sia stata altrimenti eseguita".
Una lettura sistematica, e non solipsistica, della
disposizione, dunque, impone di ribadire la natura
amministrativa, e la dimensione accessoria, ancillare,
rispetto al procedimento penale, della demolizione, pur
quando ordinata dal giudice penale; tant'è che, pur
integrando un potere autonomo e non alternativo a quello
dell'autorità amministrativa, nel senso che la demolizione
deve essere ordinata dal giudice penale anche qualora sia
stata già disposta dall'autorità amministrativa, l'ordine
'giudiziale' di demolizione coincide, nell'oggetto (l'opera
abusiva) e nel contenuto (l'eliminazione dell'abuso), con
l'ordine (o l'ingiunzione) 'amministrativo', ed è eseguibile
soltanto "se ancora non sia stata altrimenti eseguita".
Pertanto, se la 'demolizione d'ufficio' e l'ingiunzione alla
demolizione sono disposte dall'autorità amministrativa,
senza che venga revocata in dubbio la natura amministrativa,
e non penale, delle misure, e senza che ricorra la
pertinenzialità ad un fatto-reato, in quanto, come si è
visto, la demolizione può essere disposta immediatamente,
senza neppure l'individuazione dei responsabili, non può
affermarsi che la 'demolizione giudiziale' -identica
nell'oggetto e nel contenuto- muti natura giuridica solo in
ragione dell'organo che la dispone.
Anche perché è pacifico che l'ordine 'giudiziale' di
demolizione è suscettibile di revoca da parte del giudice
penale allorquando divenga incompatibile con provvedimenti
amministrativi di diverso tenore (Sez. 3, n. 47402 del
21/10/2014, Chisci, Rv. 260972), in tal senso non mutuando
il carattere tipico delle sanzioni penali, consistente nella irretrattabilità, ed è impermeabile a tutte le eventuali
vicende estintive del reato e/o della pena (ad esso non sono
applicabili l'amnistia e l'indulto, cfr. Sez. 3, n. 7228 del
02/12/2010 (dep.2011), D'Avino, Rv. 249309; resta
eseguibile, qualora sia stato impartito con la sentenza di
applicazione della pena su richiesta, anche nel caso di
estinzione del reato conseguente al decorso del termine di
cui all'art. 445, comma 2, cod. proc. pen., cfr. Sez. 3, n.
18533 del 23/03/2011, Abbate, Rv. 250291; non è estinto
dalla morte del reo sopravvenuta all'irrevocabilità della
sentenza, cfr. Sez. 3, n. 3861 del 18/1/2011, Baldinucci e
altri, Rv. 249317).
Si tratta, dunque, della medesima sanzione amministrativa,
adottabile parallelamente al procedimento amministrativo, la
cui emissione è demandata (anche) al giudice penale
all'esito dell'affermazione di responsabilità penale, al
fine di garantire un'esigenza di celerità ed effettività del
procedimento di esecuzione della demolizione.
Del resto, anche la dottrina più consapevole ha sottolineato
la differente finalità e natura delle misure amministrative
previste a salvaguardia dell'assetto del territorio: la
demolizione, infatti, è connotata da una finalità ripristinatoria, l'acquisizione gratuita del bene e
dell'area di sedime e le sanzioni pecuniarie alternative
alla demolizione hanno una finalità riparatoria
dell'interesse pubblico leso, le sanzioni pecuniarie
previste in caso di inottemperanza all'ingiunzione a
demolire sono connotate da una finalità punitiva.
Viene, dunque, esclusa una natura punitiva della
demolizione, che non può conseguire automaticamente
dall'incidenza della misura sul bene. In tal senso, non
sembra ricorrere neppure l'ulteriore 'indice diagnostico'
della natura penale, ovvero la finalità repressiva, essendo
pacifico che ciò che viene in rilievo è la salvaguardia
dell'assetto del territorio, mediante il ripristino dello
status quo ante (Sez. 3, n. 36387 del 07/07/2015,
Formisano, Rv. 264736: "In materia di reati concernenti le
violazioni edilizie, l'ordine di demolizione del manufatto
abusivo, avendo natura di sanzione amministrativa di
carattere ripristinatorio, non è soggetto alla prescrizione
stabilita dall'art. 173 cod. pen. per le sanzioni penali, né
alla prescrizione stabilita dall'art. 28 legge n. 689 del
1981 che riguarda unicamente le sanzioni pecuniarie con
finalità punitiva"); che non ricorra una finalità
repressiva, del resto, è confermato altresì dalla
possibilità di revoca della demolizione, allorquando gli
interessi pubblici sottesi alla tutela del territorio siano
diversamente ponderati dall'autorità amministrativa,
divenendo incompatibili con l'esecuzione della misura ripristinatoria. L'attitudine di un interesse pubblico a
paralizzare l'esecuzione della sanzione, dunque, sembra
escluderne la asserita finalità repressiva.
4.4. L'altro profilo di perplessità che suscita
l'interpretazione (asseritamente) conforme alla
giurisprudenza 'eurounitaria' riguarda l'applicazione
analogica della norma sulla prescrizione delle pene, che
appare addirittura disinvolta.
4.4.1. L'applicazione analogica viene infatti fondata sulla
sostanziale obliterazione ermeneutica dell'art. 14 delle
Preleggi, sul rilievo che, poiché tale norma non può
riferirsi a previsioni di favore, non occorre il presupposto
dell'eadem ratio.
La delimitazione del divieto di analogia appare innanzitutto
arbitraria, oltre che immotivatamente assertiva.
Se è vero, infatti, che il divieto di analogia in materia
penale è considerato, dalla dottrina più attenta, relativo,
concernente soltanto le norme penali sfavorevoli, nondimeno
l'art. 14 Preleggi impedisce l'integrazione della norma
mediante il procedimento analogico nei casi di norme
eccezionali.
Al riguardo, la dottrina penalistica più accorta ritiene che
il ricorso al procedimento analogico sia precluso rispetto
alle cause di non punibilità (denominate anche "limiti
istituzionali della punibilità") fondate su specifiche
ragioni politico-criminali o su situazioni specifiche: in
tal senso, l'analogia non sarebbe consentita rispetto alle
immunità, alle cause di estinzione del reato e della pena, e
alle cause speciali di non punibilità (ad es., il rapporto
di famiglia rilevante ex art. 649 cod. pen.).
Già tale rilievo impedirebbe, dunque, l'applicazione
analogica di una causa di esclusione della pena come la
prescrizione disciplinata dall'art. 173 cod. pen..
4.4.2. Ma, in ogni caso, ciò che impedisce tale disinvolta
operazione interpretativa è la carenza dei due presupposti
dell'analogia, alla stregua della tradizionale e condivisa
teoria generale del diritto: l'esistenza di una lacuna
normativa e l'eadem ratio.
L'applicazione analogica, infatti, presuppone la carenza di
un à norma nella indispensabile disciplina di una materia o
di un caso (per riprendere la formula dell'art. 14 Prel.),
che altrimenti la scelta di riempire un preteso vuoto
normativo sarebbe rimesso all'esclusivo arbitrio
giurisdizionale, con conseguente compromissione delle
prerogative riservate al potere legislativo e del principio
di divisione dei poteri dello Stato.
Nel caso di specie, non sembra scorgersi una lacuna
normativa, non potendo ritenersi indefettibile la previsione
di una causa estintiva della sanzione amministrativa della
demolizione in conseguenza del decorso del tempo.
L'opzione di individuare una lacuna normativa, dunque, è del
tutto arbitraria, e rimessa alle personali e soggettive
scelte dell'interprete.
Del resto, l'assenza di una causa di estinzione è comune
alla demolizione e ad altre sanzioni amministrative, e
sarebbe irragionevole, e comunque arbitraria,
un'applicazione analogica della prescrizione alla prima e
non alle altre; anche perché mentre la prescrizione (del
reato e della pena) in materia penale è legata alla tutela
di interessi individuali (libertà personale e dignità umana)
ed alla progressiva erosione dell'attitudine risocializzante
della pena, in ragione del decorso del tempo (tempori
cedere), nella materia lato sensu amministrativa il
legislatore ragionevolmente può decidere di non dare
rilevanza, in una o più fattispecie sanzionatorie, al
decorso del tempo quale causa estintiva, in ragione della
prevalenza di interessi pubblicistici oggetto di
privilegiata considerazione normativa (nel caso di specie,
la prevalenza è attribuita al ripristino dell'assetto del
territorio).
Inoltre, manca anche l'eadem ratio, l'elemento di
identità fra il "caso" previsto ed il "caso" non
disciplinato, sulla quale la tesi della natura
intrinsecamente penale della demolizione sorvola.
L'art. 173 cod. pen., infatti, disciplina l'"estinzione
delle pene dell'arresto e dell'ammenda per decorso del
tempo" (così come, analogamente, l'art. 172 cod. pen.
disciplina la prescrizione delle pene della reclusione e
della multa); la causa di estinzione, dunque, è limitata
alle sole pene principali, non è una norma 'di favore'
generale, applicabile, ad esempio, anche alle pene
accessorie. A conferma, peraltro, della natura eccezionale
della disposizione, già solo per tale motivo insuscettibile
di applicazione analogica.
Non si scorge un motivo, ragionevole (inteso non già nella
declinazione 'soggettiva', bensì costituzionale, di parità
di trattamento di situazioni analoghe) e ancorato a criteri
oggettivi, dunque, per applicare analogicamente la
prescrizione alla sanzione della demolizione, e non alle
pene accessorie -la cui natura penale, peraltro, oltre ad
essere normativamente sancita, non è revocabile in dubbio-
ovvero agli effetti penali della condanna.
La diversa natura e finalità delle pene principali, da un
lato, e della demolizione, dall'altra, non consentono,
infatti, di individuare un elemento di identità tra i due
"casi" che consenta un'applicazione analogica della norma
sulla prescrizione: è stato già evidenziato che mentre le
pene 'principali' hanno una natura lato sensu 'repressiva',
ed una finalità rieducativa (recte, risocializzante), ai
sensi dell'art. 27, comma 3, Cost., la demolizione non ha
una natura intrinsecamente 'repressiva', né persegue
finalità risocializzanti, perseguendo invece una finalità ripristinatoria dell'assetto del territorio sulla quale le
esigenze individuali legate all'oblio per il decorso del
tempo risultano necessariamente soccombenti rispetto alla
tutela collettiva di un bene pubblico (Sez. 3, n. 43006 del
10/11/2010, La Mela, Rv. 248670; Sez. 3, Sentenza n. 16537
del 18/02/2003, Filippi, Rv. 227176).
Alla stregua delle considerazioni che precedono, dunque,
deve negarsi innanzitutto la natura intrinsecamente penale
della demolizione, ed in secondo luogo la legittimità di un
procedimento analogico, in assenza dei due presupposti della
lacuna normativa e dell'eadem ratio.
4.5. Non ricorrendo gli estremi di una legittima analogia
legis, secondo i canoni interpretativi tradizionalmente
desunti dall'art. 14 Prel., si deve prendere in
considerazione l'ipotesi che l'operazione 'interpretativa' a
fondamento dell'applicazione analogica della prescrizione
alla sanzione della demolizione sia in realtà frutto di una
analogia iuris, nella quale si è proceduto alla (invero
arbitraria) formulazione ed applicazione di principi
generali dell'ordinamento, secondo i canoni desunti
dall'art. 12 Prel..
E tuttavia anche tale procedimento interpretativo sarebbe
frutto di una soggettiva ed arbitraria opzione politica
dell'interprete, in assenza di una inequivocabile lacuna
normativa.
Innanzitutto l'analogia iuris presupporrebbe la necessità di
risolvere un "caso dubbio" -e non sembra il caso
dell'estinzione della sanzione della demolizione-; in
secondo luogo imporrebbe l'individuazione di un principio
generale applicabile al 'caso dubbio': e non sembra che
l'estinzione di una sanzione amministrativa (ma neppure
penale) per il decorso del tempo possa plausibilmente
integrare un principio generale dell'ordinamento, sia
nazionale che sovranazionale.
Va al riguardo sempre rammentato che l'integrazione
dell'ordinamento è solo residuale e succedanea
all'interpretazione, e, se il caso non è dubbio, non è
necessario ricorrere all'applicazione dei principi, in
quanto è sufficiente l'applicazione della disposizione
scritta.
4.6. Particolarmente attuale appare il monito, espresso
anche da consapevole dottrina, che il diritto 'eurounitario',
ed in particolare il diritto proveniente dalla
giurisprudenza-fonte della Corte di Strasburgo, non venga
adoperato dall'interprete alla stregua di un diritto à la
carte, dal quale scegliere l'ingrediente ermeneutico
ritenuto più adatto ad un'operazione di precomprensione
interpretativa.
Il distorto utilizzo della giurisprudenza casistica delle
Corti europee, infatti, può condurre, come nel caso
dell'applicazione analogica della prescrizione alla
demolizione, a compiere una "disanalogia", con la quale si
universalizza arbitrariamente la portata di un principio
affermato in un determinato contesto. In realtà, il
principale ostacolo al procedimento analogico adoperato
nell'applicazione della prescrizione alla demolizione
risiede nel limite 'logico' del tenore lessicale della
disposizione di cui all'art. 173 cod. pen.; una norma
dall'univoco significato letterale, che non consente esiti
ermeneutici contra legem, e che impedisce la (sovente
malintesa) interpretazione conforme.
Per impedire forme di "normazione mascherata", infatti, il
nostro sistema costituzionale delle fonti, come interpretato
nel diritto vivente della Corte costituzionale, ha chiarito,
fin dalle c.d. "sentenze gemelle" (n. 348 e 349 del 2007),
che il diritto CEDU non è direttamente applicabile; il
giudice comune, infatti, ha la sola alternativa di esperire
una interpretazione "convenzionalmente conforme" della norma
nazionale, ove percorribile, ovvero proporre una questione
di legittimità costituzionale, adoperando il diritto CEDU
quale parametro interposto di legittimità, ai sensi
dell'art. 117 Cost. (Corte Cost. n. 80 del 2011).
Ebbene, nel caso di specie, poiché la norma sulla
prescrizione delle pene non appare suscettibile né di
applicazione analogica, né tanto meno di interpretazione
'convenzionalmente conforme', a tanto ostandovi l'univoco
tenore lessicale (che limita la prescrizione alle pene
'principali'), il giudice comune, ove avesse avuto un
fondato dubbio di costituzionalità della norma, per l'omessa
previsione di una causa estintiva della demolizione, in
virtù della ritenuta natura penale della stessa, avrebbe
potuto percorrere l'unica strada della proposizione di una
questione di costituzionalità.
5. Va dunque riaffermato il seguente principio di diritto: "la
demolizione del manufatto abusivo, anche se disposta dal
giudice penale ai sensi dell'art. 31, comma 9, qualora non
sia stata altrimenti eseguita, ha natura di sanzione
amministrativa, che assolve ad un'autonoma funzione
ripristinatoria del bene giuridico leso, configura un
obbligo di fare, imposto per ragioni di tutela del
territorio, non ha finalità punitive ed ha carattere reale,
producendo effetti sul soggetto che è in rapporto con il
bene, indipendentemente dall'essere stato o meno
quest'ultimo l'autore dell'abuso. Per tali sue
caratteristiche la demolizione non può ritenersi una «pena»
nel senso individuato dalla giurisprudenza della Corte EDU e
non è soggetta alla prescrizione stabilita dall'art. 173
cod. pen.". |
PUBBLICO IMPIEGO: L’assenza al controllo non giustifica il licenziamento.
Cassazione. Il mancato rispetto delle fasce di reperibilità.
Non
costituisce condotta inadempiente del lavoratore assente per
malattia la circostanza di non essere stato presente alla
visita di controllo domiciliare nelle fasce di reperibilità
pomeridiana e di non essersi, quindi, presentato il giorno
successivo alla visita ambulatoriale, in quanto il medesimo
lavoratore era stato sottoposto a visita di controllo presso
la Asl nella mattinata precedente.
È questa la conclusione
alla quale è pervenuta la Corte di Cassazione -Sez. lavoro- con
sentenza 10.03.2016 n. 4695, nella quale è stata censurata la
decisione della Corte d'appello di Milano che aveva ritenuto
legittimo il licenziamento disciplinare irrogato ad un
lavoratore, tra l'altro, per essere stato assente dal
domicilio nella fascia di reperibilità pomeridiana e per non
aver adempiuto all'avviso del medico di presentarsi
all'ambulatorio della Asl la mattina seguente.
Ad avviso
della Cassazione, nonostante il dovere di presenza che
incombe sul lavoratore in malattia nelle fasce di
reperibilità, l'assenza dal domicilio accertata dal medico
fiscale è priva di rilievo disciplinare nel caso in cui il
medesimo dipendente si era già recato presso la struttura
ospedaliera nello stesso giorno, a seguito di una assenza
dal domicilio riscontrata dal medico fiscale il giorno
immediatamente precedente.
Il caso sul quale è stata chiamata a pronunciarsi la
Cassazione è relativo, in questo senso, a un lavoratore che
il 06.04.2009 non era stato trovato presso l'abitazione
dal medico fiscale, che aveva lasciato avviso nella cassetta
postale di presentarsi il giorno successivo presso
l'ambulatorio Asl per la visita di controllo.
La mattina seguente, 7 aprile, il lavoratore si era recato
presso l'ambulatorio, dove era stata confermata la non
idoneità a riprendere il lavoro. Quello stesso giorno, nel
pomeriggio, una nuova visita fiscale era stata tentata
presso l'abitazione del lavoratore, il quale ancora una
volta non era stato trovato a casa.
Anche in questo caso, il
medico fiscale aveva lasciato l'avviso di recarsi alla Asl
la mattina dopo per la visita di controllo, ma il lavoratore
non si era presentato. Alla luce di queste circostanze, il
datore di lavoro aveva deciso di licenziare il dipendente
per non essere stato rispettato, da un lato, l'obbligo di
presenza durante le fasce di reperibilità pomeridiane e,
d'altro lato, per non essersi presentato il lavoratore alla
visita ambulatoriale di controllo la mattina successiva. La
sanzione espulsiva era stata ritenuta giustificata sia in
primo che in secondo grado.
La Corte di Cassazione non è
dello stesso avviso e ritiene che, essendosi sottoposto il
lavoratore alla visita ambulatoriale nel corso della
mattina, nel pomeriggio dello stesso giorno non era più
tenuto a sottoporsi a visita fiscale nelle fasce di
reperibilità e, per la stessa ragione, neppure era tenuto ad
effettuare la visita ambulatoriale di controllo il giorno
dopo (articolo Il Sole 24 Ore del 12.03.2016).
---------------
MASSIMA
6. Nel valutare la proporzionalità della sanzione
espulsiva in relazione alle predette violazioni, oggetto
della contestazione disciplinare, la Corte di merito ha
rilevato che il comportamento inadempiente del lavoratore da
solo non era tale da giustificare la sanzione del
licenziamento, ancorché con preavviso, ma che a tale
conclusione doveva invece pervenirsi sulla base della
recidiva, pure contestata, avente ad oggetto quattro (delle
sei originarie) precedenti contestazioni.
La prima riguardava il comportamento irrispettoso tenuto nei
confronti dei colleghi di lavoro ("il ricorrente cantava
ad alta voce nei reparti produttivi"); la seconda
l'utilizzo del telefono durante l'orario di lavoro ("guardava
le foto"); la terza la tardiva consegna della
certificazione medica riguardante un giorno di assenza; la
quarta una condotta non consona al luogo di lavoro (aveva
ripetutamente cantato e fischiato a voce alta per diversi
minuti).
Sennonché, secondo la giurisprudenza di
questa Corte, in tema di licenziamento, la valutazione della
gravità del fatto non va operata in astratto, ma con
riferimento agli aspetti concreti afferenti alla natura e
alla qualità del singolo rapporto, alla posizione delle
parti, al grado di affidabilità richiesto dalle singole
mansioni, nonché alla portata soggettiva del fatto, ossia
alle circostanze del suo verificarsi, ai motivi e
all'intensità dell'elemento intenzionale e di quello colposo
(Cass. 26.07.2011 n. 16283; Cass. 01.03.2011 n. 5019; Cass.
03.01.2011 n. 35).
Ed ancora, la gravità dell'inadempimento
deve essere valutata nel rispetto della regola generale
della "non scarsa importanza" di cui all'art. 1455
c.c., sicché la sussistenza in concreto di una giusta causa
di licenziamento va accertata in relazione sia della gravità
dei fatti addebitati al lavoratore -desumibile dalla loro
portata oggettiva e soggettiva, dalle circostanze nelle
quali sono stati commessi nonché dall'intensità
dell'elemento intenzionale-, sia della proporzionalità tra
tali fatti e la sanzione inflitta
(Cass. 10.12.2007 n. 25743; Cass. 04.03.2013 n. 5280; Cass.
16.10.2015 n. 21017).
La Corte di merito, nel ritenere la sanzione espulsiva
proporzionata alla entità dei fatti, non ha sufficientemente
dato conto del suo convincimento, non considerando che il
ricorrente, dopo il primo accesso del medico fiscale,
rimasto senza esito, si recò, per la visita di controllo,
come da avviso immesso dallo stesso medico nella cassetta
postale, presso l'ambulatorio di Laveno-Mombello, dove venne
riscontrata la sua inidoneità a riprendere servizio.
Non ha altresì chiarito la Corte territoriale perché, una
volta effettuata la visita fiscale, il ricorrente era tenuto
a sottoporsi il pomeriggio dello stesso giorno o il giorno
successivo ad una seconda visita fiscale.
Infine, non ha spiegato se nella condotta del ricorrente
fosse ravvisabile l'elemento intenzionale, e cioè la volontà
di sottrarsi alla visita fiscale, una volta che la mattina
del secondo accesso del medico fiscale si era recato presso
l'ambulatorio di Laveno-Mombello, sottoponendosi a visita.
Si impone pertanto la cassazione della sentenza impugnata,
con rinvio al giudice indicato in dispositivo per un nuovo
esame, dovendosi aggiungere che priva di rilevanza è la
censura formulata con il quarto motivo, atteso che la Corte
di merito non ha tenuto conto, ai fini della recidiva, delle
due sanzioni disciplinari dichiarate illegittime dal
Tribunale, ancorché tale statuizione, contenuta in
motivazione, non sia stata riportata nel dispositivo della
sentenza di primo grado. |
EDILIZIA PRIVATA: L’art.
36 del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001,
n. 380 dispone che il permesso in sanatoria è ottenibile
soltanto «se l'intervento risulti conforme alla disciplina
urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della
realizzazione dello stesso, sia al momento della
presentazione della domanda».
La domanda di sanatoria presuppone che la parte dimostri la
conformità delle opere alle prescrizioni urbanistiche
vigenti al momento della presentazione della domanda e al
momento della realizzazione dell’opera. L’amministrazione
valuta, poi, se la dichiarazione è conforme a legge.
---------------
4.– Con un ulteriore motivo si assume l’erroneità della
sentenza impugnata nella parte in cui ha rigettato il terzo
motivo del ricorso. A tale proposito, si deduce come il
Tribunale amministrativo avrebbe “travisato” il contenuto
del provvedimento impugnato, in quanto il Comune non ha
accertato la mancanza della doppia conformità per contrasto
con il nuovo piano adottato. Si aggiunge come sarebbe
illegittimo il provvedimento impugnato nella parte in cui ha
ritenuto necessario dimostrare la doppia conformità.
Il motivo non è fondato.
L’art. 36 del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni
legislative e regolamentari in materia edilizia) dispone che
il permesso in sanatoria è ottenibile soltanto «se
l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed
edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello
stesso, sia al momento della presentazione della domanda».
L’amministrazione ha, pertanto, correttamente ritenuto
necessario che, al fine di potere considerare la domanda
come variante in sanatoria, fosse necessario la
dimostrazione della doppia conformità. Né varrebbe rilevare
che tale regola non sarebbe applicabile in presenza di
“varianti proprie” né che fosse onere dell’amministrazione
dimostrare la doppia conformità.
In relazione al primo aspetto, l’art. 36 non pone
limitazioni di sorta con riferimento all’ambito applicativo
della regola della doppia conformità.
In relazione al secondo aspetto, la domanda di sanatoria
presuppone che la parte dimostri la conformità delle opere
alle prescrizioni urbanistiche vigenti al momento della
presentazione della domanda e al momento della realizzazione
dell’opera. L’amministrazione valuta, poi, se la
dichiarazione è conforme a legge.
In questo contesto, dimostrata la legittimità della
valutazione amministrativa basata su quanto esposto, il
denunciato “travisamento” da parte del primo giudice del
contenuto del provvedimento impugnato non assume rilievo
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 09.03.2016 n. 936 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sottotetti: è irrilevante l'altezza interna superiore di 1
cm alle N.T.A..
Il TAR Lombardia-Milano sottolinea come la
norma delle N.T.A. in forza della quale i locali sottotetto
non debbano essere computati come abitabili quando l’altezza
interna netta media sia inferiore a metri 2,10, sia da
considerarsi rispettata quando la violazione è per un solo
centimetro e in un solo locale.
Nella fattispecie i ricorrenti contestano la legittimità del
titolo edilizio in quanto l’altezza dell’edificio non
sarebbe di 12 metri -come previsto dalle norme locali-,
bensì maggiore, in quanto il locale sottotetto sarebbe in
realtà abitabile nella misura in cui non rispettoso della
disposizione contenuta nelle N.T.A. in forza del quale i
soppalchi e i sottotetti non sono computati ai fini della
superficie lorda di pavimento (s.l.p.), se hanno un’altezza
interna netta media inferiore a metri 2,10.
Evidenzia il il TAR, rigettando il ricorso, come nel caso di
specie la contestazione secondo cui vi sarebbe una
violazione delle NTA a fronte di un aumento di un solo
centimetro rispetto al limite massimo (2,10 anziché 2,09
metri) e per un solo locale, sia:
• irrilevante nella misura in cui talmente minimale, in
quanto riferita non a tutto il sottotetto ma solo ad uno dei
locali, così da non poter portare all’annullamento
dell’intero titolo edilizio;
• in ogni caso infondata, perché l’altezza massima inferiore
a 2,10 metri deve essere calcolata tenendo conto della media
di tutti i locali costituenti il sottotetto e non di un solo
locale e per tale profilo, il limite previsto dall’art. 4
delle NTA è rispettato (commento tratto da http://studiospallino.blogspot.it
- TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 09.03.2016 n. 482 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Toscana
bacchettata sulla Scia. Dalla consulta.
Le regioni non possono esercitare poteri sanzionatori per la
repressione degli abusi edilizi, oltre il termine di 30
giorni dalla presentazione della Scia, per un numero di
ipotesi più ampio rispetto a quello previsto dalla normativa
nazionale. Il «governo del territorio» costituisce infatti
una materia di competenza concorrente stato-regioni in cui i
principi fondamentali stabiliti dalla legislazione statale
non possono essere derogati dalla normativa regionale.
Lo ha stabilito la Consulta nella
sentenza
09.03.2016 n. 49,
depositata ieri in cancelleria, che ha dichiarato
illegittimo l'art. 84-bis, comma 2, lett. b), della legge
regionale toscana n. 1/2005 (come modificata dalla lr
n. 40/2011) nella parte in cui prevedeva che nei casi di
Scia, decorso il termine di 30 giorni, possono essere
adottati «provvedimenti inibitori e sanzionatori» in caso di
«difformità dell'intervento dalle norme urbanistiche o dalle
prescrizioni degli strumenti urbanistici generali, degli
atti di governo del territorio o dei regolamenti edilizi».
A
dubitare della legittimità della norma è stato il Tar
Toscana che ha dovuto esaminare il ricorso di un privato
contro l'ordinanza con cui il comune di Firenze, dopo aver
dichiarato inefficace la Dia/Scia presentata dal ricorrente,
aveva disposto la rimessione in pristino.
Secondo i giudici
amministrativi la normativa regionale, che costituiva il
presupposto giuridico dell'ordinanza, finiva per attribuire
al comune un generale potere di controllo e non di
autotutela come invece previsto dalla normativa statale
(art. 19, comma 3, della legge 241/1990).
La Corte
costituzionale ha condiviso i dubbi del Tar. I giudici delle
leggi hanno infatti ricordato che «i titoli abilitativi agli
interventi edilizi costituiscono oggetto di una disciplina
che assurge a principio fondamentale e tale valutazione deve
ritenersi valida anche per la Denuncia di inizio attività
(Dia) e per la Scia».
La regione Toscana, invece, secondo la
Consulta, «ha introdotto una normativa sostitutiva dei
principi fondamentali dettati dal legislatore statale»,
invadendo così la riserva di competenza statale»
(articolo ItaliaOggi del 10.03.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Antimafia, l'alt non si estende in automatico.
In un raggruppamento di imprese.
Se in un raggruppamento temporaneo di imprese una di esse
viene colpita da una interdittiva antimafia non è automatico
ritenere che vi sia un rischio di infiltrazione malavitosa
anche per le altre imprese del raggruppamento.
È quanto
chiarisce il Consiglio di Stato, Sez. III con la
sentenza 07.03.2016 n. 923 che prende in considerazione una
fattispecie concernente i commi 18 e 19 dell'articolo 37 del
codice dei contratti.
Le due disposizioni prevedono che quando una misura
interdittiva antimafia colpisce un'impresa mandante o
mandataria di un raggruppamento la stazione appaltante può
proseguire il rapporto contrattuale con l'impresa superstite
a patto che siano soddisfatti i requisiti di qualificazione
richiesti dal bando.
Il Consiglio di stato spiega che la
ratio della norma risiede nel fatto che il legislatore ha
voluto contemperare l'esigenza del prosieguo dell'iniziativa
economica delle imprese in forma associata con quelle
afferenti alla sicurezza e all'ordine pubblico connesse alla
repressione dei fenomeni di stampo mafioso tutte le volte in
cui, a seguito di misure interdittive si arriva
all'allontanamento delle imprese in pericolo di
condizionamento mafioso.
Ciò premesso la sentenza afferma anche che non può desumersi
dalle norme vigenti l'applicazione di forme di esclusione
«automatica» dell'intero raggruppamento e delle imprese
raggruppate, in considerazione della sussistenza di rischi
di infiltrazione mafiosa. Non è possibile argomentare in
tale senso perché non può essere sufficiente il solo fatto
che una impresa si fosse associata ad altra impresa ritenuta
controindicata per ritenere automaticamente estesa anche
agli altri concorrenti la situazione di infiltrazione.
Viceversa occorre, dicono i giudici, valutare caso per caso
la «vicinanza» tra una impresa controindicata ed una impresa
oggetto di valutazione nel procedimento volto alla
definizione di un provvedimento interdittivo, facendo
riferimento «alle concrete vicende collaborative tra le due
imprese, che vanno adeguatamente approfondite allo scopo di
accertare la sussistenza di fattori oggettivi di
condizionamento, non della impresa controindicata rispetto a
quella in valutazione, ma da parte delle medesime
organizzazioni criminali che hanno compromesso la posizione
della prima»
(articolo ItaliaOggi dell'11.03.2016).
---------------
MASSIMA
16. Ciò posto, il Collegio ritiene che la sentenza
appellata, riguardo all’accoglimento del ricorso
introduttivo, meriti conferma.
16.1. Posto che EC.CA. aveva partecipato in r.t.i. con la
Al.Pa. alla gara per l’affidamento del servizio di igiene
urbana di Marcianise, appare fisiologica e corrispondente
alla prassi aziendale la costituzione di una società
consortile per l’esecuzione unitaria delle prestazioni
appaltate.
Si tratta infatti di una “società strumento” o “società
operativa”, riconducibile al modello tipizzato dagli
artt. 93 (per i lavori) e 276 (per i servizi) del d.P.R.
207/2000, costituita da operatori economici riuniti in
associazione temporanea, per assicurare una procedura
coordinata e rapida per eseguire in modo unitario l’appalto.
16.2. Coglie pertanto un dato non decisivo, il rilievo –sul
quale è incentrato l’appello dell’Amministrazione– che la
società consortile comporta un vincolo associativo stabile e
duraturo, risultando per contro plausibile che, in simili
casi, qualora venga estromesso un componente del r.t.i. per
i motivi consentiti dalla legge, parimenti lo stesso sia
destinato ad essere escluso dalla società strumento.
16.3.
Ai sensi dell’art. 37, commi 18 e 19, del Codice dei
contratti (nel testo integrato dal d.lgs. 113/2007), quando
una misura interdittiva antimafia colpisce un’impresa
mandante o mandataria di un r.t.i., è consentito
all’Amministrazione di proseguire il rapporto di appalto con
l’impresa superstite (naturalmente, alle condizioni del
possesso dei necessari requisiti di qualificazione richiesti
dal bando).
Dette disposizioni (mai modificate, nonostante le diverse
novellazioni del Codice dei contratti successive al d.lgs.
159/2011) confermano la ratio, già insita nell’art.
12 del d.P.R. 252/1998, di contemperare il prosieguo
dell’iniziativa economica delle imprese in forma associata
con le esigenze afferenti alla sicurezza e all’ordine
pubblico connesse alla repressione dei fenomeni di stampo
mafioso, ogni volta che, a mezzo di pronte misure espulsive,
si determini volontariamente l’allontanamento e la
sterilizzazione delle imprese in pericolo di condizionamento
mafioso
(cfr. Cons. Stato, VI, n. 7345/2010; per la giurisprudenza
di primo grado, TAR Campania, I, n. 94/2015; n. 4815/2012).
16.4.
Sembra corretto desumere,
da dette ultime disposizioni,
l’esclusione di qualsiasi “automatica” considerazione
della sussistenza di rischi di infiltrazione mafiosa in capo
ad una impresa per il solo fatto che si fosse associata ad
altra impresa ritenuta controindicata; e ritenere,
conseguentemente, che la “vicinanza” tra una impresa
controindicata ed una impresa oggetto di valutazione nel
procedimento volto alla definizione di un provvedimento
interdittivo vada apprezzata caso per caso, in relazione
alle concrete vicende collaborative tra le due imprese, che
vanno adeguatamente approfondite allo scopo di accertare la
sussistenza di fattori oggettivi di condizionamento, non
della impresa controindicata rispetto a quella in
valutazione, ma da parte delle medesime organizzazioni
criminali che hanno compromesso la posizione della prima. |
ATTI AMMINISTRATIVI: Quando
la notificazione di un atto è effettuata nei confronti del
legale rappresentante pro-tempore di un soggetto giuridico,
presso la sua sede, non può determinare la nullità dell’atto
l’errata indicazione nominativa (o l’errata qualifica) di
tale rappresentante.
Infatti la notificazione è indirizzata al soggetto giuridico
e non alla persona fisica che temporaneamente ricopre
l’ufficio.
---------------
12.- Con il secondo motivo di appello la società Do.,
dopo aver ricordato che le ordinanze di sospensione dei
lavori, asseritamente valevoli come comunicazione di avvio
del procedimento, erano state notificate al signor Mo.Fr., quale rappresentante legale della società
(all’epoca già in fase di liquidazione), anziché alla
liquidatrice dr.ssa Lu.Lo., ha sostenuto che
erroneamente il TAR ha ritenuto infondato il motivo con
il quale aveva lamentato che entrambe le ordinanze
impugnate, quali provvedimenti finali dell’iter
procedimentale, dovevano ritenersi illegittime a causa del
vizio invalidante dell’erronea notificazione e della
conseguente omessa comunicazione dell’avvio del
procedimento.
Anche tale motivo non è fondato.
12.1.- Preliminarmente si deve osservare che quando la
notificazione di un atto è effettuata nei confronti del
legale rappresentante pro-tempore di un soggetto giuridico,
presso la sua sede, non può determinare la nullità dell’atto
l’errata indicazione nominativa (o l’errata qualifica) di
tale rappresentante. Infatti la notificazione è indirizzata
al soggetto giuridico e non alla persona fisica che
temporaneamente ricopre l’ufficio
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 07.03.2016 n. 906 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Per
giurisprudenza pacifica, i provvedimenti repressivi di abusi
edilizi non necessitano della previa comunicazione di avvio
del procedimento, di cui all’art. 7 della legge n. 241 del
1990, trattandosi di atti a contenuto vincolato.
---------------
12.2.- Sempre, in via preliminare, si deve poi ricordare
che, per giurisprudenza pacifica, i provvedimenti repressivi
di abusi edilizi non necessitano della previa comunicazione
di avvio del procedimento, di cui all’art. 7 della legge n.
241 del 1990, trattandosi di atti a contenuto vincolato (da
ultimo, Consiglio di Stato, Sez. VI, 09.02.2016, n.
554).
12.3.- Ciò premesso, nella fattispecie, come emerge dagli
atti di causa (e come ha affermato il TAR) non solo il
Comune di Ficulle ha garantito la partecipazione di
rappresentati della società appellante ai diversi atti del
procedimento ma la stessa società ha dimostrato di avere
avuto piena e tempestiva conoscenza di tali atti
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 07.03.2016 n. 906 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Offerta incompleta. Cauzione ne soffre.
L'impresa che presenta l'offerta incompleta per l'appalto
perde parte della cauzione depositata anche se si ritira
dalla gara. E ciò perché a far scattare la sanzione di cui
agli articoli 38, comma 2-bis, e 46, comma 1-ter, del codice
dei contratti pubblici basta che la documentazione risulti
insufficiente, al di là dei successivi sviluppi della
procedura, perché serve a evitare «inutili aggravi
procedimentali»: l'impresa che non si avvale del soccorso
istruttorio per mettersi in regola, dunque, deve rassegnarsi
all'escussione parziale della polizza fideiussoria
depositata a garanzia della cauzione quando si candidò
all'appalto.
È quanto emerge dalla
sentenza
29.02.2016 n. 66, pubblicata dalla
I Sez. del TAR Emilia Romagna-Parma.
Sono dolori per l'azienda che non risulta a posto con
l'autorità anticorruzione e con la normativa a tutela dei
diversamente abili: nell'offerta manca il codice Passoe di
registrazione presso il servizio Avcpass, il sistema di
controllo dei requisiti per ottenere lavori pubblici targato
Anac; la società paga la sanzione pecuniaria pari allo 0,5%
dell'importo posto a base di gara.
E ciò benché in sede cautelare sia scattata la sospensione:
la multa era stata ritenuta «inutilmente afflittiva»
proprio perché l'impresa aveva deciso di abbandonare la
gara, invece che servirsi del soccorso istruttorio
introdotto dalla legge 114/2014 sulle semplificazioni
amministrative.
Oggi i giudici spiegano invece che la sanzione serve solo a
garantire «offerte serie e ponderate» negli appalti,
al di là del perdurante interesse alla gara
(articolo ItaliaOggi del 10.03.2016).
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MASSIMA
Il ricorso è infondato.
L’art. 38, comma 2-bis, del D.Lgs. n. 163/2006 dispone che “la
mancanza, l'incompletezza e ogni altra irregolarità
essenziale degli elementi e delle dichiarazioni sostitutive
di cui al comma 2 obbliga il concorrente che vi ha dato
causa al pagamento, in favore della stazione appaltante,
della sanzione pecuniaria stabilita dal bando di gara, in
misura non inferiore all'uno per mille e non superiore
all'uno per cento del valore della gara e comunque non
superiore a 50.000 euro, il cui versamento è garantito dalla
cauzione provvisoria. In tal caso, la stazione appaltante
assegna al concorrente un termine, non superiore a dieci
giorni, perché siano rese, integrate o regolarizzate le
dichiarazioni necessarie, indicandone il contenuto e i
soggetti che le devono rendere. … In caso di inutile decorso
del termine di cui al secondo periodo il concorrente è
escluso dalla gara”.
L’art. 46, comma 1-ter della medesima fonte normativa
prevede che “le disposizioni di cui
all'articolo 38, comma 2-bis , si applicano a ogni ipotesi
di mancanza, incompletezza o irregolarità degli elementi e
delle dichiarazioni, anche di soggetti terzi, che devono
essere prodotte dai concorrenti in base alla legge, al bando
o al disciplinare di gara”.
L’attuale formulazione delle richiamate norme trova fonte
nella L. n. 114/2014 che è intervenuta in materia di “soccorso
istruttorio” prevedendo una procedimentalizzazione
dell’istituto tesa a prevenire esclusioni determinate da
mere omissioni documentali sanabili in corso di gara senza
eccessivi aggravi, contemperando in tal modo i principi di
massima partecipazione e di par condicio che, in
ragione dell’altalenante prevalere dell’uno sull’altro,
avevano determinato una posizione ondivaga della
giurisprudenza.
Così individuata in estrema sintesi la ratio della
novella occorre tuttavia individuare il presupposto al
verificarsi del quale si legittima la misura sanzionatoria
in questione.
La ricorrente lo riconosce nell’effettivo sfruttamento della
riconosciuta possibilità di rimanere in gara nonostante
l’irregolarità commessa; l’Amministrazione, invece, lo
individua nella sola incompletezza documentale
indipendentemente dalle successive vicende concorsuali
legate alla permanenza o meno della concorrente in gara.
Il dato testuale della norma, a parere del collegio, depone
chiaramente in favore della tesi della resistente.
La norma, infatti, come già evidenziato, prevede nel primo
periodo che “la mancanza, l'incompletezza e ogni altra
irregolarità essenziale … obbliga il concorrente che vi ha
dato causa al pagamento…” palesando in tal modo la
volontà del legislatore di ricollegare l’effetto
sanzionatorio alla sola incompletezza documentale senza
subordinarlo a successive valutazioni della concorrente in
ordine alla persistenza di un proprio eventuale interesse a
permanere in gara.
Diversamente opinando ne risulterebbe svilita la funzione
della norma che, come correttamente eccepito dalla
resistente, persegue, altresì, l’obiettivo di indurre i
concorrenti alla presentazione di offerte serie e ponderate
evitando inutili aggravi procedimentali.
La previsione contenuta nella seconda parte della
disposizione normativa in commento (“In tal caso, la
stazione appaltante assegna al concorrente un termine …”
ammonendo che “In caso di inutile decorso del termine di
cui al secondo periodo il concorrente e' escluso dalla gara”)
disciplina la successiva fase della (eventuale) integrazione
documentale da parte del concorrente i cui esiti
determinano, in alternativa, l’ammissione o l’esclusione del
medesimo dalla procedura.
In ogni caso si tratta di un segmento procedurale che segue
l’accertata carenza documentale cui la disposizione
normativa (primo periodo) ricollega l’effetto
dell’applicazione della sanzione come, peraltro,
riconosciuto dalla già richiamata giurisprudenza (v.
sentenza n. 784/2015, cit.).
Per quanto precede il ricorso deve essere respinto. |
APPALTI:
Per gli appaltatori Durc regolare a partire dall’offerta.
Consiglio di Stato. Niente regolarizzazioni postume.
L’adunanza
plenaria del Consiglio di Stato, con la
sentenza 29.02.2016 n. 5 e
sentenza 29.02.2016 n. 6, conferma l’irrilevanza della
regolarizzazione postuma in caso di Durc negativo.
Anche
dopo l’entrata in vigore dell’articolo 31, comma 8, del
Decreto legge 21.06.2013 n. 69, (Disposizioni urgenti
per il rilancio dell’economia), convertito con modificazioni
dalla Legge 09.08.2013, n. 98, non sono consentite
regolarizzazioni postume della posizione previdenziale.
L’impresa, infatti, deve essere in regola con l’assolvimento
degli obblighi previdenziali ed assistenziali fin dalla
presentazione dell’offerta e conservare tale stato per tutta
la durata della procedura di aggiudicazione e del rapporto
con la stazione appaltante, restando dunque irrilevante, un
eventuale adempimento tardivo dell’obbligazione
contributiva.
L'istituto dell’invito alla regolarizzazione (il cosiddetto
preavviso di Durc negativo), spiegano i giudici, «può
operare solo nei rapporti tra impresa ed Ente previdenziale,
ossia con riferimento al Durc chiesto dall’impresa e non
anche al Durc richiesto dalla stazione appaltante per la
verifica della veridicità dell’autodichiarazione resa ai
sensi dell’art. 38, comma 1, lettera i), ai fini della
partecipazione alla gara d’appalto»
L’adunanza plenaria del Consiglio di Stato risponde a due
ordinanze della quarta sezione del 29 settembre e scioglie
un contrasto giurisprudenziale. La plenaria conferma un
precedente orientamento e afferma che l’assenza del
requisito della regolarità contributiva e previdenziale alla
data di presentazione dell’offerta costituisce causa di
esclusione, dovendo l’impresa essere in regola con gli
obblighi previdenziali e assistenziali fin dalla
presentazione dell’offerta e conservare tale stato per tutta
la durata della procedura di aggiudicazione e del rapporto
con la stazione appaltante, restando dunque irrilevante, un
eventuale adempimento tardivo dell’obbligazione contributiva
La Plenaria, inoltre, ribadisce nella sentenza n. 5 del
2016, il proprio orientamento secondo cui l'incameramento
della cauzione provvisoria previsto dall'articolo 48 del
Codice dei contratti pubblici, costituisce una conseguenza
automatica del provvedimento di esclusione, conte tale non
suscettibile di alcuna valutazione discrezionale con
riguardo ai singoli casi concreti (articolo Il Sole 24 Ore del
02.03.2016). |
APPALTI: I requisiti dei concorrenti devono corrispondere.
In un raggruppamento orizzontale.
In un appalto pubblico, se i concorrenti partecipano in
raggruppamento orizzontale, deve esserci corrispondenza fra
requisiti di partecipazione e le parti del servizio da
svolgere.
Lo ha affermato il
Consiglio di Stato, Sez. V, con la
sentenza 25.02.2016 n. 786 che
affronta un tema molto delicato inerente la corrispondenza
fra requisiti ed esecuzione delle prestazioni in caso di
raggruppamenti cosiddetti orizzontali.
La delicatezza del caso deriva dal fatto che la legge
vigente esclude la necessità di corrispondenza fra requisiti
in possesso dei concorrenti raggruppati e parti del servizio
che ogni soggetto deve svolgere.
Nel caso specifico la prestazione oggetto dell'appalto
consisteva nell'effettuazione dei controlli sulla qualità
delle acque erogate dagli acquedotti, una prestazione che i
giudici definiscono «unica non frazionabile se non
quantitativamente».
La sentenza afferma che ogni impresa riunita che dichiara,
in percentuale, il possesso di tutti i requisiti è tenuta a
svolgere le prestazioni nella misura in cui risulta
qualificata. Se, dice la sentenza, si ammettesse la
possibilità che non tutti i soggetti costituenti un
raggruppamento orizzontale potessero eseguire, sia pure pro
quota, la prestazione oggetto dell'appalto senza assicurare
il rispettivo possesso dei requisiti tecnici richiesti dalla
lex specialis, si avrebbe la conseguenza che una parte delle
prestazioni non sarebbe eseguita nel rispetto di uno dei
requisiti richiesti dalla lex specialis.
In particolare, la disciplina di gara richiedeva che le
analisi venissero svolte presso laboratori accreditati, ma
la mandante dell'associazione temporanea, pur avendo
indicato una percentuale di tutti i requisiti, come la
mandataria, non era dotata della necessaria qualificazione.
La tesi affermata dai giudici non viene ritenuta tale da
determinare alcuna disparità di trattamento rispetto ad
altre modalità di raggruppamento, perché una diversa
disciplina del possesso dei requisiti discende dalla scelta
dei concorrenti di partecipare in forma singola o associata,
in modo orizzontale o verticale, alla procedura di gara
(articolo ItaliaOggi del 04.03.20).
---------------
MASSIMA
7. L’appello è infondato e non può essere accolto.
7.1. Quanto alla prima doglianza, il Tribunale
amministrativo ha offerto puntuale risposta al primo motivo
del ricorso introduttivo, con il quale l’odierna appellante
denunciava l’illegittimità del provvedimenti di esclusione a
suo carico e della lex specialis nell’interpretazione
offerta dalla commissione di gara circa i requisiti tecnico
organizzativi richiesti alle ATI orizzontali. Pertanto, non
può essere positivamente apprezzata la prima doglianza
dell’appello nella misura in cui paventa una violazione del
principio dispositivo.
Allo stesso tempo risulta corretta l’assunto del primo
giudice, secondo cui l’art. 1.6. del disciplinare di gara
nel disporre che in relazione ai raggruppamenti temporanei “il
soddisfacimento dei requisiti di cui ai paragrafi 1.4 e 1.5
sarà accertato con riferimento al raggruppamento nel suo
complesso”, non può che riferirsi in ipotesi di
raggruppamenti temporanei orizzontali ai requisiti
frazionabili, tra i quali non può rientrare l’accreditamento
del laboratorio di analisi.
Né può desumersi una contrarietà rispetto a quanto
prescritto dall’art. 275, d.P.R. n. 207 del 2010, secondo il
quale: “Per i soggetti di cui all'articolo 34, comma 1,
lettere d), e), f), e f-bis), del codice, il bando individua
i requisiti economico-finanziari e tecnico-organizzativi
necessari per partecipare alla procedura di affidamento,
nonché le eventuali misure in cui gli stessi devono essere
posseduti dai singoli concorrenti partecipanti”.
Nella fattispecie in esame, infatti, la prestazione oggetto
dell’appalto consiste nell’effettuazione dei controlli sulla
qualità delle acque erogate sia dagli acquedotti esterni che
dalle acque idriche interne, nonché delle acque reflue e
delle acque di balneazione. Si tratta, quindi, di una
prestazione unica non frazionabile se non quantitativamente,
rispetto alla quale il bando richiede tra i requisiti di
carattere tecnico professionale anche la disponibilità di un
laboratorio di analisi accreditato.
Pertanto, nell’ipotesi di mera indicazione
della percentuale che le imprese componenti il suddetto
raggruppamento intendono eseguire, non può che presumersi
che ognuna dei membri del raggruppamento sia in possesso dei
requisiti tecnici, per eseguire sia pure pro quota la
prestazione oggetto dell’appalto.
In questo senso non va a favore dell’odierna appellante il
richiamo alla pronuncia dell’Adunanza Plenaria, 28.04.2014,
n. 27 che, diversamente da quanto argomentato
dall’appellante, stabilisce in modo chiaro che, in caso di
appalto di servizi sussiste l’obbligo per le imprese
raggruppate d'indicare le parti del servizio o della
fornitura facenti capo a ciascuna di esse, senza pretendere
anche l'obbligo della corrispondenza fra quote di
partecipazione e quote di esecuzione, fermo restando, però,
che ciascuna impresa va qualificata per la parte di
prestazioni che s'impegna ad eseguire, nel rispetto delle
speciali prescrizioni e modalità contenute nella normativa
di gara.
Non vi è dubbio che la disciplina di gara richieda che le
analisi vengano svolte presso laboratori accreditati e che
la mandante dell’associazione temporanea, odierna
appellante, non sia dotata della necessaria qualificazione.
In questa situazione non è fondata la doglianza inerente una
presunta disparità di trattamento a danno del concorrente
costituito in raggruppamento di tipo orizzontale, rispetto
al concorrente singolo ovvero al concorrente costituito in
raggruppamento di tipo verticale.
Infatti, posto che la composizione
soggettiva della tipologia di concorrenti è ontologicamente
distinta, se si ammettesse la possibilità che non tutti i
soggetti costituenti un raggruppamento orizzontale potessero
eseguire -sia pure pro quota- la prestazione oggetto
dell’appalto senza assicurare il rispettivo possesso dei
requisiti tecnici richiesti dalla lex specialis, si
avrebbe la conseguenza che una parte delle prestazioni non
sarebbe eseguita nel rispetto di uno dei requisiti richiesti
dalla lex specialis.
Da ciò deriva che non vi è disparità di trattamento, ma una
diversa disciplina del possesso dei requisiti che
direttamente discende dalla scelta dei concorrenti di
partecipare in forma singolo o associata in modo orizzontale
o verticale alla procedura di gara.
7.2. Allo stesso modo non può convenirsi con l’appellante
nel ritenere viziata la sentenza di primo grado nella parte
in cui evidenzia l’assenza di un vizio della motivazione in
capo al provvedimento di esclusione.
Risulta invero adeguato il rilievo secondo il quale il
requisito de quo avrebbe dovuto essere posseduto da ciascuno
dei componenti del raggruppamento escluso, dal momento che
attraverso di esso la lex specialis assicura che ogni
impresa svolga il servizio secondo determinati standard
qualitativi accertati da organismi qualificati.
7.3. Da ultimo, non si ravvisa alcuna delle illegittimità
denunciate dall’appellante, che infici l’esercizio del
potere di autotutela da parte della stazione appaltante nel
riammettere alla procedura di gara l’originaria
controinteressata: infatti l’esercizio del ius poenitendi
da parte della stessa stazione appaltante, posto in essere
nel corso della procedura di gara, è giustificato dalla
necessità di assicurare il rispetto del favor
partecipationis e di prevenire futuri contenziosi.
Né uno stringente onere motivazionale può essere invocato
dagli altri concorrenti che rispetto alla pregressa
decisione della stessa amministrazione non possono vantare
un affidamento tutelabile.
Nel merito, inoltre, la scelta dell’amministrazione non
appare irragionevole e -in senso contrario rispetto a quanto
sostenuto dall’appellante- valuta senza illogicità o
incoerenze, nell’ambito dell’ambito di apprezzamento rimesso
alla sua competenza, la possibilità dell’originaria
controinteressata di poter eseguire correttamente le
prestazioni oggetto dell’appalto de quo. |
APPALTI:
Ai sensi
dell'art. 34 comma 2, c.p.a., in nessun caso il giudice
amministrativo può pronunciare con riferimento a poteri
amministrativi non ancora esercitati e tale regola vale
anche quando il giudice, secondo quanto disposto dagli artt.
121 e 122 dello stesso c.p.a., dichiara l'inefficacia del
contratto, potendo in tal caso disporre il subentro del
ricorrente solo quando l'accoglimento del ricorso non renda
necessaria una ulteriore attività procedimentale
dell'Amministrazione per la individuazione del nuovo
aggiudicatario della gara.
In secondo luogo va osservato che risulta essere già stato
sottoscritto il contratto tra il Comune e l’aggiudicataria e
che è stata già eseguita una parte notevole dei lavori
appaltati,
ed in tale caso il giudice amministrativo, una
volta che abbia annullata l'aggiudicazione definitiva
dell'appalto oggetto del contendere, può, ex art. 122 del c.p.a., disporre il subentro della ricorrente nel contratto
se lo stato di esecuzione dello stesso e la sua tipologia lo
consentano.
---------------
11.- Con il ricorso in appello è stata anche riproposta la
richiesta di aggiudicazione dell’appalto e del relativo
contratto in capo alla appellante, secondo l’offerta da
questa proposta e, in subordine, di declaratoria di
inefficacia del contratto eventualmente stipulato, nonché di
aggiudicazione dell’appalto e di subentro del contratto. In
subordine è stata chiesta la “condanna
dell’Amministrazione al risarcimento del danno per
equivalente, nonché del danno non patrimoniale”.
Dette richieste non sono suscettibili di accoglimento da
parte del collegio, in primo luogo in quanto,
ai sensi
dell'art. 34 comma 2, c.p.a., in nessun caso il giudice
amministrativo può pronunciare con riferimento a poteri
amministrativi non ancora esercitati e tale regola vale
anche quando il giudice, secondo quanto disposto dagli artt.
121 e 122 dello stesso c.p.a., dichiara l'inefficacia del
contratto, potendo in tal caso disporre il subentro del
ricorrente solo quando l'accoglimento del ricorso non renda
necessaria una ulteriore attività procedimentale
dell'Amministrazione per la individuazione del nuovo
aggiudicatario della gara (Consiglio di Stato, sez. V,
01.10.2015, n. 4585); invero nel caso che occupa non è stato
dimostrato dalla parte appellante che detta attività non sia
necessaria, avendo essa solo affermato di essersi
classificata seconda in graduatoria, ma non che
l’Amministrazione abbia svolto nei suoi confronti tutte le
verifiche previste dalla normativa in materia e dalla lex
specialis.
In secondo luogo va osservato che risulta essere già stato
sottoscritto il contratto tra il Comune e l’aggiudicataria e
che è stata già eseguita una parte notevole dei lavori
appaltati, come da memoria depositata il 06.11.2011 da parte
del Comune di Lapio (non contestata sul punto dalle
controparti), ed in tale caso il giudice amministrativo, una
volta che abbia annullata l'aggiudicazione definitiva
dell'appalto oggetto del contendere, può, ex art. 122 del c.p.a., disporre il subentro della ricorrente nel contratto
se lo stato di esecuzione dello stesso e la sua tipologia lo
consentano (Consiglio di Stato sez. V 25.06.2014 n. 3220);
nel caso che occupa, trattandosi di attività di
completamento ed adeguamento di rete fognaria e di impianto
di depurazione ritiene il collegio che comunque la avanzata
esecuzione dei lavori appaltati escluda la possibilità di
subentro, stante la difficoltà di intervenire su opere già
avviate ed in avanzato stato di esecuzione.
Quanto alla domanda di risarcimento per equivalente va
osservato che la domanda risarcitoria formulata dalla parte
appellante è limitata ad una generica richiesta di
risarcimento in forma specifica o per equivalente, senza
indicazione, neanche in termini assertivi, di quale sia la
sostanza del pregiudizio di cui si chiede la riparazione e
segnatamente se esso riguardi il danno emergente o il lucro
cessante o entrambe le componenti; essa è pertanto
inammissibile per assoluta genericità (Consiglio di Stato,
sez. VI, 02.09.2003, n. 4871)
(Consiglio
di Stato, Sez. V, con la
sentenza 25.02.2016 n. 776
-
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
L'ordine di bonifica trasmesso agli eredi.
Nel caso di ordine di bonifica di un sito inquinato,
l'obbligo ripristinatorio è trasmissibile agli eredi.
Lo ha precisato il Consiglio di Stato, Sez. V con la
sentenza 25.02.2016 n. 765 .
Nel caso in esame dei proprietari di terreni avevano chiesto
al Tar per la Lombardia l'annullamento dell'ordinanza del
sindaco del Comune di Cerro al Lambro nella parte in cui si
ordinava loro la messa in sicurezza, la bonifica e il
ripristino ambientale della località denominata «Cascina Gazzera», ai sensi degli artt. 14 e 17 del dlgs 22/1997.
Il primo giudice aveva accolto il ricorso rilevando che per
quanto concerneva i fenomeni di inquinamento sino al 1979,
gli stessi non potevano essere imputabili ai ricorrenti,
atteso che i terreni interessati non risultavano essere di
loro proprietà, ma del defunto padre.
Per quanto riguarda gli eventi successivi, invece, il comune
di Cerro al Lambro non aveva fornito la prova della «causazione
dei fenomeni» in questione da parte di questi ultimi che lo
avrebbero, invece, concesso in locazione ad una società.
Con appello il Comune di Cerro al Lambro aveva rivendicato
la legittimità del suo provvedimento.
I giudici di Palazzo Spada accolgono la tesi.
Essi riconoscono, innanzi tutto, come i casi di inquinamento
contestati nell'arco di oltre trent'anni siano da ricondurre
agli odierni proprietari, che «in alcun modo hanno impedito
lo sversamento dei rifiuti sui loro suoli, né hanno
provveduto alla rimozione degli stessi, non attivandosi per
impedire che l'attività di devastazione delle aree oggetto
dell'ordinanza impugnata proseguisse nel corso degli anni».
E non vi è dubbio, a questo proposito, che l'obbligo ripristinatorio sia trasmissibile agli eredi, trattandosi di
obblighi di natura patrimoniale (cfr. Cons. St., sez. II, 06.03.2013, n. 2417).
Per quanto concerne, poi, l'ordine di bonifica del sito
inquinato, è irrilevante la circostanza che sia intervenuto
un contratto di locazione, atteso che va riconosciuta sia la
responsabilità del proprietario di un terreno sul quale
siano depositati rifiuti, ai sensi dell'art. 14, comma 3,
del dlgs 05.02.1997 n. 22, nel caso in cui il terreno sia
oggetto di un rapporto di locazione, sia la responsabilità
di qualunque soggetto che si trovi con l'area interessata in
un rapporto, anche di mero fatto, tale da consentirgli «di
esercitare una funzione di protezione e custodia finalizzata
ad evitare che l'area medesima possa essere adibita a
discarica abusiva di rifiuti nocivi per la salvaguardia
dell'ambiente»
(articolo ItaliaOggi Sette del 14.03.2016). |
TRIBUTI: Fabbricati rurali, l'annotazione catastale giustifica
l'esenzione Imu.
Per i fabbricati rurali conta l'annotazione catastale sia
per l'Ici sia per l'Imu. Se è stata presentata in catasto
l'autocertificazione che attesta la sussistenza dei
requisiti di legge entro il 30.09. 2012, al titolare
dell'immobile rurale spetta l'esenzione Ici anche per i
cinque anni precedenti. Alla stessa agevolazione hanno
diritto i possessori di fabbricati strumentali censiti nella
categoria D/10, perché l'inquadramento in questa categoria
certifica la loro ruralità.
È quanto ha stabilito la
Commissione tributaria regionale di Milano, Sez. staccata
di Brescia, con la sentenza 22.02.2016 n. 1014.
Per i giudici d'appello, l'inserimento dell'annotazione di
ruralità negli atti catastali attesta i requisiti «a
decorrere dal quinto anno antecedente a quello di
presentazione della domanda», se prodotta entro il 30.09.2012. Secondo la commissione regionale «per i
fabbricati aventi funzioni produttive connesse alle attività
agricole è acclarato il requisito della ruralità se censiti
nella categoria D/10». Per gli immobili strumentali non
accatastati nella suddetta categoria, invece, la ruralità va
riconosciuta in presenza della «specifica annotazione
ottenibile mediante domanda all'Agenzia del territorio».
La retroattività delle domande di variazione.
Va
sottolineato che la normativa sui fabbricati rurali è
piuttosto confusa. Nel corso di questi ultimi anni ci sono
stati vari interventi normativi e giurisprudenziali che
hanno contribuito a creare dubbi e incertezze. Da ultimo
l'articolo 2, comma 5-ter, del dl 102/2013, in sede di
conversione in legge (124/2013), ha stabilito che le domande
di variazione catastale, presentate dagli interessati per
ottenere l'annotazione di ruralità degli immobili, hanno
effetto retroattivo per i cinque anni antecedenti.
L'efficacia di questa disposizione di interpretazione
autentica può arrivare fino all'anno d'imposta 2006,
considerato che i contribuenti avrebbero potuto inoltrare le
prime istanze di variazione entro il 30.09.2011. Il
decreto del ministero dell'economia e delle finanze del 26.07.2012 ha chiarito quali adempimenti devono porre in
essere i titolari dei fabbricati interessati a ottenere
l'annotazione negli atti catastali della ruralità, al fine
di fruire anche per l'Imu delle agevolazioni. Per
quest'ultimo tributo sono escluse dai benefici le unità
immobiliari utilizzate come abitazione. Il contrasto sulla
categoria catastale.
Di recente, la commissione tributaria
regionale di Cagliari, quarta sezione, con la sentenza n. 29
dell'01.02.2016, ha stabilito che per il riconoscimento
dell'esenzione Ici per i fabbricati rurali strumentali non
conta la categoria catastale. L'immobile va considerato
rurale se utilizzato per la manipolazione, trasformazione,
conservazione, valorizzazione o commercializzazione dei
prodotti agricoli dei soci. La regola vale non solo per
l'Ici ma anche per l'Imu. A conforto di questa
interpretazione viene richiamata nella sentenza una
pronuncia della Cassazione (16979/2015).
Sull'efficacia da
attribuire alla categoria catastale, per fruire
dell'esenzione dall'imposta municipale, non è però stata
ancora trovata una soluzione condivisa nella giurisprudenza
di legittimità e di merito, anche per via dei continui
cambiamenti normativi riguardo al trattamento fiscale dei
fabbricati rurali. In realtà, contrariamente a quanto
affermato dalla Ctr di Cagliari, la posizione assunta dalla
Cassazione dopo la pronuncia a sezioni unite (18565/2009) è
stata sempre quella di legare l'esenzione Ici alla categoria
catastale.
Da ultimo, anche con l'ordinanza 22195/2015 ha riconosciuto
l'esenzione Ici solo per i fabbricati inquadrati
catastalmente nelle categorie A/6, se destinati a
abitazione, o D/10, se strumentali all'esercizio
dell'attività agricola
(articolo ItaliaOggi dell'11.03.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO: Visite fiscali, occhio alla condotta.
Non si deve accompagnare la moglie a fare la spesa.
La Cassazione ha chiarito quando le assenze dal domicilio,
in caso di malattia, sono ingiustificate.
Visite fiscali, intervengono i giudici.
Interessante
sentenza in tema di assenza del lavoratore alla visita
fiscale di controllo quella pronunciata dai giudici della
Corte di Cassazione, Sez. lavoro – presidente Manna e
relatore Borghetich,
sentenza
19.02.2016 n. 3294, interessante soprattutto perché fornisce preziose
indicazioni sulla valutazione da dare alle assenze del
lavoratore dalla propria abitazione al momento della visita
fiscale di controllo della malattia.
I giudici della sezione lavoro della Suprema Corte erano
stati chiamati a decidere nel merito di un ricorso
presentato da un lavoratore in malattia che essendo
risultato assente dal proprio domicilio al momento delle
visita fiscale di controllo aveva subito le penalizzazioni
previste dall'art. 5, comma quattordicesimo, del decreto
legge n. 463/1983 (convertito in legge n. 638/1983) e
successive modificazioni e integrazioni (decadenza dal
diritto al trattamento economico di malattia).
Avverso il provvedimento di penalizzazione il lavoratore
aveva presentato ricorso, prima in Tribunale e poi in Corte
di Appello, sostenendone l'illegittimità, nonostante avesse
potuto dimostrare che l'assenza era dovuta a imprevisti
gravi motivi familiari. Entrambi i ricorsi erano stati
respinti. Stessa sorte ha avuto anche quello presentato alla
Corte di Cassazione.
Di quest'ultima sentenza la parte che, seppure
indirettamente, può interessare anche il personale della
scuola è certamente quella relativa alle motivazioni che
hanno indotto i giudici della sezione lavoro a condividere
il giudizio espresso in precedenza dai giudici del Tribunale
e della Corte di Appello che se ne erano occupati.
Con la sentenza i giudici hanno infatti rafforzato il
principio, peraltro condiviso da una buona parte della
giurisprudenza in materia, ma non sempre applicato dal
datore di lavoro o dall'ente previdenziale, secondo cui
l'assenza del lavoratore alla visita di controllo può essere
ritenuta ingiustificata e comportare le penalizzazioni
previste dalla normativa vigente indicata in premessa, non
solo a causa dell'assenza dalla propria abitazione nelle
fasce orarie di reperibilità, ma anche a causa della
condotta tenuta dallo stesso lavoratore –pur presente in
casa– condotta che sia valsa ad impedire l'esecuzione del
controllo sanitario per incuria, negligenza o ogni altro
motivo non apprezzabile sul piano giuridico e sociale, quale
ad esempio la mancanza del nominativo del lavoratore sul
citofono, il non funzionamento del citofono o del
campanello, la mancata o incompleta comunicazione della
variazione di domicilio o del luogo di reperibilità,
l'espletamento di incombenze effettuabili in orari diversi
(es. accompagnare in auto la moglie, sprovvista di patente,
a fare spesa).
Nel contesto della sentenza in esame merita anche di essere
riportato un passaggio relativo all'Inps nel quale si
sostiene che l'obbligo dell'istituto di previdenza di
erogare l'indennità di malattia permane invece anche a
fronte di un comportamento del lavoratore che si sottragga
alla visita sanitaria, solamente ove concorrano serie e
motivate ragioni, quali l'indifferibile necessità di recarsi
presso un luogo diverso da quello dal proprio domicilio
(articolo ItaliaOggi del 15.03.2016). |
ESPROPRIAZIONE: Bocciato l’esproprio che favorisce un privato.
Tar Venezia.
Poiché la
cosiddetta “acquisizione sanante” deve essere usata dalla Pa
solo per «attuali ed eccezionali ragioni di interesse
pubblico» e per rimediare a un atto d’esproprio già emesso,
ma in modo non «valido ed efficace», la stessa non può
essere usata per creare una servitù di pubblico passaggio su
un’area privata se su quest’ultima la Pa non ha mai adottato
procedure ablatorie e per di più se soddisfa solo
l’interesse privato.
Il TAR Veneto, Sez. II,
sentenza
16.02.2016 n. 170, ha annullato così l’«utilizzazione
senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico»
(articolo 42-bis, Dpr 327/2001, Testo unico espropri)
disposta da un Comune per creare un passaggio pubblico su
una strada chiusa di proprietà privata e su cui un albergo
adiacente aveva aperto un accesso secondario.
A contestarla alcuni proprietari residenti secondo cui
l’atto era ad esclusivo interesse privato, posto che
l’«inidoneità» della strada all’uso pubblico era stata
provata da una sentenza esecutiva del giudice civile.
Accogliendo il ricorso, il Tar ha spiegato che questo tipo
di acquisizione «per giustificarsi anche dal punto di vista
costituzionale, richiede l’esercizio di un potere di
carattere necessariamente “rimediale”, che presuppone la
necessità di ovviare ad una situazione di fatto che
contrasta con quella di diritto a causa del pregresso
difettoso esercizio del potere ablatorio».
Ciò, una volta
rispettati gli altri «stringenti» requisiti di legge: che vi
siano «attuali ed eccezionali ragioni di interesse
pubblico», e che queste siano «valutate comparativamente con
i contrapposti interessi privati» in assenza di ragionevoli
alternative (articolo Il Sole 24 Ore del
03.03.2016).
---------------
MASSIMA
L’eccezione di inammissibilità per carenza di interesse
del ricorso introduttivo con il quale è impugnata la
deliberazione consiliare n. 51 del 05.11.2014, basato
sull’assunto che tale deliberazione costituirebbe una mera
comunicazione di avvio del procedimento, non è fondata.
Infatti nonostante l’oggetto della medesima rechi
l’indicazione “atto fondamentale per l’avvio del
procedimento per la costituzione di una servitù di pubblico
passaggio”, e al punto 2) del dispositivo affermi di
disporre l’avvio del procedimento per l’imposizione di una
servitù di pubblico passaggio, in realtà non contiene gli
elementi tipici all’atto di cui all’art. 8 della legge 07.08.1990, n. 241, ma provvede direttamente in ordine ad
alcuni dei contenuti previsti dall’art. 42-bis del DPR 08.06.2001, n. 327, accertando l’attualità e la prevalenza
dell’interesse pubblico a disporre l’imposizione della
servitù di passaggio, e demandando a successivi atti della
Giunta e del dirigente la valutazione in contraddittorio dei
contrapposti interessi privati, ed il permanere di
ragionevoli alternative all’adozione dell’atto finale.
Per questi profili, autonomamente e direttamente lesivi
della posizione giuridica dei ricorrenti, si giustifica
l’immediata impugnazione della deliberazione, e l’eccezione
deve pertanto essere respinta.
Nel merito il ricorso ed i motivi aggiunti sono fondati e
devono essere accolti per molteplici profili.
In primo luogo è fondata la censura proposta nell’ambito del
primo motivo del ricorso introduttivo con la quale
i
ricorrenti lamentano la mancata acquisizione del loro
apporto procedimentale prima della dichiarazione di
attualità e prevalenza dell’interesse pubblico disposta con
la menzionata deliberazione consiliare n. 51 del 05.11.2014.
Una tale determinazione resa nell’ambito della procedura di
cui all’art. 42-bis del DPR 08.06.2001, n. 327 (così come
la procedura di acquisizione sanante di cui all’art. 43), è
infatti connotata da un’amplissima e rilevante
discrezionalità che non può prescindere dalla comunicazione
di avvio del procedimento quando, come nel caso di specie,
sia iniziata d’ufficio (cfr. Tar Abruzzo, L'Aquila, Sez. I,
06.11.2014, n. 763; Tar Toscana, Sez. I 23.01.2014, n. 148).
In secondo luogo sono fondate e devono essere accolte le
censure, proposte nell’ambito del primo motivo del ricorso
introduttivo e con il secondo motivo dei secondi motivi
aggiunti, di incompetenza del dirigente a compiere
valutazioni inerenti l’interesse pubblico all’ampliamento
del patrimonio comunale comprendenti la comparazione tra
interesse pubblico e privato e il permanere o meno
dell’assenza di ragionevoli alternative all’adozione
dell’atto di acquisizione finale.
Infatti ai sensi dell’art. 42, comma 2, lett. l), del Dlgs.
18.08.2000, n. 267, rientrano nella competenza del
Consiglio gli acquisti immobiliari e, secondo
l’interpretazione che appare preferibile, la particolare
natura dell’acquisizione sanante, riconducibile nell’alveo
dell’amplissima discrezionalità propria dell’organo di
indirizzo, richiede una formale, specifica e compiuta
espressione di volontà dell'ente manifestata necessariamente
dal Consiglio comunale potendo in tale ambito essere
demandati ai dirigenti o ai responsabili dei servizi
dell’Ente solo compiti strettamente esecutivi delle
determinazioni discrezionali adottate dall’organo consiliare
(cfr. Tar Campania, Sez. V, 15.01.2016, n. 219; Tar
Lazio, Latina, 28.07.2015, n. 575; Tar Puglia, Lecce,
Sez. I, 21.06.2013, n. 1500; Tar Veneto, Sez. I, 31.01.2012, n. 96; Consiglio di Stato, Sez. V, 13.10.2010, n. 7472).
Pertanto sono fondate e devono essere accolte anche le
censure di incompetenza.
Parimenti fondate e meritevoli di accoglimento risultano le
censure di cui al terzo motivo del ricorso introduttivo, e
dal quarto al decimo dei secondi motivi aggiunti, con le
quali i ricorrenti contestano in radice e sotto molteplici
profili la carenza dei presupposti per l’esercizio del
potere di cui all’art. 42-bis del DPR 08.06.2001, n. 327,
e lo sviamento.
Infatti l’istituto di cui all’art. 42 bis del DPR
08.06.2001, n. 327, per giustificarsi anche dal punto di vista
costituzionale, richiede l’esercizio di un potere di
carattere necessariamente “rimediale”, che presuppone la
necessità di ovviare ad una situazione di fatto che
contrasta con quella di diritto a causa del pregresso
difettoso esercizio del potere ablatorio.
Solo in quest’ottica può ritenersi giustificato il ricorso
all’acquisizione del bene mediante tale istituto, che
costituisce una “sorta di procedimento espropriativo
semplificato, che assorbe in sé sia la dichiarazione di
pubblica utilità, sia il decreto di esproprio, e quindi
sintetizza uno actu lo svolgimento dell’intero procedimento”
(cfr. Corte Costituzionale, 30.04.2015, n. 71)
ferma
restando la necessaria ricorrenza degli stringenti ulteriori
requisiti previsti dalla norma, quali le “attuali ed
eccezionali” ragioni di interesse pubblico che giustificano
l’emanazione dell’atto, “valutate comparativamente con i
contrapposti interessi privati”, e “l’assenza di ragionevoli
alternative alla sua adozione”.
Nel caso all’esame, come osservato nella motivazione
dell’ordinanza del Consiglio di Stato, Sez. IV, 18.11.2015, n. 5139, che ha confermato in sede di appello
l’ordinanza cautelare di primo grado, difettano in radice
tali presupposti, dato che precedentemente non era stata
esperita alcuna procedura di carattere ablatorio.
Inoltre va osservato che il decreto del dirigente prot. n.
26261 del 09.07.2015, impugnato con i secondi motivi
aggiunti, afferma l’esistenza di un protratto utilizzo del
tratto di strada da parte della collettività, la sussistenza
di un collegamento alla pubblica via e la trasformazione in
via di fatto del bene a causa di tale utilizzo.
Orbene il Collegio ritiene che sia da escludere la
possibilità di applicare l’istituto di cui all’art. 42-bis
del DPR 08.06.2001, n. 327, ad una servitù di passaggio
pubblico, motivando l’acquisizione prevista da tale norma
sulla base di quegli stessi requisiti che, ove sussistenti,
avrebbero comportato anche in via di fatto la costituzione
della servitù di pubblico passaggio pur in assenza di un
apposito titolo.
Peraltro nel caso all’esame, come riconosciuto anche dal
giudice civile in due gradi di giudizio, in realtà e
contrariamente a quanto afferma il Comune, è da escludersi
la ricorrenza di tali presupposti, dato che oggetto degli
atti impugnati è un tratto di strada isolato dalla via
pubblica da un altro tratto di strada privato che rimane
escluso dal provvedimento del Comune, che non è fruibile
dalla collettività perché a fondo cieco e che è utilizzato
da una cerchia limitata di soggetti uti singuli in quanto
gravato da una servitù di passaggio di diritto privato
costituita a favore di un immobile diverso da quello dei
controinteressati.
Pertanto in carenza dei presupposti intrinseci necessari per
affermare l’esistenza e la costituzione in via di fatto di
una servitù pubblica di passaggio e in assenza di
qualsivoglia autonomo e antecedente titolo costitutivo, sono
da escludersi sia la pregressa esistenza della medesima, sia
la possibilità di costituirla ex novo mediante l’istituto di
cui all’art. 42-bis del DPR 08.06.2001, n. 327.
Inoltre va osservato che dalla documentazione versata in
atti risulta che la Società controinteressata possiede
diversi accessi alla struttura alberghiera, uno dall’entrata
principale sita in via Flacco, e altri due da strade
secondarie che, seppure in modo non agevole perché lunghe e
strette, consentono comunque di raggiungere il retro della
struttura.
In tale contesto risulta pertanto un'effettiva e comprovata
divergenza tra gli atti impugnati, forzatamente ricondotti
dall’Amministrazione comunale nell’ambito della procedura di
cui all’art. 42-bis del DPR 08.06.2001, n. 327, e la
funzione tipica dell’atto previsto da tale norma, che è
quella di porre rimedio ad un difettoso esercizio del potere ablatorio nel caso di specie prima mai esercitato, con la
conseguenza che l'esercizio del potere risulta perseguire
finalità diverse da quelle enunciate dalla norma attributiva
dello stesso in favore dell’interesse economico
imprenditoriale della struttura ricettiva privata gestita
dalla Società controinteressata volto a conseguire un più
comodo accesso ai servizi accessori della struttura
alberghiera, e risulta pertanto fondata anche la censura di
sviamento.
L’accoglimento di tali censure travolge tutti gli atti della
procedura posta in essere, ivi compresa l’ordinanza di
autotutela possessoria impugnata con i primi motivi
aggiunti, per la quale difetta il presupposto della natura
pubblica della strada o dell’esistenza di una servitù di
pubblico passaggio.
In definitiva per tali ragioni, con assorbimento delle
censure non espressamente esaminate, il ricorso ed i motivi
aggiunti devono essere accolti. |
AMBIENTE-ECOLOGIA - CONDOMINIO: Per i danni da rumore basta la prova testimoniale.
Cassazione. Quando non sono riproducibili scientificamente.
Con la
recentissima
sentenza 12.02.2016 n. 2864 della Corte di Cassazione,
Sez. II civile, i giudici hanno assegnato
ai testimoni un ruolo chiave in tema di risarcimento del
danno derivante dalle immissioni rumorose.
Il Codice civile, in materia di immissioni, con l’articolo
844 stabilisce che «il proprietario di un fondo non può
impedire le immissioni di fumo o di calore, le esalazioni, i
rumori, gli scuotimenti, e simili propagazioni derivanti dal
fondo del vicino se non superano la normale tollerabilità,
avuto anche riguardo alla condizione dei luoghi.
Nell’applicare questa norma l’autorità giudiziaria deve
contemperare le esigenze della produzione con le ragioni
della proprietà. Può tener conto della priorità di un
determinato uso».
Sulla scorta di tale previsione normativa, l’accertamento
del limite di tollerabilità viene normalmente riconosciuto
all’esito di un attento e scrupoloso accertamento peritale.
In particolare, al consulente tecnico il giudice chiede di
utilizzare una apposita strumentazione idonea a rilevare se
le immissioni rumorose superino la soglia di decibel che
rappresenta il limite tollerabile, in considerazione del
rumore di fondo.
Ma è pur vero che, in più riprese, la Corte ha affermato
che, in tema di immissioni rumorose, i mezzi di prova per
accertare il livello di normale tollerabilità previsto
dall’articolo 844 del Codice civile non devono essere
necessariamente di natura tecnica.
Più precisamente, la Corte di Cassazione con la sentenza
2166/2006, richiamando una decisione un po’ datata (la
5695/1978) confermata di recente dalle Sezioni Unite
(4848/2013) ha dichiarato che «è ammissibile la prova
testimoniale quando la stessa, avendo a oggetto fatti
accaduti sotto la diretta percezione sensoriale dei
deponenti, non può ritenersi espressione di giudizi
valutativi (come tali vietati ai testi), e ciò tanto più
nell’ipotesi in cui –trattandosi di emissioni discontinue e
spontanee– le stesse difficilmente sarebbero riproducibili
e verificabili su un piano sperimentale» .
E proprio su questo filone la recentissima sentenza
2864/2016 ci dice che «nulla vieta, quindi, che l’entità
delle immissioni rumorose e il superamento del limite della
normale tollerabilità possa essere oggetto di deposizione
testimoniale, anche in relazione agli orari e alle
caratteristiche delle emissioni stesse», rimandando poi al
giudice di valutarne l’attendibilità e la congruità.
Questa sentenza ci dice anche che «quando viene accertata la
non tollerabilità delle immissioni, l’esistenza del danno è
in re ipsa». Il risarcimento, quindi, è dovuto, senza
necessità di ulteriore prova, in base all’articolo 2043 del
Codice civile sino a quando il pregiudizio derivante dalle
immissioni intollerabili non verrà eliminato
(articolo Il Sole 24 Ore
dell'01.03.2016).
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MASSIMA
2. — Il ricorso va rigettato.
Invero, le censure di cui ai precedenti nn. 1, 4, 5 e 7 sono
inammissibili, in quanto attengono ad apprezzamenti
discrezionali del giudice di merito che sono insindacabili
in cassazione quando —come nella specie— la motivazione è
esente da vizi logici e giuridici.
Sul punto va precisato che nulla esclude
—in astratto— che l'entità delle immissioni rumorose e il
superamento del limite della normale tollerabilità possa
essere oggetto di deposizione testimoniale (anche in
relazione agli orari e alle caratteristiche delle immissioni
stesse), spettando poi al giudice valutare, oltre
l'attendibilità, anche la congruità delle dichiarazioni rese
rispetto al thema probandum.
Le censure di cui ai nn. 2 e 3 sono infondate. L'art. 246
cod. proc. civ. prevede la incapacità a testimoniare delle
persone aventi nella causa un interesse che potrebbe
legittimare la loro partecipazione al giudizio.
Nel caso di specie, non risulta che le testimoni assunte,
condomine del medesimo edificio, abbiano un tale interesse;
interesse che potrebbe sussistere solo ove gli appartamenti
da esse abitati si trovassero nella medesima posizione
—rispetto all'appartamento dal quale provengono le
immissioni rumorose— dell'appartamento dell'attrice ovvero
in una posizione assimilabile, tale da consentire di
percepire le immissioni rumorose con la medesima intensità.
Ciò nel caso di specie non risulta essere stato dedotto.
Irrilevante è l'esposto presentato da una delle testimoni
alla Questura, diversi essendo i presupposti dell'illecito
denunciato con l'esposto rispetto a quello per cui è causa
(riferibile alla fattispecie di cui all'art. 844 cod. civ.).
Da ultimo, anche la doglianza di cui al n. 6 è priva di
fondamento.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, dalla quale non
v'è ragione di discostarsi, quando venga
accertata la non tollerabilità delle immissioni, l'esistenza
del danno è in re ipsa e, pertanto, il vicino, fino a
quando il pregiudizio derivante dalle immissioni
intollerabili non venga eliminato, ha diritto ad ottenere il
risarcimento del danno a norma dell'art. 2043 cod. civ.
(Sez. 2, Sentenza n. 4693 del 18/10/1978, Rv. 394378; Sez.
2, Sentenza n. 2580 del 12/03/1987, Rv. 451713; Sez. 3,
Sentenza n. 5844 del 13/03/2007, Rv. 597527). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Vegetali, combustione rischiosa.
Bruciare i residui senza regole precise è gestione illecita.
I chiarimenti della Corte di cassazione sull'utilizzo dei
materiali agricoli o forestali.
Integra il vero e proprio reato di gestione illecita di
rifiuti l'abbruciamento di residui agricoli o forestali
senza l'osservanza di tutte le specifiche condizioni dettate
in materia dal Codice ambientale.
A chiarire i confini della
complessa e più volte novellata disciplina ex dlgs 152/2006
sull'utilizzo dei materiali vegetali è la
sentenza 10.02.2016 n. 5504 della Corte di
Cassazione, Sez. III penale.
Il contesto normativo. La pronuncia del giudice di
legittimità verte sulle attuali norme del dlgs 152/2006 che
consentono l'abbruciamento degli scarti vegetali fuori dal
regime dei rifiuti (comma 6-bis dell'articolo 182,
introdotto nel 2014) e il loro rapporto sia con il reato di
combustione illecita di residui (articolo 256-bis,
introdotto nel 2013 e riformulato nel 2014) che con la più
generale disciplina sulla gestione illecita degli stessi
(articolo 256).
Ai sensi dell'articolo 182 del dlgs
152/2006, lo ricordiamo, non costituiscono attività di
gestione rifiuti, ma normali pratiche agricole, l'abbruciamento
in piccoli cumuli e quantità giornaliere non superiori a tre
metri steri per ettaro dei materiali vegetali ex articolo
185, comma 1, lettera f (ossia: paglia, sfalci e potature,
altro materiale agricolo o forestale naturale non
pericoloso) effettuato nel luogo di produzione e finalizzato
al loro reimpiego come concimanti o ammendanti; la
combustione (aggiunge la disposizione in parola) è vietata
nei periodi «di rischio» dichiarati da regioni, comuni e
altre amministrazioni competenti in materia ambientale.
Il principio di diritto. Con la sentenza 5504/2016 la
Cassazione ha chiarito che l'attività di abbruciamento dei
materiali in questione effettuata in difetto di una delle
suddette condizioni integra pienamente il reato di gestione
di rifiuti non autorizzata ex articolo 256, comma 1, lettera
a), dello Codice ambientale.
Dal tenore della sentenza,
vertente sullo smaltimento tramite combustione di ingenti
cumuli di residui da trebbiatura di riso, appare emergere un
parziale mutamento rispetto all'orientamento configurato
dalla precedente pronuncia 76/2015 (sul punto richiamata)
con cui la stessa Corte aveva invece ritenuto applicabili le
sanzioni amministrative dettate dagli enti territoriali in
caso di violazione dei temporanei e citati divieti locali di abbruciamento.
Le novità in arrivo. Fulcro su cui ruota la deroga al regime
dei rifiuti accordata ai residui vegetali è la più generale
disposizione ex citato articolo 185, comma 1, lettera f), del dlgs 152/2006 che esclude dalla severa disciplina «paglia, sfalci e potature, nonché altro materiale agricolo o
forestale naturale non pericoloso utilizzati in agricoltura,
nella selvicoltura o per la produzione di energia da tale
biomassa mediante processi o metodi che non danneggiano
l'ambiente né mettono in pericolo la salute umana».
Sulla
disposizione in parola promette di incidere radicalmente,
riducendo ulteriormente il campo di applicazione della
disciplina sui rifiuti, il ddl recante norme semplificatorie
per il settore agricolo approvato dalla camera il 16.02.2016. In base al provvedimento in itinere tra i
materiali vegetali esclusi (purché destinati al riutilizzo)
dalle norme sui rifiuti vi saranno infatti anche quelli
provenienti da aree verdi, quali giardini, parchi ed aree
cimiteriali.
In base allo stesso disegno di legge, ora di
nuovo all'esame del senato, il riutilizzo dei residui
vegetali tutti (agricoli e non) potrà altresì avvenire fuori
dal luogo di produzione, e anche mediante cessione a terzi
(articolo ItaliaOggi Sette del 07.03.2016).
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MASSIMA
3. Quanto al secondo motivo, posto che il fuoco fu
appiccato dall'imputato,
proprietario dell'azienda (recintata) ed unica persona
presente al momento
dell'arrivo dei Vigili del fuoco (l'intervento era stato
richiesto da un terzo), il
tribunale ha ritenuto che l'attività di incenerimento in
questione andasse
senz'altro considerata come attività di smaltimento dei
rifiuti, essendo volta a
eliminare (impropriamente) degli scarti, peraltro di
quantità significativa, tanto
che il fatto storico era ampiamente sussumibile nella
fattispecie astratta descritta
dalla norma incriminatrice, non potendosi ritenere che, nel
caso in esame, i
residui vegetali bruciati fossero dei sottoprodotti. Infatti
la condotta di bruciare
tali materiali denotava la chiara intenzione del detentore
di disfarsene (secondo
la nozione di cui all'articolo 183 decreto legislativo 152
del 2006).
Pur essendo
possibile che in altre occasioni il ricorrente avesse fatto
diverso uso di tali
materiali (spargendoli nei campi come concime, senza
bruciarli
preventivamente), nel caso in esame egli aveva invece inteso
smaltirli
(illecitamente). Il tribunale ha, tra l'altro, osservato
che, secondo quanto riferito
dall'imputato e dal teste Baretta, il cumulo era stato
formato in ottobre per
essere utilizzato non appena i terreni fossero liberi, prima
della semina, verso
maggio giugno.
Tale assunto non è stato tuttavia ritenuto (e
motivatamente)
coerente con il periodo dei fatti in esame
(agosto-settembre): il periodo della
semina era già infatti ampiamente decorso e i residui
vegetali non erano stati
utilizzati nei campi (bensì smaltiti mediante combustione).
Infine, il tribunale ha escluso che l'abbruciamento in
questione fosse penalmente irrilevante ai sensi
dell'articolo 185, lettera f), decreto legislativo 152 del
2006 in quanto tale norma, ai fini dell'esclusione dal campo
di applicazione della disciplina dei rifiuti, richiede, tra
l'altro, che i residui vegetali siano destinati al reimpiego
in agricoltura, circostanza esclusa nel caso concreto dal
fatto, già in precedenza evidenziato, che il periodo della
concimazione della semina era già ampiamente decorso) e che
i metodi di utilizzo non danneggino l'ambiente e non mettano
in pericolo la salute umana (ed il rispetto di tale
requisito è escluso posto che la combustione è avvenuta nei
pressi di un edificio ed in periodo in cui l'accensione dei
fuochi era vietata sul territorio regionale); nel caso in
esame, viceversa, la destinazione era proprio quella dello
smaltimento (lo stesso imputato aveva dichiarato infatti che
la pula andava sparsa sui terreni come concime senza essere
previamente bruciata).
3.1. Il ricorrente insiste, con il motivo di ricorso, sulla
natura di sottoprodotto della pula di riso.
Sul punto, il Procuratore generale ha opportunamente
segnalato gli approdi
cui è giunta la giurisprudenza di legittimità che, in
materia di gestione dei rifiuti,
è ferma nel ritenere che, ai fini della qualificazione come
sottoprodotto di
sostanze e materiali, incombe sull'interessato l'onere di
fornire la prova che un
determinato materiale sia destinato con certezza ed
effettività, e non come mera
eventualità, ad un ulteriore utilizzo (Sez. 3, n. 3202 del
02/10/2014, dep. 2015,
Giaccari, Rv. 262129).
Questo perché l'art. 184-bis digs. n. 152 del 2006,
definendo come
sottoprodotto qualsiasi sostanza od oggetto che soddisfi
"tutte" le condizioni
dettagliatamente indicate nella disposizione normativa (art.
184-bis) alle lettere
a), b), c) e d), sottrae il regime dei sottoprodotti a
quello dei rifiuti,
introducendo una disciplina avente natura eccezionale e
derogatoria rispetto a
quella ordinaria, con la conseguenza che spetta a colui che
voglia farla valere di
fornire la prova della sussistenza di tutte le condizioni,
che dunque devono
sussistere congiuntamente, previste per la sua operatività.
Nel caso di specie, non solo il ricorrente non ha fornito la
prova certa che la
sostanza (pula di riso) fosse utilizzata "nel corso dello
stesso o di un successivo
processo di produzione o di utilizzazione, da parte del
produttore o di terzi" (art.
184-ter, comma 1, lett. b), d.lgs. n. 152 del 2006) ma il
Giudice del merito, con
congrua motivazione, ha evidenziato l'esistenza della prova
contraria in quanto il
periodo della semina era già ampiamente decorso e i residui
vegetali non erano
stati utilizzati nei campi (in altre occasioni il ricorrente
ne aveva fatto un diverso
uso spargendo la sostanza nei campi come concime), né tali
residui potevano
essere successivamente utilizzati perché la condotta di
bruciarli denotava, di
fatto, la chiara intenzione del detentore di disfarsene,
trattandoli non come
sottoprodotto ma come rifiuto (secondo la nozione di cui
all'articolo 183, comma
1, lettera a), d.lgs. n. 152 del 2006), attraverso lo
smaltimento di essi mediante
combustione.
3.2. Sul condivisibile rilievo che trattasi di questione
rilevabile d'ufficio nel giudizio di cassazione, in quanto anch'essa concernente lo
ius superveniens, il
Procuratore Generale ha correttamente osservato che i fatti,
così come ricostruiti
nella sentenza impugnata, inducono a ritenere non
sussistenti nel caso di specie
le ulteriori condizioni di esclusione dalla disciplina dei
rifiuti previste dall'articolo
182, comma 6-bis, d.lgs. n. 152 del 2006 introdotto
dall'art.14, comma 8,
lettera b) decreto-legge 24.06.2014, n. 91, convertito,
con modificazioni,
dalla legge 11.08.2014, n. 116, svolgendo in proposito
due considerazioni:
a) che nella stessa sentenza impugnata si dà atto che i
pompieri, sopraggiunti
sul posto, rinvenivano all'interno dell'azienda un cumulo di
circa 80 m 3 di pula di
riso che stava bruciando, per cui era stato superato il
limite di 3 metri steri per
ettaro che l'articolo 182, comma 6-bis, fissa per la
irrilevanza penale del fatto, e
h) perché la stessa sentenza
dà atto che nel periodo interessato l'accensione dei
fuochi era vietata sul territorio regionale.
3.3. La disposizione richiamata (articolo 182, comma 6-bis)
stabilisce che "le
attività di raggruppamento e abbruciamento in piccoli cumuli
e in quantità
giornaliere non superiori a tre metri steri per ettaro dei
materiali vegetali di cui
all'articolo 185, comma 1, lettera f), effettuate nel luogo
di produzione,
costituiscono normali pratiche agricole consentite per il
reimpiego dei materiali
come sostanze concimanti o ammendanti, e non attività di
gestione dei rifiuti.
Nei periodi di massimo rischio per gli incendi boschivi,
dichiarati dalle regioni, la
combustione di residui vegetali agricoli e forestali è
sempre vietata. I comuni e le
altre amministrazioni competenti in materia ambientale hanno
la facoltà di
sospendere, differire o vietare la combustione del materiale
di cui al presente
comma all'aperto in tutti i casi in cui sussistono
condizioni meteorologiche,
climatiche o ambientali sfavorevoli e in tutti i casi in cui
da tale attività possano
derivare rischi per la pubblica e privata incolumità e per
la salute umana, con
particolare riferimento al rispetto dei livelli annuali
delle polveri sottili (PM10)".
Si tratta, con tutta evidenza, di una disciplina in deroga
che ha ad oggetto i
materiali vegetali di cui all'articolo 185, comma 1, lettera
f), d.lgs. n. 152 del
2006 (richiamato dal nuovo comma 6-bis dell'art. 182) ossia:
"(...) paglia, sfalci
e potature, nonché altro materiale agricolo o forestale
naturale non pericoloso
utilizzati in agricoltura, nella selvicoltura o per la
produzione di energia da tale
biomassa mediante processi o metodi che non danneggiano
l'ambiente né
mettono in pericolo la salute umana".
Le attività di raggruppamento e abbruciamento in piccoli
cumuli e in
quantità giornaliere non superiori a tre metri steri per
ettaro dei materiali
vegetali, di cui all'art. 185, comma 1, lettera f),
effettuate nel luogo di
produzione, sono, quindi, sottratte, dalla disciplina sui
rifiuti, poiché sono
considerate (costituiscono) normali pratiche agricole
consentite per il reimpiego
dei materiali come sostanze concimanti o ammendanti, e non
costituiscono più
attività di gestione di rifiuti.
Quindi il loro "raggruppamento" ed "abbruciannento", se
eseguito nel
rispetto delle condizioni imposte dal comma 6-bis dell'art.
182, non costituisce
attività di gestione di rifiuti, e conseguentemente non può
integrare alcun illecito
previsto dalla normativa di riferimento, per la fondamentale
ragione che, a
condizioni esatte, le sostanze non rientrano ope legis nel
novero dei rifiuti (Sez.
3, n. 47663 del 08/10/2014, De Santis, non mass.).
Infatti, letta "in controluce", la disposizione stabilisce
che costituisce invece
attività di gestione di rifiuti, esulando dalle normali
pratiche agricole, ogni attività
di raggruppamento e abbruciamento dei materiali vegetali di
cui all'articolo 185,
comma 1, lettera f), eseguita fuori dal luogo di produzione
o, se eseguita nel luogo di produzione, per una finalità
diversa dal reimpiego dei materiali come
sostanze concimanti o ammendanti; ovvero che sia eseguita
nel luogo di
produzione, per il reimpiego dei materiali come sostanze
concimanti o
ammendanti, ma in cumuli non piccoli o, se in cumuli
piccoli, in quantità
giornaliere superiori a tre metri steri per ettaro.
Da ciò si ricava che la disposizione ex art. 182, comma
6-bis, va coordinata
con la disciplina, che già conteneva in nuce il medesimo
principio, di cui all'art.
185, comma 1, lett. f), TUA il quale dispone che gli stessi
materiali non rientrano
nel campo di applicazione della normativa sui rifiuti
qualora siano "utilizzati in
agricoltura, nella selvicoltura o per la produzione di
energia da tale biomassa
mediante processi o metodi che non danneggiano l'ambiente né
mettono in
pericolo la salute umana", richiedendosi pertanto un
reimpiego finalisticamente
orientato ("come sostanze concimanti o ammendanti" e quindi
l'utilizzazione in
agricoltura che è realisticamente fattibile se le attività
sono eseguite nei luoghi di
produzione), nonché richiedendo processi o metodi
ambientalmente salubri e
non pericolosi (interessi, entrambi, compromessi da incendi
indiscriminati di
enormi quantità di materiali, non controllabili), e in tal
senso spiegandosi, cioè
nell'intima connessione esistente tra l'art. 182, comma
6-bis, TUA e l'art. 185,
comma 1, lett. f), TUA, il secondo periodo inserito nella
prima norma,
apparentemente sganciato dalla disciplina di deroga dettata
dalla prima parte
della medesima disposizione ex 182, comma 6-bis, TUA secondo
cui "nei periodi
di massimo rischio per gli incendi boschivi, dichiarati
dalle regioni, la
combustione di residui vegetali agricoli e forestali è
sempre vietata. I comuni e le
altre amministrazioni competenti in materia ambientale hanno
la facoltà di
sospendere, differire o vietare la combustione del materiale
di cui al presente
comma all'aperto in tutti i casi in cui sussistono
condizioni meteorologiche,
climatiche o ambientali sfavorevoli e in tutti i casi in cui
da tale attività possano
derivare rischi per la pubblica e privata incolumità e per
la salute umana, con
particolare riferimento al rispetto dei livelli annuali
delle polveri sottili (PM10)".
Pur nell'oggettiva difficoltà interpretativa, originata da
interventi normativi,
in materia, cronologicamente stratificati e sistematicamente
non omogenei, deve
ritenersi che -quando il materiale (non pericoloso) di cui
all'art. 185, comma 1,
lett. f), TUA viene bruciato al di fuori delle condizioni
previste dall'art. 182,
comma 6-bis, primo e secondo periodo, TUA e, quindi, quando
mancano le
condizioni richieste per l'esclusione dell'abbruciamento
dalle attività di gestione
di rifiuti- è configurabile, contrariamente all'approdo cui
è giunta in parte qua
una precedente decisione (Sez. 3, n. 76 del 07/10/2014, dep.
2015, Urcioli, in
motiv.), il reato di cui all'art. 256, comma 1, lett. a),
TUA relativo alle attività di
gestione di rifiuti non autorizzate e non invece la
disciplina sanzionatoria di cui
all'art. 256-bis TUE, in conformità all'approdo cui è giunta
in parte qua la richiamata pronuncia di questa Sezione (Sez.
3, n. 76 del 07/10/2014, cit., in
motiv.), in virtù della clausola di riserva espressa nel
secondo periodo del
comma 6 dell'art. 256-bis TUE secondo il quale "fermo
restando quanto previsto
dall'articolo 182, comma 6-bis, le disposizioni del presente
articolo (ossia dell'art.
256-bis) non si applicano all'abbruciamento di materiale
agricolo o forestale
naturale, anche derivato da verde pubblico o privato".
3.4. Nel caso di specie, il ricorrente ha ampiamente
superato (bruciando
circa 80 metri cubi di pula di riso) il limite di 3 metri
steri per ettaro, che la
norma fissa per la irrilevanza penale del fatto (come noto,
un metro stero
rappresenta l'unità di volume apparente, cioè comprendente
il materiale vegetale
e gli spazi vuoti, che corrisponde ad una catasta delle
dimensioni di 1 metro x 1
metro x 1 metro), avendo inoltre svolto l'attività di
abbruciamento nel periodo in
cui, come emerge dal testo della sentenza impugnata,
l'accensione dei fuochi era
vietata sul territorio regionale.
Peraltro, allo stesso modo che per la disciplina dei
sottoprodotti, va chiarito che, siccome l'art. 182, comma
6-bis, TUE è da considerarsi
norma che deroga
alla disciplina ordinaria dei rifiuti, introducendo una
regolamentazione avente
natura eccezionale, l'onere della prova circa la sussistenza
delle condizioni di
legge per la sua applicazione deve essere assolto da colui
che la deroga invoca.
Ne consegue l'infondatezza anche del secondo motivo. |
PUBBLICO IMPIEGO:
Niente mobbing se c’è negligenza.
Cassazione. Provvedimenti disciplinari giustificati.
Con la
sentenza 03.02.2016 n. 2116 la Corte di
Cassazione -Sez. lavoro- è nuovamente
intervenuta sul tema del mobbing, nell’ambito di un
procedimento instaurato da un portalettere.
Nel caso in esame, il lavoratore –che era anche
«responsabile del sindacato»- ha sostenuto di essere stato
vittima di un «atteggiamento persecutorio» sul posto di
lavoro, atteso che sarebbe stato insultato più volte dal
direttore dell’ufficio postale e da questi sottoposto a
continue richieste ingiustificate (nello specifico
prestazioni di lavoro straordinario non dovuto e rifiuto di
ferie), nonché soggetto a plurimi procedimenti disciplinari
per l’abnorme quantitativo corrispondenza in giacenza.
Il tribunale di Bergamo ha accolto parzialmente la domanda
del dipendente, ritenendo sussistente un danno biologico e
morale connesso a una condotta del datore di lavoro, in
relazione al quale è tuttavia stato accertato un concorso
del lavoratore nel causare il danno stesso nella misura del
50 per cento. La Corte d’appello di Brescia, di contro, ha
accertato l’illegittimità del comportamento del lavoratore
nel suo complesso, rigettando così la sua domanda.
La Cassazione ha ripercorso la motivazione della Corte
d’appello che, in modo del tutto logico e coerente, ha
accertato, da un lato, come tutte le sanzioni disciplinari
irrogate al lavoratore (tranne una) fossero state poi
confermate in sede giudiziaria e, dall’altro lato, come le
prestazioni di lavoro straordinario fossero del tutto
legittime e l’ingente quantitativo di corrispondenza
giacente non giustificato.
Non solo. La Corte d’appello –precisa la Cassazione– ha
anche accertato come fosse proprio il dipendente a essere
«poco collaborativo, negligente e restio a seguire direttive
e ordini dei superiori, avvelenando il clima dell’ufficio»,
con la conseguenza che i procedimenti disciplinari
instaurati e le relative sanzioni non potevano essere
considerati come discriminatori né motivati da una sorta di
«guerra psicologica» nei confronti del dipendente.
Parimenti, le frasi pronunciate dal direttore non erano
rivelatrici di alcuna volontà persecutoria, anche
considerando che il datore di lavoro aveva dato ben cinque
anni di tempo al dipendente per «ravvedersi», irrogando
durante tale periodo solo sanzioni conservative nonostante
il lavoratore fosse recidivo.
La sentenza della Corte di cassazione si segnala, oltre che
per la correttezza delle conclusioni, anche perché -pur
senza enunciare alcun principio di diritto in materia di
mobbing- implicitamente conferma il proprio indirizzo
giurisprudenziale, ribadito anche recentemente, secondo cui
il mobbing costituisce «un complesso fenomeno consistente
in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti
nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da
parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito
o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione
ed emarginazione finalizzato all’obiettivo primario di
escludere la vittima dal gruppo» (si veda Cassazione
05.11.2015, n. 22635) (articolo Il Sole 24 Ore del
03.03.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Gli oneri riflessi sono sempre dovuti.
In un giudizio davanti al giudice amministrativo, anche nel
caso in cui risulti vittoriosa un'amministrazione pubblica
difesa da un avvocato di un ente pubblico iscritto
all'elenco speciale, dovranno essere corrisposti i c.d.
«oneri riflessi» nella misura di legge.
Lo ha precisato il TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II con
la
sentenza 03.02.2016 n. 151.
Nella controversia in esame, avente ad oggetto un
provvedimento di condono edilizio, si è affrontato il tema
dibattuto della ripetibilità degli oneri riflessi dalla
parte soccombente, quando la difesa sia svolta da un
avvocato iscritto all'elenco speciale.
Più precisamente si è discusso sull'interpretazione
dell'art. 1, comma 208, introdotto dalla legge 266/2005
titolata: «Disposizioni per la formazione del bilancio
annuale e pluriennale dello Stato», che ha dato subito vita
ad un interessante polemica in ordine alla debenza dei
cosiddetti «oneri riflessi», per la parte di spettanza del
datore di lavoro, sui compensi professionali.
Tale norma prevede che «le somme finalizzate alla
corresponsione di compensi professionali comunque dovuti al
personale dell'avvocatura interna delle amministrazioni
pubbliche sulla base di specifiche disposizioni contrattuali
sono da considerare comprensive degli oneri riflessi a
carico del datore di lavoro».
Muovendo dalla considerazione che la norma citata fosse
finalizzata al contenimento della spesa pubblica, si
riteneva che con l'espressione «oneri riflessi» il
legislatore volesse riferirsi sia agli oneri previdenziali
ed assistenziali, sia agli oneri fiscali (Irap), con la
conseguenza che le somme finalizzate alla corresponsione di
compensi professionali dovevano essere erogate al singolo
avvocato dipendente dell'Ente al netto dei suddetti oneri.
Ebbene, il collegio rifiuta questa interpretazione e ritiene
che risponda a criteri di ragionevolezza equiparare gli
avvocati dell'avvocatura pubblica a quelli del libero foro,
per quanto riguarda l'attività da essi svolta in giudizio,
fermi restando i rapporti interni tra l'avvocato pubblico e
l'ente datore di lavoro.
Per questo motivo, così come l'avvocato del libero foro in
caso di esito vittorioso del proprio cliente, chiederà alla
p.a. le spese liquidate oltre gli oneri di legge, che
notoriamente sono Iva (22%), Cassa previdenziale avvocati
(4%) e spese generali (15%), altrettanto la p.a. vittoriosa
potrà richiedere al soccombente le spese liquidate dal
giudice con l'aggiunta degli oneri di legge, che per la p.a.
sono gli «oneri riflessi» (23,80% e spese generali) che la
medesima dovrebbe altrimenti sostenere (non il dipendente
avvocato)
(articolo ItaliaOggi Sette del 14.03.2016).
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MASSIMA
Conclusivamente il secondo ricorso per motivi aggiunti
deve essere respinto.
Le spese del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano
come in dispositivo.
A tale ultimo proposito, per completezza espositiva, merita
un cenno la questione, discussa in pubblica udienza, circa
la liquidabilità degli oneri riflessi a carico della parte
soccombente, laddove risulti vittoriosa, come nel caso di
specie, un’amministrazione pubblica difesa da un avvocato
iscritto all’elenco speciale.
Il Collegio ritiene che risponda a criteri
di ragionevolezza equiparare gli avvocati dell’avvocatura
pubblica a quelli del libero foro, per quanto riguarda
l’attività da essi svolta in giudizio, fermi restando i
rapporti interni tra l’avvocato pubblico e l’ente datore di
lavoro.
Di conseguenza laddove, come nel caso di
specie, risulti vittoriosa un’amministrazione pubblica
difesa da un avvocato iscritto all’elenco speciale, la
formula comunemente utilizzata nella parte dispositiva “oltre
oneri accessori di legge”, deve essere intesa nel senso
che devono essere corrisposti, dalla parte soccombente, i
cd. “oneri riflessi” nella misura di legge, in luogo
del CAP e dell’IVA dovuti nella misura di legge all’avvocato
del libero foro. |
TRIBUTI:
Ruolo nullo se manca il visto di esecutività.
Quando la riscossione dei tributi comunali sia affidata a
terzi, il ruolo è nullo se manca il visto di esecutività,
che deve essere apposto dal funzionario comunale
responsabile della relativa gestione. Il ruolo non vistato è
illegittimo e, di conseguenza, sono nulli tutti gli atti
formati dal concessionario sulla base del ruolo medesimo.
Sono le conclusioni che si leggono nella sentenza 27.01.2016
n. 302/03/16 della Ctp di Taranto.
La vertenza prende le mosse dal ricorso proposto contro una
ingiunzione di pagamento emessa da una società
concessionaria del servizio di riscossione dei tributi, per
contro del comune di Massafra. Tra le varie doglianze
eccepite, la difesa di parte ricorrente sosteneva la
violazione dell'articolo 52, comma 5, del dlgs 446/1997, sotto
il profilo della mancata apposizione del visto di
esecutività sul ruolo sotteso all'ingiunzione.
Il motivo ha
fatto breccia nel pensiero della giudicante Ctp di Taranto,
che ha accolto il ricorso e annullato l'ingiunzione di
pagamento. In tema di riscossione delle imposte comunali,
l'articolo 52 del dlgs 446/1997 detta delle regole ben precise
e, sebbene al comma 5, lettera b), esso consenta «di
affidare a terzi, anche disgiuntamente, l'accertamento e la
riscossione dei tributi e di tutte le entrate», la stessa
norma, al comma 5, lettera d), prevede espressamente che «il
visto di esecutività sui ruoli per la riscossione dei
tributi e delle altre entrate è apposto, in ogni caso, dal
funzionario designato quale responsabile della relativa
gestione».
Dunque, condizione di legittimità del ruolo, la cui
riscossione sia affidata a una società esterna, è che sullo
stesso sia apposto il visto di esecutività, a onere del
funzionario comunale responsabile della gestione dei
tributi. Detto adempimento, lungi dal poter essere
considerato quale un mero formalismo, «costituisce garanzia
di regolarità sia per il contribuente debitore che per lo
stesso Concessionario della riscossione»; la mancanza del
visto, prosegue il collegio, «fa mancare all'ingiunzione un
requisito sostanziale essenziale, forma un atto difettoso e
quindi illegittimo».
A fronte della contestazione mossa dal
ricorrente, la società concessionaria avrebbe dovuto
dimostrare l'esistenza e la regolare apposizione del visto
di esecutività; dimostrazione rimasta inadempiuta, così che
la Commissione ha ritenuto fondato il motivo di ricorso,
condannando anche la parte soccombente al pagamento delle
spese del giudizio.
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
Il ricorso è stato proposto contro l'ingiunzione di
pagamento n del 09/01/2015 con la quale Soget spa per conto
del comune di Massafra richiede Tarsu anno 2009 su avviso di
accertamento n. ... notificato il 31/05/2014. Il ricorrente
contesta l'atto e la richiesta riportando una serie di
contestazioni e sottolineando che l'immobile de quo (garage
annesso ad abitazione) è inoccupato e inutilizzato dal
13/02/2002 data nella quale fu inoltrata al comune una
istanza di cessazione dell'uso.
Il ricorrente espone
numerose argomentazioni a suo favore e conclude chiedendo
l'annullamento dell'atto impugnato e della pretesa. Soget
spa è costituita in giudizio e, dichiarando la piena
legittimità del proprio operato chiede il rigetto del
ricorso. All'udienza odierna la causa è stata chiamata per
discutere sulla richiesta sospensione cautelare ma le parti
concordemente hanno richiesto che si potesse discutere e
decidere per il merito.
Pertanto sono state sentite le parti
sulle questioni di merito e la Commissione ha ritenuto di
trattenere la causa per la decisione. Esaminati gli atti, la
commissione deve osservare che tra tutti quelli evidenziati
dal ricorrente ve ne sono alcuni che sono meritevoli delle
seguenti annotazioni. [omissis]
Visto di esecutorietà del funzionario comunale responsabile
della Tarsu
Il citato visto, previsto dal dlgs 466/1997 –art. 52 – comma
5) punto 4 è espressamente previsto dalla norma ed è
obbligatorio per ognuno degli atti emessi dall'Agente della
riscossione. L'importanza di tale visto è evidente in quanto
esso costituisce garanzia di regolarità sia per il
contribuente debitore che per lo stesso concessionario della
riscossione e la mancanza del visto medesimo oltre a far
mancare all'ingiunzione un requisito sostanziale essenziale,
forma un atto difettoso e quindi illegittimo. Alcun valore
può essere riconosciuto a un atto così formato e lo stesso
privo di validità giuridica deve essere posto nel nulla.
[omissis]
La terza sezione della Ctp di Taranto, così dispone:
In accoglimento del ricorso: dichiara nulla la pretesa per
Tarsu anno 2009 così come riportata a tergo dell'ingiunzione
di pagamento impugnata; liquida in favore del ricorrente le
spese di questo giudizio quantificate in euro seicento oltre
Iva e Cap se dovuti e oltre all'importo del contributo
unificato pagato e pone le stesse a completo carico della
Soget spa
(articolo ItaliaOggi Sette del 14.03.2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
Immobili. Superati i 240 mq è lusso.
È escluso dall'agevolazione prima casa l'acquisto di
immobili di lusso, per tali dovendosi intendere le unità
immobiliari aventi superficie utile complessiva superiore a
mq 240, esclusi i balconi, le terrazze, le cantine, le
soffitte, le scale e posto macchine. La disposizione, in
quanto norma agevolativa, è di stretta d'interpretazione.
Così si è pronunciata la Corte di Cassazione, Sez. V civile, con la
sentenza
22.01.2016 n. 1178.
La Ctp aveva accolto il ricorso,
limitatamente alla non debenza delle sanzioni. L'Agenzia
impugnò allora la sentenza, assumendo l'erroneità della
decisione nella parte in cui, con valutazione equitativa,
aveva ritenuto non dovute le sanzioni. I contribuenti invece
proponevano appello incidentale, poi accolto dalla Ctr, con
il quale chiedevano l'annullamento integrale dell'avviso.
L'Agenzia proponeva infine ricorso per cassazione,
sostenendo l'erroneità della pronuncia nella parte in cui,
in forza di un'interpretazione estensiva dell'art. 6 del dm
02/08/1969, aveva escluso dal calcolo della superficie utile al
fine dell'attribuzione all'immobile della qualità di lusso,
parti non comprese nell'elenco tassativo della norma. Il
motivo di impugnazione, secondo la Corte, era fondato.
La
sentenza aveva infatti erroneamente accolto la tesi dei
contribuenti, secondo cui dal calcolo della superficie utile
complessiva dovesse escludersi non solo la superficie di
alcuni locali del piano seminterrato, concretamente adibiti
a cantina, ma anche due disimpegni realizzati a servizio sia
dei locali cantina che di altri locali, in particolare del
locale taverna e del locale lavanderia. Solo grazie ad una
tale interpretazione estensiva era stato possibile giungere
alla determinazione del calcolo della superficie utile
complessiva in misura inferiore ai 240 mq.
Per stabilire
però se un'abitazione sia di lusso, la superficie utile deve
corrispondere a quella che residua una volta detratta la
superficie di balconi, terrazze, cantine, soffitte, scale e
posto macchina, dall'estensione globale riportata nell'atto
di acquisto. Altre interpretazioni non sono consentite
(articolo ItaliaOggi del 09.03.2016).
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MASSIMA
3. Il primo motivo è fondato e va accolto.
La sentenza impugnata ha accolto la tesi dei contribuenti
secondo cui dal
calcolo della superficie utile complessiva dovesse
escludersi non solo la
superficie di alcuni locali del piano seminterrato
concretamente adibiti a
cantina, ma anche due disimpegni realizzati a servizio sia
dei locali cantina che di altri locali, in particolare del
locale taverna e del locale lavanderia, ciò
che ha consentito di giungere alla determinazione del
calcolo della superficie
utile complessiva in misura inferiore ai mq 240.
Giova in proposito ricordare che l'art. 6 del d.m. 02.08.1969, in combinato
disposto con l'art. 1, nota H-bis, della Tariffa, parte I,
allegata al D.P.R. n.
131/1986, esclude dall'agevolazione cd. prima casa
l'acquisto per
destinazione abitativa di immobili di lusso, per tali
dovendosi intendere -per
quanto stabilito dal succitato art. 6- "le singole unità
immobiliari aventi
superficie utile complessiva superiore a mq 240 (esclusi i
balconi, le terrazze,
le cantine, le soffitte, le scale e posto macchine)".
Detta disposizione, in quanto norma tributaria che prevede
un'agevolazione
fiscale, è norma di stretta d'interpretazione, la cui
previsione non è dunque
suscettibile di un'interpretazione che ne ampli la sfera
applicativa.
La sentenza impugnata, che ha escluso dal calcolo della
superficie utile
complessiva dell'unità immobiliare non solo i locali adibiti
a cantina, ma
anche i disimpegni realizzati al servizio degli stessi e di
altri locali, quello
adibito a taverna e quello destinato a lavanderia, si pone
dunque in contrasto
con il principio di diritto più volte affermato da questa
Corte in controversie
similari e che va in questa sede ribadito, secondo cui "in
tema d'imposta di
registro, ipotecaria e catastale, per stabilire se
un'abitazione sia di lusso e,
quindi, esclusa dai benefici per l'acquisto della prima casa
ai sensi della
Tariffa parte I, art. I nota II-bis, del D.P.R. 26.04.1986, n. 131, la sua
superficie utile —complessivamente superiore a mq 240— va
calcolata alla
stregua del d.m. Lavori Pubblici 02.08.1969, n. 1072, che
va determinata
in quella che, dall'estensione globale riportata dall'atto
di acquisto
sottoposto all'imposta, residua una volta detratta la
superficie di balconi, terrazze, cantine, soffitte, scale
del posto macchina, senza che le suddette
previsioni, relative ad agevolazioni o benefici fiscali,
siano suscettibili di
un'interpretazione che ne ampli la sfera applicativa" (cfr.,
tra le molte, Cass.
civ. sez. VI — V ord. 17.06.2015, n. 12471; Cass. civ.
sez. V 17.01.2014, n. 861; Cass. civ. sez. V 26.10.2011, n. 22279).
La sentenza impugnata, che non si è attenuta a detto
principio, va dunque
cassata, con rinvio per nuovo esame a diversa sezione della
CTR della
Lombardia, che si atterrà al principio di diritto sopra
enunciato, decidendo
anche in ordine alla disciplina delle spese del presente
giudizio di legittimità. |
VARI:
Troppi gatti, l'area va tenuta pulita.
Chi si occupa di ospitare una colonia felina nel cortile di
casa deve fare i conti anche con le legittime aspettative
dei vicini. Quindi dovrà tenere pulito e limitare al massimo
anche i rumori e i danneggiamenti.
Lo ha chiarito il TAR Sicilia-Catania, Sez. III, con la
sentenza 12.01.2016 n.
3.
Un appassionato di gatti ha iniziato a radunare numerosi
animali in prossimità di casa offrendo loro cibo ed acqua.
Stanchi dell'inevitabile degrado conseguente al progressivo
aumento degli ospiti a quattro zampe, alcuni residenti hanno
richiesto l'intervento degli organi di vigilanza che dopo un
sopralluogo effettuato con la polizia municipale hanno
proposto al sindaco di disporre con ordinanza il ripristino
di adeguate condizioni igienico-sanitarie.
Contro questa determinazione l'interessato ha proposto senza
successo ricorso al collegio. Il tenutario di una colonia
felina, ai sensi della convenzione del consiglio d'Europa
del 1987, recepita in Italia con la legge 201/2010, è di
fatto chiunque detenga animali o abbia accettato di
occuparsene. Dunque è sufficiente offrire del cibo
puntualmente sul proprio terrazzo a dei gatti randagi per
diventare in qualche modo responsabili del loro benessere.
Ma se poi le condizioni igieniche dell'area privata
degradano per cattiva manutenzione o per la presenza di un
numero insostenibile di animali, allora il sindaco ha
facoltà di intervento. Ordinando anche di ridurre la
presenza dei gatti in sovrannumero sul terrazzo
(articolo ItaliaOggi del 10.03.2016). |
TRIBUTI:
Niente Ici sulle aree destinate a parco.
Non è dovuta l'imposta comunale sugli immobili, per un area
edificabile che sia stata destinata a «parco pubblico»,
anche se il comune abbia previsto per le stesse la c.d.
«compensazione edificatoria», trasferendo la capacità
edificatoria su altre aree di «atterraggio»; l'area
destinata a verde pubblico attrezzato, infatti, non può
comunque essere qualificata come fabbricabile, non
risultando integrato il presupposto per l'applicazione
dell'imposta.
È quanto si legge nella sentenza 08.01.2016 n. 1/29/16
della Ctr Lazio-Roma. La vertenza nasce dall'impugnazione di
un avviso di accertamento emesso dal comune di Roma, per il
recupero dell'Ici su delle aree edificabili, relativamente
all'anno 2007. Nel ricorso proposto all'attenzione della Ctp
di Roma, la società sosteneva che quelle aree fosse
intervenuto un vincolo di inedificabilità assoluta, poiché
le stesse erano state destinate a parco pubblico.
Il
resistente comune osservava, però, di aver dato luogo alla
procedura di compensazione, trasferendo la sottratta
capacità edificatoria su altre aree di atterraggio. Trattasi
di uno strumento di perequazione urbanistica, che si
sostanzia nel fatto che qualora un'area, suscettibile di
edificabilità in forza di uno strumento urbanistico
generale, venga sottratta all'uso privato per essere
destinata alla collettività (per effetto di un'apposizione
di vincolo per sopravvenute esigenze pubbliche) la capacità
edificatoria dell'area possa non essere azzerata, con
conseguente obbligo dell'Amministrazione di indennizzare il
proprietario, ma, non potendo essere esercitata in situ,
possa essere esercitata su altre aree individuate tra quelle
già in possesso dello stesso proprietario ovvero in altre
aree individuate dalla stessa Amministrazione.
Per tale ragione, secondo il comune, l'Ici sulle aree
destinate a verde pubblico rimane comunque dovuta, perché la
capacità edificatoria viene conservata e trasferita in seno
ad altre aree. La Ctp di Roma aderiva a tale interpretazione
e contro la sentenza di prime cure veniva proposto appello
dalla società.
La Ctr Lazio ha ribaltato l'esito del primo
grado, rilevando che l'apposizione del vincolo di
destinazione a verde pubblico esclude a priori che l'area
possa qualificarsi come fabbricabile, facendo venir meno il
presupposto per l'applicazione dell'imposta. L'appello della
società è stato quindi accolto, con compensazione delle
spese di giudizio tra le parti in causa.
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
[omissis] risulta in atti che la C. 2005 srl è proprietaria
di un'area ricadente nel comprensorio di «Tor Marancia», il
quale con la L.R. Lazio 31.05.2002, n. 14 è stato
inserito nel Parco Regionale dell'Appia Antica con la
conseguenza che le aree in esso ricomprese hanno perso la
qualità di aree edificabili e assunto la natura di «parco
pubblico».
Il comune di Roma Capitale insiste sulla legittimità del suo
operato sul rilievo dell'irrilevanza della perdita del
carattere edificatorio nelle aree site in località Tor
Marancia dal momento che tale capacità edificatoria è stata
trasferita in altre aree cd. di «atterraggio» attraverso il
meccanismo della compensazione.
Così individuato il «thema decidendum» va rimarcato il
principio dei giudici di legittimità secondo cui «In tema di
imposta comunale sugli immobili (Ici), un'area compresa in
una zona destinata dal Prg a verde pubblico attrezzato, è
sottoposta a un vincolo di destinazione che preclude ai
privati tutte quelle trasformazioni del suolo che sono
riconducibili alla nozione tecnica di edificazione. Ne
deriva che un'area con tali caratteristiche non può essere
qualificata come fabbricabile, ai sensi dell'art. 1, comma
2, dlgs n. 504 del 1992, e, quindi, il possesso della stessa
non può essere considerato presupposto dell'imposta comunale
in discussione» (cfr. Cass. n. 25672/2008; Cass.
n. 5992/2015).
Nel caso di specie, esaminato anche l'allegato tecnico
all'avviso di accertamento impugnato, è pacifico in atti che
i terreni oggetto del predetto avviso di accertamento sono
soggetti al vincolo di inedificabilità assoluta in quanto
inseriti nel Parco Pubblico di Appia Antica, come
riconosciuto dalla stessa difesa dell'appellato e pertanto
sono precluse all'appellante tutte quelle forme di
trasformazione del suolo che sono riconducibili alla nozione
tecnica di edificazione (Cass. 14.06.2007 n. 13917).
Le
compensazioni edificatorie sulle quali Roma Capitale fonda
la legittimità della sua pretesa creditoria, non rientrano
ancora al 01.01.2007 nel patrimonio della società
appellante poiché non risultano assegnati i terreni sui
quali dovranno «atterrare» le volumetrie già previste con
riferimento ai terreni di proprietà dell'appellante in «Tor
Marancia», onere incombente sull'appellato non assolto.
La tesi dell'appellato secondo sussisterebbe il presupposto
impositivo stante il cd. «credito edificatorio» su aree
diverse da quelle oggetto dell'avviso in presenza della
compensazione urbanistica va disattesa per l'assorbente
rilievo che la irreversibile destinazione dei terreni
facenti parte del Comprensorio di Tor Marancia ha azzerato
il valore di mercato delle aree.
Né, in assenza di atti che comprovano il permanere del
possesso di tali aree in capo all'appellato può trovare
applicazione l'art. 3 Dlgs n. 405 del 1992 richiamato dal
comune appellato. [omissis]
(articolo ItaliaOggi Sette del 07.03.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Condanna
per il reato di cui all'art. 44, lett. a), del d.P.R. n. 380
del 2001 per omessa esposizione del cartello di cantiere in
relazione a lavori di costruzione di edificio bifamiliare.
La violazione, da parte del titolare
del permesso a costruire, del committente, del
costruttore o del direttore dei lavori,
dell'obbligo della esposizione di un cartello contenente gli
estremi della concessione e degli autori dell'attività
costruttiva è penalmente sanzionata a condizione che lo
stesso sia espressamente previsto dai regolamenti edilizi o
dalla concessione.
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1. Za.Cr. e Za.Ma. hanno proposto ricorso avverso la
sentenza del Tribunale di Udine, sez. dist. di Palmanova,
che li ha condannati per il reato di cui all'art. 44, lett.
a), del d.P.R. n. 380 del 2001 per omessa esposizione del
cartello di cantiere in relazione a lavori di costruzione di
edificio bifamiliare.
2. Con un primo motivo lamentano violazione di legge
deducendo che la giurisprudenza di legittimità, con la
pronuncia n. 1524 del 1992, ha ritenuto la condotta de
qua integrante unicamente illecito amministrativo in
quanto non avente carattere urbanistico e conseguentemente
non rientrante nello spettro dell'art. 44, lett. a), cit..
Rilevano altresì che tale fatto è espressamente considerato
come illecito amministrativo da parte dell'art. 55, comma 1,
della legge regionale Friuli n. 19 del 11/11/2009, del resto
richiamata dal regolamento edilizio comunale di Lignano
Sabbiadoro. Oltre a ciò rilevano che la Regione Friuli
esercita la propria potestà legislativa in materia edilizia
in via esclusiva e non concorrente con quella statale come
indirettamente confermato anche dall'art. 22, comma 4, del
d.P.R. n. 380 del 2001.
3. Con un secondo motivo censurano poi l'erronea
applicazione della legge penale posto che l'art. 44, lett.
a), del d.P.R. n. 380 del 2001 riguarda provvedimenti di
natura strettamente urbanistica-edilizia, ovverossia le
ipotesi di violazione delle sole norme aventi rilevanza
sotto il profilo tecnico-costruttivo e non la violazione di
adempimenti formali non attinenti alla perfezione dell'atto
amministrativo.
CONSIDERATO IN DIRITTO
4. Entrambi i motivi, da valutare unitariamente perché
relativi ad una medesima complessiva censura, ovvero la non
rilevanza penale della condotta di omessa esposizione del
cartello di cantiere, sono infondati.
Va in primo luogo rilevato che, per giungere alla invocata
conclusione della natura di mero illecito amministrativo
della condotta in questione, il ricorso richiama un
risalente indirizzo, esemplificato dalle pronunce della Sez.
3, n. 13086 del 17/07/1987, Carraro, Rv. 177314, e n. 11 del
08/01/1992, P.M. in proc. Bazzi, Rv. 189624, già
contraddetto da pronuncia delle Sezioni Unite e, da allora,
rimasto isolato pur a seguito della nel frattempo
intervenuta formale modifica delle norme interessate.
Infatti il costante orientamento di questa Corte si è posto,
sin appunto dalla pronuncia delle Sez. U., n. 7978 del
29/05/1992, P.M. in proc. Aramini ed altro, Rv. 191176,
riferita alla previgente, omologa, disposizione di cui
all'art. 20, lett. a), della l. n. 47 del 1985, per giungere
fino ad oggi, nel senso di ritenere che la
violazione, da parte del titolare del permesso a
costruire, del committente, del costruttore
o del direttore dei lavori, dell'obbligo della
esposizione di un cartello contenente gli estremi della
concessione e degli autori dell'attività costruttiva è
penalmente sanzionata a condizione che lo stesso sia
espressamente previsto dai regolamenti edilizi o dalla
concessione (cfr.,
tra le altre, Sez. 3, n. 29730 del 04/06/2013, Stroppini ed
altri, Rv. 255836; Sez. 3, n. 46832 del 15/10/2009, Thabet
ed altro, Rv. 245613; Sez. 3, n. 16037 del 07/04/2006,
Bianco, Rv. 234330).
In particolare le Sezioni Unite, con la
pronuncia menzionata appena sopra, hanno posto l'accento,
nel contesto normativo in allora rappresentato dalla legge
n. 47 del 1985, sull'art. 4 della stessa che, intitolato "vigilanza
sull'attività urbanistico-edilizia nel territorio comunale
per assicurarne la rispondenza alle norme di legge e di
regolamento alle prescrizioni degli strumenti urbanistici ed
alle modalità esecutive fissate nella concessione o
nell'autorizzazione", prevedeva, all'ultimo comma, che
gli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria dessero
immediata comunicazione all'autorità giudiziaria, al
presidente della giunta regionale ed al sindaco ove nei
luoghi di realizzazione delle opere non fosse esibita la
concessione ovvero non fosse stato apposto il prescritto
cartello, "ovvero in tutti gli altri casi di presunta
violazione urbanistico-edilizia", da qui testualmente
desumendo, in particolare, come anche la sola violazione
dell'obbligo di apposizione del cartello fosse appunto
considerata dal legislatore come ipotesi di presunta
violazione urbanistico-edilizia e, come tale, di particolare
rilevanza ai suindicati fini; aveva aggiunto, a riprova,
come la sistemazione del prescritto cartello, contenente gli
estremi della concessione edilizia e degli autori
dell'attività costruttiva presso il cantiere, consentisse
una vigilanza rapida, precisa ed efficiente dell'attività
rispondendo allo scopo di permettere ad ogni cittadino di
verificare se i lavori fossero o meno stati autorizzati
dall'autorità competente.
Di qui, dunque, la riconducibilità della condotta omissiva
in questione all'interno dell'allora precetto dell'art. 20,
lett. a), della l. n. 47 del 1985 in relazione alla
inosservanza delle norme di cui alla stessa legge.
Né tali conclusioni possono mutare ove si
abbia riguardo alla sopravvenuta normativa rappresentata dal
d.P.R. n. 380 del 2001, posto che l'art. 27, comma 4, del
d.P.R. stesso ha riprodotto la previsione del previgente
art. 4 cit. relativa alla immediata comunicazione agli enti
competenti da parte degli ufficiali ed agenti di p.g. della
mancata apposizione del cartello così come di "tutti gli
altri casi di presunta violazione urbanistico-edilizia",
restando quindi confermata, contrariamente all'assunto sul
punto del ricorrente esposto in entrambi i motivi,
l'appartenenza della violazione in questione alla attività
edilizio-urbanistica e, dunque, la sanzionabilità della
stessa all'interno delle ipotesi di cui all'art. 44, lett.
a), del d.P.R. cit., così acquistando rilievo determinante
la previsione di essa all'interno dei regolamenti edilizi o
della concessione.
E, nella specie, neppure i ricorrenti contestano che, per
quanto riguarda il regolamento edilizio di Lignano
Sabbiadoro vigente all'epoca dei fatti, quest'ultimo
contenesse all'art. 22, come contestato in imputazione e
come affermato in sentenza, l'obbligo di esposizione del
cartello.
5. Va solo aggiunto che a diverse conclusioni non può
condurre l'ulteriore argomentazione in ordine alla specifica
previsione quale illecito amministrativo dell'omissione in
questione da parte dell'art. 55 della Legge Regionale del
Friuli Venezia Giulia, previsione che, anche in forza della
pretesa esclusiva potestà legislativa di detta Regione in
materia di edilizia, finirebbe per escludere ogni residua
valenza penale.
Infatti, oltre a doversi ribadire che in
materia di legislazione edilizia nelle regioni a statuto
speciale, pur spettando alla Regione una competenza
legislativa esclusiva in materia, la relativa legislazione
deve non solo rispettare i principi fondamentali stabiliti
dalla legislazione statale, ma deve anche essere
interpretata in modo da non collidere con i medesimi
(cfr., tra le tante, Sez. 3, n. 28560 del 26/03/2014, Alonzo,
Rv. 259938; Sez. 3, n. 2017 del 25/10/2007, Giangrasso, Rv.
238555), va osservato che alla stregua
dell'art. 9, comma 2, della l. n. 689 del 1981, espressivo
del principio di specialità, quando uno stesso fatto è
punito da una disposizione penale e da una disposizione
regionale che preveda una sanzione amministrativa, si
applica in ogni caso la disposizione penale, salvo che
quest'ultima sia applicabile solo in mancanza di altre
disposizioni penali
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 13.03.2015 n. 10713 - tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
sostituzione del tetto di copertura con altra modalità
costruttiva necessita di permesso di costruire quando,
implicando aumento della volumetria dell’immobile, non può
essere considerata alla stregua di un intervento di
manutenzione straordinaria.
Né è possibile giustificare l’incremento di volumetria,
realizzato nel caso di specie, per effetto della nuova
realizzazione della copertura, ricorrendo al concetto di
volume tecnico, come tale da non considerare nel calcolo
della volumetria complessivamente realizzata, atteso che la
nozione di 'volume tecnico' non computabile nella volumetria
non ricorre se non quando non sussistano modalità
alternative di costruzione non implicanti aumenti di
volumetria o comunque incrementi volumetrici del tutto
contenuti.
In altri termini, il richiamo al concetto di volume tecnico
non può giustificare qualsiasi incremento di volumetria,
rispetto a quella originariamente assentita, connesso
all’adozione di diverse modalità di realizzazione della
copertura dell’immobile rispetto a quella del progetto
originario.
---------------
2. Le censure spiegate avverso l’ordinanza di demolizione,
impugnata con il quinto atto per motivi aggiunti sono
infondate e vanno rigettate alla stregua delle osservazioni
che seguono.
2.1 In esito alla disposta verificazione, è emerso, come da
relazione del verificatore, che anche rispetto alla
volumetria complessivamente assentita con la concessione in
sanatoria, così come rettificata e pari a mc. 444,71,
risulta realizzato un maggior volume di mc 29,53, pari al
6,64%.
Detto incremento di volumetria è in difformità anche
rispetto ai nulla osta rilasciati dall’Ente Parco di Veio
(trattandosi di immobile in area soggetta a vincolo
paesistico) e allegati alla D.I.A. limitati al rivestimento
dell’edificio con intonaco civile e con obbligo di
mantenimento della cubatura preesistente.
Assume il verificatore che detto incremento di cubatura
sarebbe riferibile esclusivamente alle modifiche apportate
al tetto (nuova struttura costituita da trave portante,
morale, tavola) e quindi non sarebbe qualificabile come
variazione essenziale secondo quanto previsto nel comma 3
dell’art. 17 della legge reg. 15/2008 in quanto cubatura
riferibile interamente ad un volume tecnico.
2.2 La tesi non può essere condivisa.
La sostituzione del tetto di copertura con altra modalità
costruttiva necessita di permesso di costruire quando,
implicando aumento della volumetria dell’immobile, non può
essere considerata alla stregua di un intervento di
manutenzione straordinaria.
Né è possibile giustificare l’incremento di volumetria,
realizzato nel caso di specie, per effetto della nuova
realizzazione della copertura, ricorrendo al concetto di
volume tecnico, come tale da non considerare nel calcolo
della volumetria complessivamente realizzata, atteso che la
nozione di 'volume tecnico' non computabile nella
volumetria non ricorre se non quando non sussistano modalità
alternative di costruzione non implicanti aumenti di
volumetria o comunque incrementi volumetrici del tutto
contenuti.
In altri termini, il richiamo al concetto di volume tecnico
non può giustificare qualsiasi incremento di volumetria,
rispetto a quella originariamente assentita, connesso
all’adozione di diverse modalità di realizzazione della
copertura dell’immobile rispetto a quella del progetto
originario.
La realizzazione del cordolo perimetrale sovrastante le
murature portanti del fabbricato, con modifiche delle
altezze, costituisce modalità di realizzazione diversa da
quanto progettato, rispondente ad una delle possibili scelte
costruttive e in quanto tale non riconducibile, per quanto
detto, alla nozione di volume tecnico (la stessa soluzione
realizzativa avrebbe verosimilmente potuto essere conseguita
mediante riduzione dell’altezza delle murature perimetrali e
mantenimento delle altezze complessive medie e della
volumetria preesistente).
La maggiore volumetria realizzata, sebbene inferiore a
quanto indicato nel provvedimento impugnato, è comunque
superiore al 2% del volume complessivamente assentito,
rientrando quindi nella previsione di cui all’art. 17, comma
1, lett. c), della legge reg. 15/2008, e legittima parimenti
la misura sanzionatoria applicata dal Comune di Sacrofano.
2.3 A seguito dei chiarimenti resi dal verificatore in
ottemperanza all’ordinanza n. 5069/2014, resta confermato
che anche gli aumenti delle altezze medie sono riferibili
alla realizzazione della nuova copertura, considerato che,
anche a prescindere dalla correttezza del computo metrico
dell’altezza alla gronda del bene in 2,40 mt, e quindi anche
computando un’altezza alla gronda del bene pari a 2,46 mt,
la maggiore altezza delle pareti perimetrali sarebbe
comunque da ritenersi adeguamento tecnico connesso alla
modalità di realizzazione della struttura soprastante
(gettata di cordoli perimetrali per legare le mura portanti
alla copertura anche per ripianare i carichi derivanti dalle
strutture sovrastanti).
Ne consegue che l’intero incremento di volume è riferibile
alle modalità di realizzazione della nuova copertura
dell’immobile che, nella sua considerazione complessiva,
supera il limite del 2% rispetto alla volumetria assentita,
implicando quindi intervento in difformità dal titolo
abilitativo, atteso che l’immobile de quo è soggetto
a vincolo paesaggistico.
2.4 Va infatti rilevato che, ai sensi dell’art. 17, comma 4,
della legge reg. 15/2008, tutti gli interventi di cui al
comma 1 (ivi compresi gli aumenti di cubatura superiori al
limite del 2%), ove realizzati su immobile vincolato, sono
da considerarsi in totale difformità dal titolo abilitativo
ai fini dell’applicazione del relativo regime sanzionatorio,
con conseguente impossibilità di applicazione della sanzione
pecuniaria di cui all’art. 19 della legge reg. 15/2008.
2.5 La stessa disposizione stabilisce poi che tutti gli
altri interventi edilizi diversi da quelli di cui al comma
1, se realizzati su immobili vincolati, comportano
variazioni essenziali.
In base ad una lettura combinata dei commi 1, 3 e 4
dell’art. 17 menzionato si ha quindi, per quanto rileva in
questa sede, che mentre gli interventi edilizi su cubature
accessorie o volumi tecnici, sebbene implicanti aumenti di
volumetria superiori al 2%, non sono da considerarsi come
variazioni essenziali, nel caso in cui i medesimi interventi
riguardino beni vincolati sono da considerarsi comunque
variazioni essenziali, non potendosi giustificare, in
relazione ad immobili vincolati, interventi modificativi
della cubatura in assenza del nulla osta degli organi
preposti alla tutela del bene diversamente consentiti nei
limiti sopra detti per gli immobili non vincolati.
Ne consegue che, anche a prescindere dalla sopra rilevata
impossibilità di considerare l’intervento de quo come
riguardante esclusivamente un volume tecnico, atteso il
regime vincolistico cui il bene è sottoposto, l’incremento
di volumetria realizzato andrebbe comunque considerato come
variazione essenziale; cosicché il provvedimento
sanzionatorio impugnato sarebbe ugualmente legittimo e non
sarebbe ugualmente applicabile la mera sanzione pecuniaria
(cfr. sul punto Tar Lazio I-quater 06.09.2013 n. 8155)
(TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater,
sentenza 10.01.2015 n. 291 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il privato sanzionato con l'ordine di demolizione
per la costruzione di un'opera edilizia abusiva non può
invocare l'applicazione a suo favore della disposizione
contenuta nell'art. 34, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001 se
non fornisce seria ed idonea dimostrazione del pregiudizio
stesso sulla struttura e sull'utilizzazione del bene
residuo, con la precisazione che un eventuale pregiudizio
può avere rilievo solo in sede di esecuzione e non rileva ai
fini della legittimità dell'ordine demolitorio.
Il ricorrente non ha fornito detta prova, a nulla valendo
che la demolizione implicherebbe una notevole spesa o
potrebbe incidere sulla funzionalità del manufatto, perché
per impedire l'applicazione della sanzione demolitoria
occorre un effettivo pregiudizio alla restante parte
dell'edificio, consistente in una menomazione dell'intera
stabilità del manufatto.
Inoltre, come rilevato dal Comune resistente, la copertura
del tetto è in legno e non appare verosimile che la sua
demolizione e rifacimento con conservazione della volumetria
originariamente assentita possa recare pregiudizio
irreparabile alla stabilità dell’immobile.
---------------
3. Quanto alle censure di cui agli altri motivi aggiunti, e
inerenti la mancata applicazione del regime di cui all’art.
34 del d.p.r. 380/2001, è sufficiente ribadire che la norma
richiamata non è applicabile alle sanzioni demolitorie
comminate per opere insistenti su zona vincolata (art. 27
del medesimo D.P.R. 380 del 2001)
Inoltre, come sopra detto, gli interventi in questione non
possono essere considerati "interventi eseguiti in
parziale difformità dal permesso di costruire",
contemplati nel citato art. 34, trattandosi di interventi in
totale difformità al titolo edilizio.
Ad ogni buon conto, va rilevato che, secondo costante
orientamento giurisprudenziale, il privato sanzionato con
l'ordine di demolizione per la costruzione di un'opera
edilizia abusiva non può invocare l'applicazione a suo
favore della disposizione contenuta nell'art. 34, comma 2,
del D.P.R. n. 380/2001 se non fornisce seria ed idonea
dimostrazione del pregiudizio stesso sulla struttura e
sull'utilizzazione del bene residuo, con la precisazione che
un eventuale pregiudizio può avere rilievo solo in sede di
esecuzione e non rileva ai fini della legittimità
dell'ordine demolitorio (cfr. C.d.S., sez. V, 05.09.2011, n.
4982; TAR Campania, Napoli, sez. IV, 05.08.2013, n. 4056).
Il ricorrente non ha fornito detta prova, a nulla valendo
che la demolizione implicherebbe una notevole spesa o
potrebbe incidere sulla funzionalità del manufatto, perché
per impedire l'applicazione della sanzione demolitoria
occorre un effettivo pregiudizio alla restante parte
dell'edificio, consistente in una menomazione dell'intera
stabilità del manufatto.
Inoltre, come rilevato dal Comune resistente, la copertura
del tetto è in legno e non appare verosimile che la sua
demolizione e rifacimento con conservazione della volumetria
originariamente assentita possa recare pregiudizio
irreparabile alla stabilità dell’immobile
(TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater,
sentenza 10.01.2015 n. 291 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'esercizio del potere repressivo degli abusi
edilizi costituisce manifestazione di attività
amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi
provvedimenti, quali l'ordinanza di demolizione,
costituiscono atti vincolati per la cui adozione non vi è
spazio per momenti partecipativi del destinatario dell'atto
(per es. non è necessario l'invio della comunicazione di
avvio del procedimento), ivi compresa la partecipazione al
procedimento di autotutela su atti repressivi di abusi
edilizi.
---------------
3.1 Quanto alle censure relative alla violazione delle
regole sulla partecipazione dell’interessato al
procedimento, va rammentato il costante orientamento
giurisprudenziale, anche della Sezione, secondo il quale
l'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi
costituisce manifestazione di attività amministrativa
doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti,
quali l'ordinanza di demolizione, costituiscono atti
vincolati per la cui adozione non vi è spazio per momenti
partecipativi del destinatario dell'atto (per es. non è
necessario l'invio della comunicazione di avvio del
procedimento), ivi compresa la partecipazione al
procedimento di autotutela su atti repressivi di abusi
edilizi
(TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater,
sentenza 10.01.2015 n. 291 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Integra il reato previsto dall'art. 44,
lett. a), d.P.R. 06.06.2001, n. 380, anche l'esposizione, in
maniera non visibile, del cartello indicante il titolo
abilitativo e i nominativi dei responsabili, ancorché esso
risulti presente all'interno del cantiere.
La circostanza che lo stesso cartello fosse
presente all'inizio dei lavori, peraltro, non esclude la
configurabilità del reato in quanto ciò che rileva è che lo
stesso non fosse esposto al momento del controllo da parte
del personale di vigilanza, in quanto funzione del cartello
è proprio quello di rendere edotti gli organi di vigilanza
dell'esistenza in loco di interventi edilizi, al fine di
consentire l'espletamento di tutte quelle attività di
verifica dell'osservanza della normativa edilizia e di
corrispondenza dell'assentito al realizzato.
---------------
1. VE.BR. ha proposto ricorso, a mezzo del difensore
fiduciario cassazionista, avverso la sentenza del Tribunale
di ACQUI TERME, emessa in data 11/03/2013, depositata in
data 10/04/2013, con cui il ricorrente è stato condannato
alla pena di 1.000,00 di ammenda per il reato di cui
all'art. 27, comma 4, e 44, comma 1, lett. a), d.P.R. n.
380/2001, perché, quale esecutore dei lavori, ometteva
(unitamente a Ro.Br., titolare del p.d.c. e committente, non
ricorrente in questa sede) di esporre nel cantiere sito in
Acqui Terme, via ..., il prescritto cartello riportante i
dati del cantiere (accertato in Acqui Terme, il 23/05/2009).
...
3. Il ricorso dev'essere dichiarato inammissibile per
manifesta infondatezza.
4. Ed invero, seguendo l'ordine logico e cronologico, quanto
al primo motivo di ricorso, con cui si censura la violazione
di legge per la erronea valutazione dell'art. 27, d.P.R. n.
380/2001, la manifesta infondatezza del medesimo discende
dal
pacifico orientamento giurisprudenziale
secondo cui integra il reato previsto dall'art. 44, lett.
a), d.P.R. 06.06.2001, n. 380, anche l'esposizione, in
maniera non visibile, del cartello indicante il titolo
abilitativo e i nominativi dei responsabili, ancorché esso
risulti presente all'interno del cantiere
(Sez. 3, n. 40118 del 22/05/2012 - dep. 11/10/2012, Zago ed
altri, Rv. 253673).
Dallo stesso ricorso, peraltro, emerge che il cartello non
era visibile per esigenza momentanee, in quanto era stato
rimosso e posizionato all'interno del cantiere medesimo al
fine di consentire alla ditta Co. di effettuare alcuni
lavori all'oleodotto.
La circostanza che lo stesso fosse presente
all'inizio dei lavori, peraltro, non esclude la
configurabilità del reato in quanto ciò che rileva è che lo
stesso non fosse esposto al momento del controllo da parte
del personale di vigilanza, in quanto funzione del cartello
è proprio quello di rendere edotti gli organi di vigilanza
dell'esistenza in loco di interventi edilizi, al fine di
consentire l'espletamento di tutte quelle attività di
verifica dell'osservanza della normativa edilizia e di
corrispondenza dell'assentito al realizzato
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 30.04.2014 n. 28123 - data udienza). |
EDILIZIA PRIVATA: La
presentazione dell'istanza di sanatoria successivamente alla
impugnazione dell'ordinanza di demolizione -o alla notifica
del provvedimento di irrogazione delle altre sanzioni per
gli abusi edilizi- produce l'effetto di rendere inefficace
tale provvedimento e, quindi, improcedibile l'impugnazione
stessa, per sopravvenuta carenza di interesse, in quanto il
riesame dell'abusività dell'opera, sia pure al fine di
verificarne la eventuale sanabilità, provocato da detta
istanza, comporta la necessaria formazione di un nuovo
provvedimento (di accoglimento o di rigetto), che vale
comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto
dell'impugnativa.
---------------
... per l'annullamento:
- della disposizione dirigenziale n. 1037 del 31.08.2005
notificata il 03.07.2009 di demolizione di una
sopraelevazione di circa 90 mq con struttura portante in
legno e copertura a quattro falde, altezza al colmo di mt 4
ed alla gronda mt 2,30;
- della disposizione dirigenziale n. 472 del 24.06.2009
notificata il 03.07.2009 di acquisizione gratuita al
patrimonio comunale, relativamente ad opere abusive eseguire
alla via ... n. 49;
- dei verbali di sopralluogo, di estremi ignoti, e di quello
del 03.07.2004;
...
Il ricorso principale verte sulla impugnativa della
ingiunzione a demolire e della determinazione di
acquisizione spedite ai ricorrenti a fronte della abusiva
edificazione da parte degli stessi, su un preesistente
immobile sito alla via ... n. 49, di un piano in
sopraelevazione della superficie di circa 90 mq, con altezza
al colmo di mt 4 ed alla gronda di mt 2,30.
Con i motivi aggiunti successivamente notificati in data
07.05.2010, parte ricorrente ha impugnato il diniego di
accertamento di conformità di cui alla disposizione
dirigenziale n. 56/2010.
Va preliminarmente rilevato che il ricorso principale è
improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse, poiché
la parte ha presentato domanda di accertamento di
conformità, che risulta successivamente denegata, e che è
stata impugnata con i motivi aggiunti.
Invero, secondo il consolidato orientamento
giurisprudenziale, anche di questo tribunale, la
presentazione dell'istanza di sanatoria successivamente alla
impugnazione dell'ordinanza di demolizione -o alla notifica
del provvedimento di irrogazione delle altre sanzioni per
gli abusi edilizi- produce l'effetto di rendere inefficace
tale provvedimento e, quindi, improcedibile l'impugnazione
stessa, per sopravvenuta carenza di interesse, in quanto il
riesame dell'abusività dell'opera, sia pure al fine di
verificarne la eventuale sanabilità, provocato da detta
istanza, comporta la necessaria formazione di un nuovo
provvedimento (di accoglimento o di rigetto), che vale
comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto
dell'impugnativa (cfr. Cons. Stato, sez. V, 21.04.1997, n.
3563; sez. IV, 11.12.1997, n. 1377; C.G.A. 27.05.1997, n.
187; TAR Sicilia, sez. II, 05.10.2001, n. 1392; TAR Liguria,
sez. II, 14.12.2000, n. 1310; TAR Toscana, sez. III,
18.12.2001, n. 2024; TAR Puglia, Bari, sez. II, 11.01.2002,
n. 154; TAR Campania, Sez. IV, 25.05.2001, n. 2340,
11.12.2002, n. 7994, 30.06.2003, n. 7902, 02.02.2004, n.
1239, 13.09.2004, n. 11983).
Nella specie, infatti, l’amministrazione ha emesso il
diniego esplicito sulla istanza di parte, che risulta
impugnato con motivi aggiunti, nel quale è stata reiterata
la diffida a demolire.
Alla stregua di quanto osservato, deve rilevarsi che gli
originari ricorrenti non hanno più alcuna utilità ad
ottenere una decisione di merito sulle domande giudiziali
proposte avverso gli atti sanzionatori –demolizione ed
acquisizione- aventi ad oggetto le medesime opere ed emessi
in data antecedente alla richiesta di sanatoria edilizia,
spostandosi il loro interesse processuale sull’impugnativa
della determinazione reiettiva delle domande di accertamento
di conformità e sull’ulteriore ingiunzione ripristinatoria
contestualmente emessa dall’amministrazione. Deve pertanto
dichiararsi l’improcedibilità del ricorso principale.
Può reputarsi, invece, persistente l’interesse con riguardo
all’impugnazione del provvedimento del 11.02.2010 di diniego
dell’istanza di accertamento di conformità urbanistica per
gli stessi interventi.
Per tale parte il ricorso è infondato e va respinto
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 05.08.2013 n. 4056 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Con
riferimento alla presentata istanza di accertamento di
conformità urbanistica ed a fronte della chiara motivazione
posta a base del rigetto –ove si precisa che la tipologia
delle opere realizzate, che hanno comportato un aumento
volumetrico, è in contrasto con le disposizioni di cui agli
artt. 31 e 33 della variante generale al PRG, che non
consentono interventi ulteriori rispetto alla conservazione
dei volumi legittimi esistenti– gli istanti si sono limitati
ad assumere genericamente, con argomentazioni del tutto
inconferenti, che l'abuso sarebbe stato realizzato in zona
che è stata interessata di fatto da un processo di
edificazione ed urbanizzazione.
Al riguardo, è agevole osservare che le prescrizioni
urbanistiche che precludono l’ammissibilità del tipo di
intervento eseguito non possono, con tutta evidenza,
ritenersi superate dalla situazione di urbanizzazione della
zona, che non può, per ciò solo, giustificare la
realizzazione di illeciti edilizi e paralizzare la potestà
sanzionatoria attribuita all’amministrazione comunale
riguardo ad ulteriori compromissioni del proprio territorio.
---------------
... per l'annullamento:
- della disposizione dirigenziale n. 1037 del 31.08.2005
notificata il 03.07.2009 di demolizione di una
sopraelevazione di circa 90 mq con struttura portante in
legno e copertura a quattro falde, altezza al colmo di mt 4
ed alla gronda mt 2,30;
- della disposizione dirigenziale n. 472 del 24.06.2009
notificata il 03.07.2009 di acquisizione gratuita al
patrimonio comunale, relativamente ad opere abusive eseguire
alla via ... n. 49;
- dei verbali di sopralluogo, di estremi ignoti, e di quello
del 03.07.2004;
...
Il ricorso principale verte sulla impugnativa della
ingiunzione a demolire e della determinazione di
acquisizione spedite ai ricorrenti a fronte della abusiva
edificazione da parte degli stessi, su un preesistente
immobile sito alla via ... n. 49, di un piano in
sopraelevazione della superficie di circa 90 mq, con altezza
al colmo di mt 4 ed alla gronda di mt 2,30.
Con i motivi aggiunti successivamente notificati in data
07.05.2010, parte ricorrente ha impugnato il diniego di
accertamento di conformità di cui alla disposizione
dirigenziale n. 56/2010.
Va preliminarmente rilevato che il ricorso principale è
improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse, poiché
la parte ha presentato domanda di accertamento di
conformità, che risulta successivamente denegata, e che è
stata impugnata con i motivi aggiunti.
...
Invero, a fronte della chiara motivazione posta a base del
rigetto –ove si precisa che la tipologia delle opere
realizzate, che hanno comportato un aumento volumetrico, è
in contrasto con le disposizioni di cui agli artt. 31 e 33
della variante generale al PRG, che non consentono
interventi ulteriori rispetto alla conservazione dei volumi
legittimi esistenti– gli istanti si sono limitati ad
assumere genericamente, con argomentazioni del tutto
inconferenti, che l'abuso sarebbe stato realizzato in zona
che è stata interessata di fatto da un processo di
edificazione ed urbanizzazione.
Al riguardo, è agevole osservare che le prescrizioni
urbanistiche che precludono l’ammissibilità del tipo di
intervento eseguito non possono, con tutta evidenza,
ritenersi superate dalla situazione di urbanizzazione della
zona, che non può, per ciò solo, giustificare la
realizzazione di illeciti edilizi e paralizzare la potestà
sanzionatoria attribuita all’amministrazione comunale
riguardo ad ulteriori compromissioni del proprio territorio
(cfr., in termini, TAR Campania, Sezione II, 29.06.2007 n.
6394)
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 05.08.2013 n. 4056 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai fini dell'emanazione dell’ordine di
demolizione di un'opera edilizia abusiva, l’amministrazione
non è tenuta ad accertare e dimostrare l'epoca in cui la
stessa è stata realizzata, essendo sufficiente
l'accertamento della permanenza dell'opera abusiva nel
momento in cui il provvedimento è adottato, mentre la
determinazione di una data diversa da quella della sua
commissione, rispetto alla contestazione
dell'amministrazione, può essere conseguente solo ad una
specifica produzione di elementi probatori da parte degli
interessati, idonei a superare la presunzione per la quale
l'abuso è stato realizzato in data prossima
all'accertamento.
Per giurisprudenza oramai costante, inoltre, i poteri
sanzionatori in materia edilizia possono essere adottati
anche a distanza di anni dalla realizzazione dell'abuso e
non necessitano di particolare motivazione in ordine
all'attualità dell'interesse pubblico in quanto gli abusi
edilizi sono illeciti a carattere permanente.
In proposito, peraltro, si è precisato che i poteri
repressivi del Comune in materia urbanistica non si
estinguono per decadenza o prescrizione, con la conseguenza
che i relativi provvedimenti possono essere emanati in
qualsiasi tempo, in quanto il potere sanzionatorio del
Comune non incontra nella materia in questione limiti
temporali.
---------------
... per l'annullamento:
- della disposizione dirigenziale n. 1037 del 31.08.2005
notificata il 03.07.2009 di demolizione di una
sopraelevazione di circa 90 mq con struttura portante in
legno e copertura a quattro falde, altezza al colmo di mt 4
ed alla gronda mt 2,30;
- della disposizione dirigenziale n. 472 del 24.06.2009
notificata il 03.07.2009 di acquisizione gratuita al
patrimonio comunale, relativamente ad opere abusive eseguire
alla via ... n. 49;
- dei verbali di sopralluogo, di estremi ignoti, e di quello
del 03.07.2004;
...
Il ricorso principale verte sulla impugnativa della
ingiunzione a demolire e della determinazione di
acquisizione spedite ai ricorrenti a fronte della abusiva
edificazione da parte degli stessi, su un preesistente
immobile sito alla via ... n. 49, di un piano in
sopraelevazione della superficie di circa 90 mq, con altezza
al colmo di mt 4 ed alla gronda di mt 2,30.
Con i motivi aggiunti successivamente notificati in data
07.05.2010, parte ricorrente ha impugnato il diniego di
accertamento di conformità di cui alla disposizione
dirigenziale n. 56/2010.
Va preliminarmente rilevato che il ricorso principale è
improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse, poiché
la parte ha presentato domanda di accertamento di
conformità, che risulta successivamente denegata, e che è
stata impugnata con i motivi aggiunti.
...
Nemmeno convince il motivo con il quale si deduce la lesione
dell’affidamento ingeneratosi nella parte a causa del lungo
lasso di tempo trascorso tra la realizzazione dell’abuso e
l’ingiunzione demolitoria.
Al riguardo si deve innanzitutto osservare che secondo un
ormai consolidato principio, ai fini dell'emanazione
dell’ordine di demolizione di un'opera edilizia abusiva,
l’amministrazione non è tenuta ad accertare e dimostrare
l'epoca in cui la stessa è stata realizzata, essendo
sufficiente l'accertamento della permanenza dell'opera
abusiva nel momento in cui il provvedimento è adottato,
mentre la determinazione di una data diversa da quella della
sua commissione, rispetto alla contestazione
dell'amministrazione, può essere conseguente solo ad una
specifica produzione di elementi probatori da parte degli
interessati, idonei a superare la presunzione per la quale
l'abuso è stato realizzato in data prossima all'accertamento
(fra le tante: TAR Campania, Napoli, sez. IV n. 4703 del
26.10.2001, TAR Trentino Alto Adige–Bolzano n. 283 del
09.11.2001).
Per giurisprudenza oramai costante, inoltre, i poteri
sanzionatori in materia edilizia possono essere adottati
anche a distanza di anni dalla realizzazione dell'abuso e
non necessitano di particolare motivazione in ordine
all'attualità dell'interesse pubblico in quanto gli abusi
edilizi sono illeciti a carattere permanente (cfr. Consiglio
di Stato, Sez. V, 06.09.1999, n. 1015, TAR Campania, Napoli,
sez. IV, n. 1909 del 01.03.2003, TAR Lazio, sez. II n. 5630
del 25.06.2003).
In proposito, peraltro, si è precisato che i poteri
repressivi del Comune in materia urbanistica non si
estinguono per decadenza o prescrizione, con la conseguenza
che i relativi provvedimenti possono essere emanati in
qualsiasi tempo, in quanto il potere sanzionatorio del
Comune non incontra nella materia in questione limiti
temporali (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 2045 del
02.05.2005).
I fatti sono stati adeguatamente descritti nell’atto
impugnato: è perciò infondato il motivo di ricorso, che
lamenta difetto di motivazione; peraltro l’atto
sanzionatorio di abuso edilizio ha natura dovuta e contenuto
vincolato: esso non va dunque motivato con riferimento
all’interesse pubblico leso.
È perciò inoltre infondato il motivo di ricorso, nella parte
in cui lamenta difetto di motivazione sulla scelta della
sanzione da irrogare, posto che il Comune non gode di alcuna
discrezionalità amministrativa sul punto
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 05.08.2013 n. 4056 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il privato sanzionato con l'ordine di demolizione
per la costruzione di un'opera edilizia abusiva, non può
invocare l'applicazione a suo favore dell'art. 12, comma 2,
della l. n. 47/1985 (oggi: art. 34, comma 2, d.P.R. n. 380
del 2001), che comporta l'applicazione della sola sanzione
pecuniaria nel caso in cui l'ingiunta demolizione non possa
avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in
conformità, se non fornisce seria ed idonea dimostrazione
del pregiudizio stesso sulla struttura e sull'utilizzazione
del bene residuo, a nulla valendo che la demolizione
implicherebbe una notevole spesa e potrebbe incidere sulla
funzionalità del manufatto, perché per impedire
l'applicazione della sanzione demolitoria occorre un
effettivo pregiudizio alla restante parte dell'edificio,
consistente in una menomazione della intera stabilità del
manufatto.
L’applicazione della sanzione pecuniaria ha carattere del
tutto residuale, e viene innescata non già da una verifica
tecnica di cui la parte pubblica non può venire
ragionevolmente gravata, ma da un’istanza presentata a tal
fine dalla parte privata ad essa interessata.
L’amministrazione è tenuta al solo accertamento che l’opera
sia abusiva, posto che ulteriori adempimenti, relativi
all’eseguibilità dell’ordine senza pregiudizio per la parte
conforme, richiederebbero sopralluoghi ed accertamenti
incompatibili con il breve termine di 45 giorni concesso
dalla legge ai fini della sospensione dei lavori in corso
(art. 27, comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001).
Ne segue l’impercorribilità di un processo interpretativo
che oneri la parte pubblica di verifiche tecniche, anche
complesse, in una fase anteriore all’emissione dell’ordine
di demolizione, a rischio di compromettere gli effetti della
ordinanza sospensiva dei lavori, e dunque di tollerare una
ulteriore compromissione dell’assetto urbanistico-edilizio.
Del resto, è proprio la parte privata, autrice dell’opera e
del progetto, ad essere a conoscenza di come esso è stato
eseguito, e di quali danni potrebbero prodursi, a seguito di
demolizione, in pregiudizio della parte conforme.
Si deve perciò ritenere che l’ordine di demolizione vada
adottato anche in assenza di una verifica di tale profilo,
la cui rilevanza va invece segnalata, e comprovata, dalla
parte che vi abbia interesse durante la fase esecutiva. A
tale principio va dunque ascritto il prevalente, per quanto
non univoco, orientamento giurisprudenziale, che colloca in
detta fase l’accertamento della ineseguibilità dell’ordine
di demolizione.
Tale assetto, del resto, non lede in alcun modo il diritto
di difesa del privato, né ne sacrifica gli interessi.
Difatti, a fronte di un ordine di demolire, quest’ultimo,
entro il termine concessogli ai sensi degli artt. 33 e 34
del d.P.R. n. 380 del 2001, ben può rappresentare
all’amministrazione procedente l’impossibilità tecnica ad
eseguire quanto prescritto, purché congruamente comprovata.
In tal caso, è obbligo dell’ufficio tecnico comunale
attivarsi per le verifiche del caso, con la conseguenza che,
nelle more, il termine non può decorrere e la demolizione
d’ufficio è preclusa. Ove emerga la dedotta impossibilità,
la legge fa divieto di procedere alla demolizione d’ufficio,
sicché sarà cura del Comune adottare l’atto applicativo
della sanzione pecuniaria alternativamente prevista, con
tacita revoca dell’ordine demolitorio.
---------------
... per l'annullamento:
- della disposizione dirigenziale n. 1037 del 31.08.2005
notificata il 03.07.2009 di demolizione di una
sopraelevazione di circa 90 mq con struttura portante in
legno e copertura a quattro falde, altezza al colmo di mt 4
ed alla gronda mt 2,30;
- della disposizione dirigenziale n. 472 del 24.06.2009
notificata il 03.07.2009 di acquisizione gratuita al
patrimonio comunale, relativamente ad opere abusive eseguire
alla via ... n. 49;
- dei verbali di sopralluogo, di estremi ignoti, e di quello
del 03.07.2004;
...
Il ricorso principale verte sulla impugnativa della
ingiunzione a demolire e della determinazione di
acquisizione spedite ai ricorrenti a fronte della abusiva
edificazione da parte degli stessi, su un preesistente
immobile sito alla via ... n. 49, di un piano in
sopraelevazione della superficie di circa 90 mq, con altezza
al colmo di mt 4 ed alla gronda di mt 2,30.
Con i motivi aggiunti successivamente notificati in data
07.05.2010, parte ricorrente ha impugnato il diniego di
accertamento di conformità di cui alla disposizione
dirigenziale n. 56/2010.
Va preliminarmente rilevato che il ricorso principale è
improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse, poiché
la parte ha presentato domanda di accertamento di
conformità, che risulta successivamente denegata, e che è
stata impugnata con i motivi aggiunti.
...
Con un ulteriore, si lamenta violazione dell’art. 33 del
d.P.R. n. 380 del 2001, posto che la demolizione
arrecherebbe pregiudizio alla parte conforme.
Il Tribunale osserva, in primo luogo, che “il privato
sanzionato con l'ordine di demolizione per la costruzione di
un'opera edilizia abusiva, non può invocare l'applicazione a
suo favore dell'art. 12, comma 2, della l. n. 47/1985 (oggi:
art. 34, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001), che comporta
l'applicazione della sola sanzione pecuniaria nel caso in
cui l'ingiunta demolizione non possa avvenire senza
pregiudizio della parte eseguita in conformità, se non
fornisce seria ed idonea dimostrazione del pregiudizio
stesso sulla struttura e sull'utilizzazione del bene
residuo, a nulla valendo che la demolizione implicherebbe
una notevole spesa e potrebbe incidere sulla funzionalità
del manufatto, perché per impedire l'applicazione della
sanzione demolitoria occorre un effettivo pregiudizio alla
restante parte dell'edificio, consistente in una menomazione
della intera stabilità del manufatto” (così Cons. Stato,
sez. V, n. 4982 del 2011).
L’applicazione della sanzione pecuniaria ha carattere del
tutto residuale (in termini, Cons. Stato, sez. VI, n. 1793
del 2012), e viene innescata non già da una verifica tecnica
di cui la parte pubblica non può venire ragionevolmente
gravata, ma da un’istanza presentata a tal fine dalla parte
privata ad essa interessata. L’amministrazione è tenuta al
solo accertamento che l’opera sia abusiva, posto che
ulteriori adempimenti, relativi all’eseguibilità dell’ordine
senza pregiudizio per la parte conforme, richiederebbero
sopralluoghi ed accertamenti incompatibili con il breve
termine di 45 giorni concesso dalla legge ai fini della
sospensione dei lavori in corso (art. 27, comma 3, d.P.R. n.
380 del 2001).
Ne segue l’impercorribilità di un processo interpretativo
che oneri la parte pubblica di verifiche tecniche, anche
complesse, in una fase anteriore all’emissione dell’ordine
di demolizione, a rischio di compromettere gli effetti della
ordinanza sospensiva dei lavori, e dunque di tollerare una
ulteriore compromissione dell’assetto urbanistico-edilizio.
Del resto, è proprio la parte privata, autrice dell’opera e
del progetto, ad essere a conoscenza di come esso è stato
eseguito, e di quali danni potrebbero prodursi, a seguito di
demolizione, in pregiudizio della parte conforme.
Si deve perciò ritenere che l’ordine di demolizione vada
adottato anche in assenza di una verifica di tale profilo,
la cui rilevanza va invece segnalata, e comprovata, dalla
parte che vi abbia interesse durante la fase esecutiva. A
tale principio va dunque ascritto il prevalente, per quanto
non univoco, orientamento giurisprudenziale, che colloca in
detta fase l’accertamento della ineseguibilità dell’ordine
di demolizione (da ultimo, Tar Napoli, n. 2635 del 2012; Tar
Toscana, n. 946 del 2012; Tar Puglia, n. 270 del 2011; Tar
Valle d’Aosta, n. 23 del 2009).
Tale assetto, del resto, non lede in alcun modo il diritto
di difesa del privato, né ne sacrifica gli interessi.
Difatti, a fronte di un ordine di demolire, quest’ultimo,
entro il termine concessogli ai sensi degli artt. 33 e 34
del d.P.R. n. 380 del 2001, ben può rappresentare
all’amministrazione procedente l’impossibilità tecnica ad
eseguire quanto prescritto, purché congruamente comprovata.
In tal caso, è obbligo dell’ufficio tecnico comunale
attivarsi per le verifiche del caso, con la conseguenza che,
nelle more, il termine non può decorrere e la demolizione
d’ufficio è preclusa. Ove emerga la dedotta impossibilità,
la legge fa divieto di procedere alla demolizione d’ufficio,
sicché sarà cura del Comune adottare l’atto applicativo
della sanzione pecuniaria alternativamente prevista, con
tacita revoca dell’ordine demolitorio.
La domanda va conclusivamente in parte dichiarata
improcedibile ed in parte respinta
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 05.08.2013 n. 4056 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La mancata esposizione del cartello indicante gli
estremi del titolo abilitativo edilizio ove prescritto dal
regolamento edilizio o dal provvedimento concessorio,
integra il reato di cui agli artt. 27, comma 4° e 44, lett.
a) del D.P.R. 380/2001, così come lo integra l'esposizione
in modo non visibile del cartello medesimo.
La ragione della valenza penale della condotta deriva dalla
continuità normativa in cui si pone l'art. 29 del D.P.R.
380/2001 rispetto all'ormai abrogato art. 6 della L. 47/1985
che prevedeva e sanzionava ab origine la condotta vietata di
cui si parla.
---------------
1.1 Con sentenza del 25.03.2009 il Tribunale di Salerno -Sezione
Distaccata di Eboli- dichiarava ST.Ge. e SO.Lu., (imputati,
in concorso tra loro, del reato di cui all'art. 44, lett.
a), del D.P.R. 380/01 - fatto accertato il 21.07.2006 e
commesso antecedentemente a tale data) colpevoli del reato
loro ascritto e li condannava, ciascuno, alla pena di €
2.000,00 di ammenda.
...
2. Per ciò che concerne, invece, l'attribuibilità della
condotta contestata (consistente nella esecuzione di lavori
in difformità della concessione a causa della mancata
esposizione del cartello indicante il titolo edilizio
abilitativo e le figure professionali e imprese addette ai
lavori), le censure contenute nei due ricorsi sono
manifestamente infondate.
2.1 E' anzitutto, inconsistente la tesi prospettata
nell'interesse del ricorrente ST. (soggetto proprietario
dell'area e del manufatto interessato dai lavori edilizi)
secondo la quale, stante la natura di reato proprio, il
proprietario è esonerato da responsabilità, gravante invece
su altri soggetti indicati dalla norma incriminatrice di cui
all'art. 29 del D.P.R. 380/2001: come più volte precisato
dalla giurisprudenza di questa Corte in materia di illeciti
urbanistici, il reato previsto dall'art. 20
della legge fondamentale urbanistica, oggi trasfuso
nell'art. 44 del D.P.R. 380/2001, pur potendosi definire "proprio",
(anche se non mancano tesi contrarie che attribuiscono a
tali reati la veste di illeciti "comuni" - vds. Sez.
3^ 22.11.2007 n. 47083, Tartaglia, Rv. 238471)
non esclude che soggetti diversi da quelli
individuati dall'art. 6 del D.P.R. 380/2001, possano
concorrere nella loro consumazione, nella misura in cui
apportino, nella realizzazione dell'evento, un proprio
contributo causale rilevante e consapevole
(in termini tra le tante, Sez. 3^ 23.03.2011 n. 16571,
Iacono e altri, Rv. 2501247; idem, 12.01.2007 n. 8667,
Forletti e altri, Rv. 236081, con specifico riferimento al
ruolo del proprietario non formalmente committente).
2.2 La decisione impugnata ha correttamente individuato
nello ST., proprietario del manufatto, uno dei soggetti
responsabili dell'abuso anche perché committente e, dunque,
formalmente incluso nel novero dei soggetti imputabili ai
sensi dell'art. 6 del D.P.R. 380/2001: la motivazione resa
sul punto si sottrae a qualsiasi censura, anche perché
basata su un ruolo attivo svolto dallo STABILE intento
-secondo quanto è dato leggere nella sentenza impugnata- ad
effettuare degli scavi con mezzi propri.
2.3 I rilievi difensivi contenuti nell'atto di impugnazione
sono, sul punto, oltre che inconsistenti, anche generici in
quanto non indicano elementi dai quali trarre il
convincimento di una totale estraneità dello ST.
all'attività edilizia
3. Parimenti inconsistente la tesi enunciata da entrambi i
ricorrenti della irrilevanza sotto il profilo penale della
mancata esposizione del cartello indicante il titolo
abilitativo e i nominativi dei soggetti professionali
incaricati dell'esecuzione delle opere: diversamente da
quanto sostenuto dagli imputati, la mancata
esposizione del cartello indicante gli estremi del titolo
abilitativo edilizio ove prescritto dal regolamento edilizio
o dal provvedimento concessorio, integra il reato di cui
agli artt. 27, comma 4° e 44, lett. a) del D.P.R. 380/2001,
così come lo integra l'esposizione in modo non visibile del
cartello medesimo. La ragione della valenza penale della
condotta deriva dalla continuità normativa in cui si pone
l'art. 29 del D.P.R. 380/2001 rispetto all'ormai abrogato
art. 6 della L. 47/1985 che prevedeva e sanzionava ab
origine la condotta vietata di cui si parla
(vds. sul punto, tra le tante, Sez. 3^ 07.04.2006 n. 16037,
Bianco, Rv. 234330; idem, 22.05.2012 n. 40118, Zago e altri,
Rv. 253673) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 04.06.2013 n. 1784 - data udienza). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il comma 2 dell'art. 33 dpr 380/2001 dispone che:
«Qualora, sulla base di motivato accertamento dell’ufficio
tecnico comunale, il ripristino dello stato dei luoghi non
sia possibile, il dirigente o il responsabile dell'ufficio
irroga una sanzione pecuniaria pari al doppio dell’aumento
di valore dell'immobile, conseguente alla realizzazione
delle opere[…]», di cui vengono indicate le modalità di
realizzazione.
La disposizione di esordio del comma 2, testé riportata (che
ripete l’art. 9 della legge 28.02.1985 n. 47), va intesa,
quanto al “ripristino dello stato dei luoghi” che “non sia
possibile”, nel senso che soltanto nel caso in cui risulti
oggettivamente impossibile il ripristino dello stato dei
luoghi va irrogata una sanzione pecuniaria.
---------------
3.1.– Con un primo motivo si assume l’erroneità della
sentenza nella parte in cui non ha rilevato la violazione
dell’art. 34 (Interventi eseguiti in parziale difformità dal
permesso di costruire) del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 del
2001 anche in relazione all’art. 7 della legge 07.08.1990,
n. 241. L’amministrazione, infatti, non avrebbe consentito
all’odierno appellante la partecipazione procedimentale al
fine di dimostrare che la demolizione avrebbe «arrecato
un pregiudizio alla struttura già esistente da tempo
immemorabile».
In particolare, l’art. 34 imporrebbe all’amministrazione,
nella scelta tra sanzione demolitoria e sanzione pecuniaria,
di valutare «preventivamente se la demolizione possa
avvenire senza pregiudizio della parte del fabbricato
eseguita in conformità».
Il motivo non è fondato.
In via preliminare, è bene chiarire che la fattispecie in
esame si caratterizza per la realizzazione di opere abusive,
incidenti su un preesistente fabbricato, realizzate senza
alcun titolo abilitativo. Ne consegue che non ricade
nell’ambito applicativo dell’art. 34 –il quale presuppone
l’esistenza di un permesso di costruire e della
realizzazione di opere in parziale difformità da esso– bensì
rientra nel campo di applicazione dell’art. 33 (Interventi
di ristrutturazione edilizia in assenza di permesso di
costruire o in totale difformità).
Tale disposizione, infatti, prevede, al comma 1, che gli
interventi e le opere di ristrutturazione edilizia (che, ai
sensi dell’art. 10, sono quelli che «portino ad un
organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente e che comportino aumento di unità immobiliari,
modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti o delle
superfici») «eseguiti in assenza di permesso o in
totale difformità da esso, sono rimossi ovvero demoliti e
gli edifici sono resi conformi alle prescrizioni degli
strumenti urbanistico-edilizi entro il congruo termine
stabilito dal dirigente o dal responsabile del competente
ufficio comunale con propria ordinanza, decorso il quale
l’ordinanza stessa è eseguita a cura del comune e a spese
dei responsabili dell’abuso».
Il comma 2 del medesimo art. 33 dispone che: «Qualora,
sulla base di motivato accertamento dell’ufficio tecnico
comunale, il ripristino dello stato dei luoghi non sia
possibile, il dirigente o il responsabile dell'ufficio
irroga una sanzione pecuniaria pari al doppio dell’aumento
di valore dell'immobile, conseguente alla realizzazione
delle opere[…]», di cui vengono indicate le modalità di
realizzazione.
La disposizione di esordio del comma 2, testé riportata (che
ripete l’art. 9 della legge 28.02.1985 n. 47), va intesa,
quanto al “ripristino dello stato dei luoghi” che “non
sia possibile”, nel senso che soltanto nel caso in cui
risulti oggettivamente impossibile il ripristino dello stato
dei luoghi va irrogata una sanzione pecuniaria.
Nel caso in esame, dalla valutazione della natura delle
opere quale risulta dagli atti del processo, consistenti
nell’ampliamento di un fabbricato preesistente e nella
tamponatura di una vecchia tettoia, non emerge alcun dato
che possa indurre a ritenere che non fosse materialmente
possibile ripristinare lo stato originario dei luoghi.
L’appellante non ha del resto dedotto alcun elemento
probatorio idoneo a condurre ad un diverso giudizio
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 29.11.2012 n. 6071 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’esercizio del potere repressivo degli abusi
edilizi costituisce manifestazione di attività
amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi
provvedimenti, quali l’ordinanza di demolizione,
costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è
necessario l’invio della comunicazione di avvio del
procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi
del destinatario dell’atto.
---------------
3.2.– Con un secondo motivo si deduce la violazione degli
artt. 7 e 8 della legge n. 241 del 1990, per mancata
comunicazione dell’avvio del procedimento, e il difetto di
istruttoria per non avere l’amministrazione valutato il «carico
urbanistico presente nella zona interessata».
Il motivo non è fondato.
La giurisprudenza del Consiglio di Stato, da cui non vi è
ragione di discostarsi, è costante nel considerare che
l’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi
costituisce manifestazione di attività amministrativa
doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti,
quali l’ordinanza di demolizione, costituiscono atti
vincolati per la cui adozione non è necessario l’invio della
comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi
spazio per momenti partecipativi del destinatario dell’atto
(tra gli altri Cons. Stato, IV, 18.09.2012; 10.08.2011, n.
4764; IV, 20.07.2011, n. 4403; VI, 24.09.2010, n. 7129).
Per quanto attiene, poi, all’assunta mancata valutazione del
«carico urbanistico presente nella zona», la stessa
-ammesso che non vi sia effettivamente stata- non ha, avuto
riguardo alla normativa del settore, alcuna incidenza o
valenza invalidante del provvedimento sanzionatorio, perché
il doveroso ripristino della situazione antecedente l’abuso
prescinde da un siffatto accertamento. Questo profilo è,
pertanto, irrilevante nel giudizio di abusività delle opere
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 29.11.2012 n. 6071 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'art. 27 DPR 380/2001 prevede che il
dirigente o il responsabile dell’ufficio ordina, qualora
accerti la violazione delle norme in materia edilizia,
«l’immediata sospensione dei lavori, che ha effetto fino
all’adozione dei provvedimenti definitivi[…],da adottare e
notificare entro quarantacinque giorni dall’ordine di
sospensione dei lavori».
La norma attribuisce all’amministrazione un potere cautelare
discrezionale che, in quanto tale, non rappresenta una fase
necessaria del procedimento sanzionatorio orientato alla
demolizione. La sua omissione, pertanto, non inficia la
validità del provvedimento finale adottato
dall’amministrazione comunale.
---------------
3.2.– Con un terzo motivo si deduce la violazione dell’art.
27 (Vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia) del d.P.R.
n. 380 del 2001 per non avere l’amministrazione adottato e
comunicato l’ordine di sospensione dei lavori.
Il motivo non è fondato.
Il citato art. 27 prevede che il dirigente o il responsabile
dell’ufficio ordina, qualora accerti la violazione delle
norme in materia edilizia, «l’immediata sospensione dei
lavori, che ha effetto fino all’adozione dei provvedimenti
definitivi[…],da adottare e notificare entro quarantacinque
giorni dall’ordine di sospensione dei lavori».
La norma attribuisce all’amministrazione un potere cautelare
discrezionale che, in quanto tale, non rappresenta una fase
necessaria del procedimento sanzionatorio orientato alla
demolizione. La sua omissione, pertanto, non inficia la
validità del provvedimento finale adottato
dall’amministrazione comunale.
4.– Per le ragioni sin qui esposte, l’appello deve essere
rigettato
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 29.11.2012 n. 6071 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Circa
la realizzazione abusiva di un ampliamento del magazzino
residenziale per una superficie complessiva di mq. 12,96 e
altezza interna di m. 3,50, con sovrastante copertura a
terrazzo, asseritamente pertinenziale al fabbricato
principale di civile abitazione di proprietà del ricorrente
medesimo, ove lo stesso risiede, v'è da dire che:
- la nozione di "ampliamento" non assurge ad autonoma
tipologia di intervento edilizio, ma confluisce nel genus di
"nuova costruzione", che trova la sua disciplina nell'art. 3
del D.P.R. 06/06/2001 n. 380;
- l'ampliamento, per il quale si prospetta la necessità di
titolo edilizio, consiste in una modifica del manufatto tale
da determinarne un aumento di sagoma;
- è noto, del resto, che la nozione di costruzione, ai fini
del rilascio del permesso di costruire, si configura in
presenza di opere che attuino un'evidente trasformazione del
tessuto urbanistico ed edilizio e le opere siano preordinate
a soddisfare esigenze non precarie sotto il profilo
funzionale;
- applicando le coordinate su indicate al caso di specie, si
può affermare che l’ampliamento realizzato sia tale da
configurare una nuova costruzione, dato –tra l’altro- che
non appare condivisibile la riduttiva definizione
dell’intervento sopra descritto come mera pertinenza, atteso
che, per principio pacifico, la nozione di pertinenza in
materia edilizia è più ristretta di quella civilistica ed è
riferibile ai soli manufatti di dimensioni tanto modeste e
ridotte rispetto alla cosa cui ineriscono da potersi
considerare sostanzialmente irrilevanti sotto il profilo
edilizio, non potendosi, conseguentemente, attribuire
carattere pertinenziale ai fini edilizi ad opere di
rilevante consistenza, anche se destinate al servizio od
ornamento del bene principale;
- il magazzino oggetto dell’intervento in questione, pur
potendo essere qualificato come bene pertinenziale secondo
la normativa privatistica, assume tuttavia una funzione
autonoma rispetto alla costruzione principale, non essendo
ad essa coessenziale e potendo, anzi, per idoneità oggettiva
e funzionale, essere utilizzato separatamente, evidenziando,
quindi, caratteristiche tali da comportare una incidenza sul
carico urbanistico ed una modifica permanente del territorio
nel quale si inserisce, peraltro vincolato sotto il profilo
paesaggistico;
- ai fini della qualificazione di una costruzione,
rilevano le caratteristiche oggettive della stessa,
prescindendosi dall’intento dichiarato dal privato di voler
destinare l’opera ad utilizzazioni più ristrette di quelle
alle quali il manufatto potenzialmente si presta.
---------------
- Considerato che il dirigente del Progetto finalizzato
condono edilizio della Divisione Urbanistica ed Edilizia del
Comune di Torino, con provvedimento in data 28.08.2008,
previo invio del preavviso di diniego ai sensi dell’art.
10-bis della legge n. 241 del 1990 e s.m.i., ha rigettato
l’istanza del signor Ac.Mu. tesa ad ottenere, ai sensi
dell’art. 32 del D.L. 30.09.2003, n. 269, convertito in
legge, con modificazioni, dall’art. 1 della L. 24.11.2003,
n. 326, il condono edilizio per la realizzazione abusiva di
un ampliamento del magazzino residenziale per una superficie
complessiva di mq. 12,96 e altezza interna di m. 3,50, con
sovrastante copertura a terrazzo, asseritamente
pertinenziale al fabbricato principale di civile abitazione
di proprietà del ricorrente medesimo, ove lo stesso risiede;
- Considerato che il condono è stato denegato sull’assunto
che le opere realizzate non siano suscettibili di sanatoria
“per contrasto con l’art. 32, comma 26, lett. a), e comma
27, lett. d), della legge 24.11.2003, n. 326, in quanto
opere appartenenti a tipologia di abuso non ammessa,
realizzate su immobili soggetti a vincoli imposti sulla base
di leggi statali e regionali a tutela dei beni ambientali e
paesistici, istituiti prima della esecuzione di dette opere,
in assenza del titolo abilitativo edilizio e non conformi
alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti
urbanistici”;
- Considerato, in particolare, che il competente dirigente
comunale ha verificato che:
- le opere insistono su area sottoposta a vincolo ambientale e
paesistico dal D.Lgs. 42 del 22/01/2004 (inclusa tra i “beni
paesaggistici indicati alla lett. b), del comma 1, dell’art.
134 e all’art. 136 del decreto citato"), in contrasto
con l’art. 32, comma 27, lett. d), della legge 326/2003 e
s.m.i., istituito in data antecedente alla realizzazione
delle opere medesime;
- l’intervento realizzato rientra nella tipologia 1 “Intervento
di nuova costruzione”, come definito dall’art. 3, comma
1, lett. e), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, realizzato in
assenza o in difformità del titolo abilitativo edilizio,
dall’allegato A di cui all’art. 32, comma 26, della legge
24.11.2003, n. 326, nonché dalle Norme Urbanistico Edilizie
di Attuazione del Piano Regolatore Generale della Città di
Torino all’art. 4, lett. f), come intervento di
completamento (ampliamento);
- in tali contesti sono unicamente ammessi interventi ricadenti
nelle tipologie 4, 5 e 6 se conformi agli strumenti
urbanistici, laddove il vincolo sia stato istituito prima
delle opere, previo parere dell’ente competente, come
disposto dalla deliberazione della Giunta comunale del
14.01.2004 ad oggetto “Indirizzi interpretativi per
l’applicazione della normativa in materia di condono
edilizio”;
- l’intervento edilizio realizzato non rientra tra quelli per i
quali è consentito il condono edilizio, trattandosi di
intervento di ampliamento (tipologia 1) e quindi eccedente
l’intervento di restauro e risanamento conservativo, massimo
consentito nelle aree soggette a vincolo;
- Considerato, inoltre, che il dirigente del Settore
Coordinamento Interventi Convenzionati e Vigilanza Edilizia
della Divisione Urbanistica ed Edilizia Privata, con
ordinanza in data 30.03.2009, n. 214, preceduta da
comunicazione di avvio del procedimento, ha ingiunto al
proprietario la demolizione dell’opera in questione e il
ripristino dello stato dei luoghi entro 90 giorni dalla sua
notifica;
- Considerato che il signor Mu., con ricorso depositato in
data 12.11.2008 e successivo ricorso per motivi aggiunti
depositato in data 10.07.2009 ha impugnato innanzi a questo
Tribunale Amministrativo tutti gli atti e i provvedimenti su
indicati, invocandone l’annullamento, previa sospensione
cautelare;
- Considerato che il Comune di Torino si è costituito in
giudizio per resistere ai ricorsi, contestandone la
fondatezza;
- Considerato che la Sezione, con ordinanza in data
24.07.2009, n. 624, ravvisando la sussistenza dei necessari
requisiti di fumus boni juris del ricorso ed
irreparabilità del pregiudizio lamentato in riferimento
all’ordinanza di demolizione impugnata, ne ha disposto la
sospensione, in accoglimento dell’istanza cautelare avanzata
dal ricorrente;
- Considerato che la causa è stata chiamata alla pubblica
udienza del 22.02.2012 e, quindi, trattenuta per la
decisione;
- Considerato che appaiono sussistenti i presupposti di
legge per definire il giudizio con sentenza in forma
semplificata ai sensi dell’art. 74 del c.p.a.;
- Considerato, in punto di diritto, che le disposizioni
della legge n. 326 del 2003 subordinano il rilascio del
titolo abilitativo edilizio in sanatoria –tra l’altro- alla:
- riconducibilità delle opere realizzate alle tipologie d’illecito
descritte nell’allegato 1, con la precisazione, contenuta
nell’art. 32, comma 26, lett. a), della legge n. 326 del
2003, che, nell'ambito degli immobili soggetti a vincolo di
cui all'articolo 32 della legge 28.02.1985, n. 47, sono
ammesse (unicamente) le tipologie descritte ai numeri 4, 5 e
6 ovvero:
a) opere di restauro e risanamento conservativo come
definite dall'articolo 3, comma 1, lettera c) del D.P.R.
06.06.2001, n. 380, realizzate in assenza o in difformità
dal titolo abilitativo edilizio, nelle zone omogenee A di
cui all'articolo 2 del decreto ministeriale 02.04.1968, n.
1444;
b) opere di restauro e risanamento conservativo come
definite dall'articolo 3, comma 1, lettera c) del D.P.R.
06.06.2001, n. 380, realizzate in assenza o in difformità
dal titolo abilitativo edilizio;
c) opere di manutenzione straordinaria, come definite
all'articolo 3, comma 1, lettera b) del D.P.R. 06.06.2001,
n. 380, realizzate in assenza o in difformità dal titolo
abilitativo edilizio; opere o modalità di esecuzione non
valutabili in termini di superficie o di volume;
- insussistenza di preclusioni alla sanatoria ai sensi dell’art.
32, comma 27, della legge medesima e degli artt. 32 e 33
della L. 28.02.1985, n. 47;
- Considerato che il punto nodale della vicenda oggetto di
contenzioso consiste, ad avviso del Collegio, nello
stabilire se le opere per le quali il ricorrente ha invocato
il condono siano da considerarsi “nuova costruzione”,
dato che la riconducibilità o meno a tale categoria appare
dirimente ai fini della valutazione in ordine alla loro
condonabilità, anche avuto riguardo a quanto stabilito
dall’art. 2 della L.R. 10.11.2004, n. 33, recante
disposizioni regionali per l’attuazione della sanatoria
edilizia degli abusi edilizi prevista dall'articolo 32 del
decreto-legge 30.09.2003, n. 269, convertito, con
modificazioni, dalla legge 24.11.2003, n. 326, che precisa,
per l’appunto, che “ai fini della presente legge si
intende per nuova costruzione il manufatto che risulti
realizzato in forma autonoma non connesso o pertinente ad
altro manufatto esistente”, lasciando, conseguentemente,
intendere che la sola “nuova costruzione” incontra i
limiti imposti dalla normativa sul condono;
- Considerato che
la nozione di "ampliamento" non assurge ad autonoma
tipologia di intervento edilizio, ma confluisce nel genus
di "nuova costruzione", che trova la sua disciplina
nell'art. 3 del D.P.R. 06/06/2001 n. 380;
- Considerato, inoltre, che l'ampliamento, per il quale si
prospetta la necessità di titolo edilizio, consiste in una
modifica del manufatto tale da determinarne un aumento di
sagoma;
- Considerato che è noto, del resto, che la nozione di
costruzione, ai fini del rilascio del permesso di costruire,
si configura in presenza di opere che attuino un'evidente
trasformazione del tessuto urbanistico ed edilizio e le
opere siano preordinate a soddisfare esigenze non precarie
sotto il profilo funzionale (TAR Campania Napoli, sez. II,
26.09.2008, n. 11309; Consiglio Stato, sez. IV, n. 2705 del
2008);
- Considerato che, applicando le coordinate su indicate al
caso di specie, si può affermare che l’ampliamento
realizzato sia tale da configurare una nuova costruzione,
dato –tra l’altro:
- che non appare condivisibile la riduttiva definizione
dell’intervento sopra descritto come mera pertinenza, atteso
che, per principio pacifico, la nozione di pertinenza in
materia edilizia è più ristretta di quella civilistica ed è
riferibile ai soli manufatti di dimensioni tanto modeste e
ridotte rispetto alla cosa cui ineriscono da potersi
considerare sostanzialmente irrilevanti sotto il profilo
edilizio, non potendosi, conseguentemente, attribuire
carattere pertinenziale ai fini edilizi ad opere di
rilevante consistenza, anche se destinate al servizio od
ornamento del bene principale (fra le tante, TAR Lombardia
Milano, sez. II, 17.06.2008, n. 2045);
- Considerato, in particolare, che il magazzino oggetto
dell’intervento in questione, pur potendo essere qualificato
come bene pertinenziale secondo la normativa privatistica,
assume tuttavia una funzione autonoma rispetto alla
costruzione principale, non essendo ad essa coessenziale e
potendo, anzi, per idoneità oggettiva e funzionale, essere
utilizzato separatamente, evidenziando, quindi,
caratteristiche tali da comportare una incidenza sul carico
urbanistico ed una modifica permanente del territorio nel
quale si inserisce, peraltro vincolato sotto il profilo
paesaggistico;
- Considerato che la nozione di "ampliamento" non
assurge ad autonoma tipologia di intervento edilizio, ma
confluisce nel genus di "nuova costruzione",
che trova la sua disciplina nell'art. 3 del D.P.R.
06/06/2001 n. 380;
- Considerato, inoltre, che l'ampliamento, per il quale si
prospetta la necessità di titolo edilizio, consiste in una
modifica del manufatto tale da determinarne un aumento di
sagoma;
- Considerato che è noto, del resto, che la nozione di
costruzione, ai fini del rilascio del permesso di costruire,
si configura in presenza di opere che attuino un'evidente
trasformazione del tessuto urbanistico ed edilizio e le
opere siano preordinate a soddisfare esigenze non precarie
sotto il profilo funzionale (TAR Campania Napoli, sez. II,
26.09.2008, n. 11309; Consiglio Stato, sez. IV, n. 2705 del
2008);
- Considerato che, applicando le coordinate su indicate al
caso di specie, si può affermare che l’ampliamento
realizzato sia tale da configurare una nuova costruzione,
dato –tra l’altro:
- che non appare condivisibile la riduttiva definizione
dell’intervento sopra descritto come mera pertinenza, atteso
che, per principio pacifico, la nozione di pertinenza in
materia edilizia è più ristretta di quella civilistica ed è
riferibile ai soli manufatti di dimensioni tanto modeste e
ridotte rispetto alla cosa cui ineriscono da potersi
considerare sostanzialmente irrilevanti sotto il profilo
edilizio, non potendosi, conseguentemente, attribuire
carattere pertinenziale ai fini edilizi ad opere di
rilevante consistenza, anche se destinate al servizio od
ornamento del bene principale (fra le tante, TAR Lombardia
Milano, sez. II, 17.06.2008, n. 2045);
- Considerato, in particolare, che il magazzino oggetto
dell’intervento in questione, pur potendo essere qualificato
come bene pertinenziale secondo la normativa privatistica,
assume tuttavia una funzione autonoma rispetto alla
costruzione principale, non essendo ad essa coessenziale e
potendo, anzi, per idoneità oggettiva e funzionale, essere
utilizzato separatamente, evidenziando, quindi,
caratteristiche tali da comportare una incidenza sul carico
urbanistico ed una modifica permanente del territorio nel
quale si inserisce, peraltro vincolato sotto il profilo
paesaggistico;
- Considerato, in ogni caso, che non sono stati offerti in
questa sede elementi per poter verificare la sussumibilità
dell’ampliamento realizzato tra gli interventi pertinenziali
non costituenti nuova costruzione, secondo la definizione
ritraibile dalla lettura “a contrario” dell’art. 3,
comma 1, lett. e.6), del d.P.R. n. 380 del 2001, dato che il
ricorrente non ha ritenuto di portare a conoscenza di questo
giudice il volume dell’edificio principale, sì da consentire
di accertare che quello dell’ampliamento abusivo realizzato
è effettivamente inferiore al 20% del primo, come dallo
stesso, invero, solo ripetutamente affermato;
- Considerato, inoltre, che, nella zona ove è stata
realizzata l’opera, il PRGC non consente la realizzazione di
nuove costruzioni;
- Considerato, altresì, che, ai fini della qualificazione di
una costruzione, rilevano le caratteristiche oggettive della
stessa, prescindendosi dall’intento dichiarato dal privato
di voler destinare l’opera ad utilizzazioni più ristrette di
quelle alle quali il manufatto potenzialmente si presta (fra
le tante TAR Campania-Napoli, sez. II, sentenza 31.10.2011
n. 5093);
- Ritenuto, conseguentemente, che, alla luce delle
considerazioni innanzi svolte, debba ritenersi corretta la
qualificazione dell’illecito quale nuova costruzione,
riconducibile alla tipologia n. 1 (“opere realizzate in
assenza o in difformità del titolo abilitativo edilizio e
non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni
degli strumenti urbanistici”) dell’allegato 1 alla legge
n. 326 del 2003, in quanto tale non suscettibile di
sanatoria edilizia ai sensi dell’art. 32, comma 26, lett.
a), della legge medesima, data la sottoposizione della zona
nell’ambito della quale è ubicato il manufatto abusivo a
vincolo ambientale e paesaggistico ai sensi del D.Lgs. n.
42/2004, ove sono ammesse a sanatoria solo le tipologie di
illecito 4, 5 e 6 descritte nel medesimo allegato 1;
- Ritenuto, invero, che le censure svolte dal ricorrente (“Violazione
e/o falsa applicazione di legge con rifermento all’art. 3 e
ss. della legge 07.08.1990, n. 241 e s.m.i.; all’art. 4
della L.R. Piemontese 08.07.1999, n. 19; all’art. 4 della
L.R. Piemontese 10.11.2004, n. 33; nonché all’art. 1, commi
37 e 39, della legge 15.12.2004, n. 308 e s.m.i.; violazione
del principio del giusto procedimento e del legittimo
affidamento. Eccesso di potere per travisamento dei fatti ed
erronea valutazione dei presupposti; difetto e/o
insufficienza di istruttoria e di motivazione;
irragionevolezza, contraddittorietà, ingiustizia grave e
manifesta; illogicità, perplessità, sviamento”) non
siano in grado di inficiare la legittimità del diniego di
condono edilizio
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 11.04.2012 n. 440 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per costante indirizzo
giurisprudenziale, è stato sempre ed univocamente ritenuto
che la specialità del procedimento di condono edilizio
rispetto all'ordinario procedimento di rilascio della
concessione ad edificare e l'assenza di una specifica
previsione in ordine alla sua necessità rendono, per il
rilascio della concessione in sanatoria c.d. straordinaria
(o condono), il parere della Commissione edilizia non
obbligatorio, ma, tutt'al più, facoltativo, in quelle
specifiche ipotesi in cui l'amministrazione ritenga
discrezionalmente di acquisire eventuali informazioni e
valutazioni con riguardo a particolari e sporadici casi
incerti e complessi. In assenza dei predetti casi di
acquisizione facoltativa del parere dell'organo collegiale,
il rilascio della concessione in sanatoria è subordinato
alla semplice verifica dei (pur numerosi) presupposti e
condizioni espressamente e chiaramente fissati dal
legislatore.
Non va sottaciuto, inoltre, che l'art. 4 d.P.R. n. 380/2001,
nel rendere per i comuni facoltativa l'istituzione della
commissione edilizia, ha introdotto un principio
fondamentale in materia di governo del territorio, al quale
deve sottostare la normativa regionale, ai sensi dell'art.
117 Cost., conseguendone che le norme regionali in materia
devono essere interpretate in senso costituzionalmente
coerente con i principi generali introdotti in materia dal
predetto Testo unico delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia edilizia n. 380 e, dunque, devono
ritenersi implicitamente abrogate ai sensi dell’art. 10
della L.n. 62/1953 laddove, eventualmente, prevedano ancora
l’obbligatorietà del parere della CEC.
---------------
- Considerato che il dirigente del Progetto finalizzato
condono edilizio della Divisione Urbanistica ed Edilizia del
Comune di Torino, con provvedimento in data 28.08.2008,
previo invio del preavviso di diniego ai sensi dell’art.
10-bis della legge n. 241 del 1990 e s.m.i., ha rigettato
l’istanza del signor Ac.Mu. tesa ad ottenere, ai sensi
dell’art. 32 del D.L. 30.09.2003, n. 269, convertito in
legge, con modificazioni, dall’art. 1 della L. 24.11.2003,
n. 326, il condono edilizio per la realizzazione abusiva di
un ampliamento del magazzino residenziale per una superficie
complessiva di mq. 12,96 e altezza interna di m. 3,50, con
sovrastante copertura a terrazzo, asseritamente
pertinenziale al fabbricato principale di civile abitazione
di proprietà del ricorrente medesimo, ove lo stesso risiede;
- Considerato che il condono è stato denegato sull’assunto
che le opere realizzate non siano suscettibili di sanatoria
“per contrasto con l’art. 32, comma 26, lett. a), e comma
27, lett. d), della legge 24.11.2003, n. 326, in quanto
opere appartenenti a tipologia di abuso non ammessa,
realizzate su immobili soggetti a vincoli imposti sulla base
di leggi statali e regionali a tutela dei beni ambientali e
paesistici, istituiti prima della esecuzione di dette opere,
in assenza del titolo abilitativo edilizio e non conformi
alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti
urbanistici”;
...
- Ritenuto, in particolare, che:
- l’eventuale ottenimento dell’accertamento della compatibilità
ambientale dell’intervento non fa venire meno il vincolo
esistente, ma attesta, unicamente, la compatibilità del
primo con il secondo. Non incide, dunque, né sulla
qualificazione dell’intervento medesimo, posto che sempre di
nuova opera abusiva realizzata in area soggetta a vincolo si
tratta, né sulle tipologie di interventi che la legge
ammette a sanatoria in tale aree;
- la verifica della sussumibilità dell’opera realizzata tra le
tipologie ammesse a sanatoria deve, necessariamente,
precedere ogni ulteriore valutazione, inclusa quella della
sua compatibilità con gli eventuali vincoli da cui è gravata
l’area, dato che la sua riconducibilità all’astratta
previsione normativa costituisce pre-requisito fondamentale
del condono;
- risultano, conseguentemente, del tutto condivisibili le ragioni,
rappresentate dalla difesa del Comune, che hanno indotto il
competente dirigente ad omettere di svolgere le valutazioni
in ordine alla compatibilità dell’opera con il vincolo
ambientale e paesistico insistente sull’area, dato che le
stesse si sarebbero tradotte in un inutile aggravio
istruttorio-procedimentale;
- correttamente, dunque, il Comune ha omesso di avviare il
procedimento di cui all’art. 4 della L.R. 33/2004 e di
sentire la commissione edilizia integrata, ai fini del
rilascio del parere di cui all'articolo 32 della legge
28.02.1985, n. 47;
- per costante indirizzo giurisprudenziale, espresso dal Consiglio
di Stato (ex multis sez. IV, 30.06.2010, n. 4178) e
da una cospicua giurisprudenza del Giudice di primo grado, è
stato sempre ed univocamente ritenuto che la specialità del
procedimento di condono edilizio rispetto all'ordinario
procedimento di rilascio della concessione ad edificare e
l'assenza di una specifica previsione in ordine alla sua
necessità rendono, per il rilascio della concessione in
sanatoria c.d. straordinaria (o condono), il parere della
Commissione edilizia non obbligatorio, ma, tutt'al più,
facoltativo, in quelle specifiche ipotesi in cui
l'amministrazione ritenga discrezionalmente di acquisire
eventuali informazioni e valutazioni con riguardo a
particolari e sporadici casi incerti e complessi. In assenza
dei predetti casi di acquisizione facoltativa del parere
dell'organo collegiale, il rilascio della concessione in
sanatoria è subordinato alla semplice verifica dei (pur
numerosi) presupposti e condizioni espressamente e
chiaramente fissati dal legislatore (cfr. C.d.S.,. IV,
12.02.2010, n. 772 ; id., IV, 15.05.2009, n. 3010; id., VI,
27.06.2008, n. 3282; id., V, 04.10.2007, n. 5153);
- non va sottaciuto, inoltre, che l'art. 4 d.P.R. n. 380/2001, nel
rendere per i comuni facoltativa l'istituzione della
commissione edilizia, ha introdotto un principio
fondamentale in materia di governo del territorio, al quale
deve sottostare la normativa regionale, ai sensi dell'art.
117 Cost. (cfr. C.d.S., IV, 02.10.2008, n. 4793),
conseguendone che le norme regionali in materia devono
essere interpretate in senso costituzionalmente coerente con
i principi generali introdotti in materia dal predetto Testo
unico delle disposizioni legislative e regolamentari in
materia edilizia n. 380 (cfr. Consiglio Stato, sez. IV,
02.10.2008, n. 4793) e, dunque, devono ritenersi
implicitamente abrogate ai sensi dell’art. 10 della L.n.
62/1953 laddove, eventualmente, prevedano ancora
l’obbligatorietà del parere della CEC (cfr. C.d.S., IV,
23.02.2012, n. 974);
- Ritenuto, inoltre, che alla constatata infondatezza dei
vizi tutti dedotti dal ricorrente avverso il diniego di
condono edilizio non possa che derivare il rigetto del
ricorso introduttivo dallo stesso proposto, nonché delle
medesime doglianze riproposte, in via derivata, avverso
l’ordine di demolizione impugnato col ricorso per motivi
aggiunti
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 11.04.2012 n. 440 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Pur essendo l’ordinanza
di demolizione di opere abusive, di regola, sufficientemente
motivata con l’affermazione dell’accertata abusività
dell’opera, nella fattispecie è fondata e meritevole di
accoglimento la dedotta violazione dell’art. 34, comma 2,
del d.P.R. n. 380 del 2001, dato che tale norma è da
ritenersi espressione di un principio generale, applicabile,
dunque, anche ai procedimenti di demolizione conseguenti a
diniego di condono edilizio.
Invero, "in presenza di una situazione incerta circa la
riduzione in pristino di opere abusive, in termini di
possibile pregiudizio alla parte di manufatto legittimamente
realizzata, l’Amministrazione è tenuta a compiere una
propria valutazione discrezionale, individuando e soppesando
le ragioni di interesse pubblico che possono indurre a non
affrontare il rischio del paventato pregiudizio. Essa deve
valutare le possibili conseguenze a suo carico, connesse
all’assunzione degli obblighi (e relativi oneri)
dell’eventuale ripristino del bene danneggiato e/o della sua
piena funzionalità”, con la precisazione che la situazione
di pregiudizio sussiste allorché la stabilita dell’edificio
viene, in qualche modo, compromessa, anche solamente sotto
il profilo della ridotta funzionalità interna dei locali
preesistenti o della possibile inagibilità dei locali
stessi.
---------------
- Considerato che il dirigente del Progetto finalizzato
condono edilizio della Divisione Urbanistica ed Edilizia del
Comune di Torino, con provvedimento in data 28.08.2008,
previo invio del preavviso di diniego ai sensi dell’art.
10-bis della legge n. 241 del 1990 e s.m.i., ha rigettato
l’istanza del signor Ac.Mu. tesa ad ottenere, ai sensi
dell’art. 32 del D.L. 30.09.2003, n. 269, convertito in
legge, con modificazioni, dall’art. 1 della L. 24.11.2003,
n. 326, il condono edilizio per la realizzazione abusiva di
un ampliamento del magazzino residenziale per una superficie
complessiva di mq. 12,96 e altezza interna di m. 3,50, con
sovrastante copertura a terrazzo, asseritamente
pertinenziale al fabbricato principale di civile abitazione
di proprietà del ricorrente medesimo, ove lo stesso risiede;
- Considerato che il condono è stato denegato sull’assunto
che le opere realizzate non siano suscettibili di sanatoria
“per contrasto con l’art. 32, comma 26, lett. a), e comma
27, lett. d), della legge 24.11.2003, n. 326, in quanto
opere appartenenti a tipologia di abuso non ammessa,
realizzate su immobili soggetti a vincoli imposti sulla base
di leggi statali e regionali a tutela dei beni ambientali e
paesistici, istituiti prima della esecuzione di dette opere,
in assenza del titolo abilitativo edilizio e non conformi
alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti
urbanistici”;
...
- Ritenuto, invece, con riguardo alle doglianze svolte dal
ricorrente in via diretta avverso l’ordine di demolizione,
che, pur essendo l’ordinanza di demolizione di opere
abusive, di regola, sufficientemente motivata con
l’affermazione dell’accertata abusività dell’opera, sia
fondata e meritevole di accoglimento la dedotta violazione
dell’art. 34, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, dato che
tale norma è da ritenersi espressione di un principio
generale, applicabile, dunque, anche ai procedimenti di
demolizione conseguenti a diniego di condono edilizio;
- Ritenuto, in particolare, che “in presenza di una
situazione incerta circa la riduzione in pristino di opere
abusive, in termini di possibile pregiudizio alla parte di
manufatto legittimamente realizzata, l’Amministrazione è
tenuta a compiere una propria valutazione discrezionale,
individuando e soppesando le ragioni di interesse pubblico
che possono indurre a non affrontare il rischio del
paventato pregiudizio. Essa deve valutare le possibili
conseguenze a suo carico, connesse all’assunzione degli
obblighi (e relativi oneri) dell’eventuale ripristino del
bene danneggiato e/o della sua piena funzionalità” (ex
multis TAR Lazio, Roma, sez. II, 02.03.2001, n. 1726),
con la precisazione che la situazione di pregiudizio
sussiste allorché la stabilita dell’edificio viene, in
qualche modo, compromessa, anche solamente sotto il profilo
della ridotta funzionalità interna dei locali preesistenti o
della possibile inagibilità dei locali stessi (cfr. C.d.S.,
sez. V, 12.11.1999, n. 1876)
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 11.04.2012 n. 440 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza afferma che nel percorso
argomentativo dell’ordine di demolizione non è necessaria
alcuna specificazione ulteriore rispetto alla presa d'atto
dell'abusività dell'opera.
Invero, "i provvedimenti di demolizione di opere abusive
sono atti dovuti, sufficientemente motivati con
l’affermazione dell’accertata realizzazione di interventi
edilizi in carenza del titolo abilitativo richiesto dalla
legge. Di conseguenza, in relazione a provvedimenti di tal
genere, l’obbligo di motivazione è da intendere nella sua
essenzialità ovvero è da intendere assolto con l’indicazione
dei meri presupposti di fatto (constatazione dell’esecuzione
di opere edilizie in difformità del permesso di costruire o
in assenza del medesimo), che poi determinano l’applicazione
dovuta delle misure ripristinatorie previste".
---------------
- Considerato che
il dirigente del Progetto finalizzato condono edilizio della
Divisione Urbanistica ed Edilizia del Comune di Torino, con
provvedimento in data 28.08.2008, previo invio del preavviso
di diniego ai sensi dell’art. 10-bis della legge n. 241 del
1990 e s.m.i., ha rigettato l’istanza del signor Ac.Mu. tesa
ad ottenere, ai sensi dell’art. 32 del D.L. 30.09.2003, n.
269, convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1
della L. 24.11.2003, n. 326, il condono edilizio per la
realizzazione abusiva di un ampliamento del magazzino
residenziale per una superficie complessiva di mq. 12,96 e
altezza interna di m. 3,50, con sovrastante copertura a
terrazzo, asseritamente pertinenziale al fabbricato
principale di civile abitazione di proprietà del ricorrente
medesimo, ove lo stesso risiede;
- Considerato che il condono è stato denegato sull’assunto
che le opere realizzate non siano suscettibili di sanatoria
“per contrasto con l’art. 32, comma 26, lett. a), e comma
27, lett. d), della legge 24.11.2003, n. 326, in quanto
opere appartenenti a tipologia di abuso non ammessa,
realizzate su immobili soggetti a vincoli imposti sulla base
di leggi statali e regionali a tutela dei beni ambientali e
paesistici, istituiti prima della esecuzione di dette opere,
in assenza del titolo abilitativo edilizio e non conformi
alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti
urbanistici”;
...
- Ritenuto che siano, invece, prive di pregio le ulteriori
doglianze svolte in via diretta avverso il provvedimento in
esame, in quanto:
- l’omessa ulteriore considerazione del contributo partecipativo
offerto dal ricorrente, peraltro volto unicamente ad
evidenziare l’avvenuta presentazione della “domanda di
accertamento di compatibilità paesaggistica” e, dunque,
in ogni caso non idoneo ad incidere sulla qualificazione
data all’intervento dal Comune e di cui, in ogni caso, il
dirigente competente ha dato conto nel provvedimento con cui
ha denegato il condono edilizio, non può inficiare in alcun
modo la legittimità di un provvedimento che costituisce
conseguenza vincolata in presenza di un diniego di condono;
- la giurisprudenza afferma che nel percorso argomentativo
dell’ordine di demolizione non è necessaria alcuna
specificazione ulteriore rispetto alla presa d'atto
dell'abusività dell'opera [ex plurimis, TAR Lazio,
I-quater, 14.01.2008 n. 174: "i provvedimenti di
demolizione di opere abusive sono atti dovuti,
sufficientemente motivati con l’affermazione dell’accertata
realizzazione di interventi edilizi in carenza del titolo
abilitativo richiesto dalla legge. Di conseguenza, in
relazione a provvedimenti di tal genere, l’obbligo di
motivazione è da intendere nella sua essenzialità ovvero è
da intendere assolto con l’indicazione dei meri presupposti
di fatto (constatazione dell’esecuzione di opere edilizie in
difformità del permesso di costruire o in assenza del
medesimo), che poi determinano l’applicazione dovuta delle
misure ripristinatorie previste"]; nello stesso senso
TAR Campania, Napoli, II, 13.10.2008 n. 15498)
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 11.04.2012 n. 440 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
MANCATA ESPOSIZIONE DEL CARTELLO DI CANTIERE: E' ANCORA
REATO.
Dall’art. 27, comma 4, del D.P.R. n.
280/2001 si ricava che l’obbligo di esposizione del cartello
di cantiere continua ad essere penalmente sanzionato anche
in base al predetto Testo unico se tale prescrizione è
imposta dal regolamento comunale o dal permesso di
costruire.
Il ricorrente, già condannato per il reato di cui alla lett.
a) dell’art. 44 T.U. edilizia, per non avere affisso -in
qualità di committente di alcune opere edilizie assistite da
regolare permesso di costruire- il prescritto cartello
contenente le indicazioni sul cantiere, lamenta l’erronea
applicazione della legge penale, giacché il reato in
discorso sarebbe stato abrogato con il passaggio dalla L. n.
47/1985 al Testo unico del 2001.
La Corte rigetta tuttavia il ricorso, ritenendo che
l’obbligo in esame sia ancora stabilito e penalmente
sanzionato dalle norme del Testo unico.
In effetti, nella L. n. 47/1985, detto obbligo era
espressamente stabilito dall’art. 4, comma 4, e sanzionato
dalla lett. a) dell’art. 20, comma 1, e dette norme sono
state abrogate dall’art. 146 del citato T.U. Cionondimeno la
persistenza sostanziale del medesimo obbligo risulta
dall’art. 27, comma 4, del nuovo testo legislativo, il quale
espressamente stabilisce che la P.G. debba dare immediata
comunicazione all’A.G. qualora, nel contesto delle attività
di controllo di un cantiere edilizio, ad essa non sia
esibito il permesso di costruire ovvero si verifichi la
mancata apposizione del prescritto cartello.
Da ciò deriva che, qualora l’obbligo di affissione sia
comunque stabilito dal regolamento comunale o dal titolo
abilitativo, l’inottemperanza resta punita dalla lett. a)
dell’art. 44 citato (Corte
di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.12.2009 n.
46832 -
Urbanistica e appalti n. 6/2010). |
EDILIZIA PRIVATA:
Mancata esposizione del cartello di cantiere.
L’articolo 4, comma 4 della legge
47/1985 è stato abrogato dal TU edilizia, ma la violazione
dell’obbligo di esposizione del cartello di cantiere e di
esibizione della concessione edilizia (ora permesso di
costruire) ma il suo contenuto è stato sostanzialmente
riprodotto nell’articolo 27, comma quarto del predetto TU
dal contenuto del quale emerge che la violazione continua ad
essere sanzionata ove gli obblighi predetti siano imposti
dal regolamento edilizio o dal permesso di costruire.
---------------
Il ricorso è infondato.
Invero la L. n. 47 del 1985, art. 20, comma 1, lettera a),
riprodotto nella D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, ferma
restando l'applicazione di eventuali sanzioni
amministrative, sanziona con l'ammenda l'inosservanza delle
norme, prescrizioni e modalità esecutive previste dalla
legge nonché dai regolamenti edilizi, dagli strumenti
urbanistici e dalla concessione.
Secondo le Sezioni unite di questa Corte la previsione
contenuta nella norma citata configura un'ipotesi di norma
penale in Bianco, posto che per la determinazione del
precetto viene fatto rinvio a dati prescrittivi, tecnici e
provvedimentali di fonte extrapenale. Il precetto infatti
comprende oltre alle parziali difformità delle opere
eseguite, anche la violazione del regolamento edilizio
nonché l'inosservanza delle prescrizioni della concessione
edilizia e delle modalità esecutive (Cass. Sez. Un.
21.12.1993 n. 11635).
La L. 28.02.1985, n. 47, art. 4, comma 4, prevedeva due
obblighi a carico di coloro che costruivano: la tenuta in
cantiere della concessione edilizia e l'esposizione di un
cartello contenente gli estremi della concessione e degli
autori dell'attività costruttiva. La violazione di tale
obbligo era sanzionata penalmente dalla legge anzidetta,
art. 20, comma 1, lettera a), (Cass. Sez. Un. 14.07.1992 n.
7978; Cass. Sez. 3^, 05.10.1994 n. 10435). Tale norma è
stata abrogata, con decorrenza dalla data di entrata in
vigore del testo unico dell'edilizia, dal citato testo
unico, art. 146, ma il suo contenuto è stato riprodotto
sostanzialmente nel testo unico, art. 27, comma 4.
Quest'ultima norma dispone infatti: "Gli ufficiali ed
agenti di polizia giudiziaria, ove nei luoghi in cui vengono
realizzate le opere non sia esibito il permesso di costruire
ovvero non sia apposto il prescritto cartello.........ne
danno immediata comunicazione all'autorità
giudiziaria,......".
Orbene da tale disposizione emerge che l'obbligo di
esposizione del cartello continua ad essere penalmente
sanzionato anche in base al testo unico se tale prescrizione
è imposta dal regolamento o dal permesso di costruire. I
soggetti responsabili dell'apposizione del cartello, che
nella fattispecie era prevista, sia dal regolamento edilizio
che dalla stessa concessione che richiamava il regolamento,
sono quelli già indicati nella L. n. 47 del 1985, articolo
6, comma 1, della ossia il titolare della concessione, il
committente, il costruttore ed il direttore dei lavori.
La sentenza citata dal ricorrente (la n. 5149 del 2003) non
limita la responsabilità al solo direttore dei lavori, come
erroneamente ritenuto dal ricorrente. Si legge invero alla
pag. 2 della citata sentenza "Ai sensi della L. n. 47 del
1985, art. 6, comma 1, il direttore dei lavori, unitamente
agli altri destinatari del precetto in Bianco (il titolare
della concessione, il committente, il costruttore) risponde
penalmente ai sensi dell'articolo 20, lettera a), del
rispetto delle prescrizioni della concessione e delle
relative modalità esecutive,tra le quali rientra,ove
previsto nell'atto amministrativo o nelle disposizioni
regolamentari locali (come nella specie non si contesta),
l'obbligo di esposizione del cartello in questione".
Il regolamento comunale, quale atto amministrativo, non
poteva abrogare norme penali limitando la responsabilità
dell'apposizione del cartello a carico del solo direttore
dei lavori (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 11.05.2006 n. 16037 -
link a www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Obbligo di esposizione del cartello con gli estremi della
concessione edilizia - Sul luogo di una costruzione -
Violazione - Reato configurabile - Condizioni - Fattispecie.
La violazione dell'obbligo di
esposizione, sul luogo di una costruzione, del cartello
indicante gli estremi della concessione edilizia integra il
reato di cui all'art. 20, lett. a), legge 28.02.1985, n. 47,
qualora il regolamento edilizio o la concessione lo
prescrivano espressamente.
Nella specie, relativa a rigetto di ricorso del P.M. avverso
sentenza di assoluzione, il Pretore aveva osservato che
mancava la prova della contestata violazione non avendo
l'accusa prodotto in atti la concessione edilizia di cui si
assumeva violata la prescrizione relativa alla mancata
esposizione (Corte
di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 28.06.1994 n.
10435). |
EDILIZIA PRIVATA:
Mancata esposizione in cantiere del cartello.
L'art. 4, quarto comma, L. 28.02.1985,
n. 47 prevede due obblighi a carico di coloro che
costruiscono: la tenuta in cantiere della concessione
edilizia e la esposizione di un cartello contenente gli
estremi della concessione e degli autori dell'attività
costruttiva.
La violazione di tali obblighi è penalmente sanzionata a
norma dell'art. 20, primo comma, lett. a, della detta legge,
ma solo a condizione che gli stessi siano espressamente
previsti dai regolamenti edilizi o dalla concessione.
Nell'affermare il principio di cui in massima, la Cassazione
ha altresì evidenziato che l'art. 20, primo comma, lett. a,
legge n. 47 del 1985 è una cosiddetta norma penale in
bianco, in quanto mentre la sanzione è determinata, il
precetto ha un carattere generico, stante il rinvio ad un
dato esterno - concessione, regolamento edilizio) (Corte
di Cassazione, Sezz. Unite penali, sentenza 29.05.1992 n.
7978). |
AGGIORNAMENTO AL 09.03.2016 |
ã |
Acquisti al di fuori di CONSIP piuttosto che delle
centrali di committenza regionali:
chi è l'organo
di vertice amministrativo
che deve rilasciare apposita preventiva
autorizzazione specificatamente motivata?? |
La legge di stabilità per il 2016 (Legge 28.12.2015
n. 208, in vigore dal 1° gennaio 2016) dispone all'art.
1, comma 510, quanto segue: |
510. Le amministrazioni pubbliche obbligate ad
approvvigionarsi attraverso le convenzioni di cui
all'articolo
26 della legge 23.12.1999, n. 488,
stipulate da Consip SpA, ovvero dalle centrali di
committenza regionali, possono procedere ad
acquisti autonomi esclusivamente a seguito di
apposita autorizzazione specificamente motivata resa
dall'organo di vertice amministrativo e trasmessa al
competente ufficio della Corte dei conti, qualora il
bene o il servizio oggetto di convenzione non sia
idoneo al soddisfacimento dello specifico fabbisogno
dell'amministrazione per mancanza di caratteristiche
essenziali. |
All'indomani dell'entrata in vigore nella nuova
normativa di cui sopra, ci sono stati i primi
commenti che riproponiamo a seguire: |
APPALTI:
L. Oliveri,
Deroghe agli acquisti centralizzati: garbuglio della
competenza (23.01.2016 - link
a
https://rilievoaiaceblogliveri.wordpress.com). |
APPALTI:
L. Oliveri,
Autorizzazioni per acquisti extra Consip: quando non
sono necessarie? (21.01.2016 -
link a www.leggioggi.it). |
APPALTI:
Centralizzazione degli acquisti, per le deroghe serve il via
libera del «vertice amministrativo» (nei Comuni è il
segretario).
Gli acquisti di beni e servizi in deroga
agli obblighi di utilizzo delle convenzioni stipulate da
Consip e dai soggetti aggregatori regionali devono essere
autorizzati dagli organi amministrativi di vertice delle
pubbliche amministrazioni e sono assoggettati a specifiche
comunicazioni.
L'intervento della manovra
La legge n. 208/2015 ha definito norme molto rigorose sul
possibile approvvigionamento autonomo da parte delle
amministrazioni, quando il prodotto o il servizio
disponibile con le convenzioni centralizzate non sia idoneo
al soddisfacimento del loro specifico fabbisogno per
mancanza di caratteristiche essenziali.
La regolamentazione della deroga è prevista sia in termini
generali (comma 510) sia con riferimento specifico a beni e
servizi informatici (comma 516), ma le disposizioni della
legge di stabilità 2016 devono essere connesse con
l'articolato quadro normativo vigente in tema di
razionalizzazione degli acquisti per individuare i
presupposti applicativi, soprattutto con riguardo agli enti
locali.
Il quadro delle regole
Gli obblighi di utilizzo delle convenzioni stipulate da
Consip e dai soggetti aggregatori regionali in base all'art.
26 della legge n. 488/1999 sono definiti:
• dall'articolo 1, comma 450, della legge 296/2006, che
prevede un obbligo assoluto per le amministrazioni statali e
per gli enti del servizio sanitario nazionale, nonché una
facoltà di utilizzo da parte delle altre amministrazioni,
tuttavia con obbligo relativo di fare riferimento ai
parametri qualità-prezzo per gli acquisti gestiti in
autonomia;
• dall'articolo 1, comma 7, del Dl 95/2012 convertito nella
legge 135/2012, che stabilisce l'obbligo di ricorso alle
convenzioni stipulate da Consip e dai soggetti aggregatori
regionali per alcune categorie merceologiche di beni e
servizi (telefonia, energia elettrica, gas, carburanti,
eccetera), riferendolo a tutte le pubbliche amministrazioni;
• dall'articolo 9, comma 3, del Dl 66/2014 convertito nella
legge 89/2014, il quale prevede l'obbligo di utilizzo delle
convenzioni stipulate dai soggetti aggregatori (Consip e
centrali di committenza regionali) per alcune tipologie di
beni e servizi di valore superiore a una determinata
macro-soglia.
La previsione del decreto "spending review" del 2012
è stata peraltro recentemente modificata dall'articolo 1,
comma 494 nella parte in cui consente alle amministrazioni
di procedere autonomamente, a condizione di sviluppare
procedure a evidenza pubblica e con una base d'asta
inferiore del 3 o del 10 per cento ai valori delle
convenzioni.
Rispetto a questo quadro, il comma 510 della legge di
stabilità 2016 ha stabilito una regola generale per
disciplinare le eventuali procedure autonome di
approvvigionamento da parte delle amministrazioni pubbliche
assoggettate agli obblighi di utilizzo delle convenzioni
stipulate da Consip o dai soggetti aggregatori.
Le condizioni
Il presupposto oggettivo in base al quale può essere
esperita questa possibilità si determina quando il bene o il
servizio oggetto di convenzione non sia idoneo al
soddisfacimento dello specifico fabbisogno
dell'amministrazione per mancanza di caratteristiche
essenziali.
La procedura autonoma di acquisto, però, è sviluppabile
esclusivamente a seguito di autorizzazione specificamente
motivata resa dall'organo di vertice amministrativo e
trasmessa al competente ufficio della Corte dei conti (la
sezione regionale di controllo, deputata a queste attività
di verifica anche da altre disposizioni di legge).
L'eccezionalità del processo di acquisto autonomo rispetto
all'obbligo di utilizzo delle convenzioni centralizzate (su
base nazionale o regionale) è sottoposta al vaglio
autorizzativo dell'organo di vertice amministrativo.
Questa definizione esclude gli organi politici (in altre
disposizioni, il legislatore ha specificato il riferimento
all'organo di indirizzo politico-amministrativo) e risulta
assimilabile a quella di contenuto analogo, esplicitata
nell'articolo 1, comma 2, lettera i), del Dlgs 39/2013 con
riferimento agli incarichi amministrativi di vertice, intesi
come gli incarichi di livello apicale, quali quelli di
segretario generale, direttore generale o posizioni
assimilate nelle pubbliche amministrazioni conferiti a
soggetti interni o esterni all'amministrazione o all'ente
che conferisce l'incarico, che non comportano l'esercizio in
via esclusiva delle competenze di amministrazione e
gestione.
I compiti del segretario
Nei comuni, ad esempio, l'organo di vertice amministrativo è
individuabile, secondo questo schema comparativo, nel
segretario generale e sembra connettersi ai ruolo dallo
stesso svolti come figura di riferimento del sistema dei
controlli interni e come responsabile della prevenzione
della corruzione, in una prospettiva di verifica a spettro
ampio su scelte di acquisto derogatorie, quindi rischiose
sia sotto il profilo legittimistico sia, potenzialmente,
sotto quello dei possibili fenomeni corruttivi.
Lo schema autorizzativo in capo all'organo di vertice
amministrativo è replicato dal comma 516 della legge
208/2015, che lo prevede per approvvigionamenti di beni e
servizi informatici al di fuori dell'obbligo di ricorso a
Consip e ai soggetti aggregatori, sempre sulla base del
presupposto oggettivo di inidoneità del bene o servizio
disponibile in convenzione rispetto agli specifici
fabbisogni dell'amministrazione.
La disposizione, tuttavia, prevede un ulteriore presupposto
oggettivo che può permettere l'esperimento della procedura
autonoma, rilevabile nei casi di necessità e urgenza, quando
gli acquisti siano funzionali ad assicurare la continuità
della gestione amministrativa. La decisione di acquisto in
autonomia per i beni e i servizi informatici deve essere
comunicata all'Anac e all'Agid.
In entrambe i casi (la disposizione generale del comma 510 e
quella specifica del comma 516) l'autorizzazione al processo
di acquisizione deve essere specificamente motivata, quindi
con una dettagliata analisi della sussistenza dei
presupposti oggettivi, supportata da un confronto sulle
specifiche tecniche tale da consentire l'evidenziazione
della radicale difformità rispetto al fabbisogno
dell'amministrazione (articolo
Quotidiano Enti Locali & Pa del 20.01.2016 -
tratto da www.elenafissore.it). |
APPALTI:
Per tutti i comuni acquisti in
autonomia sotto i 40 mila euro.
Facoltà per tutti i comuni di procedere in autonomia
sotto la soglia dei 40.000 euro. Facoltà di derogare
alle convenzioni Consip o delle centrali di
committenza regionali quando il bene, o il servizio,
offerto non sia idoneo a soddisfare i fabbisogni
dell'amministrazione. Facoltà di bypassare il MePa
fino a 1.000 euro.
Sono queste le principali novità in materia di
acquisti degli enti locali previste dalla legge di
stabilità 2016 (legge 208/2015). Tutte, pur
confermando la generale tendenza alla
centralizzazione, puntano a rendere l'obbligo meno
rigido per le commesse di importo modesto o quando
vi siano esigenze particolari non standardizzabili.
In questa direzione si muove innanzitutto il comma
501, che estende a tutti i comuni la possibilità di
effettuare acquisti in via autonoma sotto la soglia
dei 40.000 euro. In precedenza, la deroga era
consentita ai soli municipi con popolazione
superiore a 10.000 abitanti.
Restano ferme, peraltro, le norme che impongono di
fare ricorso alle convenzioni Consip e a quelle
stipulate dalla centrali di committenza regionali.
Per quanto riguarda gli enti locali, tuttavia, tale
obbligo riguarda solo le fattispecie previste
dall'art. 9, comma 3, del dl 66/2014 (che prevede
l'individuazione ogni anno di categorie di beni e
servizi e relative soglie di valore al superamento
delle quali è comunque obbligatorio ricorrere a
Consip o ad altri soggetti aggregatori), dall'art.
1, comma 512, della stessa legge 208 (per i beni e
servizi informatici) e dall'art. 1, comma 7, del dl
95/2012 (per le categorie merceologiche energia
elettrica, gas, carburanti rete e carburanti extra
rete, combustibili per riscaldamento, telefonia
fissa e telefonia mobile).
Rispetto a quest'ultima norma, peraltro, sempre la
legge 208 ha previsto, al comma 494, la possibilità
di derogare alle convenzioni se si spuntano
corrispettivi inferiori almeno del 10% per telefonia
fissa e mobile e del 3% per carburanti extra rete,
carburanti rete, energia elettrica, gas e
combustibili per il riscaldamento. I contratti
stipulati in deroga devono essere inviati all'Anac.
Inoltre, il comma 510 ha previsto un'altra
possibilità di dribblare le convenzioni, allorché il
bene, o il servizio, da esse offerto non sia idoneo
al soddisfacimento dello specifico fabbisogno
dell'amministrazione per mancanza di caratteristiche
essenziali. A tal fine, occorre un'apposita
autorizzazione specificamente motivata resa
dall'organo di vertice amministrativo (non è chiaro
se ci si riferisca al segretario o direttore
generale, ovvero, secondo altre letture, alla
giunta) e trasmessa alla Corte dei conti.
Si può ritenere, tuttavia, che l'autorizzazione non
sia necessaria se l'acquisto riguarda categorie
merceologiche che non sono presenti nelle
convenzioni. Negli altri casi, occorrerà motivare il
provvedimento confrontando in modo tecnicamente
rigoroso le caratteristiche essenziali dei beni o
servizi oggetto della convenzione e le
caratteristiche essenziali dei beni, o servizi,
necessari per soddisfare il fabbisogno dell'ente.
Infine, ricordiamo che il comma 450 della legge
296/2006 impone di fare ricorso al MePa, ma a
seguito della modifica introdotta dal comma 502
della legge 208 solo per acquisti sopra i 1.000
euro. Trattandosi di un acquisto autonomo, anche in
tal caso sembra necessaria l'autorizzazione, salvo
il caso di assenza di convenzioni idonee (articolo
ItaliaOggi del 15.01.2016). |
Ebbene, fresco fresco di questi giorni, ecco
pervenire -sull'interrogativo di che trattasi- un 1°
autorevole pronunciamento -guarda caso- della Corte
dei Conti (per quanto di nostra conoscenza) il quale
statuisce che "spetta
al dirigente apicale, e non alla Giunta
comunale, adottare il provvedimento autorizzatorio".
Detto altrimenti,
è il segretario
comunale che risulta investito del suddetto obbligo
normativo.
A seguire il recentissimo parere della Corte dei Conti,
Sez. controllo Liguria: |
APPALTI:
La Sezione regionale di controllo è competente ad
esaminare, anche se solo in via successiva, la
sussistenza di eventuali illegittimità o
irregolarità degli atti di autorizzazione a
procedere ad acquisti di beni o servizi in deroga
alle convenzioni CONSIP/MEPA, ai sensi dell’art. 1,
comma 510, della legge 28.12.2015, n. 208 (legge di
stabilità 2016).
Spetta al dirigente apicale, e non alla Giunta
comunale, adottare il provvedimento autorizzatorio
trasmesso. Per ricondurre la vicenda nei parametri
della regolarità amministrativa, ben potrà,
comunque, il dirigente apicale competente ratificare
il contenuto della deliberazione della Giunta
comunale.
L’esame delle varie ed eterogenee disposizioni
normative succedutesi nel tempo, che per comodità
espositiva si è ritenuto di esporre, permette di
rilevare, sia pure con uno sforzo sistematico, come
la volontà del legislatore sia nel senso di
attribuire tutte le competenze relative agli enti
locali alle Sezione regionale di controllo, anche se
tale devoluzione non è sempre stata espressamente
richiamata nei vari articoli di legge.
Non si può non rilevare come la Sezione regionale di
controllo sia l’ufficio che possa avere maggiore
contezza di tutte le diverse problematiche che
possono insorgere dall’analisi dei singoli
provvedimenti.
Infatti la medesima ha il compito di verificare non
solo, sotto il profilo gestorio, il rispetto dei
meri parametri di efficacia e di efficienza, ma
anche, nell’ambito del controllo finanziario, la
conformità dell’azione amministrativa ai parametri
di legalità–regolarità, arrivando financo
all’obbligo di trasmissione all’organo competente
delle notizie specifiche di danno erariale.
Sulla base di questi elementi, questa Sezione
regionale si ritiene competente ad esaminare e
valutare l’atto di autorizzazione trasmesso dal
Comune.
Peraltro, occorre ritenere che
l’ambito prospettico del controllo della Corte dei
conti non possa essere limitato ai meri parametri
dell’efficienza, dell’efficacia e dell’economicità,
tipici del controllo sulla gestione, ma debba
estendersi, naturalmente, anche ai profili di
legalità e di regolarità dell’azione amministrativa.
Ciò risulta implicitamente
dal disposto dell’art. 1 della legge n. 208 del 2015
il quale, a differenza di quanto prevede
espressamente l’art. 1, comma 173, della legge n.
266 del 2005, non ha ritenuto di qualificare la
competenza della Corte come controllo sulla
gestione. Si può pertanto ragionevolmente ritenere
come si sia voluto conferire alla Corte dei conti un
controllo “a tutto campo”, ancorché non incidente in
alcun modo sull’efficacia dell’atto, operando solo
successivamente alla produzione degli effetti.
---------------
Il Comune ha ritenuto di autorizzare il Responsabile
del Servizio Tecnico ad affidare gli incarichi per
la fornitura del servizio assistenza tecnica per la
tv via cavo e della caldaia per il Palazzo Comunale
a fornitori esterni al mercato CONSIP/MEPA, sulla
base dei corrispondenti presupposti:
a) assenza di disponibilità del servizio tv via cavo
sul mercato elettronico;
b) sovradimensionamento delle caldaie presenti sul
mercato elettronico rispetto all’immobile da
riscaldare, con conseguente lesione del principio di
economicità dell’azione amministrativa.
Sotto questo aspetto, la Sezione
ritiene sussistenti i presupposti di legge per
procedere all’acquisto sul mercato esterno,
osservando che il rispetto dell’obbligo di ricorrere
al mercato elettronico non possa giungere fino a
dovere imporre impegni di spesa diseconomici e
inconferenti rispetto alle esigenze da soddisfare.
Tuttavia si rileva come il
provvedimento autorizzatorio sia stato emesso dalla
Giunta comunale e non dal dirigente
apicale, come invece richiesto dall’art. 1,
comma 510, della legge citata.
Il Comune ha precisato di avere
ritenuto di individuare l’organo di vertice
amministrativo nell’organo politico.
La valutazione operata non è condivisibile in
quanto, come afferma costantemente la giurisprudenza
amministrativa,
l’art. 107, comma 5, TUEL
prevede che i dirigenti abbiano competenza esclusiva
e inderogabile per tutti i compiti gestionali, ivi
compresi gli atti discrezionali, laddove gli organi
di governo, Consiglio e Giunta comunale, possano
operare con i soli poteri di indirizzo e di
controllo politico-amministrativo.
Alla luce dei menzionati orientamenti, pertanto,
spettava al dirigente apicale, e non
alla Giunta comunale, adottare il
provvedimento autorizzatorio regolarmente trasmesso
alla Sezione regionale.
Per ricondurre la vicenda nei
parametri della regolarità amministrativa, ben
potrà, comunque, il dirigente apicale competente
ratificare il contenuto della deliberazione n. 2 del
2016 della Giunta comunale.
L’assenza dei profili di danno
erariale, risolvendosi la questione in una mera
illegittimità formale, induce a ritenere che non
ricorrano i presupposti per dover procedere alla
trasmissione della presente deliberazione alla
Procura regionale eventualmente competente.
---------------
In data 13.01.2016, è pervenuta alla Sezione la
deliberazione giuntale n. 2 del 05.01.2016, con la
quale il Comune di Riomaggiore (SP) ha autorizzato
il proprio Responsabile del Servizio Tecnico a
procedere ad affidamenti esterni, in deroga al
mercato CONSIP/MEPA, in presenza dei presupposti di
legge.
Il Comune, richiesto di chiarimenti sulla
circostanza in base alla quale il provvedimento
autorizzatorio fosse stato emanato dalla Giunta
comunale, invece che dal dirigente apicale, ha
chiarito che “mancando una specifica indicazione
normativa o di prassi, che per la corretta
individuazione dell’organo di vertice si è fatto
riferimento ai commenti della dottrina (vedi il Sole
24 ore) che hanno individuato l’organo di vertice
amministrativo nell’organo politico”.
...
1. L’art. 1, comma 510, della legge 28.12.2015, n.
208 (legge di stabilità 2016) prevede che “le
amministrazioni pubbliche obbligate ad
approvvigionarsi attraverso le convenzioni di cui
all’articolo 26 della legge 23.12.1999, n. 488,
stipulate da Consip S.p.A., ovvero dalle centrali di
committenza regionali, possono procedere ad acquisti
autonomi esclusivamente a seguito di apposita
autorizzazione specificamente motivata resa
dall’organo di vertice amministrativo e trasmessa al
competente ufficio della Corte dei conti, qualora il
bene o il servizio oggetto di convenzione non sia
idoneo al soddisfacimento dello specifico fabbisogno
dell’amministrazione per mancanza di caratteristiche
essenziali”.
L’art. 26, comma 3, della legge 23.12.1999, n. 488
dispone che “Le amministrazioni pubbliche possono
ricorrere alle convenzioni stipulate ai sensi del
comma 1 [oggi convenzioni CONSIP], ovvero ne
utilizzano i parametri di prezzo-qualità, come
limiti massimi, per l'acquisto di beni e servizi
comparabili oggetto delle stesse, anche utilizzando
procedure telematiche per l'acquisizione di beni e
servizi ai sensi del decreto del Presidente della
Repubblica 04.04.2002, n. 101 [oggi MEPA]. La
stipulazione di un contratto in violazione del
presente comma è causa di responsabilità
amministrativa; ai fini della determinazione del
danno erariale si tiene anche conto della differenza
tra il prezzo previsto nelle convenzioni e quello
indicato nel contratto”.
2. In via preliminare, questa Sezione ritiene di
valutare la sussistenza della propria competenza a
svolgere eventuali controlli e verifiche sugli atti
di autorizzazione ad acquistare beni o servizi al di
fuori del sistema CONSIP, come previsto dall’art. 1,
comma 510, della legge n. 208 del 2015, il quale si
limita a prevedere la trasmissione del relativo atto
“al competente ufficio della Corte dei conti”.
La disposizione si pone nell’alveo di una tendenza
normativa che ha assegnato agli uffici di controllo
della Corte dei conti, ed in particolare alle
Sezioni regionali di controllo, competenze sempre
più pregnanti in ordine alle verifiche di legalità e
di regolarità su atti di spesa e bilanci pubblici,
comunque incidenti sui profili di sana gestione
finanziaria, con la finalità non solo di un pieno
rispetto dei principi dettati dall’art. 97 Cost., ma
anche, e soprattutto, delle esigenze del
coordinamento della finanza pubblica.
Sotto questo profilo, si possono menzionare:
- l’art. 1, comma 42, della legge 30.12.2004, n.
311, che prescrive la trasmissione alla Corte dei
conti degli atti di affidamento di incarichi di
studio, di ricerca, o comunque di consulenza,
conferiti dagli enti locali a soggetti estranei
all’Amministrazione;
- l’art. 1, comma 168, della legge 23.12.2005, n.
266, che prevede la trasmissione, da parte degli
enti locali di relazioni sui propri bilanci,
preventivi e consuntivi, “alle competenti sezioni
regionali di controllo della Corte dei conti”,
con compito, a carico di queste ultime, di
accertare, con pronuncia specifica, “comportamenti
difformi dalla sana gestione finanziaria o il
mancato rispetto degli obiettivi posti con il patto
[di stabilità]” (tale controllo, come è noto, è
stato successivamente rafforzato dall’art. 3, comma
1, del decreto-legge 10.10.2012, n. 174, convertito
dalla legge 07.12.2012, n. 213);
- l’art. 1, comma 173, della medesima legge n. 266
del 2005, che impone la trasmissione degli atti di
spesa per incarichi di consulenza, relazioni
pubbliche, convegni, mostre, pubblicità e
rappresentanza, di importo superiore a 5.000 euro “alla
competente sezione della Corte dei conti per
l’esercizio del controllo successivo sulla gestione”;
(unica disposizione che esplicita, limitandola, la
modalità del controllo posto in essere dalla Corte
dei conti);
- l’art. 3, comma 28, della legge 24.12.2007, n. 244
(legge finanziaria 2008), che stabilisce la
trasmissione alla sezione competente della Corte dei
conti delle deliberazioni che autorizzano
l'assunzione di nuove partecipazioni societarie e il
mantenimento di quelle già possedute, da parte delle
Pubbliche Amministrazioni;
- l’art. 3, comma 57, della medesima legge n. 244
del 2007, che dispone la trasmissione “alla
sezione regionale di controllo della Corte dei conti”
dei regolamenti che fissano limiti, criteri e
modalità per l’affidamento di incarichi di
collaborazione autonoma;
- l’art. 16, comma 26, del decreto-legge 13.08.2011,
n. 138, convertito dalla legge 14.09.2011, n. 148,
che dispone l’obbligo di trasmissione del prospetto
delle spese di rappresentanza sostenute dagli organi
di governo degli enti locali “alla sezione
regionale di controllo della Corte dei conti”;
- l’art. 1, comma 612, della legge 23.12.2014, n.
190 (legge di stabilità 2015) che introduce
l’obbligo di trasmissione “alla competente
sezione regionale di controllo della Corte dei conti”
dei piani operativi di razionalizzazione delle
società e delle partecipazioni societarie
direttamente o indirettamente possedute da Regioni,
Enti locali, Camere di commercio, Università e
Autorità portuali, con relativa relazione tecnica,
nonché una successiva relazione attestante i
risultati effettivamente conseguiti.
3. L’esame delle varie ed
eterogenee disposizioni normative succedutesi nel
tempo, che per comodità espositiva si è ritenuto di
esporre, permette di rilevare, sia pure con uno
sforzo sistematico, come la volontà del legislatore
sia nel senso di attribuire tutte le competenze
relative agli enti locali alle Sezione regionale di
controllo, anche se tale devoluzione non è sempre
stata espressamente richiamata nei vari articoli di
legge.
Non si può non rilevare come la Sezione regionale di
controllo sia l’ufficio che possa avere maggiore
contezza di tutte le diverse problematiche che
possono insorgere dall’analisi dei singoli
provvedimenti.
Infatti la medesima ha il compito di verificare non
solo, sotto il profilo gestorio, il rispetto dei
meri parametri di efficacia e di efficienza, ma
anche, nell’ambito del controllo finanziario, la
conformità dell’azione amministrativa ai parametri
di legalità–regolarità, arrivando financo
all’obbligo di trasmissione all’organo competente
delle notizie specifiche di danno erariale.
Sulla base di questi elementi, questa Sezione
regionale si ritiene competente ad esaminare e
valutare l’atto di autorizzazione trasmesso dal
Comune di Riomaggiore.
4. Peraltro, occorre ritenere che
l’ambito prospettico del controllo della Corte dei
conti non possa essere limitato ai meri parametri
dell’efficienza, dell’efficacia e dell’economicità,
tipici del controllo sulla gestione, ma debba
estendersi, naturalmente, anche ai profili di
legalità e di regolarità dell’azione amministrativa.
Ciò risulta implicitamente dal
disposto dell’art. 1 della legge n. 208 del 2015 il
quale, a differenza di quanto prevede espressamente
l’art. 1, comma 173, della legge n. 266 del 2005,
non ha ritenuto di qualificare la competenza della
Corte come controllo sulla gestione. Si può pertanto
ragionevolmente ritenere come si sia voluto
conferire alla Corte dei conti un controllo “a
tutto campo”, ancorché non incidente in alcun
modo sull’efficacia dell’atto, operando solo
successivamente alla produzione degli effetti.
Ritiene il Collegio, quindi, che sia possibile
esaminare, anche se solo in via successiva, la
sussistenza di eventuali illegittimità o
irregolarità degli atti trasmessi.
5. Nella specie, il Comune di
Riomaggiore ha ritenuto di autorizzare il
Responsabile del Servizio Tecnico ad affidare gli
incarichi per la fornitura del servizio assistenza
tecnica per la tv via cavo e della caldaia per il
Palazzo Comunale a fornitori esterni al mercato
CONSIP/MEPA, sulla base dei corrispondenti
presupposti:
a) assenza di disponibilità del servizio tv via cavo
sul mercato elettronico;
b) sovradimensionamento delle caldaie presenti sul
mercato elettronico rispetto all’immobile da
riscaldare, con conseguente lesione del principio di
economicità dell’azione amministrativa.
Sotto questo aspetto, la Sezione
ritiene sussistenti i presupposti di legge per
procedere all’acquisto sul mercato esterno,
osservando che il rispetto dell’obbligo di ricorrere
al mercato elettronico non possa giungere fino a
dovere imporre impegni di spesa diseconomici e
inconferenti rispetto alle esigenze da soddisfare.
Tuttavia si rileva come il
provvedimento autorizzatorio sia stato emesso dalla
Giunta comunale e non dal dirigente
apicale, come invece richiesto dall’art. 1,
comma 510, della legge citata.
Il Comune ha precisato di avere
ritenuto di individuare l’organo di vertice
amministrativo nell’organo politico.
La valutazione operata non è condivisibile in
quanto, come afferma costantemente la giurisprudenza
amministrativa
(ex multis, C.d.S., Sez. V, 30.04.2015, n.
2194; TAR Lazio, Sez. II, 03.11.2015, n. 12404;
C.d.S., Sez. V, 30.04.2015, n. 2194; TAR Campania,
Sez. III, 13.01.2016, n. 143),
l’art. 107, comma 5, TUEL prevede che i dirigenti
abbiano competenza esclusiva e inderogabile per
tutti i compiti gestionali, ivi compresi gli atti
discrezionali, laddove gli organi di governo,
Consiglio e Giunta comunale, possano operare con i
soli poteri di indirizzo e di controllo
politico-amministrativo.
Alla luce dei menzionati orientamenti, pertanto,
spettava al dirigente apicale, e non
alla Giunta comunale, adottare il
provvedimento autorizzatorio regolarmente trasmesso
alla Sezione regionale.
Per ricondurre la vicenda nei
parametri della regolarità amministrativa, ben
potrà, comunque, il dirigente apicale competente
ratificare il contenuto della deliberazione n. 2 del
2016 della Giunta comunale.
L’assenza dei profili di danno
erariale, risolvendosi la questione in una mera
illegittimità formale, induce a ritenere che non
ricorrano i presupposti per dover procedere alla
trasmissione della presente deliberazione alla
Procura regionale eventualmente competente
(Corte dei Conti, Sez. controllo Liguria,
deliberazione 24.02.2016 n. 14). |
Volenti o nolenti, non è azzardabile disattendere
quanto stabilisce la Corte dei Conti poiché,
diversamente, si dovrà comparire dinanzi alla
competente Procura regionale (della medesima Corte).
09.03.2016 - LA SEGRETERIA PTPL |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Circa l'installazione di un
ascensore esterno ad un edificio quale "bene culturale",
sono illegittime le motivazioni espresse dalla
Soprintendenza laddove non fanno emergere l’esistenza di un
pregiudizio al bene tutelato tanto “serio” da poter
impedire, la realizzazione, con le necessarie prescrizioni,
del progettato ascensore.
In una valutazione comparativa fra diversi interessi di
forte rilevanza sociale, il legislatore ha ritenuto che gli
interventi di natura edilizia volti a favorire il
superamento e l'eliminazione delle barriere architettoniche,
negli edifici privati che sono sottoposti a disposizioni di
tutela per il loro particolare interesse paesaggistico o
storico artistico, possono essere non consentiti, dalle
amministrazioni cui spetta l’esercizio delle funzioni di
tutela, solo se recano un «serio pregiudizio» al bene
tutelato.
Per effetto delle indicate disposizioni (artt. 4 e 5 L.
13/1989) può essere, pertanto, anche ammesso un pregiudizio
ad un bene che è tutelato, per il suo particolare valore
paesaggistico o storico-artistico, tenuto conto del rilievo
sociale che assumono (anche) le opere necessarie ad
eliminare le barriere architettoniche, purché tale
pregiudizio non sia serio e quindi non comprometta in modo
rilevante il bene tutelato.
Alle amministrazioni che esercitano le funzioni di tutela
spetta quindi il delicato compito di valutare la rilevanza
del pregiudizio che il bene tutelato potrebbe subire per
effetto dell’intervento edilizio progettato al fine di
eliminare le barriere architettoniche.
Tale attività valutativa si connota peraltro di una sua
peculiarità rispetto alle valutazioni che sono da tali
amministrazioni normalmente compiute nell’esercizio del loro
potere/dovere di tutela, perché, quando l’intervento
edilizio è progettato al fine di eliminare le barriere
architettoniche, le amministrazioni di tutela possono
ritenere possibili anche interventi in grado di arrecare un
pregiudizio (purché non sia rilevante) al bene tutelato e
consentire, quindi, anche una parziale alterazione di un
bene che altrimenti non potrebbe essere alterato.
L'indicata normativa, per rafforzare tale previsione,
prevede quindi che l’Amministrazione, quando si esprime in
modo negativo sulla autorizzazione richiesta deve indicare
gli elementi che caratterizzano il pregiudizio e la sua
serietà, in concreto e in rapporto alle caratteristiche
proprie del bene culturale in cui l'intervento andrebbe a
collocarsi.
Per mitigare gli effetti degli interventi resi necessari per
eliminare le barriere architettoniche e per rendere ancora
più lieve la (non seria) alterazione del bene tutelato, il
legislatore, per i beni di interesse storico-artistico, ha
assegnato agli organi di tutela anche il potere di imporre
«apposite prescrizioni» sulle opere da realizzare (art. 5,
comma 1, della legge n. 13 del 1989).
Pur mancando un richiamo a tale espressa previsione nel
precedente comma 4, il potere di imporre prescrizioni per
mitigare gli effetti di un pregiudizio (non serio) al bene
tutelato, determinato da un intervento edilizio progettato
al fine di eliminare le barriere architettoniche, deve
ritenersi pacificamente consentito, facendo applicazione dei
principi generali in materia, anche alle amministrazioni cui
spetta l’esercizio delle funzioni di tutela paesaggistica.
---------------
9.- Ciò premesso, si deve ricordare che la legge n. 13 del
09.01.1989, nel dettare “Disposizioni per favorire il
superamento e l'eliminazione delle barriere architettoniche
negli edifici privati”, ha disciplinato, agli articoli 4
e 5, anche il caso in cui i relativi interventi riguardino i
beni sottoposti a disposizioni di tutela per il loro valore
paesaggistico o per l’esistenza di un vincolo di natura
storico ed artistico.
9.1.- In particolare, l’art. 4 della citata legge, oltre a
dettare i tempi per il rilascio dei necessari atti
autorizzativi, ha previsto che «l'autorizzazione può
essere negata solo ove non sia possibile realizzare le opere
senza serio pregiudizio del bene tutelato» (comma 4) e
che «il diniego deve essere motivato con la
specificazione della natura e della serietà del pregiudizio,
della sua rilevanza in rapporto al complesso in cui l'opera
si colloca e con riferimento a tutte le alternative
eventualmente prospettate dall'interessato» (comma 5).
9.2.- L’art. 5 della legge n. 13 del 1989 prevede poi che,
per gli immobili sottoposti alle disposizioni di tutela per
il loro valore storico ed artistico, si «applicano le
disposizioni di cui all'articolo 4, commi 2, 4 e 5» e
che la «competente soprintendenza è tenuta a provvedere
entro centoventi giorni dalla presentazione della domanda,
anche impartendo, ove necessario, apposite prescrizioni».
10.- In una valutazione comparativa fra diversi interessi di
forte rilevanza sociale, il legislatore ha ritenuto, quindi,
che gli interventi di natura edilizia volti a favorire il
superamento e l'eliminazione delle barriere architettoniche,
negli edifici privati che sono sottoposti a disposizioni di
tutela per il loro particolare interesse paesaggistico o
storico artistico, possono essere non consentiti, dalle
amministrazioni cui spetta l’esercizio delle funzioni di
tutela, solo se recano un «serio pregiudizio» al bene
tutelato.
Per effetto delle indicate disposizioni può essere,
pertanto, anche ammesso un pregiudizio ad un bene che è
tutelato, per il suo particolare valore paesaggistico o
storico-artistico, tenuto conto del rilievo sociale che
assumono (anche) le opere necessarie ad eliminare le
barriere architettoniche, purché tale pregiudizio non sia
serio e quindi non comprometta in modo rilevante il bene
tutelato.
11.- Alle amministrazioni che esercitano le funzioni di
tutela spetta quindi il delicato compito di valutare la
rilevanza del pregiudizio che il bene tutelato potrebbe
subire per effetto dell’intervento edilizio progettato al
fine di eliminare le barriere architettoniche.
Tale attività valutativa si connota peraltro di una sua
peculiarità rispetto alle valutazioni che sono da tali
amministrazioni normalmente compiute nell’esercizio del loro
potere/dovere di tutela, perché, quando l’intervento
edilizio è progettato al fine di eliminare le barriere
architettoniche, le amministrazioni di tutela possono
ritenere possibili anche interventi in grado di arrecare un
pregiudizio (purché non sia rilevante) al bene tutelato e
consentire, quindi, anche una parziale alterazione di un
bene che altrimenti non potrebbe essere alterato.
12.- L'indicata normativa, per rafforzare tale previsione,
prevede quindi che l’Amministrazione, quando si esprime in
modo negativo sulla autorizzazione richiesta deve indicare
gli elementi che caratterizzano il pregiudizio e la sua
serietà, in concreto e in rapporto alle caratteristiche
proprie del bene culturale in cui l'intervento andrebbe a
collocarsi (in termini, Consiglio di Stato, Sez. VI,
12.02.2014, n. 682).
13.- Per mitigare gli effetti degli interventi resi
necessari per eliminare le barriere architettoniche e per
rendere ancora più lieve la (non seria) alterazione del bene
tutelato, il legislatore, per i beni di interesse
storico-artistico, ha assegnato agli organi di tutela anche
il potere di imporre «apposite prescrizioni» sulle
opere da realizzare (art. 5, comma 1, della legge n. 13 del
1989).
13.1- Pur mancando un richiamo a tale espressa previsione
nel precedente comma 4, il potere di imporre prescrizioni
per mitigare gli effetti di un pregiudizio (non serio) al
bene tutelato, determinato da un intervento edilizio
progettato al fine di eliminare le barriere architettoniche,
deve ritenersi pacificamente consentito, facendo
applicazione dei principi generali in materia, anche alle
amministrazioni cui spetta l’esercizio delle funzioni di
tutela paesaggistica.
14.- Facendo applicazione di tali principi l’appello
proposto avverso la sentenza, n. 11008 del 03.11.2014, con
la quale il TAR per il Lazio, Sede di Roma, Sezione
II-quater, ha accolto il ricorso proposto dai signori Fr.Pi.,
Ma.Sa. e Mi.Sa. ed ha, quindi, annullato il (secondo) parere
negativo espresso dalla Soprintendenza per i Beni
Architettonici e Paesaggistici per il Comune di Roma sul
progetto presentato per la realizzazione di un ascensore
esterno nel cortile dello stabile sito in Roma, via di Torre
Argentina, n. 47, deve essere confermata, sia pure in parte
con diversa motivazione.
15.- Si deve, infatti, preliminarmente condividere quanto
affermato dall’Amministrazione appellante quando ha
sostenuto che dal testo e dalla ratio della legge n.
13 del 1989 non può desumersi la vigenza di un principio di
superabilità e derogabilità assoluta ed automatica dei
vincoli posti sugli immobili per finalità di tutela storico
culturale o paesistico ambientale che permangono anche
quando vi sono esigenze di tutela di soggetti portatori di
minorazioni fisiche se la realizzazione delle opere rechi un
serio pregiudizio all’interesse culturale protetto.
15.1.- In conseguenza la sentenza appellata non può essere
condivisa, nella sua motivazione, quando, in diversi punti,
ha affermato che il legislatore ha assegnato una (generale)
«prevalenza» alla eliminazione delle barriere
architettoniche anche rispetto ai beni vincolati, per il
loro valore storico artistico o paesaggistico, «relegando»
il diniego di autorizzazione ai soli casi di accertato e
motivato serio pregiudizio al bene vincolato.
Si è, infatti, prima chiarito che non vi è una generale
prevalenza per le opere necessarie alla eliminazione delle
barriere architettoniche, (anche) quando da effettuarsi su
beni sottoposti a disposizioni di tutela per il loro
interesse paesaggistico o storico artistico, dovendo in ogni
caso essere valutato l’impatto di tali opere sui beni in
questione e potendo tali opere essere consentite solo se non
arrecano un serio pregiudizio ai beni vincolati.
16.- Ciò precisato, nella fattispecie, come ha ritenuto il
TAR, le motivazioni espresse dalla Soprintendenza per i Beni
Architettonici e Paesaggistici per il Comune di Roma (e
l’esame degli atti di causa) non fanno emergere l’esistenza
di un pregiudizio al bene tutelato tanto “serio” da
poter impedire, la realizzazione, con le necessarie
prescrizioni, del progettato ascensore.
17.- Preliminarmente, si deve osservare che dagli atti (ed
anche dal parere impugnato) non si evincono ragioni di
particolare tutela dell’immobile per le sue caratteristiche
storico artistiche ed architettoniche.
Come anche la Soprintendenza ha ricordato, infatti,
l’immobile oggetto dell’intervento, pur collocato in una
zona di assoluta rilevanza storica, è di costruzione
ottocentesca e non è sottoposto ad un vincolo specifico per
le sue caratteristiche di pregio ma è oggetto di tutela solo
per la sua collocazione all’interno del perimetro delle mura
aureliane della città storica e per essere il risultato
ottocentesco di successivi interventi che prendono origine
fin dall’alto medioevo.
18.- In effetti, l’asserita rilevanza del pregiudizio al
bene tutelato, come emerge dalle motivazioni del parere
impugnato (che si sono prima sinteticamente esposte),
risulta essenzialmente dovuta alla collocazione
dell’immobile in via di Torre Argentina, in un’area che è di
assoluto valore storico ed artistico, e che per questo è
sottoposta alla necessaria tutela, e dalla (parziale)
visibilità del progettato impianto dalla pubblica via.
Secondo la Soprintendenza per i Beni Architettonici e
Paesaggistici per il Comune di Roma il progettato ascensore,
come si è già ricordato, altera, infatti, significativamente
l’impianto architettonico del primo cortile di accesso al
palazzo, il più visibile dall’esterno, con la creazione di
un manufatto che percorre in verticale uno dei prospetti,
aggettandosi in modo significativo all’interno del cortile e
impegnando visivamente anche una parte dell’arco a piano
terra che segna l’ingresso al cortile stesso, ciò che rende
l’impianto progettato parzialmente visibile dalla pubblica
strada, oltre a modificare la prospettiva.
19.- Tuttavia, in concreto, gli elaborati (in atti)
dimostrano, da un lato, che il progetto risulta scarsamente
visibile dalla strada, essendo stata progettata la
realizzazione dell’ascensore su una delle pareti interne del
cortile (dal lato della strada), tanto che, come risulta
dalla simulazione fotografica in atti, dalla via di Torre
Argentina sarebbe visibile solo una parete laterale del
manufatto, e, dall’altro, che non risultano particolarmente
significative le previste alterazioni dell’impianto
architettonico (peraltro privo di particolare pregio).
20.- Tenuto conto di tali elementi si devono ritenere esenti
da censure le conclusioni raggiunte dal TAR per il Lazio che
ha ritenuto illegittimo il diniego di assenso al progetto in
questione non risultando insuperabile (anche mediante idonee
prescrizioni) il reale pregiudizio che la Soprintendenza per
i Beni Architettonici e Paesaggistici per il Comune di Roma
ha ritenuto sarebbe stato arrecato all’immobile tutelato
(essenzialmente determinato dalla visibilità del manufatto
dalla pubblica via in un’area di altissimo valore storico ed
artistico).
21.- La Soprintendenza, invece di negare il suo assenso al
progetto, tenuto conto dell’esigenza manifestata dai
richiedenti di realizzare l’ascensore sulla base di
disposizioni normative che sono state dettate per consentire
il superamento delle barriere architettoniche, (quando
possibile) anche in immobili sottoposti a disposizioni di
tutela, avrebbe potuto piuttosto prevedere, utilizzando il
suo potere di dettare prescrizioni (art. 5, comma 1, della
legge n. 13 del 1989), un riposizionamento dell’ascensore
sulla parete occupata (o un suo ridimensionamento), tale da
renderlo praticamente non visibile dalla strada. Ed avrebbe
potuto poi dettare anche altre prescrizioni sull’uso dei
materiali e dei colori per mitigare, anche all’interno del
cortile, l’impatto del manufatto e degli interventi resi
necessari per la realizzazione dell’ascensore e rendere,
quindi, ancora meno evidente l’alterazione del bene
tutelato.
22.- Si devono quindi condividere le conclusioni raggiunte
dal TAR che ha ritenuto che, nella fattispecie, non
risultava dimostrato un pregiudizio al bene tutelato tale da
poter impedire la realizzazione di un’opera volta al
superamento delle barriere architettoniche.
23.- In conclusione, per tutto gli esposti motivi, deve
essere dichiarato improcedibile, per sopravvenuta carenza di
interesse, l’appello proposto avverso la sentenza del TAR
per il Lazio, Sede di Roma, Sezione II-quater, n. 9321 del
13.11.2012, e deve essere respinto l’appello proposto
avverso la sentenza del TAR per il Lazio, Sede di Roma,
Sezione II-quater, n. 11008 del 03.11.2014 che deve essere
confermata, in parte con diversa motivazione.
24.- Sono fatti salvi gli ulteriori provvedimenti
dell’Amministrazione finalizzati, in particolare, ad imporre
le necessarie prescrizioni volte a mitigare il pregiudizio
per il bene tutelato del progettato intervento
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 07.03.2016 n. 905 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L’invito alla regolarizzazione (il c.d. preavviso
di DURC negativo) può operare solo nei rapporti tra impresa
ed Ente previdenziale, ossia con riferimento al DURC chiesto
dall’impresa e non anche al DURC richiesto dalla stazione
appaltante per la verifica della veridicità
dell’autodichiarazione.
L’invito alla regolarizzazione è, pertanto, un istituto
estraneo alla disciplina dell’aggiudicazione e
dell’esecuzione dei contratti pubblici.
---------------
III) Il contrasto giurisprudenziale in atto
10. La Sezione rimettente evidenzia come sulla questione si
sia formato un contrasto giurisprudenziale che può essere
così sintetizzato.
10.1. Un primo orientamento, che la stessa Sezione
rimettente considera prevalente, ritiene che:
a) per
l’accertamento del requisito, oggetto di dichiarazioni
sostitutive degli offerenti, debba aversi riguardo al DURC
richiesto dalla stazione appaltante in sede di controlli,
con riferimento, appunto, all’esatta data della domanda di
partecipazione, con conseguente insufficienza, ai fini della
prova, di eventuali DURC in possesso degli offerenti ed
ancora in corso di validità (sul punto Cons. Stato, sez. IV,
12.03.2009, n. 1458; sez. V, 10.08.2010, n. 5556; sez. IV, 15.09.2010, n. 6907; sez. V, 12.10.2011, n.
5531);
b) l’invito alla regolarizzazione (c.d. preavviso di DURC negativo) non si applica in caso di DURC richiesto
dalla stazione appaltante, atteso che, l’obbligo dell’INPS
di attivare la procedura di regolarizzazione prevista
dall’art. 7, comma 3, del D.M. 24.10.2007 si scontra
con i principi in tema dì procedure di evidenza pubblica che
non ammettono regolarizzazioni postume (o, detto
diversamente, l’eventuale regolarizzazione postuma non
sarebbe comunque idonea ad elidere il dato dell’irregolarità
alla data di presentazione dell’offerta).
In tal senso, fra
le altre, si sono pronunciate: Cons. Stato, Ad. Plen. 04.05.2012, n. 8; indirettamente anche Adunanza Plenaria,
20.08.2013, n. 20; Cons. Stato, Cons. Stato, IV, 12.03.2009 n. 1458; Cons. stato VI, 11.08.2009, n. 4928;
06.04.2010, n. 1934; 05.07.2010, n. 4243; sez. V, 16.09.2011, n.5194).
10.2. Un secondo, più recente, ma ancora minoritario
orientamento, afferma, invece, che l’obbligo degli Istituti
previdenziali di invitare l’interessato alla
regolarizzazione sussiste anche ove la richiesta sia fatta
in sede di verifica dalla stazione appaltante (Cfr. Cons.
Stato, Sez. V, 14.10.2014, n. 5064); Cons. Stato, sez. VI 16.02.2015 n. 78).
A sostegno di tale conclusione
si valorizza la “novità” rappresentata dall’art. 31, comma
8, del decreto legge n. 69 del 2013, che secondo la tesi in
esame avrebbe implicitamente ma sostanzialmente modificato,
l’art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006, con la conseguenza
che l’irregolarità contributiva potrebbe considerarsi
definitivamente accertata solo alla scadenza del termine di
quindici giorni assegnato dall’ente previdenziale per la
regolarizzazione della posizione contributiva.
IV) La soluzione proposta dall’ordinanza di rimessione
11. Così delineato il contrasto giurisprudenziale, la
Sezione rimettente mostra di condividere la tesi secondo cui
l’obbligo del preavviso di regolarizzazione, previsto sin
dal 2007 in via regolamentare (art. 7 del D.M. 24.10.2007) e dal 2013 in forza di disposizione i legge (art. 31,
comma 8, del d.l. n. 69 del 2013), debba intendersi
sussistente anche per il caso di richiesta proveniente dalla
stazione appaltante.
Ciò poiché –si legge nell’ordinanza di rimessione– «in
mancanza di avviso non solo si pone nel nulla il sistema
della certificazione di regolarità conseguita dal privata ed
in corso di validità, in violazione del d.m. 24.10.2007, che non distingue in punto di efficacia degli atti di certazione a seconda della natura pubblica o privata del
richiedente, ma si violazione il principio di affidamento
dei privati, costituzionalmente e comunitariamente fondato,
riconoscendo carattere di definitività ad una violazione
previdenziale che non risulta dal “durc” privato, né è mai
stata previamente comunicata a ricorrente».
La Sezione rimettente evidenzia come tale soluzione
interpretativa sia stata recepita dall’art. 4 D.M. 30.01.2015 e, soprattutto, da una successiva circolare
interpretativa del Ministero del Lavoro (n. 19/2015) nella
quale si afferma espressamente che «le Amministrazioni
aggiudicatrici procederanno, pertanto, a decorrere dal 01.07.2015, alla verifica delle dichiarazioni sostitutive
con le stesse modalità di cui all’art. 6 del D.M. restando
precluso, pertanto, dalla medesima data, come precisato
nella circolare ministeriale, la possibilità per le
Amministrazioni in fase d richiesta di specificare la data
nella quale ciascuna dichiarazione è stata resa. Ciò stante
l’obbligo generale di invito alla regolarizzazione, previsto
dall’art. 4 del DM, anche ai fini di qualificare come
definitivamente accertate le violazioni gravi alle norme in
materia di contributi previdenziali ai sensi dell’art. 38,
comma 1, lettera i), del d.lgs. n. 163/2006».
Proprio alla luce di tale circolare, non vi sarebbe dubbio,
quindi, secondo la Sezione rimettente, che dal 1° luglio
(data di entrata in vigore del D.M. 30.01.2015), in
ragione delle nuove previsioni normative e delle modalità
applicative, il concetto di definitivo accertamento (proprio
dell’ordinamento previdenziale) sia subordinato all’invito a
regolarizzare anche se l’interrogazione sia compiuto dalla
stazione appaltante in funzione di verifica della
dichiarazione resa ai sensi dell’art. 38 d.lgs. n. 163 del
2006.
Il dubbio esegetico, quindi, secondo l’impostazione accolta
dall’ordinanza di rimessione, sarebbe circoscritto al
periodo antecedente all’entrata in vigore del D.M. 30.01.2015 2015 e dovrebbe, comunque, risolversi ritenendo
applicabile il preavviso di DURC negativo anche nell’ambito
delle procedure di gara.
V) La questione pregiudiziale dei limiti della cognizione
del giudice amministrativo a fronte di un provvedimento di
esclusione fondato su un DURC negativo non impugnato
12. In via pregiudiziale, prima di affrontare nel merito la
questione rimessa dalla Quarta Sezione, deve essere
esaminata l’eccezione di inammissibilità del ricorso di
primo grado riproposto da Ca. con apposito motivo di
appello.
Ca. ha dedotto l’inammissibilità del ricorso di primo
grado in ragione della mancata impugnazione del DURC
negativo da parte del Consorzio GOP.
Il Tribunale amministrativo regionale in primo grado ha
disatteso l’eccezione affermando che il DURC «è
un’attestazione concernente il rapporto obbligatorio
previdenziale, che non costituisce espressione di poteri autoritativi pubblicistici e che non ha, quindi, valenza
provvedimentale, con conseguente insussistenza della
giurisdizione rispetto ad esso del giudice amministrativo».
13. L’eccezione di inammissibilità del ricorso di primo
grado è infondata.
14. Va precisato che la questione dei limiti entro i quali
sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo sulla
legittimità del DURC è, a sua volta, oggetto di un contrasto
giurisprudenziale, tanto che recentemente la Quinta Sezione
del Consiglio di Stato ne ha rimesso la risoluzione
all’Adunanza Plenaria (cfr. ordinanza 21.10.2015, n.
4799), insieme, peraltro, a questioni di diritto sostanziale
(sulla corretta interpretazione dell’art. 31, comma 8,
decreto legge n. 69 del 2013), in gran parte corrispondenti
a quelle oggetto del presente giudizio.
Ai fini del presente giudizio, nel cui ambito la citata
questione processuale non è oggetto di rimessione ma viene
in rilievo al solo fine di decidere sulla pregiudiziale
eccezione di inammissibilità del ricorso di primo grado, è
sufficiente richiamare quanto affermato dalle Sezioni Unite
della Corte di Cassazione (cfr. Corte di Cassazione, Sezioni
Unite, 11.12.2007, n. 25818 e 09.02.2011, n.
3169), secondo cui la produzione della certificazione
attestante la regolarità contributiva dell'impresa
partecipante alla gara di appalto costituisce uno dei
requisiti posti dalla normativa di settore ai fini
dell'ammissione alla gara, sicché il giudice amministrativo
ben può verificare la regolarità di tale certificazione, sia
pure incidenter tantum, cioè con accertamento privo di
efficacia di giudicato nel rapporto previdenziale, ai sensi
dell'art. 8 del Cod. proc. amm..
Deve rilevarsi, invero, che il sindacato del giudice
amministrativo ha come oggetto principale la questione
relativa alla legittimità dell’atto amministrativo adottato
dalla stazione appaltante sulla base delle risultante del
DURC negativo; rispetto a tale questione, il sindacato sulla
regolarità della posizione contributiva quale attestata dal
DURC viene effettuato in via meramente incidentale e senza
efficacia di giudicato, al solo fine di statuire sulla
questione principale, in conformità allo schema decisorio
delineato dall’art. 8 Cod. proc. amm..
In tal modo si riesce ad assicurare l’effettività della
tutela (che esclude che ci possano essere profili
dell’azione amministrativi sottratti al sindacato
giurisdizionale), senza invadere i confini della
giurisdizione ordinaria, quali delineati dagli artt. 442,
comma 1, e 444, comma 3, del Cod. proc. civ. che devolvono
alla giurisdizione civile le controversie relative agli
obblighi dei datori di lavoro e all'applicazione delle
sanzioni civili per l'inadempimento di tali obblighi.
Diverso è, in definitiva, lo scrutinio compiuto dal giudice
ordinario sui diritti previdenziali del lavoratore che si
assumono violati, rispetto al sindacato effettuato dal
giudice amministrativo sul loro corretto adempimento,
attestato dal certificato di regolarità contributiva che le
imprese affidatarie di un appalto pubblico devono presentare
alla stazione appaltante, a pena di esclusione.
Nell'accertare il mancato versamento di contributi dovuti
all'Ente di previdenza, il sindacato del giudice ha per
oggetto la sussistenza del diritto del lavoratore dipendente
alla contribuzione in relazione all'attività prestata ed al
diritto al trattamento di quiescenza, mentre, nelle
controversie relative a procedure di affidamento di lavori,
servizi o forniture da parte di soggetti tenuti al rispetto
dei procedimenti di evidenza pubblica, oggetto di indagine
del giudice è la mera regolarità della certificazione
prodotta, attestante la regolarità contributiva dell'impresa
partecipante alla gara di appalto, che rappresenta un
requisito di partecipazione.
In quest’ottica, il giudice amministrativo può conoscere,
senza travalicare i limiti della propria giurisdizione, la
questione relativa alla sussistenza del requisito della
regolarità contributiva, senza che occorra l’espressa
impugnazione del DURC, oggetto solo di un sindacato
incidenter tantum ai sensi dell’art. 8 Cod. proc. amm..
15. Il ricorso deve, dunque, essere esaminato nel merito.
VI) La decisione dell’Adunanza Plenaria sulla questione di
merito oggetto di rimessione
16. La questione sottoposta dall’ordinanza di rimessione
deve essere risolta dando continuità, anche dopo l’entrata
in vigore dell’art. 31, comma 8, del decreto legge n. 69 del
2013, all’indirizzo interpretativo secondo cui non sono
consentite regolarizzazioni postume della posizione
previdenziale, dovendo l’impresa deve essere in regola con
l’assolvimento degli obblighi previdenziali ed assistenziali
fin dalla presentazione dell’offerta e conservare tale stato
per tutta la durata della procedura di aggiudicazione e del
rapporto con la stazione appaltante, restando, dunque,
irrilevante, un eventuale adempimento tardivo
dell’obbligazione contributiva.
Tale principio, già chiaramente espresso dall’Adunanza
Plenaria nella sentenza 04.05.2012, n. 8, non risulta
superato dalla norma, più volta richiamata dall’ordinanza di
rimessione, introdotta con l’articola 31, comma 8, del
decreto legge n. 69 del 2013.
La disposizione in esame testualmente prevede, sotto la
rubrica «Semplificazioni in materia di DURC»: «Ai fini della
verifica per il rilascio del documento unico di regolarità
contributiva (DURC), in caso di mancanza dei requisiti per
il rilascio di tale documento gli Enti preposti al rilascio,
prima dell’emissione del DURC o dell’annullamento del
documento già rilasciato, invitano l’interessato, mediante
posta elettronica certificata o con lo stesso mezzo per il
tramite del consulente del lavoro ovvero degli altri
soggetti di cui all’articolo 1 della legge 11.01.1979,
n. 12, a regolarizzare la propria posizione entro un termine
non superiore a quindici giorni, indicando analiticamente le
cause della irregolarità»
Tale disposizione, contrariamente a quanto sostenuto
nell’ordinanza di rimessione, non può interpretarsi nel
senso di subordinare il carattere definitivo della
violazione previdenziale (che ai sensi dell’art. 38 d.lgs.
n. 163 del 2006 rappresenta un elemento ostativo alla
partecipazione alle gare d’appalto) alla condizione che
l’impresa che versi in stato di irregolarità contributiva al
momento della presentazione dell’offerta venga previamente
invitata a regolarizzare la propria posizione previdenziale
e che, nonostante tale invito, perseveri nell’inadempimento
dei propri obblighi contributivi.
L’Adunanza Plenaria ritiene, al contrario, che l’art. 31,
comma 8, del decreto legge n. 69 del 2013 non abbia in alcun
modo modificato la disciplina dettata dall’art. 38 d.lgs. n.
163 del 2006 e che, pertanto, la regola del previo invito
alla regolarizzazione non trovi applicazione nel caso di
DURC richiesto dalla stazione appaltante ai fini della
verifica delle dichiarazioni rese dall’impresa ai fini della
partecipazione alla gara.
L’istituto dell’invito alla regolarizzazione (il c.d.
preavviso di DURC negativo) può, dunque, operare solo nei
rapporti tra impresa ed Ente previdenziale, ossia con
riferimento al DURC chiesto dall’impresa e non anche al DURC
richiesto dalla stazione appaltante per la verifica della
veridicità dell’autodichiarazione.
17. Depongono a favore di tale conclusione, una pluralità di
argomenti di carattere letterale, storico e sistematico.
VI) Gli argomenti fondati sul dato letterale
18. Da un punto di vista letterale, risulta significativo il
confronto tra la formulazione del comma 8 dell’articolo 31 e
quella dei commi che lo precedono (in particolare quelli che
vanno dal comma 2 al comma 7).
Nel comma 8 (quello oggetto della questione interpretativa
rimessa all’esame dell’Adunanza Plenaria) manca qualsiasi
riferimento alla disciplina dell’evidenza pubblica o dei
contratti pubblici e questa mancanza è tanto più
significativa se si considera che, invece, nei commi
precedenti (in tutti quelli che vanno dal comma 2 al comma
7) vi è un rifermento esplicito a tale disciplina,
riferimento enfatizzato anche dalla relativa collocazione,
sempre all’inizio della disposizione.
Più nel dettaglio:
- i commi 3, 4, 6 e 7 si aprono tutti con la stessa
locuzione: «Nei contratti pubblici di lavori, servizi e
forniture […]»;
- il comma 2 si apre con la formula: «Al codice di cui al
decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, sono apportate
le seguenti modificazioni: […]»;
- il comma 7 si apre, a sua volta, con uno specifico
rifermento proprio al «documento unico di regolarità
contributiva (DURC) rilasciato per i contratti pubblici di
lavori, servizi e forniture».
Già il dato letterale, rafforzato dal confronto tra i vari
commi che compongono l’articolo in esame, supporta, quindi,
la conclusione che laddove il legislatore del 2013 ha inteso
occuparsi dei contratti pubblici, apportando modifiche alla
relativa disciplina, lo ha detto espressamente, attraverso
un richiamo esplicito.
19. L’argomento letterale è rafforzato dalla considerazione
che ai sensi dell’art. 255 d.lgs. 163 del 2006 «[o]gni
intervento normativo incidente sul codice, o sulle materie
dallo stesso disciplinate, va attuato mediante esplicita
modifica, integrazione, deroga o sospensione delle
specifiche disposizioni in esso contenute» (c.d. clausola di
abrogazione esplicita).
Conformemente a tale previsione normativa, che impone
l’abrogazione o la modifica esplicita delle norme del codice
dei contratti pubblici (o delle norme che incidono sulle
materie dallo stesso regolate), l’art. 31, comma 2, come si
è già accennato, contiene l’elenco esplicito delle
disposizioni del decreto legislativo n. 163 del 2006 che
sono state modificate.
In questo elenco non è menzionato l’art. 38, comma 1,
lettera i), ovvero la disposizione che prevede come causa
ostativa della partecipazione l’aver commesso «violazioni
gravi e definitivamente accertate, alle norme in materia di
contributi previdenziali e assistenziali».
Non è allora sostenibile che una modifica così rilevante
come quella che l’ordinanza di rimessione vorrebbe trarre
dal decreto legge n. 69 del 2013 (ossia, la modifica della
nozione di “definitivo accertamento” quale fatta propria dal
c.d. diritto vivente di cui è certamente espressione la
sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 8 del 2012) possa
discendere, in violazione della clausola dell’abrogazione
esplicita, da una disposizione che non solo non lo dispone
espressamente, ma che non contiene nemmeno alcun esplicito
riferimento alla materia dei contratti pubblici ed è per di
più inserita in un articolo che in un diverso comma (il
comma 5) elenca in maniera analitica e puntuale le modifiche
apportate alla disciplina dei contratti pubblici.
20. Sempre sotto il profilo letterale, giova evidenziare che
il comma 8 dell’art. 31, nel prevedere l’onere del previo
invito alla regolarizzazione fa testualmente riferimento
all’attività di «verifica per il rilascio del documento
unico di regolarità contributiva (DURC)» richiesto dal
datore di lavoro. Ben diversa è l’attività che l’Ente
previdenziale compie non per rilasciare il DURC su richiesta
dell’impresa, ma per verificare, su richiesta della stazione
appaltante, la veridicità della dichiarazione sostitutiva
relativa al requisito di cui all’articolo 38, comma 1,
lettera i), del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163.
La netta distinzione tra le due fattispecie di DURC –quello
rilasciato su richiesta di parte e quello acquisito
d’ufficio dalla stazione appaltante nell’ambito delle
procedure di gara (o della successiva fase di esecuzione del
contratto)– trova ancora conferma nel testo dell’articolo
33 del decreto legge n. 69 del 2103.
Nell’ambito di tale articolo, il DURC relativo
all’aggiudicazione e all’esecuzione dei contratti pubblici è
fatto oggetto di specifica disciplina nei commi 3, 4 e 5, 6
e 7. In questi commi, il legislatore non prevede mai,
neanche implicitamente o indirettamente, la possibilità di
regolarizzazione postuma dell’eventuale inadempienza
contributiva che dovesse essere riscontrata in capo
all’impresa che ha partecipato alla gara o che sta eseguendo
il contratto.
Solo il comma 8, che si riferisce però al DURC rilasciato su
richiesta di parte, prevede il previo invito alla
regolarizzazione.
La conclusione che si trae, anche alla luce del fondamentale
canone interpretativo ubi lex voluit dixit, ubi nolit tacuit,
è univoca: l’invito alla regolarizzazione è un istituto
estraneo alla disciplina dell’aggiudicazione e
dell’esecuzione dei contratti pubblici.
Tale risultato interpretativo è ulteriormente confermato
dalla considerazione che l’art. 38, comma 2, del decreto
legislativo n. 163 del 2006 rinvia alle norme
dell’ordinamento previdenziale solo per stabilire quando
l’irregolarità contributiva deve considerarsi “grave”
(prevedendo letteralmente che, «ai fini del comma 1,
lettera i), si intendono gravi le violazioni ostative al
rilascio del documento unico di regolarità contributiva»).
Analogo rinvio non è presente, invece, per quanto riguarda
l’altra caratteristica che la violazione contributiva deve
avere affinché rilevi come causa ostativa alla
partecipazione alle gare d’appalto (essere appunto
“definitivamente accertata”). Da qui la conclusione che la
nozione di “definitivo accertamento” che viene in rilievo
nell’ambito del Codice dei contratti pubblici debba essere
ricostruita in maniera autonoma rispetto alla disciplina
dell’ordinamento previdenziale, e prescinda, pertanto, dalla
necessità della previa attivazione di meccanismi di
regolarizzazione postuma, come quelli di cui si discute nel
presente giudizio.
VII) Gli argomenti di sistema
21. Anche da un punto di vista sistematico, non può non
considerarsi che il c.d. invito alla regolarizzazione
costituisce una sorte di preavviso di rigetto (si parla non
a caso di preavviso di DURC negativo).
Esso evoca, pertanto, un istituto (la comunicazione dei
motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza) previsto in
via generale dall’art. 10-bis legge 07.08.1990, n. 241.
Si tratta di un istituto che, come è noto, è stato previsto,
nell’ambito della disciplina del procedimento
amministrativo, solo con riferimento ai procedimenti ad
istanza di parte, risultando incompatibile con i
procedimenti d’ufficio, dove, in effetti, non vi è
un’istanza di parte e, quindi, non vi è un onere di
preventiva comunicazione dei motivi ostativi al suo
accoglimento.
Merita considerazione anche il rilievo che lo stesso art.
10-bis della legge n. 241 del 1990, introduce due deroghe
espresse alla regola del c.d. preavviso di rigetto. Le
deroghe si riferiscono: 1) alle procedure concorsuali; 2) ai
procedimenti in materia previdenziale e assistenziale sorti
a seguito di istanza di parte e gestiti dagli enti
previdenziali.
Entrambe le deroghe offrono elementi d’interesse ai fini
della risoluzione della questione oggetto del presente
giudizio.
La deroga alle procedure concorsuali (a prescindere dalla
difficoltà di considerare, a rigore, la procedura
concorsuale un procedimento ad istanza di parte) si
riferisce a tutte le procedure caratterizzate dal principio
della concorsualità e, quindi, anche alle procedure di
evidenza pubblica per l’aggiudicazione di contratti
pubblici.
La deroga relativa ai procedimenti previdenziali fa
specifico riferimento a quelli sorti a seguito ad istanza di
parte. Se il procedimento previdenziale inizia d’ufficio
(come è nel caso di cui ci si occupa nel presente giudizio)
l’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990 non ha nemmeno
previsto la deroga, sul presupposto che tali procedimenti
sono, per la loro stessa natura, estranei all’ambito di
applicazione del c.d. preavviso di rigetto.
Rispetto alle previsioni dell’art. 10-bis della legge n. 241
del 1990, l’art. 31, comma 8, del decreto legge n. 69 del
2013, introduce un elemento di novità: una sorta di “deroga
alla deroga” per effetto della quale un meccanismo analogo
al preavviso di rigetto è ora previsto per un particolare
procedimento previdenziale: quello ad istanza di parte per
il rilascio del DURC.
Al di fuori di questa specifica ipotesi, tuttavia, torna ad
operare la disciplina generale, che appunto esclude il
preavviso di rigetto nell’ambito sia delle procedure
concorsuali sia dei procedimenti previdenziali che iniziano
d’ufficio.
22. Sempre da un punto di vista sistematico, l’esclusione
del c.d. preavviso di DURC negativo nell’ambito del
procedimento d’ufficio per la verifica della veridicità
delle dichiarazioni sostitutive rese in sede ai fini della
partecipazione alla gara, si pone in linea con alcuni
principi fondamentali che governano appunto le procedure di
gara: i principi di parità di trattamento e di
autoresponsabilità e il principio di continuità nel possesso
dei requisiti di partecipazione alla gara.
22.1. Per quanto riguarda il principio della parità di
trattamento e dell’autoresponsabilità (per i quali si rinvia
alla fondamentale sentenza di questa Adunanza Plenaria 25.02.2014, n. 9), è fin troppo evidente che
l’applicazione della “regolarizzazione postuma” finirebbe
per consentire ad una impresa di partecipare alla gara senza
preoccuparsi dell’esistenza a proprio carico di una
irregolarità contributiva, potendo essa confidare sulla
possibilità di sanare il proprio inadempimento in caso di
aggiudicazione (e, dunque, a seconda della convenienza).
Si arriverebbe, in tal modo, a consentire all’offerente –che pur a conoscenza di una irregolarità contributiva abbia
reso una dichiarazione volta ad attestare falsamente il
contrario– di beneficiare di una facoltà di
regolarizzazione postuma della sua posizione, andando così a
sanare, non una mera irregolarità formale, ma la mancanza di
un requisito sostanziale, mancanza aggravata dall’aver reso
una dichiarazione oggettivamente falsa in ordine al possesso
del requisito.
Una simile generalizzata possibilità di sanatoria –della
dichiarazione falsa e della mancanza del requisito
sostanziale– darebbe vita ad una palese violazione del
principio della parità di trattamento e dell’autoresponsabilità
dei concorrenti, in forza del quale ciascuno di essi
sopporta le conseguenze di errori, omissione e, a fortiori,
delle falsità, commesse nella formulazione dell’offerta e
nella presentazione delle dichiarazioni (cfr. ancora Ad.
Plen. 25.02.2014, n. 9).
Va richiamato a tale proposto anche quanto autorevolmente e
condivisibilmente affermato dall’Autorità nazionale
anticorruzione (ANAC) nella Determinazione n. 1 dell’08.01.2015 (Criteri interpretativi in ordine alle
disposizioni dell’art. 38, comma 2-bis e dell’art. 46, comma
1-ter del D.Lgs. 12.04.2006, n. 163).
In quella sede l’ANAC, proprio delimitando il campo di
applicazione dell’istituto del soccorso istruttorio in
materia di appalti pubblici [in seguito alla modifiche
apportate al Codice dei contratti pubblici dal decreto-legge
24.06.2014, n. 90 (Misure urgenti per la semplificazione
e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli
uffici giudiziari), convertito, con modificazioni in legge
11.08.2014, n. 114] ha giustamente precisato che il
nuovo istituto del soccorso istruttorio «non può, in ogni
caso, essere strumentalmente utilizzato per l’acquisizione,
in gara, di un requisito o di una condizione di
partecipazione, mancante alla scadenza del termine di
presentazione dell’offerta. Resta fermo, in sostanza, il
principio per cui i requisiti di partecipazione devono
essere posseduti dal concorrente - che deve essere, altresì,
in regola con tutte le altre condizioni di partecipazioni -
alla scadenza del termine fissato nel bando per la
presentazione dell’offerta o della domanda di
partecipazione, senza possibilità di acquisirli
successivamente».
E con particolare riferimento alle dichiarazioni false, la
citata determinazione precisa che «La novella in esame,
infatti, non incide sulla disciplina delle false
dichiarazioni in gara, che resta confermata. Pertanto ai
sensi dell’art. 38, comma 1-ter, del Codice, ove la stazione
appaltante accerti che il concorrente abbia presentato una
falsa dichiarazione o una falsa documentazione, si dà luogo
al procedimento definito nel citato comma 1-ter dell’art. 38
ed alla comunicazione del caso all’Autorità per
l’applicazione delle sanzioni interdittive e pecuniarie
fissate nella disciplina di riferimento (art. 38, comma
1-ter e art. 6, comma 11, del Codice)».
L’Adunanza Plenaria condivide e fa proprie tali conclusioni,
dovendosi ribadire anche in questa sede l’inammissibilità di
qualsiasi forma di regolarizzazione postuma della carenza
del requisito sostanziale o della falsa dichiarazione.
22.2. Deve, inoltre, richiamarsi il principio di continuità
nel possesso dei requisiti (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen. 20.07.2014, n. 8), che non possono essere persi dal
concorrente neanche temporaneamente nel corso della
procedura. A voler seguire, invece, il principio della
regolarizzazione postuma dovrebbe allora sostanzialmente
consentirsi al soggetto che abbia perso e poi riacquisito il
requisito di conseguire l’aggiudicazione, in netto contrasto
con quanto chiaramente affermato da questa Adunanza Plenaria
nella sentenza n. 8 del 2015.
VIII) Gli argomenti legati all’evoluzione storico-normativa
e alla relativa interpretazione giurisprudenziale
23. L’asserita portata innovativa che si vorrebbe
riconoscere all’art. 31, comma 8, del decreto legge n. 69
del 2013 risulta sensibilmente ridimensionata anche da
considerazioni legate all’osservazione dell’evoluzione
storico-normativa e della relativa interpretazione
giurisprudenziale.
Deve osservarsi, invero, che una regola di portata analoga a
quella ora recepita a livello legislativo dall’art. 31,
comma 8, del decreto legge n. 69 del 2013, già esisteva
nell’ordinamento, sia pure posta da una fonte regolamentare.
Si fa riferimento all’art. 7, comma 3, del D.M. 24.10.2007 (peraltro applicabile
ratione temporis alla procedura
di gara oggetto del presente giudizio) il quale, appunto
prevedeva: «In mancanza dei requisiti di cui all’art. 5 gli
Istituti, le Casse edili e gli Enti bilaterali, prima
dell’emissione del DURC o dell’annullamento del documento
già rilasciato ai sensi dell’art. 3, invitano l’interessato
a regolarizzare la propria posizione entro un termine non
superiore a quindici giorni.».
Nell’interpretazione di questa norma non si è mai dubitato
che la regola del previo invito alla regolarizzazione non
trovasse applicazione nel caso di richiesta della
certificazione preordinata alle verifiche effettuate dalla
stazione appaltante ai fini della partecipazione alle gare
d’appalto.
Vanno riportare sotto tale profilo i chiarissimi principi
enunciati da questa Adunanza Plenaria nella già citata
sentenza 20.05.2012, n. 8, in cui si legge: «Quanto
alla questione del momento in cui deve sussistere la
regolarità contributiva e della possibile sanatoria
dell’irregolarità in corso di gara, la giurisprudenza di
questo Consesso ha affermato che l’assenza del requisito
della regolarità contributiva, costituendo condizione di
partecipazione alla gara, se non posseduto alla data di
scadenza del termine di presentazione dell’offerta, non può
che comportare la esclusione del concorrente non adempiente,
non potendo valere la regolarizzazione postuma.
L’impresa infatti deve essere in regola con i relativi
obblighi fin dalla presentazione della domanda e conservare
tale regolarità per tutto lo svolgimento della procedura.
Costituisce principio pacifico che poiché il momento in cui
va verificata la sussistenza del requisito della regolarità
contributiva e previdenziale è quello di presentazione della
domanda di partecipazione alla gara, la eventuale
regolarizzazione successiva, se vale a eliminare il
contenzioso tra l’impresa e l’ente previdenziale non può
comportare ex post il venir meno della causa di esclusione [Cons.
St., sez. IV, 12.04.2011, n. 2284; Id., sez. V, 23.10.2007, n. 5575]
Deve escludersi la rilevanza di un eventuale adempimento
tardivo dell’obbligazione contributiva, quand’anche
ricondotto retroattivamente, quanto ad efficacia, al momento
della scadenza del termine di pagamento [Cons. St., sez. IV,
n. 1458/2009].
Si tratta, del resto, di un corollario del più generale
principio (già affermato nella giurisprudenza della Corte di
giustizia UE con la pronuncia del 09.02.1996, in cause
riunite C-226/04 e C-228/04) secondo cui la sussistenza del
requisito della regolarità fiscale e contributiva (che,
pure, può essere regolarizzato in base a disposizioni
nazionali di concordato, condono o sanatoria) deve comunque
essere riguardata con riferimento insuperabile al momento
ultimo per la presentazione delle offerte, a nulla rilevando
una regolarizzazione successiva la quale, pertanto, non
potrà in alcun modo incidere sul dato dell’irregolarità ai
fini della singola gara [Cons. St., sez. VI,
05.07.2010,
n. 4243].
La mancanza del requisito della regolarità contributiva alla
data di scadenza del termine previsto dal bando per la
presentazione delle offerte, in definitiva, non é sanato
dall’eventuale adempimento tardivo dell’obbligazione
contributiva, atteso che tale tardivo adempimento può
rilevare nelle reciproche relazioni di credito e di debito
fra i soggetti del rapporto obbligatorio e non anche nei
confronti dell’Amministrazione aggiudicatrice che debba
accertare la sussistenza del requisito della regolarità
contributiva ai fini dell’ammissione alla gara [Cons. St.,
sez. VI, 12.01.2011, n. 104].».
L’art. 31, comma 8, del decreto legge n. 69 del 2013 ha
determinato una sorta di “novazione” della fonte della
previsione normativa già contenuta nel decreto ministeriale
del 24.10.2007, conferendole rango legislativo. Ma non
vi sono nella disposizione che ora ha rango legislativo
elementi di novità che consentano di superare
l’interpretazione “storica” della precedente norma
regolamentare.
24. Nessun argomento in senso contrario può trarsi,
diversamente da quanto ipotizzato nell’ordinanza di
rimessione, dal decreto ministeriale 30.01.2015
(comunque inapplicabile ratione temporis perché entrato in
vigore il 01.07.2015) e dalla successiva circolare
interpretativa del Ministero del Lavoro – Direzione generale
per l’attività ispettiva dell’08.06.2015, n. 19.
Appurato, infatti, che a livello di normativa primaria, la
disciplina dell’affidamento degli appalti pubblici non
consente la regolarizzazione postuma della irregolarità
contributiva, deve certamente escludersi che tale forma di
regolarizzazione possa essere stata introdotta da una fonte
di rango regolamentare, quale è il decreto ministeriale 30.01.2015.
È fin troppo evidente che il generale principio di gerarchia
delle fonti normative non permette ad una norma
regolamentare di introdurre una forma di regolarizzazione
incompatibile con la disciplina di rango legislativo.
Una simile interpretazione (dando luogo ad una inammissibile
inversione della gerarchia delle fonti) deve, pertanto,
essere disattesa.
IX) La presunta incompatibilità comunitaria
25. In senso contrario alla tesi qui accolta non possono
essere invocati neanche presunti profili di incompatibilità
con i principi dell’ordinamento comunitario.
25.1. Non viene, in rilievo, innanzitutto, il principio di
tutela del legittimo affidamento, che trova le sue radici
anche nell’ordinamento nazionale.
La tutela dell’affidamento incontra, infatti, il limite
dell’autoresponsabilità e non può allora essere invocato
dall’impresa che volontariamente o colpevolmente si trovi in
una situazione di irregolarità contributiva. In base al già
richiamato principio di auto responsabilità (in forza del
quale ciascuno risponde degli errori commessi) non si può
pretendere di superare l’inadempimento storicamente
verificatosi in nome dell’apparenza ingenerata dal
precedente rilascio di un documento unico di regolarità
contributiva che va a “fotografare” una situazione di
regolarità non più attuale a causa di errori imputabili alla
stessa impresa.
L’affidamento sulle risultanze del precedente DURC in questo
caso è colpevole perché la discrasia tra il DURC e la realtà
dipende da omissioni od errori imputabili proprio
all’impresa che tale affidamento invoca.
25.2. Non risulta pertinente neanche il richiamo alle
motivazioni sulla cui base la Quarta Sezione del Consiglio
di Stato, con ordinanza 11.03.2015, n. 1236 ha rimesso
alla Corte di Giustizia dell’Unione europea una questione
pregiudiziale circa la compatibilità tra l’articolo 45 della
direttiva 18/2004 –interpretato alla luce del principio di
ragionevolezza nonché degli articoli 49 e 56 del TFUE– e
una normativa nazionale (quale quella italiana) che,
nell’ambito di una procedura d’appalto sopra soglia,
consente alle stazioni d’appaltanti di richiedere d’ufficio
agli istituti previdenziali il documento unico di regolarità
contributiva (DURC) ed obbliga le medesime stazioni
appaltanti ad escludere dalla gara quegli operatori
economici dalla cui certificazione si evince una violazione
contributiva sussistente al momento della partecipazione –anche se da essi non conosciuta in quanto hanno partecipato
in forza di un DURC positivo in corso di validità– e non
più presente al momento dell’aggiudicazione o della verifica
d’ufficio.
In primo luogo, le differenze che si colgono, sul piano
fattuale, tra le relative fattispecie concrete (quella
oggetto del presente giudizio e quella con riferimento alla
quale è stata sollevata la questione pregiudiziale), già
esclude la possibilità di “trasferire” automaticamente i
medesimi dubbi di compatibilità comunitaria nell’ambito del
presente giudizio.
In ogni caso è dirimente, ed esclude la necessità di una
ulteriore rimessione alla Corte di Giustizia o di una
sospensione c.d. impropria del presente giudizio in attesa
della decisione sulla questione pregiudiziale rimessa dalla
Quarta Sezione, la constatazione che la Corte di Giustizia
ha già avuto modo di occuparsi della compatibilità
comunitaria della disciplina legislativa nazionale che
preclude rigidamente la partecipazione alle gare di appalto
alle imprese che versino in una situazione grave e
definitivamente accertata di irregolarità contributiva (e
delle relative nozioni di “gravità” e “definitivo
accertamento”).
Già nella sentenza 10.07.2014, C-358/12, Consorzio
Stabile Libor Lavori Pubblici, la Corte di giustizia,
occupandosi anche della presunta incompatibilità tra la
causa di esclusione prevista l’art. 38, comma 1, lettera i) e
l’art. 45, paragrafo 2, della direttiva n. 18/2014 ha
statuito (paragrafi 32 e seguenti della motivazione) che:
- l’obiettivo perseguito dalla causa di esclusione dagli
appalti pubblici definita dall’articolo 38, paragrafo 1,
lettera i), del decreto legislativo n. 163/2006 consiste
nell’accertarsi dell’affidabilità, della diligenza e della
serietà dell’offerente nonché della correttezza del suo
comportamento nei confronti dei suoi dipendenti;
- accertarsi che un offerente possieda tali qualità
costituisce un obiettivo legittimo di interesse generale;
- una causa di esclusione come quella prevista dall’articolo
38, paragrafo 1, lettera i), del decreto legislativo n.
163/2006 è idonea a garantire il conseguimento
dell’obiettivo perseguito, dato che il mancato versamento
delle prestazioni previdenziali da parte di un operatore
economico tende a indicare assenza di affidabilità, di
diligenza e di serietà di quest’ultimo quanto
all’adempimento dei suoi obblighi legali e sociali;
- per quanto riguarda la necessità di una tale misura, la
definizione, da parte della normativa nazionale, di una
soglia precisa di esclusione alla partecipazione agli
appalti pubblici, vale a dire uno scostamento tra le somme
dovute a titolo di prestazioni sociali e quelle versate è di
un importo superiore, al contempo, a EUR 100 e al 5% delle
somme dovute, garantisce non solo la parità di trattamento
degli offerenti ma anche la certezza del diritto, principio
il cui rispetto costituisce una condizione della
proporzionalità di una misura restrittiva (v., in tal senso,
sentenza Itelcar, C‑282/12, EU:C:2013:629, punto 44);
- per quanto riguarda il livello di tale soglia di
esclusione, quale definito dalla normativa nazionale,
occorre ricordare che, riguardo agli appalti pubblici che
ricadono nella sfera di applicazione della direttiva
2004/18, l’articolo 45, paragrafo 2, di tale direttiva
lascia l’applicazione dei casi di esclusione che menziona
alla valutazione degli Stati membri, come risulta
dall’espressione «può venire escluso dalla partecipazione ad
un appalto», che figura all’inizio di detta disposizione, e
rinvia esplicitamente, in particolare alle lettere e) e f),
alle disposizioni legislative nazionali [v., per quanto
riguarda l’articolo 29 della direttiva 92/50/CEE del
Consiglio, del 18.06.1992 che coordina le procedure di
aggiudicazione degli appalti pubblici di servizi (GU L 209,
pag. 1), sentenza La Cascina e a., C‑226/04 e C‑228/04,
EU:C:2006:94, punto 21].
Inoltre, ai sensi del secondo comma
di detto articolo 45, paragrafo 2, gli Stati membri
precisano, conformemente al rispettivo diritto nazionale e
nel rispetto del diritto dell’Unione, le condizioni di
applicazione del paragrafo stesso;
- di conseguenza, l’articolo 45, paragrafo 2, della
direttiva 2004/18 non prevede una uniformità di applicazione
delle cause di esclusione ivi indicate a livello
dell’Unione, in quanto gli Stati membri hanno la facoltà di
non applicare affatto queste cause di esclusione o di
inserirle nella normativa nazionale con un grado di rigore
che potrebbe variare a seconda dei casi, in funzione di
considerazioni di ordine giuridico, economico o sociale
prevalenti a livello nazionale.
In tale ambito, gli Stati
membri hanno il potere di attenuare o di rendere più
flessibili i criteri stabiliti da tale disposizione (v., per
quanto riguarda l’articolo 29 della direttiva 92/50,
sentenza La Cascina e a., EU:C:2006:94, punto 23);
- l’articolo 45, paragrafo 2, lettera e), della direttiva
2004/18 consente agli Stati membri di escludere dalla
partecipazione a un appalto pubblico ogni operatore
economico che non sia in regola con gli obblighi relativi al
pagamento dei contributi previdenziali e assistenziali,
senza che sia previsto un qualsivoglia importo minimo di
contributi arretrati. In tale contesto, il fatto di
prevedere un siffatto importo minimo nel diritto nazionale
costituisce un’attenuazione del criterio di esclusione
previsto da tale disposizione e non può, pertanto, ritenersi
che vada oltre il necessario.
- gli Stati membri sono liberi di integrare le cause di
esclusione previste, in particolare, dall’articolo 45,
paragrafo 2, lettere e) e f), di detta direttiva nella
normativa nazionale con un grado di rigore che potrebbe
variare a seconda dei casi, in funzione di considerazioni di
ordine giuridico, economico o sociale prevalenti a livello
nazionale.
Alla luce dell’insieme delle considerazioni che precedono,
la Corte di giustizia ha, quindi, affermato dichiarato che
gli articoli 49 TFUE e 56 TFUE nonché il principio di
proporzionalità vanno interpretati nel senso che non ostano
a una normativa nazionale che, riguardo agli appalti
pubblici di lavori il cui valore sia inferiore alla soglia
definita all’articolo 7, lettera c), della direttiva
2004/18, obblighi l’amministrazione aggiudicatrice a
escludere dalla procedura di aggiudicazione di un tale
appalto un offerente responsabile di un’infrazione in
materia di versamento di prestazioni previdenziali se lo
scostamento tra le somme dovute e quelle versate è di un
importo superiore, al contempo, a EUR 100 e al 5% delle
somme dovute.
A ciò si deve aggiungere il principio generale affermato
nella giurisprudenza della Corte di giustizia Ce con la
pronuncia del 09.021996, in cause riunite C-226/04 e
C-228/04, secondo cui: «la sussistenza del requisito della
regolarità fiscale e contributiva (che, pure, può essere
regolarizzato in base a disposizioni nazionali di
concordato, condono o sanatoria) deve comunque essere
riguardata con riferimento insuperabile al momento ultimo
per la presentazione delle offerte, a nulla rilevando una
regolarizzazione successiva la quale, pertanto, non potrà in
alcun modo incidere sul dato dell’irregolarità ai fini della
singola gara».
Nemmeno gli argomenti fondati sul diritto comunitario
impongono, quindi, di dare spazio ad una generalizzata
regolarizzazione postuma come quella prospettata
dall’ordinanza di rimessione.
X) Il principio di diritto sulla questione interpretativa
rimessa all’Adunanza Plenaria
26. Alla luce delle considerazioni che precedono, la
questione interpretativa sottoposta dall’Adunanza Plenaria
deve, pertanto, essere risolta enunciando il seguente
principio di diritto:
«Anche dopo l’entrata in vigore dell’art. 31, comma 8, del
decreto legge 21.06.2013 n. 69, (Disposizioni urgenti
per il rilancio dell’economia), convertito con modificazioni
dalla legge 09.08.2013, n. 98, non sono consentite
regolarizzazioni postume della posizione previdenziale,
dovendo l’impresa deve essere in regola con l’assolvimento
degli obblighi previdenziali ed assistenziali fin dalla
presentazione dell’offerta e conservare tale stato per tutta
la durata della procedura di aggiudicazione e del rapporto
con la stazione appaltante, restando dunque irrilevante, un
eventuale adempimento tardivo dell’obbligazione
contributiva.
L’istituto dell’invito alla regolarizzazione
(il c.d. preavviso di DURC negativo), già previsto dall’art.
7, comma 3, del decreto ministeriale 24.10.2007 e ora
recepito a livello legislativo dall’art. 31, comma 8, del
decreto legge 21.06.2013 n. 69 può operare solo nei
rapporti tra impresa ed Ente previdenziale, ossia con
riferimento al DURC chiesto dall’impresa e non anche al DURC
richiesto dalla stazione appaltante per la verifica della
veridicità dell’autodichiarazione resa ai sensi dell’art.
38, comma 1, lettera i), ai fini della partecipazione alla
gara d’appalto».
XI) L’applicazione del principio al caso di specie
27. L’applicazione dell’enunciato principio al caso oggetto
del presente giudizio comporta l’accoglimento dell’appello
proposto dalle società Ca. e Gr..
Nel caso di specie è pacifico, infatti, che la posizione MAS
C. nel momento in chi ha reso la dichiarazione ai
fini della partecipazione alla gara non era regolare (cfr.
nota Inail del 09.12.2014 che conferma l’irregolarità
contributiva dell’impresa MAS alla data del 27.08.2014).
Risulta accertato, quindi, che la concorrente in sede di
gara ha attestato, contrariamente al vero, la regolarità
della posizione contributiva e che solo successivamente alla
conoscenza dell’aggiudicazione ha proceduto alla relativa
regolarizzazione.
Nel caso di specie, peraltro, MAS C. era certamente
consapevole della propria irregolarità contributiva,
trattandosi di contributi dovuti in autoliquidazione,
rispetto ai quali l’impresa ha prima chiesto la
rateizzazione, senza poi corrispondere quanto dovuto.
La dichiarazione ex art. 38, comma 1, lettera i), del decreto
legislativo n. 163 del 2006 è stata, quindi, resa nella
piena consapevolezza della non corrispondenza al vero.
28. L’appello principale deve, quindi, essere accolto e, per
l’effetto, in riforma della sentenza appellata deve essere
respinto il ricorso proposto in primo grado contro la revoca
dell’aggiudicazione (Consiglio di Stato,
Adunanza Plenaria,
sentenza 29.02.2016 n. 6 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Va ricordato che l’art. 38, comma 2, in combinato
disposto con il comma 1, lett. c), del d.lgs. n. 163 del
2006, impone di dichiarare l’assenza di sentenze di condanna
per una serie di reati la cui gravità ostativa, in taluni
casi, deve essere apprezzata in concreto dalla S.A., in
altri è presunta.
Ne consegue che i concorrenti non possono effettuare alcun
filtro in ordine all’importanza od all’incidenza della
condanna subita sulla moralità professionale, avendo
l’obbligo di menzionare tutte le sentenze penali di condanna
(ed i provvedimenti equiparati). Sono fatti salvi gli
effetti dei provvedimenti formali, annotati nel casellario
giudiziale, di estinzione del reato, depenalizzazione,
revoca della condanna e riabilitazione, esclusivamente in
relazione ai quali i concorrenti non devono rendere alcuna
dichiarazione.
Ne consegue che l’omessa dichiarazione di condanna
costituisce una dichiarazione non veritiera, e rappresenta
di per sé causa di esclusione del concorrente, anche alla
stregua di quanto disposto in via generale dall’art. 75 del
d.P.R. n. 445 del 2000 (in tema di decadenza dai benefici in
caso di non veridicità del contenuto della dichiarazione), a
prescindere dall’incidenza della stessa sulla moralità
professionale e dalle prescrizioni contenute nella lex
specialis.
Ciò tanto più nel caso di specie ove il modello di “domanda
di partecipazione e dichiarazione a corredo dell’offerta”,
alla pagina 4, sottolineava, anche in nota, la necessità di
dichiarate tutti i provvedimenti di condanna definitivi,
specificando che, in difetto, si procederà all’esclusione
dalla gara per -OMISSIS- dichiarazione ed alla successiva
segnalazione all’ANAC, peraltro in coerenza con la lex
specialis di gara.
Né può essere utilmente invocato l’art. 46, comma 1, del
d.lgs. n. 163 del 2006, in quanto nelle gare pubbliche è da
escludere ogni possibilità di soccorso istruttorio in caso
di non veridicità della dichiarazione autocertificativa sui
requisiti.
In ogni caso, il potere di soccorso istruttorio, anche nella
sua forma di estensione massima del soccorso “integrativo”,
quale prefigurato dalla pronuncia di Cons. Stato, Ad. Plen.,
25.02.2014, n. 9, e dalla novella del 2014 al codice dei
contratti pubblici, si applica al segmento di gara
dell’ammissione delle offerte, e non anche a quello di
verifica delle medesime.
---------------
L’ambito di applicazione dell’istituto del soccorso
istruttorio non è compatibile con la dichiarazione mendace,
potendo essere invocato in caso di dichiarazione incompleta,
irregolare, al limite estremo anche mancante, ma non già
nell’ipotesi, totalmente diversa, di una dichiarazione
esistente, ma, anche parzialmente, difforme dalla realtà.
In tale evenienza non ha dunque senso indugiare sulla
nozione di “irregolarità essenziale”, inferibile dall’art.
38, comma 2-bis, in quanto la stessa si colloca nella
prospettiva della procedimentalizzazione del potere di
soccorso istruttorio, mentre, come si è precedentemente
osservato, con la dichiarazione -OMISSIS- (a prescindere dal
fatto che essa dipenda da dolo o colpa) si è al di fuori del
campo della sanabilità delle mancanze, incompletezze od
irregolarità. E ciò, lo si ripete, in quanto il soccorso
istruttorio sovviene allorché l’Amministrazione ha la
disponibilità di intervenire su dichiarazioni comunque
fornite, ma non anche quando non c’è nulla ab initio, e
quindi in presenza di dati non conosciuti perché omessi.
Occorre aggiungere come la circostanza che una -OMISSIS- non
sposta la prospettiva ermeneutica, in quanto ciascuna delle
omissioni dichiarative è autonomamente idonea a giustificare
l’esclusione, e, dunque, la revoca dell’aggiudicazione.
---------------
1. - Con i primi due motivi di ricorso, che possono essere
trattati congiuntamente in quanto tra loro complementari, si
deduce la violazione degli artt. 38 e 46 del codice dei
contratti pubblici, contestandosi l’impugnata revoca
dell’aggiudicazione, in quanto disposta a seguito di una
mera irregolarità dichiarativa, consistente -OMISSIS-, la
quale è stata invece posta a presupposto della esclusione
dal procedimento di evidenza pubblica alla stregua di
dichiarazione -OMISSIS-, in contrasto con il principio di
tassatività delle cause di esclusione dalla gara, non
essendo contemplata come tale neppure dalla lex specialis,
mentre doveva al contrario essere esercitato, da parte della
Stazione appaltante, il potere di soccorso istruttorio.
I motivi non appaiono meritevoli di positiva valutazione.
A livello sistematico, va ricordato che l’art. 38, comma 2,
in combinato disposto con il comma 1, lett. c), del d.lgs.
n. 163 del 2006, impone di dichiarare l’assenza di sentenze
di condanna per una serie di reati la cui gravità ostativa,
in taluni casi, deve essere apprezzata in concreto dalla
S.A., in altri è presunta.
Ne consegue che i concorrenti non possono effettuare alcun
filtro in ordine all’importanza od all’incidenza della
condanna subita sulla moralità professionale, avendo
l’obbligo di menzionare tutte le sentenze penali di condanna
(ed i provvedimenti equiparati). Sono fatti salvi gli
effetti dei provvedimenti formali, annotati nel casellario
giudiziale, di estinzione del reato, depenalizzazione,
revoca della condanna e riabilitazione, esclusivamente in
relazione ai quali i concorrenti non devono rendere alcuna
dichiarazione.
Ne consegue che l’omessa -OMISSIS- costituisce una
dichiarazione non veritiera, e rappresenta di per sé causa
di esclusione del concorrente, anche alla stregua di quanto
disposto in via generale dall’art. 75 del d.P.R. n. 445 del
2000 (in tema di decadenza dai benefici in caso di non
veridicità del contenuto della dichiarazione), a prescindere
dall’incidenza della stessa sulla moralità professionale e
dalle prescrizioni contenute nella lex specialis.
Ciò tanto più nel caso di specie ove il modello di “domanda
di partecipazione e dichiarazione a corredo dell’offerta”,
alla pagina 4, sottolineava, anche in nota, la necessità di
dichiarate tutti i provvedimenti di condanna definitivi,
specificando che, in difetto, si procederà all’esclusione
dalla gara per -OMISSIS- dichiarazione ed alla successiva
segnalazione all’ANAC, peraltro in coerenza con la lex
specialis di gara.
Né può essere utilmente invocato l’art. 46, comma 1, del
d.lgs. n. 163 del 2006, in quanto nelle gare pubbliche è da
escludere ogni possibilità di soccorso istruttorio in caso
di non veridicità della dichiarazione autocertificativa sui
requisiti (Cons. Stato, Sez. IV, 20.01.2015, n. 140;
indirettamente anche Cons. Stato, Sez. IV, 15.09.2015, n.
4315).
In ogni caso, il potere di soccorso istruttorio, anche nella
sua forma di estensione massima del soccorso “integrativo”,
quale prefigurato dalla pronuncia di Cons. Stato, Ad. Plen.,
25.02.2014, n. 9, e dalla novella del 2014 al codice dei
contratti pubblici, si applica al segmento di gara
dell’ammissione delle offerte, e non anche a quello di
verifica delle medesime.
2. - Le osservazioni da ultimo svolte inducono a
disattendere anche il terzo mezzo con cui si deduce
l’eccesso di potere, nelle figure sintomatiche del difetto
di istruttoria, della contraddittorietà ed ingiustizia
manifesta, assumendosi che, se l’art. 38-bis consente
l’integrazione postuma della dichiarazione mancante, a
fortiori deve consentire l’integrazione della
dichiarazione parziale.
Ed invero l’ambito di applicazione dell’istituto del
soccorso istruttorio non è compatibile con la dichiarazione
mendace, potendo essere invocato in caso di dichiarazione
incompleta, irregolare, al limite estremo anche mancante, ma
non già nell’ipotesi, totalmente diversa, di una
dichiarazione esistente, ma, anche parzialmente, difforme
dalla realtà (in termini, da ultimo, TAR Toscana, Sez. I,
13.01.2016, n. 11).
In tale evenienza non ha dunque senso indugiare sulla
nozione di “irregolarità essenziale”, inferibile
dall’art. 38, comma 2-bis, in quanto la stessa si colloca
nella prospettiva della procedimentalizzazione del potere di
soccorso istruttorio, mentre, come si è precedentemente
osservato, con la dichiarazione -OMISSIS- (a prescindere dal
fatto che essa dipenda da dolo o colpa) si è al di fuori del
campo della sanabilità delle mancanze, incompletezze od
irregolarità. E ciò, lo si ripete, in quanto il soccorso
istruttorio sovviene allorché l’Amministrazione ha la
disponibilità di intervenire su dichiarazioni comunque
fornite, ma non anche quando non c’è nulla ab initio,
e quindi in presenza di dati non conosciuti perché omessi.
Occorre aggiungere come la circostanza che una -OMISSIS- non
sposta la prospettiva ermeneutica, in quanto ciascuna delle
omissioni dichiarative è autonomamente idonea a giustificare
l’esclusione, e, dunque, la revoca dell’aggiudicazione (in
termini Cons. Stato, Sez. V, 16.02.2015, n. 775).
3. - Per lo stesso ordine di ragioni deve essere disatteso
il quarto mezzo, con cui si deduce l’illegittimità della
segnalazione all’ANAC.
Ed invero, anche ad ammettere che sia ammissibile, sotto il
profilo dell’interesse al ricorso, l’impugnativa della
segnalazione, la quale non ha natura provvedimentale, ma di
mera comunicazione a fini informativi (sì che la eventuale
sanzione si correla solamente alle determinazioni
dell’Autorità), deve ritenersi che l’omessa dichiarazione
circa le -OMISSIS- comporta la segnalazione (in termini,
ex multis, Cons. Stato, Sez. III, 08.09.2014, n. 4543;
Cons. Stato, Ad. Plen., 04.05.2012, n. 8), trattandosi di un
atto dovuto per la Stazione appaltante (Cons. Stato, Sez. VI,
03.02.2011, n. 782).
4. - In conclusione, alla stregua di quanto esposto, il
ricorso deve essere respinto in ragione dell’infondatezza
delle censure dedotte
(TAR Umbria,
sentenza 26.02.2016 n. 201 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI: È
illegittima l’esclusione di una società che ha presentato un
progetto con una variante che prevedeva l’allargamento della
sezione stradale di 3,40 metri.
La sentenza ha motivato che tale variante era prevista dal
disciplinare di gara che stabiliva che si dovesse garantire
“il rispetto della legislazione in ogni suo aspetto
tecnico”, e ciò avrebbe costituito un elemento positivo per
l’attribuzione dei punteggi tecnici.
---------------
1. L’appello della Do.Co. è fondato nella parte diretta a
censurare l’accoglimento dell’impugnativa della Sp.Co..
2. Deve al riguardo premettersi che i presupposti di fatto
rilevanti ai fini della censura accolta dal Tribunale
amministrativo non sono contestati da alcuna delle parti ed
in particolare non è in discussione che l’odierna appellante
ha offerto di aumentare la sezione stradale da realizzare,
portandola dalla misura di 18,60 a quella di 22 metri.
Deve ancora precisarsi che le due misure sono corrispondenti
a quelle previste da altrettante normative tecniche sulle
caratteristiche geometriche delle strade extraurbane
succedutesi nel tempo: rispettivamente, quella più ridotta
alle norme elaborate dal Consiglio nazionale delle ricerche
nel 1980 ed alle quali il progetto preliminare opera un
preciso richiamo attraverso l’espressione «tipo III
C.N.R.» (così in particolare nella relazione
illustrativa); quella più estesa invece alla misura minima
prevista per tale tipologia di strade dal d.m.
Infrastrutture e Trasporti del 05.11.2001 (Norme funzionali
e geometriche per la costruzione delle strade) attualmente
vigente, ad al quale l’odierna appellante ha inteso
dichiaratamente adeguarsi.
3. Ciò premesso, il giudice di primo grado ha esattamente
colto la natura della soluzione progettuale in questione. E’
infatti altrettanto incontestabile che l’allargamento della
sezione stradale offerto dall’aggiudicataria consista in una
variante rispetto al progetto preliminare elaborato
dall’amministrazione. Tale è in primo luogo qualificata
dallo stesso progettista della Do.Co. (in particolare: a
pag. 3 della “relazione d’offerta”, tavola eg02), ed
in ogni caso non può negarsi che una maggiore larghezza
della sezione stradale (nel caso di specie di oltre un
sesto) comporta una ontologica differenza tra l’idea
progettuale elaborata dall’amministrazione e quella offerta
dall’odierna appellante, con incidenza non trascurabile
sulla complessiva superficie da asfaltare (come sottolineato
dalla Sposato Costruzioni in memoria di replica).
4. Il punto decisivo è tuttavia stabilire se tale diversità
corrisponda a una variante vietata. Al quesito deve essere
data risposta negativa, trattandosi di diversità
giustificata in base alla stessa lex specialis.
È certamente vero che –come rilevato dal Tribunale
amministrativo– nella relazione illustrativa al progetto
preliminare fosse richiesta una sezione stradale conforme
alla normativa tecnica del 1980. Nel documento in esame
specifica infatti che il tratto interessato dai lavori da
affidare, «essendo ricompreso tra due tratti di strada
classificati III C.N.R., dovrà avere, per problematiche di
contiguità di tracciato e tipologia di traffico servito, una
piattaforma stradale di tipo III C.N.R.», ponendosi
quindi in evidenza che le situazioni di pericolo per la
circolazione sono «molto spesso dovute anche alle
situazioni di discontinuità della sezione stradale esistente».
5. Sennonché, il disciplinare di gara prevede che, oltre a
rispettare le «caratteristiche minime inderogabili
previste dal progetto preliminare», il progetto
definitivo da presentare in sede di gara debba garantire
anche «il rispetto della vigente legislazione in ogni suo
aspetto tecnico» [art. 3, relativo all’offerta tecnica,
punto a)]. Quindi, nel definire i criteri di valutazione
dell’offerta tecnica il medesimo disciplinare precisa che ai
fini dell’elemento consistente nelle «caratteristiche
qualitative e funzionali dovute a varianti» sarebbero
state valutate le soluzioni progettuali in grado di fare
conseguire all’infrastruttura viaria «un miglioramento
delle caratteristiche qualitative e funzionali (…)ivi
comprese quelle che consentono l’elevazione degli standards
di sicurezza per l’utenza»; e inoltre che pur venendo
ammesse «eventuali proposte progettuali in variante»
sarebbero state escluse quelle «comportanti sostanziali
alterazioni plano-altimetriche e di tracciato» (punto
a.1 del citato art. 3).
6. Dalla normativa di lex specialis ora esaminata si
evince quindi che l’adeguamento alla normativa tecnica in
vigore, tra cui il citato d.m. 05.11.2001, non solo era
richiesto dalla stazione appaltante quale requisito di
idoneità minima dei progetti da presentare in sede di gara,
ma avrebbe addirittura costituito elemento di valorizzazione
di questi ultimi ai fini dell’attribuzione dei punteggi
tecnici.
7. Il Tribunale amministrativo ha nondimeno affermato che
l’applicabilità delle norme tecniche sulle caratteristiche
delle strade del 2001 sarebbe paralizzata dalle prescrizioni
contenute nella relazione illustrativa al progetto
preliminare della tangenziale. Il giudice di primo grado ha
infatti ritenuto che in virtù di queste ultime ricorrano le
deroghe previste dagli artt. 3 e 4 del citato decreto
ministeriale, e cioè sussistano le «particolari
condizioni locali, ambientali, paesaggistiche, archeologiche
ed economiche che non ne consentano il pieno rispetto»,
ed inoltre che i lavori in questione consistono in «interventi
riguardanti la rettifica di strade esistenti» per i
quali il rispetto della normativa in questione
determinerebbe «pericolose ed inopportune discontinuità».
8. Le conclusioni del giudice di primo grado non possono
essere condivise.
Il completamento della tangenziale oggetto dell’appalto in
contestazione non può innanzitutto essere ricondotto alla
rettifica del tracciato di strade esistenti ai sensi del
citato art. 4, consistendo in realtà nella realizzazione di
un nuovo tronco stradale, per il quale l’art. 2 del medesimo
decreto ministeriale impone il rispetto delle norme in esso
contenute.
Inoltre, nessuna delle condizioni ostative previste
dall’art. 3 è configurabile nel caso di specie. Questa norma
-e quella primaria che ne costituisce il fondamento,
contenuta nell’art. 13, comma 2, cod. strada- si riferisce a
fattori che esulano dalle caratteristiche della strada ed
attengono invece al contesto geografico nel quale questa è
destinata ad essere localizzata o all’assenza di risorse
finanziarie necessarie a sostenere i costi per la relativa
realizzazione. In questi casi sono quindi ammesse «soluzioni
progettuali diverse», purché «supportate da
specifiche analisi di sicurezza», previa acquisizione
del parere del Consiglio superiore dei lavori pubblici (per
le strade extraurbane).
La disposizione regolamentare in esame muove dunque dal
presupposto dell’applicabilità generalizzata della normativa
tecnica del 2001, consentendo tuttavia una deroga per
ragioni obiettivamente impeditive, a fronte delle quali è
richiesta comunque una verifica sulla conformità delle
soluzioni alternative adottate rispetto ai requisiti minimi
di sicurezza previsti dalla medesima normativa. Si tratta
dunque di un’ipotesi affatto diversa da quella verificatasi
nella presente fattispecie contenziosa, in cui la scelta dei
progettisti della Provincia è stata dettata dalle
caratteristiche intrinseche della strada, nel presupposto
che solo quelle corrispondenti ai tronconi già esistenti
assicurano adeguate condizioni di sicurezza.
9. Come sopra rilevato questo presupposto è tuttavia
contraddetto dalla normativa di gara ed è inoltre
indimostrato, mentre è dall’altro lato pacifico che –come
sottolinea l’appellante- le attuali norme tecniche sulle
caratteristiche delle strade sono coerenti con l’aumento
dimensionale degli autoveicoli registratosi negli anni
successivi agli ’80, e sotto questo profilo offrono dunque
maggiori garanzie di sicurezza rispetto alle norme risalenti
a quegli anni.
Del resto, sul piano generale, se le caratteristiche
preesistenti delle strade potessero di per sé costituire
ragioni sufficienti per applicare normative tecniche ormai
superate queste ultime beneficerebbero di un’ultrattività in
grado di vanificare le acquisizioni del progresso nella
materia dalle stesse disciplinata e trasfusa nelle norme
successive. Ed è proprio in questa prospettiva che il d.m.
del 2001 circoscrive entro limiti rigorosi le deroghe, sopra
esaminate, alla previsione generale secondo cui le norme in
esso contenute «si applicano per la costruzione di nuovi
tronchi stradali e per l’adeguamento di tronchi stradali
esistenti» (art. 2 citato).
Inoltre, depone nella medesima direzione anche la norma
transitoria contenuta nell’art. 5 del decreto ministeriale
in esame, secondo cui i progetti preliminari già approvati
al momento dell’entrata in vigore del decreto devono essere
adeguati alla normativa tecnica con esso introdotta,
mediante le necessarie «varianti» in sede di
progettazione definitiva.
10. Per concludere sul punto, non è condivisibile nemmeno
l’assunto della Sposato Costruzioni, fatto proprio dal
Tribunale amministrativo, secondo cui l’allargamento a 22
metri della sezione stradale proposto dalla Doronzo
Infrastrutture al fine di rispettare i vigenti standard
tecnici comporterebbe una modifica del progetto
espressamente vietata dalle citate previsioni del
disciplinare di gara, poiché comportante «sostanziali
alterazioni plano-altimetriche e di tracciato».
Al riguardo va evidenziato che il solo parametro modificato
tra quelli richiamati dalla norma di lex specialis in
questione è quello planimetrico, ma in misura tale da non
comportare di certo alcuna alterazione «sostanziale» del
progetto predisposto dalla stazione appaltante. Questo
aggettivo è infatti indicativo di un margine di elasticità
riconosciuto ai concorrenti, coerentemente con la funzione
tipica dell’appalto integrato, quale modalità di gara nel
quale l’amministrazione acquisisce dalle imprese concorrenti
soluzioni tecniche in grado di sviluppare in senso
migliorativo quelle di massima da essa elaborate nel
progetto preliminare posto a gara e le offerenti dispongono
di significativi margini di scelta, con il solo limite di
non stravolgere l’idea progettuale elaborate dalla stazione
appaltante.
La conseguenza di quanto sopra è che la diversità in
questione trovava piena giustificazione e plausibilità
(Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 25.02.2016 n. 779
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI:
Questo Consiglio di Stato ha attenuato il rigore
degli obblighi dichiarativi concernenti i requisiti di
ordine generale (ex art. 38 d.lgs. n. 163 del 2006)
affermando che la mancata indicazione nominativa dei
soggetti appartenenti alla compagine societaria ai quali si
riferiscono i requisiti di moralità personale genericamente
attestati non può comportare l’esclusione dalla gara, quando
i soggetti tenuti al rispetto di questi siano comunque
individuabili.
Ebbene, in questa ipotesi rientra certamente quella del
socio di società di persone, come nel caso di specie
comprovato dal fatto che la sua esistenza è stata ricavata
dalla dichiarazione sostitutiva di certificazione camerale
esibita in sede di gara dall’ausiliaria medesima (ed in
particolare dal relativo allegato).
Inoltre, in disparte questa considerazione pur di carattere
assorbente, deve sottolinearsi che con riguardo all’impresa
partecipante alla gara in veste non già di concorrente ma di
ausiliaria la costante giurisprudenza di questa V Sezione ha
ritenuto che gli obblighi dichiarativi di quest’ultima siano
attenuati rispetto alla prima.
Ciò sulla base del dato letterale dell’art. 49 (Avvalimento),
comma 2, lett. b), d.lgs. n. 163 del 2006, secondo cui il
concorrente deve semplicemente allegare «una dichiarazione
sottoscritta dall’impresa ausiliaria attestante il possesso
da parte di quest'ultima dei requisiti generali di cui
all'art. 38», nonché della diversa posizione rispetto al
contratto tra ausiliaria e concorrente poi aggiudicataria
del contratto, la quale è tenuta ai sensi del successivo
comma 10 ad eseguire il servizio e solo ad essa è rilasciato
il certificato di esecuzione.
---------------
16. Rimane da
esaminare la censura contenuta nel motivo aggiunto svolto
davanti al Tribunale amministrativo, con cui la Sp.Co. ha
sostenuto che la controinteressata doveva essere esclusa
perché la sua ausiliaria De Lu.Sa. s.n.c. aveva omesso di
attestare di possedere i requisiti ex art. 38 d.lgs. n. 163
del 2006 della socia al 35% sig.ra Mi.Bu..
17. Anche questo motivo è infondato.
Con sentenza Cons. Stato, Ad. plen., 30.07.2014, n. 16,
questo Consiglio di Stato ha attenuato il rigore degli
obblighi dichiarativi concernenti i requisiti di ordine
generale ai sensi della disposizione da ultimo citata,
affermando che la mancata indicazione nominativa dei
soggetti appartenenti alla compagine societaria ai quali si
riferiscono i requisiti di moralità personale genericamente
attestati non può comportare l’esclusione dalla gara, quando
i soggetti tenuti al rispetto di questi siano comunque
individuabili.
Ebbene, in questa ipotesi rientra certamente quella del
socio di società di persone, come nel caso di specie
comprovato dal fatto che la sua esistenza è stata ricavata
dalla dichiarazione sostitutiva di certificazione camerale
esibita in sede di gara dall’ausiliaria medesima (ed in
particolare dal relativo allegato).
18. Inoltre, in disparte questa considerazione pur di
carattere assorbente, deve sottolinearsi che con riguardo
all’impresa partecipante alla gara in veste non già di
concorrente ma di ausiliaria la costante giurisprudenza di
questa V Sezione ha ritenuto che gli obblighi dichiarativi
di quest’ultima siano attenuati rispetto alla prima.
Ciò sulla base del dato letterale dell’art. 49 (Avvalimento),
comma 2, lett. b), d.lgs. n. 163 del 2006, secondo cui il
concorrente deve semplicemente allegare «una
dichiarazione sottoscritta dall’impresa ausiliaria
attestante il possesso da parte di quest'ultima dei
requisiti generali di cui all'art. 38», nonché della
diversa posizione rispetto al contratto tra ausiliaria e
concorrente poi aggiudicataria del contratto, la quale è
tenuta ai sensi del successivo comma 10 ad eseguire il
servizio e solo ad essa è rilasciato il certificato di
esecuzione (Cons. Stato, V, 14.02.2013, n. 911, cui aderisce
la successiva Cons. Stato, V, 01.08.2015, n. 3769).
Pertanto, nessuna causa di esclusione dalla gara può
ricavarsi dall’omessa attestazione riferita in modo
specifico ad una socia dell’impresa ausiliaria
(Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 25.02.2016 n. 779
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
rateizzazione del pagamento degli oneri di urbanizzazione è
prevista all’art. 16 d.P.R. n. 380 del 2001 laddove, oltre a
stabilire il carattere di regola oneroso del permesso di
costruire, concede al privato la facoltà di richiedere il
pagamento rateizzato.
A sua volta l’art. 42 d.P.R. n. 380/2001, intitolato
“Ritardato od omesso versamento del contributo di
costruzione”, riproduttivo dell’art. 3 l. 28.02.1985 n. 47,
attribuisce alle regioni la potestà di determinare “le
sanzioni per il ritardato o mancato versamento del
contributo di costruzione" (cfr. comma 1) in misura non
inferiore a quanto previsto dalla stessa norma, estendendo,
nel caso di pagamento rateizzato, la disciplina al ritardo
(cfr. comma 4) “nei pagamenti delle singole rate”.
---------------
Mentre il rilascio della garanzia (nel caso che ne occupa
fideiussoria) opera su un piano paritetico disciplinato dal
diritto civile, la determinazione e la riscossione dei ratei
tardivamente versati ha un connotazione pubblicistica,
insita nel suo essere concepita per operare in un contesto
nel quale si ha esercizio di una potestà sanzionatoria, e
dunque comporta l’esigenza di osservare garanzie e formalità
affatto diverse da quelle che soprassiedono all’attività
negoziale.
L’irrogazione delle sanzioni serve a rafforzare norme di
condotta il cui rispetto appare essenziale per l’ordinato
sviluppo del territorio ed assicurare la celere esecuzione
delle opere di urbanizzazione destinate alla collettività
(cfr., testualmente, art. 3 l. n. 47/1985).
In definitiva, l’ambito negoziale sito a monte, costituente
il presupposto della rateizzazione, e l’ambito
pubblicistico-sanzionatorio posto a valle, relativo
all’esatto e tempestivo adempimento dei pagamenti, vanno
tenuti distinti, avendo statuti normativi (strutturalmente e
funzionalmente) eterogenei.
Conseguentemente, in forza di una serie di argomenti di
seguito espressi, va rivisto l’indirizzo, fatto proprio da
un precedente arresto giurisprudenziale che, valorizzando in
funzione assiologia il principio d’imparzialità dell’azione
amministrativa, giunge a diversa conclusione.
Innanzitutto nella dinamica contrattuale il rilascio della
fideiussione a prima richiesta è prestata nell’esclusivo
interesse dell’amministrazione che non è affatto gravata
dall’obbligo di attivarla “a vantaggio della parte
inadempiente”.
Aggiungasi che, nel caso in esame, trattandosi di
fideiussione con la clausola a prima richiesta non alterante
il tipo normativo, ossia di garanzia fideiussoria in senso
stretto non assimilabile alla garanzia autonoma, trova piena
applicazione l’art. 1942 c.c. a mente del quale la
fideiussione si estende “a tutti gli accessori del debito
principale”, con implicita esclusione delle somme dovute ad
altro titolo, quali (ed a più forte ragione) le sanzioni
amministrative dovute ex lege per il ritardato versamento
dei ratei del contributo di urbanizzazione.
Sicché il Comune, prima della scadenza del termine di
pagamento del rateo, non poterebbe azionare la garanzia; una
volta scaduto il termine, escussa la garanzia, si vedrebbe
opporre, ex art. 1942 c.c., dall’istituto fideiubente
l’inefficacia della garanzia relativamente ad una pretesa
patrimoniale (pari al rateo maggiorato della sanzione) non
ricompreso nel debito garantito, oggetto di fideiussione.
Né è revocabile in dubbio che l’azione amministrativa iure
privatorum, seppure tenuta ad osservare il principio
immanente d’imparzialità e buon andamento, è governata dalle
regole di diritto comune: la buona fede ex art. 1375 c.c.
disciplina le modalità di esercizio del diritto sul piano
procedurale, non genera affatto nuove obbligazioni.
Non impone all’amministrazione –come invece sostenuto dal
Tar in un’anomala concezione poietico-normativa della buona
fede in excutivis– di costituire in mora il debitore
inadempiente nell’obbligazione di pagamento portable anche
se l’art. 1219, comma 1, n. 3, c.c. esonera espressamente il
creditore dall’incombente e, in aggiunta, ad attivare la
garanzia fideiussoria per agevolare nell’interesse del
debitore l’adempimento anziché per tutelare l’interesse del
Comune al pagamento di un’entrata di diritto pubblico.
Alla medesima stregua l’estensione dell’art. 1227, comma 2,
c.c., predicativo della ripartizione del risarcimento dei
danni conseguenti all’inadempimento secondo il criterio
della causalità giuridica, con esclusione del risarcimento
dei danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando
l’ordinaria diligenza, incontra l’insormontabile ostacolo
della natura punitivo-sanzionatoria (e non risarcitoria) di
quanto dovuto ex lege per il tardivo versamento delle
singole quote nei termini prescritti.
---------------
L’appello è fondato.
La rateizzazione del pagamento degli oneri di urbanizzazione
è prevista all’art. 16 d.P.R. n. 380 del 2001 laddove, oltre
a stabilire il carattere di regola oneroso del permesso di
costruire, concede al privato la facoltà di richiedere il
pagamento rateizzato.
A sua volta l’art. 42 d.P.R. n. 380/2001, intitolato “Ritardato
od omesso versamento del contributo di costruzione”,
riproduttivo dell’art. 3 l. 28.02.1985 n. 47, attribuisce
alle regioni la potestà di determinare “le sanzioni per
il ritardato o mancato versamento del contributo di
costruzione" (cfr. comma 1) in misura non inferiore a
quanto previsto dalla stessa norma, estendendo, nel caso di
pagamento rateizzato, la disciplina al ritardo (cfr. comma
4) “nei pagamenti delle singole rate”.
La legge Regione Veneto 27.06.1985 n. 61 ha dato
applicazione (all’allora art. 3 l. n. 47/1985), ed ha
previsto all’art. 81 la rateizzazione degli oneri di
urbanizzazione subordinatamente alla prestazione di “opportune
garanzie secondo le modalità previste dall’art. 13 l.
03.01.1978 n. 1”; nonché le conseguenze per il mancato
versamento delle singole quote nei termini previsti
stabilendo –in chiave sanzionatoria del ritardato
versamento– l’aumento percentuale di esse a secondo del
ritardo di quanto dovuto.
La norma ha altresì cura di precisare che decorso il termine
di cui alla lettera e), ossia 240 giorni dal termine di
pagamento della rata, “il Sindaco provvede alla
riscossione coattiva del complessivo credito a norma del
R.D. 14.04.1910 n. 639”.
Sicché la disciplina regionale, in sintonia con quella
statale, opera una netta distinzione fra la prestazione
della garanzia, necessaria per ottenere la rateizzazione
degli oneri di urbanizzazione, e la determinazione delle
sanzioni per il ritardato versamento dei singoli ratei.
Mentre il rilascio della garanzia (nel caso che ne occupa
fideiussoria) opera su un piano paritetico disciplinato dal
diritto civile, la determinazione e la riscossione dei ratei
tardivamente versati ha un connotazione pubblicistica,
insita nel suo essere concepita per operare in un contesto
nel quale si ha esercizio di una potestà sanzionatoria, e
dunque comporta l’esigenza di osservare garanzie e formalità
affatto diverse da quelle che soprassiedono all’attività
negoziale.
L’irrogazione delle sanzioni serve a rafforzare norme di
condotta il cui rispetto appare essenziale per l’ordinato
sviluppo del territorio ed assicurare la celere esecuzione
delle opere di urbanizzazione destinate alla collettività
(cfr., testualmente, art. 3 l. n. 47/1985).
In definitiva, l’ambito negoziale sito a monte, costituente
il presupposto della rateizzazione, e l’ambito
pubblicistico-sanzionatorio posto a valle, relativo
all’esatto e tempestivo adempimento dei pagamenti, vanno
tenuti distinti, avendo statuti normativi (strutturalmente e
funzionalmente) eterogenei.
Conseguentemente, in forza di una serie di argomenti di
seguito espressi, va rivisto l’indirizzo, fatto proprio da
un precedente arresto giurisprudenziale (cfr. Cons. St.,
sez. V, 21.11.2014 n. 5734, in antitesi all’orientamento qui
condiviso di cui a Cons. St. sez. IV, 17.02.2014 n. 731)
che, valorizzando in funzione assiologia il principio
d’imparzialità dell’azione amministrativa, giunge a diversa
conclusione.
Innanzitutto nella dinamica contrattuale il rilascio della
fideiussione a prima richiesta è prestata nell’esclusivo
interesse dell’amministrazione che non è affatto gravata
dall’obbligo di attivarla “a vantaggio della parte
inadempiente”.
Aggiungasi che, nel caso in esame, trattandosi di
fideiussione con la clausola a prima richiesta non alterante
il tipo normativo, ossia di garanzia fideiussoria in senso
stretto non assimilabile alla garanzia autonoma, trova piena
applicazione l’art. 1942 c.c. a mente del quale la
fideiussione si estende “a tutti gli accessori del debito
principale”, con implicita esclusione delle somme dovute
ad altro titolo, quali (ed a più forte ragione) le sanzioni
amministrative dovute ex lege per il ritardato
versamento dei ratei del contributo di urbanizzazione (cfr.,
testualmente, Cass. 12.06.2001 n. 7885).
Sicché il Comune, prima della scadenza del termine di
pagamento del rateo, non poterebbe azionare la garanzia; una
volta scaduto il termine, escussa la garanzia, si vedrebbe
opporre, ex art. 1942 c.c., dall’istituto fideiubente
l’inefficacia della garanzia relativamente ad una pretesa
patrimoniale (pari al rateo maggiorato della sanzione) non
ricompreso nel debito garantito, oggetto di fideiussione.
Né è revocabile in dubbio che l’azione amministrativa
iure privatorum, seppure tenuta ad osservare il
principio immanente d’imparzialità e buon andamento, è
governata dalle regole di diritto comune: la buona fede ex
art. 1375 c.c. disciplina le modalità di esercizio del
diritto sul piano procedurale, non genera affatto nuove
obbligazioni.
Non impone all’amministrazione –come invece sostenuto dal
Tar in un’anomala concezione poietico-normativa della buona
fede in excutivis– di costituire in mora il debitore
inadempiente nell’obbligazione di pagamento portable
anche se l’art. 1219, comma 1, n. 3, c.c. esonera
espressamente il creditore dall’incombente e, in aggiunta,
ad attivare la garanzia fideiussoria per agevolare
nell’interesse del debitore l’adempimento anziché per
tutelare l’interesse del Comune al pagamento di un’entrata
di diritto pubblico.
Alla medesima stregua l’estensione dell’art. 1227, comma 2,
c.c., predicativo della ripartizione del risarcimento dei
danni conseguenti all’inadempimento secondo il criterio
della causalità giuridica, con esclusione del risarcimento
dei danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando
l’ordinaria diligenza, incontra l’insormontabile ostacolo
della natura punitivo-sanzionatoria (e non risarcitoria) di
quanto dovuto ex lege per il tardivo versamento delle
singole quote nei termini prescritti.
Venendo alle censure non espressamente esaminate dal Tar,
qui riproposte dalla ricorrente appellata, mette conto
rilevare che la natura vincolata nell’an e nel
quantum degli atti, adottati per giunta sulla scorta del
procedimento di rateizzazione promosso –va sottolineato– ad
istanza di parte, esonerava, ex artt. e 21-octies l.
241/1990, il Comune dalla comunicazione dell’avvio del
procedimento.
Né sussiste il dedotto contrasto dell’art. 81 l.r. Veneto n.
61 del 1985 con i principi fondamentali dettati in materia
dalla disciplina statale, posto che l’art. 42 t.u.ed.,
riproduttivo dell’art. 3 l. 47/1985, demanda espressamente
alle regioni l’esercizio del potere per cui è causa.
Conclusivamente l’appello deve essere accolto
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 25.02.2016 n. 778 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI - LAVORI PUBBLICI: L'art.
48, del d.lgs. n. 163 del 2006, che prevede la sanzione
dell'escussione della cauzione provvisoria e della
segnalazione all'Autorità di Vigilanza come conseguenza
dell'esclusione dalla gara, si riferisce testualmente alla
mancanza dei soli requisiti di capacità
economico-finanziaria e tecnico-organizzativa, e la
disposizione, in considerazione della sua funzione
sanzionatoria, deve ritenersi che abbia carattere tassativo;
pertanto, la stessa non può essere estesa ad ipotesi
diverse.
Tuttavia va rilevato che la possibilità di segnalare
all'Autorità di vigilanza tutte le false dichiarazioni rese
in sede di gara, ivi comprese quelle relative ai requisiti
di carattere generale, anche con riferimento alla disponendo
escussione, discende, non da detto art. 48, ma direttamente
dall'art. 75, comma 6, del d.lgs. n. 163 del 2006, il quale
dispone che la cauzione sia posta a garanzia della
sottoscrizione del contratto da parte dell'aggiudicatario e
ne prevede lo svincolo solo al momento dell'avvenuta
sottoscrizione, con ciò implicitamente statuendo
l'escussione in caso di mancata sottoscrizione per fatto
dell'aggiudicatario, perché riguarda tutte le ipotesi di
mancata sottoscrizione del contratto per fatto
dell'affidatario, intendendosi per fatto dell'affidatario
qualunque ostacolo alla stipulazione a lui riconducibile,
dunque non solo il rifiuto di stipulare o il difetto di
requisiti speciali, ma anche il difetto di requisiti
generali di cui all'art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006.
L'incameramento della cauzione provvisoria può quindi essere
disposto anche a fronte di dichiarazioni non veritiere rese
a norma dell'art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006, dovendosi
privilegiare l'altra funzione della cauzione, intesa come
garanzia del rispetto dell'ampio patto d'integrità cui si
vincola chi partecipa a gare pubbliche.
Con sentenza n. 2232 del 18.04.2012, di questa Sezione, sono
stati affermati i seguenti, condivisibili, principi:
a) l'escussione della cauzione provvisoria non presuppone in
via esclusiva il fatto dell'aggiudicatario ovvero la falsità
delle dichiarazioni concernenti i soli requisiti generali o
speciali di partecipazione alla procedura;
b) essa, al contrario, trova spazio applicativo anche quando
il concorrente, pur se non aggiudicatario, dichiari il falso
in occasione della rappresentazione di elementi costitutivi
dell'offerta;
c) è legittima la previsione del bando di gara che ammette
l'escussione della garanzia per qualsivoglia ipotesi di
falsità nelle dichiarazioni -ovvero anche nei confronti
della concorrente non aggiudicataria– e anche in caso di
mancato adempimento di ogni altro obbligo derivante dalla
partecipazione alla gara;
d) La cauzione provvisoria costituisce parte integrante
dell'offerta e non mero elemento di corredo della stessa; la
finalità della cauzione è quella di responsabilizzare i
partecipanti in ordine alle dichiarazioni rese, di garantire
la serietà e l'affidabilità dell'offerta, nonché di
escludere da subito i soggetti privi delle richieste qualità
volute dal bando;
e) l'escussione costituisce conseguenza della violazione
dell'obbligo di diligenza gravante sull'offerente.
In senso diverso rispetto alla tesi più restrittiva, si era
già espressa la Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con
sentenza n. 8 del 04.05.2012, affermando, sia pure in un
contesto più ampio, dedicato in modo centrale alla questione
della gravità delle irregolarità contributive, che la
possibilità di incamerare la cauzione provvisoria (che
discende direttamente dall'art. 75 codice contratti
pubblici) riguarda tutte le ipotesi di mancata
sottoscrizione del contratto per fatto dell'affidatario,
intendendosi per fatto dell'affidatario qualunque ostacolo
alla stipulazione a lui riconducibile; dunque non solo il
rifiuto di stipulare o il difetto di requisiti speciali, ma
anche il difetto di requisiti generali di cui all'art. 38
codice citato.
La affermazione della sentenza della Adunanza Plenaria n. 8
del 2012, nel senso sopra riportato, costituisce oramai un
dato acquisito della giurisprudenza di secondo grado.
Al riguardo, con sentenza della Adunanza Plenaria
10.12.2014, n. 34 è stato anche affermato che -oltre ad una
lettura evolutiva dell'art. 75 nel senso sopra riportato di
far riferimento anche ai concorrenti e non solo
all'aggiudicatario e non solo ai requisiti speciali di cui
all'art. 48 ma anche ai requisiti generali di cui all'art.
38 del d.lgs. n. 163 del 2006- porta e concludere nel senso
sopra sostenuto anche la previsione contenuta nell'art. 49
del medesimo d.lgs., che, sia pure nell'ambito della
disciplina dell'avvalimento, ma con valenza sistematica (ai
sensi degli articoli 1362 e seguenti codice civile) dal
punto di vista interpretativo, al comma 3, prevede che "nel
caso di dichiarazioni mendaci, ferma restando l'applicazione
dell'articolo 38, lettera h, nei confronti dei
sottoscrittori, la stazione appaltante esclude il
concorrente (non già il solo aggiudicatario) e escute la
garanzia".
Aggiungasi che con detta sentenza della Adunanza Plenaria n.
34 del 2014 è stata ritenuta legittima pure la clausola,
contenuta in atti di indizione di procedure di affidamento
di appalti pubblici, che preveda l'escussione della cauzione
provvisoria anche nei confronti di imprese non risultate
aggiudicatarie, ma solo concorrenti, in caso di riscontrata
assenza del possesso dei requisiti di carattere generale di
cui all'art. 38, del d.lgs. n. 163 del 2006.
---------------
Nel caso che occupa il patto di integrità allegato al
contratto e sottoscritto dalla concorrente prevedeva
espressamente che, in caso di mancato rispetto degli impegni
assunti, avrebbe potuto essere applicata, tra l’altro, la
sanzione della escussione della cauzione di validità
dell’offerta, sicché, in linea con la ormai prevalente
giurisprudenza, la segnalazione all'Autorità è stata
legittimamente effettuata a seguito di accertamento negativo
sul possesso dei requisiti di ordine generale.
Detta soluzione trova conferma nel nuovo regolamento di
esecuzione del Codice dei contratti pubblici, che,
nell'indicare i dati da iscrivere nel casellario
informatico, sia per le imprese qualificate con il sistema
S.O.A., sia per le altre imprese, menziona i provvedimenti
di esclusione dalle gare.
---------------
A prescindere dalla circostanza che l'annullamento
dell'aggiudicazione si sensi dell'art. 75 del d.P.R. n. 445
del 2000 non lascia alcun margine di discrezionalità alle
Amministrazioni che riscontrano la non veridicità delle
dichiarazioni e prescinde, per la sua applicazione, dalla
condizione soggettiva del dichiarante, attestandosi sul dato
oggettivo della non veridicità delle dichiarazioni
effettuate in sede di gara, il patto di integrità allegato
al bando di gara e sottoscritto dai concorrenti prevedeva
che, in caso di mancato rispetto degli impegni assunti,
avrebbero potuto essere applicate le ulteriori sanzioni:
- della risoluzione o perdita del contratto,
- della escussione della cauzione di validità dell’offerta,
- della escussione della cauzione di buona esecuzione del
contratto,
- della responsabilità per danno nella misura dell’8% del
valore del contratto,
- della responsabilità per danno arrecato agli altri
concorrenti nella misura dell’1% del valore del contratto
per ogni partecipante e
- della esclusione del concorrente dalle gare indette dal
Comune per cinque anni.
E’ evidente che l’adozione della sola sanzione della
escussione della cauzione di validità dell’offerta ha
costituito esercizio del potere di apprezzamento e
graduazione da parte del Comune, che si è astenuto
dall’applicare le ulteriori sanzioni consentite.
----------------
Il Consiglio di Stato, con la sentenza della Adunanza
Plenaria n. 8 del 2012, ha asserito che in tema di garanzie
partecipative relative al procedimento di iscrizione nel
casellario informatico presso l'Autorità di vigilanza,
dell'avvio del procedimento di iscrizione deve essere data
notizia all'interessato; ciò anche quando la trasmissione di
atti al casellario, da parte delle stazioni appaltanti, è
dovuta in adempimento di disposizioni di legge, attese le
conseguenze rilevanti che derivano da tale iscrizione e
l'indubbio interesse del soggetto all'esattezza delle
iscrizioni.
In relazione ad una gara per l'affidamento di un appalto di
lavori pubblici, la decisione di escutere la garanzia
provvisoria e di effettuare la segnalazione all'Autorità di
Vigilanza non costituisce l'esito di un procedimento
ulteriore e diverso rispetto a quello della gara, sicché non
sussiste l'obbligo di comunicare l'avvio del procedimento
amministrativo.
Diversamente opinando, il ricorso proposto avverso la
segnalazione, da parte della stazione appaltante,
all'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici della
condotta tenuta da una impresa partecipante a gara pubblica
e da essa esclusa, ai fini dell'eventuale iscrizione nel
Casellario informatico dei contratti pubblici, deve
ritenersi che sia comunque sia inammissibile, per difetto
d'interesse, trattandosi di mero atto di avvio del
procedimento privo, come tale, di carattere lesivo.
Aggiungasi che, quando la legge prescrive in via automatica
la segnalazione di determinati dati, senza alcuna
possibilità di valutazione discrezionale in ordine al se
della comunicazione e al contenuto della stessa, si possono,
come regola generale, individuare equipollenti dell'avviso
di avvio del procedimento di iscrizione.
---------------
10.- Nel merito l’appello è fondato.
11.- Va preliminarmente osservato che con la sentenza
impugnata, dopo che è stata respinta l’eccezione di
inammissibilità del ricorso e respinti i motivi volti
all’annullamento della disposta esclusione dalla gara de
qua della Le.Co. s.r.l., sono state ritenute fondate le
censure volte all’annullamento delle preannunciate
escussione della cauzione provvisoria e segnalazione
all’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici del
provvedimento di esclusione.
11.1.- Quanto alla preannunciata escussione, il TAR ha
ritenuto di andare di contrario avviso rispetto
all’orientamento giurisprudenziale seguito dalla stazione
appaltante (secondo il quale l’escussione è conseguenza
automatica dell’inadempimento trovando fondamento nella
violazione del patto di integrità), assumendo che la s.a.
aveva rilevato un comportamento improntato a buona fede
della società e che ciò potesse fungere da esimente ai fini
dell’applicazione dei provvedimenti in questione in quanto
l’interpretazione dell’art. 10, comma 1-quater, della l. n.
109 del 1994, applicabile ratione temporis, deve
essere effettuata secondo un criterio logico ed in relazione
alla circostanza che non debba trattarsi di una violazione
lieve.
La s.a. non avrebbe nel caso di specie esercitato la
discrezionalità nell’apprezzamento e graduazione dei
provvedimenti conseguenti all’esclusione dalla gara, che il
patto di integrità prevedeva, nell’applicare le conseguenti
sanzioni ed avrebbe invece aderito acriticamente alla
valutazione del presidente della commissione di gara senza
esame complessivo delle circostanze emerse.
11.1.1.- Ritiene il collegio fondate le censure mosse a
detti assunti dall’appellante Comune, che, con i primi
quattro motivi d’appello, ha sostanzialmente dedotto che la
giustificazione fornita dalla Le.Co. s.r.l. in merito alla
mancata conoscenza del passaggio in giudicato della sentenza
della Corte d’Appello di Palermo, di condanna del signor
Le.Ga. per il reato di violazione delle norme sugli
infortuni e di lesioni colpose gravi, era stata accolta
dalla stazione appaltante al solo fine di escludere
l’esistenza di una falsa dichiarazione, senza che tale stato
fosse idoneo a produrre ulteriori effetti giuridici,
fondandosi su presupposti diversi i provvedimenti di
segnalazione e di escussione di cui trattasi, che
troverebbero fondamento nell’art. 75, comma 6, del d.lgs. n.
163 del 2006 (che non fa menzione dell’elemento della colpa
e che non può essere interpretata in senso restrittivo) e
non nell’art. 48, di natura speciale, del d.lgs. n. 163 del
2006, nonché nella lex specialis, a nulla valendo la
gravità o meno del reato commesso.
Condivisibili sono infatti le censure circa la
applicabilità, sostenuta dal TAR, alla fattispecie, non
dell’art. 10, comma 1-quater, della l. n. 109 del 1994, ma
del d.lgs. n. 163 del 2006; ciò considerato che l’art. 253,
primo comma, del d.lgs. stesso ne prevede l’applicabilità ai
bandi di gara pubblicati prima della sua entrata in vigore,
avvenuta il 02.05.2006, ed il bando della gara di cui
trattasi risulta pubblicato successivamente, in data
26.07.2006.
L'art. 48, del d.lgs. n. 163 del 2006, che prevede la
sanzione dell'escussione della cauzione provvisoria e della
segnalazione all'Autorità di Vigilanza come conseguenza
dell'esclusione dalla gara, si riferisce testualmente alla
mancanza dei soli requisiti di capacità
economico-finanziaria e tecnico-organizzativa, e la
disposizione, in considerazione della sua funzione
sanzionatoria, deve ritenersi che abbia carattere tassativo;
pertanto, la stessa non può essere estesa ad ipotesi diverse
(Consiglio di Stato, sez. V, 11.01.2012, n. 80).
Tuttavia va rilevato che la possibilità di segnalare
all'Autorità di vigilanza tutte le false dichiarazioni rese
in sede di gara, ivi comprese quelle relative ai requisiti
di carattere generale, anche con riferimento alla disponendo
escussione, discende, non da detto art. 48, ma direttamente
dall'art. 75, comma 6, del d.lgs. n. 163 del 2006, il quale
dispone che la cauzione sia posta a garanzia della
sottoscrizione del contratto da parte dell'aggiudicatario e
ne prevede lo svincolo solo al momento dell'avvenuta
sottoscrizione, con ciò implicitamente statuendo
l'escussione in caso di mancata sottoscrizione per fatto
dell'aggiudicatario, perché riguarda tutte le ipotesi di
mancata sottoscrizione del contratto per fatto
dell'affidatario, intendendosi per fatto dell'affidatario
qualunque ostacolo alla stipulazione a lui riconducibile,
dunque non solo il rifiuto di stipulare o il difetto di
requisiti speciali, ma anche il difetto di requisiti
generali di cui all'art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006.
L'incameramento della cauzione provvisoria può quindi essere
disposto anche a fronte di dichiarazioni non veritiere rese
a norma dell'art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006, dovendosi
privilegiare l'altra funzione della cauzione, intesa come
garanzia del rispetto dell'ampio patto d'integrità cui si
vincola chi partecipa a gare pubbliche.
Con sentenza n. 2232 del 18.04.2012, di questa Sezione, sono
stati affermati i seguenti, condivisibili, principi:
a) l'escussione della cauzione provvisoria non presuppone in
via esclusiva il fatto dell'aggiudicatario ovvero la falsità
delle dichiarazioni concernenti i soli requisiti generali o
speciali di partecipazione alla procedura;
b) essa, al contrario, trova spazio applicativo anche quando
il concorrente, pur se non aggiudicatario, dichiari il falso
in occasione della rappresentazione di elementi costitutivi
dell'offerta;
c) è legittima la previsione del bando di gara che ammette
l'escussione della garanzia per qualsivoglia ipotesi di
falsità nelle dichiarazioni -ovvero anche nei confronti
della concorrente non aggiudicataria– e anche in caso di
mancato adempimento di ogni altro obbligo derivante dalla
partecipazione alla gara;
d) La cauzione provvisoria costituisce parte integrante
dell'offerta e non mero elemento di corredo della stessa; la
finalità della cauzione è quella di responsabilizzare i
partecipanti in ordine alle dichiarazioni rese, di garantire
la serietà e l'affidabilità dell'offerta, nonché di
escludere da subito i soggetti privi delle richieste qualità
volute dal bando;
e) l'escussione costituisce conseguenza della violazione
dell'obbligo di diligenza gravante sull'offerente.
In senso diverso rispetto alla tesi più restrittiva, si era
già espressa la Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con
sentenza n. 8 del 04.05.2012, affermando, sia pure in un
contesto più ampio, dedicato in modo centrale alla questione
della gravità delle irregolarità contributive, che la
possibilità di incamerare la cauzione provvisoria (che
discende direttamente dall'art. 75 codice contratti
pubblici) riguarda tutte le ipotesi di mancata
sottoscrizione del contratto per fatto dell'affidatario,
intendendosi per fatto dell'affidatario qualunque ostacolo
alla stipulazione a lui riconducibile; dunque non solo il
rifiuto di stipulare o il difetto di requisiti speciali, ma
anche il difetto di requisiti generali di cui all'art. 38
codice citato.
La affermazione della sentenza della Adunanza Plenaria n. 8
del 2012, nel senso sopra riportato, costituisce oramai un
dato acquisito della giurisprudenza di secondo grado
(Consiglio di Stato, Sezione V, 27.10.2014, n. 5283).
Al riguardo, con sentenza della Adunanza Plenaria
10.12.2014, n. 34 è stato anche affermato che -oltre ad una
lettura evolutiva dell'art. 75 nel senso sopra riportato di
far riferimento anche ai concorrenti e non solo
all'aggiudicatario e non solo ai requisiti speciali di cui
all'art. 48 ma anche ai requisiti generali di cui all'art.
38 del d.lgs. n. 163 del 2006- porta e concludere nel senso
sopra sostenuto anche la previsione contenuta nell'art. 49
del medesimo d.lgs., che, sia pure nell'ambito della
disciplina dell'avvalimento, ma con valenza sistematica (ai
sensi degli articoli 1362 e seguenti codice civile) dal
punto di vista interpretativo, al comma 3, prevede che "nel
caso di dichiarazioni mendaci, ferma restando l'applicazione
dell'articolo 38, lettera h, nei confronti dei
sottoscrittori, la stazione appaltante esclude il
concorrente (non già il solo aggiudicatario) e escute la
garanzia".
Aggiungasi che con detta sentenza della Adunanza Plenaria n.
34 del 2014 è stata ritenuta legittima pure la clausola,
contenuta in atti di indizione di procedure di affidamento
di appalti pubblici, che preveda l'escussione della cauzione
provvisoria anche nei confronti di imprese non risultate
aggiudicatarie, ma solo concorrenti, in caso di riscontrata
assenza del possesso dei requisiti di carattere generale di
cui all'art. 38, del d.lgs. n. 163 del 2006 (Consiglio di
Stato, sez. IV, 04.08.2015, n. 3856).
Tanto premesso, va rilevato che nel caso che occupa il patto
di integrità allegato al contratto e sottoscritto dalla
concorrente prevedeva espressamente che, in caso di mancato
rispetto degli impegni assunti, avrebbe potuto essere
applicata, tra l’altro, la sanzione della escussione della
cauzione di validità dell’offerta, sicché, in linea con la
ormai prevalente giurisprudenza, la segnalazione
all'Autorità è stata legittimamente effettuata a seguito di
accertamento negativo sul possesso dei requisiti di ordine
generale (Consiglio di Stato, sez. IV, 07.09.2004, n. 5792;
sez. VI, 04.08.2009, n. 4905; sez. V, 12.02.2007, n. 554;
A.P. 04.05.2012, n. 8; sez. IV 22.12.2014 n. 6302; sez. IV,
12.03.2015 n. 1321); detta soluzione trova conferma nel
nuovo regolamento di esecuzione del Codice dei contratti
pubblici, che, nell'indicare i dati da iscrivere nel
casellario informatico, sia per le imprese qualificate con
il sistema S.O.A., sia per le altre imprese, menziona i
provvedimenti di esclusione dalle gare (Consiglio di Stato,
sez. VI, 04.12.2012, n. 6210).
11.1.2.- Quanto al mancato esercizio, dedotto dal TAR, della
discrezionalità di apprezzamento e graduazione dei
provvedimenti conseguenti al mancato rispetto degli impegni
assunti dai concorrenti con la partecipazione alla procedura
di gara, che il patto di integrità le aveva attribuito, ed
alla criticità della adesione da parte del Direttore del
settore comunale competente alla valutazione del presidente
della commissione, la Sezione ritiene fondati i rilievi,
formulati con il quinto motivo d’appello, circa l’avvenuto
esercizio da parte della stazione appaltante del potere
attribuitole dalla lex specialis, di apprezzamento e
graduazione dei provvedimenti conseguenti all’annullamento
dell’aggiudicazione ed all’esclusione, concretatosi nella
adozione del provvedimento di escussione, senza adozione
delle ulteriori determinazioni, pure autorizzate dalla
lex specialis, come la esclusione dalle gare per cinque
anni e la richiesta di risarcimento del danno nella misura
dell’1% del contratto.
Pure condivisibile deve ritenersi l’assunto del Comune circa
l’infondatezza della tesi che il Direttore del settore gare
e contratti del Comune avesse acriticamente aderito alla
valutazione del Presidente della commissione, in quanto, a
prescindere dalla circostanza che i due soggetti giuridici
corrispondessero alla stessa persona, la motivazione del
provvedimento di escussione della garanzia era
dettagliatamente enunciata nel verbale di gara del
30.11.2007, con richiamo all’allegata istruttoria, in cui
erano più puntualmente esplicitate le ragioni
dell’esclusione e dell’escussione (adottata in ragione
dell’esame complessivo delle circostanze emerse in sede di
gara e non solo in considerazione della sentenza del
Consiglio di Stato, Sezione V, 08.02.2005, n. 341).
In proposito va in primo luogo rilevato che (a prescindere
dalla circostanza che l'annullamento dell'aggiudicazione si
sensi dell'art. 75 del d.P.R. n. 445 del 2000 non lascia
alcun margine di discrezionalità alle Amministrazioni che
riscontrano la non veridicità delle dichiarazioni e
prescinde, per la sua applicazione, dalla condizione
soggettiva del dichiarante, attestandosi sul dato oggettivo
della non veridicità delle dichiarazioni effettuate in sede
di gara) il patto di integrità allegato al bando di gara e
sottoscritto dai concorrenti prevedeva che, in caso di
mancato rispetto degli impegni assunti, avrebbero potuto
essere applicate le ulteriori sanzioni della risoluzione o
perdita del contratto, della escussione della cauzione di
validità dell’offerta, della escussione della cauzione di
buona esecuzione del contratto, della responsabilità per
danno nella misura dell’8% del valore del contratto, della
responsabilità per danno arrecato agli altri concorrenti
nella misura dell’1% del valore del contratto per ogni
partecipante e della esclusione del concorrente dalle gare
indette dal Comune di Milano per cinque anni.
E’ evidente che l’adozione della sola sanzione della
escussione della cauzione di validità dell’offerta ha
costituito esercizio del potere di apprezzamento e
graduazione da parte del Comune, che si è astenuto
dall’applicare le ulteriori sanzioni consentite.
In secondo luogo va rilevato che è incondivisibile la tesi
sostenuta in sentenza che il Direttore del Settore gare e
contratti del Comune avesse disposto detta escussione in
acritica adesione alla valutazione espressa dal Presidente
della commissione di gara nella seduta del 30.11.2007, senza
esame complessivo delle circostanze.
L’impugnato atto del 04.12.2007 del Direttore suddetto,
versato in copia in atti, è una mera comunicazione
dell’avvenuto annullamento dell’aggiudicazione provvisoria
dell’appalto e della contestuale esclusione della gara per i
motivi indicati nell’allegato verbale della seduta del 30
novembre 2007, con preavviso che il provvedimento relativo
sarebbe stato comunicato all’Autorità di Vigilanza.
Detto Direttore non ha quindi autonomamente disposto alcuna
escussione.
Quanto alla applicazione dell’ulteriore sanzione della
escussione della cauzione provvisoria di cui ha dato atto il
presidente della Commissione di gara nel corso di detta
seduta, non può affermarsi che sia stata disposta senza
esame complessivo delle circostanze, atteso che nel verbale
è stato dato atto in precedenza di tutte le circostanze e
delle ragioni per le quali l’avvenuta aggiudicazione era
stata annullata ed era stata esclusa la società di cui
trattasi.
Quanto al richiamo contenuto in detto verbale alla sentenza
di questa Sezione n. 341 del 2005, va rilevato che esso è
pertinente, perché con la sentenza stessa è stata affermata
“l'infondatezza dell'assunto dell'appellante che nel caso
non sarebbe stato applicabile l'art. 10, comma 1-quater,
della L. 11.02.1994, n. 109” e che non poteva giovare
all'appellante l'invocata distinzione tra requisiti di
ordine speciale e requisiti di ordine generale in quanto “L'art,
10, comma 1-quater, della L. 11.02.1994, n. 109, prescrive,
infatti, l'escussione della cauzione e l'applicazione delle
misure sanzionatorie nel caso di mancata comprovazione dei
requisiti di capacità economico-finanziaria e
tecnico-organizzativa eventualmente richiesti nel bando di
gara senza distinguere tra requisiti di ordine speciale e
requisiti di ordine generale”.
Inoltre, come affermato dal Comune con memoria depositata il
04.06.2015, non contestata sul punto, al verbale era
allegata l’istruttoria procedimentale per l’annullamento
dell’aggiudicazione, in cui è citata la sentenza della
Sezione quarta di questo Consiglio, che afferma la
consequenzialità diretta ed automatica dell’escussione della
cauzione all’inadempimento della partecipante, quale atto
dovuto.
Le predette considerazioni dimostrano la fondatezza anche
delle esaminate censure d’appello.
11.2.- Quanto alla mancata comunicazione dell’avvio del
procedimento, che il TAR ha ritenuto viziasse la
preannunciata segnalazione del provvedimento di esclusione,
pure fondata appare al collegio la censura, formulata con il
quinto motivo d’appello, che le garanzie partecipative sono
dovute all’interessato in relazione al procedimento di
iscrizione dei dati nel casellario informatico presso
l’Autorità di vigilanza e non in relazione alla segnalazione
all’Autorità stessa.
Il Consiglio di Stato, con la citata sentenza della Adunanza
Plenaria n. 8 del 2012, ha asserito che in tema di garanzie
partecipative relative al procedimento di iscrizione nel
casellario informatico presso l'Autorità di vigilanza,
dell'avvio del procedimento di iscrizione deve essere data
notizia all'interessato; ciò anche quando la trasmissione di
atti al casellario, da parte delle stazioni appaltanti, è
dovuta in adempimento di disposizioni di legge, attese le
conseguenze rilevanti che derivano da tale iscrizione e
l'indubbio interesse del soggetto all'esattezza delle
iscrizioni.
In relazione ad una gara per l'affidamento di un appalto di
lavori pubblici, la decisione di escutere la garanzia
provvisoria e di effettuare la segnalazione all'Autorità di
Vigilanza non costituisce l'esito di un procedimento
ulteriore e diverso rispetto a quello della gara, sicché non
sussiste l'obbligo di comunicare l'avvio del procedimento
amministrativo.
Diversamente opinando, il ricorso proposto avverso la
segnalazione, da parte della stazione appaltante,
all'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici della
condotta tenuta da una impresa partecipante a gara pubblica
e da essa esclusa, ai fini dell'eventuale iscrizione nel
Casellario informatico dei contratti pubblici, deve
ritenersi che sia comunque sia inammissibile, per difetto
d'interesse, trattandosi di mero atto di avvio del
procedimento privo, come tale, di carattere lesivo.
Aggiungasi che, quando la legge prescrive in via automatica
la segnalazione di determinati dati, senza alcuna
possibilità di valutazione discrezionale in ordine al se
della comunicazione e al contenuto della stessa, si possono,
come regola generale, individuare equipollenti dell'avviso
di avvio del procedimento di iscrizione (Consiglio di Stato,
sez. VI, 04.12.2012, n. 6210).
Pertanto nel caso di specie, in cui è stato dedotto dal
Comune appellante che con lettera del 04.12.2007 era stata
comunicata l’adozione dei provvedimenti di esclusione e di
annullamento dell’aggiudicazione, unitamente all’avvertenza
che sarebbero stati segnalati all’Autorità di vigilanza,
deve ritenersi che la s.a. abbia offerto adeguata garanzia
partecipativa alla società di cui trattasi con riguardo alla
effettuazione di detta segnalazione.
12.- L’appello deve essere conclusivamente accolto e, per
l’effetto, in riforma della sentenza di primo grado, va
respinto il ricorso originario proposto dinanzi al TAR per
la parte favorevole al ricorrente. Restano assorbite le
ulteriori censure formulate con l’atto d’appello
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 25.02.2016 n. 775 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
La giurisprudenza ha quasi costantemente
affermato che gli interventi di riparazione, di messa in
sicurezza, di bonifica e di ripristino gravano
esclusivamente sul responsabile della contaminazione, cioè
sul soggetto al quale sia imputabile, almeno sotto il
profilo oggettivo, l'inquinamento (art. 244, comma 2, d.lgs.
n. 152 del 2006); se il responsabile non sia individuabile o
non provveda (e non provveda spontaneamente il proprietario
del sito o altro soggetto interessato), gli interventi che
risultassero necessari sono adottati dall'Amministrazione
competente (art. 244, comma 4, d.lgs. cit.); le spese
sostenute per effettuare tali interventi possono essere
recuperate, sulla base di un motivato provvedimento (che
giustifichi tra l'altro l'impossibilità di accertare
l'identità del soggetto responsabile ovvero che giustifichi
l'impossibilità di esercitare azioni di rivalsa nei
confronti del medesimo soggetto ovvero la loro
infruttuosità), agendo in rivalsa verso il proprietario.
Per completezza va aggiunto che gli art. 244, 245 e 253
d.lgs. n. 152 del 2006 vanno interpretati nel senso che, in
caso di accertata contaminazione di un sito e
d’impossibilità di individuarne il soggetto responsabile o
di impossibilità di ottenere da quest'ultimo interventi di
riparazione, il Ministero dell'ambiente non può imporre al
proprietario non responsabile, che ha solo una
responsabilità patrimoniale limitata al valore del sito dopo
l'esecuzione degli interventi di bonifica, l'esecuzione
delle misure di sicurezza d'emergenza e di bonifica.
---------------
E' il responsabile dell'inquinamento il soggetto sul quale
gravano, ai sensi dell'art. 242 d.lgs. n. 152 del 2006, gli
obblighi di messa in sicurezza, bonifica e ripristino
ambientale a seguito della constatazione di uno stato di
contaminazione, mentre il proprietario non responsabile è
gravato solo di una specifica obbligazione di "facere" che
riguarda, però, soltanto l'adozione delle misure di
prevenzione.
Per completezza va aggiunto che in tema di bonifica e
ripristino ambientale di un terreno inquinato ai sensi
dell'art. 242, comma 2 e seguenti, del d.lgs. n. 152 del
2006, nel caso di affitto del bene a terzi anche il
proprietario resta responsabile allorché sia a conoscenza
della pericolosità dell'attività svolta e dello stato
d’inquinamento del sito, essendo ciò sufficiente a far
sorgere un obbligo di attivarsi al fine di eliminare, nel
più breve tempo possibile ed anche in assenza di intervento
dell'autore dell'inquinamento, lo stato di contaminazione.
La rimozione dei rifiuti viene ordinata nell’atto gravato
solo in via eventuale quando a seguito dell’indagine risulti
che è stata proprio la presenza dei rifiuti a causare la
contaminazione.
---------------
... per l'annullamento:
- dell'ordinanza prot. n. 20428/15 dd 3.7.2015, notificata
in data 07.07.2015 con cui è stato intimato al ricorrente,
quale legale rappresentante del Consorzio per lo sviluppo
industriale del Comune di Montalcone, in sede di
accertamento del superamento dei limiti delle CSC
(Concentrazioni Soglia di Contaminazione) Idrocarburi, di
attivarsi secondo quanto stabilito dall'art. 242 del D.lgs.
152/2006 ovvero, qualora ne ricorrano i presupposti ai sensi
dell'art. 249 del decreto medesimo;
- di presentare inoltre nel termine di giorni 30 dalla data
di notifica dell'ordinanza il piano di caratterizzazione a
Provincia, Regione, Comune, ARPA F.V.G. - Dipartimento di
Gorizia ed A.s.s. n. 2 "Bassa Friulana Isontina",
...
1. Viene in esame il ricorso del Consorzio per lo sviluppo
industriale del Comune di Monfalcone avverso il
provvedimento della Provincia di Gorizia del 03.07.2015
con cui si ordina al consorzio, quale corresponsabile della
potenziale contaminazione in un’area in cui è stato
accertato il superamento del parametro per quanto riguarda
gli idrocarburi, di attivarsi ai sensi dell’articolo 242 del
decreto legislativo 152 del 2006 e di presentare un piano di
caratterizzazione; si ordina altresì di rimuovere i rifiuti
qualora per la loro natura possano aver causato la
contaminazione del suolo.
2. Conviene prendere le mosse dall’atto impugnato, il quale
si rivolge alla lettera a) al Consorzio terme romane e alla
lettera b) al Consorzio per lo sviluppo industriale odierno
ricorrente, considerandolo “corresponsabile della potenziale
contaminazione limitatamente alla porzione di area in cui si
è accertata la presenza di un deposito di materiali/rifiuti
sul suolo nel corso del sopralluogo del mese di marzo 2014”.
Segue l’ordine di attivarsi ex art. 242 del d.lgs. 152 del
2006 ovvero qualora ne ricorrano i presupposti ex art. 249 e
nel termine di 30 giorni di presentare un piano di
caratterizzazione. Si aggiunge infine che le indagini
dovranno essere eseguite anche “a seguito della rimozione
dei rifiuti, qualora la natura degli stessi possa aver
causato la contaminazione del suolo”.
3. Va innanzi tutto riprodotto l’art. 242 citato nelle parti
che interessano:
"Art. 242
1. Al verificarsi di un evento che sia potenzialmente in
grado di contaminare il sito, il responsabile
dell'inquinamento mette in opera entro ventiquattro ore le
misure necessarie di prevenzione e ne dà immediata
comunicazione ai sensi e con le modalità di cui all'articolo
304, comma 2. La medesima procedura si applica all'atto di
individuazione di contaminazioni storiche che possano ancora
comportare rischi di aggravamento della situazione di
contaminazione.
2. Il responsabile dell'inquinamento, attuate le necessarie
misure di prevenzione, svolge, nelle zone interessate dalla
contaminazione, un'indagine preliminare sui parametri
oggetto dell'inquinamento e, ove accerti che il livello
delle concentrazioni soglia di contaminazione (CSC) non sia
stato superato, provvede al ripristino della zona
contaminata, dandone notizia, con apposita
autocertificazione, al comune ed alla provincia competenti
per territorio entro quarantotto ore dalla comunicazione.
L'autocertificazione conclude il procedimento di notifica di
cui al presente articolo, ferme restando le attività di
verifica e di controllo da parte dell'autorità competente da
effettuarsi nei successivi quindici giorni. Nel caso in cui
l'inquinamento non sia riconducibile ad un singolo evento, i
parametri da valutare devono essere individuati, caso per
caso, sulla base della storia del sito e delle attività ivi
svolte nel tempo.
OMISSIS
8. I criteri per la selezione e l'esecuzione degli
interventi di bonifica e ripristino ambientale, di messa in
sicurezza operativa o permanente, nonché per
l'individuazione delle migliori tecniche di intervento a
costi sostenibili (B.A.T.N.E.E.C. - Best Available
Technology Not Entailing Excessive Costs) ai sensi delle
normative comunitarie sono riportati nell'Allegato 3 alla
parte quarta del presente decreto,
9. La messa in sicurezza operativa, riguardante i siti
contaminati [con attività in esercizio], garantisce una
adeguata sicurezza sanitaria ed ambientale ed impedisce
un'ulteriore propagazione dei contaminanti. I progetti di
messa in sicurezza operativa sono accompagnati da accurati
piani di monitoraggio dell'efficacia delle misure adottate
ed indicano se all'atto della cessazione dell'attività si
renderà necessario un intervento di bonifica o un intervento
di messa in sicurezza permanente. Possono essere altresì
autorizzati interventi di manutenzione ordinaria e
straordinaria e di messa in sicurezza degli impianti e delle
reti tecnologiche, purché non compromettano la possibilità
di effettuare o completare gli interventi di bonifica che
siano condotti adottando appropriate misure di prevenzione
dei rischi.
10. Nel caso di caratterizzazione, bonifica, messa in
sicurezza e ripristino ambientale di siti con attività in
esercizio, la regione, fatto salvo l'obbligo di garantire la
tutela della salute pubblica e dell'ambiente, in sede di
approvazione del progetto assicura che i suddetti interventi
siano articolati in modo tale da risultare compatibili con
la prosecuzione della attività.
11. Nel caso di eventi avvenuti anteriormente all'entrata in
vigore della parte quarta del presente decreto che si
manifestino successivamente a tale data in assenza di
rischio immediato per l'ambiente e per la salute pubblica,
il soggetto interessato comunica alla regione, alla
provincia e al comune competenti l'esistenza di una
potenziale contaminazione unitamente al piano di
caratterizzazione del sito, al fine di determinarne l'entità
e l'estensione con riferimento ai parametri indicati nelle
CSC ed applica le procedure di cui ai commi 4 e seguenti.
12. Le indagini ed attività istruttorie sono svolte dalla
provincia, che si avvale della competenza tecnica
dell'Agenzia regionale per la protezione dell'ambiente e si
coordina con le altre amministrazioni.
13. La procedura di approvazione della caratterizzazione e
del progetto di bonifica si svolge in Conferenza di servizi
convocata dalla regione e costituita dalle amministrazioni
ordinariamente competenti a rilasciare i permessi,
autorizzazioni e concessioni per la realizzazione degli
interventi compresi nel piano e nel progetto. La relativa
documentazione è inviata ai componenti della conferenza di
servizi almeno venti giorni prima della data fissata per la
discussione e, in caso di decisione a maggioranza, la
delibera di adozione deve fornire una adeguata ed analitica
motivazione rispetto alle opinioni dissenzienti espresse nel
corso della conferenza. Compete alla provincia rilasciare la
certificazione di avvenuta bonifica. Qualora la provincia
non provveda a rilasciare tale certificazione entro trenta
giorni dal ricevimento della delibera di adozione, al
rilascio provvede la regione.
OMISSIS"
4. Va osservato che il riprodotto articolo di legge fa
riferimento, al comma 12, alla necessità per la provincia di
coordinarsi con le altre pubbliche amministrazioni, tra cui
nel caso anche il Consorzio industriale proprietario
dell’area.
La giurisprudenza ha quasi costantemente affermato che gli
interventi di riparazione, di messa in sicurezza, di
bonifica e di ripristino gravano esclusivamente sul
responsabile della contaminazione, cioè sul soggetto al
quale sia imputabile, almeno sotto il profilo oggettivo,
l'inquinamento (art. 244, comma 2, d.lgs. n. 152 del 2006);
se il responsabile non sia individuabile o non provveda (e
non provveda spontaneamente il proprietario del sito o altro
soggetto interessato), gli interventi che risultassero
necessari sono adottati dall'Amministrazione competente
(art. 244, comma 4, d.lgs. cit.); le spese sostenute per
effettuare tali interventi possono essere recuperate, sulla
base di un motivato provvedimento (che giustifichi tra
l'altro l'impossibilità di accertare l'identità del soggetto
responsabile ovvero che giustifichi l'impossibilità di
esercitare azioni di rivalsa nei confronti del medesimo
soggetto ovvero la loro infruttuosità), agendo in rivalsa
verso il proprietario (TAR L'Aquila, (Abruzzo), sez. I,
03/07/2014, n. 577; TAR Friuli-Venezia Giulia, sez. I,
05/05/2014, n. 183).
5. Per completezza va aggiunto che gli art. 244, 245 e 253
d.lgs. n. 152 del 2006 vanno interpretati nel senso che, in
caso di accertata contaminazione di un sito e
d’impossibilità di individuarne il soggetto responsabile o
di impossibilità di ottenere da quest'ultimo interventi di
riparazione, il Ministero dell'ambiente non può imporre al
proprietario non responsabile, che ha solo una
responsabilità patrimoniale limitata al valore del sito dopo
l'esecuzione degli interventi di bonifica, l'esecuzione
delle misure di sicurezza d'emergenza e di bonifica
(Consiglio di Stato ad. plen., 25/09/2013, n. 21).
6. Ne discende che sulla questione, ad avviso di questo
Collegio, risulta decisiva la considerazione che la bonifica
di un sito potenzialmente inquinante è una fattispecie
diversa e distinta dal deposito di rifiuti,
indipendentemente dalla causa.
Nell’atto impugnato non si
parla affatto di responsabilità a titolo penale del
Consorzio ricorrente, ma semplicemente di responsabilità a
titolo di proprietario ancorché incolpevole; del resto si
ordina al consorzio di procedere al piano di
caratterizzazione, che costituisce un’indagine preliminare
allo stesso accertamento della tipologia di rifiuti e di
inquinamento.
7. Che l’inquinamento poi vi fosse non è lecito dubitare,
visto che i parametri per quanto riguarda gli idrocarburi
non risultano rispettati a seguito dell’ispezione avvenuta
nel 2014, con l’intervento dell’ARPA regionale.
8. In sostanza, l’ordinanza si basa su due elementi non
messi in discussione nel ricorso: il primo è che il
consorzio industriale è e resta proprietario dell’area in
questione, anche se non ne ha avuto in ogni momento la
disponibilità. Il secondo elemento è che nel corso di un
accertamento avvenuto ad opera di una struttura pubblica nel
2014 si è accertato il superamento di alcuni parametri di
legge per quanto riguarda gli idrocarburi.
L’ordine
impugnato in sostanza chiede solo un piano di
caratterizzazione ed eventuali interventi ex articolo 242
del decreto legislativo 152 del 2006, limitatamente all’area
in cui è stata accertata la presenza di un deposito di
materiali o rifiuti nel corso del sopralluogo del marzo 2014
e solo nella misura che compete al proprietario incolpevole.
9. Invero, è il responsabile dell'inquinamento il soggetto
sul quale gravano, ai sensi dell'art. 242 d.lgs. n. 152 del
2006, gli obblighi di messa in sicurezza, bonifica e
ripristino ambientale a seguito della constatazione di uno
stato di contaminazione, mentre il proprietario non
responsabile è gravato solo di una specifica obbligazione di
"facere" che riguarda, però, soltanto l'adozione delle
misure di prevenzione (TAR Milano, (Lombardia), sez. IV,
13/01/2014, n. 108).
10. Per completezza va aggiunto che in tema di bonifica e
ripristino ambientale di un terreno inquinato ai sensi
dell'art. 242, comma 2 e seguenti, del d.lgs. n. 152 del 2006,
nel caso di affitto del bene a terzi anche il proprietario
resta responsabile allorché sia a conoscenza della
pericolosità dell'attività svolta e dello stato
d’inquinamento del sito, essendo ciò sufficiente a far
sorgere un obbligo di attivarsi al fine di eliminare, nel
più breve tempo possibile ed anche in assenza di intervento
dell'autore dell'inquinamento, lo stato di contaminazione
(TAR Venezia, (Veneto), sez. III, 28/10/2014, n. 1346).
11. La rimozione dei rifiuti viene ordinata nell’atto
gravato solo in via eventuale quando a seguito dell’indagine
risulti che è stata proprio la presenza dei rifiuti a
causare la contaminazione.
12. Si tratta in sostanza per il Consorzio ricorrente di
attuare tutte e sole le misure di prevenzione previste
dall’articolo 242, quelle cioè poste a carico del
proprietario indipendentemente da una sua responsabilità.
13. Tutte le disquisizioni contenute sia nel ricorso sia
nelle memorie difensive relative alla mancanza di
comunicazione tra i due enti pubblici risultano irrilevanti
ai fini dell’esame della legittimità dell’atto impugnato.
Quest’ultimo, come ripetuto più volte, trova la sua
legittimità in due fatti obiettivi: l’accertamento di un
inquinamento superiore ai limiti di legge avvenuto nel 2014
e la circostanza che l’area in cui tale versamento è
avvenuto è di proprietà del consorzio ricorrente.
14. Ogni altro aspetto risulta importante per quanto
riguarda le conseguenze penali o di responsabilità, ma non
ai fini di valutare la legittimità dell’atto impugnato, che
risulta pertanto immune dai vizi sollevati.
15. Il ricorso va quindi rigettato: di conseguenza non si
può accogliere la domanda di risarcimento dei danni, tra
l’altro formulata in modo del tutto generico
(TAR Friuli Venezia Giulia,
sentenza 24.02.2016 n. 54 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Alcuni chiarimenti in relazione al MePA (Mercato Elettronico
della Pubblica Amministrazione).
Il Mercato Elettronico della Pubblica Amministrazione (MePA)
è un mercato digitale in cui l’amministrazione può
acquistare beni e servizi- per valori inferiori alla soglia
comunitaria- proposti dalle aziende fornitrici abilitate.
Il mercato elettronico presenta alcuni vantaggi rispetto
alle gare tradizionali, quali la semplicità e la celerità
delle procedure concorsuali, nonché la maggiore economicità
consentendo di ampliare la platea dei fornitori, e
riducendo, al contempo, i tempi e i costi della procedura
concorsuale.
---------------
Nella procedura MePA, con l’invio della propria offerta, il
fornitore accetta tutte le condizioni particolari di
contratto previste dal soggetto appaltatore, essendo
obbligato ad attestare la conformità del prodotto offerto
alle suddette condizioni mediante autocertificazione.
Avuto riguardo all’offerta presentata dalla ditta Mi.
risulta che essa aveva precisato il numero di codice del
proprio prodotto al fine di fornire i dati identificativi
dello stesso ed aveva presentato autocertificazione della
conformità dello stesso alle specifiche tecniche richieste.
Risultava quindi ultronea la presentazione della scheda
tecnica particolareggiata del prodotto, essendo sufficiente
l’autocertificazione della conformità del prodotto offerto
alle specifiche tecniche.
Come in precedenza illustrato, il mercato elettronico della
pubblica amministrazione è informato a obiettivi di
semplificazione e celerità in un’ottica di superamento di
tutti i profili formali che caratterizzano, viceversa, le
procedure concorsuali tradizionali.
Di conseguenza, legittimamente l’amministrazione non ha
escluso la società controinteressata per carenze
documentali, rinvenendosi comunque la possibilità di
verificare la conformità del prodotto alle specifiche
tecniche.
---------------
Il sistema MePA consente l’aggiudicazione definitiva in modo
diretto, omettendo il passaggio dell’aggiudicazione
provvisoria che non rappresenta, pertanto, una fase
obbligata; naturalmente il sistema non impedisce
all’amministrazione di effettuare le necessarie e dovute
verifiche della congruità dell’offerta, del possesso dei
requisiti dell’aggiudicataria e di quant’altro previsto dal
codice dei contratti.
---------------
Il ricorrente lamenta l’illegittimità per violazione di
legge ed eccesso di potere sotto vari profili del
comportamento della stazione appaltante che non ha
effettuato le necessarie verifiche tecniche sulla fornitura
del prodotto richiesto; censura inoltre il mancato
annullamento della procedura medesima nell’esercizio dei
poteri di autotutela, avuto riguardo ai poteri successivi
alla verifica della congruità del prezzo.
In realtà l’amministrazione non avrebbe potuto agire in
autotutela poiché il contratto era già stato stipulato con
conseguente preclusione per l’amministrazione dell’uso dello
strumento pubblicistico della revoca dell’aggiudicazione.
---------------
Il ricorso è infondato e deve, pertanto, essere respinto.
Occorre premettere che il Mercato Elettronico della Pubblica
Amministrazione (MePA) è un mercato digitale in cui
l’amministrazione può acquistare beni e servizi- per valori
inferiori alla soglia comunitaria- proposti dalle aziende
fornitrici abilitate.
Il mercato elettronico presenta alcuni vantaggi rispetto
alle gare tradizionali, quali la semplicità e la celerità
delle procedure concorsuali, nonché la maggiore economicità
consentendo di ampliare la platea dei fornitori, e
riducendo, al contempo, i tempi e i costi della procedura
concorsuale.
Nella procedura per cui è causa la stazione appaltante ha
effettuato una richiesta di offerta (RDO), che consiste
nella richiesta al fornitore di offerte personalizzate,
allegando i documenti contenenti le specifiche condizioni
richieste, nonché i criteri sulla base dei quali si
intendono valutare le offerte.
Pervenivano le offerte di due sole società, la società
ricorrente e la società controinteressata.
La prima presentava offerta al prezzo complessivo di euro
129.060,00 mentre la seconda presenta l’offerta al prezzo
complessivo di euro 98.820,00, aggiudicandosi la gara.
Al fine di verificare la congruità dell’offerta
l’amministrazione, esercitando la facoltà di cui
all’articolo 86, comma 3, del decreto legislativo n. 163 del
2006, richiedeva puntuali giustificazioni delle voci di
prezzo.
A seguito del puntuale riscontro delle richieste
dell’amministrazione da parte della società aggiudicatrice e
della presentazione della documentazione occorrente per
effettuare le verifiche di cui all’articolo 38 del codice
degli appalti, la stazione appaltante provvedeva
all’aggiudicazione definitiva.
Con il primo motivo di ricorso l’istante denuncia la
violazione e falsa applicazione del codice degli appalti,
della legge n. 241 del 1990, dell’articolo 97 della
Costituzione, nonché l’eccesso di potere sotto il profilo
della violazione dei principi di parità di trattamento, non
discriminazione, concorrenza tra gli operatori economici, e
dei principi di imparzialità, logicità, efficienza,
congruità, certezza dell’azione amministrativa e per
insufficienza e carenza della motivazione.
Secondo il ricorrente l’amministrazione avrebbe
illegittimamente aggiudicato nonostante la società
controinteressata avesse omesso di allegare alla propria
offerta la scheda tecnica dettagliata del prodotto, essendo
questo il documento fondamentale per la completezza
dell’offerta.
L’offerta sarebbe stata, quindi, carente degli elementi
essenziali e la società avrebbe dovuto, pertanto, essere
esclusa.
Con ulteriori motivi di ricorso l’istante denuncia la
violazione e la falsa applicazione di legge nonché l’eccesso
di potere sotto vari profili poiché la società
controinteressata, in quanto società solamente commerciale,
avrebbe falsamente dichiarato di non affidare alcune
attività oggetto della presente gara in subappalto.
Tale mendace dichiarazione avrebbe inoltre impedito
all’amministrazione di verificare la sussistenza dei
requisiti richiesti dall’articolo 38 del decreto legislativo
n. 163 del 2006 in capo al subappaltatore.
Infine il ricorrente lamenta la violazione di legge e
l’eccesso di potere poiché l’amministrazione avrebbe
proceduto direttamente all’aggiudicazione definitiva,
omettendo il passaggio procedimentale dell’aggiudicazione
provvisoria.
Infine si contesta la legittimità del rifiuto
dell’amministrazione di annullare in autotutela
l’aggiudicazione, come richiesto dalla società ricorrente.
Dagli atti di causa e dalle memorie difensive
dell’amministrazione intimata e della controinteressata
emerge la legittimità dell’operato dell’amministrazione
appaltante.
Nella procedura in questione, infatti, con l’invio della
propria offerta il fornitore accetta tutte le condizioni
particolari di contratto previste dal soggetto appaltatore,
essendo obbligato ad attestare la conformità del prodotto
offerto alle suddette condizioni mediante
autocertificazione.
Avuto riguardo all’offerta presentata dalla ditta Mi.
risulta che essa aveva precisato il numero di codice del
proprio prodotto al fine di fornire i dati identificativi
dello stesso ed aveva presentato autocertificazione della
conformità dello stesso alle specifiche tecniche richieste.
Risultava quindi ultronea la presentazione della scheda
tecnica particolareggiata del prodotto, essendo sufficiente
l’autocertificazione della conformità del prodotto offerto
alle specifiche tecniche.
Come in precedenza illustrato, il mercato elettronico della
pubblica amministrazione è informato a obiettivi di
semplificazione e celerità in un’ottica di superamento di
tutti i profili formali che caratterizzano, viceversa, le
procedure concorsuali tradizionali.
Di conseguenza, legittimamente l’amministrazione non ha
escluso la società controinteressata per carenze
documentali, rinvenendosi comunque la possibilità di
verificare la conformità del prodotto alle specifiche
tecniche.
Del pari infondate sono le censure relative alla asserita
falsità delle dichiarazioni rese dalla società
controinteressata in ordine all’affidamento delle forniture
in subappalto.
L’aggiudicatario, infatti, aveva attestato di avere quale
oggetto sociale “la produzione e commercio internazionale
sia all’ingrosso che al dettaglio di merci, prodotti ed
accessori destinati all’abbigliamento, arredamento,
casermaggio ed affini...”, dichiarando di poter fornire
il prodotto richiesto. Peraltro il sistema MePA non richiede
di indicare il nome del subappaltatore al momento della
partecipazione alla RDO e non è, comunque, rinvenibile il
divieto di acquisire prodotto da terzi; deve, quindi
escludersi che la controinteressata abbia reso dichiarazioni
mendaci che avrebbero dovuto determinare la sua esclusione.
Infine occorre evidenziare che il sistema MePA consente
l’aggiudicazione definitiva in modo diretto, omettendo il
passaggio dell’aggiudicazione provvisoria che non
rappresenta, pertanto, una fase obbligata; naturalmente il
sistema non impedisce all’amministrazione di effettuare le
necessarie e dovute verifiche della congruità dell’offerta,
del possesso dei requisiti dell’aggiudicataria e di
quant’altro previsto dal codice dei contratti.
L’amministrazione ha, infatti, proceduto alla verifica della
asserita anomalia dell’offerta, recependo le giustificazioni
fornite dalla ditta controinteressata e ritenendo, quindi,
il documento presentato completo e compatibile con il prezzo
dell’offerta.
Passando all’esame di motivi aggiunti, notificati in data
01.04.2014, il Collegio ne rileva parimente l’infondatezza.
Il ricorrente lamenta l’illegittimità per violazione di
legge ed eccesso di potere sotto vari profili del
comportamento della stazione appaltante che non ha
effettuato le necessarie verifiche tecniche sulla fornitura
del prodotto richiesto; censura inoltre il mancato
annullamento della procedura medesima nell’esercizio dei
poteri di autotutela, avuto riguardo ai poteri successivi
alla verifica della congruità del prezzo.
In realtà l’amministrazione non avrebbe potuto agire in
autotutela poiché il contratto era già stato stipulato con
conseguente preclusione per l’amministrazione dell’uso dello
strumento pubblicistico della revoca dell’aggiudicazione
(Adunanza Plenaria Consiglio di Stato, 20.06.2014 n. 14).
Quanto al primo profilo di censura, relativo alla mancata
effettuazione delle verifiche suggerite dall’Ufficio Tecnico
in sede di valutazione dell’anomalia dell’offerta, occorre
evidenziare che non vi era alcun obbligo per
l’amministrazione, dal momento che essa aveva effettuato i
dovuti controlli, riguardo alle caratteristiche della merce
fornita dall’aggiudicataria, in sede di collaudo
(TAR Lazio-Roma, Sez. I-ter,
sentenza 19.02.2016 n. 2199 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Secondo un costante insegnamento
giurisprudenziale, l'effettivo inizio dei lavori può
ritenersi sussistente quando le opere intraprese siano tali
da evidenziare l'effettiva volontà del titolare di
realizzare l'intervento assentito, tenuto conto della sua
consistenza e, dunque, alla stregua di una valutazione in
concreto.
E’ indubbiamente vero, come sostiene il Comune, sia nella
motivazione del provvedimento impugnato che nelle memorie
difensive, che a tal fine non è sufficiente il semplice
sbancamento del terreno e la predisposizione degli strumenti
e dei materiali di costruzione, in mancanza di altri indizi
idonei a comprovare il reale proposito di proseguire i
lavori sino alla loro ultimazione.
Tuttavia sempre la giurisprudenza amministrativa ha
precisato che configura un inizio lavori lo sbancamento
realizzato che si estenda su un’area di vaste dimensioni
come accade nel caso di specie, tenuto conto del volume di
terra movimentato, non contestato dal Comune, nonché
dell’entità dello scavo realizzato, come comprovato dalla
documentazione fotografica versata in atti.
Inoltre la giurisprudenza richiamata precisa che, in ogni
caso, ai fini di un tale accertamento, occorre valorizzare
ogni altro indizio idoneo a comprovare il reale proposito di
dare avvio e proseguire i lavori sino alla loro ultimazione.
---------------
La questione controversa verte in ordine alla idoneità o
meno, a configurare un inizio dei lavori, delle opere di
sbancamento e di avvio del cantiere pacificamente e
tempestivamente realizzate dalla ricorrente nel biennio
dalla sottoscrizione della convenzione.
Il Comune nega che vi sia stato un inizio concreto
dell’attività costruttiva mancando persino il deposito dei
calcoli sismici necessari a realizzare le fondamenta ed
escludendo che possano giovare a tale fine mere attività di
“sbancamento/decoticamento”, pacificamente poste in
essere dalla ricorrente.
Assume invece la ricorrente che l’entità della sbancamento
realizzato (pari a circa 6.033 metri cubi di terreno su una
superficie complessiva pari a 3.540 mq), unitamente ad
ulteriori attività di avvio del cantiere precisate in
premessa (realizzazione dei lavori di protezione delle
scarpate, della strada di accesso al piazzale, alla messa in
sicurezza delle pareti libere di scavo, oltre che alla
predisposizione dei calcoli delle gabbionate), debbano
ritenersi idonei a configurare un inizio dei lavori.
La questione è oggettivamente opinabile e deve essere
risolta attraverso una puntuale verifica in concreto circa
le attività materiali poste in essere.
Sul punto occorre innanzitutto rammentare che secondo un
costante insegnamento giurisprudenziale, l'effettivo inizio
dei lavori può ritenersi sussistente quando le opere
intraprese siano tali da evidenziare l'effettiva volontà del
titolare di realizzare l'intervento assentito, tenuto conto
della sua consistenza e, dunque, alla stregua di una
valutazione in concreto.
E’ indubbiamente vero, come sostiene il Comune di Agnone,
sia nella motivazione del provvedimento impugnato che nelle
memorie difensive che a tal fine non è sufficiente il
semplice sbancamento del terreno e la predisposizione degli
strumenti e dei materiali di costruzione, in mancanza di
altri indizi idonei a comprovare il reale proposito di
proseguire i lavori sino alla loro ultimazione (Cons. Stato,
IV, 27.04.2015 n. 2093; TAR Campania, Napoli, II, 09.07.2015
n. 3654; TAR Catania, II, 06.11.2015, n. 2585).
Tuttavia sempre la giurisprudenza amministrativa ha
precisato che configura un inizio lavori lo sbancamento
realizzato che si estenda su un’area di vaste dimensioni
(Cons. Stato, V 15.07.2013, n. 3823; Cons. Stato, 2013, n.
4855; TAR Venezia, II, n. 299/2015) come accade nel caso di
specie, tenuto conto del volume di terra movimentato, non
contestato dal Comune, nonché dell’entità dello scavo
realizzato, come comprovato dalla documentazione fotografica
versata in atti.
Inoltre la giurisprudenza richiamata precisa che, in ogni
caso, ai fini di un tale accertamento, occorre valorizzare
ogni altro indizio idoneo a comprovare il reale proposito di
dare avvio e proseguire i lavori sino alla loro ultimazione.
Il collegio ritiene di poter ravvisare tali indizi nelle
seguenti circostanze:
- la tempestiva predisposizione nel 2002 di una relazione
tecnica per fronteggiare le criticità geologiche emerse in
seguito alle opere di sbancamento realizzate dal
proprietario del lotto n. 2 posto a valle;
- le reiterate e documentate richieste rivolte dal
ricorrente al proprietario del lotto n. 2 per ottenere la
realizzazione del muro di contenimento tra i due lotti onde
evitare possibili eventi franosi del terreno posto a monte e
cioè del lotto n. 1;
- il coinvolgimento e l’interessamento dello stesso Comune
di Agnone nella vicenda;
- le reiterate richieste di proroga della concessione
edilizia n. 36/2001 ottenuta per la costruzione del
capannone industriale, sempre concesse dal Comune di Agnone;
- la richiesta di proroga del termine quinquennale di
efficacia della convenzione peraltro non riscontrata dal
Comune; da ultimo, la proposizione nel 2011 di un’azione
civile nei confronti del proprietario del lotto n. 2 per
dirimere la problematica.
Si tratta di circostanze dalle quali è certamente possibile
evincere la concreta e persistente volontà del ricorrente di
realizzare i lavori previsti in convenzione ed autorizzati
con concessione edilizia n. 36/2001.
Da quanto precede emerge dunque che v’è stato inizio dei
lavori nel termine biennale dalla sottoscrizione della
convenzione sicché, non ricorrendo la condizione di
operatività della clausola risolutiva espressa
specificamente azionata con il provvedimento impugnato
(mancato inizio dei lavori nel termine biennale) il ricorso
deve essere accolto.
Peraltro anche a voler accedere alla tesi del Comune di
Agnone per cui, in fatto, non vi sarebbe stato avvio dei
lavori, il ricorrente in giudizio ha comunque fornito ampia
prova circa la non imputabilità del ritardo, avendo
dimostrato mediante deposito di documentazione probante
(stralcio relazione geologo Salzano) oltre che di una
perizia di parte, la effettiva sussistenza di una
problematica di carattere geologico –peraltro ben nota al
Comune- tale da generare una situazione di effettivo e
concreto pericolo in caso di edificazione del capannone in
assenza della preventiva messa in sicurezza della zona di
confine tra i due lotti.
Accedendo a tale prospettazione il ricorrente avrebbe
comunque dimostrato la non imputabilità del ritardo nel
rispetto del termine biennale, ai sensi e per gli effetti
dell’art. 1218 c.c., in applicazione del canone generale
sull’onere della prova che in materia contrattuale onera il
debitore della prestazione della relativa dimostrazione di
incolpevolezza.
E’ indubbiamente vero che il lungo lasso di tempo trascorso
dalla assegnazione del lotto, ben tredici anni, imponeva
all’Amministrazione comunale ogni sollecitudine possibile
nella cura dell’interesse pubblico proprio per non
vanificare le finalità pubblicistiche del p.i.p., tuttavia
per le ragioni espresse, deve escludersi nel caso di specie
la sussistenza dei presupposti in fatto ed in diritto per
avvalersi della clausola risolutiva espressa in relazione
allo specifico profilo di inadempimento dedotto.
Resta naturalmente fermo il potere in capo
all’amministrazione di svolgere tutte le verifiche del caso
necessarie ad accertare e, se del caso, a contestare, un
inadempimento imputabile in relazione al mancato rispetto
del termine quinquennale di conclusione dei lavori, anche in
relazione alle possibili iniziative, concretamente
esigibili, che il ricorrente avrebbe potuto assumere per
evitare il protrarsi, per ben 13 anni, di una situazione di
incertezza certamente pregiudizievole per le finalità di
interesse pubblico comunque intrinseche alla causa della
convenzione di acquisto del lotto.
In conclusione il ricorso dev’essere accolto con conseguente
annullamento degli atti impugnati limitatamente alla
posizione della ditta ricorrente. Si ravvisano tuttavia
giustificate ragioni per disporre la compensazione delle
spese del giudizio tra tutte le parti, stante la
particolarità della vicenda in fatto (TAR Molise,
sentenza 29.01.2016 n. 42 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 07.03.2016 |
ã |
Con l'AGGIORNAMENTO
AL 28.08.2015, successivo a quello del
13.08.2015, abbiamo trattato nuovamente del seguente
argomento: "Abuso
edilizio, vincolo paesaggistico sopravvenuto e
richiesta di sanatoria (ordinaria, ex art. 36 oppure
37 DPR n. 380/2001): occorre, o meno, presentare
la richiesta di accertamento della compatibilità
paesaggistica ex art. 167 d.lgs. 42/2004??"
Ebbene, nell'attesa di avere lumi in alto loco siccome
rappresentato tempo fa, abbiamo trovato un 4°
pronunciamento del G.A. che conferma la necessità
della richiesta di accertamento della compatibilità
paesaggistica. Ecco il parere: |
EDILIZIA PRIVATA: Gli
atti repressivi di abusi edilizi commessi per di più in area
vincolata, attesa la loro natura di atto dovuto, si
configurano come “espressioni di attività vincolata non
condizionata a specifica motivazione che nella fattispecie è
in re ipsa”.
---------------
Contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, non può
non tenersi conto che l'intervento (abusivo) ricade in zona
tutelata, anche se realizzato prima dell'istituzione del
Parco.
Infatti, secondo il principio "tempus regit actum",
riguardante la successione delle leggi nel tempo, la
legittimità dell'atto amministrativo e/o di un intervento va
verificata con riferimento alla disciplina normativa vigente
rispettivamente al momento della sua emanazione e/o della
sua approvazione".
La corretta applicazione del principio tempus regit actum,
comporta, quindi, che legittimamente l'amministrazione abbia
tenuto conto delle modifiche normative intervenute sia
successivamente al momento della realizzazione delle opere,
sia durante l'iter procedimentale successivo all'istanza,
non potendo, al contrario, considerare l'assetto
'cristallizzato' alla data cui risale l'intervento o a
quello dell'atto che ha dato avvio all'iter procedimentale.
---------------
Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica
proposto dal sig. Ma.Pi. avverso ordinanza di demolizione di
opere e manufatti abusivi e di ripristino dello stato dei
luoghi adottate dal Direttore del Parco Regionale della
Valle del Lambro - Istanza di sospensiva.
...
Il Ministero riferente nella relazione istruttoria del
29.01.2015 richiamata in epigrafe respinge le censure
avanzate dal ricorrente ritenendole infondate e sottolinea
preliminarmente che il provvedimento sanzionatorio impugnato
costituisce atto dovuto nell’esercizio del potere-dovere di
repressione di un abuso edilizio realizzato in zona
vincolata e che a norma dell’art. 167 del codice dei beni
culturali e del paesaggio (decreto legislativo n. 42/2004)
in caso di violazione dello stesso codice il trasgressore è
sempre obbligato al ripristino dello stato dei luoghi, come
nel caso di specie, nel quale l’ordinanza del direttore del
Parco regionale della Valle del Lambro è stata adottata
proprio in applicazione di detta norma.
Lo stesso Dicastero ritiene poi non condivisibili le censure
concernenti la mancata comunicazione dell’avvio del
procedimento e di carenza motivazione dedotte nel gravame e
a tal proposito richiama molteplici pronunce del Consiglio
di Stato (ex multis Sezione VI sent. n. 1682 del
26.03.2013, Sez. IV sent. n. 734 del 17.02.2014) nonché il
parere n. 3772/2933-2006 del 09.04.2008, con il quale questa
Sezione ha avuto modo di affermare che gli atti repressivi
di abusi edilizi commessi per di più in area vincolata,
attesa la loro natura di atto dovuto, si configurano come “espressioni
di attività vincolata non condizionata a specifica
motivazione che nella fattispecie è in re ipsa”.
Soggiunge l’Amministrazione altresì testualmente quanto
segue: “contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente,
non può non tenersi conto che l'intervento ricade in zona
tutelata, anche se realizzato prima dell'istituzione del
Parco. Infatti, secondo il principio "tempus regit actum",
riguardante la successione delle leggi nel tempo, la
legittimità dell'atto amministrativo e/o di un intervento va
verificata con riferimento alla disciplina normativa vigente
rispettivamente al momento della sua emanazione e/o della
sua approvazione" (Cons. Stato, sez. VI, 29.03.2011, n.
1900; 12.10.2011, n. 5515; sez. IV, 09.02.2012, n. 693).
''La corretta applicazione del principio tempus regit
actum, comporta, quindi, che legittimamente
l'amministrazione abbia tenuto conto delle modifiche
normative intervenute sia successivamente al momento della
realizzazione delle opere, sia durante l'iter procedimentale
successivo all'istanza, non potendo, al contrario,
considerare l'assetto 'cristallizzato' alla data cui risale
l'intervento o a quello dell'atto che ha dato avvio all'iter
procedimentale" (Cons. Stato, sez. II, 18.01.2012, n.
3708/2011)
(Consiglio di Stato, Sez. II,
parere 25.02.2016 n. 529 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: Quanto
all’ambito di applicazione del richiamato art. 167, commi 4
e 5, questo Consiglio di Stato ritiene di dover ribadire
quanto già affermato e cioè che:
- l’autorizzazione paesaggistica non può essere rilasciata
in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche
parziale, delle opere (art. 146, comma 4, d.lgs. n. 42 del
2004), al di fuori dai casi tassativamente previsti
dall’art. 167, commi 4 e 5;
- con tale scelta il legislatore ha inteso presidiare
ulteriormente il regime delle opere incidenti su beni
paesaggistici, escludendo in radice che l’esame di
compatibilità paesistica possa essere postergato
all’intervento realizzato (sine titulo o in difformità dal
titolo rilasciato) e ciò al fine di escludere che possa
riconnettersi al fatto compiuto qualsivoglia forma di
legittimazione giuridica;
- in altri termini, il richiamato art. 167 del codice n. 42
del 2004, evidentemente in considerazione delle prassi
applicative delle leggi succedutesi in materia di condoni e
sanatorie (caratterizzate di regola dall’esercizio di poteri
discrezionali delle autorità preposte alla tutela del
vincolo paesaggistico), ha inteso tutelare più rigorosamente
i beni sottoposti al medesimo vincolo, precludendo in radice
ogni valutazione di compatibilità ex post delle opere
abusive (tranne quelle tassativamente indicate nello stesso
art. 167);
- ove le opere risultino diverse da quelle sanabili ed
indicate nell’art. 167, le competenti autorità non possono
che emanare un atto dal contenuto vincolato e, cioè,
esprimersi nel senso della reiezione dell’istanza di
sanatoria;
- l’unica eccezione a tale rigida prescrizione riguarda il
caso in cui i lavori, pur se realizzati in assenza o
difformità dell’autorizzazione paesaggistica, non abbiano
determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero
aumento di quelli legittimamente realizzati;
- tenuto conto del testo e della ratio dell’art. 167, nella
prospettiva della tutela del paesaggio non è rilevante la
classificazione dei volumi edilizi, che si suole fare al
fine di evidenziare la loro neutralità, sul piano del carico
urbanistico, poiché le qualificazioni giuridiche rilevanti
sotto il profilo urbanistico ed edilizio non hanno rilievo,
quando si tratti di qualificare le opere sotto il profilo
paesaggistico, sia quando si tratti della percezione visiva
di volumi, a prescindere dalla loro destinazione d’uso, sia
quando comunque si tratti di modificare un terreno o un
edificio o il relativo sottosuolo.
---------------
Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica
proposto dalla SOCIETÀ “PA. DE LA SU.” s.r.l. e
dalla SOCIETÀ RE. LA SU. s.r.l., in persona dei legali
rapp.ti p.t., rispettivamente En.Ma.De. e Gi.Gu.Ri.Pa.Be., per l’annullamento,
previa adozione di idonee misure cautelari, della
determinazione del Responsabile del Servizio Tecnico del
Comune di Casole d’Elsa dell’08.01.2013 n. 42, avente ad
oggetto il diniego definitivo della richiesta di permesso di
costruire in sanatoria; della comunicazione del diniego del
Responsabile del Servizio Urbanistica ed Edilizia Privata prot. n. 173 dell'08.01.2013; della nota della
Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici di
Siena e Grosseto n. 16933 del 10.11.2011 e di ogni
altro atto connesso, conseguente o presupposto.
...
Il ricorso è, in parte, infondato, in parte, inammissibile.
Come dichiarato dalle stesse ricorrenti, l'area interessata
dagli interventi edilizi descritti ricade all’interno della
perimetrazione S.I.R. n. 89 “Montagnola Senese”, in zona
sottoposta a vincolo ambientale paesaggistico ai sensi della
parte III, Titolo I, del D.Lgs. 42/2004.
L'autorizzazione in ordine alla richiesta di permesso di
costruire in sanatoria era, pertanto, subordinata al
rilascio del prescritto parere da parte dell’Amministrazione
preposta alla tutela del vincolo paesaggistico. Tale parere,
avente natura giuridica di condizione ostativa e di
presupposto indefettibile per la concessione edilizia in
sanatoria, comporta una verifica da parte della Regione o
dei comuni delegati e, in sede di controllo dal Ministero
per i beni e le attività culturali, della compatibilità
dell’intervento con gli interessi paesaggistici e ambientali
dell’area sottoposta a tutela (Consiglio di Stato, Sez. II,
09.03.2011, n. 104/2011).
Nel caso di specie, la competente Soprintendenza ha ritenuto
la richiesta delle società interessate improcedibile,
rilevando, sulla base della documentazione esaminata, che
sono stati realizzati interventi, che, contrariamente a
quanto affermato dalle ricorrenti, hanno comportato degli
incrementi di superficie utile e di volume. In quanto tali,
i suddetti interventi non rientrano tra quelli per i quali,
ai sensi dell'art. 167, comma 4, del D.Lgs. 42/2004, è
possibile accertare la compatibilità paesaggistica in luogo
della demolizione.
In altri termini, le citate circostanze
precludevano, la possibilità per la Soprintendenza di
esprimere un parere favorevole sulla compatibilità
paesaggistica di detta opera, atteso che l’art. 167, comma
4, lettera a), del d.lgs. n. 42 del 2004 ammette la
possibilità di sanare le opere realizzate su un'area
vincolata paesaggisticamente, in assenza di titolo
abilitativo, solamente qualora le stesse "non abbiano
determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero
aumento di quelli legittimamente realizzati".
Quanto all’ambito di applicazione del richiamato art. 167,
commi 4 e 5, questo Consiglio di Stato ritiene di dover
ribadire quanto già affermato nella sentenza della Sezione
VI, 24.09.2012, n. 5066/2012 (vds. anche Sez. VI, 20.06.2012 n. 3578), la quale ha osservato che:
- l’autorizzazione paesaggistica non può essere rilasciata
in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche
parziale, delle opere (art. 146, comma 4, d.lgs. n. 42 del
2004), al di fuori dai casi tassativamente previsti
dall’art. 167, commi 4 e 5;
- con tale scelta il legislatore ha inteso presidiare
ulteriormente il regime delle opere incidenti su beni
paesaggistici, escludendo in radice che l’esame di
compatibilità paesistica possa essere postergato
all’intervento realizzato (sine titulo o in difformità dal
titolo rilasciato) e ciò al fine di escludere che possa
riconnettersi al fatto compiuto qualsivoglia forma di
legittimazione giuridica;
- in altri termini, il richiamato art. 167 del codice n. 42
del 2004, evidentemente in considerazione delle prassi
applicative delle leggi succedutesi in materia di condoni e
sanatorie (caratterizzate di regola dall’esercizio di poteri
discrezionali delle autorità preposte alla tutela del
vincolo paesaggistico), ha inteso tutelare più rigorosamente
i beni sottoposti al medesimo vincolo, precludendo in radice
ogni valutazione di compatibilità ex post delle opere
abusive (tranne quelle tassativamente indicate nello stesso
art. 167);
- ove le opere risultino diverse da quelle sanabili ed
indicate nell’art. 167, le competenti autorità non possono
che emanare un atto dal contenuto vincolato e, cioè,
esprimersi nel senso della reiezione dell’istanza di
sanatoria;
- l’unica eccezione a tale rigida prescrizione riguarda il
caso in cui i lavori, pur se realizzati in assenza o
difformità dell’autorizzazione paesaggistica, non abbiano
determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero
aumento di quelli legittimamente realizzati;
- tenuto conto del testo e della ratio dell’art. 167,
nella prospettiva della tutela del paesaggio non è rilevante
la classificazione dei volumi edilizi, che si suole fare al
fine di evidenziare la loro neutralità, sul piano del carico
urbanistico, poiché le qualificazioni giuridiche rilevanti
sotto il profilo urbanistico ed edilizio non hanno rilievo,
quando si tratti di qualificare le opere sotto il profilo
paesaggistico, sia quando si tratti della percezione visiva
di volumi, a prescindere dalla loro destinazione d’uso, sia
quando comunque si tratti di modificare un terreno o un
edificio o il relativo sottosuolo
(Consiglio di Stato, Sez. II,
parere 25.02.2016 n. 523 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza amministrativa è
orientata a ritenere che la tutela del paesaggio è
principio fondamentale della Costituzione (art. 9)
ed ha carattere di preminenza rispetto agli altri
beni giuridici che vengono in rilievo nella difesa
del territorio, di tal che anche le previsioni degli
strumenti urbanistici devono necessariamente
coordinarsi con quelle sottese alla difesa
paesaggistica.
La difesa del paesaggio si attua eminentemente a
mezzo di misure di tipo conservativo, nel senso che
la miglior tutela di un territorio qualificato sul
piano paesaggistico è quella che garantisce la
conservazione dei suoi tratti naturalistici,
impedendo o riducendo al massimo quelle
trasformazioni pressoché irreversibili del
territorio propedeutiche all'attività edilizia Tali
esigenze di tipo conservativo devono naturalmente
contemperarsi, senza tuttavia mai recedere
completamente, con quelle connesse allo sviluppo
edilizio del territorio che sia consentito dalla
disciplina urbanistica nonché con le aspettative dei
proprietari dei terreni che mirano legittimamente a
sfruttarne le potenzialità edificatorie.
E' proprio in relazione al difficile equilibrio tra
tali contrapposti interessi che l'autorità preposta
alla tutela del vincolo paesaggistico deve trovare,
nei casi in cui la disciplina urbanistica consenta
l'esercizio dello ius aedificandi, il giusto
contemperamento nel rilasciare o denegare il
necessario assenso al formarsi del titolo
autorizzatorio secondo il modello procedimentale
delineato nell'art. 146 del D.Lgs. n. 42 del 2004
(che, come noto, attribuisce oggi al Ministero dei
beni e delle attività culturali, per il tramite
delle locali Soprintendenze, un ruolo di cogestione
attiva del vincolo paesaggistico, con la titolarità
di penetranti poteri valutativi di merito).
Si tratta di valutazioni spesso connotate da
elementi tecnico-discrezionali non sindacabili in
sede giurisdizionale, se non per illogicità
manifesta, per palese incongruità o inadeguatezza
del provvedimento in rapporto alle sue finalità di
protezione del territorio vincolato, ad evitare
inammissibili sovrapposizioni del giudicante in
ambiti che la legge ha voluto riservare alla
amministrazione titolare del potere.
Orbene, con l'entrata in vigore, a regime (dal
01.01.2010), dell'art. 146 sulla disciplina
autorizzatoria prevista dal Codice dei beni
culturali e del paesaggio (D.Lgs. 22.01.2004 n. 42),
la Soprintendenza si è ritrovata ad esercitare, non
più un sindacato di mera legittimità (come previsto
dall'art. 159 D.Lgs. n. 42 del 2004 nel regime
transitorio vigente fino al 31.12.2009) sull'atto
autorizzatorio di base adottato dalla Regione o
dall'ente subdelegato, con il correlativo potere di
annullamento ad estrema difesa del vincolo, ma una
valutazione di "merito amministrativo", espressione
dei nuovi poteri di cogestione del vincolo
paesaggistico (art. 146 D.Lgs. n. 42 del 2004).
Pertanto, nel nuovo quadro normativo si giustifica
una diversa e più penetrante valutazione, da parte
della Soprintendenza, della compatibilità
dell'intervento edilizio progettato con i valori
paesaggistici compendiati nella richiamata
disciplina vincolistica.
Come è stato adeguatamente osservato dalla
giurisprudenza di merito, il parere in questione si
caratterizza per l’esercizio di elevati margini di
discrezionalità, volti ad esprimere un giudizio di
valore su elementi per lo più estetici (ovvero la
bellezza di un determinato contesto paesaggistico)
che, inevitabilmente, subiscono la soggettività e la
sensibilità del valutatore.
Di conseguenza, per evitare che il giudizio di
compatibilità paesaggistica si trasformi
nell'esercizio di un insindacabile arbitrio, risulta
necessario fornire la più ampia e circostanziata
motivazione, enunciando sia le premesse, che l'iter
logico seguito nel percorso valutativo che si
conclude con il giudizio finale.
In sostanza, neppure il parere della Soprintendenza
sfugge all'onere motivazionale sancito dall'art. 3
L. n. 241 del 1990, per cui può affermarsi che
l'espressione del parere demandato alla
Soprintendenza deve contenere una compiuta
esposizione delle ragioni logico giuridiche ostative
all'inserimento della nuova opera nel contesto
paesaggistico tutelato.
---------------
L'onere motivazionale deve essere ancor più
rafforzato laddove lo stato dei luoghi risulti già
trasformato da un preesistente edificio che la parte
privata intenda recuperare funzionalmente.
Rispetto a quest'ultima ipotesi, la giurisprudenza
ha già chiarito che, nell'ipotesi di recupero di un
vecchio fabbricato, "... l'esame (deve) appuntarsi
sui tratti esteriori dell'edificio per verificare se
e come, all'esito dell'intervento di recupero, il
fabbricato possa risultare adeguatamente inserito
nella cornice ambientale circostante, e tanto anche
in comparazione ... alla percezione estetica che
dello stesso possa trarsi nell'attualità, nelle
condizioni di degrado in cui versa l'immobile. Ciò
che dal parere negativo della soprintendenza non si
ricava è, inoltre, qual tipo di accorgimento tecnico
o, al limite, di modifica progettuale potrebbe far
conseguire all'interessata l'autorizzazione
paesaggistica, tenuto conto che l'area non è
sottoposta a vincolo di inedificabilità, che
l'intervento ha il pregio di proporre il recupero di
un immobile ammalorato dal tempo e che la tutela del
preminente valore del paesaggio non deve
necessariamente coincidere con la sua statica
salvaguardia, ma richiede al contrario interventi
improntati a fattiva collaborazione delle autorità
preposte alla tutela paesaggistica, funzionali a
conformare le iniziative edilizie al rispetto dei
valori estetici e naturalistici insiti nel bene
paesaggio".
Ed infatti, in applicazione degli approdi
giurisprudenziali citati ai punti che precedono, la
Soprintendenza, oltre ad una puntuale individuazione
del disvalore dell'opera con il contesto paesistico,
è tenuta, in un'ottica di leale collaborazione a
precisare "quale tipo di accorgimento tecnico o, al
limite, di modifica progettuale" potrebbe far
conseguire all'interessata l'autorizzazione
paesaggistica, tenuto conto che l'area non è
sottoposta a vincolo di inedificabilità, che
l'intervento ha il pregio di proporre il recupero di
un immobile ammalorato dal tempo e che "la tutela
del preminente valore del paesaggio non deve
necessariamente coincidere con la sua statica
salvaguardia, ma richiede al contrario interventi
improntati a fattiva collaborazione delle autorità
preposte alla tutela paesaggistica, funzionali a
conformare le iniziative edilizie al rispetto dei
valori estetici e naturalistici insiti nel bene
paesaggio".
---------------
Tanto
premesso può addivenirsi allo scrutinio della
questione di merito.
Gioverà ricordare che la giurisprudenza
amministrativa è orientata a ritenere che la tutela
del paesaggio è principio fondamentale della
Costituzione (art. 9) ed ha carattere di preminenza
rispetto agli altri beni giuridici che vengono in
rilievo nella difesa del territorio, di tal che
anche le previsioni degli strumenti urbanistici
devono necessariamente coordinarsi con quelle
sottese alla difesa paesaggistica.
La difesa del paesaggio si attua eminentemente a
mezzo di misure di tipo conservativo, nel senso che
la miglior tutela di un territorio qualificato sul
piano paesaggistico è quella che garantisce la
conservazione dei suoi tratti naturalistici,
impedendo o riducendo al massimo quelle
trasformazioni pressoché irreversibili del
territorio propedeutiche all'attività edilizia Tali
esigenze di tipo conservativo devono naturalmente
contemperarsi, senza tuttavia mai recedere
completamente, con quelle connesse allo sviluppo
edilizio del territorio che sia consentito dalla
disciplina urbanistica nonché con le aspettative dei
proprietari dei terreni che mirano legittimamente a
sfruttarne le potenzialità edificatorie.
E' proprio in relazione al difficile equilibrio tra
tali contrapposti interessi che l'autorità preposta
alla tutela del vincolo paesaggistico deve trovare,
nei casi in cui la disciplina urbanistica consenta
l'esercizio dello ius aedificandi, il giusto
contemperamento nel rilasciare o denegare il
necessario assenso al formarsi del titolo
autorizzatorio secondo il modello procedimentale
delineato nell'art. 146 del D.Lgs. n. 42 del 2004
(che, come noto, attribuisce oggi al Ministero dei
beni e delle attività culturali, per il tramite
delle locali Soprintendenze, un ruolo di cogestione
attiva del vincolo paesaggistico, con la titolarità
di penetranti poteri valutativi di merito).
Si tratta di valutazioni spesso connotate da
elementi tecnico-discrezionali non sindacabili in
sede giurisdizionale, se non per illogicità
manifesta, per palese incongruità o inadeguatezza
del provvedimento in rapporto alle sue finalità di
protezione del territorio vincolato, ad evitare
inammissibili sovrapposizioni del giudicante in
ambiti che la legge ha voluto riservare alla
amministrazione titolare del potere.
Orbene, con l'entrata in vigore, a regime (dal
01.01.2010), dell'art. 146 sulla disciplina
autorizzatoria prevista dal Codice dei beni
culturali e del paesaggio (D.Lgs. 22.01.2004 n. 42),
la Soprintendenza si è ritrovata ad esercitare, non
più un sindacato di mera legittimità (come previsto
dall'art. 159 D.Lgs. n. 42 del 2004 nel regime
transitorio vigente fino al 31.12.2009) sull'atto
autorizzatorio di base adottato dalla Regione o
dall'ente subdelegato, con il correlativo potere di
annullamento ad estrema difesa del vincolo (su cui
Cons. Stato, Ad. plen., 14.12.2001, n. 9), ma una
valutazione di "merito amministrativo",
espressione dei nuovi poteri di cogestione del
vincolo paesaggistico (art. 146 D.Lgs. n. 42 del
2004).
Pertanto, nel nuovo quadro normativo si giustifica
una diversa e più penetrante valutazione, da parte
della Soprintendenza, della compatibilità
dell'intervento edilizio progettato con i valori
paesaggistici compendiati nella richiamata
disciplina vincolistica.
Come è stato adeguatamente osservato dalla
giurisprudenza di merito, il parere in questione si
caratterizza per l’esercizio di elevati margini di
discrezionalità, volti ad esprimere un giudizio di
valore su elementi per lo più estetici (ovvero la
bellezza di un determinato contesto paesaggistico)
che, inevitabilmente, subiscono la soggettività e la
sensibilità del valutatore.
Di conseguenza, per evitare che il giudizio di
compatibilità paesaggistica si trasformi
nell'esercizio di un insindacabile arbitrio, risulta
necessario fornire la più ampia e circostanziata
motivazione, enunciando sia le premesse, che l'iter
logico seguito nel percorso valutativo che si
conclude con il giudizio finale.
In sostanza, neppure il parere della Soprintendenza
sfugge all'onere motivazionale sancito dall'art. 3
L. n. 241 del 1990, per cui può affermarsi che
l'espressione del parere demandato alla
Soprintendenza deve contenere una compiuta
esposizione delle ragioni logico giuridiche ostative
all'inserimento della nuova opera nel contesto
paesaggistico tutelato (TAR Salerno, Sez. I, n. 313
del 2015).
Onere motivazionale ancor più rafforzato laddove,
come nel caso di specie, lo stato dei luoghi risulti
già trasformato da un preesistente edificio che la
parte privata intenda recuperare funzionalmente.
Rispetto a quest'ultima ipotesi, la giurisprudenza
ha già chiarito -e da tale percorso il Collegio non
intende decampare- che, nell'ipotesi di recupero di
un vecchio fabbricato, "... l'esame (deve)
appuntarsi sui tratti esteriori dell'edificio per
verificare se e come, all'esito dell'intervento di
recupero, il fabbricato possa risultare
adeguatamente inserito nella cornice ambientale
circostante, e tanto anche in comparazione ... alla
percezione estetica che dello stesso possa trarsi
nell'attualità, nelle condizioni di degrado in cui
versa l'immobile. Ciò che dal parere negativo della
soprintendenza non si ricava è, inoltre, qual tipo
di accorgimento tecnico o, al limite, di modifica
progettuale potrebbe far conseguire all'interessata
l'autorizzazione paesaggistica, tenuto conto che
l'area non è sottoposta a vincolo di inedificabilità,
che l'intervento ha il pregio di proporre il
recupero di un immobile ammalorato dal tempo e che
la tutela del preminente valore del paesaggio non
deve necessariamente coincidere con la sua statica
salvaguardia, ma richiede al contrario interventi
improntati a fattiva collaborazione delle autorità
preposte alla tutela paesaggistica, funzionali a
conformare le iniziative edilizie al rispetto dei
valori estetici e naturalistici insiti nel bene
paesaggio" (Cons. St. n. 1418 del 2014).
Trasponendo le menzionate acquisizioni
giurisprudenziali al caso in esame, deve convenirsi
che il parere, oltre a rimarcare la carenza di
documentazione nonché la carenza di elementi utili
ad evidenziare la conformità dell'intervento alla
normativa del Parco Nazionale del Cilento e Vallo di
Diano, risulta, altresì carente in ordine alle
ragioni per le quali il progettato intervento
finirebbe per alterare la fruibilità estetica dei
luoghi, indulgendo in notazioni del tutto generiche
e stereotipate.
Trattasi all'evidenza di una motivazione
sostanzialmente apparente, poiché non individua, da
una parte, quali siano le effettive caratteristiche
del paesaggio tutelato che si intende salvaguardare
e, dall'altra, quali siano le effettive
caratteristiche del progetto le cui ricadute si
porrebbero in stridente contrasto con le prime,
tanto più che trattasi di intervento di riparazione
della copertura con rifacimento dell’intonaco
esterno la cui capacità innovativa dello status
quo nemmeno risulta immediatamente percepibile.
Ma ciò che più rileva è la palese pretermissione di
ogni tipo di indicazione utile a far conseguire
all'interessato il bene della vita.
Ed infatti, in applicazione degli approdi
giurisprudenziali citati ai punti che precedono, la
Soprintendenza, oltre ad una puntuale individuazione
del disvalore dell'opera con il contesto paesistico,
è tenuta, in un'ottica di leale collaborazione a
precisare "quale tipo di accorgimento tecnico o,
al limite, di modifica progettuale" potrebbe far
conseguire all'interessata l'autorizzazione
paesaggistica, tenuto conto che l'area non è
sottoposta a vincolo di inedificabilità, che
l'intervento ha il pregio di proporre il recupero di
un immobile ammalorato dal tempo e che "la tutela
del preminente valore del paesaggio non deve
necessariamente coincidere con la sua statica
salvaguardia, ma richiede al contrario interventi
improntati a fattiva collaborazione delle autorità
preposte alla tutela paesaggistica, funzionali a
conformare le iniziative edilizie al rispetto dei
valori estetici e naturalistici insiti nel bene
paesaggio" (Cons. St. Sez. V n. 1418/2014).
Nemmeno il profilo motivazionale afferente alla
indimostrata liceità dell’edificio è in grado di
suffragare adeguatamente l’impugnato parere, in
quanto, pur dovendosi rilevare che l’assentibilità
paesaggistica di un intervento edilizio postula la
sua liceità urbanistica (invero sarebbe
inutiliter datum un nulla osta paesaggistico
rispetto ad un manufatto abusivo), accede ad una
disamina della documentazione acquisita dall’esito
incerto e perplesso, tanto da prendere atto,
conclusivamente, della impossibilità di effettuare “una
valutazione compiuta della pratica”. Tanto
avrebbe senz’altro giustificato un ulteriore
approfondimento istruttorio, anche in considerazione
della duplice attestazione, proveniente dagli uffici
comunali, circa la conformità del manufatto ai
titoli rilasciati.
Per tutte le suesposte ragioni, il parere deve
essere annullato al fine di consentire quella fase
collaborativa che, nella specie, appare deficitaria.
Pertanto, ed in esecuzione della presente sentenza,
la competente Soprintendenza provvederà a
riattivare, in collaborazione con il Comune di
Controne e con spirito di leale interlocuzione con
la parte privata, il procedimento funzionale alla
formulazione del prescritto parere, facendo in modo
di ben evidenziare l’iter logico della sua
definitiva espressione di volontà in ordine
all'intervento, nei limiti delle sue attribuzioni e
con l'esplicita e dettagliata indicazione delle
condizioni alla cui ricorrenza il parere di
compatibilità paesaggistica potrà essere rilasciato.
In conformità alle considerazioni che precedono, il
ricorso si presta, quindi, a essere accolto, con
conseguente annullamento del provvedimento impugnato
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 13.01.2016 n. 23 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’art.
142 d.lgs. 22.01.2004 n. 42, nella parte in cui
dispone che "sono comunque di interesse
paesaggistico e sono sottoposti alle disposizioni di
questo titolo... i fiumi, i torrenti, i corsi
d'acqua iscritti negli elenchi previsti dal r.d.
11.12.1933 n. 1775, e le relative sponde o piedi
degli argini per una fascia di 150 metri", va
interpretato nel senso che solo per le acque fluenti
di minori dimensioni ed importanza, vale a dire per
i corsi d'acqua che non sono né fiumi né torrenti,
si impone, ai fini della loro rilevanza
paesaggistica, la iscrizione negli elenchi delle
acque pubbliche.
Quanto ai fiumi e torrenti, il requisito della
pubblicità esiste di per sé ed anche il vincolo
paesaggistico è imposto "ex lege" senza necessità di
iscrizione negli elenchi.
---------------
Per quanto riguarda il valore delle carte
dell'Istituto Geografico Militare (che peraltro
riporta graficamente il corso d’acqua in questione
pur senza denominazione), vale invece l’insegnamento
del Supremo Consesso di G.A..
Invero, osserva l’autorevole Collegio che
l’ufficialità attribuita dall'ordinamento alla
cartografia dell'I.G.M. implica soltanto che ad essa
debba farsi riferimento tutte le volte in cui
occorra adottare provvedimenti o compiere atti che
abbiano a proprio presupposto o a propria sfera di
efficacia l'articolazione territoriale interna dello
Stato.
---------------
Il ricorso è infondato.
1. Assumono preliminare rilievo, sul piano
logico-argomentativo, i mezzi di gravame articolati
ai punti sub 2) e 3), per il loro tenore
suscettibili di trattazione congiunta, con i quali
il Comune istante lamenta l’insussistenza del
vincolo paesaggistico alla luce delle
caratteristiche del corso d’acqua denominato “Cancito”,
lungo le cui sponde, al momento del ricorso, è in
corso di esecuzione l’intervento su descritto.
A tal riguardo, si osserva in ricorso, mediante
deduzioni corroborate dalla produzione di
documentata relazione tecnica, che il “Cancito”
non sarebbe né un torrente, né un corso d’acqua
iscritto negli elenchi previsto dal testo unico
delle disposizioni di legge sulle acque ed impianti
elettrici, approvato con regio decreto 11.12.1933,
n. 1775. La fascia di 150 metri dalle sue sponde,
quindi, non sarebbe assoggettata a vincolo di
tutela, come invece si afferma dalla Soprintendenza
elevando tale circostanza a presupposto della
contestata determinazione.
Giunge a tali conclusioni il ricorrente evidenziando
che il provvedimento impugnato richiama il parere
del Genio Civile di Salerno (prot. n. 2014.0604087
del 12.09.2014), che, a sua volta incorrendo in
illegittimità, si fonderebbe sulle sole risultanze
catastali, le cui mappe riportano il Cancito come
torrente, così trascurando la mancata indicazione
dello stesso nella cartografia ufficiale IGM, dalla
pretesa valenza dirimente.
Dalla disamina del provvedimento impugnato, nelle
sue testuali articolazioni motivazionali, invero
risulta che l’Autorità Soprintendentizia ha posto a
fondamento della sua determinazione il contributo
consultivo del Genio Civile di Salerno versato nella
nota su distinta, nella quale si rileva, dopo aver
evidenziato il carattere decisivo delle indicazioni
riportate sui fogli di mappa catastali di impianto,
che <<sul foglio di mappa catastale n. 32 del
Comune di Castelcivita, la cui redazione risale agli
anni tra il 1897 e il 1904, il corso d’acqua
denominato Cancito è riportato come “Torrente”.
Stessa denominazione è riportata anche sul foglio 31>>.
E’ inoltre versata in atti copia, non in scala, del
citato foglio n. 32, che appunto riporta il
tracciato del Cancito con la esatta denominazione di
“Torrente”. La circostanza, del tutto
pacifica tra le parti, della mancata indicazione di
tale corso d’acqua negli elenchi delle acque
pubbliche non è ex se decisiva.
Questo Tribunale (TAR Salerno, sez. II, 18.07.2008,
n. 2172) ha infatti già avuto modo di osservare che
“l’art. 142 d.lgs. 22.01.2004 n. 42, nella parte
in cui dispone che "sono comunque di interesse
paesaggistico e sono sottoposti alle disposizioni di
questo titolo... i fiumi, i torrenti, i corsi
d'acqua iscritti negli elenchi previsti dal r.d.
11.12.1933 n. 1775, e le relative sponde o piedi
degli argini per una fascia di 150 metri", va
interpretato nel senso che solo per le acque fluenti
di minori dimensioni ed importanza, vale a dire per
i corsi d'acqua che non sono né fiumi né torrenti,
si impone, ai fini della loro rilevanza
paesaggistica, la iscrizione negli elenchi delle
acque pubbliche. Quanto ai fiumi e torrenti, il
requisito della pubblicità esiste di per sé ed anche
il vincolo paesaggistico è imposto "ex lege" senza
necessità di iscrizione negli elenchi”.
La soluzione della questione agitata in ricorso
impone innanzitutto di assegnare il giusto rilievo
alla cartografia IGM. Ebbene, il Collegio non
condivide quanto prospettato dal ricorrente a
proposito del carattere decisivo della mancata
iscrizione del Cancito nella cartografia IGM
(Istituto Geografico Militare), non essendo tale
assunto suffragato da alcun preciso riferimento
normativo.
Per quanto riguarda il valore delle carte
dell'Istituto Geografico Militare (che peraltro
riporta graficamente il corso d’acqua in questione
pur senza denominazione), vale invece l’insegnamento
del Supremo Consesso di G.A., espresso già con il
parere del 07.03.1980. Invero, osserva l’autorevole
Collegio che l’ufficialità attribuita
dall'ordinamento alla cartografia dell'I.G.M.
implica soltanto che ad essa debba farsi riferimento
tutte le volte in cui occorra adottare provvedimenti
o compiere atti che abbiano a proprio presupposto o
a propria sfera di efficacia l'articolazione
territoriale interna dello Stato (Consiglio di
Stato, sez. IV, 23.10.1998, n. 1361).
Assume invece rilievo, a contrario, la denominazione
di torrente riportata nella planimetria catastale,
cioè relativa al primo deposito presso l'archivio
del Catasto e risalente, nel caso di specie, “agli
anni tra il 1897 e il 1904” (v. parere Genio
Civile di Salerno prot. 2014.0604087 del 12/09/2014)
a sua volta qualificabile come atto ufficiale, come
evidenziato dal Genio Civile di Salerno nel suo
contributo istruttorio.
Va sul punto sottolineato che l’Amministrazione del
Catasto e dei Servizi Tecnici Erariali (divenuta
Agenzia del Territorio) è qualificato, dalla legge
02.02.1960, n. 68 (“Norme sulla cartografia
ufficiale dello Stato…”), uno degli organi
cartografici dello Stato (v. art. 1); ne consegue
–ritenendo il Collegio di rimeditare il diverso
orientamento espresso dalla Sezione con la sentenza
n. 2594/2013 del 20.12.2013, valorizzata da parte
ricorrente– che i rilievi catastali non possono non
assurgere al rango di documento ufficiale attestante
la qualità di un corso d’acqua non compreso nei
relativi elenchi.
Non va ad ogni modo trascurato che lo stesso Ente
locale ha riconosciuto la rilevanza paesaggistica
delle aree spondali del Cancito, come nel caso
dell’intervento di sistemazione idraulica ed
idrogeologica, finanziato da risorse comunitarie del
FEOGA e dallo SPOF con la Misura 3.1., in cui
espressamente si qualifica il corso d’acqua in
questione come “Torrente”.
Medesima qualificazione si rinviene sia nel PRG sia
nella documentazione preliminare del PUC del Comune
di Castelcivita. Tanto è sufficiente al fine di
ritenere l’area, ai sensi dell’art. 142, lett. c),
del D.Lgs. n. 42/2004, è sottoposta a vincolo
paesaggistico, non potendosi accedere alla verifica
dell’esatto stato dei luoghi, come auspicato in
ricorso, al fine di stabilire se si tratti di un
semplice scolo, in presenza di una denominazione
come torrente avente, come detto, il crisma
dell’ufficialità. I motivi in esame sono quindi
infondati.
2. Nemmeno coglie nel segno il primo motivo, col
quale parte ricorrente lamenta che l’intervento
sarebbe irrilevante sul piano paesaggistico per
essere di natura meramente manutentiva, in quanto,
come emerge dalla relazione descrittiva dei lavori
in progetto, esso prevede il completamento
dell’impianto di depurazione, da tempo inutilizzato,
con la realizzazione ex novo di di n. 2
vasche, di cui una sola completamente interrata, e
di un locale tecnologico di mq. 21,60.
Tali opere, per la loro complessiva consistenza
anche volumetrica e per la loro stessa finalità,
appaiono in grado di alterare lo stato dei luoghi e
pertanto sono meritevoli di essere portati
all’attenzione dell’autorità competente in
subiecta materia. Né la misura appare
sproporzionata o comunque incurante della
destinazione delle opere a beneficio della
collettività, trattandosi di un impianto di
depurazione, perché esattamente contemplata, come di
seguito si dirà, dal sistema ordinamentale a tutela
del valore, di pregio costituzionale, del paesaggio.
Anche il motivo in esame è quindi da respingere
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 13.01.2016 n. 22 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Le
circolari costituiscono criteri di riferimento
interpretativo a carattere interno finalizzate a
garantire un’uniforme applicazione delle norme di
legge, risultando tuttavia quasi pleonastico
evidenziare che la circolare interpretativa non
possa legittimare l’inosservanza di principi
direttamente e chiaramente stabiliti dalla legge,
dovendosi conseguentemente disattendere le circolari
sulla base del principio di prevalenza del dettato
legislativo.
---------------
E' di tutta evidenza come la circolare MIBAC n. 33
del 26.06.2009 non possa integrare, in maniera
vincolante, il precetto, di cui all’art. 167, comma
4, del d.l.vo 42/2004 (“L’autorità amministrativa
competente accerta la compatibilità paesaggistica,
secondo le procedure di cui al comma 5, nei seguenti
casi: a) per i lavori, realizzati in assenza o
difformità dall’autorizzazione paesaggistica, che
non abbiano determinato creazione di superfici utili
o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente
realizzati (…)”), stabilendo il predetto limite
quantitativo, impeditivo, in linea generale, della
favorevole conclusione del procedimento di
autorizzazione paesaggistica postuma, laddove
l’esito del procedimento de quo non può che essere
frutto di una valutazione caso per caso, ben potendo
anche un modesto scostamento, rispetto a tale limite
percentuale massimo, risultare compatibile con la
generale sanabilità di pensiline e tettoie, del
genere di quella in oggetto, aperte su tre lati e
legate da vincolo di pertinenzialità, rispetto
all’edificio cui accedono, giusta la giurisprudenza
prevalente: “La sostanziale identità delle nozioni
di tettoia e pensilina ricavabile dalle medesime
finalità di arredo, riparo o protezione anche dagli
agenti atmosferici, determina la necessità del
permesso di costruire nel casi in cui sia da
escludere la natura precaria o pertinenziale
dell’intervento”.
In sostanza, la circolare di cui sopra, per
rispettare il dettato legislativo, va interpretata
nel senso che l’indicazione del predetto limite del
25% vale unicamente come individuazione di un valore
percentuale di massima, il cui eventuale superamento
non impedisce, automaticamente e necessariamente, la
sanabilità degli abusi cd. minori, dovendo la
decisione, circa l’esito del relativo procedimento,
dipendere da una valutazione, che si cali nel caso
specifico, valutando il concreto impatto, sul
paesaggio, delle opere realizzate (nella specie, di
natura pertinenziale, quanto alla casistica delle
tettoie –o pensiline– aperte su tre lati).
---------------
Il ricorso è fondato.
Secondo la giurisprudenza: “Le circolari
costituiscono criteri di riferimento interpretativo
a carattere interno finalizzate a garantire
un’uniforme applicazione delle norme di legge,
risultando tuttavia quasi pleonastico evidenziare
che la circolare interpretativa non possa
legittimare l’inosservanza di principi direttamente
e chiaramente stabiliti dalla legge, dovendosi
conseguentemente disattendere le circolari sulla
base del principio di prevalenza del dettato
legislativo” (TAR Bari, (Puglia), Sez. II,
14/09/2012, n. 1660).
Nella specie, il gravato diniego s’è fondato
unicamente sul superamento, da parte della pensilina
realizzata dalla ricorrente, del limite massimo del
25%, fissato dalla circolare del Segretario Generale
del Mi.B.A.C., n. 33 del 26.06.2009 (punto 2: “per
“superfici utili”, si intende “qualsiasi
superficie utile, qualunque sia la sua destinazione.
Sono ammesse le logge e i balconi nonché i portici,
collegati al fabbricato, aperti su tre lati
contenuti entro il 25% dell’area di sedime del
fabbricato stesso”).
Orbene, è di tutta evidenza come la circolare di cui
sopra non possa integrare, in maniera vincolante, il
precetto, di cui all’art. 167, comma 4, del d.l.vo
42/2004 (“L’autorità amministrativa competente
accerta la compatibilità paesaggistica, secondo le
procedure di cui al comma 5, nei seguenti casi: a)
per i lavori, realizzati in assenza o difformità
dall’autorizzazione paesaggistica, che non abbiano
determinato creazione di superfici utili o volumi
ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati
(…)”), stabilendo il predetto limite
quantitativo, impeditivo, in linea generale, della
favorevole conclusione del procedimento di
autorizzazione paesaggistica postuma, laddove
l’esito del procedimento de quo non può che
essere frutto di una valutazione caso per caso, ben
potendo anche un modesto scostamento, rispetto a
tale limite percentuale massimo, risultare
compatibile con la generale sanabilità di pensiline
e tettoie, del genere di quella in oggetto, aperte
su tre lati e legate da vincolo di pertinenzialità,
rispetto all’edificio cui accedono, giusta la
giurisprudenza prevalente: “La sostanziale
identità delle nozioni di tettoia e pensilina
ricavabile dalle medesime finalità di arredo, riparo
o protezione anche dagli agenti atmosferici,
determina la necessità del permesso di costruire nel
casi in cui sia da escludere la natura precaria o
pertinenziale dell’intervento” (Cassazione
penale, Sez. Fer., 07/09/2011, n. 33267).
In sostanza, la circolare di cui sopra, per
rispettare il dettato legislativo, va interpretata
nel senso che l’indicazione del predetto limite del
25% vale unicamente come individuazione di un valore
percentuale di massima, il cui eventuale superamento
non impedisce, automaticamente e necessariamente, la
sanabilità degli abusi cd. minori, dovendo la
decisione, circa l’esito del relativo procedimento,
dipendere da una valutazione, che si cali nel caso
specifico, valutando il concreto impatto, sul
paesaggio, delle opere realizzate (nella specie, di
natura pertinenziale, quanto alla casistica delle
tettoie –o pensiline– aperte su tre lati)
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 13.01.2016 n. 17 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
IN EVIDENZA |
ATTI AMMINISTRATIVI: Il
funzionario che riceve la richiesta di ostensione deve
essere posto in condizioni di poter accertare con sicurezza
l'imputazione della stessa al fine di poter verificare la
sussistenza dell'interesse all'ostensione; pertanto
l'istanza deve provenire dal diretto interessato o da
soggetto che possa spenderne il nome.
Ne discende che, nel caso in cui l'istanza di accesso sia
formulata dal difensore, è necessario che la stessa o sia
sottoscritta anche dal diretto interessato, e in tal caso
allo stesso se ne imputa la provenienza, ovvero che
l'istanza sia accompagnata dal mandato al difensore, che
acquisisce in tal modo il potere di avanzare la stessa in
luogo dell'interessato, mentre in mancanza di sottoscrizione
congiunta o di atto procuratorio l'istanza deve considerarsi
inammissibile e con essa il ricorso avverso il silenzio
dell'Amministrazione.
---------------
... per l'annullamento del silenzio–rigetto serbato
dall’Azienda intimata sull’istanza di accesso agli atti
notificata all’ASL di Caserta in data 11.08.2015.
...
Di contro, è stato efficacemente evidenziato in
giurisprudenza che il funzionario che riceve la richiesta di
ostensione deve essere posto in condizioni di poter
accertare con sicurezza l'imputazione della stessa al fine
di poter verificare la sussistenza dell'interesse
all'ostensione; pertanto l'istanza deve provenire dal
diretto interessato o da soggetto che possa spenderne il
nome.
Ne discende che, nel caso in cui l'istanza di accesso sia
formulata dal difensore, è necessario che la stessa o sia
sottoscritta anche dal diretto interessato, e in tal caso
allo stesso se ne imputa la provenienza, ovvero che
l'istanza sia accompagnata dal mandato al difensore, che
acquisisce in tal modo il potere di avanzare la stessa in
luogo dell'interessato, mentre in mancanza di sottoscrizione
congiunta o di atto procuratorio l'istanza deve considerarsi
inammissibile e con essa il ricorso avverso il silenzio
dell'Amministrazione (C.d.S., sez. V, 30.09.2013, n. 4839;
C.d.S., Sez. V, 05.09.2006, n. 5116; TAR Cagliari,
(Sardegna), sez. II, 12/06/2015, n. 860; TAR Campania,
Napoli, sez. V, 09.03.2009, n. 1331; TAR Lazio, sez. III,
02.07.2008, n. 6365; TAR Latina Lazio, Sez. I, 13.11.2007;
TAR Napoli, Sez. V, 24.11.2008, n. 19980)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 18.02.2016 n. 907 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Lo
svolgimento dell’attività propria di un’associazione
culturale –di carattere ricreativo o formativo, non
disgiunto magari da momenti di preghiera– non appare
compatibile con la destinazione a laboratorio industriale
propria dei locali di cui è causa.
L’art. 23-bis del DPR 380/2001 individua una serie di
categorie funzionali autonome e il passaggio dall’una
all’altra –anche senza opere edilizie– configura un
mutamento di destinazione d’uso rilevante sotto il profilo
urbanistico.
Orbene, la categoria “produttiva e direzionale” di cui alla
lettera b) del comma 1 dell’articolo citato, nella quale può
comprendersi quella a laboratorio industriale, non può
consentire attività culturali e formative –in senso lato–
che l’associazione asserisce di svolgere.
Anche prima del citato art. 23-bis, del resto, sulla
questione del mutamento di destinazione d’uso fra categorie
urbanistiche autonome, la giurisprudenza della scrivente
Sezione II, a partire dalla sentenza 27.05.2009, n. 3859,
fino alle più recenti decisioni, ha ribadito la rilevanza
sotto il profilo urbanistico di tale mutamento, che se
realizzato senza idoneo titolo edilizio deve senza dubbio
reputarsi contra legem.
A tali pronunce, si aggiungano:
- Consiglio di Stato, sez. IV, 30.09.2014, n. 4483, che
subordina al pagamento del contributo i cambi di
destinazione d’uso –anche senza opere edilizie– fra le
distinte categorie di cui ai commi primo e secondo dell’art.
19 del DPR 380/2001 (rispettivamente industriali e
artigianali da una parte e turistiche, commerciali,
direzionali o per servizi dall’altra);
- Consiglio di Stato, sez. VI, 18.04.2013, n. 2153; TAR
Lazio, sez. I-quater, 04.10.2012, n. 8297 e TAR Campania,
Napoli, sez. VII, 12.07.2012, n. 3382, per la quale il
cambio di destinazione d’uso che comporta un aumento di
superficie anche in conseguenza della trasformazione da non
residenziale a residenziale, è soggetto a permesso di
costruire; oltre a TAR Lombardia, Brescia, sez. I,
06.05.2014, n. 468, per la quale la manutenzione
straordinaria è attività limitata al rinnovamento ed alla
sostituzione di parti dell’edificio, mentre in caso di
trasformazione dell’immobile con incremento del carico
urbanistico la figura corretta per l’inquadramento
dell’attività edilizia è quella della ristrutturazione, con
necessità del relativo titolo.
Di conseguenza, appare incontestato l’avvenuto mutamento di
destinazione d’uso, da quello industriale ad altro di
carattere culturale e ricreativo (poco importa se
accompagnato da momenti di preghiera da parte di chi accede
ai locali).
---------------
La ricorrente afferma nuovamente di non svolgere attività di
culto, evidenziando che eventuali manifestazioni occasionali
di preghiera non consentono di qualificare il locale come
adibito al culto islamico.
Anche tale censura è però priva di pregio: quel che rileva
nella presente fattispecie è che i locali di cui è causa
–che dovrebbero essere impiegati esclusivamente a
laboratorio industriale– sono invece caratterizzati da un
notevole afflusso di persone svolgenti attività sicuramente
varie (incontri, mostre, lezioni di lingua araba e italiana
e anche eventuali occasioni di preghiera), ma in ogni modo
non riconducibili, neppure con il più ampio sforzo,
all’attività industriale e produttiva.
A questo punto, il richiamo ai principi costituzionali sulla
libertà religiosa non appare pertinente, in quanto –lo si
ripete nuovamente– non è certamente in discussione la
libertà religiosa della comunità mussulmana di Cinisello
Balsamo, come quella di altre comunità, ma si impone
esclusivamente il rispetto della destinazione d’uso
urbanistica dei locali.
---------------
... per l'annullamento dell'ordinanza n. 143 (rectius:
173) del 02.07.2014 prot. n. 41253 del 03.07.2014 a firma
del Dirigente del Servizio edilizia privata del Comune di
Cinisello Balsamo, nonché di ogni altro atto della
procedura, anche non noto, antecedente, conseguente o
connesso.
...
FATTO
Con ordinanza n. 173 del 02.07.2014, a firma del Dirigente
del Settore Servizi al Territorio, il Comune di Cinisello
Balsamo (MI), ingiungeva alla società F.E. Srl quale
proprietaria e all’associazione “Comunità Islamica di
Cinisello Balsamo” quale locataria (di seguito, per
brevità, anche solo “associazione”), il ripristino
dello stato dei luoghi e della destinazione d’uso assentita,
con riguardo ad abusi edilizi che sarebbero stati commessi
sull’immobile sito in via ... n. 11.
Contro l’ordinanza succitata era proposto il presente
ricorso, con domanda di sospensiva, per i motivi che possono
così essere sintetizzati:
1) carenza di istruttoria in merito alla ritenuta
sussistenza del mutamento della destinazione d’uso da
industriale a luogo di culto;
2) violazione dell’art. 19 della Costituzione e violazione e
falsa applicazione dell’art. 52, comma 3-bis, della LR
12/2005;
3) eccesso di potere sotto il profilo del travisamento dei
fatti in merito alla ritenuta sussistenza del mutamento di
destinazione d’uso da industriale e luogo di culto,
violazione dell’art. 70, comma 2, e 71 della LR 12/2005;
4) eccesso di potere per manifesta illogicità della
motivazione, difetto assoluto di motivazione in merito alla
correlazione tra il presunto mutamento della destinazione
d’uso a luogo di culto e la non realizzazione della rampa
interna di accesso al piano rialzato o il frazionamento
immobiliare dell’originario edificio, difetto di istruttoria
e travisamento dei fatti, violazione e falsa applicazione
dell’art. 33 del DPR 380/2001;
5) eccesso di potere per difetto di motivazione e omessa
istruttoria, violazione degli articoli 2 e 18 della
Costituzione.
Si costituiva in giudizio il Comune intimato, concludendo
per il rigetto del gravame.
...
DIRITTO
1. Nel provvedimento impugnato (cfr. il doc. 1 della
ricorrente e del resistente), il Comune di Cinisello Balsamo
ordina il ripristino dello stato dei luoghi del capannone di
via ... n. 11, sulla base del seguente percorso
argomentativo:
- la destinazione attuale dell’immobile è ancora quella di
laboratorio industriale;
- all’interno sono stati realizzati una serie di interventi
edilizi (modifica dei locali al piano rialzato e
frazionamento degli uffici al primo e secondo piano);
- nell’immobile si svolge attività di culto o, in ogni caso,
attività propria di un’associazione di carattere culturale,
comunque non compatibile con la destinazione industriale.
Nell’ordinanza cautelare di primo grado n. 40/2015, la
scrivente Sezione II aveva evidenziato che l’utilizzo
attuale dell’immobile (luogo di culto o associazione
culturale che fosse), non è in ogni modo compatibile con la
suddetta destinazione d’uso industriale.
In sede di appello cautelare, il Consiglio di Stato ha
disposto la fissazione dell’udienza pubblica in primo grado,
con sollecitazione al TAR ad approfondire le questioni
sull’accertamento dell’attività effettivamente svolta nei
locali in questione.
1.1 Nel primo motivo di ricorso, si denuncia il presunto
difetto di istruttoria in cui sarebbe incorsa
l’Amministrazione comunale, che non avrebbe accertato
l’effettivo svolgimento dell’attività di culto, posto che
l’associazione ricorrente (così testualmente nel gravame),
non avrebbe finalità religiose né svolgerebbe attività di
culto.
Sull’attività istruttoria svolta dal Comune, preme rilevare
che il 15 e il 25.04.2014 erano effettuati due distinti
sopralluoghi, nel corso dei quali era accertata l’avvenuta
esecuzione, senza titolo edilizio, di taluni interventi, fra
i quali la modifica dei locali al piano rialzato e il
frazionamento degli uffici posti al primo e al secondo
piano, che diventano in tal modo un’unità immobiliare
autonoma (cfr. i documenti 4 e 5 della ricorrente, oltre ai
documenti dal n. 2 al n. 5 del resistente).
In data 18.04.2014, la Polizia Locale effettuava un accesso
ai locali, interpellando alcune persone ivi presenti, le
quali confermavano l’avvio di lavori per la predisposizione
di un “centro culturale”, oltre che l’effettuazione
della preghiera settimanale verso le ore 13.30 (cfr. il doc.
2 del resistente).
Nel corso di un successivo sopralluogo del 25.04.2014 (cfr.
il doc. 3 del resistente), all’interno del capannone erano
rinvenute un centinaio di persone intenti alla preghiera,
mentre da un piccolo palco erano recitate preghiere.
Si evidenzia che, in tale occasione, il vicepresidente
dell’associazione riferiva di avere presentato all’ufficio
tecnico la documentazione per il cambio d’uso (circostanza
questa che non trova però riscontro presso gli uffici
comunali).
Le conclusioni dell’attività istruttoria svolta dagli uffici
sono riassunte nella scheda di controllo sull’attività
urbanistico edilizia, prodotta dal resistente quale suo doc.
5.
Ciò premesso, appare in ogni modo fuori discussione che
all’interno dello stabile di via Frisia viene svolta
un’attività (che sia o no di culto poco rileva, come meglio
sarà precisato), che comporta un notevole afflusso di
persone e che non appare in ogni modo compatibile con la
destinazione d’uso attuale, cioè –giova ricordarlo– a
laboratorio industriale.
La stessa associazione ricorrente, infatti, ammette di
svolgere attività di carattere culturale e ricreativo, come
si desume sia dallo Statuto (cfr. il doc. 1 della
ricorrente) sia dalla rassegna fotografica (cfr. il doc. 2
della ricorrente), che attesta nei locali la presenza di
numerose persone –fra cui anche molti bambini– intenti ad
attività ricreative o scolastiche.
Lo svolgimento dell’attività propria di un’associazione
culturale –di carattere ricreativo o formativo, non
disgiunto magari da momenti di preghiera– non appare
compatibile con la destinazione a laboratorio industriale
propria dei locali di cui è causa.
L’art. 23-bis del DPR 380/2001 individua una serie di
categorie funzionali autonome e il passaggio dall’una
all’altra –anche senza opere edilizie– configura un
mutamento di destinazione d’uso rilevante sotto il profilo
urbanistico.
Orbene, la categoria “produttiva e direzionale” di
cui alla lettera b) del comma 1 dell’articolo citato, nella
quale può comprendersi quella a laboratorio industriale, non
può consentire attività culturali e formative –in senso
lato– che l’associazione asserisce di svolgere.
Anche prima del citato art. 23-bis, del resto, sulla
questione del mutamento di destinazione d’uso fra categorie
urbanistiche autonome, la giurisprudenza della scrivente
Sezione II, a partire dalla sentenza 27.05.2009, n. 3859,
fino alle più recenti decisioni (cfr. TAR Lombardia, Milano,
sez. II, n. 534 e n. 535, entrambe del 26.02.2013, oltre a
quella del 18.04.2013, n. 971 ed a quella del 22.10.2014, n.
2527), ha ribadito la rilevanza sotto il profilo urbanistico
di tale mutamento, che se realizzato senza idoneo titolo
edilizio deve senza dubbio reputarsi contra legem.
A tali pronunce, si aggiungano:
- Consiglio di Stato, sez. IV, 30.09.2014, n. 4483, che
subordina al pagamento del contributo i cambi di
destinazione d’uso –anche senza opere edilizie– fra le
distinte categorie di cui ai commi primo e secondo dell’art.
19 del DPR 380/2001 (rispettivamente industriali e
artigianali da una parte e turistiche, commerciali,
direzionali o per servizi dall’altra);
- Consiglio di Stato, sez. VI, 18.04.2013, n. 2153; TAR
Lazio, sez. I-quater, 04.10.2012, n. 8297 e TAR Campania,
Napoli, sez. VII, 12.07.2012, n. 3382, per la quale il
cambio di destinazione d’uso che comporta un aumento di
superficie anche in conseguenza della trasformazione da non
residenziale a residenziale, è soggetto a permesso di
costruire; oltre a TAR Lombardia, Brescia, sez. I,
06.05.2014, n. 468, per la quale la manutenzione
straordinaria è attività limitata al rinnovamento ed alla
sostituzione di parti dell’edificio, mentre in caso di
trasformazione dell’immobile con incremento del carico
urbanistico la figura corretta per l’inquadramento
dell’attività edilizia è quella della ristrutturazione, con
necessità del relativo titolo.
Di conseguenza, appare incontestato l’avvenuto mutamento di
destinazione d’uso, da quello industriale ad altro di
carattere culturale e ricreativo (poco importa se
accompagnato da momenti di preghiera da parte di chi accede
ai locali).
Le doglianze contenute nel primo mezzo di gravame devono
quindi rigettarsi.
1.2 Nel secondo mezzo, la ricorrente afferma nuovamente di
non svolgere attività di culto, evidenziando che eventuali
manifestazioni occasionali di preghiera non consentono di
qualificare il locale come adibito al culto islamico.
Anche tale censura è però priva di pregio: quel che rileva
nella presente fattispecie è che i locali di cui è causa
–che dovrebbero essere impiegati esclusivamente a
laboratorio industriale– sono invece caratterizzati da un
notevole afflusso di persone svolgenti attività sicuramente
varie (incontri, mostre, lezioni di lingua araba e italiana
e anche eventuali occasioni di preghiera), ma in ogni modo
non riconducibili, neppure con il più ampio sforzo,
all’attività industriale e produttiva.
A questo punto, il richiamo ai principi costituzionali sulla
libertà religiosa non appare pertinente, in quanto –lo si
ripete nuovamente– non è certamente in discussione la
libertà religiosa della comunità mussulmana di Cinisello
Balsamo, come quella di altre comunità, ma si impone
esclusivamente il rispetto della destinazione d’uso
urbanistica dei locali.
1.3 Le considerazioni sopra svolte ai punti 1.1 e 1.2
possono essere estese anche al terzo motivo, nel quale la
ricorrente ribadisce ancora, richiamando gli articoli 70 e
71 della LR 12/2005, di non svolgere attività di culto
islamico
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 17.02.2016 n. 344 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA - PATRIMONIO:
B.U.R. Lombardia, supplemento n. 9 del 04.03.2016, "Regolamento
per il funzionamento della Banca della Terra Lombarda" (regolamento
regionale 01.03.2016 n. 4). |
ATTI
AMMINISTRATIVI -
CONSIGLIERI COMUNALI -
EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Decreti attuativi Legge Madia e note Anci ai provvedimenti
(01.03.2016 - link a www.anci.it). |
QUESITI & PARERI |
PUBBLICO IMPIEGO:
Il procedimento disciplinare.
DOMANDA:
Un procedimento disciplinare -attivato dal Dirigente della
struttura ove presta servizio il dipendente che ha commesso
l'infrazione- è giunto alla seguente fase: verbalizzazione
del contraddittorio a difesa, con deposito di memorie
difensive.
Il dirigente trasmette –entro 5 gg. dall'audizione del
dipendente- tutto il fascicolo del procedimento all'U.P.D.
perché ritiene il fatto più grave di quello inizialmente
valutato.
E' corretto l'iter seguito dal dirigente? Se la risposta
fosse affermativa, l'U.P.D., insediatosi tempestivamente,
quali termini deve osservare per concludere il procedimento?
Quelli raddoppiati previsti dall'art. 55-bis D.Lgs.
165/2001? Ovvero 40 gg. per effettuare una nuova
contestazione d'addebito e 120 gg. per terminare l'iter?
RISPOSTA:
La competenza ad attivare e gestire il procedimento
disciplinare, senza indugio, e comunque non oltre 20 giorni
dalla notizia, mediante contestazione scritta dell’addebito
al dipendente, spetta al dirigente del settore presso cui
lavora il dipendente sottoposto a procedimento disciplinare,
laddove si tratti di decidere sulle infrazioni meno gravi,
per le quali è prevista l’irrogazione di sanzioni superiori
al rimprovero verbale ed inferiori alla sospensione dal
servizio con privazione della retribuzione per più di 10
giorni.
Il dirigente procede alla convocazione del dipendente per il
contraddittorio, con un preavviso di almeno 10 giorni. Dopo
l’espletamento dell’eventuale ulteriore attività
istruttoria, il responsabile del settore conclude il
procedimento con atto di archiviazione o irrogazione della
sanzione, entro 60 giorni dalla contestazione dell’addebito.
L’UPD è competente per le infrazioni più gravi di quelle che
rientrano nella competenza del dirigente. In queste
fattispecie, il dirigente dovrebbe attivare il procedimento
disciplinare direttamente presso l’UPD, trasmettendo gli
atti, corredati da una dettagliata relazione, entro 5 giorni
dalla notizia del fatto e dandone contestuale comunicazione
all’interessato.
L’Ufficio, ricevuti gli atti trasmessi dal dirigente
competente o altrimenti acquisita notizia dell’infrazione,
contesta l’addebito al dipendente, lo convoca per il
contraddittorio a sua difesa, istruisce e conclude il
procedimento nei termini sopra indicati ma raddoppiati, e
salva l’eventuale sospensione ai sensi dell’art. 55-ter del
D.Lgs 165/2001 e s.m.i. laddove sia pendente un procedimento
penale. Nel caso di specie, in cui la maggiore gravità
dell'infrazione è emersa in sede istruttoria, correttamente
il dirigente ha trasmesso gli atti al competente ufficio,
nel termine di 5 giorni dall'audizione del dipendente, ossia
dalla scoperta della maggiore gravità del fatto.
La data di decorrenza dei termini -raddoppiati- per la
conclusione del procedimento resta sempre fissata alla data
di prima acquisizione della notizia dell’infrazione anche se
avvenuta da parte del responsabile della struttura in cui il
dipendente lavora. La violazione di detti termini comporta,
per l’Amministrazione, la decadenza dall’azione disciplinare
(link a www.ancirisponde.ancitel.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Violazione
del segreto d'ufficio da parte del Consigliere Comunale.
IL CASO: un consigliere comunale
formulava istanza di accesso ad un contratto di mutuo
stipulato dall'amministrazione per il finanziamento di
un'opera pubblica.
Il contratto, tuttavia, veniva poi ceduto dal consigliere ad
un cittadino che, dopo avere raccolto altri documenti
pubblicati sul sito del Comune presentava un esposto alla
Corte dei Conti.
Nel caso di specie, è ravvisabile un comportamento
sussumibile nella fattispecie penale della violazione del
segreto d'ufficio di cui all'art. 326 c.p.?
(Risponde l'Avv. Guido Paratico)
L'accesso agli atti dei consiglieri comunali, è disciplinata
dall'art. 43 del D.lgs. 267/2000 che al comma 2 così
dispone: "2. I consiglieri comunali e provinciali hanno
diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente, del
comune e della provincia, nonché dalle loro aziende ed enti
dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro
possesso, utili all'espletamento del proprio mandato. Essi
sono tenuti al segreto nei casi specificamente determinati
dalla legge".
Posto, quindi, che non vi è alcun dubbio sul diritto del
consigliere di minoranza ad avere accesso agli atti per
l'espletamento del proprio mandato (e tra questi anche il
contratto di mutuo), diverso è l'utilizzo che il Consigliere
può fare di tali atti.
In primo luogo, infatti, è necessario valutare se su tali
atti sussista un "segreto" imposto dalla legge, che
ne vieta tout court la divulgazione, come disposto
dall'ultimo periodo del comma 2 sopra riportato.
Vi è ad esempio un divieto di divulgazione per quegli atti
che incidono sulla sfera giuridica e soggettiva di terzi. Ma
non risulta ricorrere tale fattispecie nel caso prospettato.
Più in generale, la segretezza degli atti in generale è
disciplinata dall'art. 24 della L. 241/1990, nella quale
vengono elencate le fattispecie che determinano il divieto
di accesso agli atti. Nel caso di specie, non ricorrono
segreti che impediscano l'accesso agli atti, tuttavia, sotto
diverso profilo, deve osservarsi che nel caso di specie,
come evidenziato, il cittadino non avrebbe potuto,
autonomamente, ottenere l'accesso al contratto di mutuo, non
profilandosi un interesse diretto e concreto all'accesso.
Ebbene, su tale tipo di condotta si è espressa la
giurisprudenza della Corte di Cassazione, (Sez. VI, n. 30148
del 23.04.2007), che ha stabilito che "il delitto di
rivelazione di segreti d'ufficio ha come fondamento
giuridico il dovere del pubblico dipendente di non divulgare
notizie delle quali sia venuto a conoscenza nell'esercizio
delle funzioni pubbliche sino a quando la loro diffusione
non sia legittimamente ammessa e non soltanto le notizie
sottratte in ogni tempo e nei confronti di chiunque alla
divulgazione".
La Suprema Corte conclude che "non può che essere,
dunque, riaffermato il principio secondo cui il divieto di
divulgazione comprende non soltanto informazioni sottratte
all'accesso, ma anche, nell'ambito delle notizie
accessibili, quelle informazioni che non possono essere date
alle persone che non hanno il diritto di riceverle, sia
quelle svelate a soggetti non titolari del diritto di
accesso o senza il rispetto delle modalità previste"
(principio ribadito da Cass. Pen. Sez. V, con sentenza n.
15950 del 15.01.2015).
Ebbene, proprio la condotta descritta sembra attagliarsi al
caso di specie. Pertanto, si potrebbe configurare, in capo
al consigliere, l'ipotesi delittuosa della violazione del
segreto d'ufficio di cui all'art. 326 c.p. Ricorrerebbero,
infatti, sia l'elemento soggettivo (in quanto il consigliere
comunale riveste anche la carica di pubblico ufficiale) sia
l'elemento oggettivo (ovvero la condotta, come sopra
descritta) (tratto
dalla newsletter 02.03.2016 n. 139 di http://asmecomm.it). |
GIURISPRUDENZA |
APPALTI:
Non è sufficiente a radicare la giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo l'autovincolo a seguire
le regole di pubblica evidenza da parte di un soggetto che
non vi sarebbe tenuto.
---------------
I soggetti tenuti ad applicare le norme della pubblica
evidenza sono individuati dall'art. 32 del d.lgs. 12.04.2006
n. 163, cd. codice degli appalti.
Ai sensi dell'art. 133, c. 1, lett. e), n. 1, c.p.a., "Sono
devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo… le controversie… relative a procedure di
affidamento di pubblici lavori, servizi, forniture, svolte
da soggetti comunque tenuti, nella scelta del contraente o
del socio, all'applicazione della normativa comunitaria",
meglio detto europea," ovvero al rispetto dei procedimenti
di evidenza pubblica previsti dalla normativa statale o
regionale…".
Tuttavia, non è sufficiente a radicare la giurisdizione
esclusiva l'autovincolo a seguire le regole di pubblica
evidenza da parte di un soggetto che non vi sarebbe tenuto.
Quindi, nel caso di specie, qualsiasi affermazione di A2A
spa (società quotata in borsa, operante nel settore
dell'energia, la quale offre il proprio prodotto ai
consumatori in concorrenza con altre imprese del suo
settore) in tal senso, come l'impiego del frasario relativo
alle pubbliche gare, è irrilevante in merito.
A2A pertanto non è tenuta a seguire, nell'affidamento del
contratto per l'aggiudicazione dell'appalto relativo al
servizio sostitutivo di ristorazione aziendale per sé stessa
ed altre società del gruppo, alcuna procedura di pubblica
evidenza, e di conseguenza nemmeno deve accordare l'accesso
ai propri atti.
----------------
I soggetti tenuti ad applicare le norme della pubblica
evidenza sono individuati dall'art. 32 del d.lgs. 12.04.2006
n. 163, cd. codice degli appalti. Pertanto, perché
sussistesse la giurisdizione del G.A. sulla procedura di
affidamento del servizio sostitutivo di mensa, A2A dovrebbe
essere un organismo di diritto pubblico, o un'impresa
pubblica non volta al mercato, ovvero ancora un soggetto
attivo nei settori speciali.
A2A in primo luogo non è qualificabile organismo di diritto
pubblico, perché non costituita al fine di soddisfare
esigenze "aventi carattere non industriale o commerciale".
Come chiarito dalla giurisprudenza, esigenze siffatte sono
quelle che si soddisfano senza correre il rischio di impresa
e in modo diverso dall'offerta di un bene o servizio sul
mercato, quindi facendo salva l'influenza dominante del
soggetto pubblico. Sono requisiti all'evidenza opposti a
quelli propri della A2A, che, come notorio, è una società
quotata in borsa, la quale offre il proprio prodotto ai
consumatori in concorrenza con altre imprese del suo
settore.
In secondo luogo, A2A non è soggetta alla pubblica evidenza
nemmeno in base alla sua indubbia qualità di ente
aggiudicatore attivo nei settori speciali, che non rileva
nel servizio per cui è causa. In merito, il criterio è
quello delineato in termini generali da C.d.S. a.p.
01.08.2011 n. 16, per cui l'ente è obbligato a seguire la
pubblica evidenza, ed è soggetto alla giurisdizione
esclusiva del G.A. per affidare i contratti funzionali a
delineare il servizio; può invece agire in base alle comuni
regole civilistiche, ed è soggetto alla giurisdizione
ordinaria, per i contratti relativi ad attività generiche.
Si è anche precisato, in termini particolarmente rigorosi,
che il rapporto di funzionalità del contratto al settore
speciale, che radica la giurisdizione amministrativa- deve
risultare dalle norme, e quindi non da un apprezzamento
fondato sul senso comune.
In tali termini, è quindi escluso che l'affidamento di un
servizio sostitutivo di mensa, complementare a qualsiasi
tipo di attività, possa considerarsi in qualche modo
funzionale allo specifico settore energia in cui A2A opera.
In base ai principi elaborati dalla Corte di giustizia UE a
partire dalla nota 13.10.2005 C 458-03 Parking Brixen le
società in cui, sia presente capitale privato non possono
lecitamente essere destinatarie di affidamenti diretti, e lo
stesso secondo logica vale per le controllate, in ragione
del carattere del capitale della controllante (TAR
Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 01.03.2016 n. 314 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI SERVIZI:
Sulle procedure di affidamento di concessioni di
servizi.
Secondo un consolidato orientamento della giurisprudenza, ai
sensi dell'art. 30 del d.lgs. 12.04.2006 n. 163, la
procedura di affidamento di una concessione di servizi non è
soggetta alle norme contenute nella parte II dello stesso
codice; ed infatti, nel delineare l'ambito oggettivo e
soggettivo di applicazione delle suddette disposizioni il
cit. art. 30 stabilisce che le procedure di affidamento di
concessioni di servizi sono sottratte alla puntuale
disciplina del diritto comunitario e del codice dei
contratti pubblici, ed invece assoggettate ai principi
desumibili dal Trattato e i principi generali relativi ai
contratti pubblici e, in particolare, i principi di
trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione,
parità di trattamento, mutuo riconoscimento, proporzionalità
e tra i principi generali rientra quello del c.d. "soccorso
istruttorio" o, il che è lo stesso, della residualità
della esclusione per vizi formali.
Nel caso di specie, tale tesi è però ultronea, dal momento
che il reale contenuto dell'offerta era chiaramente
desumibile; non ci si trova al cospetto di alcun vero "soccorso",
né può dirsi che si era in presenza di un dubbio di
intelligibilità, o di una incompletezza della suddetta
dichiarazione negoziale.
L'eccesso di scrupolo della stazione appaltante (pur
lodevole) nel richiedere una dichiarazione confermativa non
può trasformarsi in una prova ex post della
inintelligibilità od incompletezza dell'offerta, elemento
quest'ultimo da valutarsi oggettivamente e, alla stregua di
tale parametro, palesemente insussistente (Consiglio di
Stato, Sez. III,
sentenza 28.02.2016 n. 859 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
La giurisprudenza di questo Consiglio ha
precisato che l’obbligo ripristinatorio ambientale (in
termini di bonifica) è trasmissibile agli eredi, trattandosi
di obblighi di natura patrimoniale.
Quanto agli obblighi di bonifica posto che è accertata anche
all’indomani dell’acquisizione in proprietà del bene da
parte degli odierni appellati l’attività di sversamento di
rifiuti nel fondo in questione, da un lato, è irrilevante la
circostanza che sia intervenuto un contratto di locazione
tra la società I... e Fr.Da., atteso che la giurisprudenza è
ferma nel riconoscere sia la responsabilità del proprietario
di un terreno sul quale siano depositati rifiuti, ai sensi
del D.Lgs. n. 22/1997, art. 14, comma 3, nel caso in cui il
terreno sia oggetto di un rapporto di locazione, sia la
responsabilità di qualunque soggetto che si trovi con l'area
interessata in un rapporto, anche di mero fatto, tale da
consentirgli -e per ciò stesso imporgli- di esercitare una
funzione di protezione e custodia finalizzata ad evitare che
l'area medesima possa essere adibita a discarica abusiva di
rifiuti nocivi per la salvaguardia dell'ambiente. Pertanto,
sia il proprietario locante, che colui che conduce in
locazione possono risultare responsabili per l’inquinamento
dei suoli.
Dall’altro, deve rinvenirsi una responsabilità in proprio in
capo agli aventi causa di Fr.Da., poiché il requisito della
colpa postulato dall’art. 14, d.lgs. 22/1997, ben può
consistere proprio nell'omissione degli accorgimenti e delle
cautele che l'ordinaria diligenza suggerisce per realizzare
un'efficace custodia e protezione dell'area, così impedendo
che possano essere in essa indebitamente depositati rifiuti
nocivi.
Nella fattispecie, infatti, gli atti amministrativi
acquisiti al fascicolo di causa danno atto del verificarsi
dei fenomeni di inquinamento nell’arco di oltre trent’anni e
della loro riconducibilità agli odierni appellati ed al loro
dante causa, che in alcun modo hanno impedito lo sversamento
dei rifiuti sui loro suoli, né hanno provveduto alla
rimozione degli stessi, non attivandosi per impedire che
l’attività di devastazione delle aree oggetto dell’ordinanza
impugnata proseguisse nel corso degli anni.
----------------
... per la riforma della sentenza del TAR LOMBARDIA–MILANO,
SEZIONE I, n. 5443/2004, resa tra le parti, concernente
bonifica località e ripristino ambientale.
...
9. Sono fondate, invece, le doglianze con la quale
l’amministrazione sostiene la legittimità dell’ordinanza
impugnata contenente l’obbligo di rimozione dei rifiuti e di
bonifica in capo agli odierni appellati.
Va precisato che la pronuncia della Corte di Giustizia, 04.03.2015, C-534/13 non contiene principi di diritto utili
ai fini della decisione della presente controversia.
Infatti, non solo si pronuncia su una disciplina europea, ratione temporis, non applicabile alla controversia in
esame, ma in ogni caso giunge a conclusioni non esportabili
alla vicenda de qua, dal momento che esclude l’addebitabilità
in capo al proprietario degli obblighi di bonifica e di
ripristino discendenti dalla mera qualifica di titolare di
un diritto reale sul bene.
Esclude, quindi, la compatibilità
comunitaria di una disciplina nazionale che preveda una
responsabilità oggettiva discendente dalla mera qualifica di
titolare di un diritto reale sul bene.
9.1. Appare opportuno, inoltre, precisare che questa Sezione
in altro contenzioso proposto da I.. S.r.l. per
ottenere la caducazione dell’ordinanza impugnata anche dagli
odierni appellati ha escluso con la pronuncia n. 5305/2014,
la ricorrenza delle censure di legittimità ivi denunciate.
Sempre questa Sezione con sentenza n. 1026/2009, ha respinto
il ricorso proposto dagli odierni appellati avverso
l’ordinanza n. 8/1997 del Sindaco del comune di Cerro al Lambro con la quale venivano disposti obblighi per la
bonifica ambientale delle aree di proprietà di quest’ultimi
sui mappali n. 57 e 59 del foglio 10 del comune di Cerro al
Lambro, prossime a quelle oggetto dell’ordinanza impugnata
con il ricorso di prime cure, così riformando la sentenza
del TAR Lombardia n. 760/2000.
9.2. Tanto premesso va chiarito che nella fattispecie in
esame, contrariamente a quanto affermato dal primo giudice,
sono ravvisabili elementi di imputazione in capo agli
originari ricorrenti degli obblighi di bonifica e di
ripristino discendenti dal loro comportamento colposo.
Innanzitutto, è utile precisare che la giurisprudenza di
questo Consiglio ha precisato che l’obbligo ripristinatorio
è trasmissibile agli eredi, trattandosi di obblighi di
natura patrimoniale (cfr. Cons. St., Sez. II, 06.03.2013,
n. 2417).
Quanto, invece, agli obblighi di bonifica posto
che è accertata anche all’indomani dell’acquisizione in
proprietà del bene da parte degli odierni appellati
l’attività di sversamento di rifiuti nel fondo in questione,
da un lato, è irrilevante la circostanza che sia intervenuto
un contratto di locazione tra la società I... e Fr.Da., atteso che la giurisprudenza è ferma nel
riconoscere sia la responsabilità del proprietario di un
terreno sul quale siano depositati rifiuti, ai sensi del
D.Lgs. n. 22/1997, art. 14, comma 3, nel caso in cui il
terreno sia oggetto di un rapporto di locazione (cfr. Cass.
civ. Sez. III, 22.03.2011, n. 6525), sia la
responsabilità di qualunque soggetto che si trovi con l'area
interessata in un rapporto, anche di mero fatto, tale da
consentirgli -e per ciò stesso imporgli- di esercitare una
funzione di protezione e custodia finalizzata ad evitare che
l'area medesima possa essere adibita a discarica abusiva di
rifiuti nocivi per la salvaguardia dell'ambiente. Pertanto,
sia il proprietario locante, che colui che conduce in
locazione possono risultare responsabili per l’inquinamento
dei suoli.
Dall’altro, deve rinvenirsi una responsabilità in
proprio in capo agli aventi causa di Fr.Da.,
poiché il requisito della colpa postulato dall’art. 14,
d.lgs. 22/1997, ben può consistere proprio nell'omissione
degli accorgimenti e delle cautele che l'ordinaria diligenza
suggerisce per realizzare un'efficace custodia e protezione
dell'area, così impedendo che possano essere in essa
indebitamente depositati rifiuti nocivi (cfr. Cass., Sez.
Un., 25.02.2009, n. 4472; Cons. Stato Sez. V, 16.07.2010, n. 4614).
Nella fattispecie, infatti, gli atti
amministrativi acquisiti al fascicolo di causa danno atto
del verificarsi dei fenomeni di inquinamento nell’arco di
oltre trent’anni e della loro riconducibilità agli odierni
appellati ed al loro dante causa, che in alcun modo hanno
impedito lo sversamento dei rifiuti sui loro suoli, né hanno
provveduto alla rimozione degli stessi, non attivandosi per
impedire che l’attività di devastazione delle aree oggetto
dell’ordinanza impugnata proseguisse nel corso degli anni.
10. L’odierno appello deve, quindi, essere accolto con ciò
che ne consegue in termini di riforma della sentenza
impugnata e di reiezione del ricorso di primo grado
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 25.02.2016 n. 765 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Ricorso giurisdizionale al Capo dello Stato.
Inammissibile è la richiesta di risarcimento del danno
avanzata, con riferimento al comportamento asseritamente
dilatorio del Comune, laddove la stessa risulta estranea
alla particolare natura impugnatoria del rimedio e,
pertanto, inammissibile e potrà essere eventualmente fatta
valere in altra sede.
Il ricorso straordinario, infatti, mantiene la sua natura
prettamente e tipicamente impugnatoria, quale rimedio
giustiziale di ordine generale nei confronti degli atti
amministrativi definitivi, alternativo all'ordinaria azione
di annullamento davanti al giudice amministrativo, che mira
ad offrire una tutela destinata ad esplicitarsi in una
decisione costitutiva di annullamento, cioè di rimozione,
postuma e riparatoria rispetto all’azione amministrativa, di
un provvedimento definitivo di cui viene accertata la
contrarietà all'ordine giuridico.
---------------
Inammissibile
è la richiesta di risarcimento del danno avanzata dalle
ricorrenti, con riferimento al comportamento asseritamente
dilatorio del Comune.
Come più volte evidenziato, tali pretese sono estranee alla
particolare natura impugnatoria del rimedio e, pertanto,
inammissibili (Consiglio di Stato, Sez. II, 01.07.2015,
n. 1393/2011; Sez. II, 19.11.2014, n. 1842/2013;
Sez. III, 10.03.2010, n. 3255; Sez. I, 29.09.2004,
n. 1184/04; Sez. I, 06.03.2002, n. 492/02) e potranno
essere eventualmente fatte valere in altra sede.
Il ricorso
straordinario, infatti, mantiene la sua natura prettamente e
tipicamente impugnatoria, quale rimedio giustiziale di
ordine generale nei confronti degli atti amministrativi
definitivi, alternativo all'ordinaria azione di annullamento
davanti al giudice amministrativo, che mira ad offrire una
tutela destinata ad esplicitarsi in una decisione
costitutiva di annullamento, cioè di rimozione, postuma e
riparatoria rispetto all’azione amministrativa, di un
provvedimento definitivo di cui viene accertata la
contrarietà all'ordine giuridico (Consiglio di Stato, Sez.
II, 18.06.1997, n. 521/97; 05.11.1997, n. 2647/96)
(Consiglio di Stato, Sez. II,
parere 25.02.2016 n. 523 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Gli interventi, consistenti nella realizzazione
di tettoie e di altre strutture non comprese entro coperture
volumetriche previste in un progetto assentito, possono
ritenersi sottratte al regime del permesso di costruire
soltanto ove la loro conformazione e le loro ridotte
dimensioni rendono evidente e riconoscibile la loro finalità
di semplice decoro o arredi o di riparo e protezione (anche
da agenti atmosferici) della parte dell’immobile cui
eventualmente accedono. Tali strutture non possono,
viceversa, ritenersi installabili senza permesso di
costruire, allorquando le loro dimensioni sono di entità
tali da arrecare una visibile alterazione dello stato dei
luoghi.
---------------
È incontestata, in vicenda, l’assenza di titolo abilitativo
e la consistenza degli abusi edilizi, a nulla rilevando, ai
fini della qualificazione dell'abuso, il carattere precario
o temporaneo dei manufatti eseguiti, con riferimento ai
quali, peraltro, non viene allegata documentazione tecnica
comprovante tale asserita precarietà.
Assume, invece, significato la perdurante modificazione
strutturale e funzionale dello stato dei luoghi, nella
specie, peraltro, in zona di vincolo, atteso che il
manufatto è finalizzato all’uso costante (ricovero di
attrezzature edili) proprio di un'attività imprenditoriale.
Peraltro, la giurisprudenza amministrativa è da tempo
consolidata nel ritenere che la precarietà di un manufatto,
che ne giustificherebbe il non assoggettamento a permesso di
costruire per ogni attività comportante la trasformazione
urbanistica del territorio, non dipende dai materiali
utilizzati o dai sistemi di ancoraggio al suolo, bensì dalla
obiettiva ed intrinseca destinazione naturale dell’opera.
---------------
Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica
proposto da RI.Do., RI.Ma., RI.Ar.,
RI.Ma., per l’annullamento, previa sospensiva,
dell’ordinanza del Comune di San Sebastiano al Vesuvio (NA)
n. 39 del 01.06.2010, con cui è stata ingiunta ai ricorrenti,
in qualità di proprietari del terreno, la demolizione delle
opere abusive rilevate presso tale terreno, nonché (con
ulteriore ricorso straordinario) del verbale di accertamento
di ottemperanza all’ordinanza di demolizione impugnata,
elevata dalla Polizia Municipale dello stesso Comune, prot.
n. 1372 del 14.10.2010 .
...
Il ricorsi sono infondati.
Come emerge dalla descrizione dell’abuso sanzionato, nella
specie non si è trattato di un intervento di modeste
dimensioni, ma di un manufatto in muratura di circa 36 mq ad
uso ufficio, con copertura in lamiere coibentate ed attigua
tettoia poggiante su pilastrini in ferro, per una superficie
di circa 115 mq.
In proposito, è stato rilevato in giurisprudenza che gli
interventi, consistenti nella realizzazione di tettoie e di
altre strutture non comprese entro coperture volumetriche
previste in un progetto assentito, possono ritenersi
sottratte al regime del permesso di costruire soltanto ove
la loro conformazione e le loro ridotte dimensioni rendono
evidente e riconoscibile la loro finalità di semplice decoro
o arredi o di riparo e protezione (anche da agenti
atmosferici) della parte dell’immobile cui eventualmente
accedono. Tali strutture non possono, viceversa, ritenersi
installabili senza permesso di costruire, allorquando le
loro dimensioni sono di entità tali da arrecare una visibile
alterazione dello stato dei luoghi (Consiglio di Stato, Sez.
V, 13.03.2001, n. 1442).
È incontestata, in vicenda, l’assenza di titolo abilitativo
e la consistenza degli abusi edilizi, a nulla rilevando, ai
fini della qualificazione dell'abuso, il carattere precario
o temporaneo dei manufatti eseguiti, con riferimento ai
quali, peraltro, non viene allegata documentazione tecnica
comprovante tale asserita precarietà. Assume, invece,
significato la perdurante modificazione strutturale e
funzionale dello stato dei luoghi, nella specie, peraltro,
in zona di vincolo, atteso che il manufatto è finalizzato
all’uso costante (ricovero di attrezzature edili) proprio di
un'attività imprenditoriale (Consiglio di Stato, Sez. I, 10.04.2013, n. 666/2013).
Peraltro, la giurisprudenza
amministrativa è da tempo consolidata nel ritenere che la
precarietà di un manufatto, che ne giustificherebbe il non
assoggettamento a permesso di costruire per ogni attività
comportante la trasformazione urbanistica del territorio,
non dipende dai materiali utilizzati o dai sistemi di
ancoraggio al suolo, bensì dalla obiettiva ed intrinseca
destinazione naturale dell’opera (Cons. St., Sez. IV, 02.10.2012, n. 5183; Sez. III, 12.09.2012, n. 4850;
Sez. V, 20.12.1999, n. 2125)
(Consiglio di Stato, Sez. II,
parere 25.02.2016 n. 522 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Anche a voler prescindere dal rilievo che
l'eventuale elevata urbanizzazione dell'area non farebbe,
comunque, venir meno la necessità di acquisire
preventivamente i titoli abilitativi normativamente
richiesti per procedere alla realizzazione dell'intervento
edilizio de quo- la Sezione rileva che, in base ad una
consolidata giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, “la
già intervenuta compromissione dei valori paesaggistici ad
opera di interventi edilizi precedenti, anche ove fosse in
fatto dimostrata, sarebbe certamente non decisiva sul piano
giuridico; anzi, una situazione paesisticamente compromessa
ad opera di preesistenti realizzazioni, … richiede per la
legittimità dell'azione amministrativa che nuove costruzioni
non deturpino esteriormente l'ambito protetto”.
---------------
L’art. 9 Legge 28.02.1985 n. 47 (ndr. oggi art. 33 del
D.P.R. 380/2001) stabilisce che per gli interventi di
ristrutturazione edilizia eseguiti in assenza di concessione
la sanzione pecuniaria va applicata solo se non sia
possibile il ripristino dei luoghi; pertanto, legittimamente
il sindaco ordina la demolizione di opere abusive anziché
irrogare, per esse, una sanzione pecuniaria”.
---------------
La contestata ordinanza di demolizione costituisce atto
necessario della procedura sanzionatoria, ossia un atto
dovuto e rigidamente vincolato, non implicante valutazioni
discrezionali, e consequenziale all'accertata abusività
della costruzione, motivo per cui non deve essere
necessariamente preceduta dall'avviso dell'avvio del
procedimento, e non esige una specifica e puntuale
motivazione, bastando l'indicazione dell'abusività
dell'opera edilizia, e ciò anche senza considerare che
l'atto impugnato è esaustivamente motivato, perché ha
indicato tutti i presupposti di fatto su cui si fonda,
oltre, sia pure genericamente, la normativa applicata.
---------------
Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica
proposto da RI.Do., RI.Ma., RI.Ar.,
RI.Ma., per l’annullamento, previa sospensiva,
dell’ordinanza del Comune di San Sebastiano al Vesuvio (NA)
n. 39 del 01.06.2010, con cui è stata ingiunta ai ricorrenti,
in qualità di proprietari del terreno, la demolizione delle
opere abusive rilevate presso tale terreno, nonché (con
ulteriore ricorso straordinario) del verbale di accertamento
di ottemperanza all’ordinanza di demolizione impugnata,
elevata dalla Polizia Municipale dello stesso Comune, prot.
n. 1372 del 14.10.2010 .
...
Analogamente, risulta priva di pregio la censura con la
quale i ricorrenti hanno lamentato la circostanza che il
manufatto in esame ricadrebbe in un'area già caratterizzata
da molteplici insediamenti abitativi.
Infatti -anche a voler prescindere dal rilievo che
l'eventuale elevata urbanizzazione dell'area non farebbe,
comunque, venir meno la necessità di acquisire
preventivamente i titoli abilitativi normativamente
richiesti per procedere alla realizzazione dell'intervento
edilizio de quo- la Sezione rileva che, in base ad una
consolidata giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, “la
già intervenuta compromissione dei valori paesaggistici ad
opera di interventi edilizi precedenti, anche ove fosse in
fatto dimostrata, sarebbe certamente non decisiva sul piano
giuridico; anzi, una situazione paesisticamente compromessa
ad opera di preesistenti realizzazioni, … richiede per la
legittimità dell'azione amministrativa che nuove costruzioni
non deturpino esteriormente l'ambito protetto” (Cons. Stato,
Sez. VI, 06.05.2013, n. 2410).
Con riferimento alla asserita sproporzione della sanzione
demolitoria (che, secondo i ricorrenti, rappresenterebbe un
onere eccessivo rispetto alla possibilità di applicare una
sanzione pecuniara), anche in tale direzione le censure
degli interessati si palesano infondate, giacché “l’art.
9 Legge 28.02.1985 n. 47 (ndr. oggi art. 33 del D.P.R.
380/2001) stabilisce che per gli interventi di
ristrutturazione edilizia eseguiti in assenza di concessione
la sanzione pecuniaria va applicata solo se non sia
possibile il ripristino dei luoghi; pertanto, legittimamente
il sindaco ordina la demolizione di opere abusive anziché
irrogare, per esse, una sanzione pecuniaria” (Consiglio
di Stato, Sez. II, 01.06.1994, n. 541, vds. anche Sez.
II, 17.04.2013 n. 2192/2011).
Non appare fondata, inoltre, l’asserita carenza
motivazionale, atteso che la contestata ordinanza di
demolizione costituisce atto necessario della procedura
sanzionatoria, ossia un atto dovuto e rigidamente vincolato,
non implicante valutazioni discrezionali, e consequenziale
all'accertata abusività della costruzione, motivo per cui
non deve essere necessariamente preceduta dall'avviso
dell'avvio del procedimento, e non esige una specifica e
puntuale motivazione, bastando l'indicazione dell'abusività
dell'opera edilizia (Cons. di Stato, Sez. VI, 24.09.2010, n. 7129), e ciò anche senza considerare che l'atto
impugnato è esaustivamente motivato, perché ha indicato
tutti i presupposti di fatto su cui si fonda, oltre, sia
pure genericamente, la normativa applicata
(Consiglio di Stato, Sez. II,
parere 25.02.2016 n. 522 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Le sanzioni ripristinatorie e demolitorie hanno
carattere reale e prescindono pertanto dalla responsabilità
del proprietario o dell’occupante l’immobile, sicché
l’estraneità agli abusi edilizi assume rilievo sotto altro
profilo (ad esempio, è esclusa a carico del proprietario
incolpevole l’acquisizione gratuita del bene al patrimonio
comunale).
L’ordinanza impugnata, peraltro, è stata notificata anche al
proprietario dei locali, sicché nulla vieta che sia
quest’ultimo a dare esecuzione al provvedimento, né
all’associazione conduttrice sono precluse azioni in sede
civile per la tutela della propria posizione nei confronti
del proprietario o di altri soggetti.
---------------
1.4 Nel quarto mezzo di gravame, l’esponente evidenzia di
non avere mai realizzato opere edilizie all’intero del
locale di via ... e di occupare soltanto il piano terra
dell’immobile, non avendo invece la disponibilità del primo
e del secondo piano.
Sul punto, preme però rilevare che, come insegna costante
giurisprudenza, le sanzioni ripristinatorie e demolitorie
hanno carattere reale e prescindono pertanto dalla
responsabilità del proprietario o dell’occupante l’immobile
(cfr., fra le più recenti, Cassazione Penale, sez. III,
15.12.2015, n. 49331), sicché l’estraneità agli abusi
edilizi assume rilievo sotto altro profilo (ad esempio, è
esclusa a carico del proprietario incolpevole l’acquisizione
gratuita del bene al patrimonio comunale, cfr. Corte
Costituzionale n. 345/1991).
L’ordinanza impugnata, peraltro, è stata notificata anche al
proprietario dei locali, sicché nulla vieta che sia
quest’ultimo a dare esecuzione al provvedimento, né
all’associazione conduttrice sono precluse azioni in sede
civile per la tutela della propria posizione nei confronti
del proprietario o di altri soggetti
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 17.02.2016 n. 344 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Nei concorsi pubblici i titoli di preferenza relativi ai
figli a carico devono essere valutati prima del criterio
della minore età previsto dall'articolo 3 della legge
127/1997, che è residuale rispetto a quelli di carattere
generale.
Per la giurisprudenza consolidata di
questo Consiglio, l'art. 5, comma 5, del d.P.R. n. 487 del
1994, si deve intendere solo parzialmente abrogato (per
incompatibilità sopravvenuta) dall'art. 3, comma 7, L. n.
127 del 1997, modificato dall'art. 2, L. n. 191 del 1998,
nella misura in cui introduce un criterio opposto rispetto
alla disciplina previgente della prevalenza del candidato di
minore e non più di maggiore età.
Tale legge non ha però disposto un’abrogazione totale della
precedente disciplina, come chiarito anche dalla Corte
Costituzionale, che, con l’ordinanza n. 268 del 2001, ha
dichiarato la manifesta infondatezza della questione di
legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 7, l. n. 127
del 1997, come modificato dall'art. 2, comma 9, l. n. 191
del 1998, censurato, per violazione del principio di
ragionevolezza di cui all'art. 3 cost., in quanto sarebbe
stato capovolto, senza un'adeguata giustificazione, un
criterio "fondamentale nei pubblici concorsi" quale quello
della preferenza, a parità di altri titoli, accordata al
candidato con la maggiore età.
Pertanto, nei concorsi pubblici, i titoli di preferenza di
cui all'art. 5, c. 4, del D.P.R. n. 487 del 1994 (nella
specie, figli a carico) devono essere valutati prima del
criterio della minore età, ex art. 3, legge n. 127 del 1997.
Quest'ultimo rappresenta un elemento preferenziale nel
reclutamento nel pubblico impiego soltanto in via residuale,
ossia nei casi di parità dopo la valutazione del merito e
dei titoli di preferenza indicati nel citato c. 4 dell'art.
5.
---------------
... per la
riforma della sentenza del TAR Piemonte, Sez. II, n.
3840/2009, resa tra le parti, concernente un avviso di
procedura di progressione verticale a n. 25 posti nel
profilo specifico di responsabile contabile cat. d1.
...
6. L’appello è parzialmente fondato e va accolto nei limiti
di seguito indicati.
7. Occorre, innanzitutto ricostruire la disciplina operante
nella presente fattispecie.
7.1. In punto di fatto, va premesso che l’appellante –in
quanto padre di un bambino– ha chiesto in sede
amministrativa che si tenga conto del criterio di preferenza
discendente da questa situazione di fatto e che, dunque, non
rilevava in concreto la sua età maggiore, rispetto a quella
della controinteressata in primo grado (collocata dal Comune
al 25° posto in graduatoria, perché più giovane), a parità
di punteggio.
7.2. Ciò posto, ritiene la Sezione che l’Amministrazione
avrebbe dovuto applicare la normativa legislativa statale e
quella regolamentare comunale, secondo la quale il criterio
dell’età è residuale, rispetto ai criteri di preferenza di
carattere generale (tra cui, quello di risultare genitore).
Per la giurisprudenza consolidata di questo Consiglio (Cons.
St., Sez. V, 07.09.2009, n. 5234), l'art. 5, comma 5, del
d.P.R. n. 487 del 1994, si deve intendere solo parzialmente
abrogato (per incompatibilità sopravvenuta) dall'art. 3,
comma 7, L. n. 127 del 1997, modificato dall'art. 2, L. n.
191 del 1998, nella misura in cui introduce un criterio
opposto rispetto alla disciplina previgente della prevalenza
del candidato di minore e non più di maggiore età.
Tale legge non ha però disposto un’abrogazione totale della
precedente disciplina, come chiarito anche dalla Corte
Costituzionale, che, con l’ordinanza n. 268 del 2001, ha
dichiarato la manifesta infondatezza della questione di
legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 7, l. n. 127
del 1997, come modificato dall'art. 2, comma 9, l. n. 191
del 1998, censurato, per violazione del principio di
ragionevolezza di cui all'art. 3 cost., in quanto sarebbe
stato capovolto, senza un'adeguata giustificazione, un
criterio "fondamentale nei pubblici concorsi" quale
quello della preferenza, a parità di altri titoli, accordata
al candidato con la maggiore età.
Pertanto, nei concorsi pubblici, i titoli di preferenza di
cui all'art. 5, c. 4, del D.P.R. n. 487 del 1994 (nella
specie, figli a carico) devono essere valutati prima del
criterio della minore età, ex art. 3, legge n. 127 del 1997.
Quest'ultimo rappresenta un elemento preferenziale nel
reclutamento nel pubblico impiego soltanto in via residuale,
ossia nei casi di parità dopo la valutazione del merito e
dei titoli di preferenza indicati nel citato c. 4 dell'art.
5.
Deve escludersi, quindi, che la normativa statale sia da
interpretarsi nel senso fatto proprio dall’amministrazione
comunale.
Al contrario, dunque, di quanto ha ritenuto la sentenza
appellata, la normativa statale è stata ricalcata dall’art.
21, comma 1, del "Regolamento Assunzioni" del Comune
di Torino, secondo il quale a parità di punteggio ed in
assenza dei titoli di preferenza, il criterio da applicare
in caso di pari punteggio in un concorso sia quello della
minore età.
A fronte della descritta ed uniforme disciplina deve
rilevarsi che né l’accordo sindacale dell’11.07.2002, né la
determinazione n. 2556 del 05.12.2003 contengono alcuna
specifica disposizione, che è, invece, presente nel solo
Avviso del 05.12.2003 (impugnato col ricorso di primo
grado), secondo il quale “Eventuali situazioni di ex
aequo saranno sciolte ricorrendo esclusivamente all’età,
preferendo il candidato più giovane”.
Questa previsione, però, contrasta non solo con la
disciplina statale sopra descritta, ma anche con il citato
art. 21, comma 1, del Regolamento comunale, che secondo
quanto specificato nella premessa dello stesso: “disciplina
le norme di accesso ai profili professionali (compresi
quelli acquisibili per progressione mediante procedure
concorsuali interne), le modalità dei concorsi, i criteri di
valutazione delle prove e dei titoli ai sensi della vigente
normativa (art. 36, commi 1 e 2, e art. 61, commi 1, lettera
a), del D.Lgs. 29/1993 e L. 127/1997)…”.
L’Avviso del 05.12.2003, si discosta immotivatamente dalla
disciplina sopra descritta e, risulta, quindi, illegittimo,
così come illegittima risulta la determinazione del
Dirigente del Settore Gestione Risorse Umane in data
18.06.2004 con la quale è stata approvata la graduatoria
della procedura di progressione verticale.
Né ad una diversa conclusione può addivenirsi, facendo leva
sulla presunta acquiescenza che l’originario ricorrente
avrebbe prestato alle previsioni del citato Avviso.
Non vi era a suo tempo l’onere di impugnare le clausole
della lex specialis, in quanto non si palesavano come
immediatamente lesive, perché non impedivano la
partecipazione all’aspirante concorrente al concorso.
Pertanto, la lesività della previsione contenuta nell’avviso
è emersa solo al momento dell’approvazione della graduatoria (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza
12.02.2016 n. 618 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Sulla legittimità dell'ordinanza sindacale che ha
impartito il divieto
di accedere all’immobile pericolante.
L’art. 54 d.lgs. 18.08.2000, n. 267, stabilisce che il
Sindaco, quale ufficiale del Governo, adotta con atto
motivato provvedimenti, anche contingibili e urgenti nel
rispetto dei principi generali dell'ordinamento, al fine di
prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano
l'incolumità pubblica e la sicurezza urbana.
Nella giurisprudenza è stato chiarito che le ordinanze di
cui si tratta non hanno carattere sanzionatorio, ma solo
ripristinatorio, per essere dirette solamente alla celere
rimozione dello stato di pericolo e a prevenire danni alla
salute pubblica, per cui la loro adozione può prescindere
dalla verifica della responsabilità dell'evento dannoso.
In particolare, viene ritenuto legittimo il provvedimento
che imponga al proprietario di un manufatto o di un altro
immobile la realizzazione di opere di messa in sicurezza
dello stesso, ancorché non sia a lui imputabile lo stato di
pericolosità, giacché egli si trova con la res in rapporto
tale da consentirgli di eliminare la riscontrata situazione
di pericolo.
Il ricorso, dunque, si rivela infondato, in quanto il
Sindaco del Comune di Lungo aveva il potere di emettere il
provvedimento impugnato e il suo contenuto si manifesta
conforme al modello legale, sì come enucleato dalla
giurisprudenza indicata.
Rimane, evidentemente, immutata la possibilità delle
ricorrenti di far valere nelle sedi opportune le eventuali
responsabilità del Comune di Lungro per i danni loro
provocati dal mancato intervento finalizzato ad arrestare il
fenomeno franoso.
---------------
... per l'annullamento dell'ordinanza sindacale del
05.10.2015, n. 34, avente a oggetto il divieto di utilizzo e
di accesso a qualunque titolo dell'immobile non agibile.
...
1. - Con l’ordinanza
del 05.10.2015, n. 34, il Sindaco del Comune di Lungro ha
impartito a Ir. e Is.To. il divieto di accedere all’immobile
di loro proprietà, sito in territorio comunale, alla via
..., n. 46, pericolante.
Con il medesimo provvedimento è stato ordinato alle
proprietarie dell’immobile di procedere con urgenza alla
messa in sicurezza e al consolidamento dello stesso e di
attivare altresì un intervento di monitoraggio al fine di
rilevare l’eventuale più consistente cedimento del suolo.
2. - Ir. e Is.To. si sono dunque rivolte a questo Tribunale
Amministrativo Regionale chiedendo l’annullamento del
provvedimento.
Esse hanno premesso che l’immobile in questione era stato
edificato sulla base di regolare concessione edilizia e che
era diventato pericolante a seguito di un vasto fenomeno
franoso al quale il Comune di Lungro non aveva posto
rimedio.
Hanno dunque dedotto l’illegittimità del provvedimento
impugnato per: 1) carenza di potere; 2) violazione di legge;
3) eccesso, sviamento e travisamento di potere.
In estrema sintesi, le ricorrenti hanno sostenuto che il
Sindaco del Comune di Lungro non aveva il potere di emettere
il provvedimento impugnato; e che non poteva essere
attribuito a loro l’onere di risolvere una situazione di
pericolo ingenerata dalla stessa amministrazione intimata,
che non era intervenuto a porre fine alla situazione di
dissesto idrogeologico.
3. - Il Comune di Lungro si è costituito in giudizio e ha
resistito all’avversa azione.
4. - Alla camera di consiglio del 02.02.2016, fissata per la
trattazione dell’istanza cautelare presentata dalle
ricorrenti, il ricorso, sussistendone i presupposti e previo
avviso alle parti, è stato discusso nel merito e spedito in
decisione ex art. 60 c.p.a..
5. - L’art. 54 d.lgs. 18.08.2000, n. 267, stabilisce che il
Sindaco, quale ufficiale del Governo, adotta con atto
motivato provvedimenti, anche contingibili e urgenti nel
rispetto dei principi generali dell'ordinamento, al fine di
prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano
l'incolumità pubblica e la sicurezza urbana.
Nella giurisprudenza è stato chiarito che le ordinanze di
cui si tratta non hanno carattere sanzionatorio, ma solo
ripristinatorio, per essere dirette solamente alla celere
rimozione dello stato di pericolo e a prevenire danni alla
salute pubblica, per cui la loro adozione può prescindere
dalla verifica della responsabilità dell'evento dannoso.
In particolare, viene ritenuto legittimo il provvedimento
che imponga al proprietario di un manufatto o di un altro
immobile la realizzazione di opere di messa in sicurezza
dello stesso, ancorché non sia a lui imputabile lo stato di
pericolosità, giacché egli si trova con la res in
rapporto tale da consentirgli di eliminare la riscontrata
situazione di pericolo (cfr. Cons. Stato, Sez. VI,
05.09.2005, n. 4525; TAR Lazio–Latina, 17.07.2013, n. 627;
TAR Campania, Napoli, Sez. V, 14.10.2013, n. 4603; TAR
Abruzzo, L’Aquila, 24.07.2010, n. 548).
Il ricorso, dunque, si rivela infondato, in quanto il
Sindaco del Comune di Lungo aveva il potere di emettere il
provvedimento impugnato e il suo contenuto si manifesta
conforme al modello legale, sì come enucleato dalla
giurisprudenza indicata.
Rimane, evidentemente, immutata la possibilità delle
ricorrenti di far valere nelle sedi opportune le eventuali
responsabilità del Comune di Lungro per i danni loro
provocati dal mancato intervento finalizzato ad arrestare il
fenomeno franoso (TAR
Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 02.02.2016 n. 207 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Merita
condivisione la censura prospettata nel primo motivo di
ricorso, incentrata sulla violazione dell’art. 7 l.
241/1990, posto che non si rinvengono nella normativa di
settore e nella fattispecie concreta in esame ragioni per
sottrarre il procedimento preordinato all'emanazione
dell'ordinanza di rimozione e smaltimento dei rifiuti, ai
sensi dell'art. 192, d.lgs. 03.04.2006 n. 152 del 2006, alla
disciplina comune sulla comunicazione di avvio del
procedimento ex art. 7 e ss., l. 07.08.1990, n. 241,
trattandosi di un adempimento obbligatorio, la cui mancanza
determina l’illegittimità dell’atto non preceduto dallo
stesso.
----------------
Il terzo comma dell'art. 192 dlgs 152/2006 prescrive che
l’autore della condotta di abbandono incontrollato di
rifiuti “è tenuto a procedere alla rimozione, all'avvio a
recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino
dello stato dei luoghi in solido con il proprietario e con i
titolari di diritti reali o personali di godimento
sull'area, ai quali tale violazione sia imputabile a titolo
di dolo o colpa, in base agli accertamenti effettuati, in
contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti
preposti al controllo. Il Sindaco dispone con ordinanza le
operazioni a tal fine necessarie ed il termine entro cui
provvedere, decorso il quale procede all'esecuzione in danno
dei soggetti obbligati ed al recupero delle somme
anticipate”.
La disposizione testé riportata viene costantemente intesa
dal giudice amministrativo nel senso che essa impone, da un
lato, la sussistenza dell’elemento oggettivo del dolo o
della colpa, e, dall'altro, l'accertamento “in
contraddittorio” con i soggetti interessati, ciò in coerenza
con il complessivo assetto normativo del Codice
dell’Ambiente, tutto incentrato su una rigorosa tipicità
dell'illecito ambientale e nel quale non v'è spazio alcuno
per ipotesi di responsabilità oggettiva, di tal che, in base
al d.lgs. n. 152/2006, “la P.A. non può imporre ai privati
che non abbiano alcuna responsabilità, né diretta, né
indiretta sull'origine del fenomeno contestato, ma che
vengano individuati solo quali proprietari o gestori o
addirittura in ragione della mera collocazione geografica
del bene, l'obbligo di bonifica di rimozione e smaltimento
di rifiuti ed, in generale, della riduzione al pristino
stato dei luoghi che è posto unicamente in capo al
responsabile dell'inquinamento, che le Autorità
amministrative hanno l'onere di ricercare ed individuare. Ai
fini della responsabilità in questione è perciò necessario
che sussista e sia provata, attraverso l'esperimento di
adeguata istruttoria, l'esistenza di un nesso di causalità
fra l'azione o l'omissione ed il superamento —o pericolo
concreto ed attuale di superamento— dei limiti di
contaminazione, senza che possa venire in rilievo una sorta
di responsabilità oggettiva facente capo al proprietario o
al possessore dell'immobile, meramente in ragione di tale
qualità”.
----------------
... per l'annullamento dell’ordinanza n. 23 del 11/05/2015,
ai sensi dell’art. 192 d.lgs. n. 152/2006 con la quale
veniva ordinato al Genio Civile di Napoli ed al Consorzio
Generale di Bacino ricorrente di provvedere…alla rimozione
del materiale abbandonato (canne fumarie in Eternit) nel
Regio Lagno (Alveo Troncito) alla località Migliano del
Comune di Lauro e allo smaltimento di esso mediante ditte
aventi opportune autorizzazioni;
...
Il ricorso è fondato sotto diversi profili e va, pertanto,
accolto
In primo luogo, merita condivisione la censura prospettata
nel primo motivo di ricorso, incentrata sulla violazione
dell’art. 7 l. 241/1990, posto che non si rinvengono nella
normativa di settore e nella fattispecie concreta in esame
ragioni per sottrarre il procedimento preordinato
all'emanazione dell'ordinanza di rimozione e smaltimento dei
rifiuti, ai sensi dell'art. 192, d.lgs. 03.04.2006 n. 152
del 2006, alla disciplina comune sulla comunicazione di
avvio del procedimento ex art. 7 e ss., l. 07.08.1990, n.
241, trattandosi di un adempimento obbligatorio, la cui
mancanza determina l’illegittimità dell’atto non preceduto
dallo stesso (TAR Potenza, sez. I, 26/08/2014 n. 561)
Quanto gli altri motivi di ricorso, il Collegio osserva che
correttamente la difesa del Consorzio ricorrente si duole
del fatto che il Comune di Lauro, nell’emanare l’ordinanza
impugnata, non ha tenuto conto dei presupposti
legislativamente individuati per l’esercizio del potere
repressivo di cui all’art. 192 d.lgs. n. 152/2006 (Codice
dell’Ambiente), così come interpretati dal prevalente
orientamento dei giudici amministrativi.
Invero, il terzo comma del citato art. 192 prescrive che
l’autore della condotta di abbandono incontrollato di
rifiuti “è tenuto a procedere alla rimozione, all'avvio a
recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino
dello stato dei luoghi in solido con il proprietario e con i
titolari di diritti reali o personali di godimento
sull'area, ai quali tale violazione sia imputabile a titolo
di dolo o colpa, in base agli accertamenti effettuati, in
contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti
preposti al controllo. Il Sindaco dispone con ordinanza le
operazioni a tal fine necessarie ed il termine entro cui
provvedere, decorso il quale procede all'esecuzione in danno
dei soggetti obbligati ed al recupero delle somme anticipate”.
La disposizione testé riportata viene costantemente intesa
dal giudice amministrativo nel senso che essa impone, da un
lato, la sussistenza dell’elemento oggettivo del dolo o
della colpa, e, dall'altro, l'accertamento “in
contraddittorio” con i soggetti interessati, ciò in
coerenza con il complessivo assetto normativo del Codice
dell’Ambiente, tutto incentrato su una rigorosa tipicità
dell'illecito ambientale e nel quale non v'è spazio alcuno
per ipotesi di responsabilità oggettiva, di tal che, in base
al d.lgs. n. 152/2006, “la P.A. non può imporre ai
privati che non abbiano alcuna responsabilità, né diretta,
né indiretta sull'origine del fenomeno contestato, ma che
vengano individuati solo quali proprietari o gestori o
addirittura in ragione della mera collocazione geografica
del bene, l'obbligo di bonifica di rimozione e smaltimento
di rifiuti ed, in generale, della riduzione al pristino
stato dei luoghi che è posto unicamente in capo al
responsabile dell'inquinamento, che le Autorità
amministrative hanno l'onere di ricercare ed individuare. Ai
fini della responsabilità in questione è perciò necessario
che sussista e sia provata, attraverso l'esperimento di
adeguata istruttoria, l'esistenza di un nesso di causalità
fra l'azione o l'omissione ed il superamento —o pericolo
concreto ed attuale di superamento— dei limiti di
contaminazione, senza che possa venire in rilievo una sorta
di responsabilità oggettiva facente capo al proprietario o
al possessore dell'immobile, meramente in ragione di tale
qualità” (TAR Salerno, II, 04/02/2015 n. 232; TAR Lecce,
I, 12/01/2015 n. 108; Id., 09/10/2014 n. 2452; TAR Potenza,
sez. I. 26/08/2014, n. 561; Cons. Stato, sez. V, 17/07/2014
n. 3786).
Nel caso di specie, nessun riferimento è contenuto nell’atto
impugnato circa lo svolgimento di accertamenti volti ad
individuare il responsabile o i responsabili della condotta
sanzionata e circa l’instaurazione del contraddittorio con i
soggetti proprietari o detentori del fondo, né alcuna prova
è stata offerta al riguardo dal Comune di Lauro, peraltro
non costituitosi in giudizio. Al contrario, il Consorzio
ricorrente, unitamente al Genio Civile di Napoli, pure esso
evocato in giudizio, ma non costituitosi, viene considerato
tout court, senza indagine e interlocuzione alcuna, -e
perciò in maniera del tutto illegittima- soggetto
responsabile “per l’abbandono e deposito incontrollato di
rifiuti speciali e non”.
Infine –e il rilievo vale a sancire la fondatezza anche
dell’ultimo motivo di gravame- neppure il Consorzio
ricorrente può ritenersi attualmente investito dell’obbligo
di custodia e manutenzione dell’Alveo Troncito, sito in
località Migliano nel Comune di Lauro, non avendo la Regione
Campania ancora provveduto alla formale consegna di detta
opera idrica ai sensi della l.r. 4/2003 (cfr. sentenza TRAP
presso la Corte di Appello di Napoli n. 110 del 16
maggio–15.07.2011).
Alla luce dei rilievi esposti, il gravame va, pertanto,
disatteso (TAR Campania-Napoli, Sez. I,
sentenza 29.01.2016 n. 581 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Il
Piano Particolareggiato è uno strumento di attuazione delle
previsioni del Piano Urbanistico Comunale col quale si
disciplinano, in termini più puntuali e di dettaglio
rispetto alle previsioni dello strumento generale,
particolari ambiti territoriali.
Il piano particolareggiato, in particolare, detta la
disciplina di dettaglio degli ambiti urbani.
La durata della sua efficacia è strettamente connessa al
termine della sua vigenza indicato nella delibera di
approvazione, che non può essere maggiore di 10 anni, come
previsto dall’art. 16, co. 5, della legge n. 1150 del 1942,
con la conseguenza che il decorso di detto termine per la
sua esecuzione, il piano particolareggiato “diventa
inefficace per la parte in cui non abbia avuto attuazione”
(art. 17, co. 1, L. 1150/1942).
L’assetto urbanistico nello stesso cristallizzato, peraltro,
permane fino all’approvazione di una variante dello stesso
piano oppure fino ad una modifica dello strumento generale
(anche totale, come nel caso di approvazione di un nuovo PUC)
che ne disponga in via espressa la modifica.
Se questo è vero, l’approvazione di un nuovo PUC, del tutto
silente in ordine alla sorte dei piani attuativi approvati
sotto il vecchio PRG, non può comportare ex se, in via
automatica, l’annullamento dei piani particolareggiati
preesistenti, occorrendo all’uopo una puntuale ed espressa
determinazione -modificativa o abrogativa- degli stessi,
supportata da adeguata motivazione, in assenza della quale
gli atti pianificatori già adottati diventano parti
integranti, con valenza attuativa, anche del nuovo strumento
urbanistico generale.
Al riguardo la giurisprudenza è pacifica nel ritenere che
sebbene le scelte pianificatorie, contenute nello strumento
urbanistico generale, non necessitino di particolare
motivazione -al di fuori dall’indicazione dei criteri
tecnico urbanistici e delle ragioni evincibili dai criteri
generali seguiti dal piano, godendo la p.a. di un ampio
potere discrezionale- è invece obbligatoria una congrua
motivazione, per giustificare scelte differenti, solo in
presenza di impegni già presi con la stipula di una
convenzione di lottizzazione, o quando il nuovo strumento
urbanistico incida su aspettative qualificate.
E’ evidente che la specifica motivazione richiesta dalla
giurisprudenza, deve riferirsi alle disposizioni dello
strumento generale riguardanti la modifica di ben
determinate parti, o regole, dello strumento attuativo, non
essendo necessaria, per pacifica giurisprudenza, la
motivazione in ordine alla disciplina generale dettata con
lo strumento urbanistico.
---------------
La questione sottoposta all’esame del Collegio è
sostanzialmente riconducibile alla più generale problematica
degli effetti della successione nel tempo degli strumenti
urbanistici.
In particolare, per quanto qui rileva, la controversia per
cui è causa attiene al rapporto tra Piano Particolareggiato
del vecchio PRG e nuovo Piano Urbanistico Comunale.
Il sig. Fl., infatti, in qualità di proprietario di un’area
sita in Sassari nella via ... n. 3/b, inserita nel Piano
particolareggiato delle “Zone B perimetrate”,
attuativo delle previsioni del vecchio PRG, chiedeva
all’ufficio comunale il rilascio della concessione edilizia
per la realizzazione di un progetto di demolizione di un
edificio esistente e di successiva ricostruzione, con
l’incremento volumetrico consentito dalla L.R. n. 4/2009.
Il Comune di Sassari, dapprima in via soprassessoria
(ricorso originario) e poi con provvedimento espresso
(ricorso per motivi aggiunti) respingeva tale richiesta in
quanto il nuovo PUC non aveva espressamente fatto salvi, per
le “Zone B perimetriche” (ma solo per le zone B4), i
piani attuativi della vecchia pianificazione urbanistica,
sicché il progetto presentato si poneva in contrasto con
l’art. 26 delle NTA del nuovo PUC per il quale nella zona di
intervento “l’attività edilizia comportante tipologie di
intervento superiori al restauro e alla ristrutturazione
edilizia è subordinata alla preventiva formazione del un
Piano Attuativo che allo stato non esiste”.
In sostanza il provvedimento negativo impugnato è fondato
sul presupposto che il piano attuativo del vecchio PRG deve
considerarsi automaticamente decaduto in quanto non
espressamente fatto salvo dal nuovo PUC, sicché la richiesta
edificatoria avanzata dal ricorrente sarebbe
irrimediabilmente priva del necessario supporto
pianificatorio.
L’assunto del Comune non è condivisibile per quanto
appresso.
Come noto il Piano Particolareggiato è uno strumento di
attuazione delle previsioni del Piano Urbanistico Comunale
col quale si disciplinano, in termini più puntuali e di
dettaglio rispetto alle previsioni dello strumento generale,
particolari ambiti territoriali.
Il piano particolareggiato, in particolare, detta la
disciplina di dettaglio degli ambiti urbani.
La durata della sua efficacia è strettamente connessa al
termine della sua vigenza indicato nella delibera di
approvazione, che non può essere maggiore di 10 anni, come
previsto dall’art. 16, co. 5, della legge n. 1150 del 1942,
con la conseguenza che il decorso di detto termine per la
sua esecuzione, il piano particolareggiato “diventa
inefficace per la parte in cui non abbia avuto attuazione”
(art. 17, co. 1, L. 1150/1942).
L’assetto urbanistico nello stesso cristallizzato, peraltro,
permane fino all’approvazione di una variante dello stesso
piano oppure fino ad una modifica dello strumento generale
(anche totale, come nel caso di approvazione di un nuovo PUC)
che ne disponga in via espressa la modifica.
Se questo è vero, l’approvazione di un nuovo PUC, del tutto
silente in ordine alla sorte dei piani attuativi approvati
sotto il vecchio PRG, non può comportare ex se, in
via automatica, l’annullamento dei piani particolareggiati
preesistenti, occorrendo all’uopo una puntuale ed espressa
determinazione -modificativa o abrogativa- degli stessi,
supportata da adeguata motivazione, in assenza della quale
gli atti pianificatori già adottati diventano parti
integranti, con valenza attuativa, anche del nuovo strumento
urbanistico generale.
Al riguardo la giurisprudenza è pacifica nel ritenere che
sebbene le scelte pianificatorie, contenute nello strumento
urbanistico generale, non necessitino di particolare
motivazione -al di fuori dall’indicazione dei criteri
tecnico urbanistici e delle ragioni evincibili dai criteri
generali seguiti dal piano, godendo la p.a. di un ampio
potere discrezionale- è invece obbligatoria una congrua
motivazione, per giustificare scelte differenti, solo in
presenza di impegni già presi con la stipula di una
convenzione di lottizzazione, o quando il nuovo strumento
urbanistico incida su aspettative qualificate (cfr. Cons.
Stato, sez. IV, 22/06/2004, n. 4407 e 19/02/2010, n. 1004;
Cassazione civile, sez. I, 10/12/2008, n. 28980; TAR Perugia
sez. I, 03/03/2010, n. 152; TAR Parma sez. I, 11/05/2011, n.
141; TAR Aosta, (Valle d'Aosta), sez. I, 24/07/2012, n. 73).
E’ evidente che la specifica motivazione richiesta dalla
giurisprudenza, deve riferirsi alle disposizioni dello
strumento generale riguardanti la modifica di ben
determinate parti, o regole, dello strumento attuativo, non
essendo necessaria, per pacifica giurisprudenza, la
motivazione in ordine alla disciplina generale dettata con
lo strumento urbanistico.
Come giustamente evidenzia la difesa del ricorrente, la
stessa Relazione di progetto del nuovo PUC all’art. 16, nel
solco di tale percorso interpretativo, precisa che “…I
Piani Particolareggiati già predisposti dalla
Amministrazione comunale nel quadro del PRG vigente prima
dell’entrata in vigore della normativa specifica del PPR,
costituiscono il fondamentale patrimonio conoscitivo e
normativo di dettaglio ma dovranno essere revisionati e
integrati in rapporto alla verifica di conformità…”.
Con l’approvazione di un nuovo PUC, cioè, la sorte dei
vecchi piani attuativi, in assenza di una specifica norma ad
essi dedicata, non è quella di una loro automatica e
implicita caducazione ma, piuttosto, quella di poter essere
sottoposti ad una verifica di conformità oggetto di puntuale
istruttoria supportata -all’esito- da una adeguata
motivazione.
A prescindere dalla legittimità della riportata
disposizione, tali “revisioni” ed “integrazioni”,
come rilevato dalla difesa di parte ricorrente, non ci sono
poi state, né ci sono state, in particolare, per il P.P.
delle “Zone perimetrate”.
In ogni caso, ove potesse sostenersi una implicita modifica
o abrogazione, la stessa, come censurato con il primo
motivo, “sarebbe comunque illegittima…sotto il profilo
del difetto assoluto di motivazione”, alla luce della
giurisprudenza prima riportata.
Per quanto sopra non può quindi condividersi l’assunto
comunale secondo il quale le scelte discrezionali del
pianificatore, espressione di apprezzamento di merito
sottratte al sindacato di legittimità, si sarebbero trasfuse
nelle norme di attuazione del nuovo PUC e, in particolare,
nella disciplina implicitamente abrogativa dettata all’art.
26 che al fine di realizzare nella zona per cui è causa
interventi quale quello di cui si discute occorre la previa
adozione di un piano particolareggiato.
In ogni caso è palese il difetto di motivazione del diniego
impugnato, non essendosi accertata, per quanto di interesse
in relazione all’intervento proposto dal sig. Fl.,
l’incompatibilità del vecchio piano particolareggiato col
nuovo strumento urbanistico e non potendosi, pertanto,
prescindere dalla sua esistenza.
Restano salvi, naturalmente, gli ulteriori provvedimenti che
l’amministrazione comunale riterrà di adottare sulla
richiesta del ricorrente
(TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza 20.01.2016 n. 43 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: E'
insegnamento tradizionale e consolidato quello in base al
quale, nel processo amministrativo, la motivazione deve
precedere e non seguire il provvedimento, a tutela oltre che
del buon andamento e dell'esigenza di delimitazione del
controllo giudiziario degli stessi principi di parità delle
parti e giusto processo (art. 2 c.p.a.) e di pienezza della
tutela secondo il diritto Europeo (art. 1 c.p.a.) i quali
convergono nella centralità della motivazione quale presidio
del diritto costituzionale di difesa.
Tuttavia, il divieto di integrazione giudiziale della
motivazione non ha carattere assoluto, in quanto non sempre
i chiarimenti resi nel corso del giudizio valgono quale
inammissibile integrazione postuma della motivazione: è il
caso degli atti di natura vincolata di cui all'art.
21-octies l. n. 241-1990, nei quali l'Amministrazione può
dare anche successivamente l'effettiva dimostrazione in
giudizio dell'impossibilità di un diverso contenuto
dispositivo dell'atto, oppure quello concernente la
possibilità di una successiva indicazione di una fonte
normativa non prima menzionata nel provvedimento, quando
questa, per la sua notorietà, ben avrebbe potuto e dovuto
essere conosciuta da un operatore professionale.
Infatti, sebbene il divieto di motivazione postuma,
costantemente affermato dalla giurisprudenza amministrativa,
meriti di essere confermato, rappresentando l'obbligo di
motivazione il presidio essenziale del diritto di difesa,
non può ritenersi che l'Amministrazione incorra nel vizio di
difetto di motivazione quando le ragioni del provvedimento
siano chiaramente intuibili sulla base della parte
dispositiva del provvedimento impugnato o si verta in
ipotesi di attività vincolata.
Inoltre, ed in particolare, la facoltà dell'Amministrazione
di dare l'effettiva dimostrazione dell'impossibilità di un
diverso contenuto dispositivo dell'atto, nel caso di atti
vincolati, esclude in sede processuale che l'argomentazione
difensiva dell'Amministrazione, tesa ad assolvere all'onere
della prova, possa essere qualificato come illegittima
integrazione postuma della motivazione sostanziale, cioè
come un'indebita integrazione in sede giustiziale della
motivazione stessa.
Pertanto, alla luce dell'attuale assetto normativo, devono
essere attenuate le conseguenze del principio del divieto di
integrazione postuma, dequotando il relativo vizio tutte le
volte in cui l'omissione di motivazione successivamente
esternata:
- non abbia leso il diritto di difesa dell'interessato;
- nei casi in cui, in fase infraprocedimentale, risultano
percepibili le ragioni sottese all'emissione del
provvedimento gravato;
- nei casi di atti vincolati.
---------------
Preliminarmente il Collegio deve darsi carico di valutare se
la relazione, versata in atti a cura dell’Amministrazione
ministeriale con la produzione del 10.10.2015, possa essere
proficuamente utilizzata ai fini del presente giudizio o se
essa incorra nei rigori nel divieto di integrazione postuma
della motivazione, come, peraltro, evidenziato dalla
ricorrente nelle proprie memorie difensive.
Sul punto gioverà ricordare che la giurisprudenza (ex
multis Cons. St. Sez. V 20.08.2013 n. 4194, di seguito
riportata) è orientata a ritenere che è insegnamento
tradizionale e consolidato quello in base al quale, nel
processo amministrativo, la motivazione deve precedere e non
seguire il provvedimento, a tutela oltre che del buon
andamento e dell'esigenza di delimitazione del controllo
giudiziario degli stessi principi di parità delle parti e
giusto processo (art. 2 c.p.a.) e di pienezza della tutela
secondo il diritto Europeo (art. 1 c.p.a.) i quali
convergono nella centralità della motivazione quale presidio
del diritto costituzionale di difesa.
Tuttavia, il divieto di integrazione giudiziale della
motivazione non ha carattere assoluto, in quanto non sempre
i chiarimenti resi nel corso del giudizio valgono quale
inammissibile integrazione postuma della motivazione: è il
caso degli atti di natura vincolata di cui all'art.
21-octies l. n. 241-1990, nei quali l'Amministrazione può
dare anche successivamente l'effettiva dimostrazione in
giudizio dell'impossibilità di un diverso contenuto
dispositivo dell'atto, oppure quello concernente la
possibilità di una successiva indicazione di una fonte
normativa non prima menzionata nel provvedimento, quando
questa, per la sua notorietà, ben avrebbe potuto e dovuto
essere conosciuta da un operatore professionale (cfr.
Consiglio di Stato, sez. IV, 09.10.2012, n. 5257).
Infatti, sebbene il divieto di motivazione postuma,
costantemente affermato dalla giurisprudenza amministrativa,
meriti di essere confermato, rappresentando l'obbligo di
motivazione il presidio essenziale del diritto di difesa,
non può ritenersi che l'Amministrazione incorra nel vizio di
difetto di motivazione quando le ragioni del provvedimento
siano chiaramente intuibili sulla base della parte
dispositiva del provvedimento impugnato o si verta in
ipotesi di attività vincolata (cfr. Consiglio di Stato, sez.
V, 27.08.2012, n. 4610 e sez. IV, 07.06.2012, n. 3376).
Inoltre, ed in particolare, la facoltà dell'Amministrazione
di dare l'effettiva dimostrazione dell'impossibilità di un
diverso contenuto dispositivo dell'atto, nel caso di atti
vincolati, esclude in sede processuale che l'argomentazione
difensiva dell'Amministrazione, tesa ad assolvere all'onere
della prova, possa essere qualificato come illegittima
integrazione postuma della motivazione sostanziale, cioè
come un'indebita integrazione in sede giustiziale della
motivazione stessa. Pertanto, alla luce dell'attuale assetto
normativo, devono essere attenuate le conseguenze del
principio del divieto di integrazione postuma, dequotando il
relativo vizio tutte le volte in cui l'omissione di
motivazione successivamente esternata:
- non abbia leso il diritto di difesa dell'interessato;
- nei casi in cui, in fase infraprocedimentale, risultano
percepibili le ragioni sottese all'emissione del
provvedimento gravato;
- nei casi di atti vincolati.
Nella specie, non si versa in alcuna delle ipotesi citate
per cui deve ritenersi operante il divieto di integrazione
giudiziale della motivazione, atteso che le ragioni della
sfavorevole determinazione oggetto di impugnazione,
caratterizzata da valutazioni connotate da elementi
tecnico-discrezionali, risultano integrate con altre
indicazioni non agevolmente percepibili dall'originario
percorso motivazionale, aggravando l'esercizio del diritto
di difesa di parte ricorrente.
Pertanto, delle motivazioni esternate nella relazione
versata successivamente in atti, il Collegio non può tenere
conto ai fini della delibazione della questione oggetto di
scrutinio
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 13.01.2016 n. 23 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In materia edilizia, la nozione di pertinenza va
definita sia in relazione alla necessità e all’oggettività
del rapporto pertinenziale sia alla consistenza dell’opera,
che non deve essere tale da alterare in modo significativo
l’assetto del territorio.
Con particolare riguardo alle tettoie o alle altre simili
strutture di riparo e protezione di spazi liberi, si è
difatti affermato che dette strutture possono ritenersi
liberamente edificabili solo qualora la loro conformazione e
le loro ridotte dimensioni rendano evidente e riconoscibile
la loro finalità di arredo, riparo o protezione, anche da
agenti atmosferici e quando, non presentino carattere di
autonoma utilizzabilità, e possano ritenersi assorbite,
ovvero ricomprese in ragione della loro accessorietà,
nell’edificio principale o nella parte dello stesso cui
accedono.
Pertanto, si è riconosciuto che le tettoie aperte su tre
lati e addossate ad un edificio principale, se di dimensioni
e caratteristiche costruttive non particolarmente
impattanti, costituiscono pertinenze dell’edificio cui
accedono.
---------------
In argomento, cfr. anche la massima, tratta dalla sentenza
del TAR Campania–Napoli, che segue: “In materia edilizia,
la nozione di pertinenza va definita sia in relazione alla
necessità e all’oggettività del rapporto pertinenziale sia
alla consistenza dell’opera, che non deve essere tale da
alterare in modo significativo l’assetto del territorio. Con
particolare riguardo alle tettoie o alle altre simili
strutture di riparo e protezione di spazi liberi, si è
difatti affermato che dette strutture possono ritenersi
liberamente edificabili solo qualora la loro conformazione e
le loro ridotte dimensioni rendano evidente e riconoscibile
la loro finalità di arredo, riparo o protezione, anche da
agenti atmosferici e quando, non presentino carattere di
autonoma utilizzabilità, e possano ritenersi assorbite,
ovvero ricomprese in ragione della loro accessorietà,
nell’edificio principale o nella parte dello stesso cui
accedono. Pertanto, si è riconosciuto che le tettoie aperte
su tre lati e addossate ad un edificio principale, se di
dimensioni e caratteristiche costruttive non particolarmente
impattanti, costituiscono pertinenze dell’edificio cui
accedono” (TAR Napoli, (Campania), Sez. VIII,
07/02/2013, n. 789)
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 13.01.2016 n. 17 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: L'approvazione
del Piano di lottizzazione non è atto dovuto, ancorché il
Piano medesimo risulti conforme al Piano regolatore
generale, essendo l'approvazione medesima sempre espressione
di potere discrezionale dell'organo deputato a valutare
l'opportunità di dare attuazione alle previsioni dello
strumento urbanistico generale: ciò in quanto tra
quest'ultimo e i suoi strumenti attuativi sussiste un
rapporto di necessaria compatibilità, ma non di formale
coincidenza.
---------------
Quanto allo specifico tema della rotatoria è agevole
osservare che la sua realizzazione o meno costituisce, con
tutta evidenza, il vero fulcro della controversia.
Ebbene, al riguardo il Collegio reputa:
- per un verso, che le modalità di realizzazione di
un incrocio stradale (se a T o con rotatoria) non investono
il governo del territorio, per cui l’opzione, in sede di
piano di lottizzazione, per una soluzione progettuale
differente da quella prevista in PRG non si pone ex se in
rapporto di incompatibilità con detto strumento, giacché
entrambe le soluzioni si collocano su un piano di
sostanziale indifferenza rispetto alla disciplina
urbanistica vera e propria;
- per altro verso, che detta opzione è frutto di
discrezionalità tecnica, anch’essa limitatamente sindacabile
da questo Giudice se non per manifesta illogicità, nella
specie non ravvisabile, giacché risulta un dato di comune
esperienza quello per cui la realizzazione di una rotatoria
sia ormai la soluzione tecnica di gran lunga più attuata in
tutta Europa per ovviare al problema della confluenza tra
due o più strade.
---------------
5. Ciò premesso, osserva il Collegio come sulla fondamentale
quaestio iuris che agita la controversia (ossia
quella che investe i rapporti tra piano di lottizzazione e
strumento urbanistico generale sovraordinato) risulti
condivisibile, tra le due contrapposte tesi che si
fronteggiano in causa, la posizione del Comune che -cfr. p.
4 memoria 07.11.2015- si richiama alla consolidata
giurisprudenza del Consiglio di Stato, orientata nel senso
che "l'approvazione del Piano di lottizzazione non è atto
dovuto, ancorché il Piano medesimo risulti conforme al Piano
regolatore generale, essendo l'approvazione medesima sempre
espressione di potere discrezionale dell'organo deputato a
valutare l'opportunità di dare attuazione alle previsioni
dello strumento urbanistico generale: ciò in quanto tra
quest'ultimo e i suoi strumenti attuativi sussiste un
rapporto di necessaria compatibilità, ma non di formale
coincidenza" (così Cons. Stato Sez. IV, 19.09.2012, n.
4977 e 12.03.2013, n. 1479).
5.1. Infatti non solo tale orientamento è costante, come
espressamente affermato nella citata sentenza n. 1479/2013,
ma il richiamo a quest’ultima si rivela particolarmente
conferente al caso qui in esame, poiché in quella
fattispecie il Giudice amministrativo d’appello ha, in
applicazione di tale principio:
- ritenuto che l'amministrazione comunale avesse “del
tutto legittimamente” introdotto nel procedimento
valutazioni ostative in quanto sarebbe stato necessario che
la lottizzazione fosse maggiormente estesa, in funzione di
completamento dell'area interessata, e che i parcheggi
fossero diversamente ubicati, per evitare “la non
congruente conseguenza per cui i parcheggi pubblici
sarebbero stati distanti dalle opere di urbanizzazione
secondaria”;
- evidenziato che detti motivi ostativi, non parevano (nei
limiti del sindacato espletabile su tali scelte
amministrative) abnormi o contraddittori.
5.2. Allo stesso modo, facendo applicazione all’attuale
controversia del medesimo principio sopraenunciato e tenendo
conto dei limiti del sindacato esercitabile da questo
Giudice in subiecta materia, non può concludersi che
la motivazione addotta dal Comune di Urgnano sia -come
invece deduce parte ricorrente- “fortemente incongrua,
illogica e in sé contraddittoria, laddove richiede che “le
aree a verde e i parcheggi siano spalmate lungo la Via
Provinciale, creando una cortina a verde che funga da
elemento mitigatore dell’impatto visivo dei nuovi capannoni”
e ritiene “che l’unica soluzione viabilistica compatibile
con le caratteristiche strutturali della strada Provinciale,
il volume di traffico e gli insediamenti ubicati lungo il
lato opposto della strada stessa, sia quindi la
realizzazione della rotatoria in corrispondenza
dell’incrocio tra la SP 591 e Via Curti”.
5.3. Neppure la ricorrente contesta, invero, l’effetto
mitigatore della prima richiesta, ma si lamenta
essenzialmente dei costi che i lottizzanti dovrebbero
sopportare.
5.4. Quanto, poi, allo specifico tema della rotatoria è
agevole osservare che la sua realizzazione o meno
costituisce, con tutta evidenza il vero fulcro della
controversia, tanto da essere stata posta al centro, come
dedotto dalla Co.Co., anche del successivo ricorso n.
1095/2010 avverso il nuovo PGT in cui detta rotatoria è
stata inserita.
Ebbene, al riguardo il Collegio reputa:
- per un verso, che le modalità di realizzazione di
un incrocio stradale (se a T o con rotatoria) non investono
il governo del territorio, per cui l’opzione, in sede di
piano di lottizzazione, per una soluzione progettuale
differente da quella prevista in PRG non si pone ex se
in rapporto di incompatibilità con detto strumento, giacché
entrambe le soluzioni si collocano su un piano di
sostanziale indifferenza rispetto alla disciplina
urbanistica vera e propria;
- per altro verso, che detta opzione è frutto di
discrezionalità tecnica, anch’essa limitatamente sindacabile
da questo Giudice se non per manifesta illogicità, nella
specie non ravvisabile, giacché risulta un dato di comune
esperienza quello per cui la realizzazione di una rotatoria
sia ormai la soluzione tecnica di gran lunga più attuata in
tutta Europa per ovviare al problema della confluenza tra
due o più strade: né la perizia di parte dell’Ing. Fi. né
l’insistenza di parte ricorrente sull’asserita diversità tra
i due pareri resi in proposito dalla Provincia riescono a
rovesciare questa acquisizione e a dimostrare la pretesa
macroscopica illogicità della richiesta in tal senso
avanzata dal Comune
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 12.01.2016 n. 23 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Premesso
che il parere ex art. 32 l. n. 47/1985 “ha natura e funzioni
identiche all'autorizzazione paesaggistica ex art. 7 l.
29.06.1939, n. 1497”, il quale “ha implicato un rinvio
mobile alla disciplina del procedimento di gestione del
vincolo paesaggistico, costituente una fase procedimentale
indispensabile per la positiva conclusione del procedimento
di condono”, deve ritenersi applicabile l'art. 146 d.lvo n.
42/2004 “in relazione a tutte le istanze (formulate in ogni
tempo e che ancora non avevano dato luogo a un accoglimento
o a un rigetto) volte ad ottenere una autorizzazione
paesaggistica, per opere già realizzate o ancora da
realizzare (…).
Né si ravvisa l'incompatibilità della disciplina dell'art.
146 d.lgs. n. 42 del 2004 con l'istituto del condono
edilizio (…) sotto il profilo che il comma 4 dell'art. 146
vieta (salve le ipotesi eccezionali di cui al successivo
art. 167, commi 4 e 5) il rilascio dell'autorizzazione
paesaggistica postuma, in quanto:
- nei casi in esame si verte in fattispecie non già di
autorizzazione paesaggistica in sanatoria, bensì di
concessione edilizia in sanatoria, rispetto alla quale
l'autorizzazione paesaggistica costituisce presupposto
procedimentale;
- la disciplina contenuta nell'art. 146 d.lgs. n. 42 del
2004 deve essere interpretata in via sistematica, in
coordinamento con l'istituto speciale del condono edilizio,
il quale, per definizione, presuppone l'anteriorità
dell'intervento abusivo rispetto al rilascio del titolo
sanante, sicché, in tale ipotesi, l'autorizzazione
paesaggistica (e il parere soprintendentizio) si dovranno
basare sulla valutazione della compatibilità con lo stato
dei luoghi degli interventi abusivi oggetto dell'istanza di
sanatoria, in relazione alle specifiche competenze delle
amministrazioni preposte alla tutela del vincolo.
---------------
Con l’istanza in ordine alla quale si è formato il
silenzio-inadempimento lamentato con il ricorso in esame, la
parte ricorrente chiedeva al Comune di Montecorvino Pugliano
di porre in essere le azioni necessarie a garantire la
validità del provvedimento di concessione in sanatoria n.
02/03 del 25.03.1986, essendo stata omessa l’acquisizione
del preventivo atto di assenso paesaggistico.
L’amministrazione comunale intimata, senza contestare nel
merito le deduzioni attoree, evidenzia l’opportunità che “la
soluzione venga trovata congiuntamente con la Soprintendenza
per i Beni Architettonici e Paesaggistici di Salerno e
Avellino”, anch’essa parte del giudizio, sollecitando il
Tribunale all’adozione di una pronuncia di tipo propulsivo
nei confronti di tutte le amministrazioni coinvolte.
Tanto premesso, ritiene il Tribunale che il ricorso sia
meritevole di accoglimento: invero, l’incertezza delle
modalità procedimentali da osservare al fine di dare
riscontro all’istanza di parte ricorrente, intesa ad attuare
la regolarizzazione della concessione edilizia in sanatoria
n. 02/03 del 25.03.1986, emessa in carenza del relativo e
necessario titolo paesaggistico, non esimeva
l’amministrazione comunale dall’attivarsi tempestivamente in
tal senso, potendo rilevare esclusivamente ai fini del
regolamento delle spese di giudizio.
Deve quindi ordinarsi al Comune intimato di attivare il
procedimento finalizzato al rilascio dell’autorizzazione
paesaggistica in ordine alle opere de quibus, previa
acquisizione del parere obbligatorio e vincolante della
competente Soprintendenza, nel rispetto delle indicazioni
interpretative fornite dalla giurisprudenza (cfr. Consiglio
di Stato, Sez. VI, n. 4492 dell’11.09.2013), secondo cui,
premesso che il parere ex art. 32 l. n. 47/1985 “ha
natura e funzioni identiche all'autorizzazione paesaggistica
ex art. 7 l. 29.06.1939, n. 1497”, il quale “ha
implicato un rinvio mobile alla disciplina del procedimento
di gestione del vincolo paesaggistico, costituente una fase
procedimentale indispensabile per la positiva conclusione
del procedimento di condono”, deve ritenersi applicabile
l'art. 146 d.lvo n. 42/2004 “in relazione a tutte le
istanze (formulate in ogni tempo e che ancora non avevano
dato luogo a un accoglimento o a un rigetto) volte ad
ottenere una autorizzazione paesaggistica, per opere già
realizzate o ancora da realizzare (…) Né si ravvisa
l'incompatibilità della disciplina dell'art. 146 d.lgs. n.
42 del 2004 con l'istituto del condono edilizio (…) sotto il
profilo che il comma 4 dell'art. 146 vieta (salve le ipotesi
eccezionali di cui al successivo art. 167, commi 4 e 5) il
rilascio dell'autorizzazione paesaggistica postuma, in
quanto:
- nei casi in esame si verte in fattispecie non già di
autorizzazione paesaggistica in sanatoria, bensì di
concessione edilizia in sanatoria, rispetto alla quale
l'autorizzazione paesaggistica costituisce presupposto
procedimentale;
- la disciplina contenuta nell'art. 146 d.lgs. n. 42 del
2004 deve essere interpretata in via sistematica, in
coordinamento con l'istituto speciale del condono edilizio,
il quale, per definizione, presuppone l'anteriorità
dell'intervento abusivo rispetto al rilascio del titolo
sanante, sicché, in tale ipotesi, l'autorizzazione
paesaggistica (e il parere soprintendentizio) si dovranno
basare sulla valutazione della compatibilità con lo stato
dei luoghi degli interventi abusivi oggetto dell'istanza di
sanatoria, in relazione alle specifiche competenze delle
amministrazioni preposte alla tutela del vincolo”
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 12.01.2016 n. 5 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Di regola, tettoie e gazebo sono opere che non
rappresentano costruzioni vere e proprie, ma hanno
caratteristiche di precarietà strutturale e funzionale
destinate a soddisfare esigenze contingenti e circoscritte
nel tempo, esenti dunque dall’assoggettamento a permesso di
costruire.
Non di meno, però, quando esse non sono precarie, ma
funzionali a soddisfare esigenze permanenti, vanno
considerate come manufatti alteranti lo stato dei luoghi,
con incremento del carico urbanistico, costituendo la
consistenza e la stabilità della struttura i criteri per la
relativa valutazione.
---------------
L’opera in questione risulta della superficie di 7,20 mq, di
altezza al colmo di mt. 2,80 e alla gronda di mt. 2,30,
composta da quattro pilastri verticali fissati al pavimento
mediante staffe in ferro, coperta con tavolaccio e
soprastante strato di tegole canadesi (quest’ultime
contestate da parte ricorrente, secondo cui la struttura
sarebbe leggera e ricoperta con fogli sottili e bitumitosi
che darebbero soltanto l’effetto estetico del tegolato
canadese) ed altresì aperta su tutti i lati.
Orbene, ritiene il Collegio che tale manufatto, che non
appare ricadere in area vincolata, per le caratteristiche su
menzionate, per le sue modeste dimensioni e per il suo
carattere non impattante, essendo privo di autonomia
funzionale, appare esente dall’assoggettamento al permesso
di costruire, potendo essere considerato alla stregua di un
intervento assentibile tramite l’odierna s.c.i.a., ai sensi
dell’art. 22 del d.p.r. 06.06.2001 n. 380.
---------------
Per gli interventi realizzati in violazione del regime di
segnalazione di attività, ai sensi dell’art. 37, comma 1,
d.p.r. 380/2001, l’amministrazione può comminare unicamente
una sanzione pecuniaria e non anche la demolizione delle
opere.
---------------
Che il gazebo non necessitasse di permesso di costruire
discende anche dalla circostanza che lo stesso si pone quale
elemento pertinenziale con una volumetria inferiore al 20%,
ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett.e. 6), del d.p.r. n.
380/2001.
Peraltro, le pertinenze di piccole dimensioni, secondo
giurisprudenza condivisibile, non sono tenute a rispettare
la disciplina in materia di distanze, né sono soggette a
permesso di costruire.
---------------
... per
l'annullamento dell'ordinanza comunale n. 34 del 22/07/2014
di demolizione delle seguenti opere edilizie abusive “struttura
in legno lamellare composta da quattro pilastri verticali
fissati al suolo mediante apposite staffe in ferro e da una
struttura di copertura a due falde sempre con l’utilizzo di
travi in legno.
Detta struttura di forma rettangolare ha una superficie di
mq. 7,20 circa ed ha altezza al colmo di mt. 2,80 e alla
gronda di mt. 7,20 circa ed ha altezza al colmo di mt. 2,80
e alla gronda di mt. 2,30 coperta con tavolaccio e
soprastante strato di tegole canadesi, e posta a distanza di
mt. 0,80 dal confine di proprietà con altra ditta a distanza
nulla, nonché ad una distanza al proprio fabbricato di circa
mt. 4,50”;
...
2.2. Comunque, come dedotto da parte ricorrente, nel caso,
non era necessario il permesso di costruire.
Il Collegio osserva che, di regola, tettoie e gazebo sono
opere che non rappresentano costruzioni vere e proprie, ma
hanno caratteristiche di precarietà strutturale e funzionale
destinate a soddisfare esigenze contingenti e circoscritte
nel tempo, esenti dunque dall’assoggettamento a permesso di
costruire (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 19.09.2006, n.
5469; TAR Calabria, Catanzaro, sez. II, 28.11.2014 n. 2014;
TAR Molise, sez. I, 31.01.2014, n. 66; TAR Calabria,
Catanzaro, sez. II, 03.10.2012, n.976); non di meno, però,
quando esse non sono precarie, ma funzionali a soddisfare
esigenze permanenti, vanno considerate come manufatti
alteranti lo stato dei luoghi, con incremento del carico
urbanistico (Consiglio di Stato, sez. V, 01.12.2003, n.
7822; sez. IV, 04.09.2013, n. 4438), costituendo la
consistenza e la stabilità della struttura i criteri per la
relativa valutazione (Consiglio di Stato, sez. VI,
12.12.2012, n.6382).
2.3. Tanto premesso, l’opera in questione risulta della
superficie di 7,20 mq, di altezza al colmo di mt. 2,80 e
alla gronda di mt. 2,30, composta da quattro pilastri
verticali fissati al pavimento mediante staffe in ferro,
coperta con tavolaccio e soprastante strato di tegole
canadesi (quest’ultime contestate da parte ricorrente,
secondo cui la struttura sarebbe leggera e ricoperta con
fogli sottili e bitumitosi che darebbero soltanto l’effetto
estetico del tegolato canadese) ed altresì aperta su tutti i
lati.
Orbene, ritiene il Collegio che tale manufatto, che non
appare ricadere in area vincolata, per le caratteristiche su
menzionate, per le sue modeste dimensioni e per il suo
carattere non impattante, essendo privo di autonomia
funzionale, appare esente dall’assoggettamento al permesso
di costruire, potendo essere considerato alla stregua di un
intervento assentibile tramite l’odierna s.c.i.a., ai sensi
dell’art. 22 del d.p.r. 06.06.2001 n. 380.
Da quanto sopra consegue l’illegittimità dell’impugnato
provvedimento, in quanto il gazebo in questione, per le
esigue caratteristiche strutturali e dimensionali, non è
tale da avere un rilevante impatto urbanistico.
Ne consegue, altresì, che, potendo per gli interventi
realizzati in violazione del regime di segnalazione di
attività, ai sensi dell’art. 37, comma 1, del citato d.p.r.,
l’amministrazione comminare unicamente una sanzione
pecuniaria e non anche la demolizione delle opere, salvo i
casi previsti, le censure al riguardo di parte ricorrente,
nel complesso, sono condivisibili.
2.4. Inoltre, come osservato dalle ricorrenti (motivo III),
che il gazebo non necessitasse di permesso di costruire
discende anche dalla circostanza che lo stesso si pone quale
elemento pertinenziale con una volumetria inferiore al 20%
(circostanza che non è stata contestata), ai sensi dell’art.
3, comma 1, lett.e. 6), del d.p.r. n. 380/2001.
Peraltro, le pertinenze di piccole dimensioni, secondo
giurisprudenza condivisibile, non sono tenute a rispettare
la disciplina in materia di distanze (cfr. TAR
Abruzzo–Pescara, sez. I, 11.08.2015), né sono soggette a
permesso di costruire (TAR
Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 11.01.2016 n. 7 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI: Sebbene
l’atto di indirizzo non modifichi immediatamente la
situazione giuridica dei destinatari finali, esso pone dei
vincoli all'organo competente a provvedere, senz'altro
rilevanti in ordine alla valutazione giudiziale del
successivo esercizio del potere, ma —di norma— non tali da
produrre lesioni dirette per le quali possa predicarsi
l'onere dell'immediata impugnazione.
Non può del pari escludersi che, ove la particolare natura
delle prescrizioni e delle modalità d'azione prefigurate
siano così stringenti da rendere ineluttabile l'effetto
lesivo poi concretamente generato dall'atto attuativo,
l'atto di indirizzo possa esso stesso porsi come fonte
direttamente lesiva, risultando invero plausibile che la
certezza di una futura modifica della situazione giuridica o
la stessa capacità conformativa immediata dell'indirizzo
vincolante possano, in concreto, risultare fattispecie
idonee a radicare un interesse giuridicamente rilevante e
processualmente spendibile.
---------------
6. - Va premessa l’ammissibilità del ricorso principale.
E’ stato infatti osservato in giurisprudenza che, sebbene
l’atto di indirizzo non modifichi immediatamente la
situazione giuridica dei destinatari finali, esso pone dei
vincoli all'organo competente a provvedere, senz'altro
rilevanti in ordine alla valutazione giudiziale del
successivo esercizio del potere, ma —di norma— non tali da
produrre lesioni dirette per le quali possa predicarsi
l'onere dell'immediata impugnazione. Non può del pari
escludersi che, ove la particolare natura delle prescrizioni
e delle modalità d'azione prefigurate siano così stringenti
da rendere ineluttabile l'effetto lesivo poi concretamente
generato dall'atto attuativo, l'atto di indirizzo possa esso
stesso porsi come fonte direttamente lesiva, risultando
invero plausibile che la certezza di una futura modifica
della situazione giuridica o la stessa capacità conformativa
immediata dell'indirizzo vincolante possano, in concreto,
risultare fattispecie idonee a radicare un interesse
giuridicamente rilevante e processualmente spendibile (TAR
Calabria–Reggio Calabria, 07.04.2011, n. 263).
Nel caso di specie, l’impugnata deliberazione della Giunta
del Comune di Cassano All’Ionio ha provveduto ad individuare
specificamente nella Cooperativa sociale Fu.La. il soggetto
cui affidare il servizio di assistenza agli alunni disabili
della scuola dell’obbligo. Nel fare ciò, essa ha conformato
la successiva azione amministrativa rendendola, nella
prospettiva della ricorrente, inevitabilmente lesiva per i
suoi interessi.
Non a caso, la successiva determinazione del Dirigente del
Settore Affari Generali –anch’essa puntualmente impugnata
con motivi aggiunti- ha recepito l’indicazione della Giunta
comunale, affidando l’incarico alla cooperativa sociale
individuata dalla Giunta e pertanto attualizzando la lesione
già provocata dall’atto di indirizzo
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 11.01.2016 n. 3 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
Al fine di creare
opportunità per i soggetti svantaggiati, l’art. 5 l.
08.11.1991, n. 381, nel testo applicabile ratione temporis,
ha consentito agli enti pubblici di stipulare, anche in
deroga alla disciplina in materia di contratti della
pubblica amministrazione, convenzioni con le cooperative
sociali di cui all'articolo 1, comma 1, lettera b), per la
fornitura di beni e servizi diversi da quelli socio-sanitari
ed educativi il cui importo stimato al netto dell'IVA sia
inferiore agli importi stabiliti dalle direttive comunitarie
in materia di appalti pubblici.
Condizione di tale affidamento è l’iscrizione di dette
cooperative all’apposito albo istituito dalle Regioni.
Poiché non risulta che la Cooperativa sociale Fu.La. fosse
iscritta all’albo delle cooperative sociali, ai sensi
dell’art. 34, comma 3 c.p.a., deve essere accertata
l’illegittimità dei provvedimenti oggetto di impugnativa,
così come richiesto dalla ricorrente.
---------------
La domanda di risarcimento del danno deve trovare
accoglimento, in quanto si riscontra la presenza di tutti
gli elementi integranti la fattispecie risarcitoria. Vi è,
in primo luogo, l’accertata condotta illegittima
dell’amministrazione.
Vi è la lesione, non iure e contra ius, dell’interesse al
bene della vita vantato dalla ricorrente.
Infatti, laddove l’amministrazione avesse correttamente
rilevato che la Cooperativa sociale Fu.La. non possedeva il
requisito che –ai sensi dell’art. 5 l. 08.11.1991, n. 381–
le consentiva di ottenere l’affidamento diretto del
servizio, il medesimo sarebbe stato affidato (con un livello
di probabilità che al Collegio appare sufficiente ad
soddisfare il criterio probatorio della preponderanza
dell’evidenza) alla ricorrente, che aveva formulato l’unica
manifestazione di interesse alternativa a quella
selezionata.
Vi è, infine, un nesso eziologico tra la condotta
illegittima e la lesione.
Ritiene, invece, il Collegio che non occorra anche che
l’illegittima condotta dell’amministrazione debba anche
essere qualificata come colposa.
Invero, trattandosi di un appalto di servizi sottratto
all’applicabilità della direttiva 2004/18/CE del Parlamento
Europeo e del Consiglio del 31.03.2004, non sono vincolanti
per il giudice nazionale i principi sanciti dalla Corte di
Giustizia dell’Unione Europea, la quale ha affermato che il
diritto comunitario in tema di appalti osta ad una normativa
nazionale che subordini il diritto al risarcimento a motivo
di una violazione della disciplina sugli appalti pubblici da
parte di un’amministrazione aggiudicatrice al carattere
colpevole di tale violazione, anche nel caso in cui
l’applicazione della normativa in questione sia incentrata
su una presunzione di colpevolezza in capo
all’amministrazione suddetta, nonché sull’impossibilità per
quest’ultima di far valere la mancanza di proprie capacità
individuali e, dunque, un difetto di imputabilità soggettiva
della violazione lamentata.
Tuttavia, il Collegio ritiene che tali principi debbano
trovare generale applicazione alla materia degli appalti
pubblici.
---------------
Occorre, pertanto, accertare e liquidare i pregiudizi subiti
dai ricorrenti.
►
La prima voce in rilevo è il lucro cessante.
Ritiene il Collegio che, nella determinazione di tale voce
di danno, occorra tener conto dei seguenti elementi:
a) il lucro cessante va individuato in quella parte di
corrispettivo eccedente rispetto al costo dei fattori di
produzione impiegati per l’erogazione della prestazione;
b) nel caso di specie, il corrispettivo per la prestazione
del servizio era stabilito nella misura di € 34.161,00;
c) il fattore produttivo prevalente nella prestazione del
servizio oggetto di affidamento, e cioè l’assistenza agli
alunni disabili, è quello lavorativo; d) trattandosi di
cooperativa sociale, il costo per l’acquisto del fattore
produttivo del lavoro, è, di regola, più contenuto di quello
che affrontano le imprese sul libero mercato.
Alla stregua di tali parametri, e tenuto conto
dell’incidenza dei costi generali, si può affermare che,
laddove il servizio di cui si discute fosse stato
correttamente affidato alla società ricorrente, il lucro che
essa avrebbe ricavato dalla prestazione del servizio (dato
dalla seguente operazione: valore dell’appalto – costi per
l’acquisto del fattore di produzione del lavoro – costi per
l’acquisto degli altri fattori di produzione - quota di
incidenza dei costi generali) sarebbe stato quantificabile
approssimativamente nel 20% del valore dell’appalto, e
quindi nella misura di € 6.832,20.
Ai fini risarcitori, tale importo va diminuito (nella
misura, ritenuta equa, della metà) secondo il noto principio
dell’aliunde perceptum vel percipiendum, per cui, onde
evitare che, a seguito del risarcimento, l'impresa
danneggiata possa trovarsi in una situazione addirittura
migliore rispetto a quella in cui si sarebbe trovata in
assenza dell'illecito, va detratto dall'importo dovuto a
titolo risarcitorio quanto percepito o quanto avrebbe potuto
percepire grazie allo svolgimento di diverse attività
lucrative, nel periodo in cui avrebbe dovuto eseguire
l'appalto in contestazione.
Infatti, l'onere di provare (l'assenza del) l'aliunde
perceptum vel percipiendum grava non sull'amministrazione,
ma sull'impresa: e ciò in ragione della presunzione, secondo
l'id quod plerumque accidit, che l'imprenditore normalmente
diligente non rimane inerte in caso di mancata
aggiudicazione di un appalto, ma persegue occasioni
contrattuali alternative, dalla cui esecuzione trae il
relativo utile.
►
E’ dovuto, altresì, il
risarcimento del danno curriculare.
Infatti, deve ammettersi che l'impresa illegittimamente
privata dell'esecuzione di un appalto possa rivendicare a
titolo di lucro cessante anche la perdita della possibilità
di arricchire il proprio curriculum professionale; infatti,
l'interesse alla vittoria di un appalto, nella vita di
un'impresa, va ben oltre l'interesse all'esecuzione
dell'opera in sé e al relativo incasso, posto che alla
mancata esecuzione di un'opera appaltata si ricollegano
indirettamente nocumenti all'immagine della società ed al
suo radicamento nel mercato, per non dire del potenziamento
di imprese concorrenti che operano su medesimo target di
mercato, dichiarate, in modo illegittimo, aggiudicatarie
della gara.
Tale danno non può che essere quantificato in via
equitativa, nella misura che si reputa corretta di € 750,00
(si noti che nella giurisprudenza il danno curriculare viene
liquidato in una misura variabile tra l’1% ed il 3% del
lucro cessante.
Il danno complessivo, al cui risarcimento deve essere
condannato il Comune di Cassano All’Ionio, ammonta, dunque,
ad € 4.166,10 [(€ 6.832,20/2) + € 750,00].
Trattandosi di debito di valore, su tale importo sono dovuti
la rivalutazione secondo l’indice ISTAT dei prezzi al
consumo (FOI) e gli interessi corrispettivi, da computarsi
al saggio legale sulla somma annualmente rivalutata, con
decorrenza dalla data di cristallizzazione del danno, da
individuare nel giorno di stipula del contratto oggetto
della procedura concorsuale, sino alla data di pubblicazione
della presente sentenza.
---------------
7. - Nel merito, si osserva che, al fine di creare
opportunità per i soggetti svantaggiati, l’art. 5 l.
08.11.1991, n. 381, nel testo applicabile ratione
temporis, ha consentito agli enti pubblici di stipulare,
anche in deroga alla disciplina in materia di contratti
della pubblica amministrazione, convenzioni con le
cooperative sociali di cui all'articolo 1, comma 1, lettera
b), per la fornitura di beni e servizi diversi da quelli
socio-sanitari ed educativi il cui importo stimato al netto
dell'IVA sia inferiore agli importi stabiliti dalle
direttive comunitarie in materia di appalti pubblici.
Condizione di tale affidamento è l’iscrizione di dette
cooperative all’apposito albo istituito dalle Regioni.
7.1. - Nell’ambito della Regione Calabria, il combinato
disposto dell’art. 131, lett. n), l.r. 12.08.2002, n. 34, e
degli artt. 6 ss. l.r. 17.08.2009, n. 28, delinea un albo
articolato su due livelli: le amministrazioni provinciali
curano la tenuta dell’albo provinciale delle cooperative
sociali; l’albo regionale risulta dall’aggregazione degli
albi provinciali.
Per quel che qui interessa, dalla documentazione trasmessa
dalla Ragione Calabria in ottemperanza all’ordinanza
istruttoria pronunciata da questo Tribunale risulta che la
Provincia di Cosenza ha provveduto, con deliberazione del
Consiglio provinciale del 20.03.2007, n. 8, a istituire
l’albo provinciale delle cooperative sociali, cui il
soggetto ricorrente risulta iscritto sin dal 02.08.2010.
7.2. - Va a questo punto evidenziata l’inesattezza
dell’attestazione, prodotta in giudizio al Comune di Cassano
all’Ionio e resa dal funzionario del Dipartimento 10 –
Settore 1, Politiche del Lavoro in data 12.10.2012, prot.
SIAR n. 338968, dalla quale risulta la mancata istituzione
dell’albo regionale
Infatti, poiché erano stati comunque istituiti gli albi
provinciali delle cooperative sociali –di cui l’albo
regionale rappresenta solo un’aggregazione-, era possibile
dare concreta applicazione all’art. 5 l. 08.11.1991, n. 381.
L’inesattezza, nondimeno, non può aver inciso sulla
determinazione della volontà del Comune di Cassano
All’Ionio, in quanto l’attestazione de qua è posteriore
all’atto di indirizzo assunto dalla Giunta comunale.
7.3. - Poiché non risulta che la Cooperativa sociale Fu.La.
fosse iscritta all’albo delle cooperative sociali, ai sensi
dell’art. 34, comma 3 c.p.a., deve essere accertata
l’illegittimità dei provvedimenti oggetto di impugnativa,
così come richiesto dalla ricorrente.
8. - La domanda di risarcimento del danno deve trovare
accoglimento, in quanto si riscontra la presenza di tutti
gli elementi integranti la fattispecie risarcitoria.
8.1. - Vi è, in primo luogo, l’accertata condotta
illegittima dell’amministrazione.
Vi è la lesione, non iure e contra ius,
dell’interesse al bene della vita vantato dalla ricorrente.
Infatti, laddove l’amministrazione avesse correttamente
rilevato che la Cooperativa sociale Fu.La. non possedeva il
requisito che –ai sensi dell’art. 5 l. 08.11.1991, n. 381–
le consentiva di ottenere l’affidamento diretto del
servizio, il medesimo sarebbe stato affidato (con un livello
di probabilità che al Collegio appare sufficiente ad
soddisfare il criterio probatorio della preponderanza
dell’evidenza: cfr. Cass. Civ., Sez. Un., 11.01.2008 n. 576;
Cass. Civ., Sez. III, 05.05.2009, n. 10285) alla ricorrente,
che aveva formulato l’unica manifestazione di interesse
alternativa a quella selezionata.
Vi è, infine, un nesso eziologico tra la condotta
illegittima e la lesione.
8.2. - Ritiene, invece, il Collegio che non occorra anche
che l’illegittima condotta dell’amministrazione debba anche
essere qualificata come colposa.
Invero, trattandosi di un appalto di servizi sottratto
all’applicabilità della direttiva 2004/18/CE del Parlamento
Europeo e del Consiglio del 31.03.2004, non sono vincolanti
per il giudice nazionale i principi sanciti dalla Corte di
Giustizia dell’Unione Europea, la quale ha affermato che il
diritto comunitario in tema di appalti osta ad una normativa
nazionale che subordini il diritto al risarcimento a motivo
di una violazione della disciplina sugli appalti pubblici da
parte di un’amministrazione aggiudicatrice al carattere
colpevole di tale violazione, anche nel caso in cui
l’applicazione della normativa in questione sia incentrata
su una presunzione di colpevolezza in capo
all’amministrazione suddetta, nonché sull’impossibilità per
quest’ultima di far valere la mancanza di proprie capacità
individuali e, dunque, un difetto di imputabilità soggettiva
della violazione lamentata (CGUE, Sez. III, 30.09.2010, in
causa C-314/09, richiamata dai ricorrenti nel ricorso per
motivi aggiunti; in precedenza CGUE, Sez. III, sentenza del
14.10.2004, in causa C275/03).
Tuttavia, il Collegio ritiene che tali principi (di cui
hanno fatto applicazione, più di recente, Cons. Stato, Sez.
V, 27.03.2013 n. 1833; Cons. Stato, Sez. V, 08.11.2012 n.
5686; Cons. Stato, Sez. IV, 04.09.2013, n. 4439; Cons.
Stato, Sez. IV, 13.12.2013, n. 6000; TAR Lazio–Roma, Sez. II,
11.09.2013, n. 8208, secondo cui l'art. 124 c.p.a.
introdotto un'ipotesi di responsabilità oggettiva) debbano
trovare generale applicazione alla materia degli appalti
pubblici (nel medesimo senso Cons. Stato, Sez. V,
08.11.2012, n. 5685; TAR Calabria–Catanzaro, Sez. II,
17.12.2011, n. 1616).
9. - Occorre, pertanto, accertare e liquidare i pregiudizi
subiti dai ricorrenti.
9.1. - La prima voce in rilevo è il lucro cessante,
che la cooperativa sociale ricorrente stima, anche sulla
base della consulenza tecnica di parte depositata, nella
misura di € 30.000,00.
Ritiene il Collegio che, nella determinazione di tale voce
di danno, occorra tener conto dei seguenti elementi:
a) il lucro cessante va individuato in quella parte di
corrispettivo eccedente rispetto al costo dei fattori di
produzione impiegati per l’erogazione della prestazione;
b) nel caso di specie, il corrispettivo per la prestazione
del servizio era stabilito nella misura di € 34.161,00;
c) il fattore produttivo prevalente nella prestazione del
servizio oggetto di affidamento, e cioè l’assistenza agli
alunni disabili, è quello lavorativo; d) trattandosi di
cooperativa sociale, il costo per l’acquisto del fattore
produttivo del lavoro, è, di regola, più contenuto di quello
che affrontano le imprese sul libero mercato.
Ai fini della quantificazione di tale ultimo dato, e cioè
dell’incidenza dei costi per l’acquisto del fattore di
produzione lavoro rispetto al valore della produzione, si
rileva che dai bilanci degli anni 2011, 2012 e 2013,
prodotti in giudizio dalla Cooperativa sociale La To.,
emerge che il valore della produzione è stato di €
828.847,00 nel 2010, di € 888.043,00 nel 2011, di €
776.428,00 nel 2012, di € 735.511,00 nel 2013; il costo per
il personale è stato di € 537.390,00 nel 2010, di €
599.476,00 nel 2011, di € 626.586,00 nel 2012, di € 540.364,
nel 2013. Dunque, il rapporto medio tra costo del fattore
lavoro e il valore della produzione è stato del 71,63%.
Alla stregua di tali parametri, e tenuto conto
dell’incidenza dei costi generali, si può affermare che,
laddove il servizio di cui si discute fosse stato
correttamente affidato alla società ricorrente, il lucro che
essa avrebbe ricavato dalla prestazione del servizio (dato
dalla seguente operazione: valore dell’appalto – costi per
l’acquisto del fattore di produzione del lavoro – costi per
l’acquisto degli altri fattori di produzione - quota di
incidenza dei costi generali) sarebbe stato quantificabile
approssimativamente nel 20% del valore dell’appalto, e
quindi nella misura di € 6.832,20.
9.2. - Ai fini risarcitori, tale importo va diminuito (nella
misura, ritenuta equa, della metà) secondo il noto principio
dell’aliunde perceptum vel percipiendum, per cui,
onde evitare che, a seguito del risarcimento, l'impresa
danneggiata possa trovarsi in una situazione addirittura
migliore rispetto a quella in cui si sarebbe trovata in
assenza dell'illecito, va detratto dall'importo dovuto a
titolo risarcitorio quanto percepito o quanto avrebbe potuto
percepire grazie allo svolgimento di diverse attività
lucrative, nel periodo in cui avrebbe dovuto eseguire
l'appalto in contestazione (cfr. Cons. Stato, Sez. VI,
18.03.2011, n. 1681).
Infatti, l'onere di provare (l'assenza del) l'aliunde
perceptum vel percipiendum grava non
sull'amministrazione, ma sull'impresa: e ciò in ragione
della presunzione, secondo l'id quod plerumque accidit,
che l'imprenditore normalmente diligente non rimane inerte
in caso di mancata aggiudicazione di un appalto, ma persegue
occasioni contrattuali alternative, dalla cui esecuzione
trae il relativo utile (Cons. Stato, Sez. VI, 15.10.2012, n.
5279; cfr. anche la già citata sentenza Cons. Stato, Sez. VI,
18.03.2011, n. 1681).
Nel caso in esame, tale prova non è stata data; anzi, la
cooperativa sociale ricorrente nemmeno ha allegato di non
aver potuto reimpiegare in altre attività remunerate le
risorse professionali destinate alla prestazione
dell’assistenza agli alunni disabili.
9.3. - E’ dovuto, altresì, il risarcimento del danno
curriculare.
Infatti, deve ammettersi che l'impresa illegittimamente
privata dell'esecuzione di un appalto possa rivendicare a
titolo di lucro cessante anche la perdita della possibilità
di arricchire il proprio curriculum professionale; infatti,
l'interesse alla vittoria di un appalto, nella vita di
un'impresa, va ben oltre l'interesse all'esecuzione
dell'opera in sé e al relativo incasso, posto che alla
mancata esecuzione di un'opera appaltata si ricollegano
indirettamente nocumenti all'immagine della società ed al
suo radicamento nel mercato, per non dire del potenziamento
di imprese concorrenti che operano su medesimo target di
mercato, dichiarate, in modo illegittimo, aggiudicatarie
della gara (Cons. Stato, Sez. VI, 09.06.2008, n. 2751).
Tale danno non può che essere quantificato in via
equitativa, nella misura che si reputa corretta di € 750,00
(si noti che nella giurisprudenza il danno curriculare viene
liquidato in una misura variabile tra l’1% ed il 3% del
lucro cessante: cfr. TAR Campania–Napoli, Sez. VIII,
11.10.2012, n. 4058; TAR Sicilia–Palermo, Sez. III,
08.02.2012, n. 309; TAR Sardegna, 21.06.2012, n. 628; TAR
Sicilia–Catania, Sez. IV, 25.05.2011, n. 1279).
9.4. Il danno complessivo, al cui risarcimento deve essere
condannato il Comune di Cassano All’Ionio, ammonta, dunque,
ad € 4.166,10 [(€ 6.832,20/2) + € 750,00].
Trattandosi di debito di valore, su tale importo sono dovuti
la rivalutazione secondo l’indice ISTAT dei prezzi al
consumo (FOI) e gli interessi corrispettivi, da computarsi
al saggio legale sulla somma annualmente rivalutata, con
decorrenza dalla data di cristallizzazione del danno, da
individuare nel giorno di stipula del contratto oggetto
della procedura concorsuale, sino alla data di pubblicazione
della presente sentenza (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 11.01.2016 n. 3 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Nelle
gare pubbliche la certificazione di qualità rientra tra i
requisiti soggettivi di carattere tecnico-organizzativo che
può essere oggetto di avvalimento, ma a condizione che
l'impresa ausiliaria si impegni a mettere a disposizione
dell'impresa ausiliata le proprie risorse e il proprio
apparato organizzativo in tutte le parti che giustificano
l'attribuzione del requisito di qualità (a seconda dei casi:
mezzi, personale, prassi e tutti gli altri elementi
aziendali qualificanti).
Inoltre l'avvalimento, così come configurato dalla legge,
deve essere reale e non formale, nel senso che non può
considerarsi sufficiente prestare la certificazione
posseduta assumendo impegni assolutamente generici, giacché
in questo modo verrebbe meno la stessa essenza
dell'istituto, finalizzato non già ad arricchire la capacità
tecnica ed economica del concorrente, bensì a consentire a
soggetti, che ne siano sprovvisti, di concorrere alla gara
ricorrendo ai requisiti di altri soggetti, garantendo
l'affidabilità dei lavori, dei servizi o delle forniture
appaltati.
---------------
Nelle gare pubbliche la certificazione di qualità, essendo
connotata dal precipuo fine di valorizzare gli elementi di
eccellenza dell'organizzazione complessiva, è da
considerarsi anch'essa requisito di idoneità tecnico
organizzativa dell'impresa, da inserirsi tra gli elementi
idonei a dimostrarne la capacità tecnico-professionale
assicurando che l'impresa, cui sarà affidato il servizio o
la fornitura, sarà in grado di effettuare la prestazione nel
rispetto di un livello minimo di qualità accertato da un
organismo a ciò predisposto; di conseguenza, afferendo essa
alla capacità tecnica dell'imprenditore, può formare oggetto
dell'avvalimento come disciplinato dall'art. 49, d.lgs.
12.04.2006 n. 163.
---------------
L'impresa ausiliata può senz'altro utilizzare tutti i
requisiti afferenti alla capacità economica e tecnica
dell'impresa ausiliaria, tra cui la certificazione di
qualità, in quanto quest’ultima, essendo connotata dal
precipuo fine di valorizzare gli elementi d’eccellenza
dell'organizzazione complessiva, è anch'essa requisito
d’idoneità tecnico-organizzativa dell'impresa. Essa, dunque,
s’inserisce tra gli elementi idonei a dimostrare la capacità
dell'impresa, cui sarà affidato il servizio o la fornitura,
di effettuare la prestazione nel rispetto di quel livello
minimo di qualità accertato da un organismo a ciò
predisposto ed indipendente.
Certo, come in tutti gli altri casi d’avvalimento, l’unico
limite dell’istituto è e resta la condizione che l'avvalimento
sia effettivo e non fittizio, non potendosi ammettere il
c.d. "prestito" della sola certificazione di qualità quale
mero documento e senza quel minimo d’apparato
dell’ausiliaria atta a dar senso al prestito stesso, a
seconda dei casi i mezzi, il personale, il know how, le
prassi e tutti gli altri elementi aziendali qualificanti.
Sul punto, è stato chiarito che siffatta certificazione, in
quanto finalizzata ad assicurare l'espletamento del servizio
o della fornitura da una impresa secondo il livello
qualitativo accertato dall’apposito organismo e sulla base
di parametri rigorosi delineati a livello internazionale
—che danno rilievo all'organizzazione complessiva della
relativa attività ed all'intero svolgimento delle diverse
fasi di lavoro—, non può essere oggetto di avvalimento senza
la messa a disposizione di tutto o di quella parte del
complesso aziendale del soggetto al quale è stato
riconosciuto il sistema di qualità, occorrente per
l’effettuazione del servizio o della fornitura.
L’art. 49 del Dlgs 163/2006, che non può non esser letto in
coerenza con la norma UE correlata, non tollera perciò
limitazioni sull’an dell’istituto, pur imponendo, come
d’altronde già prevede l’ordinamento generale, la serietà
dell’impegno nel quid e nel quomodo dell’ausiliaria verso l’ausiliata,
al fine di garantire l’effettività ai fini dell’adempimento
dell’appalto. Tanto perché, com’è ovvio, nelle gare
pubbliche, il requisito di ammissione dimostrato
dall'impresa partecipante mediante l’avvalimento deve
rassicurare la stazione appaltante circa l'affidabilità
della futura offerta allo stesso modo in cui ciò avverrebbe
se il requisito fosse posseduto in via diretta dalla
partecipante alla gara.
---------------
Inoltre, come recentemente affermato da questa sezione nella
sentenza n. 2513/2014 e confermato dalla terza sezione del
Consiglio di Stato con la sentenza n. 3517/2015, che
riguardano atti della medesima gara oggetto della presente
impugnazione, secondo il più recente orientamento della
giurisprudenza amministrativa, nelle gare pubbliche la
certificazione di qualità rientra tra i requisiti soggettivi
di carattere tecnico-organizzativo che può essere oggetto di
avvalimento, ma a condizione che l'impresa ausiliaria si
impegni a mettere a disposizione dell'impresa ausiliata le
proprie risorse e il proprio apparato organizzativo in tutte
le parti che giustificano l'attribuzione del requisito di
qualità (a seconda dei casi: mezzi, personale, prassi e
tutti gli altri elementi aziendali qualificanti); inoltre l'avvalimento,
così come configurato dalla legge, deve essere reale e non
formale, nel senso che non può considerarsi sufficiente
prestare la certificazione posseduta assumendo impegni
assolutamente generici, giacché in questo modo verrebbe meno
la stessa essenza dell'istituto, finalizzato non già ad
arricchire la capacità tecnica ed economica del concorrente,
bensì a consentire a soggetti, che ne siano sprovvisti, di
concorrere alla gara ricorrendo ai requisiti di altri
soggetti, garantendo l'affidabilità dei lavori, dei servizi
o delle forniture appaltati (Cons. Stato, sez. V,
11.07.2014, n. 3574).
Nelle gare pubbliche la certificazione di qualità, essendo
connotata dal precipuo fine di valorizzare gli elementi di
eccellenza dell'organizzazione complessiva, è da
considerarsi anch'essa requisito di idoneità
tecnico-organizzativa dell'impresa, da inserirsi tra gli
elementi idonei a dimostrarne la capacità tecnico
professionale assicurando che l'impresa, cui sarà affidato
il servizio o la fornitura, sarà in grado di effettuare la
prestazione nel rispetto di un livello minimo di qualità
accertato da un organismo a ciò predisposto; di conseguenza,
afferendo essa alla capacità tecnica dell'imprenditore, può
formare oggetto dell'avvalimento come disciplinato dall'art.
49, d.lgs. 12.04.2006 n. 163 (Cons. Stato, sez. V,
20.12.2013, n. 6125).
Inoltre, come risulta affermato dal giudice di appello: “Nella
specie, sulla fornitura del CO2 l’aggiudicataria ha
dichiarato di volersi avvalere del certificato di qualità
UNI EN ISO 22000:2005, per il trasporto, della GASCAR s.r.l.
e, per la produzione, della certificazione di qualità della
SAPIO Produzione idrogeno e ossigeno s.r.l.. Deduce
l’appellante che non è possibile avvalersi della qualità
altrui, ché attiene ai requisiti soggettivi dell’impresa, ma
pare al Collegio che, prima ancora del TAR, la stessa
Azienda appaltante abbia fatto corretto governo dei criteri
che disciplinano il sistema dell’avvalimento, anche per ciò
che attiene a tal certificazione. In particolare, un’impresa
ha formulato taluni quesiti sul punto, cioè se il possesso
della certificazione di qualità per il trasporto dei gas
potesse esser soddisfatto con l’avvalimento. L’Azienda ha
risposto che pure tal possesso può esser oggetto d’avvalimento
ai sensi dell’art. 49 del Dlgs 163/2006, poiché si tratta
d’un requisito dell’impresa di natura
tecnico–organizzativo".
Ebbene, nella specie, anche l’aggiudicataria s’è adeguata
all’avviso dell’Azienda, il quale, si badi, è coerente con
la consolidata giurisprudenza di questo Consiglio, specie se
si tiene conto dell’assenza di un’espressa preclusione della
lex specialis al riguardo. Infatti, l'impresa ausiliata può
senz'altro utilizzare tutti i requisiti afferenti alla
capacità economica e tecnica dell'impresa ausiliaria, tra
cui la certificazione di qualità, in quanto quest’ultima,
essendo connotata dal precipuo fine di valorizzare gli
elementi d’eccellenza dell'organizzazione complessiva, è
anch'essa requisito d’idoneità tecnico-organizzativa
dell'impresa (Cons. St., IV, 03.10.2014 n. 4958). Essa,
dunque, s’inserisce tra gli elementi idonei a dimostrare la
capacità dell'impresa, cui sarà affidato il servizio o la
fornitura, di effettuare la prestazione nel rispetto di quel
livello minimo di qualità accertato da un organismo a ciò
predisposto ed indipendente (cfr. così Cons. St., V,
06.03.2013 n. 1368; id., 20.12.2013 n. 6125; id., 24.07.2014
n. 3949).
Certo, come in tutti gli altri casi d’avvalimento, l’unico
limite dell’istituto è e resta la condizione che l'avvalimento
sia effettivo e non fittizio, non potendosi ammettere il
c.d. "prestito" della sola certificazione di qualità quale
mero documento e senza quel minimo d’apparato
dell’ausiliaria atta a dar senso al prestito stesso, a
seconda dei casi i mezzi, il personale, il know how, le
prassi e tutti gli altri elementi aziendali qualificanti
(cfr. così, Cons. St., V, 11.07.2014 n. 3574).
Sul punto, la Sezione (cfr., per tutti, Cons. St., III,
07.04.2014 n. 1636) ha chiarito che siffatta certificazione,
in quanto finalizzata ad assicurare l'espletamento del
servizio o della fornitura da una impresa secondo il livello
qualitativo accertato dall’apposito organismo e sulla base
di parametri rigorosi delineati a livello internazionale
—che danno rilievo all'organizzazione complessiva della
relativa attività ed all'intero svolgimento delle diverse
fasi di lavoro—, non può essere oggetto di avvalimento senza
la messa a disposizione di tutto o di quella parte del
complesso aziendale del soggetto al quale è stato
riconosciuto il sistema di qualità, occorrente per
l’effettuazione del servizio o della fornitura. L’art. 49
del Dlgs 163/2006, che non può non esser letto in coerenza
con la norma UE correlata, non tollera perciò limitazioni
sull’an dell’istituto, pur imponendo, come d’altronde già
prevede l’ordinamento generale, la serietà dell’impegno nel
quid e nel quomodo dell’ausiliaria verso l’ausiliata, al
fine di garantire l’effettività ai fini dell’adempimento
dell’appalto. Tanto perché, com’è ovvio, nelle gare
pubbliche, il requisito di ammissione dimostrato
dall'impresa partecipante mediante l’avvalimento deve
rassicurare la stazione appaltante circa l'affidabilità
della futura offerta allo stesso modo in cui ciò avverrebbe
se il requisito fosse posseduto in via diretta dalla
partecipante alla gara (giurisprudenza consolidata).
Questi essendo i capisaldi della giurisprudenza
sull’argomento, l’Azienda ed il TAR, ciascuno per il proprio
ambito di competenza, ne hanno fornito corretta applicazione
nel caso in esame…” (Cons. Stato, sez. III, 14.07.2015,
n. 3517)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 26.11.2015 n. 2492 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
E' illegittima
l'esclusione automatica da una gara pubblica, indetta per
l'affidamento di un appalto di forniture, di una impresa che
non aveva indicato, nell'offerta economica, gli oneri per la
sicurezza.
Ed invero, nel caso di appalti non aventi ad oggetto
l'esecuzione di lavori pubblici, nei cui confronti si
applica la norma dettata ad hoc dall'art. 131 del d.lgs.
12.04.2006 n. 163, ed il cui bando di gara non contenga una
comminatoria espressa, l'omessa indicazione nell'offerta
dello scorporo matematico degli oneri di sicurezza per
rischio specifico non comporta di per sé l'esclusione dalla
gara, ma rileva ai soli fini dell'anomalia del prezzo
offerto, nel senso che, per scelta della stazione
appaltante, il momento di valutazione dei suddetti oneri non
è eliso, ma è posticipato al sub-procedimento di verifica
della congruità dell'offerta nel suo complesso.
---------------
E’ stato statuito in una recente decisione che, in relazione
agli appalti di forniture e di servizi intellettuali (nel
cui ambito il rischio c.d. ‘specifico’ o ‘aziendale’ ha
minore possibilità di incidenza), la regola di
specificazione (o separata indicazione) dei costi di
sicurezza, ai sensi degli articoli 86 e 87 del decreto
legislativo n. 163 del 2006 opera in via primaria nei
confronti delle amministrazioni aggiudicatrici in sede di
predisposizione delle gare di appalto e di valutazione
dell’anomalia, con la conseguenza che l’assenza di scorporo
nel quantum fin dalla fase di presentazione dell’offerta non
può risolversi in causa di esclusione dalla gara, anche alla
luce dei criteri di tassatività della cause espulsive
previsti dall’art. 46, comma 1-bis, del medesimo codice.
Il difetto di effettivi profili di rischiosità afferenti al
tema della salute e della sicurezza sul lavoro
nell’esecuzione dell’appalto (nella specie si trattava della
fornitura di materiale informatico e di servizi di
installazione) rende sostanzialmente inutile l’inserimento
nell’ambito della lex specialis di una clausola la quale ne
preveda (ciò che avviene normalmente) l’obbligo di
quantificazione sotto comminatoria di esclusione. In tali
casi, l’inserimento nella lex specialis degli oneri di
sicurezza non ha carattere cogente ed inderogabile, onde non
può farsi luogo ad eterointegrazione delle prescrizioni di
gara.
Tale principio ha finito per essere da ultimo condiviso
nella sostanza dalla recente decisione dell’Adunanza
plenaria 20.03.2015, n. 3, nella quale è stato affermato che
“nelle procedure di affidamento di lavori i partecipanti
alla gara devono indicare nell’offerta economica i costi
interni per la sicurezza del lavoro, pena l’esclusione
dell’offerta dalla procedura anche se non prevista nel bando
di gara”; tuttavia, la decisione si muove nella direzione di
una lettura costituzionalmente orientata delle disposizioni
dinanzi richiamate e del comma 6 dell’articolo 26 del d.lgs.
n. 81 del 2008 e conclude nel senso che le stazioni
appaltanti, nella predisposizione degli atti di gara per
lavori e al fine della valutazione dell’anomalia delle
offerte, devono determinare il valore economico degli
appalti includendovi l’idonea stima di tutti i costi per la
sicurezza con l’indicazione specifica di quelli da
interferenze; i concorrenti, a loro volta, devono indicare
nell’offerta economica sia i costi di sicurezza per le
interferenze (quali predeterminati dalla stazione
appaltante) che i costi di sicurezza interni che essi
determinano in relazione alla propria organizzazione
produttiva e al tipo di offerta formulata.
Ne discende la conferma del condiviso orientamento secondo
cui nelle procedure ad evidenza pubblica la regola di
specificazione (o separata indicazione) dei costi di
sicurezza, ai sensi degli articoli 86 e 87 del decreto
legislativo n. 163 del 2006 opera in via primaria nei
confronti delle amministrazioni aggiudicatrici in sede di
predisposizione delle gare di appalto e di valutazione
dell’anomalia, con la conseguenza che l’assenza di scorporo
nel quantum fin dalla fase di presentazione dell’offerta non
può risolversi in causa di esclusione dalla gara, anche alla
luce dei criteri di tassatività della cause espulsive
previsti dall’art. 46, comma 1-bis, del medesimo Codice.
---------------
Nel caso di specie, la lex specialis di gara non prevedeva
l’obbligo per le imprese partecipanti di indicare in sede di
offerta i cc.dd. costi ‘specifici’ o ‘aziendali’ e
–correlativamente– non comminava alcuna conseguenza
escludente per la violazione di tale obbligo.
Laddove una siffatta clausola escludente fosse stata inclusa
nell’ambito della lex specialis, essa sarebbe risultata di
dubbia validità con riferimento al comma 1-bis dell’articolo
46 del ‘Codice di contratti’, stante l’insussistenza di una
siffatta ipotesi legale di esclusione e la conseguente
violazione del principio di tipicità e tassatività legale di
tali clausole.
Da tali statuizioni si ricava, dunque, che, nella
fattispecie in questione, nella quale l’indicazione degli
oneri di sicurezza aziendali non era espressamente prevista
dalla lex specialis a pena di esclusione, tale mancanza non
può di certo ravvisarsi come rilevante ai fini
dell’esclusione dell’offerta di Sa.Li..
---------------
Con riferimento al secondo motivo, specificato con il primo
motivo aggiunto, la ricorrente, essenzialmente, deduce la
violazione degli artt. 87, comma 4 e 46, comma 1-bis del
d.lgs. n. 163/2006 e 3 della legge n. 241/1990 e l’eccesso
di potere per difetto di motivazione e di istruttoria e
travisamento dei fatti per la mancata indicazione
nell’offerta della controinteressata degli oneri di
sicurezza aziendali, i quali non sarebbero stati neppure
valutati dalla commissione di gara nell’ambito del giudizio
sull’anomalia dell’offerta.
In relazione alla prima parte della censura si ritiene di
confermare l’orientamento espresso più volte dalla sezione
(cfr., per tutte, TAR Lombardia, sez. IV, 09.01.2014, n. 36;
05.03.2015, n. 645), nonché dalla maggioranza della
giurisprudenza amministrativa (cfr., fra le tante, Cons.
Stato, sez. V, 17.03.2015, n. 1375; sez. III, 04.03.2014, n.
1030), per il quale è illegittima l'esclusione automatica da
una gara pubblica, indetta per l'affidamento di un appalto
di forniture, di una impresa che non aveva indicato,
nell'offerta economica, gli oneri per la sicurezza. Ed
invero, nel caso di appalti non aventi ad oggetto
l'esecuzione di lavori pubblici, nei cui confronti si
applica la norma dettata ad hoc dall'art. 131 del
d.lgs. 12.04.2006 n. 163, ed il cui bando di gara non
contenga una comminatoria espressa, l'omessa indicazione
nell'offerta dello scorporo matematico degli oneri di
sicurezza per rischio specifico non comporta di per sé
l'esclusione dalla gara, ma rileva ai soli fini
dell'anomalia del prezzo offerto, nel senso che, per scelta
della stazione appaltante, il momento di valutazione dei
suddetti oneri non è eliso, ma è posticipato al
sub-procedimento di verifica della congruità dell'offerta
nel suo complesso (Cons. Stato, sez. V, 02.10.2014, n.
4907).
Tale consolidato orientamento è stato confermato pure a
seguito della nota pronuncia resa dal giudice di appello in
adunanza plenaria (Cons. Stato, A.P., 20.03.2015, n. 3).
E’ stato, invero, statuito in una recente decisione che, in
relazione agli appalti di forniture e di servizi
intellettuali (nel cui ambito il rischio c.d. ‘specifico’
o ‘aziendale’ ha minore possibilità di incidenza), la
regola di specificazione (o separata indicazione) dei costi
di sicurezza, ai sensi degli articoli 86 e 87 del decreto
legislativo n. 163 del 2006 opera in via primaria nei
confronti delle amministrazioni aggiudicatrici in sede di
predisposizione delle gare di appalto e di valutazione
dell’anomalia, con la conseguenza che l’assenza di scorporo
nel quantum fin dalla fase di presentazione
dell’offerta non può risolversi in causa di esclusione dalla
gara, anche alla luce dei criteri di tassatività della cause
espulsive previsti dall’art. 46, comma 1-bis, del medesimo
codice.
Il difetto di effettivi profili di rischiosità afferenti al
tema della salute e della sicurezza sul lavoro
nell’esecuzione dell’appalto (nella specie si trattava della
fornitura di materiale informatico e di servizi di
installazione) rende sostanzialmente inutile l’inserimento
nell’ambito della lex specialis di una clausola la
quale ne preveda (ciò che avviene normalmente) l’obbligo di
quantificazione sotto comminatoria di esclusione. In tali
casi, l’inserimento nella lex specialis degli oneri
di sicurezza non ha carattere cogente ed inderogabile, onde
non può farsi luogo ad eterointegrazione delle prescrizioni
di gara (Cons. Stato, V, 17.06.2014, n. 3056).
Tale principio ha finito per essere da ultimo condiviso
nella sostanza dalla recente decisione dell’Adunanza
plenaria 20.03.2015, n. 3, nella quale è stato affermato che
“nelle procedure di affidamento di lavori i partecipanti
alla gara devono indicare nell’offerta economica i costi
interni per la sicurezza del lavoro, pena l’esclusione
dell’offerta dalla procedura anche se non prevista nel bando
di gara”; tuttavia, la decisione si muove nella
direzione di una lettura costituzionalmente orientata delle
disposizioni dinanzi richiamate e del comma 6 dell’articolo
26 del d.lgs. n. 81 del 2008 e conclude nel senso che le
stazioni appaltanti, nella predisposizione degli atti di
gara per lavori e al fine della valutazione dell’anomalia
delle offerte, devono determinare il valore economico degli
appalti includendovi l’idonea stima di tutti i costi per la
sicurezza con l’indicazione specifica di quelli da
interferenze; i concorrenti, a loro volta, devono indicare
nell’offerta economica sia i costi di sicurezza per le
interferenze (quali predeterminati dalla stazione
appaltante) che i costi di sicurezza interni che essi
determinano in relazione alla propria organizzazione
produttiva e al tipo di offerta formulata.
Ne discende la conferma del condiviso orientamento secondo
cui nelle procedure ad evidenza pubblica la regola di
specificazione (o separata indicazione) dei costi di
sicurezza, ai sensi degli articoli 86 e 87 del decreto
legislativo n. 163 del 2006 opera in via primaria nei
confronti delle amministrazioni aggiudicatrici in sede di
predisposizione delle gare di appalto e di valutazione
dell’anomalia, con la conseguenza che l’assenza di scorporo
nel quantum fin dalla fase di presentazione dell’offerta non
può risolversi in causa di esclusione dalla gara, anche alla
luce dei criteri di tassatività della cause espulsive
previsti dall’art. 46, comma 1-bis, del medesimo Codice.
Inoltre, nel caso in questione, la lex specialis di
gara non prevedeva l’obbligo per le imprese partecipanti di
indicare in sede di offerta i cc.dd. costi ‘specifici’
o ‘aziendali’ e –correlativamente– non comminava
alcuna conseguenza escludente per la violazione di tale
obbligo.
Laddove una siffatta clausola escludente fosse stata inclusa
nell’ambito della lex specialis, essa sarebbe
risultata di dubbia validità con riferimento al comma 1-bis
dell’articolo 46 del ‘Codice di contratti’, stante
l’insussistenza di una siffatta ipotesi legale di esclusione
e la conseguente violazione del principio di tipicità e
tassatività legale di tali clausole (Cons. Stato, sez. VI,
09.04.2015, n. 1798).
Da tali statuizioni si ricava, dunque, che, nella
fattispecie in questione, nella quale l’indicazione degli
oneri di sicurezza aziendali non era espressamente prevista
dalla lex specialis a pena di esclusione, tale
mancanza non può di certo ravvisarsi come rilevante ai fini
dell’esclusione dell’offerta di Sa.Li.
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 26.11.2015 n. 2492 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Per giurisprudenza costante, nelle procedure da
aggiudicarsi con il criterio dell’offerta economicamente più
vantaggiosa l’attribuzione dei punteggi all’offerta tecnica
costituisce una valutazione di natura discrezionale
insindacabile, purché immune da macroscopici vizi di
irrazionalità, incongruità o illogicità.
---------------
Nelle gare d’appalto, in tema di verifica dell’anomalia
dell’offerta, deve ritenersi che il giudizio della stazione
appaltante costituisca esplicazione paradigmatica di
discrezionalità tecnica, sindacabile solo in caso di
macroscopica illogicità o di erroneità fattuale.
Anche l’esame delle giustificazioni prodotte dai concorrenti
a dimostrazione della non anomalia della propria offerta
rientra nella discrezionalità tecnica dell’Amministrazione,
con la conseguenza che soltanto in caso di macroscopiche
illegittimità, quali errori di valutazione gravi ed evidenti
oppure valutazioni abnormi o inficiate da errori di fatto,
il giudice può intervenire, fermo restando l’impossibilità
di sostituire il proprio giudizio a quello
dell’Amministrazione.
---------------
Riguardo, invece, alla seconda parte della censura,
specificata con il primo motivo aggiunto, con la quale
l’istante ha lamentato la mancata valutazione degli oneri di
sicurezza aziendali al fine della valutazione dell’anomalia
dell’offerta di Sa.Li., senza addurre, peraltro, specifiche
contestazioni a riguardo che possano far dubitare
dell’effettuazione di tale giudizio anche in relazione a
tale aspetto, il collegio ritiene, invece, che tale
valutazione risulti essere stata effettuata nell’ambito del
complessivo giudizio sulla anomalia dell’offerta come
risulta dalla documentazione versata in atti e precisamente
dai verbali del giudizio di valutazione sull’eventuale
anomalia dell’offerta (docc. 10 e 11 depositati dalla
stazione appaltante).
Con riferimento al terzo motivo di gravame, specificato con
il terzo motivo aggiunto, la società istante ha contestato
la valutazione della sua offerta tecnica da parte della
commissione di gara, la quale, penalizzandola, avrebbe
attribuito solo 12 punti al parametro dell’organizzazione
aziendale rispetto ai 18 attribuiti all’offerta tecnica
della controinteressata con riferimento allo stesso
parametro.
Tali censure investono, evidentemente, il corretto esercizio
della discrezionalità tecnica della stazione appaltante,
contestabile in sede di giudizio di legittimità solo entro
limiti, il cui superamento non risulta nella fattispecie
adeguatamente rappresentato e provato. Come ribadito
dall’art. 64 Cod. proc. amm., infatti, detta provata
rappresentazione era a carico dell’appellante, che ha invece
fornito sotto alcuni profili un proprio diverso (ma
inammissibile) apprezzamento di merito (cfr. Cons. Stato,
sez. VI, 23.10.2015, n. 4883).
In proposito deve ricordarsi che, per giurisprudenza
costante, nelle procedure da aggiudicarsi con il criterio
dell’offerta economicamente più vantaggiosa l’attribuzione
dei punteggi all’offerta tecnica costituisce una valutazione
di natura discrezionale insindacabile, purché immune da
macroscopici vizi di irrazionalità, incongruità o
illogicità.
Nella fattispecie in questione, dall’esame della
documentazione inerente la valutazione delle offerte
tecniche delle concorrenti tali illogicità ed incongruità
non si evincono in alcun modo, risultando, di conseguenza,
impossibile per il giudice sostituirsi alla valutazione
operata dalla commissione giudicatrice.
Riguardo al secondo motivo del ricorso per motivi aggiunti,
con il quale l’istante ha dedotto genericamente la mancata
indicazione nelle giustificazioni presentate dalla
controinteressata delle voci richieste dalla legge per la
verifica dell’anomalia dell’offerta, deve innanzitutto
precisarsi che la ricorrente non ha fornito alcun elemento
dal quale poter dedurre l’incongruità dell’offerta economica
della controinteressata, che, peraltro, ammonta a 396.257,20
euro rispetto a quella della ricorrente medesima, pari ad
euro 349.095,35.
Il collegio si riporta, inoltre, al consolidato orientamento
giurisprudenziale in base al quale “Nelle gare d’appalto,
in tema di verifica dell’anomalia dell’offerta, deve
ritenersi che il giudizio della stazione appaltante
costituisca esplicazione paradigmatica di discrezionalità
tecnica, sindacabile solo in caso di macroscopica illogicità
o di erroneità fattuale” e che, quindi, “Anche
l’esame delle giustificazioni prodotte dai concorrenti a
dimostrazione della non anomalia della propria offerta
rientri nella discrezionalità tecnica dell’Amministrazione,
con la conseguenza che soltanto in caso di macroscopiche
illegittimità, quali errori di valutazione gravi ed evidenti
oppure valutazioni abnormi o inficiate da errori di fatto,
il giudice può intervenire, fermo restando l’impossibilità
di sostituire il proprio giudizio a quello
dell’Amministrazione” (cfr., fra le tante, Cons. Strato,
sez. IV, 11.11.2014, n. 5514).
E tali macroscopiche illogicità, erroneità fattuali,
macroscopiche illegittimità, quali errori di valutazione
gravi ed evidenti, valutazioni abnormi o inficiate da errori
di fatto non risultano in alcun modo essersi verificate
nella fattispecie all’esame del collegio.
Alla luce delle suesposte considerazioni, il ricorso
principale ed i motivi aggiunti vanno respinti, unitamente
alla domanda di risarcimento del danno
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 26.11.2015 n. 2492 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Alcuni
regolamenti comunali prevedono una distinzione tra
tettoia e pensilina, solitamente fondata sulle
diverse caratteristiche costruttive.
In particolare, il Regolamento Edilizio del
comune individua le pensiline come assimilabili agli
"sbalzi" ed ai "corpi aggettanti aperti", distinguendole, in
senso evidentemente riduttivo, dalle tettoie ma
indica come necessaria la concessione edilizia (ora permesso
di costruire) per quelle insistenti in area sottoposte a
vincolo paesaggistico o storico-architettonico.
Sotto un profilo eminentemente lessicale,
tuttavia, la pensilina viene sostanzialmente
equiparata alla tettoia con la quale condivide comuni
finalità di arredo o di riparo e protezione e dalla quale
non può distinguersi neppure per la conformazione, stante le
diversità di materiali con i quali possono essere realizzate
entrambe le strutture e le modalità di ancoraggio al suolo o
in aggetto rispetto ad altro edificio.
Sulla base di tale considerazione, pertanto, può affermarsi
il principio
secondo il quale la sostanziale identità
delle nozioni di tettoia e pensilina
ricavabile dalle medesime finalità di arredo, riparo o
protezione anche dagli agenti atmosferici, determina la
necessità del permesso di costruire nei casi in cui sia da
escludere la natura precaria o pertinenziale
dell'intervento.
---------------
Invero, sono in genere soggetti a
permesso di costruire, sulla base di quanto disposto dal
T.U. Edilizia (articoli 3 e 10), tutti gli interventi che,
indipendentemente dalla realizzazione di volumi, incidono
sul tessuto urbanistico del territorio, determinando la
trasformazione in via permanente del suolo inedificato per
adattarlo ad un impiego diverso da quello che gli è proprio
in relazione alla sua condizione naturale ed alla sua
qualificazione giuridica.
In tale tipologia di interventi è certamente collocabile la
realizzazione di una pensilina quale quella
realizzata dalla ricorrente che era certamente qualificabile
come intervento di nuova costruzione ai sensi del T.U.
edilizia e per la quale non è neppure ipotizzata l'eventuale
natura pertinenziale.
Tale qualificazione è certamente ricavabile dalle dimensioni
e dalle caratteristiche costruttive indicate
nell'imputazione, indipendentemente dalla corretta
individuazione della nozione di "pensilina".
Invero, la giurisprudenza di questa Corte si è ripetutamente
soffermata sul concetto di "tettoia" e
sulla differenza tra questa ed il "pergolato",
osservando che la diversità strutturale delle due opere è
rilevabile dal fatto che, mentre il pergolato
costituisce una struttura aperta sia nei lati esterni che
nella parte superiore ed è destinato a creare ombra, la
tettoia può essere utilizzata anche come riparo ed
aumenta l'abitabilità dell'immobile.
Si è poi ritenuto che la realizzazione di tettoie
assuma rilevanza sotto il profilo urbanistico, richiedendo
quindi il permesso di costruire, allorché difetti dei
requisiti richiesti per le pertinenze e per gli interventi
precari, come peraltro avviene con riferimento a tutte le
tipologie di manufatti. Le tettoie sono state sempre
considerate, pertanto, come parti di un edificio
preesistente o autonomamente valutate come interventi di
nuova costruzione.
Con riferimento alle pensiline, invece, sebbene si
sia ritenuta, in un caso, la necessità della concessione
edilizia, ora permesso di costruire, non si rinviene alcuna
indicazione che ne qualifichi puntualmente il concetto.
---------------
Il ricorso è infondato.
Occorre preliminarmente osservare che la Corte territoriale
ha ritenuto accertato, in fatto, che la pensilina è
stata realizzata in area sottoposta a vincolo paesaggistico
e che tale assunto non è contestato dalla ricorrente. Sulla
base di tale presupposto, correttamente i giudici del
gravarne hanno stigmatizzato, incidentalmente, l'evidente
errore in cui è incorso il giudice di prime cure ritenendo
insussistente la violazione paesaggistica concorrente e
ritenuto corretta la collocazione della condotta posta in
essere nella fattispecie contemplata dalla lettera c) del
menzionato articolo 44 D.P.R. 380/2001.
Date tali premesse, gli stessi giudici hanno escluso che le
opere realizzate fossero collocabili tra gli interventi c.d.
minori in quanto modificative dell'originario stato dei
luoghi e costituenti trasformazione urbanistica del
territorio di natura permanente e tale da richiedere, quale
titolo abilitativo, il permesso di costruire.
Invero, sono in genere soggetti a permesso di costruire,
sulla base di quanto disposto dal T.U. Edilizia (articoli 3
e 10), tutti gli interventi che, indipendentemente dalla
realizzazione di volumi, incidono sul tessuto urbanistico
del territorio, determinando la trasformazione in via
permanente del suolo inedificato (Sez. III n. 6930,
19.02.2004 conf. Sez. III n. 8064, 24.02.2009) per adattarlo
ad un impiego diverso da quello che gli è proprio in
relazione alla sua condizione naturale ed alla sua
qualificazione giuridica (Sez. III n. 28547, 10.07.2009).
In tale tipologia di interventi è certamente collocabile la
realizzazione di una pensilina quale quella
realizzata dalla ricorrente che era certamente qualificabile
come intervento di nuova costruzione ai sensi del T.U.
edilizia e per la quale non è neppure ipotizzata l'eventuale
natura pertinenziale.
Tale qualificazione è certamente ricavabile dalle dimensioni
e dalle caratteristiche costruttive indicate
nell'imputazione, indipendentemente dalla corretta
individuazione della nozione di "pensilina".
Invero, la giurisprudenza di questa Corte si è ripetutamente
soffermata sul concetto di "tettoia" e sulla
differenza tra questa ed il "pergolato",
osservando che la diversità strutturale delle due opere è
rilevabile dal fatto che, mentre il pergolato
costituisce una struttura aperta sia nei lati esterni che
nella parte superiore ed è destinato a creare ombra, la
tettoia può essere utilizzata anche come riparo ed
aumenta l'abitabilità dell'immobile (Sez. III n. 19973,
19.05.2008; conf. Sez. III n. 10534, 10.03.2009).
Si è poi ritenuto che la realizzazione di tettoie
assuma rilevanza sotto il profilo urbanistico, richiedendo
quindi il permesso di costruire, allorché difetti dei
requisiti richiesti per le pertinenze e per gli interventi
precari, come peraltro avviene con riferimento a tutte le
tipologie di manufatti. Le tettoie sono state sempre
considerate, pertanto, come parti di un edificio
preesistente o autonomamente valutate come interventi di
nuova costruzione (v., tra le più recenti, Sez. III n.
27264, 14.07.2010; Sez. III n. 21351, 04.06.2010; Sez. III
n. 25530, 18.06.2009; Sez. III n. 17083, 18.05.2006; Sez.
III n. 40843, 10.11.2005).
Con riferimento alle pensiline, invece, sebbene si
sia ritenuta, in un caso, la necessità della concessione
edilizia, ora permesso di costruire (Sez. III n. 2733,
31.01.1994, citata anche nell'impugnata decisione), non si
rinviene alcuna indicazione che ne qualifichi puntualmente
il concetto.
Alcuni regolamenti comunali, ivi compreso quello del Comune
ove le opere in contestazione sono state realizzate,
prevedono effettivamente una distinzione tra tettoia
e pensilina, solitamente fondata sulle diverse
caratteristiche costruttive.
In particolare, il Regolamento Edilizio del Comune di
Teggiano (adottato con delibera n. 65 del 03.10.1993)
individua le pensiline come assimilabili agli "sbalzi"
ed ai "corpi aggettanti aperti", distinguendole, in
senso evidentemente riduttivo, dalle tettoie ma
indica come necessaria la concessione edilizia (ora permesso
di costruire) per quelle insistenti in area sottoposte a
vincolo paesaggistico o storico-architettonico.
Sotto un profilo eminentemente lessicale, tuttavia, la
pensilina viene sostanzialmente equiparata alla
tettoia con la quale condivide comuni finalità di arredo
o di riparo e protezione e dalla quale non può distinguersi
neppure per la conformazione, stante le diversità di
materiali con i quali possono essere realizzate entrambe le
strutture e le modalità di ancoraggio al suolo o in aggetto
rispetto ad altro edificio.
Sulla base di tale considerazione, pertanto, può affermarsi
il principio
secondo il quale la sostanziale identità
delle nozioni di tettoia e pensilina
ricavabile dalle medesime finalità di arredo, riparo o
protezione anche dagli agenti atmosferici, determina la
necessità del permesso di costruire nei casi in cui sia da
escludere la natura precaria o pertinenziale
dell'intervento.
Alla luce delle considerazioni sopra esposte consegue che
l'abuso in contestazione, indipendentemente dalla
qualificazione, era comunque soggetto a permesso di
costruire come correttamente ritenuto anche dalle competenti
autorità comunali che, rilasciata la sanatoria per gli altri
interventi, l'avevano invece negata per la pensilina
(Corte di Cassazione, Sez. penale feriale,
sentenza 07.09.2011 n. 33267). |
EDILIZIA PRIVATA: Giova
sottolineare come la nozione di libertà di costruire in
epoca antecedente la legge urbanistica del 1942 sia stata
affermata dalla IV Sezione del Consiglio di Stato con
espresso riguardo alla situazione di fatto dell’immobile in
contestazione, che, essendo casa colonica, doveva essere
allocato, quanto meno al momento della costruzione, in zona
agricola.
Al di fuori della specifica situazione, non potrebbe
certo concordarsi con l’opinione secondo la quale la
libertà di costruire, in epoca antecedente la normazione
urbanistica, poteva essere dilatata al punto di conferire al
diritto soggettivo di proprietà valenze e prerogative che
probabilmente non ha mai avuto, quanto meno in termini
assoluti, fin dagli albori della costituzione dello Stato
Nazionale (cioè dalla legislazione unitaria fondamentale del
1865).
Con una visione frammentaria del problema, che si rivelò
ben presto inadeguata, il legislatore del 1865 introdusse,
infatti, per gli aggregati urbani relativi a comuni con più
di 10.000 abitanti, la materia dei piani regolatori.
Quella remota disciplina contemplava due tipi: il piano
regolatore edilizio e il piano di ampliamento previsti
rispettivamente dagli articoli 86 e 93 della legge 25.06.1865, n. 2359 sulle espropriazioni per pubblica utilità.
Quelle norme non prescrivevano l’imposizione di limiti
rigorosi alla proprietà privata, ma costituivano pur sempre
un indizio non secondario dell’esistenza di un quadro conformativo del quale, nelle zone urbane, lo jus
aedificandi doveva comunque tener conto.
Oltre alle assai modeste prescrizioni di tipo pianificatorio altre, con diversa normativa, furono
previste, soprattutto con atti regolamentari per
l’edificazione nei centri abitati (e, in questo senso, molti
furono i comuni ad avvalersi di tale facoltà).
Tali regolamenti, nel prevedere una serie di limiti
sull’altezza, le distanze ed altri elementi connotativi
delle edificazioni urbane, costituivano anch’essi uno
strumento conformativo seppure indiretto rispetto
all’esercizio concreto dello jus aedificandi: tali mezzi
risultano positivamente richiamati dagli articoli 109 e 111
(quest’ultimo in particolare) del regio decreto 12.02.1911, n. 297 recante il regolamento per l’esecuzione della
legge comunale e provinciale 21.05.1908, n. 269, ma
utilizzato anche dopo le modifiche della legge 04.02.1915, n. 148 e il testo unico
03.03.1934, n. 383.
Un
ulteriore strumento di conformazione, anch’esso episodico,
va individuato, oltre che nella legge 15.01.1885, n.
2892 sul risanamento della città di Napoli e nella legge 31.05.1903, n. 254 relativa alla costruzione, all’acquisto
e alla vendita di case popolari, nei provvedimenti
legislativi che hanno approvato i piani regolatori di grandi
città (legge 24.03.1932, n. 355 per Roma e la legge 19.02.1934, n. 433 per Milano).
Il richiamo alla legislazione previgente il 1942 si
conclude con i regi decreti legge 25.03.1935, n. 640
(art. 4) e il successivo 22.11.1937, n. 2105 (art. 6)
che enunciano l’obbligatorietà dell’autorizzazione del
sindaco (podestà) per le edificazioni.
Accanto alle considerazioni storiche e prima di
esaminare quelle inerenti la specifica area oggetto della
vertenza, occorre rammentare la modificazione di prospettive
e le evoluzioni anche concettuali maturate nel prosieguo e
fino ai giorni nostri nella legislazione urbanistica ed
edilizia.
E’ sufficiente, in proposito, ricordare come una norma
quale l’ultimo comma dell’articolo 4 della legge 28.01.1978, n. 10 (vedi ora l’articolo 9 d.P.R.
06.06.2001, n.
380 recante il testo unico in materia edilizia), nel dettare
norme sull’edificabilità dei suoli nei comuni privi di
strumenti urbanistici, stabilisse il primato del momento pianificatorio,
riducendo e quanto meno depotenziando in modo significativo
il diritto di edificare del privato, sulla base del
principio che, relativamente ai suoli privi di qualsivoglia
regolamentazione, opera pur sempre una disciplina suppletiva
di salvaguardia dagli eccessi di intensificazione.
---------------
L’istituto dell’asservimento, come è noto, si è formato dopo
l’entrata in vigore del d.m. 02.04.1968, che ha fissato gli
standards di edificabilità delle aree e ha introdotto una
organica regolamentazione della densità edilizia
(territoriale e fondiaria).
La nozione di densità costituisce il parametro di
riferimento per stabilire se possa farsi luogo ad
asservimento: ciò impone senz’altro l’operatività dello
strumento pianificatorio, ma non implica una risposta
univoca rispetto agli immobili edificati, a seconda che a
loro fondamento vi sia un provvedimento abilitativo (che, in
altri momenti storici, poteva anche legittimamente mancare).
La densità territoriale, in particolare, è riferita a
ciascuna zona omogenea e definisce il complessivo carico di
edificazione che può gravare sulla stessa, con la
conseguenza che il relativo indice è rapportato sia
all’intera superficie sottoposta alla medesima vocazione
urbanistica sia alla concreta insistenza di costruzioni.
Perché il computo rispecchi la realtà effettuale non rileva
certo la sussistenza o meno del prescritto titolo
autorizzatorio o abilitativo all’intervento edilizio, ma la
reale situazione dei luoghi con il carico di edificazione in
concreto accertato.
Non può d’altronde dubitarsi che qualsiasi costruzione,
anche se eretta senza il prescritto titolo, concorra al
computo complessivo della densità territoriale.
---------------
... per la riforma della sentenza 30.01.2007, n. 123 del
Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia sede di
Milano sez. II.
...
55. Il primo quesito coinvolge la computabilità nella
volumetria assentibile, secondo l’indice di densità
fondiaria in vigore, di una costruzione con area di sedime
coincidente con il mappale sulla quale insiste (655) per
essere stata censita nel 1858.
56. Si è invero osservato come l’edificio posto sul citato
mappale 655 è stato eretto ben prima della legge urbanistica
n. 1150 del 1942, quando cioè lo jus aedificandi era
considerato pura estrinsecazione del diritto di proprietà: a
tale stregua, la totale occupazione dell’area del mappale
655 da parte della casa colonica censita nel 1858 nel
catasto lombardo veneto dovrebbe impedire l’instaurarsi di
qualsivoglia pertinenza e, per l’effetto, di possibili
asservimenti.
57. In questa prospettiva, costruzione ed area divengono
unica res caratterizzata, nel tessuto urbanistico-edilizio della zona, da specificità e autonomia tali da
escludere che si tenga conto della relativa volumetria in
relazione alla densità fondiaria in vigore.
58. Il Collegio non ritiene che la proposizione del quesito,
quanto meno nei termini appena esposti, possa rivelarsi
decisiva per la soluzione del caso.
59. Giova, in primo luogo, sottolineare come la nozione di
libertà di costruire in epoca antecedente la legge
urbanistica del 1942 sia stata affermata dalla IV Sezione
del Consiglio di Stato con espresso riguardo alla situazione
di fatto dell’immobile in contestazione, che, essendo casa
colonica, doveva essere allocato, quanto meno al momento
della costruzione, in zona agricola;
60. Al di fuori della specifica situazione, non potrebbe
certo concordarsi con l’opinione secondo la quale la
libertà di costruire, in epoca antecedente la normazione
urbanistica, poteva essere dilatata al punto di conferire al
diritto soggettivo di proprietà valenze e prerogative che
probabilmente non ha mai avuto, quanto meno in termini
assoluti, fin dagli albori della costituzione dello Stato
Nazionale (cioè dalla legislazione unitaria fondamentale del
1865).
61. Con una visione frammentaria del problema, che si rivelò
ben presto inadeguata, il legislatore del 1865 introdusse,
infatti, per gli aggregati urbani relativi a comuni con più
di 10.000 abitanti, la materia dei piani regolatori.
62. Quella remota disciplina contemplava due tipi: il
piano
regolatore edilizio e il piano di ampliamento previsti
rispettivamente dagli articoli 86 e 93 della legge 25.06.1865, n. 2359 sulle espropriazioni per pubblica utilità.
63. Quelle norme non prescrivevano l’imposizione di limiti
rigorosi alla proprietà privata, ma costituivano pur sempre
un indizio non secondario dell’esistenza di un quadro
conformativo del quale, nelle zone urbane, lo jus
aedificandi doveva comunque tener conto.
64. Oltre alle assai modeste prescrizioni di tipo
pianificatorio altre, con diversa normativa, furono
previste, soprattutto con atti regolamentari per
l’edificazione nei centri abitati (e, in questo senso, molti
furono i comuni ad avvalersi di tale facoltà).
65. Tali regolamenti, nel prevedere una serie di limiti
sull’altezza, le distanze ed altri elementi connotativi
delle edificazioni urbane, costituivano anch’essi uno
strumento conformativo seppure indiretto rispetto
all’esercizio concreto dello jus aedificandi: tali mezzi
risultano positivamente richiamati dagli articoli 109 e 111
(quest’ultimo in particolare) del regio decreto 12.02.1911, n. 297 recante il regolamento per l’esecuzione della
legge comunale e provinciale 21.05.1908, n. 269, ma
utilizzato anche dopo le modifiche della legge 04.02.1915, n. 148 e il testo unico
03.03.1934, n. 383.
66. Un
ulteriore strumento di conformazione, anch’esso episodico,
va individuato, oltre che nella legge 15.01.1885, n.
2892 sul risanamento della città di Napoli e nella legge 31.05.1903, n. 254 relativa alla costruzione, all’acquisto
e alla vendita di case popolari, nei provvedimenti
legislativi che hanno approvato i piani regolatori di grandi
città (legge 24.03.1932, n. 355 per Roma e la legge 19.02.1934, n. 433 per Milano).
67. Il richiamo alla legislazione previgente il 1942 si
conclude con i regi decreti legge 25.03.1935, n. 640
(art. 4) e il successivo 22.11.1937, n. 2105 (art. 6)
che enunciano l’obbligatorietà dell’autorizzazione del
sindaco (podestà) per le edificazioni.
68. Accanto alle considerazioni storiche e prima di
esaminare quelle inerenti la specifica area oggetto della
vertenza, occorre rammentare la modificazione di prospettive
e le evoluzioni anche concettuali maturate nel prosieguo e
fino ai giorni nostri nella legislazione urbanistica ed
edilizia.
69. E’ sufficiente, in proposito, ricordare come una norma
quale l’ultimo comma dell’articolo 4 della legge 28.01.1978, n. 10 (vedi ora l’articolo 9 d.P.R.
06.06.2001, n.
380 recante il testo unico in materia edilizia), nel dettare
norme sull’edificabilità dei suoli nei comuni privi di
strumenti urbanistici, stabilisse il primato del momento pianificatorio, riducendo e quanto meno depotenziando in
modo significativo il diritto di edificare del privato,
sulla base del principio che, relativamente ai suoli privi
di qualsivoglia regolamentazione, opera pur sempre una
disciplina suppletiva di salvaguardia dagli eccessi di
intensificazione (C.d.S., IV, 10.12.2007, n. 6339,
C.d.S., V, 14.10.2005, n. 5801; Cd.S., IV, 09.08.2005, n. 4232).
70. La sintetica esposizione delle principali fonti
normative antecedenti il codice civile (art. 869 e seguenti)
e la normazione urbanistica (legge 10.08.1942, n. 1150)
nonché il richiamo alle successive evoluzioni consentono di
chiarire un profilo metodologico di rilievo ai fini della
decisione: essere cioè quanto meno perplessa la possibilità
di risolvere la questione giuridica prospettata sulla base
della legislazione previgente e del titolo in base al quale
ab origine fu edificato il mappale 655.
71. Quest’ultimo, nel corso del tempo, si è successivamente
trasformato da casa colonica quale risulta nel catasto
lombardo veneto nel 1858 (e prima ancora da terreno agricolo
secondo il catasto teresiano vigente nei primi anni del
secolo diciannovesimo) in edificio a varie destinazioni
(della quale quella a portineria di villa Dajelli è
contestata) fino a divenire privata abitazione del professor
Va., secondo una prassi un tempo assai diffusa di
riadattamento di un immobile originariamente destinato
all’agricoltura o a deposito (come testimoniano, è dato
enunciabile come fatto notorio, i molti fienili trasformati
in gradevoli e talora lussuose residenze private).
72. Se, d’altro canto, l’immobile era originariamente una
casa colonica, la sua collocazione nel 1858 in piena
campagna implica che il relativo dato catastale non assuma
rilievo per definire la computabilità o meno della relativa
volumetria: le zone agricole fuori dell’abitato non
soggiacevano comunque a una disciplina edilizia così che il
porre la problematica dell’asservimento finirebbe
necessariamente per rivelarsi un fuor d’opera.
73. E’ invero assai difficile riportare in un contesto
unitario (quale quello della disciplina urbanistica del
piano regolatore di Varenna del 1996) situazioni e fatti
collocati in un diverso spazio temporale che diviene, quasi
in modo diacronico, anche diverso spazio fisico, quanto meno
sotto il profilo della regolamentazione e delle connesse
qualificazioni.
74. La legge dell’incessante divenire impone di non
sovrapporre due situazioni la cui riconducibilità al più
antico dato catastale non è connotata da tratti specifici
rispetto ad altri complessivi elementi di valutazione.
75- Pur espungendo dalla formulazione del punto di diritto
la peculiarità storica della collocazione catastale, non si
otterrebbe in ogni caso un quadro ordinamentale sicuro e
completo in ragione del quale assicurare una definitiva e
soddisfacente risposta.
76. Ciò si deve alla coerente premessa metodologica
dell’ordinanza di rimessione tratta dai principi in materia
di asservimento, con particolare riguardo al caposaldo che
connette il relativo vincolo con il provvedimento edilizio
abilitativo.
77. L’istituto dell’asservimento, come è noto, si è formato
dopo l’entrata in vigore del decreto ministeriale 02.04.1968, che ha fissato gli standards di edificabilità
delle aree e ha introdotto una organica regolamentazione
della densità edilizia (territoriale e fondiaria).
78. La nozione di densità costituisce il parametro di
riferimento per stabilire se possa farsi luogo ad
asservimento: ciò impone senz’altro l’operatività dello
strumento pianificatorio, ma non implica una risposta
univoca rispetto agli immobili edificati, a seconda che a
loro fondamento vi sia un provvedimento abilitativo (che, in
altri momenti storici, poteva anche legittimamente mancare).
79. La densità territoriale, in particolare, è riferita a
ciascuna zona omogenea e definisce il complessivo carico di
edificazione che può gravare sulla stessa, con la
conseguenza che il relativo indice è rapportato sia
all’intera superficie sottoposta alla medesima vocazione
urbanistica sia alla concreta insistenza di costruzioni.
80. Perché il computo rispecchi la realtà effettuale non
rileva certo la sussistenza o meno del prescritto titolo
autorizzatorio o abilitativo all’intervento edilizio, ma la
reale situazione dei luoghi con il carico di edificazione in
concreto accertato.
81. Non può d’altronde dubitarsi che qualsiasi costruzione,
anche se eretta senza il prescritto titolo, concorra al
computo complessivo della densità territoriale (C.d.S., IV,
26.09.2008, n. 4647; IV, 29.07.2008, n. 3766; IV,
12.05.2008, n. 2177; IV, 11.12.2007, n. 6346; V,
27.06.2006, n. 4117; V, 12.07.2005, n. 3777: V, 12.07.2004, n. 5039; IV,
06.09.1999, n. 1402).
82. Con riguardo a quella specie di densità, l’edificio
posto sul mappale 655 è stato senz’altro oggetto di calcolo
da parte del Comune di Varenna in sede di concreta
determinazione della volumetria ammessa per la zona.
83. Il
problema insorge, come riferito nell’ordinanza in epigrafe,
per la commisurazione della volumetria assentibile in base
alla densità fondiaria.
84. Quest’ultima è riferita alla singola area e definisce il
volume massimo consentito sulla stessa, l’indice della quale
(c.d. indice di fabbricabilità) va applicato sull’effettiva
superficie suscettibile di edificazione.
85. Per eseguire tale operazione l’interprete non può certo
attestarsi sugli elementi originari di formazione
dell’edificio e sulla situazione catastale del 1858: questi
ultimi sono soggetti a troppe variabili, prima tra tutte
quella temporale, in esito alla quale lo stato dei luoghi
attuale, ancorché apparentemente simile a quello distinto
nelle registrazioni del 1858, potrebbe rivelarsi discontinuo
e sottoposto a un diverso regime.
86. Le risultanze catastali comparate a distanza di circa
centocinquanta anni servono, in definitiva, a chiarire due
dati, nessuno dei quali peraltro, si rivela decisivo: la
legittima carenza di un provvedimento autorizzatorio o
comunque abilitativo della costruzione e, parimenti, la
costante insistenza e individuazione, nel lungo lasso di
tempo, del fabbricato sul medesimo mappale.
87. Questi elementi riguardano una situazione antecedente
l’individuazione dei limiti inderogabili di densità
edilizia come introdotti nell’ordinamento dal d.m. 02.04.1968, n. 1444 in attuazione dei precetti recati
dall’articolo 17 della legge 06.08.1967, n. 765.
88. In via di larga massima si osserva, relativamente
all’inesistenza (e all’impossibilità di esistenza ratione
temporis) di un atto che determini l’asservimento
pertinenziale, come la situazione originaria possa trovare
smentita in atti successivamente adottati nel lungo arco
temporale limitato, ai fini della disamina, all’entrata in
vigore del citato decreto ministeriale 02.04.1968, n.
1444 o alla prima disciplina urbanistica introdotta nel
Comune (generalmente attraverso un programma di
fabbricazione).
89. In questa ipotesi e rispetto al periodo antecedente le
date sopra indicate, possono in astratto comprendersi, oltre
le citate determinazioni pianificatorie del Comune, atti e
negozi di privati, non necessariamente preordinati
all’asservimento in senso tecnico dell’area o di una parte
di essa.
90. Potrebbero assumere rilievo, in questo senso, atti come
la destinazione a pertinenza ex art. 817 c.c., la
costituzione di servitù prediale, prevista dagli articoli
1027 e seguenti del codice civile nonché tutti gli atti che
implichino un’incidenza sull’immobile, mentre debbono
considerarsi sempre irrilevanti, a questi fini, le vicende
civilistiche inerenti la titolarità del bene (tra le tante:
C.d.S., V, 02.09.2005, n. 4442).
91. Tutte le volte che l’area sia interessata da atti di
tale natura, potrebbero determinarsi effetti sulla concreta
edificabilità: una parte del terreno potrebbe perdere, in
ragione del vincolo ad essa imposto anche iure privatorum,
l’idoneità ad essere astrattamente utilizzabile per una
costruzione e, conseguentemente, a formare oggetto di
eventuali contratti atipici ad effetti obbligatori con i
quali le parti dispongono della volumetria di loro immobili
(C.d.S., V, 28.06.2000, n. 3637).
92. Tanto si afferma in ragione del principio di immediata
evidenza logica secondo il quale la determinazione della
volumetria consentita in un’area deve pur sempre tener conto
del dato reale, di come, cioè, gli immobili si trovano e
delle relazioni che intrattengono con l’ambiente circostante
in virtù del complesso di effetti riconducibili ad atti di
soggetti pubblici e privati nonché a fatti della più varia
natura, ma idonei, in ogni caso, ad incidere
sull’edificabilità.
93. Rispetto a tali dati, ove se ne ammetta la rilevanza in
ordine quanto meno al singolo intervento edilizio, gli
elementi indicati nel quesito in esame costituiscono un prius nel quale non si esaurisce certo la ricerca
dell’interprete.
94. Tali vicende, ove non si risolvano in una modificazione
profonda e irreversibile del bene e della sua anche parziale
vocazione edificatoria, debbono essere acquisite in atti
dell’Autorità comunale nel quadro delle regolazioni e
qualificazioni scaturenti dalla pianificazione urbanistica
adottata dalla singola Amministrazione.
95. Quest’ultima può scegliere, in via generale, tra
l’individuazione di criteri idonei a configurare un
complesso di precetti recanti fattispecie analoghe o
comunque equiparabili all’asservimento pertinenziale perché
verificatesi prima dell’entrata in vigore del decreto 02.04.1968, n. 1444 o dello strumento urbanistico adottato
e una carenza di
regolazione che sposta il problema al momento del rilascio
del singolo permesso di costruire così da imporre, ove
occorra, una disamina della situazione di fatto e di diritto
creatasi nel fondo sul quale è previsto l’intervento
edilizio.
96. L’Amministrazione appellante ha optato per la prima
ipotesi, introducendo cos ì nelle norme tecniche di
attuazione al piano regolatore generale del 1996, un regime
integrativo rispetto ai casi di asservimento derivanti
dall’applicazione della normativa sugli inderogabili limiti
alla densità edilizia.
97. L’articolo 11 n.t.a. del Comune di Varenna, prescrive,
infatti, che “per gli edifici esistenti e realizzati prima
dell’adozione del programma di fabbricazione del 1968,
l’area di pertinenza è quella che risulta indicata negli
elaborati allegati alla prativa edilizia rilasciata al
proprietario, indipendentemente dai successivi frazionamenti
o trasferimenti. L’area acquisita o frazionata dopo la data
di adozione del Piano di fabbricazione ed edificata è quella
risultante dagli atti asservimento stipulati e trascritti a
favore del Comune di Varenna…”.
98. Il successivo articolo 13, lettera c), delle su indicate n.t.a. ha cura di specificare, nella definizione della
densità di fabbricabilità fondiaria che “sono esclusi i
lotti già saturi ed asserviti ad edifici esistenti”.
99. Le disposizioni su riportate inducono a considerare
superata la problematica sollevata con il primo quesito
dell’ordinanza di rimessione e a non condividere, quanto
meno nella loro assolutezza, le osservazioni del primo
Giudice.
100. Secondo quest’ultimo, infatti, le disposizioni appena
trascritte “valgono ad agevolare l’identificazione delle
aree di pertinenza per le costruzioni realizzate in un
regime di licenza (o concessione, o permesso) e in un
sistema privo al riguardo di idonee forme di pubblicità…ma
non autorizzano a considerare tamquam non essent,
scomputandole dal calcolo volumetrico, costruzioni risalenti
realizzate in epoche in cui non vigeva l’obbligo di dotarsi
di licenza edilizia né
esisteva una disciplina ad hoc sull’asservimento e la
relativa prova.”
101. L’affermazione è senz’altro esatta se riferita al
computo della densità territoriale, ma non può essere
riprodotta in modo automatico per il metodo di calcolo della
densità fondiaria.
102. Se si condivide l’assunto, fatto proprio dal Tar,
secondo il quale le su indicate norme di attuazione hanno un
preciso ufficio identificativo delle aree di pertinenza per
le costruzioni, non può affermarsi poi che gli edifici
risalenti debbono essere comunque computati nella volumetria
assentibile per il solo fatto che, per la loro erezione, non
esisteva l’obbligo di dotarsi di licenza edilizia o di un
provvedimento abilitativo di qualsivoglia natura.
103. L’ufficio identificativo, nel caso di specie, è
affidato a precise proposizioni giuridiche, che annettono
valore decisivo non tanto all’epoca della costruzione (e
alla carenza di titoli abilitativi), quanto piuttosto alle
qualificazioni e alle determinazioni effettuate dagli stessi
privati purché emergenti e riscontrabili anche
implicitamente in atti rivolti alla pubblica autorità e
relativi all’attività edilizia.
104. Ciò è, d’altro canto, precisa conseguenza della nozione
di asservimento inteso come fattispecie negoziale atipica ad
effetti obbligatori in base ai quali un’area viene destinata
a servire al computo dell’edificabilità di altro fondo.
105. L’asservimento realizza, in definitiva, una specie
particolare di relazione pertinenziale, nella quale viene
posta durevolmente a servizio di un fondo la qualità
edificatoria di un altro.
106. Se alla base del peculiare istituto v’è una
destinazione pertinenziale, allora la logica (intesa come
espressione del principio di ragionevolezza) vuole che
possano essere accostate, equiparate o non diversamente
regolate altre fattispecie di vincolo ex art. 817 c.c., in
esito alle quali si realizzi una vicenda non dissimile
quanto ad effetti.
106. Sebbene la tecnica dell’asservimento abbia trovato la
propria peculiare ragion d’essere e si sia sviluppata dopo
l’introduzione di limiti inderogabili di densità edilizia, è
tuttavia incontestabile che relazioni pertinenziali
rilevanti possono essersi determinate anche prima
dell’entrata in vigore dell’articolo 17 della legge n. 765
del 1967 in ragione della obiettiva destinazione e
configurazione dei fondi effettuata da chi ne aveva titolo e
disponibilità.
107. L’ipotesi affermata ma non sufficientemente dimostrata
nella sentenza impugnata, secondo la quale l’immobile sul
mappale 655 ricadeva nel compendio unitario di villa Dajelli,
è sicuramente un indizio in questo senso: ciò
che impedisce la condivisione dell’assunto è la difficoltà
di attribuire un senso univoco a una complessa
documentazione, rispetto alla quale possono ben considerarsi
ostativi (o almeno bisognosi di ulteriori accertamenti
istruttori) gli argomenti dedotti nella perizia asseverata
offerta in comunicazione.
108. Rispetto a situazioni nelle quali l’obiettiva
incertezza nel valutare lo stato dei luoghi può assumere un
primario ed assorbente rilievo e costituire finanche causa
di patenti illegittimità, il Comune di Varenna ha fatto una
scelta per dir così prudenziale: ha cioè stabilito di
affidare, per il periodo antecedente l’adozione del
programma di fabbricazione del 1968, la ricognizione
dell’asservimento pertinenziale agli atti provenienti dagli
stessi privati in sede di richieste di licenze o di
presentazione in genere di pratiche edilizie.
109. Le affermazioni del Tribunale amministrativo regionale
vanno perciò adeguate non già ad una astratta
riconducibilità del fabbricato in contestazione alla
primitiva (se provata) inerenza di tutti gli immobili ad una
villa unitaria, peraltro appartenente ad altri soggetti, ma
alla reale vicenda contenziosa, nella quale, come può
anticiparsi, una licenza edilizia è stata richiesta e
ottenuta dal Professor Va. prima dell’adozione del citato
programma di fabbricazione del 1968.
110. Va ancora
sottolineato come le succitate norme tecniche, statuendo
all’articolo 13, il principio di carattere generale secondo
il quale sono esclusi dal computo di edificabilità i lotti
già saturi ed asserviti a fabbricati esistenti, abbiano
sostanzialmente traguardato gli aspetti relativi al regime
edilizio vigente al momento della costruzione, tenendo ben
ferma la prioritaria esigenza di valutare in concreto lo
stato dei luoghi.
111. La decisione si sposta, pertanto, alla ricerca in fatto
se, in quel contesto, potessero trovare applicazione, in
ragione degli atti e delle risultanze processuali, le norme
tecniche citate. Fatto che, quindi, assume valenza centrale
ai fini della presente decisione.
112. Ora è agli atti del processo il progetto allegato alla
domanda di licenza edilizia presentata al Comune di Varenna
il 23.02.1963 dal professor Va. per lavori da
effettuare nella costruzione insistente sul mappale 655.
113. Dall’esame degli allegati alla domanda emerge che in
uno dei lati rispetto ai quali si aprivano ben due porte
finestre, l’area contigua era destinato a giardino (in calce
al relativo disegno prospettico è scritto infatti: verso
giardino).
114. La lettura degli schemi progettuali consente di
collocare la casa rispetto alla strada e alla parte
collinare (verso monte) e di individuare così con certezza
nell’area del contiguo mappale 656 quella destinata a
giardino.
115. La licenza edilizia come rilasciata dal Sindaco di
Varenna nel marzo del medesimo anno 1963 ha perciò
fatta propria la relativa destinazione ai sensi e per gli
effetti indicati dal citato articolo 11 n.t.a.
116. L’esatta individuazione dell’area come pertinenza della
casa è confermata, per quanto occorrer possa, da due
successive licenze edilizie richieste dal professor Va. e
rilasciate in vigenza del programma di fabbricazione.
117. Nella prima (pratica n. 4), assentita dal Sindaco di
Varenna pro-tempore architetto Giorgio Monico il 31.01.1975, il proprietario richiese ed ottenne di realizzare una
pensilina in legno con copertura in coppi sulla porta
d’ingresso: tale risulta essere, in base a un preciso
riscontro grafico nell’estratto di mappa posto a fianco del
disegno principale del progetto, quella che porta al
predetto giardino.
118. La seconda licenza (pratica n. 35/1978) fu richiesta
nel 1978 dal professor Va. e dalla di lui consorte
(probabilmente a seguito dell’entrata in vigore del regime
di comunione dei beni introdotto nell’ordinamento italiano
nella riforma degli articoli 159 e seguenti del codice
civile come introdotta con legge 19.05.1975, n. 151).
119. Il provvedimento autorizzava la realizzazione di un
locale di lavanderia e stireria in un crotto (così definito
negli atti progettuali e di assenso comunale, nella
accezione lombarda, e settentrionale in genere, di grotta)
posto sul mappale n. 656 e rispetto al quale, sempre sulla
base delle documentazioni progettuali, l ’ingresso era
consentito esclusivamente dal giardino.
120. Gli elementi documentali appena commentati nella loro
verificata oggettività vanno interpretati alla luce delle
citate norme tecniche di attuazione.
121. Ora è evidente come proprio la coerente applicazione
del precetto recato nel sopra trascritto articolo 11 n.t.a.
del Comune di Varenna imponga di ravvisare l ’esistenza di
un vincolo pertinenziale tra la costruzione e la circostante
area a giardino insistente sul mappale 656.
122. Il vincolo in questione è stato costituito dal
professor Va. in epoca antecedente il programma edilizio
del 1968, essendo quanto meno operante dal febbraio 1963
(epoca nella quale fu presentata la richiesta di licenza
edilizia) ed è stato pedissequamente indicato negli
elaborati allegati alla pratica edilizia.
123. Debbono conseguentemente ritenersi pienamente operanti
gli estremi richiesti dal più volte invocato articolo 11 n.t.a. per assumere la sussistenza del rapporto
pertinenziale tra casa e giardino e per concludere che la
volumetria della prima, insistente sul mappale 655, deve
essere detratta da quella complessivamente assentibile per i
lotti già di proprietà Va..
124. Le considerazioni che precedono impongono la conferma,
seppure con diversa motivazione, della sentenza impugnata
(Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria,
sentenza 23.09.2009 n. 3). |
AGGIORNAMENTO AL
02.03.2016 |
ã |
Sul
c.d. “potere (rectius:
dovere) di rimostranza” del pubblico dipendente.
Il "capo" ordina?? Okkio ad
ubbidire "sic et simpliciter"!! |
Il dipendente a cui è fatto
obbligo dai superiori di emettere un atto ritenuto
illegittimo, se non vuole essere coinvolto in un
pagamento illecito, non deve obbedire ma deve
immediatamente procedere -per iscritto- alla
contestazione dell'atto a chi ha impartito l'ordine, e
solo se l'ordine è ribadito per iscritto il
dipendente non può esimersi dall'eseguirlo, a meno
che l'esecuzione non configuri un'ipotesi di reato.
Ma anche i dirigenti/apicali (P.O.) "yes-man",
interessati a
vario titolo
(mantenimento della posizione di responsabilità,
conseguimento massimo della retribuzione di
posizione e di risultato, ecc.),
sono avvisati: si rischia grosso laddove non si
abbia esercitato, con grave colpa, il “dovere di
rimostranza” nei confronti della disposizione di
Giunta Comunale, palesemente illegittima, ma ne sia
stata data esecuzione.
Ebbene, vediamo (succintamente) di ricostruire la
norma di legge vigente ad oggi:
1- in primis, abbiamo l'art.
17 del D.P.R. 10.01.1957 n. 3 il quale
così dispone: |
17. Limiti al dovere verso il superiore
L'impiegato, al quale,
dal proprio superiore, venga impartito un ordine che
egli ritenga palesemente illegittimo, deve farne
rimostranza allo stesso superiore, dichiarandone le
ragioni. Se l'ordine è rinnovato per iscritto,
l'impiegato ha il dovere di darvi esecuzione.
L'impiegato non deve comunque eseguire l'ordine del
superiore quando l'atto sia vietato dalla legge
penale; |
2-
poi, è intervenuto il
C.C.N.L. 06.07.1995 del comparto del personale delle
REGIONI-AUTONOMIE LOCALI (parte normativa 1994-1997
e parte economica 1994-1995) laddove
l'art. 47 così statuisce: |
Art. 47 - Disapplicazioni
1. A norma dell'art. 72, comma 1, del D.Lgs. n. 29 del
1993, dalla data di cui all'art. 2, comma 2,
sono inapplicabili,
nei confronti del personale del comparto, tutte le
norme previgenti incompatibili con quelle del
presente contratto
in relazione ai soggetti ed alle materie dalle
stesse contemplate e in particolare le seguenti
disposizioni:
(omissis)
r) con riferimento all'articolo 23:
artt.
12, 13, 14, 15, 16,
17 del DPR n. 3 del
1957;
(omissis); |
ma
ciò poiché il precedente
art. 23 (come modificato dall’art. 23 CCNL
22.01.2004) dispone quanto segue: |
Art. 23 - Doveri del dipendente
1. Il dipendente conforma la sua condotta al dovere costituzionale
di servire la Repubblica con impegno e
responsabilità e di rispettare i principi di buon
andamento e imparzialità dell'attività
amministrativa, anteponendo il rispetto della legge
e l'interesse pubblico agli interessi privati propri
ed altrui. Il dipendente adegua altresì il proprio
comportamento ai principi riguardanti il rapporto di
lavoro contenuti nel codice di condotta allegato.
2. Il dipendente si comporta in modo tale da favorire
l'instaurazione di rapporti di fiducia e
collaborazione tra l'Amministrazione e i cittadini.
3. In tale specifico contesto, tenuto conto dell'esigenza di
garantire la migliore qualità del servizio, il
dipendente deve in particolare:
(omissis)
h) eseguire le disposizioni inerenti l'espletamento
delle proprie funzioni o mansioni che gli siano
impartiti dai superiori.
Se ritiene che
l'ordine sia palesemente illegittimo, il dipendente
deve farne rimostranza a che l'ha impartito,
dichiarandone le ragioni; se l'ordine è rinnovato
per iscritto ha il dovere di darvi esecuzione. Il
dipendente non deve, comunque, eseguire l'ordine
quando l'atto sia vietato dalla legge penale o
costituisca illecito amministrativo;
(omissis) |
Di seguito alcuni pronunciamenti, tanto per farsene
un'idea...
02.03.2016 - LA SEGRETERIA PTPL
|
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Nel vigente
ordinamento, a partire dall’inizio degli anno ’90, è
stato introdotto il fondamentale principio della
separazione e reciproca autonomia tra il potere
di indirizzo politico attribuito agli organi di
Governo (politici) e quello di gestione attribuito
ai dirigenti (d.lgs. n. 29/1993 di
riorganizzazione della P.A. e più specificamente nel
settore degli EE.LL. art. 51 della l. n. 142/1990,
confermato dal più recente art. 107 del d.lgs.
18.08.2000 n. 267).
In sintesi, nel nuovo assetto organizzativo
delineato dalle richiamate norme, ed in particolare
dall’art. 107 del d.lgs. n. 267/2000, gli organi di
governo (quindi Consiglio e Giunta comunale
relativamente agli EE.LL.) esercitano l'indirizzo
politico definendo gli obiettivi ed i programmi da
attuare, assegnando ai dirigenti responsabili di
ciascun settore le risorse (finanziarie ma anche
umane e materiali) necessarie al perseguimento degli
obiettivi loro assegnati, e poi verificano la
rispondenza dei risultati della gestione, demandata
agli organi burocratici, agli obiettivi ed indirizzi
precedentemente impartiti; quindi i
dirigenti/funzionari preposti a ciascun settore
hanno competenza essenzialmente riguardante la fase
gestoria, essendo responsabili dell’attuazione di
quanto programmato dagli organi di governo, anche
adottando personalmente gli atti che impegnano
l'Amministrazione verso l'esterno (impegni di spesa,
accertamento delle entrate, verso l'esterno (impegni
di spesa, accertamento delle entrate, organizzazione
e gestione del personale ecc…).
Una minimamente adeguata programmazione implica
anche una valutazione delle finalità che si intende
conseguire attraverso un programma o progetto di
spesa e delle risorse umane e strumentali ad esso
destinate (art. 170 del d.lgs. n. 267/2000 nel testo
vigente prima della sua riformulazione introdotta
dal d.lgs. n. 118/2011), anche per mantenere in
esercizio quanto realizzato o acquisito, onde
evitare la realizzazione di opere sostanzialmente
inutili, in quanto non si è poi in grado di
mantenerle in esercizio.
Ne deriva che le conseguenze di gravi carenze
connesse all’esercizio di poteri di indirizzo,
programmazione e fissazione degli obiettivi sono
riconducibili alla responsabilità degli organi
politici, e non dei funzionari tenuti a dare
attuazione ai programmi ed obiettivi la cui
fissazione è demandata all’esclusiva competenza
degli organi politici.
---------------
La G.C., con la delibera n. 24/2006, aveva emesso
“atto di indirizzo per l’indizione di gara informale
a trattativa privata…”.
Al riguardo occorre precisare che la formale
autoqualificazione di atto di indirizzo appare del
tutto errata, considerato che “gli atti di gestione
includono funzioni dirette a dare adempimento ai
fini istituzionali posti da un atto di indirizzo o
direttamente dal legislatore, oppure includono
determinazioni destinate ad applicare, pure con
qualche margine di discrezionalità, criteri
predeterminati per legge, mentre attengono alla
funzione di indirizzo gli atti più squisitamente
discrezionali, implicanti scelte di ampio livello”.
Conseguentemente il ricorso alla trattativa privata
per la scelta del fornitore esula palesemente dalle
attribuzioni proprie dell’organo politico
nell’espletamento dell’attività di indirizzo, e
costituisce atto di gestione, considerato che le
ipotesi nelle quali è possibile il ricorso alla
trattativa privata sono predeterminati per legge.
Giova altresì ricordare che “la responsabilità delle
procedure di appalto e di concorso”, è attribuita
alla struttura burocratica dell’E.L., a norma
dell’art. 107, comma 3, lettera b), del d.lgs. n.
267/2000.
Comunque si trattava di una disposizione impartita
dalla Giunta palesemente illegittima, difettando
evidentemente ogni presupposto normativamente
previsto per il ricorso alla trattativa privata.
La giurisprudenza della Corte di conti ha più volte
ribadito che non sussiste un obbligo incondizionato
del pubblico dipendente di eseguire le disposizioni
impartite dai superiori o dagli organi sovraordinati,
posto che il dovere di obbedienza incontra un limite
nella ragionevole obiezione circa l’illegittimità
dell’ordine ricevuto.
Invero, il c.d. “potere (rectius: dovere) di
rimostranza” del pubblico impiegato, disciplinato
dall’art. 17 del D.P.R. 10.01.1957, n. 3, comporta
per il dipendente l’obbligo di fare immediata e
motivata contestazione a chi ha impartito l’ordine,
e solo se l’ordine è ribadito per iscritto il
dipendente non può esimersi dall’eseguirlo, a meno
che l’esecuzione non configuri un’ipotesi di reato.
Emerge pertanto una corresponsabilità degli odierni
convenuti che hanno svolto un ruolo rilevante nella
indizione e svolgimento della trattativa privata, e
con grave colpa nulla hanno eccepito circa la palese
illegittimità della disposizione impartita dalla
Giunta comunale.
---------------
Come innanzi già evidenziato, agli odierni convenuti
va addebitata una corresponsabilità con la Giunta
comunale, per non aver essi esercitato, con grave
colpa, il “dovere di rimostranza” nei confronti
della disposizione (giuntale) palesemente
illegittima, ma ne hanno dato esecuzione.
---------------
Come è noto, nel vigente ordinamento, a partire
dall’inizio degli anno ’90, è stato introdotto il
fondamentale principio della separazione e reciproca
autonomia tra il potere di indirizzo politico
attribuito agli organi di Governo (politici) e
quello di gestione attribuito ai dirigenti
(d.lgs. n. 29/1993 di riorganizzazione della P.A. e
più specificamente nel settore degli EE.LL. art. 51
della l. n. 142/1990, confermato dal più recente
art. 107 del d.lgs. 18.08.2000 n. 267: testo unico
delle leggi sull'ordinamento degli EE.LL.).
In sintesi, nel nuovo assetto organizzativo
delineato dalle richiamate norme, ed in particolare
dall’art. 107 del d.lgs. n. 267/2000, gli organi di
governo (quindi Consiglio e Giunta comunale
relativamente agli EE.LL.) esercitano l'indirizzo
politico definendo gli obiettivi ed i programmi da
attuare, assegnando ai dirigenti responsabili di
ciascun settore le risorse (finanziarie ma anche
umane e materiali) necessarie al perseguimento degli
obiettivi loro assegnati, e poi verificano la
rispondenza dei risultati della gestione, demandata
agli organi burocratici, agli obiettivi ed indirizzi
precedentemente impartiti; quindi i
dirigenti/funzionari preposti a ciascun settore
hanno competenza essenzialmente riguardante la fase
gestoria, essendo responsabili dell’attuazione di
quanto programmato dagli organi di governo, anche
adottando personalmente gli atti che impegnano
l'Amministrazione verso l'esterno (impegni di spesa,
accertamento delle entrate, verso l'esterno (impegni
di spesa, accertamento delle entrate, organizzazione
e gestione del personale ecc…).
Una minimamente adeguata programmazione implica
anche una valutazione delle finalità che si intende
conseguire attraverso un programma o progetto di
spesa e delle risorse umane e strumentali ad esso
destinate (art. 170 del d.lgs. n. 267/2000 nel testo
vigente prima della sua riformulazione introdotta
dal d.lgs. n. 118/2011), anche per mantenere in
esercizio quanto realizzato o acquisito, onde
evitare la realizzazione di opere sostanzialmente
inutili, in quanto non si è poi in grado di
mantenerle in esercizio.
Ne deriva che le conseguenze di gravi carenze
connesse all’esercizio di poteri di indirizzo,
programmazione e fissazione degli obiettivi, come
nella fattispecie all’esame, sono riconducibili alla
responsabilità degli organi politici, e non dei
funzionari tenuti a dare attuazione ai programmi ed
obiettivi la cui fissazione è demandata
all’esclusiva competenza degli organi politici, come
invece sostenuto dall’attore nella fattispecie
all’esame, e, pertanto, ad avviso del Collegio, la
domanda formulata al riguardo dalla Procura non
merita accoglimento.
Dagli atti acquisiti risulta che la scelta di
utilizzare il finanziamento regionale per realizzare
un progetto di “valorizzazione scenografica della
villa comunale e centro multimediale” è stato
assunto dalla Giunta comunale, che ha anche
provveduto ad approvare il progetto preliminare e
quello definitivo redatti dal tecnico comunale geom.
Am. (delibere di G.C. n. 49/2005 e n. 24/2006).
In particolare, la delibera n. 24/2006, oltre ad
approvare il progetto definitivo ed esecutivo
dell’opera –esercitando quindi, senza nulla
eccepire, anche il “potere di controllo
politico-amministrativo” sulle modalità con le
quali è stata data attuazione a quanto programmato,
previsto dal più volte richiamato art. 107 del
d.lgs. n. 267/2000– impartisce anche “atto di
indirizzo per l’indizione di gara informale a
trattativa privata per l’appalto dei lavori suddetti”
(punto 3 del dispositivo).
Occorre, pertanto, passare all’esame delle censure
attoree riguardanti il ricorso alla trattativa
privata, ove si sostiene che “la scelta del
fornitore doveva avvenire attraverso procedure ad
evidenza pubblica in grado di garantire maggiore
economicità agli acquisti”, evidenziando altresì
che “la fornitura di detti impianti audio-video è
avvenuta con un ribasso risibile rispetto al prezzo
indicato dall’amministrazione, dell’1,5%”.
Il difensore dei convenuti ha replicato deducendo
che si è fatta corretta applicazione dell’art. 24
della l. n. 109/1994, che prevede l’affidamento a
trattativa privata dei lavori di importo non
superiore a € 100.000,00.
L’assunto difensivo non è condivisibile in quanto,
per quanto concerne l’impianto di illuminazione
scenografica e quello audio-video previsti in
progetto, si trattava palesemente di “forniture”,
considerato anche che si applicano le regole dettate
per gli appalti pubblici di forniture anche se sono
contestualmente previsti eventuali lavori di
installazione (art. 1 del D.P.R. n. 573/1994).
Pertanto, inapplicabile ratione temporis il
d.lgs. n. 163/2006 “Codice dei contratti pubblici”,
in quanto entrato in vigore il 02/07/2006 (art. 257)
mentre la trattativa privata è stata indetta con
determina n. 7 del 18/04/2006, ritiene il Collegio
che in fattispecie dovesse trovare applicazione il
precedentemente già richiamato D.P.R. n. 573/1994 “Regolamento
recante norme per la semplificazione dei
procedimenti di aggiudicazione di pubbliche
forniture di valore inferiore alla soglia
comunitaria”, e per quanto più specificamente i
presupposti legittimanti il ricorso alla trattativa
privata, non disciplinati dal predetto D.P.R.,
l’art. 41 del R.D. n. 827/1924.
Nessuna delle ipotesi contemplate del su richiamato
art. 41 ricorreva nella fattispecie all’esame, tanto
meno “l’urgenza”, pur scarnamente richiamata
nella già menzionata delibera n. 24/2006, senza
fornire un benché minimo di motivazione al riguardo,
nonostante l’ultimo comma del succitato art. 41
preveda adeguata motivazione circa “la ragione
per la quale si ricorre a trattativa privata”.
Come innanzi già riferito, la G.C., con la delibera
n. 24/2006, aveva emesso “atto di indirizzo per
l’indizione di gara informale a trattativa privata…”.
Al riguardo occorre precisare che la formale
autoqualificazione di atto di indirizzo appare del
tutto errata, considerato che “gli atti di
gestione includono funzioni dirette a dare
adempimento ai fini istituzionali posti da un atto
di indirizzo o direttamente dal legislatore, oppure
includono determinazioni destinate ad applicare,
pure con qualche margine di discrezionalità, criteri
predeterminati per legge, mentre attengono alla
funzione di indirizzo gli atti più squisitamente
discrezionali, implicanti scelte di ampio livello”
(Consiglio di Stato, sez. V, n. 1775/2013).
Conseguentemente il ricorso alla trattativa privata
per la scelta del fornitore esula palesemente dalle
attribuzioni proprie dell’organo politico
nell’espletamento dell’attività di indirizzo, e
costituisce atto di gestione, considerato che le
ipotesi nelle quali è possibile il ricorso alla
trattativa privata sono predeterminati per legge.
Giova altresì ricordare che “la responsabilità
delle procedure di appalto e di concorso”, è
attribuita alla struttura burocratica dell’E.L., a
norma dell’art. 107, comma 3, lettera b), del d.lgs.
n. 267/2000.
Comunque si trattava di una disposizione impartita
dalla Giunta palesemente illegittima, difettando
evidentemente ogni presupposto normativamente
previsto per il ricorso alla trattativa privata.
La giurisprudenza della Corte di conti ha più volte
ribadito che non sussiste un obbligo incondizionato
del pubblico dipendente di eseguire le disposizioni
impartite dai superiori o dagli organi sovraordinati,
posto che il dovere di obbedienza incontra un limite
nella ragionevole obiezione circa l’illegittimità
dell’ordine ricevuto. Invero, il c.d. “potere (rectius:
dovere) di rimostranza” del pubblico impiegato,
disciplinato dall’art. 17 del D.P.R. 10.01.1957, n.
3, comporta per il dipendente l’obbligo di fare
immediata e motivata contestazione a chi ha
impartito l’ordine, e solo se l’ordine è ribadito
per iscritto il dipendente non può esimersi
dall’eseguirlo, a meno che l’esecuzione non
configuri un’ipotesi di reato (ex plurimis,
in tal senso la recente sentenza della Sez. appello
Sicilia n. 117 del 27.03.2014).
Emerge pertanto una corresponsabilità degli odierni
convenuti che hanno svolto un ruolo rilevante nella
indizione e svolgimento della trattativa privata, e
con grave colpa nulla hanno eccepito circa la palese
illegittimità della disposizione impartita dalla
Giunta comunale.
In particolare, Ma.Mi., nella qualità di
responsabile del servizio LLPP, ha indetto la
trattativa privata con determina n. 7 del 18.04.2006
e poi ha approvato gli atti della gara informale con
determine n. 95 e 96 del 2006, mentre Am.Vi.Ni. ha
emanato gli inviti alle imprese e poi presieduto le
gare informali.
Circa il danno causalmente collegabile al mancato
svolgimento della gara, esso non può che essere
determinato con valutazione equitativa ai sensi
dell’art. 1226 c.c., quale differenza tra
l’inconsistente ribasso ottenuto attraverso la
trattativa privata (1,5%) e quello maggiore che
ipoteticamente si sarebbe potuto ottenere attraverso
procedure ad evidenza pubblica.
Ipotizzando quindi che si sarebbe potuto conseguire
un ribasso almeno pari a quello ottenuto
nell’aggiudicazione dei lavori edili previsti dallo
stesso progetto di valorizzazione della Villa
comunale, pari al 9,45%, il danno va così
determinato:
a) fornitura per l’illuminazione scenografica: base
d’asta € 27.347,62, aggiudicata ad € 26.937,41, con
un ribasso dell’1,5%, corrispondente ad € 410,21;
ipotizzando un ribasso del 9,45%, esso sarebbe
ammontato ad € 2.584,35; il danno pertanto va
determinato in € 2.174,14, quale differenza tra €
2.584,35 ed € 410,21;
b) fornitura per l’impianto audio-video: base d’asta
€ 21.457,14, aggiudicata ad € 21.135,28, con un
ribasso dell’1,5%, corrispondente ad € 321,86;
ipotizzando un ribasso del 9,45%, esso sarebbe
ammontato ad € 2.027,70; il danno pertanto va
determinato in € 1.705,84, quale differenza tra €
2.027,70 ed € 321,86.
Conseguentemente il danno derivante da entrambe le
forniture ammonta ad € 3.879,98.
Poiché, come innanzi già evidenziato, agli odierni
convenuti va addebitata una corresponsabilità con la
Giunta comunale, per non aver essi esercitato, con
grave colpa, il “dovere di rimostranza” nei
confronti della disposizione palesemente
illegittima, ma ne hanno dato esecuzione, il
Collegio reputa di ascrivere ad essi il 40% del
danno complessivo, pari ad € 1.551,99.
Il predetto danno va addebitato in parti uguali a
ciascuno dei due convenuti, che pertanto vanno
condannati al pagamento di € 776,00 ciascuno, oltre
agli accessori di legge
(Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Basilicata,
sentenza 19.12.2014 n. 83). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Un ordine palesemente illegittimo e
contrario al chiaro riparto di competenze tra la
Regione e l’ASP non può non ingenerare nel
destinatario, dello stesso, l’obbligo di attivare il
c.d. “diritto di rimostranza”, cioè di contestare
l’illegittimità dell’ordine/delega ricevuto, al fine
di riversare sull’esclusiva responsabilità
dell’ordinante le conseguenze dannose di tale
disposizione.
Non sussiste, infatti, un obbligo incondizionato del
pubblico dipendente di eseguire le disposizioni, ivi
incluse quelle derivanti da atti di organizzazione,
impartite dai superiori o dagli organi sovraordinati,
posto che il dovere di obbedienza incontra un limite
nella ragionevole obiezione circa l’illegittimità
dell’ordine ricevuto.
Il c.d. “potere (rectius: dovere) di rimostranza”
del pubblico impiegato, disciplinato dall’art. 17
del D.P.R. 10.01.1957, n. 3, comporta per il
dipendente l’obbligo di fare immediata e motivata
contestazione a chi ha impartito l’ordine, e solo se
l’ordine è ribadito per iscritto il dipendente non
può esimersi dall’eseguirlo, a meno che l’esecuzione
non configuri un’ipotesi di reato.
----------------
In relazione alla presunta omessa valutazione del fatto che
lo IA. avesse agito in esecuzione dell’ordine gerarchico
del superiore MA., è stato già rilevato come un ordine
così palesemente illegittimo e contrario al chiaro riparto
di competenze tra la Regione e l’ASP, non poteva non
ingenerare, nello IA., l’obbligo di attivare il c.d. “diritto
di rimostranza”, cioè di contestare l’illegittimità
dell’ordine/delega ricevuto, al fine di riversare
sull’esclusiva responsabilità dell’ordinante le conseguenze
dannose di tale disposizione.
Non sussiste, infatti, un obbligo incondizionato del
pubblico dipendente di eseguire le disposizioni, ivi incluse
quelle derivanti da atti di organizzazione, impartite dai
superiori o dagli organi sovraordinati, posto che il dovere
di obbedienza incontra un limite nella ragionevole obiezione
circa l’illegittimità dell’ordine ricevuto.
Il c.d. “potere (rectius: dovere) di rimostranza” del
pubblico impiegato, disciplinato dall’art. 17 del D.P.R.
10.01.1957, n. 3, comporta per il dipendente l’obbligo di
fare immediata e motivata contestazione a chi ha impartito
l’ordine, e solo se l’ordine è ribadito per iscritto il
dipendente non può esimersi dall’eseguirlo, a meno che
l’esecuzione non configuri un’ipotesi di reato (vedi: Cons.
Stato, Sez. V, sentenza 15.12.2008, n. 6208).
Lo IA., invece, eseguì puntualmente la disposizione,
facendo sue le tariffe che erano state sostanzialmente
predisposte, in modo unilaterale, dalla Società che ne
doveva, poi, beneficiare, senza operare un sia pur apparente
esame critico in ordine alla loro ragionevolezza e congruità
che, invero, già ad un primo sommario esame anche da parte
di un soggetto non particolarmente competente, apparivano
del tutto inesistenti.
La responsabilità dello IA., pertanto, appare pienamente
provata e ben lungi dal potersi considerare condizionata o
minore di quella del MA.
(Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. d'Appello per la Regione
Siciliana,
sentenza 27.03.2014 n. 117). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Va ribadito che l'esercizio del così
detto "diritto di rimostranza" in base al quale,
nell'ipotesi di "ordine ritenuto palesemente
illegittimo", il dipendente subordinato può chiedere
che tale ordine sia rinnovato per iscritto, con la
conseguenza che di esso ne risponde a tutti gli
effetti, il superiore gerarchico, non può essere
esercitato nei confronti di ogni ordine che si
suppone illegittimo, ma solo in relazione ad un
ordine la cui esecuzione comporti "responsabilità"
per l'impiegato.
Tale diritto di rimostranza non è, pertanto,
esercitabile nel caso che il provvedimento sia
ritenuto lesivo dell'interesse dell'impiegato,
perché la tutela del dipendente voluta dalla legge
non può essere individuata in relazione alla
posizione professionale dell'impiegato pubblico, ma
in rapporto al concetto di responsabilità, avendo la
norma in questione la sola funzione di trasferire la
responsabilità dell'atto sul superiore gerarchico
che lo ha impartito.
---------------
Il ricorso è infondato.
Secondo la difesa del ricorrente, il superiore
gerarchico che ha rilevato l'infrazione avrebbe
disatteso l'obbligo di qualificarsi e di far
costatare in modo preciso la mancanza disciplinare.
La censura pare, innanzitutto, infondata in punto di
fatto e smentita dalla documentazione depositata in
giudizio dall’amministrazione resistente (e non
contestata dal ricorrente) e in particolare dal
rapporto del rapporto del 27/03/1999 sottoscritto
dal V. Isp Ma.Cu..
In ogni caso, è dirimente il rilievo che, per
giurisprudenza consolidata, ai fini della regolarità
del procedimento disciplinare, è sufficiente che al
dipendente siano comunicati e contestati in modo
completo e circostanziato i fatti che gli si
addebitano, in modo da metterlo in grado di svolgere
le sue difese in una situazione di cognizione piena
e consapevole; cognizione che, nel caso di specie, è
stata garantita dalla nota di contestazione degli
addebiti del 26/07/1999 che contiene un’esauriente
esposizione dei fatti e una puntuale indicazione dei
doveri violati.
Quanto alla mancata reiterazione dell’ordine per
iscritto (circostanza anch’essa smentita, in punto
fatto, dalle giustificazioni prodotte dal ricorrente
nelle quali non si fa menzione alcuna della
richiesta di reiterazione dell’ordine per iscritto)
si rileva che in base all’art. 10, comma 3°, della
legge n. 395/1990 “L'appartenente al Corpo, al
quale sia rivolto un ordine che egli ritenga
palesemente illegittimo, deve farlo rilevare al
superiore che lo ha impartito, dichiarandone le
ragioni; se l'ordine è rinnovato per iscritto, è
tenuto a darvi esecuzione e di esso risponde a tutti
gli effetti, il superiore che lo ha impartito.
Qualora ricorrano situazioni di pericolo e di
urgenza, l'ordine ritenuto palesemente illegittimo
deve essere eseguito su rinnovata richiesta, anche
verbale del superiore, che al termine del servizio
ha l'obbligo di confermarlo per iscritto”.
Nel caso di specie, non sembra profilarsi alcun
ordine “palesemente illegittimo”, tenuto
anche conto che all’epoca dei fatti presso il C.D.T.
era ristretto solo un detenuto affetto da TBC
polmonare inattiva e stabilizzata, e per il quale il
dirigente sanitario non riteneva necessaria alcuna
misura di profilassi ad eccezione dell’uso delle
mascherine protettive (che risultano essere state
poste disposizione del personale).
A tale proposito, il Collegio evidenzia
l’irrilevanza, sia della nota del dirigente
sanitario del 04/03/2000 (poiché relativa a fatti
successivi alla mancanza disciplinare), sia dello
stato di gravidanza della moglie del ricorrente
(dedotto per la prima volta nella memoria difensiva
del 30/01/2013), di cui non si fa mai menzione, né
nelle giustificazioni prodotte dal ricorrente, né
nel ricorso introduttivo.
In ogni caso, va ribadito che l'esercizio del così
detto "diritto di rimostranza" in base al
quale, nell'ipotesi di "ordine ritenuto
palesemente illegittimo", il dipendente
subordinato può chiedere che tale ordine sia
rinnovato per iscritto, con la conseguenza che di
esso ne risponde a tutti gli effetti, il superiore
gerarchico, non può essere esercitato nei confronti
di ogni ordine che si suppone illegittimo, ma solo
in relazione ad un ordine la cui esecuzione comporti
"responsabilità" per l'impiegato; tale
diritto di rimostranza non è, pertanto, esercitabile
nel caso che il provvedimento sia ritenuto lesivo
dell'interesse dell'impiegato, perché la tutela del
dipendente voluta dalla legge non può essere
individuata in relazione alla posizione
professionale dell'impiegato pubblico, ma in
rapporto al concetto di responsabilità, avendo la
norma in questione la sola funzione di trasferire la
responsabilità dell'atto sul superiore gerarchico
che lo ha impartito (TAR Valle d'Aosta, 23.01.2012,
n. 8; TAR Abruzzo-Pescara, 24.05.2002, n. 518) (TAR
Sicilia-Catania, Sez. III,
sentenza 26.04.2013 n. 1202 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Per definire modalità e limiti entro cui
è esercitabile in maniera legittima il potere di
rimostranza, occorre brevemente delineare i contorni
dell’istituto, sulla base delle norme applicabili
ratione temporis.
La disposizione di carattere generale è tuttora
contenuta nell’art. 17 del D.P.R. 10.01.1957, n. 3,
rubricato “Limiti al dovere verso il superiore”,
secondo cui l'impiegato al quale venga impartito un
ordine ritenuto palesemente illegittimo ha l’obbligo
-in deroga al dovere di «eseguire gli ordini che gli
siano impartiti … relativamente alle proprie
funzioni o mansioni» stabilito dall’art. 16, primo
comma, dello stesso decreto- di farne rimostranza al
proprio superiore, dichiarandone le ragioni.
Sempre in base all’art. 17, se l'ordine è rinnovato
per iscritto, l'impiegato ha il dovere di darvi
esecuzione, a meno che l’atto sia vietato dalla
legge penale.
Secondo la consolidata giurisprudenza contabile, il
mancato esercizio della rimostranza, comportando
l’inapplicabilità dell’esimente prevista dall’art.
18 del medesimo D.P.R. n. 3/1957, configura colpa
dell’impiegato, rilevante ai fini della
responsabilità patrimoniale, laddove dall’atto
illegittimo sia derivato un danno per le finanze
pubbliche.
Non sussiste dunque un obbligo incondizionato del
pubblico dipendente di eseguire le disposizioni, ivi
incluse quelle derivanti da atti di organizzazione,
impartite dai superiori o dagli organi sovraordinati,
posto che il c.d. “dovere di obbedienza” incontra un
limite nella ragionevole obiezione circa
l’illegittimità dell’ordine ricevuto.
Qualora ricorra un’evenienza del genere, il pubblico
impiegato ha tuttavia l’obbligo di fare una
immediata e motivata contestazione a chi ha
impartito l’ordine e se quest’ultimo è ribadito per
iscritto, allora il dipendente non può esimersi
dall’eseguirlo, a meno che l’esecuzione configuri
un’ipotesi di reato.
---------------
5. - Ad avviso del Collegio la controversia interseca tre
diverse problematiche giuridiche e, segnatamente: la
questione dei limiti del c.d. “potere (rectius, dovere)
di rimostranza” del pubblico impiegato; la
determinazione del momento iniziale del procedimento
disciplinare e l'individuazione dei presupposti per una
valida dichiarazione di decadenza del dipendente pubblico.
5.1. – Per definire modalità e limiti entro cui è
esercitabile in maniera legittima il potere di rimostranza,
occorre brevemente delineare i contorni dell’istituto, sulla
base delle norme applicabili ratione temporis.
La disposizione di carattere generale è tuttora contenuta
nell’art. 17 del D.P.R. 10.01.1957, n. 3, rubricato “Limiti
al dovere verso il superiore”, secondo cui l'impiegato
al quale venga impartito un ordine ritenuto palesemente
illegittimo ha l’obbligo -in deroga al dovere di «eseguire
gli ordini che gli siano impartiti … relativamente alle
proprie funzioni o mansioni» stabilito dall’art. 16,
primo comma, dello stesso decreto- di farne rimostranza al
proprio superiore, dichiarandone le ragioni.
Sempre in base all’art. 17, se l'ordine è rinnovato per
iscritto, l'impiegato ha il dovere di darvi esecuzione, a
meno che l’atto sia vietato dalla legge penale.
Secondo la consolidata giurisprudenza contabile, il mancato
esercizio della rimostranza, comportando l’inapplicabilità
dell’esimente prevista dall’art. 18 del medesimo D.P.R. n.
3/1957, configura colpa dell’impiegato, rilevante ai fini
della responsabilità patrimoniale, laddove dall’atto
illegittimo sia derivato un danno per le finanze pubbliche.
Non sussiste dunque un obbligo incondizionato del pubblico
dipendente di eseguire le disposizioni, ivi incluse quelle
derivanti da atti di organizzazione, impartite dai superiori
o dagli organi sovraordinati, posto che il c.d. “dovere
di obbedienza” incontra un limite nella ragionevole
obiezione circa l’illegittimità dell’ordine ricevuto.
Qualora ricorra un’evenienza del genere, il pubblico
impiegato ha tuttavia l’obbligo di fare una immediata e
motivata contestazione a chi ha impartito l’ordine e se
quest’ultimo è ribadito per iscritto, allora il dipendente
non può esimersi dall’eseguirlo, a meno che l’esecuzione
configuri un’ipotesi di reato.
Le regole appena descritte sono riprodotte anche nelle
previsioni del Regolamento del personale della Provincia di
Roma e, segnatamente, negli artt. 3 e 9 il cui disposto
replica, anche nei termini utilizzati, il portato precettivo
delle richiamate disposizioni del Testo unico del 1957.
Al lume dei principi sopra enunciati, bisogna dunque
verificare se l’appellante fosse, o no, obbligato ad
assumere e a svolgere l’incarico di Direttore del Settore
artigianato.
L’esito di tale scrutinio è sicuramente positivo, dal
momento che la Provincia di Roma in ben due occasioni (con
note del 07.02.1995, del 17.02.1995 e del 22.02.1995)
diffidò per iscritto il dott. Se. ad attenersi a quanto
deliberato dalla Giunta con atto n. 54 del 1995, riguardo
l’assegnazione ad un diverso plesso organizzativo dell’ente.
Non emergendo profili penali della delibera di
trasferimento, si perviene alla conclusione che l’appellante
non avrebbe potuto reputarsi esonerato dall’obbligo di
adempiere all’ordine ricevuto; né vale osservare in
contrario che il dott. Sega ebbe a contestare la legittimità
delle note con le quali fu reiterato l’ordine di
assegnazione ad altro incarico (assegnazione che promanava
direttamente dalla delibera giuntale sopra citata): si è
infatti chiarito che il pubblico impiegato, al cospetto di
una diffida efficace quand’anche ipoteticamente illegittima,
è comunque tenuto ad ottemperare all’ordine con essa
rinnovato, fatte salve le eventuali iniziative impugnatorie.
Nemmeno rileva ai fini del decidere la circostanza del
sopravvenuto annullamento, nel corso dell’anno 2006, da
parte del Tar del Lazio, della sunnominata delibera n.
54/1995: ed invero, se indubbiamente la sopravvenienza
conferma ab externo la non pretestuosità dei dubbi
allora esternati dal dott. Se., contribuendo vieppiù a
colorare l’atteggiamento psicologico dell’appellante (v.,
infra, il §. 5.3.2.), nondimeno tale annullamento
giurisdizionale si colloca a grande distanza temporale
dall’epoca in cui si svolse la vicenda dedotta nel presente
contenzioso e, per quanto già precisato sull’interinale
efficacia dell’atto di assegnazione al nuovo incarico, non
si pone in contraddizione con il quadro sopra richiamato n é
rende giustificato il rifiuto allora opposto dal dott. Se..
Sotto questo aspetto, quindi, l’appello è infondato (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 15.12.2008 n. 6208 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Circa
la buona fede per doverosa ottemperanza ad un ordine
del proprio superiore, è agevole replicare che,
quanto meno nell'ordinamento civile (ma norme
analoghe operano anche per il personale militare),
non esiste un obbligo incondizionato di ottemperare
ad ordini illegittimi da parte di un pubblico
dipendente, la cui “obbedienza” a precetti dei
superiori incontra un limite logico, ancor prima che
giuridico (art. 17, d.P.R. 10.01.1957 n. 3), nella
“palese illegittimità” dell'ordine.
In tale evenienza, il subordinato ha un obbligo di
fare una immediata e motivata contestazione al
superiore gerarchico, il quale può ribadire per
iscritto l'ordine, a cui occorre, in tale evenienza,
dar seguito, salvo che “la disposizione stessa sia
vietata dalla legge penale o costituisca (come nel
caso di specie, n.d.r.) illecito amministrativo”.
---------------
5. Acclarata dunque l'esistenza di una condotta
illecita dei convenuti, occorre farsi carico della
verifica circa la sussistenza di una colpa grave o,
addirittura, di un dolo eventuale, del T. e del C..
Tale elemento psicologico è ritenuto insussistente
da parte dell'ex direttore amministrativo T., il
quale, nelle proprie deduzioni e nella memoria di
costituzione, ha addotto, a propria giustificazione
(ergo, a comprova della propria buona fede ostativa
alla ipotizzata colpevolezza), tre sostanziali
argomenti:
a) l'aver dovuto ottemperare all'”ordine” di
trasferimento impartito dal proprio direttore
generale, dr. P.C., a tutela di un generico “buon
andamento dell'ufficio acquisti” (v. p. 3 e 4
deduzioni 05.07.2004 agli atti);
b) la riconducibilità esclusiva della scelta
gestionale al direttore generale ex art. 3, legge (rectius
d.lgs.) 30.12.1992 n. 502;
c) la proprio sconoscenza, all'epoca del
trasferimento, dei pregressi attriti tra il F. e il
dirigente generale concernenti l'appalto di “3
service, comprendenti la gestione completa dei
reparti di emodinamica, radiologia interventistica e
neuroradiologia interventistica per 5 anni”.
Tali argomenti defensionali appaiono infondati per i
motivi infraprecisati.
Circa la buona fede per doverosa ottemperanza ad un
ordine del proprio direttore generale, è agevole
replicare che, quanto meno nell'ordinamento civile
(ma norme analoghe operano anche per il personale
militare), non esiste un obbligo incondizionato di
ottemperare ad ordini illegittimi da parte di un
pubblico dipendente, la cui “obbedienza” a
precetti dei superiori incontra un limite logico,
ancor prima che giuridico (art. 17, d.P.R.
10.01.1957 n. 3; art. 28, co. 3, lett. h, CCNL
1994-1997 Sanità, ribadito nel successivo CCNL
1998/2001), nella “palese illegittimità”
dell'ordine. In tale evenienza, il subordinato ha un
obbligo di fare una immediata e motivata
contestazione al superiore gerarchico, il quale può
ribadire per iscritto l'ordine, a cui occorre, in
tale evenienza, dar seguito, salvo che “la
disposizione stessa sia vietata dalla legge penale o
costituisca (come nel caso di specie, n.d.r.)
illecito amministrativo”.
Nella fattispecie in esame, per ammissione dello
stesso T. nelle depositate deduzioni, il direttore
generale non aveva esternato, per una asserita
generica “salvaguardia del bene aziendale”,
le ragioni giuridico-organizzative alla base del
richiesto trasferimento.
Orbene, la richiesta da parte del vertice gestionale
di un atto dai rilevanti riflessi giuridici e
contenziosi in quanto privo di idonea motivazione,
avrebbe dovuto indurre il direttore amministrativo,
soggetto di comprovata esperienza e professionalità
richieste ex lege (art. 3 seg., d.lgs. n. 502
del 1992 infrariportato), a richiederne per iscritto
le espresse ragioni, a fronte delle quali avrebbe
potuto ragionevolmente decidere.
L'acritico recepimento di un ordine (o, perlomeno,
di una “esortazione”) immotivato, e come tale
illegittimo, rappresenta, dunque, la gravemente
colpevole scelta del convenuto direttore
amministrativo, la cui elevata professionalità
specifica (in base all'art. 3, d.lgs. 30.12.1992 n.
502, applicabile anche alle aziende ospedaliere,
come il omissis, in base al successivo art. 4, “Il
direttore amministrativo è un laureato in discipline
giuridiche o economiche che non abbia compiuto il
sessantacinquesimo anno di età e che abbia svolto
per almeno cinque anni una qualificata attività di
direzione tecnica o amministrativa in enti o
strutture sanitarie pubbliche o private di media o
grande dimensione. Il direttore amministrativo
dirige i servizi amministrativi dell'unità sanitaria
locale. Sono soppresse le figure del coordinatore
amministrativo, del coordinatore sanitario e del
sovrintendente sanitario, nonché l'ufficio di
direzione”) avrebbe dovuto indurlo a non
assumere un comportamento irragionevolmente acritico
nei confronti del superiore gerarchico, tenuto conto
che il principio di legalità e ragionevolezza
rappresentano obiettivo prioritario di qualsiasi
scelta gestionale, anche in un sistema “depubblicizzato”
di pubblica amministrazione.
Anzi, ad avviso del Collegio, l'aver adottato un
atto la cui illegittimità era palese secondo criteri
di ordinaria diligenza per un direttore
amministrativo, configura addirittura un dolo
eventuale, avendo l'autore della determina
dirigenziale accettato il rischio di una fatale
impugnativa lavoristica e del relativo accoglimento,
foriero di danni erariali.
Né assume giuridica rilevanza, in questa sede, una
ipotetica “sudditanza psicologica” del T. nei
confronti del direttore generale C., cui fa un
subliminare accenno il convenuto nelle proprie
deduzione (ove si fa riferimento al “rapporto di
fiducia” con il proprio vertice gestionale che
lo avrebbe indotto a non mettere in dubbio la
correttezza della richiesta del dir.gen.): dei
problemi di fattuale “sintonia-sudditanza”
dei dirigenti pubblici nei confronti dei propri
dirigenti generali e di questi ultimi nei confronti
degli organi politici, recentemente acuiti dalla
discutibile l. 15.07.2002 n.145, non può farsi
carico l'autorità giudiziaria (ma il Parlamento o
iniziative referendarie), trattandosi di un fatale
indotto di scelte legislative ispirate ad una
asserita libertà gestionale della dirigenza e ad un
coesistente (e solo apparentemente coerente) legame
“fiduciario” di quest'ultima con l'organo
politico momentaneamente al vertice dell'ente
pubblico
(Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Lombardia,
sentenza 30.09.2005 n. 579). |
PUBBLICO IMPIEGO: E'
stato evidenziato in giurisprudenza che l’esercizio
del "diritto di rimostranza" –in base al quale in
ipotesi di ordine palesemente illegittimo il
dipendente subordinato può chiedere che tale ordine
venga rinnovato per iscritto, con la conseguenza che
di esso ne risponde a tutti gli effetti il superiore
gerarchico– non può essere esercitato nei confronti
di ogni ordine che si suppone illegittimo, ma solo
in relazione ad un ordine che comporti
“responsabilità”, per cui tale diritto non è
esercitatile nel caso che il provvedimento sia solo
lesivo dell’interesse dell’impiegato, avendo la
norma la sola funzione di trasferire la
responsabilità dell’atto sul superiore gerarchico
che lo ha impartito, tenuto anche conto che
l’ordine, anche se oggetto di rimostranza, deve
comunque essere eseguito fino a che non sia stato
annullato o ne è stata sospesa l’esecuzione.
Ancora, è stato osservato come il potere di
rimostranza contro un ordine (in ipotesi
illegittimo) neppure è esercitabile, ove la sua
esecuzione non comporti responsabilità per
l’impiegato ed abbia ad oggetto l’osservanza di un
obbligo d’ufficio.
---------------
Quanto al c.d. "diritto di rimostranza", va
osservato che la norma (art. 18 T.U. n. 3/1957)
invocata dai ricorrenti, non appare pertinente al
caso di specie, in quanto essa si limita a
disciplinare la responsabilità dell’impiegato per
danni arrecati all’A.ne derivanti da violazioni di
obblighi di servizio, stabilendo che, se l’impiegato
ha agito per un ordine che era obbligato ad eseguire
va esente da responsabilità, salva la responsabilità
del superiore che ha impartito l’ordine, essendo
pacifico che i ricorrenti hanno ritenuto di non dare
esecuzione al servizio per il quale erano stati
comandati e che, pertanto, nessun nuovo ordine
doveva essere ad essi impartito dai superiori.
Invece, il "diritto di rimostranza" è previsto
dall’art. 17 dello stesso T.U. n. 3/1957 (secondo
cui “L’impiegato al quale, dal proprio superiore,
venga impartito un ordine che egli ritenga
palesemente illegittimo, deve farne rimostranza allo
stesso superiore dichiarandone le ragioni. Se
l’ordine è rinnovato per iscritto, l’impiegato è
tenuto a darvi esecuzione. L’impiegato non deve
comunque eseguire l’ordine del superiore quando
l’atto sia vietato dalla legge penale”).
Nella specie, escluso che l’ordine fosse vietato
dalla legge penale, va osservato che esso neppure
appariva manifestamente illegittimo sotto il profilo
amministrativo, atteso che i ricorrenti contestano
non tanto l’ordine in sé, quanto l’inadeguatezza dei
mezzi per farvi fronte.
Comunque, è stato evidenziato in giurisprudenza che
l’esercizio del "diritto di rimostranza" –in
base al quale in ipotesi di ordine palesemente
illegittimo il dipendente subordinato può chiedere
che tale ordine venga rinnovato per iscritto, con la
conseguenza che di esso ne risponde a tutti gli
effetti il superiore gerarchico– non può essere
esercitato nei confronti di ogni ordine che si
suppone illegittimo, ma solo in relazione ad un
ordine che comporti “responsabilità”, per cui
tale diritto non è esercitatile nel caso che il
provvedimento sia solo lesivo dell’interesse
dell’impiegato, avendo la norma la sola funzione di
trasferire la responsabilità dell’atto sul superiore
gerarchico che lo ha impartito (cfr. TAR Abruzzo
Pescara, 24.05.2002, n. 518), tenuto anche conto che
l’ordine, anche se oggetto di rimostranza, deve
comunque essere eseguito fino a che non sia stato
annullato o ne è stata sospesa l’esecuzione (Cfr.
C.d.S., V, 16.10.2002, n. 5602); ancora, è stato
osservato come il potere di rimostranza contro un
ordine (in ipotesi illegittimo) neppure è
esercitabile, ove la sua esecuzione non comporti
responsabilità per l’impiegato ed abbia ad oggetto
l’osservanza di un obbligo d’ufficio (cfr. C.d.S.,
sez. II, 22.02.1989, n. 146)
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 09.01.2004 n. 62 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
IN EVIDENZA |
APPALTI: Anche
dopo l’entrata in vigore dell’art. 31, comma 8, del decreto
legge 21.06.2013 n. 69, (Disposizioni urgenti per il
rilancio dell'economia), convertito con modificazioni dalla
legge 09.08.2013, n. 98, non sono consentite
regolarizzazioni postume della posizione previdenziale,
dovendo l’impresa deve essere in regola con l'assolvimento
degli obblighi previdenziali ed assistenziali fin dalla
presentazione dell'offerta e conservare tale stato per tutta
la durata della procedura di aggiudicazione e del rapporto
con la stazione appaltante, restando dunque irrilevante, un
eventuale adempimento tardivo dell'obbligazione
contributiva.
L’istituto dell’invito alla regolarizzazione (il c.d.
preavviso di DURC negativo), già previsto dall’art. 7, comma
3, del decreto ministeriale 24.10.2007 e ora recepito a
livello legislativo dall’art. 31, comma 8, del decreto legge
21.06.2013 n. 69, può operare solo nei rapporti tra impresa
ed Ente previdenziale, ossia con riferimento al DURC chiesto
dall’impresa e non anche al DURC richiesto dalla stazione
appaltante per la verifica della veridicità
dell’autodichiarazione resa ai sensi dell’art. 38, comma 1,
lettera i), ai fini della partecipazione alla gara
d’appalto.
---------------
X) Il principio di diritto sulla questione interpretativa
rimessa all’Adunanza Plenaria
23. Alla luce delle considerazioni che precedono, la
questione interpretativa sottoposta dall’Adunanza Plenaria
deve, pertanto, essere risolta enunciando il seguente
principio di diritto: «Anche dopo l’entrata in vigore
dell’art. 31, comma 8, del decreto legge 21.06.2013 n. 69,
(Disposizioni urgenti per il rilancio dell'economia),
convertito con modificazioni dalla legge 09.08.2013, n. 98,
non sono consentite regolarizzazioni postume della posizione
previdenziale, dovendo l’impresa deve essere in regola con
l'assolvimento degli obblighi previdenziali ed assistenziali
fin dalla presentazione dell'offerta e conservare tale stato
per tutta la durata della procedura di aggiudicazione e del
rapporto con la stazione appaltante, restando dunque
irrilevante, un eventuale adempimento tardivo
dell'obbligazione contributiva.
L’istituto dell’invito alla regolarizzazione (il c.d.
preavviso di DURC negativo), già previsto dall’art. 7, comma
3, del decreto ministeriale 24.10.2007 e ora recepito a
livello legislativo dall’art. 31, comma 8, del decreto legge
21.06.2013 n. 69, può operare solo nei rapporti tra impresa
ed Ente previdenziale, ossia con riferimento al DURC chiesto
dall’impresa e non anche al DURC richiesto dalla stazione
appaltante per la verifica della veridicità
dell’autodichiarazione resa ai sensi dell’art. 38, comma 1,
lettera i), ai fini della partecipazione alla gara d’appalto»
(Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria,
sentenza 29.02.2016 n. 5 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI - LAVORI PUBBLICI: Le
diverse questioni che, sotto il profilo teorico, si agitano
in dottrina e giurisprudenza, nonché l’importanza che
l’istituto dell’avvalimento ha assunto nelle procedure di
evidenza pubblica, a giudizio del collegio, impongono la
rimessione all’adunanza plenaria trattandosi di questioni di
diritto che hanno dato luogo e possono dar luogo a contrasti
giurisprudenziali.
Accanto alle tematiche sopra delineate, risulta tra l’altro
importante stabilire:
1) se l’articolo 88 d.P.R. 207/2010 –nel richiedere che il
contratto deve riportare in modo compiuto, esplicito ed
esauriente, l’oggetto indicando le risorse e i mezzi
prestati in modo determinato e specifico– riguarda
unicamente la determinazione dell’oggetto del contratto
(così legittimando anche interpretazioni di tipo estensivo)
oppure, oltre all’oggetto, anche il c.d. requisito della
forma-contenuto;
2) se nell’ipotesi di categorie che richiedono particolari
requisiti –come nel caso di specie risulta per la categoria
OS18A– tali particolari requisiti debbano essere indicati in
modo esplicito nel contratto di avvalimento oppure possano
essere desunti dall’interpretazione complessiva del
contratto;
3) se l’istituto del soccorso istruttorio, come disciplinato
dopo le novità introdotte dal d.l. 90/2014, possa essere
utilizzato anche con riferimento ad incompletezze del
contratto di avvalimento che, sotto un profilo civilistico,
portano ad affermare la nullità del negozio per mancanza di
determinatezza del suo oggetto.
---------------
3. Dalla descrizione dei fatti processuali emerge che per la
decisione dell’appello è necessario delineare i tratti, non
semplici, dell’istituto dell’avvalimento, istituto questo
non univocamente ricostruito in dottrina e giurisprudenza.
3.1. Come già affermato da questo Consiglio (sentenza 21.01.2015 n. 35), con l’entrata in vigore del codice dei
contratti pubblici il legislatore ha introdotto l’istituto
dell’avvalimento recependo compiutamente nel nostro
ordinamento le indicazioni provenienti dalle direttive 17 e
18 del 2004.
La direttiva 31.03.2004 n. 2004/18/CE, nel
disciplinare i requisiti di capacità economico-finanziaria
nonché di capacità tecnico-professionale, prevede che un
operatore economico può, se del caso e per un determinato
appalto, fare affidamento sulle capacità di altri soggetti,
a prescindere dalla natura giuridica dei suoi legami con
questi ultimi; per la direttiva, l’operatore in tal caso
deve dimostrare all’amministrazione aggiudicatrice che
disporrà dei mezzi necessari, ad esempio mediante
presentazione dell'impegno a tal fine di questi soggetti
(art. 47 e, in termini simili, art. 48 dir. cit.).
Nelle intenzioni del legislatore comunitario l’istituto in
questione contribuisce concretamente ad ampliare la
concorrenza consentendo la partecipazione a operatori che,
per le modeste dimensioni o per il loro recente ingresso nel
mercato, non possiedono individualmente considerati tutti i
requisiti richiesti dal bando. Le direttive valutano
positivamente sia l’interesse dell’amministrazione a
selezionare soggetti che in ragione dei requisiti posseduti
(economico finanziari e tecnico professionali) possono
adempiere correttamente gli impegni contrattuali sia
l’interesse generale a garantire l’ampliamento del mercato e
della concorrenza.
In altri termini, lo scopo dell'istituto
è quello di permettere «… la massima partecipazione alle
gare, consentendo ai concorrenti di utilizzare i requisiti
di capacità tecnico-professionale e economico-finanziaria di
soggetti terzi, indipendentemente dalla natura giuridica dei
legami con tali soggetti…».
Giova inoltre ricordare che
l’articolo 50 Codice Appalti prevede anche l’avvalimento nel
caso di operatività di sistemi di attestazione o di sistemi
di qualificazione lasciando al regolamento, nel rispetto di
determinati principi previsti dalla legge, la disciplina
della possibilità di conseguire l’attestazione SOA in
osservanza delle disposizioni stabilite dall’art. 49.
L’importanza di questo istituto è confermata dalla scelta
del legislatore comunitario del 2014. L’articolo 63 dir.
2014/24 /UE (in corso di recepimento) reca una disciplina
analitica dello “Affidamento sulle capacità di altri
soggetti” rinviando poi all’allegato XII per
l’individuazione di ulteriori aspetti.
3.2. Per il codice dei contratti pubblici il concorrente,
singolo o consorziato o raggruppato ai sensi dell’art. 34,
in relazione ad una specifica gara di lavori, servizi,
forniture può soddisfare la richiesta relativa al possesso
dei requisiti di carattere economico, finanziario, tecnico,
organizzativo, ovvero di attestazione della certificazione
SOA avvalendosi dei requisiti o dell’attestazione SOA di
altro soggetto.
Nonostante vi fossero già state pronunce della
giurisprudenza nel senso dell’applicabilità nell’ordinamento
interno (Cons. St., V, 28.09.2005 n. 5194; Cons. St., VI, 20.12.2004 n. 8145), al momento dell’entrata in
vigore del codice si trattava di previsione innovativa che
riscriveva le regole delle procedure di evidenza pubblica
superando le ‘tradizionali’ norme di qualificazione
conosciute fino ad allora.
Parte della dottrina, in sede di
primo commento alle direttive, ha manifestato la possibilità
che si potessero creare gli “avvalifici” per consentire ad
imprese inidonee (per dimensioni o per organizzazione
imprenditoriale) la partecipazione alle gare e così
frustrare l’interesse pubblico alla corretta e puntuale
esecuzione del contratto. Altri Autori, mossi dalla medesima
preoccupazione, hanno messo in evidenza «il rischio che i
concorrenti si trasformino in scatole vuote» o in «holding
dai contorni oscuri».
Per tale ragione, il codice dei
contratti, pur consapevole dell’importanza dell’istituto e
della sua diretta riconducibilità alla tutela della
concorrenza, onde evitare pericolosi svuotamenti di
responsabilità, stabilisce che quando si ricorre all’avvalimento
il concorrente e l’impresa ausiliaria sono responsabili in
solido nei confronti della stazione appaltante in relazione
alle prestazioni oggetto del contratto; possibilità questa
oggi confermata dall’art. 63 dir. 2014/24/UE.
Per escludere
inoltre l’aggiramento della legge penale si stabilisce che
gli obblighi previsti dalla normativa antimafia a carico del
concorrente si applicano anche nei confronti del soggetto
ausiliario, in ragione dell’importo dell’appalto posto a
base di gara; a tale previsione va aggiunto che il
concorrente, o impresa ausiliata, deve produrre tra l’altro
una dichiarazione sottoscritta da parte dell’impresa
ausiliaria attestante il possesso da parte di quest’ultima
dei requisiti generali di cui all’art. 38 codice contratti.
In altri termini, il legislatore del 2006 ha dimostrato
cautela per evitare che l’istituto diventasse strumento di
‘elusione’ delle regole di gara. Tuttavia, va ricordato che
alcune precauzioni usate dai compilatori del codice sono
state eliminate per evitare dubbi di compatibilità
comunitaria.
Il c.d. primo decreto correttivo, infatti, ha
cancellato il divieto di sub-appalto in favore dell’impresa
ausiliaria (art. 2, comma 1, lett. d), D.Lgs. 26.01.2007, n. 6) e il terzo correttivo ha soppresso il comma 7
dell’articolo 49 nella parte in cui stabiliva la possibilità
per il bando di gara di prevedere che, in relazione alla
natura o all’importo dell’appalto, le imprese partecipanti
potessero avvalersi solo dei requisiti economici o dei
requisiti tecnici, ovvero che l’avvalimento potesse
integrare un preesistente requisito tecnico o economico già
posseduto dall’impresa avvalente in misura o percentuale
indicata nel bando stesso.
Di recente la Corte di Giustizia, nel pronunciarsi sulla
compatibilità comunitaria del c.d. avvalimento plurimo ha
stabilito che “gli articoli 47, paragrafo 2, e 48, paragrafo
3, della direttiva 2004/18/CE … devono essere interpretati
nel senso che ostano ad una disposizione nazionale … la
quale vieta, in via generale, agli operatori economici che
partecipano ad una procedura di aggiudicazione di un appalto
pubblico di lavori di avvalersi, per una stessa categoria di
qualificazione, delle capacità di più imprese” (Corte di
Giustizia UE, V, 10.10.2013 C-94/12).
3.3. La cautela mostrata dal legislatore emerge anche dalla
puntuale indicazione della documentazione da produrre per
potere utilmente ricorrere all’avvalimento. Vale la pena
ricordare che la legge impone di produrre in sede di gara
tra l’altro sia una dichiarazione sottoscritta dall’impresa
ausiliaria con la quale quest’ultima si obbliga verso il
concorrente e verso la stazione appaltante a mettere a
disposizione per tutta la durata dell’appalto le risorse
necessarie di cui è carente il concorrente sia il contratto
in virtù del quale l’impresa ausiliaria si obbliga nei
confronti del concorrente a fornire i requisiti e a mettere
a disposizione le risorse necessarie per tutta la durata
dell’appalto [art. 49, lett. d) e f)].
Si tratta di
previsioni che, per parte della dottrina, sono affette da
“ridondanza” che dimostra “una certa diffidenza del
legislatore” e che sono state oggetto di non sempre univoche
interpretazioni in sede giudiziale. La più recente
giurisprudenza del Consiglio ritiene, per un verso, il
contratto non sostitutivo della dichiarazione unilaterale
(Cons. St., V, 28.07.2014 n. 3974) e richiede, per altro
verso, che la predetta dichiarazione unilaterale abbia un
oggetto determinato al pari del relativo contratto (Cons.
St., VI, 08.05.2014 n. 2365).
In questo contesto va evidenziato che la legge delega,
approvata il 14.01.2016 dal Senato della Repubblica,
all’articolo 1, comma 1, lett. zz), dispone la revisione
della disciplina in materia di avvalimento, nel rispetto dei
princìpi dell'Unione europea e di quelli desumibili dalla
giurisprudenza amministrativa in materia, imponendo che il
contratto di avvalimento indichi nel dettaglio le risorse e
i mezzi prestati, con particolare riguardo ai casi in cui
l'oggetto di avvalimento sia costituito da certificazioni di
qualità o certificati attestanti il possesso di adeguata
organizzazione imprenditoriale ai fini della partecipazione
alla gara.
È previsto altresì il rafforzamento degli
strumenti di verifica circa l'effettivo possesso dei
requisiti e delle risorse oggetto di avvalimento da parte
dell'impresa ausiliaria nonché circa l'effettivo impiego
delle risorse medesime nell'esecuzione dell'appalto, al fine
di escludere la possibilità di ricorso all'avvalimento a
cascata e prevedendo che non possa essere oggetto di
avvalimento il possesso della qualificazione e
dell'esperienza tecnica e professionale necessarie per
eseguire le prestazioni da affidare.
4. Prescindendo dalla non facile soluzione in ordine alla
tipicità o atipicità del contratto di avvalimento, è
interessante osservare che la legge, oltre a non aver
stabilito se è richiesta una certa forma, nulla prevede
circa l’ulteriore requisito della gratuità o dell’onerosità
del contratto in esame.
4.1. Per un orientamento, avallato dalla giurisprudenza di
primo grado, sarebbero corrette queste considerazioni:
a) gli obblighi interni tra avvalente e avvalso sarebbero
del tutto irrilevanti ai fini della partecipazione e
dell'aggiudicazione della gara sussistendo “l'irrilevanza
per la stazione appaltante dei rapporti sottostanti
esistenti fra il concorrente e il soggetto imprenditoriale
avvalso … omissis … nella precipua considerazione che la
finalità dell'istituto dell'avvalimento è chiaramente quella
di consentire la massima partecipazione alle gare ad
evidenza pubblica, permettendo alle imprese non in possesso
dei requisiti tecnici, di sommare, unicamente per la gara in
espletamento, le proprie capacità tecniche ed
economico-finanziarie a quelle di altre imprese” (TAR
Veneto, I, 20.10.2010 n. 5528);
b) il contratto di avvalimento sarebbe negozio atipico
assimilabile al mandato (TAR Campania, Salerno, I, 28.03.2012 n. 607) e quindi potrebbe essere concluso –non
esistendo “alcun vincolo in ordine alla causa negoziale”
(TAR Toscana, I, 21.03.2013 n. 443)– senza la pattuizione di un corrispettivo potendo al più soccorrere la
previsione di cui all’art. 1709 c.c. (ancora TAR Veneto, I,
20.10.2010 n. 5528);
c) il contratto, in mancanza di esplicita previsione di
legge, non sarebbe assoggettato ad alcun onere formale e
potrebbe “rivestire qualunque forma, anche non esattamente
documentale e la sua esistenza può essere provata in
qualunque modo idoneo” (TAR Lazio, Roma, I, 03.12.2009 n. 12455);
d) conseguentemente potrebbe essere “configurato quale
contratto unilaterale con obbligazioni assunte da una sola
delle parti e nel quale la presunzione di onerosità può
essere superata da una prova contraria, ovvero dalla prassi”
(ancora TAR Lazio, Roma, I, 03.12.2009 n. 12455).
5.1. Per questo collegio (anche aderendo all’opinione già
espressa con la già citata sentenza 21.01.2015 n. 35)
non può essere condivisa la tesi per cui gli obblighi
interni, rectius il rapporto interno tra avvalente e
avvalso, sarebbero irrilevanti per la stazione appaltante.
Le considerazioni prima esposte (§ 3.2), al contrario,
dimostrano che il legislatore, pur riconoscendo l’importanza
dell’istituto, lo ha circondato delle cautele necessarie
proprio per verificare l’effettività e la serietà del
rapporto intercorrente tra ausiliaria e ausiliata
scongiurando il rischio di “avvalifici” (attraverso mere
finzioni preordinate ad eludere le regole delle gare
pubbliche) e, in ultima analisi, tutelando l’interesse
pubblico alla corretta esecuzione del contratto da parte
dell’aggiudicatario che ha fatto ricorso all’avvalimento.
La
normativa comunitaria, dunque, nella parte in cui permette
l’avvalimento, “a prescindere dalla natura giuridica” dei
legami tra ausiliario e ausiliato, vieta discriminazioni
basate sulla differente natura giuridica dei diversi
“legami” ma non depone per l’irrilevanza dei rapporti tra
avvalente e avvalso onerando, tra l’altro, l’impresa ausiliata di “provare all'amministrazione aggiudicatrice che
per l'esecuzione dell'appalto disporrà delle risorse
necessarie ad esempio presentando l'impegno di tale soggetto
di mettere a disposizione dell'operatore economico le
risorse necessarie”.
In via ancora più generale è l’art. 44
dir. cit. a prevedere che «spetta all’amministrazione
aggiudicatrice verificare l’idoneità dei candidati o degli
offerenti conformemente ai criteri di cui agli articoli da
47 a 52 della menzionata direttiva» (Corte di Giustizia UE,
V, 10.10.2013 C-94/12).
5.2. In secondo luogo, partendo dal presupposto che si
tratta di contratto atipico, a giudizio del collegio, va
negata la piena assimilabilità al contratto di mandato
poiché “mettere a disposizione le risorse necessarie per
tutta la durata dell'appalto” è concetto non pienamente
sovrapponibile all’obbligo del mandatario, ex art. 1703
c.c., di compiere uno o più atti giuridici per conto
dell’altra parte, pur essendo consapevole il collegio che il
concetto di “atto giuridico” non è oggetto di univoca
interpretazione nel diritto civile.
Né pare pienamente accoglibile la tesi che assimila il
contratto in questione a quello di affitto d’azienda o al
contratto di sub-appalto. In relazione all’affitto di
azienda giova qui evidenziare che l’impresa ausiliata non
acquista la detenzione della azienda o di un suo ramo non
scaturendo dalla conclusione del contratto di avvalimento un
obbligo immediato del locatore (ex art. 1617 c.c.) di
consegnare la cosa affittata.
Più in generale, inoltre, non
emerge il tratto tipico dell’affitto di azienda che, come è
noto, ha per oggetto “il complesso produttivo unitariamente
considerato, secondo la definizione normativa di cui
all'art. 2555 c.c.” (Cass., III, 08.07.2010 n. 16138) e
non un singolo strumento della produzione o addirittura dei
requisiti di carattere economico-finanziario. Con
riferimento al sub-appalto, sempre a giudizio del collegio,
non ricorre tale figura sia perché si porrebbero «delicati
problemi di coordinamento con la disciplina» in generale del
sub-appalto sia perché l’istituto è lontano dallo schema
tipico del sub-contratto che essenzialmente consiste nel
reimpiego della posizione contrattuale già acquisita con il
c.d. “contratto base” (come, ad esempio, nella
sub-locazione).
Per il collegio nell’avvalimento ricorrono tratti del
mandato –nella parte in cui prevede il compimento di alcuni
atti giuridici da parte dell’ausiliaria (senza tuttavia
poterlo a questo assimilare integralmente, come già detto)–
nonché dell’appalto di servizi e interessanti aspetti di
garanzia atipica da parte dell’ausiliario in favore della
stazione appaltante per le prestazioni dovute dall’ausiliato.
Sotto tale ultimo profilo si ricordi che, accanto alle
figure tipiche dei contratti personali di garanzia, nella
pratica sono emersi schemi atipici volti a garantire, con
strumenti di carattere indennitario in senso lato, la
mancata o l’inesatta esecuzione da parte del debitore
principale di un fare (come già affermato da Cass., S.U., 18.02.2010 n. 3947).
5.3. Giova ora esaminare il profilo causale del negozio in
questione.
Una volta inquadrato il contratto di avvalimento
nel rapporto tra due operatori economici che potrebbero
anche essere concorrenti tra loro, a giudizio del collegio e
fermo restando il silenzio della legge sul punto, il
contratto de quo ha tendenzialmente natura onerosa perché,
in caso contrario, non si giustificherebbe l’operazione per
il tramite della quale l’ausiliaria, soggetto economico
potenzialmente in grado di partecipare alla gara, debba
gratuitamente mettere a disposizione dell’ausiliata i
requisiti in questione, così procurando a quest’ultima la
possibilità di partecipare alla gara e, se aggiudicataria,
di ‘rafforzarsi’ in quel mercato. Inoltre, trattandosi di
contratti stipulati da operatori economici che
tendenzialmente (e legittimamente) perseguono lo scopo di
lucro sarebbe scarsamente comprensibile la ragione di tale
‘regalo’ o, sarebbe meglio dire, di questo atto di
liberalità per definizione estraneo ai rapporti di impresa.
Accolta la nozione di causa in concreto (Cass. s.u. 06.03.2015 n. 4628; Cass., s.u., 18.02.2010 n. 3947, Cass.
08.05.2006 n. 10490) –e una volta distinta la nozione di
atto di liberalità rispetto a quella di contratto a titolo
gratuito, contratto quest’ultimo caratterizzato da un
interesse patrimoniale anche mediato o “dalla natura
economica dell’interesse” anche in assenza di una specifica
controprestazione– per il collegio va respinta la tesi
della possibile gratuità del negozio.
O il contratto di avvalimento è a titolo oneroso oppure, in mancanza di
corrispettivo in favore dell’ausiliario, deve emergere dal
testo contrattuale chiaramente l’interesse, direttamente o
indirettamente patrimoniale, che ha guidato l’ausiliario
nell’assumere senza corrispettivo gli obblighi derivanti dal
contratto di avvalimento e le relative responsabilità.
Tutto
questo per realizzare quel controllo sulla meritevolezza che
il codice espressamente prevede all’articolo 1322, comma 2,
c.c., tenendolo ben distinto dal giudizio di liceità, e allo
scopo di evitare che, come detto dalla dottrina, “gli
interessi perseguiti dalle parti contrast(i)no con gli
interessi generali della comunità e dei terzi maggiormente
meritevoli di tutela”.
Ciò peraltro si pone in continuità
con un indirizzo giurisprudenziale fatto proprio sia dal
Consiglio di Stato (Cons. St., IV, 04.12.2001 n. 6073)
sia dalla Corte di Cassazione (Cass., III, 28.01.2002
n. 982, che, per i contratti atipici, stabilisce che “non
può certamente ritenersi che sia meritevole di tutela solo
ciò che è oneroso”, purché rimanga ferma la necessità di una
verifica della meritevolezza degli interessi perseguiti
anche nell’ambito dei contratti gratuiti atipici).
5.4. Occorre ora occuparsi della questione della forma del
contratto di avvalimento. Nel caso di specie, la legge
stabilisce che il partecipante deve produrre il contratto in
originale o in copia autentica così presupponendo che il
contratto sia stato stipulato in forma scritta. Tuttavia il
codice non fornisce indicazioni chiare in ordine al
requisito formale richiesto e cioè se si tratta di forma ad substantiam o
ad probationem.
Come è noto la dottrina, da tempo, si occupa del problema.
Per un primo indirizzo, quando il legislatore non chiarisce
se si tratta di forma ad substantiam o ad probationem, il
requisito formale deve essere richiesto per la prova del
contratto e non come requisito di validità. Tale
orientamento, che ha trovato riconoscimento nella
giurisprudenza italiana (Cass., 03.10.1991 n. 10391) e
in quella francese, muove dal presupposto che la “forma è un
intoppo al traffico” e che conseguentemente nel dubbio è
meglio interpretare la legge nel senso che tale requisito
sia richiesto unicamente per la prova.
Per altro orientamento, invece, nel dubbio deve prevalere la
qualificazione come requisito di validità anche in
considerazione di quanto stabilito per le forme volontarie
dall’art. 1352 c.c..
Per un terzo orientamento, infine, il dato letterale di per
sé è neutro e spetta all’interprete stabilire di volta in
volta, e non con soluzione unica per tutte le fattispecie,
quando il requisito formale sia richiesto a pena di validità
(art. 1325 e 1418 c.c.) o solo per la prova (art. 2787
c.c.). Seguendo questa opinione se il requisito di forma è
prescritto a tutela di una «parte debole del rapporto»
sarebbe più corretto qualificarlo come forma ad substantiam
mentre se «ha di mira rapporti con terzi» potrebbe ritenersi
che serva solo per la documentazione del contratto.
Nel caso di specie, per la forma ad probationem
militerebbero sia l’argomento incentrato sull’assenza di una
parte debole da tutelare (trattandosi di rapporti che
intervengono tra operatori qualificati e pubbliche
amministrazioni) sia la collocazione sistematica della
previsione di legge che impone la produzione del contratto
unitamente agli altri documenti che l’operatore economico
deve fornire per partecipare alla gara.
Per il collegio, tuttavia, la forma (che naturalmente può
essere assolta sia con la ‘tradizionale’ scrittura privata
sia attraverso l’uso del documento informatico e, a seconda
dei casi, della relativa firma elettronica avanzata,
qualificata o digitale ex art. 21, comma 2 e 2-bis, d.lgs. 07.03.2005 n. 82) è richiesta
ad substantiam, deponendo in
tal senso diversi argomenti.
In primo luogo occorre considerare che la differenza tra
forma per la validità e forma per la prova essenzialmente
riguarda l’impossibilità, o la possibilità, di concludere
validamente il contratto senza il rispetto della forma
scritta. Nel caso di specie il legislatore non ha richiesto
genericamente la produzione di un documento dal quale
risulta l’accordo tra impresa ausiliaria e ausiliata (così
spingendo l’interprete verso la qualificazione in termini di
forma ad probationem) ma, al contrario, ha imposto la
produzione, al momento della partecipazione, del contratto
in originale o copia autentica; in tal modo, seppur
implicitamente, il codice ha dato per presupposto che
l’accordo debba avere la forma scritta.
Ragionando
diversamente, e optando per la forma ad probationem,
dovrebbe poi coerentemente concludersi che il contratto di
avvalimento possa essere dimostrato anche con documenti
scritti diversi dal contratto nel quale è stata consacrata
la volontà delle parti ma ciò è in contrasto con il dato
legislativo.
In secondo luogo, pur non rinvenendosi nei rapporti in
questione la presenza di una parte debole (trattandosi di
rapporti che intervengono tra operatori qualificati e
pubbliche amministrazioni), vi sono altre ragioni che
impongono di orientarsi per la forma quale requisito di
validità. La serietà e l’effettività dell’impegno assunto
dall’ausiliario meglio possono essere accertati se a monte
c’è un impegno sorto rispettando il requisito formale. La
funzione di responsabilizzazione del consenso e di certezza
dell’atto –che per la dottrina giustificano la prescrizione
della forma– ricorrono nel caso di specie a giustificare la
scelta prima indicata.
Con il contratto si responsabilizza
l’ausiliario imponendo l’individuazione espressa degli
obblighi che assume e contemporaneamente si dà alla stazione
appaltante certezza di quelli che sono gli impegni
effettivamente presi tra le parti proprio per evitare quelle
elusioni alle regole sulla partecipazione alle gare tanto
temute dalla dottrina.
In terzo luogo la dottrina attualmente maggioritaria ritiene
che nel dubbio la forma sia richiesta ad substantiam perché
in tal senso si è orientato il legislatore nel (diverso)
caso in cui le parti, ex art. 1352 c.c., hanno convenuto una
certa forma senza specificare se per la validità o per la
prova.
In quarto luogo, a giudizio del Collegio, solo in questo
modo possono meglio essere garantite le esigenze proprie
della c.d. forma-contenuto di cui si dirà più avanti (§
5.5.3).
5.5. Particolarmente complessa è la tematica relativa
all’oggetto del contratto di avvalimento, tematica
quest’ultima che gioca un ruolo rilevante nella decisione
della presente controversia.
5.5.1. Occorre comprendere quando è sufficientemente
determinato l’oggetto del contratto di avvalimento. In via
generale, ai sensi dell’articolo 1346 c.c., l'oggetto del
contratto deve essere possibile, lecito, determinato o
determinabile. Ai sensi dell’articolo 88 d.P.R. 207/2010 il
contratto di cui all'articolo 49, comma 2, lettera f), del
d.lgs. 163/2006 deve riportare in modo compiuto, esplicito
ed esauriente, tra l’altro, l’oggetto del contratto
indicando le risorse e i mezzi prestati in modo determinato
e specifico.
Dal confronto tra l’articolo 1346 c.c. e
l’articolo 88 d.P.R. 207/2010 emerge che il regolamento al
codice dei contratti, a differenza del codice civile, ha
richiesto che l’oggetto del contratto di avvalimento sia
determinato, e non anche solo determinabile, e individuato
potendosi al riguardo trarre convincimento dall’aggettivo
“specifico” utilizzato dall’articolo 88 d.P.R. cit. Tale
diversità di disciplina tra il codice civile e la normativa
in materia di appalti si giustifica in ragione della
necessità di evitare l’elusione dei requisiti prescritti
dalla legge di gara ricorrendo a dichiarazioni e contratti
di avvalimento generici non rispondenti a quelle esigenze di
serietà ed effettività prima indicate.
5.5.2. In dottrina è molto discusso se la disciplina dell’avvalimento
sia unica per tutte le tipologie di contratto di appalto
oppure se debba essere differenziata a seconda del tipo di
appalto. Per un verso, non v’è dubbio che l’art. 49 si
riferisca in generale –fatte salve alcune previsioni
specifiche come quella dettata al comma 6 oggetto peraltro
di intervento da parte della Corte di Giustizia UE– a tutte
le tipologie di appalto, laddove il successivo articolo 50
chiaramente è destinato esclusivamente agli appalti di
lavori.
Più complessa è invece la questione con riferimento al già
citato articolo 88 perché questo, per la sua collocazione
(parte II, titolo III), sembrerebbe esclusivamente destinato
agli appalti di lavori. Per il collegio, tuttavia, l’art.
88, comma 1, d.P.R. cit. (e non anche i commi 2 e segg. che
sono certamente riferiti agli appalti di lavori) deve essere
riferito anche agli appalti di servizi e forniture perché,
in caso contrario, verrebbe tradita l’idea ispiratrice del
codice di individuare, per quanto possibile, una disciplina
unitaria per lavori, servizi e forniture (la c.d.
“merlonizzazione” degli appalti di servizi e forniture).
Inoltre, sempre ragionando diversamente, paradossalmente si
richiederebbe maggiore specificità nell’individuazione
dell’oggetto del contratto di avvalimento relativo ai lavori
e non nel caso di servizi e forniture ove la qualificazione,
come è noto, avviene “in bando” (applicando gli artt. 41 e
42 Cod.) e deve essere dimostrata di volta in volta.
5.5.3. Tutto ciò premesso, occorre ricordare che nella
giurisprudenza, nel tempo si sono delineati diversi
orientamenti.
Per un primo orientamento, più rigoroso, è insufficiente la
sola e tautologica riproduzione, nel testo dei relativi
contratti, della formula legislativa della messa a
disposizione delle "risorse necessarie di cui è carente il
concorrente", o espressioni equivalenti, con la conseguenza
che è legittima l'esclusione dalla gara pubblica
dell'impresa che abbia fatto ricorso all'avvalimento
producendo un contratto che non contiene alcuna analitica e
specifica elencazione o indicazione delle risorse e dei
mezzi in concreto prestati, atteso che l'esigenza di una
puntuale analitica individuazione dell'oggetto del contratto
di avvalimento, oltre ad avere un sicuro ancoraggio sul
terreno civilistico nella generale previsione codicistica
che configura quale causa di nullità di ogni contratto
l'indeterminatezza (e l'indeterminabilità) del relativo
oggetto, trova la propria essenziale giustificazione
funzionale, inscindibilmente connessa alle procedure
contrattuali pubbliche, nella necessità di non consentire
facili e strumentali aggiramenti del sistema dei requisiti
di partecipazione alle gare (Cons. St., V, 30.11.2015
n. 5396; Cons. St., V, 23.09.2015 n. 4456; Cons. St., VI, 08.05.2014 n. 2365).
A fronte di questo orientamento rigoroso nell’accertamento
dell’oggetto del contratto, si è delineato un secondo
indirizzo interpretativo per cui sarebbe possibile
distinguere il c.d. avvalimento di garanzia da quello
tecnico-operativo.
Il primo, ossia l’avvalimento di
garanzia, sarebbe “figura nella quale l'ausiliaria mette in
campo la propria solidità economica e finanziaria a servizio
dell'aggiudicataria ausiliata, ampliando così lo spettro
della responsabilità per la corretta esecuzione
dell'appalto” (Cons. St., III, 22.01.2014 n. 594) e,
per tale ragione, il relativo contratto non richiederebbe la
specificazione delle risorse materiali, immateriali e
gestionali concretamente messe a disposizione. Non
occorrerebbe dunque che la dichiarazione negoziale
costitutiva dell'impegno contrattuale si riferisca a
specifici beni patrimoniali o ad indici materiali atti ad
esprimere una determinata consistenza patrimoniale e,
perciò, alla messa a disposizione di beni da descrivere ed
individuare con precisione, essendo sufficiente che da essa
dichiarazione emerga l'impegno contrattuale della società
ausiliaria a prestare ed a mettere a disposizione della c.d.
società ausiliata la sua complessiva solidità finanziaria ed
il suo patrimonio esperienziale, garantendo con essi una
determinata affidabilità ed un concreto supplemento di
responsabilità (Cons. St., III, 04.11.2015 n. 5038).
Nell’avvalimento operativo, invece, il contratto dovrebbe
indicare specificamente tutte le risorse, ex art. 42 Codice
Contratti, dell’impresa ausiliaria che vengono messe a
disposizione dell’ausiliata.
Per altro orientamento (C.G.A. 21.01.2015 n. 35; poi
seguito da Cons. St., III, 07.07.2015 n. 3390 e Cons.
St., VI, 30.09.2015 n. 4544) sia nel c.d. avvalimento
di garanzia sia in quello operativo va richiesta la
specificità dell’oggetto del contratto.
La distinzione tra avvalimento di garanzia e avvalimento operativo potrebbe
utilmente descrivere delle circostanze in fatto ma non
avrebbe appiglio giuridico. Se sotto un profilo
squisitamente descrittivo è possibile rintracciare una
diversità tra l’avvalersi dei requisiti di cui all’art. 41
codice e l’avvalersi dei requisiti tecnico-professionali di
cui all’art. 42 codice contratti, almeno allo stato, tutto
ciò non dovrebbe tradursi in un differente regime giuridico
mancando disposizioni che differenziano il grado di
specificità dell’oggetto a seconda dell’una o dell’altra
categoria.
In secondo luogo, ‘allentando’ il requisito della
specificità e determinatezza dell’oggetto nel caso di avvalimento dei requisiti economico-finanziari, oltre che
compiere un’interpretazione non prevista dalla legge, si
rischierebbe di compromettere quei requisiti di serietà ed
effettività che sono stati certamente considerati dal
legislatore nel momento in cui ha recepito le direttive
comunitarie.
In definitiva, come di recente già affermato,
il c.d. avvalimento di garanzia “non deve rimanere astratto,
cioè svincolato da qualsivoglia collegamento con risorse
materiali o immateriali, che snaturerebbe l'istituto, in
elusione dei requisiti stabiliti nel bando di gara, esibiti
solo in modo formale, finendo col frustare anche la funzione
di garanzia” (Cons. St., III, 22.01.2014 n. 294; in
termini analoghi Cons. St., III, 17.06.2014 n. 3057).
Ciò si traduce nella necessità che nel contratto siano
adeguatamente indicati, a seconda dei casi, il fatturato
globale e l'importo relativo ai servizi o forniture nel
settore oggetto della gara nonché, come specificato dalla
dottrina (che non può essere citata ex art. 118, comma 3, disp. att. c.p.c.), gli specifici “fattori della produzione e
tutte le risorse che hanno permesso all’ausiliaria di
eseguire le prestazioni analoghe nel periodo richiesto dal
bando”.
A giudizio del collegio, tale ultima conclusione risulta
coerente con la funzione che assolve la forma del contratto
di avvalimento richiesta dall’articolo 49 Codice dei
Contratti. Come è noto di recente nella dottrina civilistica
è stata elaborata la nozione di forma-contenuto. Accedendo
ad una nozione lata di forma del contratto, ed una volta
richiamata la distinzione tra contenuto formale e contenuto
sostanziale, per la dottrina esistono casi di nuovo
formalismo che impongono nel documento contrattuale,
“richiesto per lo più a fini di validità”, “una serie di
elementi predeterminati dal legislatore”.
In altri termini
la forma non è solo il mezzo di manifestazione della volontà
contrattuale ma anche “l’incorporazione di un contenuto
minimo …. di informazioni che attraverso il contratto devono
essere fornite”, evitando sovrapposizioni con la tematica
della determinatezza o della determinabilità dell’oggetto.
Venendo al caso oggetto della presente decisione, la mancata
indicazione nel contratto di avvalimento dello stabilimento
ove effettuare la produzione comporta l’indeterminatezza
dell’oggetto del contratto –per violazione dell’obbligo di
indicare in modo compiuto, esplicito ed esauriente le
risorse e i mezzi prestati in modo determinato e specifico
(art. 88 d.P.R. 207/2010)– , nonché la violazione del
requisito di forma-contenuto. Mancando tale indicazione
compiuta, esplicita ed esauriente il contratto è nullo con
conseguente assenza del requisito di partecipazione in capo
all’operatore economico che ha presentato la domanda.
6. Indicate le questioni in tema di avvalimento, va
affrontata la complessa problematica relativa
all’utilizzabilità del potere/dovere di soccorso istruttorio
nel caso di contratto di avvalimento incompleto o,
addirittura, nullo per indeterminatezza dell’oggetto.
Come è noto, il d.l. 90/2014 all’articolo 38 codice
contratti ha aggiunto il comma 2-bis, stabilendo, nel caso
di mancanza, incompletezza e ogni altra irregolarità
essenziale degli elementi e delle dichiarazioni sostitutive,
la possibilità di integrare o regolarizzare le dichiarazioni
necessarie, previo invito della stazione appaltante e dietro
pagamento di una sanzione pecuniaria stabilita nel bando di
gara.
Sotto altro aspetto, sempre il d.l. 90/2014, ha
aggiunto il comma 1-ter all’articolo 46 codice contratti
estendendo l’applicazione delle disposizioni di cui
all'articolo 38, comma 2-bis, a ogni ipotesi di mancanza,
incompletezza o irregolarità degli elementi e delle
dichiarazioni, anche di soggetti terzi, che devono essere
prodotte dai concorrenti in base alla legge, al bando o al
disciplinare di gara.
Con specifico riferimento al contratto di avvalimento,
soprattutto nella giurisprudenza di primo grado, si sono
delineati diversi orientamenti.
Per il primo di questi, l’articolo 46, comma 1-ter, codice
contratti imporrebbe di utilizzare il soccorso istruttorio
anche nei casi in cui la mancanza è relativa al contratto di
avvalimento, essendo quest’ultimo destinato a fornire i c.d.
requisiti speciali cui fa riferimento implicito il comma 1-ter più volte richiamato (TAR Campania, Napoli, I, 10.07.2015 n. 3670).
Per altro orientamento, invece, il soccorso istruttorio,
anche dopo l’ampliamento operato dal d.l. 90/2014, non
potrebbe essere utilizzato con riferimento al contratto di
avvalimento perché quest’ultimo, lungi dall’essere un
documento da allegare alla domanda per dimostrare il
possesso di un requisito, è il presupposto per la
partecipazione alla gara fornendo all’avvalente il requisito
mancante (in questi termini proprio la sentenza appellata).
Sotto tale aspetto va, in ultimo, ricordato che anche l’ANAC,
con la determinazione 08.01.2015 n. 1, nell’interpretare
le novità introdotte ha affermato che il soccorso
istruttorio ex d.l. 90/2014 “non può, in ogni caso, essere
strumentalmente utilizzato per l’acquisizione, in gara, di
un requisito o di una condizione di partecipazione, mancante
alla scadenza del termine di presentazione dell’offerta”.
Per l’ANAC, la dichiarazione di avvalimento è “elemento
costitutivo dei requisiti da possedersi, inderogabilmente,
alla scadenza del termine perentorio di presentazione
dell’offerta” e per tale ragione anche il contratto di avvalimento è “funzionale al possesso dei requisiti
prescritti dal bando”. Il nuovo soccorso istruttorio,
invece, potrebbe operare limitatamente all’ipotesi di
mancata allegazione, per mera dimenticanza, del contratto
che, in ogni caso, sia stato già siglato alla data di
presentazione dell’offerta nonché nel caso di assenza degli
altri adempimenti prescritti in ordine all’avvalimento.
Venendo al caso di specie, interpretate le norme e
considerata necessaria l’indicazione espressa dello
stabilimento nell’oggetto del contratto, il contratto
sarebbe indeterminato nel suo oggetto e, come già detto,
nullo sotto il profilo civilistico per le ragioni prima
indicate. Risulta chiaro dunque che l’impresa dovrebbe
essere considerata priva del requisito, ossia la
qualificazione nella categoria OS18A, e conseguentemente si
pone il problema se la mancanza del predetto requisito sia
“soccorribile” o meno.
7. In sintesi le diverse questioni che, sotto il profilo
teorico, si agitano in dottrina e giurisprudenza, nonché
l’importanza che l’istituto dell’avvalimento ha assunto
nelle procedure di evidenza pubblica, a giudizio del
collegio, impongono la rimessione all’adunanza plenaria
trattandosi di questioni di diritto che hanno dato luogo e
possono dar luogo a contrasti giurisprudenziali. Accanto
alle tematiche sopra delineate, risulta tra l’altro
importante stabilire:
1) se l’articolo 88 d.P.R. 207/2010 –nel richiedere che il
contratto deve riportare in modo compiuto, esplicito ed
esauriente, l’oggetto indicando le risorse e i mezzi
prestati in modo determinato e specifico– riguarda
unicamente la determinazione dell’oggetto del contratto
(così legittimando anche interpretazioni di tipo estensivo)
oppure, oltre all’oggetto, anche il c.d. requisito della
forma-contenuto;
2) se nell’ipotesi di categorie che richiedono particolari
requisiti –come nel caso di specie risulta per la categoria
OS18A– tali particolari requisiti debbano essere indicati in
modo esplicito nel contratto di avvalimento oppure possano
essere desunti dall’interpretazione complessiva del
contratto;
3) se l’istituto del soccorso istruttorio, come disciplinato
dopo le novità introdotte dal d.l. 90/2014, possa essere
utilizzato anche con riferimento ad incompletezze del
contratto di avvalimento che, sotto un profilo civilistico,
portano ad affermare la nullità del negozio per mancanza di
determinatezza del suo oggetto.
P.Q.M.
Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione
Siciliana, in sede giurisdizionale, rimette il ricorso
all’esame dell’Adunanza Plenaria
(C.G.A.R.S.,
ordinanza 19.02.2016 n. 52 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Il
Collegio formula il seguente quesito interpretativo alla
Corte di Giustizia U.E.:
“Se i principi comunitari di tutela del legittimo
affidamento e di certezza del diritto, unitamente ai
principi di libera circolazione delle merci, di libertà di
stabilimento e di libera prestazione di servizi, di cui al
Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE),
nonché i principi che ne derivano, come la parità di
trattamento, la non discriminazione, il mutuo
riconoscimento, la proporzionalità e la trasparenza, di cui
(da ultimo) alla direttiva n. 2014/24/UE, ostino ad una
normativa nazionale, quale quella italiana derivante dal
combinato disposto degli artt. 87, comma 4, e 86, comma
3-bis, del d.lgs. n. 163 del 2006, e dall’art. 26, comma 6,
del d.lgs. n. 81 del 2008, così come interpretato, in
funzione nomofilattica, ai sensi dell’art. 99 cod. proc. amm.,
dalle sentenze dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato
nn. 3 e 9 del 2015, secondo la quale la mancata separata
indicazione dei costi di sicurezza aziendale, nelle offerte
economiche di una procedura di affidamento di lavori
pubblici, determina in ogni caso l’esclusione della ditta
offerente, anche nell’ipotesi in cui l’obbligo di
indicazione separata non sia stato specificato né nella
legge di gara né nell’allegato modello di compilazione per
la presentazione delle offerte, ed anche a prescindere dalla
circostanza che, dal punto di vista sostanziale, l’offerta
rispetti i costi minimi di sicurezza aziendale”.
---------------
VI – Contrariamente a quanto dedotto dalla ricorrente
Spinosa Costruzioni, il progetto esecutivo dell’A.t.i.
costituenda tra le società I.c.i. e Alba Costruzioni, prima
classificata nella gara, risulta munito delle allegazioni
indispensabili, anche se non proprio di tutta la
documentazione prevista dalla normativa di cui all’art. 93
del d.lgs. n. 163/2006 e all’art. 33 del D.P.R. n. 207/2010.
Sennonché, l’adeguatezza e la completezza del detto progetto
esecutivo sono state accertate dalla commissione di gara,
nel verbale n. 3 del 07.10.2015, nonché dal responsabile
unico del procedimento (r.u.p.) nella validazione del
progetto eseguita il 10.08.2015 (prot. n. 3989).
La normativa
di riferimento, presa a parametro della valutazione del
progetto esecutivo è, senz’altro, il d.lgs. 12.04.2006
n. 163 (recante il Codice dei contratti pubblici), il quale
all’art. 93, quinto comma, prevede che <<il progetto
esecutivo, redatto in conformità al progetto definitivo,
determina in ogni dettaglio i lavori da realizzare e il
relativo costo previsto e deve essere sviluppato ad un
livello di definizione tale da consentire che ogni elemento
sia identificabile in forma, tipologia, qualità, dimensione
e prezzo. In particolare, il progetto è costituito
dall'insieme delle relazioni, dei calcoli esecutivi delle
strutture e degli impianti e degli elaborati grafici nelle
scale adeguate, compresi gli eventuali particolari
costruttivi, dal capitolato speciale di appalto,
prestazionale o descrittivo, dal computo metrico estimativo
e dall'elenco dei prezzi unitari. Esso è redatto sulla base
degli studi e delle indagini compiuti nelle fasi precedenti
e degli eventuali ulteriori studi e indagini, di dettaglio o
di verifica delle ipotesi progettuali, che risultino
necessari e sulla base di rilievi plano-altimetrici, di
misurazioni e picchettazioni, di rilievi della rete dei
servizi del sottosuolo. Il progetto esecutivo deve essere
altresì corredato da apposito piano di manutenzione
dell'opera e delle sue parti da redigersi nei termini, con
le modalità, i contenuti, i tempi e la gradualità stabiliti
dal regolamento di cui all'articolo 5>>.
Tale normativa è
poi integrata dalla disciplina prevista nell’art. 37 del
D.P.R. 05.10.2010 n. 207 (recante il Regolamento di
esecuzione e attuazione del Codice dei contratti pubblici).
L’art. 37 citato, più dettagliatamente, stabilisce quanto
segue, ai commi quinto e seguenti. <<…5. I calcoli delle
strutture e degli impianti, comunque eseguiti, sono
accompagnati da una relazione illustrativa dei criteri e
delle modalità di calcolo che ne consentano una agevole
lettura e verificabilità.
6. Il progetto esecutivo delle
strutture comprende:
a) gli elaborati grafici di insieme
(carpenterie, profili e sezioni) in scala non inferiore ad
1:50, e gli elaborati grafici di dettaglio in scala non
inferiore ad 1:10, contenenti fra l'altro: 1) per le
strutture in cemento armato o in cemento armato
precompresso: i tracciati dei ferri di armatura con
l'indicazione delle sezioni e delle misure parziali e
complessive, nonché i tracciati delle armature per la
precompressione; resta esclusa soltanto la compilazione
delle distinte di ordinazione a carattere organizzativo di
cantiere; 2) per le strutture metalliche o lignee: tutti i
profili e i particolari relativi ai collegamenti, completi
nella forma e spessore delle piastre, del numero e posizione
di chiodi e bulloni, dello spessore, tipo, posizione e
lunghezza delle saldature; resta esclusa soltanto la
compilazione dei disegni di officina e delle relative
distinte pezzi; 3) per le strutture murarie: tutti gli
elementi tipologici e dimensionali atti a consentirne
l'esecuzione;
b) la relazione di calcolo contenente: 1)
l'indicazione delle norme di riferimento; 2) la specifica
della qualità e delle caratteristiche meccaniche dei
materiali e delle modalità di esecuzione qualora necessarie;
3) l'analisi dei carichi per i quali le strutture sono state
dimensionate; 4) le verifiche statiche.
7. Nelle strutture
che si identificano con l'intero intervento, quali ponti,
viadotti, pontili di attracco, opere di sostegno delle terre
e simili, il progetto esecutivo deve essere completo dei
particolari esecutivi di tutte le opere integrative.
8. Il
progetto esecutivo degli impianti comprende:
a) gli
elaborati grafici di insieme, in scala ammessa o prescritta
e comunque non inferiore ad 1:50, e gli elaborati grafici di
dettaglio, in scala non inferiore ad 1:10, con le notazioni
metriche necessarie;
b) l'elencazione descrittiva
particolareggiata delle parti di ogni impianto con le
relative relazioni di calcolo;
c) la specificazione delle
caratteristiche funzionali e qualitative dei materiali,
macchinari ed apparecchiature.
9. I valori minimi delle
scale contenuti nel presente articolo possono essere variati
su motivata indicazione del responsabile del procedimento>>.
Da una semplice lettura della citata normativa -legislativa
e regolamentare- emerge con sufficiente chiarezza che essa
non contiene, né invero potrebbe contenere, un elenco
compiuto ed esauriente degli atti o degli elaborati
destinati a comporre e integrare il progetto esecutivo di
un’opera pubblica, bensì reca in sé molteplici prescrizioni
e indicazioni, sia generali che specifiche, su come il
progetto esecutivo debba essere redatto, con un’ampia gamma
di variazioni prescrittive flessibili, in relazione alla
specificità dell’opera da progettare.
Tali parametri
normativi e regolamentari lasciano alla stazione appaltante,
in particolare al seggio tecnico di gara, un discreto
margine di apprezzamento e di valutazione sull’adeguatezza e
sulla completezza del progetto. Invero, l’art. 36 del citato
D.P.R. n. 207/2010 stabilisce che il progetto esecutivo sia
esplicazione del progetto definitivo -il quale peraltro, di
per sé, già reca un sufficiente livello di dettaglio- e
debba essere costituito <<dagli elaborati che risultino
necessari all’esecuzione dell’opera>>.
Il successivo art. 37
del medesimo Regolamento aggiunge che i progetti debbano
essere <<redatti in modo tale da consentire all’esecutore
una sicura interpretazione ed esecuzione dei lavori in ogni
loro elemento>>. E’ facile comprendere come la valutazione,
svolta dalla competente commissione di gara, circa
l’adeguatezza e la completezza degli elaborati progettuali,
costituisca esercizio di discrezionalità tecnica, come tale
insindacabile in sede giurisdizionale, se non per
macroscopici vizi di illogicità e incongruità (cfr.: Cons.
Stato, IV 16.02.2012 n. 820; idem IV, 14.10.2011 n. 5540;
idem VI, 12.10.2011 n. 5519).
Per meglio approfondire, il Collegio osserva, nel dettaglio,
che gli elaborati ritenuti dalla ricorrente Spinosa
Costruzioni come mancanti nel progetto esecutivo
dell’aggiudicataria sarebbero i seguenti: i profili
longitudinali della rete idrica e delle reti fognanti bianca
e nera, i calcoli illuminotecnici, il piano di manutenzione
dell’opera e delle sue parti, il quadro di incidenza della
manodopera, i calcoli esecutivi delle reti, le planimetrie e
cartografie delle aree Sic-Zps-Iba e delle aree a rischio
idrogeologico, la relazione archeologica, i calcoli
dell’impianto di trattamento acque piovane, le indagini
geotecniche per la stabilizzazione dei terreni, il progetto
delle opere di mitigazione ambientale, il piano di gestione
di materie e rocce di scavo.
L’offerta tecnica prodotta in gara dall’A.t.i.
aggiudicataria non presenta macroscopiche carenze, come
puntualmente asseverato nella perizia di parte, a firma
dell’arch. Ca., dalla stessa A.t.i. controinteressata
versata in atti.
La medesima offerta tecnica contiene,
viceversa, la seguente documentazione: la relazione sugli
impianti idraulici (doc. 03); la planimetria generale di
progetto della rete idrica (Tec. 24.27); i particolari
costruttivi delle reti idriche e fognanti (Tec. 25.28); gli
elaborati delle sezioni trasversali delle reti (Tec. 15.18,
16.19, 17.20, 18.21, 19.22, 14.17, 13.16, 12.15, 11.14); la
relazione sull’impianto di pubblica illuminazione,
comprensiva dei calcoli di illuminotecnica (doc. 04); la
relazione generale e gli elaborati grafici, recanti
indicazioni atte alla manutenzione dell’opera, in
sostituzione del piano di manutenzione generale; il calcolo
esecutivo dell’impianto di pubblica illuminazione e i
dimensionamenti tecnici di tutti gli altri impianti, in
sostituzione del documento recante i calcoli esecutivi delle
reti; il progetto esecutivo dell’impianto di trattamento
acque di prima pioggia (Tec. 30.33); le planimetrie e
cartografie individuanti le aree protette e le aree a
rischio idrogeologico (anche se sono le medesime già
presenti nel progetto definitivo); la carta geomorfologica e
le relazioni geologiche, geotecniche e sismiche (che
tuttavia sono le medesime già presenti nel progetto
definitivo); lo studio di inserimento urbanistico (Tec.
05.08) e il foto-inserimento delle principali soluzioni
ambientali (Amb. 01.36), sostitutivi del progetto delle
opere di mitigazione ambientale; la relazione generale (doc.
02) e una planimetria sui siti di cava e deposito (Mat.
91.40), sostitutivi del piano di gestione del materiale da
scavo.
Se la commissione di gara ha ritenuto adeguato e sufficiente
il corredo documentativo del progetto esecutivo dell’A.t.i.
ricorrente, tale giudizio, ancorché discutibile sul piano
della valutazione tecnica, appare immune da vizi di
illogicità o manifesta contraddittorietà. Pertanto, il
secondo motivo del ricorso n.r.g. 334/2015 dev’essere
disatteso.
VII – Anche la terza censura del ricorso n.r.g. 334/2015 è
da ritenersi infondata.
La ricorrente società Spinosa Costruzioni si duole della
mancata esclusione dalla gara dell’offerta dell’A.t.i.
aggiudicataria, nonostante l’asserita mancanza di una
relazione geologica a corredo del progetto esecutivo (quale
prescritta dall’art. 93 del Codice dei contratti pubblici).
L’asserzione è smentita dal fatto che il progetto
dell’aggiudicataria sia, in effetti, corredato da una
relazione geologica, benché si tratti del medesimo documento
già presente nel progetto definitivo.
Si consideri che il
progetto esecutivo dell’aggiudicataria –nella sua versione
standard, al netto delle proposte migliorative- non apporta
modifiche geometriche, funzionali, dimensionali o
plano-altimetriche al progetto definitivo posto a base di
gara, sicché non si è resa necessaria una nuova perizia
geologica, a corredo dell’esecutivo. Peraltro, il bando e il
disciplinare di gara nulla dicono, a tal proposito, non
prescrivendo la redazione di una perizia geologica più
dettagliata e specifica di quella già allegata al progetto
definitivo. Pertanto, non si può ravvisare alcuna
particolare irregolarità viziante, rilevabile come tale,
nella trasposizione in sede esecutiva del documento
geologico già presente nel progetto definitivo.
Il fatto che
altri concorrenti alla gara si siano peritati di produrre
una nuova e più dettagliata relazione geologica non si
traduce, di per sé, in una violazione della “par condicio”.
Né vi è violazione dell’art. 35 del Regolamento (D.P.R. n.
207/2010), nella parte in cui tale disposizione prevede che
il progetto esecutivo contenga <<almeno le medesime
relazione specialistiche contenute nel progetto
definitivo>>. Paradossalmente, ciò che ha fatto l’A.t.i.
aggiudicataria, riproponendo nella redazione di esecutivo
una perizia già allegata al progetto definitivo, appare
pedissequa attuazione della disposizione regolamentare da
ultimo citata.
Se è vero che l’A.t.i. aggiudicataria ha utilizzato, per la
redazione del progetto esecutivo, elaborati progettuali e
relazioni specialistiche resi disponibili dalla stazione
appaltante con il progetto definitivo, è altresì vero che
tale prassi –quand’anche in ipotesi discutibile sul piano
della deontologia professionale del tecnico redattore- non
è vietata dalla vigente normativa di settore, anzi, stando
alla lettera del citato art. 35 del D.P.R. n. 207/2010,
sembrerebbe esplicitamente consentita.
E’ appena il caso di aggiungere che la prassi di trasporre
nel progetto esecutivo relazione ed elaborati specialistici
del progetto definitivo non potrebbe non incidere in senso
negativo sulla valutazione di qualità della progettazione
esecutiva, sicché –nel caso di specie– sembrerebbe
scarsamente giustificata la scelta caduta su un progetto
esecutivo di qualità tecnica inferiore, proprio in ragione
del suo carattere compilativo e assemblatore di componenti
della progettualità presupposta.
Tale considerazione,
tuttavia, esula dall’oggetto del giudizio, poiché non vi è
nel ricorso n.r.g. 334/2015 un’esplicita censura
sull’incongruità o sulla manifesta irragionevolezza del
giudizio tecnico della commissione di gara.
VIII – In conseguenza di quanto sopra osservato, non solo
appare infondato il terzo motivo del ricorso n.r.g.
334/2015, ma anche la quarta censura del medesimo ricorso
deve essere disattesa. Se, infatti, è ammissibile il riuso,
in sede di progetto esecutivo, di una relazione geologica
già presente nel progetto definitivo, ne discende che sia
del tutto irrilevante l’assenza della figura del geologo
nella compagine dei professionisti incaricati della
progettazione esecutiva dell’A.t.i. prima classificata, in
specie se si considera che la presenza di tale figura
professionale non sia esplicitamente, né direttamente
prevista o prescritta dalla “lex specialis” di gara.
IX – Infine, deve ritenersi generico e inammissibile il
quinto motivo di censura della ricorrente Spinosa
Costruzioni, nella parte in cui si duole dell’asserita
mancanza, nell’offerta tecnica dell’A.t.i. prima
classificata, della documentazione comprovante i requisiti
tecnici del progettista incaricato della redazione del
progetto esecutivo. Invero, detta doglianza non precisa,
neppure in sede di ulteriori memorie, quali siano i punti di
debolezza della valutazione di conformità dei requisiti del
progettista incaricato dall’A.t.i. aggiudicataria, la cui
competenza e idoneità professionale risulta asseverata
proprio dalla valutazione del seggio di gara.
X – Passando all’esame del riunito ricorso principale n.r.g.
342/2015, proposto dalla terza classificata nella gara,
impresa Melfi s.r.l., con l’intento di scalzare dalla
graduatoria le prime due (cioè l’A.t.i. aggiudicataria e la
stessa impresa Spinosa Costruzioni, ricorrente principale
nel connesso ricorso n.r.g. 334/2015), il Collegio ritiene
infondate le due censure in esso proposte, relative ai
seguenti profili: 1) l’incompletezza del progetto esecutivo
dell’A.t.i. aggiudicataria e la non valutabilità geologica e
geognostica del progetto della stessa A.t.i.;
2) l’incompletezza del progetto esecutivo dell’impresa
Spinosa Costruzioni Generali, seconda classificata e la
mancanza delle relazioni specialistiche nell’offerta tecnica
della medesima impresa Spinosa.
XI – La ricorrente Melfi S.r.l., invero, denuncia -alla
stregua di quanto dedotto nel parallelo, riunito ricorso n.r.g. 334/2015, dalla concorrente seconda classificata,
Spinosa Costruzioni- l’inidoneità e l’incompletezza del
progetto esecutivo presentato dall’A.t.i. aggiudicataria,
poiché ritenuto privo dei seguenti allegati: 1) le relazioni
specialistiche per le opere stradali, per le strutture
prefabbricate e per le opere di sostegno; 2) i calcoli
esecutivi delle strutture in cemento armato per pozzetti,
rete idrica e fognaria e strutture in terra armata a
sostegno della rotatoria; 3) il piano di manutenzione
dell’opera; 4) il quadro di incidenza della manodopera; 5) lo
schema di contratto e la parte amministrativa del capitolato
speciale; 6) la relazione geologica, la carta geomorfologica
e la relazione geotecnica.
Con riferimento al progetto presentato dalla seconda
classificata, impresa Spinosa Costruzioni Generali, la
ricorrente Melfi S.r.l., nel secondo motivo di ricorso,
segnala la mancanza della seguente documentazione: 1) la
relazione per le opere stradali; 2) la relazione geologica di
sintesi (stante, peraltro, la mancata sottoscrizione di
sette elaborati della relazione geologica); 3) le relazioni
di calcolo delle strutture in cemento armato; 4) il calcolo
delle strutture di sottofondazione stradale.
XII - Il Collegio ritiene che tali censure trovino adeguata
risposta nelle considerazioni già svolte al capo sub V della
presente sentenza. E’ appena il caso di ribadire che i
vigenti parametri normativi e regolamentari lasciano alla
stazione appaltante un certo margine di apprezzamento e di
valutazione sull’adeguatezza e sulla completezza del
progetto. Invero, l’art. 36 del citato D.P.R. n. 207/2010
stabilisce che il progetto esecutivo sia esplicazione del
progetto definitivo e debba essere costituito <<dagli
elaborati che risultino necessari all’esecuzione
dell’opera>>.
Il successivo art. 37 del medesimo Regolamento
aggiunge che i progetti debbano essere <<redatti in modo
tale da consentire all’esecutore una sicura interpretazione
ed esecuzione dei lavori in ogni loro elemento>>. E’ facile
comprendere come la valutazione, svolta dalla competente
commissione di gara, circa l’adeguatezza e la completezza
degli elaborati dell’offerta tecnica, costituisca esercizio
di discrezionalità tecnica, come tale insindacabile in sede
giurisdizionale, se non per macroscopici vizi di illogicità
e incongruità (cfr.: Cons. Stato, IV 16.02.2012 n. 820; idem IV, 14.10.2011 n. 5540; idem VI, 12.10.2011 n. 5519).
Nella
specie, tali vizi non sono ravvisabili, atteso che entrambi
i progetti esecutivi delle imprese prima e seconda
classificata, presentano un sufficiente grado di
completezza.
Più precisamente, per il progetto dell’A.t.i.
aggiudicataria, va rilevato quanto segue: 1) negli elaborati
Tec. 20.23, Tec. 21.24 e Tec. 22.25, sono indicate le
caratteristiche dimensionali, qualitative e materiche delle
opere stradali, delle strutture prefabbricate e delle opere
di sostegno, le quali tengono luogo delle relazioni
specialistiche mancanti; 2) definizione e dimensionamento
delle strutture ed opere sono riportati all’interno degli
elaborati grafici, mentre l’utilizzo di elementi in cls
prefabbricati, prodotti in stabilimento e forniti in
cantiere, esime dalla specificazione dei calcoli esecutivi
delle strutture in cemento armato; 3) le indicazioni sulla
manutenzione delle opere e sull’incidenza della manodopera
sono contenute negli elaborati grafici e nella relazione
generale (doc. 02); 4) lo schema di contratto e la parte
amministrativa del capitolato speciale sono i medesimi
proposti dalla stazione appaltante; 6)la relazione geologica
è la medesima contenuta nel progetto definitivo.
Invece, per il progetto della seconda classificata, impresa
Spinosa Costruzioni Generali, va rilevato quanto segue:
1) sono presenti nel progetto tutte le relazioni
specialistiche già contenute nel progetto definitivo,
integrate dalle ulteriori relazioni sismica, geotecnica,
archeologica, piano di gestione delle materie, relazione di
interferenze, relazione idrogeologica e idraulica, relazione
tecnica e tabulato dei libretti di campagna; la relazione
per le opere stradali è la medesima del progetto definitivo;
2) la relazione geologica di sintesi è compresa negli
elaborati 2.18b e 2.18c, gli elaborati geotecnici sono stati
sottoscritti dal geologo, mentre la relazione geotecnica è
stata sottoscritta dall’ingegnere progettista, in possesso
delle necessarie competenze geotecniche; 3) l’utilizzo di
strutture prefabbricate esime la concorrente dalla
produzione delle relazioni di calcolo delle strutture in
cemento armato; 4) il calcolo delle strutture di
sottofondazione stradale è contenuto nella relazione sulla
gestione delle materie.
Alla luce di tale analisi, si potrebbe, dunque, concludere
per l’infondatezza del primo motivo del ricorso n.r.g.
342/2015.
XIII – Nondimeno, un certo pregio va riconosciuto alla
censura di cui al punto A.3 del primo motivo del ricorso
n.r.g. 342/2015, nella parte in cui esso evidenzia l’assenza
di calcoli ed elaborati specifici per le varianti
migliorative proposte dall’A.t.i. aggiudicataria (per la
rotatoria stradale e per l’impianto di trattamento di
acque), che, a dire della ricorrente impresa Melfi,
renderebbero le due proposte progettuali non valutabili.
Invero, le proposte migliorative formulate dall’A.t.i.
aggiudicataria non hanno, evidentemente, la consistenza e la
complessità di un progetto esecutivo, forse anche per
comprensibili ragioni di economia progettuale, in quanto la
stazione appaltante avrebbe potuto ipoteticamente non
esprimere gradimento per esse.
Le migliorie, a quanto
consta, sono state liberamente valutate dal seggio tecnico
di gara e per le stesse è stato attribuito un punteggio
specifico, fermo restando che la loro realizzazione dovrebbe
essere subordinata a un’ulteriore fase di completamento o,
per meglio dire, di variante del progetto esecutivo nel
senso indicato dalle stesse proposte migliorative.
La
censura appare peraltro inammissibile, per difetto di
interesse, atteso che la rilevata infondatezza della censura
relativa al secondo motivo di ricorso (riguardante la
presunta incompletezza o inadeguatezza del progetto
presentato dalla seconda classificata, impresa Spinosa
Costruzioni Generali) priva la ricorrente impresa Melfi,
terza classificata, dell’interesse a ottenere l’esclusione
della prima classificata dalla gara d’appalto.
XIV – In conseguenza della rilevata infondatezza del ricorso
principale n.r.g. 342/2015, deve dichiararsi improcedibile
il ricorso incidentale dell’impresa Spinosa Costruzioni
Generali, stante il sopravvenuto difetto di interesse alla
decisione di esso.
XV – Resta irrisolto e, a giudizio del Collegio, di
difficile soluzione il punto relativo alla censura di cui al
primo motivo del ricorso n.r.g. 334/2015, circa la mancata
indicazione nell’offerta tecnica dei costi interni della
sicurezza aziendale, che -a dire della ricorrente impresa
Spinosa Costruzioni- renderebbe inammissibile l’offerta
dell’A.t.i. aggiudicataria.
XVI - La decisione della questione, invero, non può non
risentire delle oscillazioni giurisprudenziali più recenti.
L’ordinanza cautelare collegiale di questo Tar n.
149/2015 (poi riformata dal Consiglio di Stato, in sede di
appello cautelare), aveva invero disposto la sospensione
degli effetti dei provvedimenti impugnati con il ricorso
n.r.g. 334/2015, alla luce della presupposta ordinanza di
rimessione all’A.P. del Consiglio di Stato (cfr.: IV
sezione, n. 2707 del 03.06.2015), nonché di altra autorevole
giurisprudenza (cfr.: C.G.A. Sicilia 24.3.2015 n. 305), a
tenore della quale la mancata indicazione, in sede di
offerta, dei costi della sicurezza non dovrebbe essere
considerata come causa di esclusione dalla gara di appalto,
se non prevista espressamente come tale dalla lex specialis
della gara (cfr., anche Cons. Stato, Ad. Plen., 27.06.2013 n.
16, idem 07.06.2012 n. 21), stante peraltro la necessità di
tutela dell’affidamento, che indurrebbe a consentire la
regolarizzazione documentale, in sede di soccorso
istruttorio ex art. 39, comma 2, del D.L. n. 90/2014.
Sennonché, in una data più recente, l’Adunanza Plenaria si è
nuovamente espressa sul punto ribadendo il principio che
<<non sono legittimamente esercitabili i poteri attinenti al
soccorso istruttorio, nel caso di omessa indicazione degli
oneri della sicurezza aziendale>>, con la conseguenza che
l’offerta tecnica priva di tale indicazione dovrebbe essere
esclusa dalla gara, anche se non vi sia un’espressa
comminatoria di esclusione nella lex specialis della
procedura di appalto (cfr.: Cons. Stato, Ad. Plen.,
02.11.2015 n. 9).
La giurisprudenza amministrativa, pertanto,
si è uniformata, in materia di gare per l’affidamento di
lavori pubblici, al principio già statuito dall’Adunanza
Plenaria, nell’esercizio della sua funzione nomofilattica
(cfr.: Cons. Stato, Ad. Plen., 20.3.2015 n. 3), a tenore del
quale <<nelle procedure di affidamento di lavori i
partecipanti alla gara devono indicare nell’offerta
economica i costi interni per la sicurezza del lavoro, pena
l’esclusione dell’offerta dalla procedura, anche se non
previsto dal bando di gara>> (cfr., anche: Cons. Stato V,
25.11.2015 n. 5355; idem V, 1.10.2015 n. 4583; idem III,
15.06.2015 n. 2941).
In proposito, si è ritenuto che l’omessa
indicazione dei detti costi, al di là dell’inadempimento di
norme specifiche, determina “incertezza assoluta sul
contenuto dell'offerta per difetto di un suo elemento
essenziale”, comportando perciò, anche se non prevista nella
lex specialis, l'esclusione dalla procedura dell'offerta
difettosa, per l'inosservanza di un precetto a carattere
imperativo, che imporrebbe un preciso adempimento ai
partecipanti alla gara, non sanabile con il potere di
soccorso istruttorio della stazione appaltante, non
potendosi consentire di integrare successivamente un'offerta
dal contenuto inizialmente carente di un elemento essenziale
(cfr.: Cons. Stato V, 25.11.2015 n. 5355).
XVII - Nondimeno, stante l’orientamento ermeneutico della
giurisprudenza amministrativa, deve ora porsi, anche sulla
scorta di analoghe iniziative del Tar Piemonte, II
sezione (ord. 16.12.2015 n. 1745) e della C.G.A. Siciliana (ord.
n. 1/2015), una questione interpretativa -che proprio con
la presente sentenza parziale viene posta all’attenzione
della Corte di Giustizia dell’Unione Europea- avente a
oggetto la normativa nazionale sull’obbligo di indicazione
separata, all’atto delle offerte per una procedura ad
evidenza pubblica riguardante una gara d’appalto per lavori,
dei costi interni di sicurezza aziendale.
Tale normativa nazionale, com’è noto, discende dal combinato
disposto degli artt. 87, comma 4, e 86, comma 3-bis, del
d.lgs. n. 163 del 2006, e dall’art. 26, comma 6, del d.lgs.
n. 81 del 2008 (recante “Attuazione dell'articolo 1 della
legge 03.08.2007, n. 123, in materia di tutela della
salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro”), così come
interpretato, in funzione nomofilattica, ai sensi dell’art.
99 del cod. proc. amm. (d.lgs. n. 104 del 2010, All. A),
dalle citate sentenze dell’Adunanza Plenaria del Consiglio
di Stato nn. 3 e 9 del 2015.
L’art. 87, comma 4, del d.lgs. n. 163 del 2006, in punto di
verifica delle offerte anormalmente basse, così dispone:
<<Non sono ammesse giustificazioni in relazione agli oneri
di sicurezza in conformità all'articolo 131, nonché al piano
di sicurezza e coordinamento di cui all'articolo 12, decreto
legislativo 14.08.1996, n. 494 e alla relativa stima dei
costi conforme all'articolo 7, decreto del Presidente della
Repubblica 03.07.2003, n. 222. Nella valutazione
dell'anomalia la stazione appaltante tiene conto dei costi
relativi alla sicurezza, che devono essere specificamente
indicati nell'offerta e risultare congrui rispetto
all'entità e alle caratteristiche dei servizi o delle
forniture>>.
Dunque, l’obbligo di specifica indicazione dei
costi sulla sicurezza aziendale è qui letteralmente riferito
ai soli appalti di servizi e forniture. Inoltre, l’art. 86,
comma 3-bis, del d.lgs. n. 163 del 2006 così dispone:
<<Nella predisposizione delle gare di appalto e nella
valutazione dell'anomalia delle offerte nelle procedure di
affidamento di appalti di lavori pubblici, di servizi e di
forniture, gli enti aggiudicatori sono tenuti a valutare che
il valore economico sia adeguato e sufficiente rispetto al
costo del lavoro e al costo relativo alla sicurezza, il
quale deve essere specificamente indicato e risultare
congruo rispetto all'entità e alle caratteristiche dei
lavori, dei servizi o delle forniture. Ai fini del presente
comma il costo del lavoro è determinato periodicamente, in
apposite tabelle, dal Ministro del lavoro e della previdenza
sociale, sulla base dei valori economici previsti dalla
contrattazione collettiva stipulata dai sindacati
comparativamente più rappresentativi, delle norme in materia
previdenziale ed assistenziale, dei diversi settori
merceologici e delle differenti aree territoriali. In
mancanza di contratto collettivo applicabile, il costo del
lavoro è determinato in relazione al contratto collettivo
del settore merceologico più vicino a quello preso in
considerazione>>.
In questo caso, quindi, l’obbligo di
specifica indicazione dei costi sulla sicurezza aziendale
appare essere riferito, genericamente, a tutti gli appalti
della P.A., ivi compresi gli appalti di lavori pubblici;
eppure, tale obbligo, per come è letteralmente formulata la
norma, sembrerebbe incombere sugli enti aggiudicatori,
piuttosto che sui concorrenti offerenti.
L’art. 26, comma 6, del d.lgs. n. 81 del 2008, nell’ambito
della disciplina sulla tutela della salute dei lavoratori e
della sicurezza nei luoghi di lavoro, così (similmente)
dispone: <<Nella predisposizione delle gare di appalto e
nella valutazione dell'anomalia delle offerte nelle
procedure di affidamento di appalti di lavori pubblici, di
servizi e di forniture, gli enti aggiudicatori sono tenuti a
valutare che il valore economico sia adeguato e sufficiente
rispetto al costo del lavoro e al costo relativo alla
sicurezza, il quale deve essere specificamente indicato e
risultare congruo rispetto all'entità e alle caratteristiche
dei lavori, dei servizi o delle forniture. Ai fini del
presente comma, il costo del lavoro è determinato
periodicamente, in apposite tabelle, dal Ministro del
lavoro, della salute e delle politiche sociali, sulla base
dei valori economici previsti dalla contrattazione
collettiva stipulata dai sindacati comparativamente più
rappresentativi, delle norme in materia previdenziale ed
assistenziale, dei diversi settori merceologici e delle
differenti aree territoriali. In mancanza di contratto
collettivo applicabile, il costo del lavoro è determinato in
relazione al contratto collettivo del settore merceologico
più vicino a quello preso in considerazione>>.
Attesa la scarsa chiarezza delle riportate disposizioni, in
punto se sia obbligatoria o meno, per le ditte partecipanti
a una procedura ad evidenza pubblica concernente la
realizzazione di lavori pubblici, l’indicazione separata,
nelle offerte, dei costi sulla sicurezza interna aziendale,
l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato è stata chiamata
a pronunciarsi, ai sensi dell’art. 99 cod. proc. amm., per
dirimere l’incertezza interpretativa.
E così, con la
sentenza n. 3 del 2015 –premessa la distinzione tra i costi
c.d. “da interferenze” e i costi interni o aziendali–
l’Adunanza plenaria si è pronunciata nel senso che l’obbligo
per le ditte partecipanti di indicazione separata,
nell’offerta economica, dei costi per la sicurezza aziendale
debba ritenersi sussistente anche per le procedure di
affidamento relative a contratti pubblici di lavori, pena
l'esclusione dell'offerta dalla procedura anche se non
prevista nel bando di gara: quest’ultima conseguenza,
quindi, secondo l’Adunanza plenaria, deriva da cogente
imposizione di legge, ossia indipendentemente dal fatto che
l’obbligo di indicazione separata sia o meno riportato nella
lex specialis di gara.
A questa soluzione si è pervenuti
sulla base di <<un’interpretazione sistematica delle norme
regolatrici della materia date dagli articoli 26, comma 6,
del d.lgs. n. 81 del 2008 e 86, comma 3-bis, e 87, comma
4>>, del d.lgs. n. 163 del 2006, in modo tale da evitarne
un’illogica lettura e per mantenere il necessario presidio
dei diritti fondamentali dei lavoratori sanciti nella
Costituzione italiana.
Con la successiva decisione n. 9 del 2015, poi, la stessa
Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, nel confermare
tale lettura interpretativa, ha affermato che essa ha natura
esclusivamente dichiarativa e non, invece, di produzione del
diritto. Di conseguenza è stato ritenuto che “non sono
legittimamente esercitabili i poteri attinenti al soccorso
istruttorio, nel caso di omessa indicazione degli oneri di
sicurezza aziendali, anche per le procedure nelle quali la
fase della presentazione delle offerte si è conclusa prima
della pubblicazione della decisione dell'Adunanza Plenaria
n. 3 del 2015”.
La questione interpretativa che, con la presente sentenza
parziale, si rimette alla Corte di Giustizia dell’Unione
Europea concerne (similmente ad analoga questione, di
recente sollevata dal Tar Piemonte, II Sezione, e dal
Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione
Siciliana) la compatibilità della descritta normativa
nazionale, così come interpretata dalle citate sentenze
dell’Adunanza plenaria in funzione nomofilattica, con i
principi euro-unitari, di matrice giurisprudenziale, della
tutela del legittimo affidamento e di certezza del diritto,
unitamente ai principi di libera circolazione delle merci,
di libertà di stabilimento e di libera prestazione di
servizi, di cui al Trattato sul Funzionamento dell’Unione
Europea (TFUE), nonché i principi che ne derivano, come la
parità di trattamento, la non discriminazione, il mutuo
riconoscimento, la proporzionalità e la trasparenza, di cui
(da ultimo) alla direttiva n. 2014/24/UE.
La questione, in
altri termini, tende ad appurare se, nella materia degli
appalti pubblici di lavori, i richiamati principi
euro-unitari possano essere declinati nel senso che, laddove
–come nel caso in esame– la normativa di gara (bando e
disciplinare) non abbia prescritto espressamente, ai fini
della valida partecipazione a una gara d’appalto per lavori
pubblici, la separata indicazione dei costi di sicurezza
aziendale nell’offerta economica, e laddove non sia neanche
revocato in dubbio che tale offerta, dal punto di vista
sostanziale, rispetti i necessari costi di sicurezza, quei
principi possano condurre all’esito di mantenere in gara
l’impresa che non abbia indicato, nella propria offerta
economica, i costi per la sicurezza aziendale, nonostante
altre concorrenti lo abbiano invece fatto, anche in chiave
di rispetto del canone di favor partecipationis.
Ciò, in considerazione del fatto che la necessità di tale
indicazione deriva con certezza, per l’ordinamento
nazionale, non dalla lettera delle disposizioni di legge ma
solo dal c.d. diritto vivente, ossia dalla richiamata
interpretazione nomofilattica del quadro normativo vigente.
La tutela del legittimo affidamento, la certezza del diritto
e la proporzionalità, come osservato dalla richiamata
ordinanza del Cons. Giust. Amm., “sono principi generali del
diritto dell’Unione europea, di applicazione trasversale
(giurisprudenza pacifica; tra le molte, decisione sul
legittimo affidamento, CGUE n. 201 del 10.09.2009; n.
383 del 13.03.2008; n. 217 del 04.10.2007; sulla
certezza del diritto, CGUE n. 576 dell’11.07.2013; n. 72
del 16.02.2012; n. 158 del 18.11.2008; sulla
proporzionalità, CGUE n. 234 del 18.07.2013; n. 427 del
28.02.2013), e pure del diritto italiano”: come tali,
i richiamati principi devono trovare applicazione anche per
le procedure pubbliche di affidamento di appalti il cui
valore non raggiunga, come nella specie, la soglia
comunitaria.
XVIII – Si procede qui di seguito all’illustrazione dei
motivi del rinvio pregiudiziale.
Nella fattispecie, viene anzitutto in rilievo il principio
della tutela del legittimo affidamento: ciò in quanto, come
detto, la disciplina di gara non prevede, nel caso di
specie, espressamente l’obbligo di indicazione separata,
nell’ambito dell’offerta, degli oneri di sicurezza
aziendale. Né, del resto, può dirsi che tale obbligo di
indicazione separata può trarsi con certezza dal diritto
positivo nazionale, il quale, come visto, data la sua
oggettiva incertezza interpretativa, ha richiesto
l’intervento, a più riprese, dell’Adunanza Plenaria.
Il
Collegio, pertanto, si domanda se il principio della tutela
del legittimo affidamento, insieme a quelli della certezza
del diritto e della proporzionalità, come riconosciuti nel
diritto dell’Unione Europea, ostino, o no, a una regola del
diritto italiano, come sopra ricostruita (anche sulla base
della giurisprudenza dell’Adunanza plenaria del Consiglio di
Stato), che consenta di escludere da una procedura di
evidenza pubblica un’impresa che abbia fatto affidamento,
per l’appunto, sulla completezza degli atti amministrativi
con i quali sia stata indetta una gara.
Aspetto centrale
della questione è la valutazione dell’effettiva sussistenza
di una colpa inescusabile nel comportamento dell’impresa che
sia stata esclusa per la mancata indicazione degli oneri di
sicurezza: si assume, infatti, che tale impresa, nel
silenzio degli atti di gara, fosse tenuta ad eterointegrare
la lex specialis non semplicemente con riguardo a quanto
disposto, in via generale, dalla legge (oggettivamente di
incerta applicazione), ma nei sensi derivanti dalla
richiamata interpretazione estensiva fatta propria
dall’Adunanza Plenaria, anche indipendentemente dal fatto
che quest’ultima si sia pronunciata anteriormente alla
conclusione della fase di presentazione delle offerte.
Nella presente questione, peraltro, assumono rilievo anche i
principi comunitari del favor partecipationis e della parità
di trattamento sostanziale tra le imprese concorrenti, posto
che, nella presente sede giurisdizionale, non è stato
revocato in dubbio che l’offerta dell’A.t.i. aggiudicataria
fosse effettivamente rispettosa degli oneri di sicurezza
necessari. Nessuna parte processuale, nelle proprie difese,
ha dedotto che l’offerta dell’A.t.i. aggiudicataria fosse,
sostanzialmente, carente del requisito: è pertanto pacifico
–perché incontestato- che quell’offerta rispetti i
necessari costi di sicurezza aziendali.
L’unica mancanza
dell’impresa aggiudicataria sarebbe, pertanto, quella
dell’omessa indicazione separata dei costi di sicurezza.
Quest’ultima, pertanto, dovrebbe essere esclusa per ragioni
di natura esclusivamente formale, senza che sia stata
nemmeno concessa la possibilità, mediante il rimedio del
c.d. soccorso istruttorio, di dimostrare che effettivamente
l’offerta presentata fosse adeguata anche con riguardo ai
costi di sicurezza aziendale.
L’applicazione rigorosa della
legge italiana, quale interpretata dalle richiamate pronunce
dell’Adunanza plenaria, nel non ammettere la possibilità del
c.d. soccorso istruttorio, conduce quindi all’automatica
esclusione delle imprese che abbiano omesso l’indicazione
separata, indipendentemente dal fatto che il requisito,
nella sostanza, fosse posseduto: con la conseguenza di
restringere indebitamente la platea dei possibili
concorrenti e, quindi, con sostanziale violazione dei
connessi principi di libera concorrenza e di libera
prestazione dei servizi nell’ambito del territorio
dell’Unione sanciti dal TFUE.
Ciò in quanto, come è
evidente, la censurata normativa italiana potrebbe vieppiù
comportare discriminazioni applicative nei confronti delle
imprese comunitarie non italiane che volessero partecipare a
un appalto di lavori bandito da un’Amministrazione
aggiudicatrice italiana, attese le oggettive difficoltà di
conoscenza del diritto italiano, quali risultanti dalla
riportata interpretazione c.d. nomofilattica dell’Adunanza
plenaria e dalla connessa riconosciuta prevalenza del
profilo formale (mancanza dell’indicazione separata),
rispetto al profilo sostanziale (effettivo rispetto dei
costi di sicurezza interni).
XIX - Sulla base di quanto finora osservato, il Collegio
formula pertanto il seguente quesito interpretativo alla
Corte di Giustizia U.E.:
“Se i principi comunitari di tutela del legittimo
affidamento e di certezza del diritto, unitamente ai
principi di libera circolazione delle merci, di libertà di
stabilimento e di libera prestazione di servizi, di cui al
Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE),
nonché i principi che ne derivano, come la parità di
trattamento, la non discriminazione, il mutuo
riconoscimento, la proporzionalità e la trasparenza, di cui
(da ultimo) alla direttiva n. 2014/24/UE, ostino ad una
normativa nazionale, quale quella italiana derivante dal
combinato disposto degli artt. 87, comma 4, e 86, comma
3-bis, del d.lgs. n. 163 del 2006, e dall’art. 26, comma 6,
del d.lgs. n. 81 del 2008, così come interpretato, in
funzione nomofilattica, ai sensi dell’art. 99 cod. proc. amm.,
dalle sentenze dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato
nn. 3 e 9 del 2015, secondo la quale la mancata separata
indicazione dei costi di sicurezza aziendale, nelle offerte
economiche di una procedura di affidamento di lavori
pubblici, determina in ogni caso l’esclusione della ditta
offerente, anche nell’ipotesi in cui l’obbligo di
indicazione separata non sia stato specificato né nella
legge di gara né nell’allegato modello di compilazione per
la presentazione delle offerte, ed anche a prescindere dalla
circostanza che, dal punto di vista sostanziale, l’offerta
rispetti i costi minimi di sicurezza aziendale”.
XX - Ai sensi delle vigenti Raccomandazioni, si dispone che
la Segreteria di questa Sezione trasmetta alla cancelleria
della Corte di Giustizia, mediante plico raccomandato, il
fascicolo di causa insieme al testo integrale delle sentenze nn. 3 e 9 del 2015 dell’Adunanza plenaria del Consiglio di
Stato.
Visto l’art. 79 cod. proc. amm. e il punto 29 delle
Raccomandazioni, il presente giudizio viene sospeso nelle
more della definizione del procedimento incidentale di
rinvio e ogni ulteriore decisione, anche in ordine al
regolamento delle spese processuali, è riservata alla
pronuncia definitiva, una volta ricevuta la notificazione
della decisione emessa dalla Corte di Giustizia dell’Unione
Europea (ex punto 34 Raccomandazioni).
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Molise (Sezione
Prima), non definitivamente pronunciando sui riuniti
ricorsi, come in epigrafe proposti:
- respinge in parte il ricorso n.r.g. 334/2015, perché
infondato nei motivi dal II al V;
- respinge, perché infondato, il riunito ricorso n.r.g.
342/2015;
- dichiara improcedibile il ricorso incidentale al n.r.g.
342/2015, stante il sopravvenuto difetto di interesse;
- dispone il rinvio pregiudiziale alla
Corte di Giustizia dell’U.E., per la soluzione del quesito
formulato in motivazione, per l’effetto sospendendo il
giudizio nelle more della definizione del procedimento
incidentale di rinvio pregiudiziale;
- manda alla Segreteria del Tar di trasmettere alla
cancelleria della Corte di Giustizia U.E., mediante plico
raccomandato, il fascicolo di causa insieme al testo
integrale delle sentenze nn. 3 e 9 del 2015 dell’Adunanza
plenaria del Consiglio di Stato
(TAR Molise,
sentenza 12.02.2016 n. 77 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Regioni, il piano casa non deroga.
Sorpresa. Il piano casa della Regione non può derogare a
regolamenti edilizi e norme tecniche di attuazione sui prg
dei Comuni. Almeno per quanto riguarda le distanze minime
fra pareti con finestre di costruzioni differenti: gli atti
dell'amministrazione locale riproducono comunque norme
statali di principio nel settore urbanistico e sarebbe
dunque incostituzionale la legge regionale che pretendesse
di disciplinare la materia senza quei limiti.
È quanto
emerge dalla
sentenza
15.01.2016 n. 19, pubblicata dalla I Sez. del TAR Molise.
La presentazione della Dia non può
prescindere dalla legittimità dell'intervento. Sbaglia il
titolare dell'immobile quando invoca l'articolo 2 della
legge regionale che consente la deroga a regolamenti edilizi
e Nta degli strumenti urbanistici adottati dai Comuni: non
per ciò solo la deroga deve ritenersi estesa all'articolo 9
del decreto ministeriale 1444/1968 e alle altre relative
previsioni recepite negli atti adottati dalle
amministrazioni locali.
E ciò perché la stessa legge regionale non può derogarvi (articolo ItaliaOggi
Sette del 29.02.2016).
---------------
MASSIMA
Oggetto del presente giudizio è la legittimità degli
atti con cui il Comune di Termoli ha dapprima negato (con
provvedimento del 28.07.2014) il rilascio del titolo
edilizio per realizzare la chiusura perimetrale del portico
della propria villetta a schiera e ha, conseguentemente,
adottato in data 20.10.2014 l’ordine di demolizione delle
opere realizzate.
Con i due motivi di ricorso che possono esaminarsi
congiuntamente data la loro connessione, la sig.ra -OMISSIS-
ha denunciato la violazione dell’art. 23 del d.P.R. n.
380/2001, affermando che prima della realizzazione
dell’intervento oggetto dei provvedimenti gravati aveva
presentato già in data 20.03.2012 una dichiarazione di
inizio di attività, corredata dei pareri anche paesaggistici
previsti e che solo nel marzo 2014 il Comune di Termoli
aveva fatto pervenire una preavviso di diniego del rilascio
del Permesso di costruire che la ricorrente, invece, non
aveva richiesto.
Pertanto, la sig.ra -OMISSIS- rileva che ai sensi del
predetto art. 23 del d.P.R. n. 380/2001, decorso il termine
di trenta giorni dalla presentazione della DIA, questa si
consolida, sicché la mancata adozione di alcun atto per più
di un anno dopo la comunicazione della DIA rende illegittimo
il successivo diniego di Permesso di costruire, peraltro mai
richiesto.
L’unico strumento che l’Amministrazione aveva a propria
disposizione era quello dell’intervento in autotutela,
decorso oramai il periodo entro il quale era possibile agire
con i poteri inibitori, con la conseguente illegittimità del
diniego del Permesso di costruire che non essendo
configurabile quale atto di autotutela comunica la propria
illegittimità anche all’impugnato ordine di demolizione.
Quand’anche, poi, si prendesse in considerazione quale
parametro temporale non il momento in cui è stata proposta
la dichiarazione di inizio attività (20.03.2012), ma quella
dell’inizio lavori (gennaio 2014), l’intervento comunale,
poi, sarebbe comunque tardivo, atteso che il termine
rilevante ai fini del perfezionamento della fattispecie è
quello della proposizione della dichiarazione, mentre i
lavori possono cominciare entro tre anni.
In ogni caso, prosegue la ricorrente, il Piano Casa
approvato con la l.r. n 30/2009 ha espressamente previsto la
possibilità di derogare alle previsioni dei regolamenti
comunali e degli strumenti urbanistici, introducendo una
normativa di favore che consentirebbe di derogare anche alle
previsioni dei regolamenti comunali nonché agli strumenti
urbanistici e territoriali.
Quanto poi al mancato consenso dei comproprietari, pure
addotto dall’Amministrazione, alla modifica del muro comune
della villetta schiera, originariamente in mattoni e rete
metallica e, a seguito dell’intervento chiuso in tutta la
sua altezza, esso non sarebbe stato necessario.
Tutti i profili di doglianza riferiti sono destituiti di
fondamento alla stregua delle considerazioni che di seguito
si espongono.
La questione si incentra sulla legittimità dell’intervento
del Comune di Termoli che ha, dapprima negato il rilascio
del Permesso di costruire, ed ha, poi, adottato l’ordine di
demolizione dell’opera realizzata dalla sig.ra -OMISSIS-.
Il Collegio ritiene che i vizi di violazione di legge e di
eccesso di potere denunciati nel ricorso introduttivo del
presente giudizio in relazione ai provvedimenti impugnati
(diniego di Permesso e ordine di demolizione) non sono
configurabili.
Ed infatti, in linea con l’orientamento di
recente assunto anche dal Consiglio di Stato, la
presentazione di una DIA non può
–poi– prescindere dalla “legittimità
dell’intervento”, tenuto conto –in particolare– del
profilo afferente alla “conformità alle previsioni degli
strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della
disciplina urbanistico–edilizia vigente” espressamente
imposta dall’art. 22, comma 1, del D.P.R. n. 380 del 2001, a
“salvaguardia dell’ordine del territorio”
(cfr. Cons. stato, sez. VI, 24.03.2013, n. 1413).
Nel caso di specie, è proprio la legittimità dell’intervento
che risulta carente, in quanto se è pur
vero che nella dichiarazione e nella relazione tecnica ad
essa allegata, risulta espressamente la volontà
dell’interessata di avvalersi delle disposizioni derogatorie
previste dalla legge regionale n. 30/2009 sul c.d. “Piano
Casa”, è altresì vero che le norme sulle distanze
legali, la cui violazione viene contestata nel caso di
specie, non possono essere derogate nemmeno dalla predetta
legge regionale.
La tesi della ricorrente si fonda sull’errato assunto
secondo cui, poiché l’art. 2 della predetta legge introduce
la possibilità di derogare ai regolamenti edilizi ed alle
NTA dei Piani regolatori, siffatta deroga si estenderebbe
anche alle previsioni di cui al DM 1444/1968 recepite nei
predetti atti generali.
Sennonché, come già evidenziato da questo Tribunale, non
solo tale asserzione non può essere condivisa ma va
radicalmente rovesciata: proprio in quanto
riproduttivi di norme statali di principio della materia
urbanistica quale l’art. 9 del D.M. 1444/1968, i regolamenti
edilizi e le NTA dei piani regolatori non solo non possono
essere derogati neppure dalla legge regionale ma
quest’ultima deve essere interpretata in senso conforme a
Costituzione, pena la illegittimità costituzionale delle
relative disposizioni, in quanto in contrasto con norma
statale di principio qual è quella sulla distanza minima tra
pareti finestrate
(cfr.: TAR Molise, 10.07.2013, n. 474).
Del resto, che gli artt. 2 e 3 della legge Regione Molise n.
30/2009 non possano essere interpretati nel senso di
introdurre la possibilità di derogare anche all’art. 9 del
D.M. n. 1444/1969 è confermato dalla successiva legge
regionale n. 21/2011 che ha fatto espressamente salvi “i
limiti stabiliti dalla normativa nazionale”, così
introducendo non una norma innovativa bensì confermativa
delle preesistenti disposizioni sul c.d. piano casa; poiché
infatti queste ultime non contengono una espressa previsione
circa la possibilità di deroga dell’art. 9 del citato D.M.
si impone, per le ragioni esposte, la necessità della
prospettata interpretazione conforme a costituzione, con
conseguente infondatezza della censura.
Quanto alla circostanza, pure invocata nel ricorso, secondo
cui l’Amministrazione non avendo esercitato i poteri
inibitori nel termine di 30 giorni, non avrebbe più potuto
intervenire se non in autotutela, giova premettere che la
giurisprudenza non ha assunto un orientamento univoco sul
punto, nel senso che, in alcuni casi, ha sancito
l’impossibilità per il Comune di intervenire “oltre il
termine, se non esercitando i propri poteri di autotutela”
(cfr., tra le altre, TAR Lombardia, Milano, Sez. II, n. 4799
del 2014, in linea con Cons. Stato, Sez. VI, 22.09.2014, n.
4780), mentre, in altri casi, ha pienamente
riconosciuto il potere dell’Amministrazione di adottare “misure
repressive”, specie ove si sia in presenza di
dichiarazioni non veritiere, inidonee –in quanto tali– a
giustificare la tutela dell’affidamento del privato, nel
pieno rispetto dell’autoresponsabilità che deve presiedere
l’assunzione di qualsiasi iniziativa, individuata come “un
deterrente a violare la legge”, ossia “ad agire in
modo conforme” a quest’ultima (cfr., ex multis,
TAR Piemonte, 01.07.2015, n. 11149).
Ritiene il Collegio che, nel caso di specie, può
prescindersi da una presa di posizione su tale questione di
fondo, in quanto il gravato diniego di permesso di costruire
si presterebbe, in ogni caso, a valere anche come
provvedimento adottato in “autotutela”, dovendosene
riconoscere l’indiscutibile natura vincolata, con le
connesse conseguenze in ordine alla ristrettezza dei poteri
di annullamento del giudice in presenza di vizi afferenti
alla procedura o alla forma, ai sensi dell’art. 21-octies,
comma 2, della legge n. 241 del 1990, ma con le ricadute
anche sulle caratteristiche degli interventi in autotutela.
Ed infatti, il difetto di una espressa
valutazione dell’interesse pubblico, che pure dovrebbe
connotare i provvedimenti di secondo grado, non varrebbe,
comunque, a legittimare un intervento edilizio non
realizzabile sulla base degli strumenti urbanistici, che,
come nel caso di specie, è stato posto in essere in
violazione di una normativa, quella sulle distanze, che,
come visto, non riceve deroga dalle norme della legge sul
c.d. Piano Casa
(cfr. TAR Lazio, Roma, sez. II-bis, 15.12.2015, 14059);
dovendosi altresì considerare che la
normativa dettata dal ripetuto Piano Casa non introduce
alcuna forma di sanatoria, ma presuppone, invece, la
regolarità dell’intervento al momento in cui viene posto in
essere (cfr.: TAR
Molise, 23.05.2014, n. 332).
Anzi, i rilevanti interessi pubblici
tutelati dalla previsione sulle distanze consentono di
affermare che l’autotutela esercitata per assicurare il
rispetto di tale inderogabile precetto reca, in re ipsa,
l’esigenza di tutela del suddetto interesse pubblico
sanitario, a cui si aggiunge nella fattispecie anche la
finalità indiretta di assicurare tutela ai controinteressati
(proprietari delle villette finitime), titolari di una
specifica e differenziata posizione di interesse al rispetto
della suddetta finalità pubblicistica che l’Autorità
procedente deve, del pari, tenere in adeguata considerazione
ai sensi e per gli effetti dell’art. 21-nonies della l. n.
241/1990.
In altri termini, proprio perché le
distanze tra le costruzioni sono predeterminate con
carattere cogente in via generale ed astratta, in
considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni
di igiene e di sicurezza, all’Amministrazione non è lasciato
alcun margine di discrezionalità nell'applicazione della
disciplina in materia di equo contemperamento degli opposti
interessi (cfr.:
Cons. Stato Sez. VI, 18.12.2012, n. 6489).
Alla luce delle suesposte considerazioni, la problematica
specificamente afferente agli effetti del decorso del
termine di 30 giorni, prescritto dall’art. 23 del D.P.R. n.
380 del 2001, perde pertanto inequivocabilmente rilevanza,
mentre nessun affidamento incolpevole da
parte della ricorrente poteva maturare in forza di un
intervento che, senza contestazione, è stato posto in essere
in violazione delle norme inderogabili sulle distanze.
Peraltro, il Collegio osserva in punto di fatto che dalla
documentazione versata in atti dall’Amministrazione risulta
che la ricorrente ha proposto in data (12.03.2012,
protocollo comunale 20.03.2012) solo un’istanza di “autorizzazione
edilizia”, senza specificare che si trattava di una DIA,
mentre dalla produzione attorea, risulta effettivamente una
DIA datata 12.03.2012, ma tale documento risulta priva di
sottoscrizione e di qualsivoglia timbro di protocollo che
valga ad accertarne rispettivamente provenienza e data
certa, con la conseguenza che non risulta raggiunta la piena
prova dell’effettiva proposizione di una DIA da parte della
sig.ra -OMISSIS-.
In definitiva, tutte le doglianze avverso i provvedimenti
impugnati sono infondate e il ricorso deve pertanto essere
respinto, non essendo ravviabile nemmeno l’invocata
illegittimità derivata del gravato ordine di demolizione. |
UTILITA' |
EDILIZIA PRIVATA:
Le cause d’incendio e/o di esplosione nelle caldaie e
generatori di calore in ambienti domestici (Corpo
Nazionale dei Vigili del Fuoco, 18.02.2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
LE MANIFESTAZIONI ED I LOCALI DI PUBBLICO SPETTACOLO -
INDICAZIONI PROCEDURALI E DI PREVENZIONE INCENDI PER LE
COMMISSIONI DI VIGILANZA (Comando Provinciale
Vigili del Fuoco di Venezia, 25.01.2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
LE AGEVOLAZIONI FISCALI PER IL RISPARMIO ENERGETICO
(Agenzia delle Entrate, gennaio 2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
Relazione tecnica sugli incendi coinvolgenti impianti
fotovoltaici (Corpo
Nazionale dei Vigili del Fuoco, 20.10.2015). |
DIPARTIMENTO
FUNZIONE PUBBLICA |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Oggetto: Assunzioni e mobilità della polizia municipale
(nota
29.02.2016 n. 10669 di prot.) |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA - APPALTI - EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI
- PATRIMONIO - PUBBLICO IMPIEGO:
G.U. 26.02.2016 n. 47 "Testo
del decreto-legge 30.12.2015, n. 210, coordinato con la
legge di conversione 25.02.2016, n. 21,
recante: “Proroga di termini previsti da disposizioni
legislative”".
---------------
Si leggano anche:
-
Milleproroghe/3: dimezzate le sanzioni Sistri - Prorogato
fino al 29.02.2016 il termine di entrata in vigore del
divieto di smaltimento in discarica dei rifiuti (urbani e
speciali) con potere calorifico inferiore superiore a 13.000
kJ/Kg (25.02.2016 - link a www.casaeclima.com)
-
Milleproroghe/2: prevenzione incendi, adeguamento delle
scuole entro il 31.12.2016 - Per gli alberghi con oltre 25
posti letto differito al 31.12.2016 il termine per
l'adeguamento alla normativa antincendio (25.02.2016 - link a www.casaeclima.com)
-
Il Milleproroghe è legge: fino al 31.07.2016 esclusione
automatica delle offerte anomale - Prorogata fino al 31
luglio anche l'anticipazione al 20% del prezzo in favore
dell'appaltatore per i contratti relativi a lavori
(25.02.2016 - link a www.casaeclima.com)
-
La nota di lettura Anci sulle norme di interesse per gli
Enti Locali (23.02.2016 - link a www.anci.it) |
ENTI LOCALI: B.U.R.
Lombardia, supplemento n. 8 del 26.02.2016,
"Abrogazione dell’articolo 9 della legge regionale
12.10.2015, n. 32 (Disposizioni per la valorizzazione del
ruolo istituzionale della Città metropolitana di Milano e
modifiche alla 08.07.2015, n. 19 “Riforma del sistema delle
autonomie della Regione e disposizioni per il riconoscimento
della specificità dei territori montani in attuazione della
legge 07.04.2014, n. 56 ‘Disposizioni sulle città
metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di
comuni’”)" (L.R.
23.02.2016 n. 3). |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, supplemento n. 8 del 26.02.2016, "Modifiche
alla legge regionale 01.10.2015, n. 27 (Politiche regionali
in materia di turismo e attrattività del territorio
lombardo)" (L.R.
23.02.2016 n. 2). |
CONSIGLIERI REGIONALI: G.U.
25.02.2016 n. 46 "Modifica all’articolo 4 della legge
02.07.2004, n. 165, recante disposizioni volte a garantire
l’equilibrio nella rappresentanza tra donne e uomini nei
consigli regionali" (Legge
15.02.2016 n. 20). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 7 del 19.02.2016, "Approvazione
delle «Linee guida per la componente salute pubblica negli
studi di impatto ambientale e negli studi preliminari
ambientali» in revisione delle «Linee guida per la
componente ambientale salute pubblica degli studi di impatto
ambientale» di cui alla d.g.r. 20.01.2014, n. X/1266" (deliberazione
G.R. 08.02.2016 n. 4792). |
EDILIZIA PRIVATA: G.U.
18.09.1978 n. 261 "Entrata in vigore
della convenzione sulla protezione del patrimonio
culturale e naturale mondiale, firmata a Parigi il
23.11.1972" (Ministero
degli Affari Esteri,
comunicato). |
EDILIZIA PRIVATA: G.U.
13.05.1977 n. 129, suppl. ord., "Ratifica ed esecuzione
della convenzione sulla protezione del patrimonio culturale
e naturale mondiale, firmata a Parigi il 23.11.1972" (Legge
06.04.1977 n. 184). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
PUBBLICO IMPIEGO:
OGGETTO: Decreto legislativo n. 80 del 15.06.2015 in
attuazione dell’art. 1, commi 8 e 9, della legge delega
10.12.2014 n. 183 (Jobs Act): fruizione del congedo parentale
ad ore dei lavoratori iscritti alla Gestione Dipendenti
Pubblici; ulteriori precisazioni circolare 81/2015
(INPS,
circolare 23.02.2016 n. 40 - link a www.inps.it).
---------------
SOMMARIO: Con la presente circolare si forniscono
indicazioni relative alla valorizzazione in denuncia dei
congedi medesimi con contribuzione figurativa ai fini
pensionistici a carico dell’Istituto per le aziende e le
amministrazioni pubbliche iscritte alla Gestione Dipendenti
Pubblici. |
TRIBUTI:
OGGETTO: Imposta municipale propria (IMU) – Tributo per i
servizi indivisibili (TASI) – Art. 1, comma 10, della legge
n. 208 del 2015 (Legge di stabilità per l’anno 2016) –
Disposizioni concernenti la riduzione del 50 per cento della
base imponibile in caso di cessione dell'abitazione in
comodato ai familiari – Modalità applicative (Ministero
dell'Economia e delle Finanze, Dipartimento delle Finanza,
risoluzione 17.02.2016 n. 1/DF). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
LAVORI PUBBLICI:
F. Mazzoni,
RECESSO E RISOLUZIONE NEGLI APPALTI LL.PP. - Determinazione
degli indennizzi (26.02.2016 - link a
www.ambientediritto.it). |
LAVORI PUBBLICI:
F. Mazzoni,
APPALTI: AFFIDAMENTO DEI LAVORI - Vademecum settori ordinari
(26.02.2016 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
R. Bertuzzi,
Il sistema sanzionatorio, amministrativo e penale, in
materia edilizia, anche alla luce del d.lgs. n. 28/2015
(febbraio 2016 - link a www.tuttoambiente.it).
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1. I soggetti preposti alla vigilanza sull’attività
edilizia
2. Il regime sanzionatorio
3. D.lgs. n. 28/2015: presupposti applicativi
4. Le ricadute del d.lgs. n. 28/2015 in materia di reati
edilizi
5. Segue: la clausola di salvezza delle sanzioni
amministrative
6. Il d.lgs. n. 8/2016 e i reati edilizi
7. L’importanza della fase di accertamento
8. La sanatoria ex art. 36 T.U. e il rapporto con l’art.
131-bis cod. pen.
9. I rifiuti di cantiere edile |
VARI:
Il leasing immobiliare abitativo: prime
osservazioni
(Consiglio Nazionale del Notariato,
studio 22.01.2016 n. 38-2016/C).
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Sommario
PRIMA PARTE: INQUADRAMENTO DELLA FATTISPECIE
Introduzione. 1. La definizione di contratto di locazione
finanziaria di immobile da adibire ad abitazione principale:
l’individuazione del “tipo” negoziale. 1.1. Segue…: Il
leasing di godimento e leasing traslativo: l’orientamento
della giurisprudenza di legittimità. 1.2. Segue…: Il leasing
abitativo: un nuovo tipo?
SECONDA PARTE: PROFILI FISIOLOGICI
1. I soggetti. 2. L’oggetto. 3. La causa. 4. La struttura.
4.1. Segue…: leasing su costruito. 4.2. Segue…: leasing in
construendo. 5. La scansione logico-temporale del contratto
di leasing e del contratto di compravendita/appalto. 6. La
forma e il contenuto. 7. La trascrizione. 8. La cessione del
contratto di leasing. 9. La traslazione dei rischi.
TERZA PARTE: QUESTIONI PATOLOGICHE
1. La risoluzione. 2. La trasparenza e la pubblicità nella
ricollocazione del bene conseguente alla risoluzione per
inadempimento dell’utilizzatore 3. Il rilascio dell’immobile
oggetto del contratto di locazione finanziaria e
l’applicabilità del procedimento per convalida di sfratto.
3.1. Il possibile riconoscimento del valore di titolo
esecutivo per l’esecuzione in forma specifica per rilascio
all’atto pubblico di leasing e di compravendita. 4.
L’esclusione della revocatoria fallimentare dei pagamenti
effettuati dalla società di leasing al venditore.
CONCLUSIONI: prerogative dell’atto pubblico con il quale si
stipuli, in un’unica unità documentale, il contratto di
leasing e il contratto di compravendita/appalto. |
ARAN |
PUBBLICO IMPIEGO:
Posizioni a scavalco, aumenti in caso di cumulo.
La retribuzione di posizione e risultato dei dipendenti
inquadrati nell'area delle posizioni organizzative può
essere incrementata, nel caso di incarico «a scavalco», solo
se i dipendenti medesimi cumulino l'incarico sia nell'ente
presso il quale espletano il rapporto di lavoro principale,
sia nell'ente che si avvale dello scavalco.
Il chiarimento proviene da un orientamento applicativo
dell'Aran
(parere
22.02.2016 n. RAL-1811), chiamata a pronunciarsi sul caso di un comune che
stipuli una convenzione con un altro comune per utilizzare
il dipendente dell'ente di provenienza per un orario di 12
ore settimanali.
L'Aran in primo luogo conferma che l'ente
«utilizzatore», sebbene non costituisca un rapporto di
lavoro autonomo, può assegnare al dipendente a scavalco un
incarico di posizione organizzativa, anche se il dipendente
interessato non disponga di tale incarico nell'ente col
quale conduca il rapporto di lavoro. In questo caso,
l'incarico sarà parametrato alle ore di impegno del
lavoratore, come stabilito dalla convenzione tra i due enti.
Di conseguenza, anche la retribuzione di posizione e
risultato va proporzionata all'impegno orario.
Tale riproporzionamento non dovrà, tuttavia, partire dal
trattamento di maggior favore consentito dall'articolo 14,
comma 5, del Ccnl 22.01.2004, ai sensi del quale è possibile
elevare il valore massimo della retribuzione di posizione
fino a 16.000 e della retribuzione di risultato fino a un
massimo del 30%.
Spiega l'Aran che la maggiorazione «nei
casi di personale utilizzato a tempo parziale da enti
diversi da quelli di appartenenza e di servizi in
convenzione, trova applicazione solo in presenza di due
incarichi diversi e distinti: l'uno attribuito dall'ente di
appartenenza e l'altro presso l'ente di utilizzazione o
nell'ambito dei servizi in convenzione».
Pertanto, l'incremento della retribuzione di posizione e
risultato è ammissibile esclusivamente se coesistano almeno
due incarichi di posizione organizzativa diversi: quello
conferito dall'ente titolare del rapporto di lavoro e quello
conferito dall'ente utilizzatore o dai servizi in
convenzione ai sensi del comma 7 dell'articolo 14 del Ccnl
22.01.2004. Solo in questo modo è giustificabile
l'incremento rispetto ai massimi «ordinari» delle
retribuzioni di posizione risultato: è la maggiore gravosità
dell'attività lavorativa a consentire di attivare le
previsioni del comma 5 dell'articolo 14.
L'orientamento applicativo contiene anche un'altra
rilevantissima precisazione. L'Aran coglie l'occasione da un
lato per ricordare che gli incarichi di posizione
organizzativa non possono superare i cinque anni. Ma,
soprattutto, per la prima volta l'agenzia evidenzia che
occorre anche definire una «durata minima», sebbene
non sia stata fissata dalla contrattazione nazionale
collettiva. Secondo l'Aran non meno di un anno tenuto conto
dell'obbligo della valutazione annuale richiesto dalla
disciplina
(articolo ItaliaOggi del 23.02.2016).
---------------
Discipline particolari/Unioni di Comuni e servizi in
convenzione/Personale utilizzato a tempo parziale/
Nel caso in cui, un comune ai sensi dell’art.14 del CCNL del
22.01.2004, stipulasse una convenzione con altro ente per
l’utilizzo a tempo parziale di un dipendente di questo
ultimo, per un orario di 12 ore settimanali, l’ente
utilizzatore potrebbe conferire al suddetto dipendente la
titolarità di una posizione organizzativa?
Nel merito del quesito formulato, si ritiene utile precisare
quanto segue.
L’art. 14 del CCNL del 22.01.2004, come noto, consente agli
enti locali la possibilità di avvalersi di personale di
altri enti ed amministrazioni del medesimo Comparto
Regioni-Autonomie Locali, nel rispetto delle precise
condizioni e modalità ivi stabilite.
L’utilizzo è consentito, fermo restando il vincolo
dell’orario settimanale d’obbligo (le 36 ore settimanali),
solo per una parte del suddetto orario di lavoro del
dipendente utilizzato, secondo le quantità e modalità
stabilite nell’apposita convenzione che gli enti interessati
sono tenuti a stipulare in materia.
Come espressamente precisato dall’art. 14, comma 1, del
richiamato CCNL del 22.01.2004, tuttavia, l’utilizzazione
parziale, possibile anche per la gestione dei servizi in
convenzione, non si configura come rapporto a tempo
parziale.
Pertanto, proprio, perché non viene in considerazione un
rapporto di lavoro a tempo parziale non trovano
applicazione:
a) la disciplina dell’art. 4, comma 2, del CCNL del
14.09.2000, che non consente il conferimento della
titolarità di posizione organizzativa a lavoratori con
contratto di lavoro a tempo parziale;
b) le disposizioni dell’art. 4, comma 2–bis, del CCNL del
14.09.2000, introdotto dall’art. 11 del CCNL del 22.01.2004,
che, negli enti privi di dirigenza, consentono
l’individuazione di posizioni organizzative che possono
essere affidate anche a dipendenti con rapporto di lavoro a
tempo parziale, purché di durata non inferiore al 50% del
rapporto a tempo pieno.
Si ritiene, quindi, che, qualora stipuli una convenzione con
un altro comune per l’utilizzo di un dipendente a tempo
parziale, nei termini descritti nella nota, il vostro ente
potrà conferire allo stesso anche un incarico di posizione
organizzativa secondo la disciplina prevista dall’art. 14,
commi 4 e 5, del citato CCNL del 22.01.2004.
In proposito, si ricorda che:
a) la più favorevole disciplina per il lavoratore incaricato
di posizione organizzativa in materia di retribuzione di
posizione e di risultato, con la elevazione del valore
massimo del primo compenso fino a € 16.000 e del secondo
fino ad un massimo del 30%, nei casi di personale utilizzato
a tempo parziale da enti diversi da quelli di appartenenza e
di servivi in convenzione, trova applicazione solo in
presenza di due incarichi diversi e distinti: l’uno
attribuito dall’ente di appartenenza e l’altro presso l’ente
di utilizzazione o nell’ambito dei servizi in convenzione.
Tale disciplina, infatti, si fonda sull’assunto che solo la
coesistenza di due incarichi diversi e distinti può creare
oggettivamente una condizione di maggiore gravosità del
lavoratore, utilizzato su due diverse e distinte posizioni
di lavoro (o sedi), rispetto a quella del lavoratore che
fruisce di un solo incarico;
b) se, invece, al di fuori di tale particolare ipotesi, al
lavoratore sia affidato un solo incarico di posizione
organizzativa presso l’ente di appartenenza oppure presso
quello che lo utilizza a tempo parziale oppure nell’ambito
di un servizio in convenzione, l’importo annuale della
retribuzione di posizione e di quella di risultato saranno
quelli ordinariamente previsti per la posizione
organizzativa, sulla base delle previsioni contrattuali
(art. 14 del CCNL del 22.01.2004);
c) nel caso in cui la titolarità di posizione organizzativa
sia stata affidata solo nell’ente di utilizzo, l’importo
annuale della retribuzione di posizione per questa previsto,
deve essere direttamente riproporzionato in relazione alla
minore durata della prestazione lavorativa, dato che
necessariamente parte del tempo di lavoro è dedicata al
servizio dell’ente di appartenenza. Nel caso prospettato
essa sarà pari ad un terzo (12/36) della retribuzione di
posizione stabilita per la posizione organizzativa affidata.
Per ulteriori e più ampie indicazioni, si rinvia agli
orientamenti già predisposti in materia e pubblicati sul
sito istituzionale.
Si coglie l’occasione per ricordare che la durata
dell’incarico di posizione organizzativa non può essere
superiore a 5 anni (art. 9, comma 1, del CCNL del
31.03.1999).
Non viene indicato dalla disciplina contrattuale anche un
periodo minimo di durata che, ragionevolmente, si può
ritenere che non possa essere, ordinariamente, inferiore ad
un anno, tenuto conto dell’obbligo della valutazione annuale
richiesto dalla disciplina legale e contrattuale (parere
22.02.2016 n. RAL-1811 - link a
www.arangenzia.it). |
A.N.AC. (già
AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI) |
APPALTI:
Attuazione dell’art. 6-bis del dlgs 163/2006 introdotto
dall'art. 20, comma 1, lettera a), legge n. 35 del 2012 -
aggiornamento della deliberazione 20.12.2012, n. 111 (delibera
17.02.2016 n. 157 -
link a www.autoritalavoripubblici.it).
---------------
Vigilanza sui contratti pubblici
Banca Dati Nazionale Contratti Pubblici - Articolo 6-bis del
Codice Appalti
Pubblicata la delibera n. 157 del 17.02.2016, recante
l’aggiornamento della Deliberazione dell’Autorità per la
vigilanza sui contratti pubblici 20.12.2012, n. 111
La Delibera, in attuazione a quanto disposto dall’articolo
6-bis del Codice individua i dati concernenti la
partecipazione alle gare e la valutazione delle offerte da
inserire nella BDNCP al fine di consentire alle stazioni
appaltanti/enti aggiudicatori di verificare il possesso dei
requisiti degli OE per l’affidamento dei contratti pubblici;
Istituisce il nuovo sistema di verifica dei requisiti
attraverso la BDNCP, denominato AVCPASS, dotato di apposite
aree dedicate ad OE e a stazioni appaltanti/enti
aggiudicatori; Stabilisce i termini e le regole tecniche per
l’acquisizione, l’aggiornamento e la consultazione dei
predetti dati. |
APPALTI:
Elenco dei soggetti aggregatori (delibera
10.02.2016 n. 125 -
link a www.autoritalavoripubblici.it). |
APPALTI:
Centrali di committenza libere da capitali
privati. Diversamente, per l'Anac
sono cancellate dai soggetti aggregatori.
La presenza di capitale privato in una «centrale di
committenza» legittima la radiazione dall'elenco dei
soggetti aggregatori tenuto dall'Autorità nazionale
anticorruzione.
È questa la ragione principale che ha condotto l'Authority
presieduta da Raffaele Cantone, con la
delibera
10.02.2016 n. 124 resa nota il 16 febbraio, a procedere
all'annullamento, con validità retroattiva, dell'iscrizione
del Consorzio Cev di Verona nella lista dei cosiddetti
soggetti aggregatori, in precedenza disposta con riserva nel
luglio 2015.
L'annullamento segue ad alcune indagini condotte dalla
Guardia di finanza e prende in esame gli elementi che devono
assicurare il principio di indipendenza e la totale assenza
di conflitti di interesse anche potenziali nello svolgimento
delle funzioni della centrale di committenza. L'Autorità ha
in particolare accertato la sussistenza di relazioni di tipo
soggettivo tra gli organi amministrativi del Cev e quelli di
alcune società private di cui il Cev detiene quote di
partecipazione.
Inoltre, la delibera ha anche dato atto che la centrale di
committenza non aveva un dipendente e che le 10 unità
lavorative erano alle dipendenze di una delle società
private partecipate, elemento che ha fatto dire all'Anac che
il Cev non può svolgere alcun ruolo operativo nell'ambito
delle procedure di gara in quanto non è dotato di personale
dipendente.
La particolarità del caso è che inizialmente, rispetto ai
rilievi formulati dall'Anac, il Cev si era anche adeguata a
quanto richiesto dall'Anac ma soltanto formalmente e non
nella sostanza . In particolare, si legge nella delibera, la
dismissione delle quote delle tre società private, detenute
dal Cev al momento dell'iscrizione nell'elenco dei soggetti
aggregatori, nonché la presentazione delle dimissioni di due
consiglieri del cda del Cev ed i minimi adeguamenti operati
alla struttura organizzativa, «non incidono in modo
significativo sulla circostanza della mancata indipendenza
del Consorzio al momento dell'iscrizione all'elenco dei
soggetti aggregatori».
La vicenda del Consorzio Cev richiama, quanto meno per
l'esito, quanto avvenuto con la Asmel (società consortile
che svolge funzione di centrale di committenza per numerosi
comuni) oggetto della delibera (n. 321 del 30.04.2015)
con cui l'Anticorruzione aveva rilevato alcuni profili di
illegittimità proprio dal punto di vista della
partecipazione, più sfumata, di soggetti privati.
Nel caso specifico, l'Anac con la citata delibera aveva
contestato l'attività della Asmel e condannato la presenza
di soggetti privati al suo interno.
In particolare, secondo l'Anac, le gare poste da Asmel erano
prive del presupposto di legittimazione perché non
rispondenti ai modelli organizzativi indicati nel comma
3-bis dell'art. 33 del Codice degli appalti. E' stato poi il
Consiglio di stato, con ordinanza n. 4016 del 9 settembre, a
sospendere l'efficacia della delibera, anche al fine di non
incidere sulle gare in corso di esecuzione. Dovrà essere il
Tar del Lazio ad entrare nel merito
(articolo ItaliaOggi del 26.02.2016). |
APPALTI:
Modifica del Regolamento unico in materia di esercizio
del potere sanzionatorio da parte dell’Autorità mediante
abrogazione espressa dell’Allegato 1 rubricato “Metodo di
calcolo per l’applicazione delle sanzioni ex art. 73 dpr n.
207/2010” e conseguente riformulazione dell’art. 44 del
citato Regolamento (delibera
10.02.2016 n. 115
- link a www.autoritalavoripubblici.it). |
LAVORI PUBBLICI:
Qualificazione, all'Anac solo per il falso con
dolo. Precisazione dell'Autorità per
l'adozione delle sanzioni.
La falsa dichiarazione o la falsa documentazione utilizzata
ai fini della qualificazione delle imprese di costruzioni
legittima la segnalazione all'Anac per l'adozione del
procedimento sanzionatorio soltanto se l'impresa agisce con
dolo, sapendo di avere utilizzato una attestazione scaduta.
Lo ha precisato l'Autorità nazionale anticorruzione con il
comunicato del
Presidente 03.02.2016 reso pubblico
sul sito web dell'Anac il 15 febbraio e indirizzato a tutte
le stazioni appaltanti. Il comunicato chiarisce un punto
molto delicato connesso all'interpretazione dell'articolo
40, comma 9-quater, del codice dei contratti pubblici.
Il consiglio dell'Autorità ha ritenuto che, nel caso di
utilizzazione successiva dell'attestazione, affetta da
falsità, si verifichi un distinto e autonomo fatto illecito,
per il quale, per quanto concerne gli eventuali profili
sanzionatori, ricorre l'applicazione dell'art. 48 del
codice.
Il problema riguarda le imprese che partecipano a gare di
appalto di lavori di valore superiore a 150 mila euro, per
le quali occorre l'attestazione Soa con la consapevolezza
che l'attestato è scaduto. Per l'Anac «la decadenza
dell'attestazione conseguita sulla base di falsa
dichiarazione o falsa documentazione, può produrre effetti
anche ai fini di quanto previsto dall'art. 48, commi 1 e 2,
del dlgs 163/2006».
La ragione di tale assunto risiede nel fatto che è
ampiamente contestabile all'impresa «la consapevole
produzione di un'attestazione di qualificazione affetta da
falsità». E questo fa scattare la fattispecie prevista dalla
norma. In tale circostanza, nel caso di consapevole e
volontaria utilizzazione sanzionatoria prevista dal comma 1,
dell'articolo 48 del codice dei contratti, con l'attivazione
a carico della stazione appaltante sia degli obblighi
sanzionatori ivi previsti sia dell'obbligo di segnalazione
verso l'Autorità, ove il soggetto non risulti già essere
stato escluso dalla gara.
Ma se si verifica quindi questa fattispecie la stazione
appaltante deve accertare che la condotta dell'impresa «sia
già stata profilata nell'ambito del procedimento ex art. 40,
comma 9-quater, del decreto legislativo 163/2006, come
dolosa; solo in tal caso, infatti, si ritiene possa venire
in evidenza l'ipotesi sanzionatoria ex art. 48 del decreto
legislativo 163/2006».
Si tratta del caso nel quale un'impresa presenti una falsa
dichiarazione o falsa attestazione ai fini della
qualificazione. Le Soa devono segnalare la condotta
all'Autorità per l'avvio del procedimento sanzionatorio. In
altre parole, la sanzione si applica soltanto nei casi di
utilizzo della falsa attestazione consapevolmente conseguita
con referenze false e, dunque, ai soli casi di imputabilità
con dolo.
Se ciò viene accertato sarà poi l'Anac stessa ad analizzare
le partecipazioni alle gare dell'impresa coinvolta negli
ultimi cinque anni per poi comunicare gli esiti della
verifica alle amministrazioni che avevano bandito le gare
affinché avviino l'iter di segnalazione che fa scattare il
procedimento sanzionatorio
(articolo ItaliaOggi del 19.02.2016). |
APPALTI SERVIZI: No profit, appalti solo per chi adotta il modello 231.
Anticorruzione. Le istruzioni dell’Anac.
Gli organismi
no-profit che intendono acquisire servizi sociali da
amministrazioni pubbliche devono dotarsi di un modello di
organizzazione per la gestione dei rischi in base alle
previsioni del decreto legislativo 231/2001.
Nella
determinazione 20.01.2016 n. 32, l’Autorità nazionale
anticorruzione evidenzia l’obbligo per i soggetti del terzo
settore assumendo a presupposto sia il tenore letterale
delle previsioni contenute all'articolo 6 del decreto
legislativo (rivolte agli enti forniti di personalità
giuridica, alle associazioni anche prive di personalità
giuridica e alle società private concessionarie di un
pubblico servizio) sia la natura dei servizi erogati.
L’Autorità nazionale anticorruzione richiede agli enti
no-profit di dotarsi di un modello di organizzazione che
preveda soprattutto l’individuazione delle aree a maggior
rischio di compimento di reati e la previsione di idonee
procedure per la formazione e l’attuazione delle decisioni
dell’ente nelle attività definite «a maggior rischio» di
compimento di reati.
Il modello deve contenere anche elementi illustrativi delle
modalità di gestione delle risorse idonee a impedire la
commissione dei reati, e inoltre la previsione di un
appropriato sistema di trasmissione delle informazioni
all’organismo di vigilanza.
La determinazione 32/2016 evidenzia per i soggetti no-profit
anche l’obbligo di nominare l’organismo di vigilanza
deputato al controllo sul funzionamento e sull’osservanza
del modello e al suo aggiornamento (con autonomi poteri di
iniziativa e di controllo); è necessario, poi, prevedere e
attuare adeguate forme di controllo sull’operato
dell’organismo stesso.
Le indicazioni dell’Autorità nazionale anticorruzione
presentano rilevanti implicazioni sulla gestione degli
affidamenti. Anzitutto, l’obbligo previsto nella
determinazione risulta più forte rispetto alla la previsione
dell’articolo 6 del decreto legislativo 231/2001, che
prefigura l’adozione del modello organizzativo nei casi in
cui l’ente voglia evitare di rispondere dei reati commessi
nel suo interesse o a suo vantaggio da dirigenti e altri
dipendenti, ma non ne impone l’utilizzo.
L’adozione del modello organizzativo-gestionale 231 sembra
rientrare nel novero dei requisiti di capacità
tecnico-professionale (articolo 42 del Codice dei
contratti); va tuttavia specificato che in questo caso
l’obbligatorietà verrebbe meno in quanto questi requisiti
possono essere oggetto di scelta da parte delle stazioni
appaltanti in relazione allo screening degli operatori
economici.
Risulta più difficile ipotizzare che l’obbligo sia
configurabile come requisito di ordine generale, poiché
introdurrebbe un’integrazione all’articolo 38 per via non
normativa.
La previsione contenuta nella determinazione 32/2016
sembra esplicarsi meglio nella definizione dell’obbligo tra
i requisiti di esecuzione dell’appalto, ossia tra gli
elementi che regolano la resa delle prestazioni e il
correlato assetto organizzativo essenziale.
Per le stazioni appaltanti, specularmente, potrebbe
prospettarsi la partecipazione alle gare per servizi sociali
di un numero molto limitato di enti no-profit (quelli già
dotati del modello organizzativo previsto dal decreto
legislativo 231), con una riduzione dei margini di offerta:
una riduzione che potrebbe avere conseguenze sotto il
duplice profilo delle proposte tecnico-qualitative e di
quelle economiche (articolo Il Sole 24 Ore del 22.02.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI:
Attuazione dell’art. 1, commi 65 e 67, della legge
23.12.2005, n. 266, per l’anno 2016 (delibera
22.12.2015 n. 163 -
link a www.autoritalavoripubblici.it).
---------------
Entità e modalità di versamento del contributo a favore
dell'Autorità Nazionale Anticorruzione (A.N.AC.), per l'anno
2016. |
QUESITI & PARERI |
ENTI LOCALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/
Referendum solo ex ante. La consultazione deve precedere la
decisione. Se la regione ha già
deciso sull'istituzione di una Asl il quesito è tardivo.
È ammissibile una proposta di referendum comunale avente ad
oggetto il passaggio dello stesso ente locale alla
competenza di una istituenda Asl?
L'ordinamento italiano presta una peculiare attenzione alla
partecipazione diretta del cittadino nella vita delle
istituzioni locali. L'Italia, infatti, ha fatto propri i
principi della Carta europea dell'autonomia locale a cui ha
aderito sottoscrivendo la relativa convenzione, poi
ratificata con la legge 30.12.1989, n. 439.
In particolare, l'articolo 3 della Carta, al comma 2,
riconoscendo alle collettività locali il diritto di
regolamentare ed amministrare, nell'ambito della legge, una
parte importante di affari pubblici mediante consigli e
assemblee costituiti da membri eletti a suffragio libero,
segreto, paritario, diretto e universale, in grado di
disporre di organi esecutivi responsabili nei loro
confronti, ha precisato che «detta disposizione non
pregiudica il ricorso alle assemblee di cittadini, al
referendum, o ad ogni altra forma di partecipazione diretta
dei cittadini qualora questa sia consentita dalla legge».
Gli istituti di partecipazione e gli organismi consultivi
del cittadino trovano una loro concretizzazione nel dlgs n.
267/2000 e, indipendentemente dalla dimensione demografica
dell'ente, fanno parte del contenuto necessario e non
meramente facoltativo dello statuto. Un rinvio allo statuto
è previsto dal comma 3 dell'art. 8 del citato dlgs. n.
267/2000 in merito alla previsione di forme di consultazione
della popolazione, nonché alle procedure per l'ammissione di
istanze, petizioni e proposte di cittadini singoli o
associati dirette a promuovere interventi per la migliore
tutela di interessi collettivi con la determinazione delle
garanzie per il loro tempestivo esame. La norma dispone che
«possono» essere, altresì, previsti referendum anche
su richiesta di un adeguato numero di cittadini, che devono
comunque riguardare materie di esclusiva competenza locale.
Il referendum, si configura, dunque, quale elemento
meramente eventuale e facoltativo dello statuto comunale che
una volta previsto deve essere compiutamente disciplinato
dal regolamento. Rispetto alla normativa previgente è stata
ampliata la valenza dell'istituto del referendum popolare,
attualmente configurabile non più solo come consultivo, ma
anche come abrogativo (di provvedimenti a carattere generale
degli organi istituzionali e burocratici dell'ente),
propositivo (per approvare proposte di atti avanzate dalla
stessa amministrazione o da altri soggetti), confermativo,
di indirizzo e oppositivo-sospensivo.
Come emerge dalla prevalente dottrina, il più volte citato
Tuel nulla dice circa l'effetto dell'esito del referendum
consultivo e gli statuti comunali tendono ad escludere che
l'esito sia vincolante per l'amministrazione, preferendo
precisare che l'ente locale possa discostarsi dallo stesso,
con adeguata motivazione, al fine di tutelare la piena
autonomia politica del consiglio. In tal senso, si è anche
affermato che il potere statutario in materia resta ampio
con riguardo all'oggetto del referendum (che è sufficiente
che rientri tra le materie di competenza esclusiva
dell'ente), alla determinazione del numero dei partecipanti
per la sua validità e alla possibilità di prevedere effetti
consequenziali per l'amministrazione locale legati all'esito
del referendum, con il solo limite della conservazione del
potere decisionale in capo agli organi di governo.
La giurisprudenza amministrativa, inoltre, ha affermato che
«il referendum consultivo impone solo all'amministrazione
che lo ha indetto di tener conto della volontà popolare, ma
non esplica alcun effetto sull'azione amministrativa che ne
è stata oggetto, né tanto meno su vicende successive o di
altre amministrazioni, né la volontà popolare espressa con
il referendum è idonea ad attribuire all'ente locale poteri
estranei alla sfera di attribuzioni fissate con legge»
(Tar Puglia, Bari, sez. II, 10.03.2003, n. 1098).
Nel caso di specie, lo statuto del comune disciplina
l'istituto del referendum comunale su materie concernenti la
sfera esclusiva di competenza comunale con talune eccezioni
ben individuate, e prevede che «il consiglio comunale,
entro un mese dallo svolgimento, deve deliberare prendendo
atto dell'esito ed assumendo le determinazioni del caso».
Il regolamento comunale precisa che il referendum è a
carattere consultivo, stabilisce che i referendum che
possono essere dichiarati non ammissibili dal consiglio
comunale sono solo ed esclusivamente quelli a carattere non
consultivo e/o nelle materie elencate nelle disposizioni
statutarie, e contiene una norma transitoria che, in
relazione alla specifica iniziativa referendaria oggetto
dell'odierno quesito, stabilisce delle prescrizioni tecniche
in deroga al contenuto generale del medesimo provvedimento
normativo.
In merito alla fattispecie in esame, occorre valutare se la
materia oggetto di referendum rientri nella specifica
competenza del consiglio comunale, come richiesto dalle
norme dello Statuto. Ciò anche in considerazione del fatto
che, con apposita legge, la regione competente ha già
proceduto all'accorpamento delle aziende unità sanitarie
locali, confermando l'istituzione della Conferenza regionale
dei sindaci -già disciplinata da precedente normativa
regionale e composta dai presidenti delle conferenze zonali
dei sindaci, ove partecipano tutti i sindaci dell'ambito
territoriale- quale organo attraverso cui tali soggetti
contribuiscono, tra l'altro, alla definizione delle
politiche regionali in materia sanitaria e sociale. L'ente,
pertanto, attraverso i predetti organi, costituiti con legge
regionale, era in condizione di poter esprimere le proprie
posizioni in materia.
Ciò posto, considerato che la regione ha già provveduto a
legiferare sulla materia, l'iniziativa non pare ammissibile
alla luce anche delle pronunce del Consiglio di stato,
secondo cui «le consultazioni costituiscono strumento di
partecipazione popolare all'elaborazione delle scelte
amministrative, non strumento di verifica a posteriori da
parte dei cittadini di scelte già definite con formali
provvedimenti amministrativi. L'attività consultiva, per
propria natura, deve precedere l'attività decisionale, non
seguirla»
(articolo ItaliaOggi del 26.02.2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: chiarimenti su onerosità per interventi di
ristrutturazione edilizia attinenti ai prospetti
(Regione Emilia Romagna,
parere
22.02.2016 n. 113406 di prot.). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Utilizzo del simbolo della lista da parte dei gruppi
consiliari.
Nel caso di uscita di un componente dal
gruppo originario e suo inserimento nel gruppo misto, si
ritiene che lo stesso non possa mantenere nome e simbolo del
gruppo che ha abbandonato, il quale ne resta titolare.
Il Consigliere comunale chiede un parere in merito a chi
spetti la conservazione del simbolo di un gruppo consiliare
[1]
composto da due consiglieri, qualora uno di essi abbandoni
il gruppo di originaria appartenenza per confluire nel
costituendo gruppo misto.
Sentito il Servizio Consiglio autonomie locali ed
elettorale, si formulano le seguenti considerazioni.
In linea generale, si osserva che la gestione
dell'articolazione e del funzionamento dei gruppi consiliari
rientra nell'ambito della più ampia autonomia funzionale ed
organizzativa di cui i consigli sono dotati ai sensi
dell'articolo 38 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267.
La norma si limita a definire per linee generali l'esistenza
di tali aggregazioni di carattere politico all'interno del
consiglio comunale, lasciando alla normativa interna di
dettaglio la piena discrezionalità in ordine alla disciplina
della loro articolazione e delle vicende iniziali e di
quelle successive che caratterizzeranno la loro esistenza
nel corso del mandato.
Con riferimento alla fattispecie in esame, consistente
nell''uscita' di un componente dal gruppo originario
e suo inserimento nel gruppo misto, si ritiene che lo stesso
non possa mantenere nome e simbolo del gruppo che ha
abbandonato, il quale ne resta titolare.
[2]
Non si reputa, altresì, utile, come prospettato dal
consigliere, fare ricorso, in via interpretativa, alla norma
regolamentare riguardante la modificazione della
denominazione da parte di un gruppo consiliare nel corso del
mandato amministrativo, [3]
atteso che la stessa pare non adattabile al caso in esame
concernente la diversa ipotesi di costituzione di un gruppo
misto il quale assumerà, necessariamente, la relativa
denominazione.
Con riguardo, più propriamente, all'utilizzazione del
simbolo corrispondente alla lista presentata alle elezioni
da parte del consigliere uscito dal gruppo di originaria
appartenenza, premesso che non risulta possibile l'utilizzo
del medesimo simbolo da parte di due distinti gruppi
consiliari, e considerato che il gruppo misto è quello in
cui confluiscono tutti i consiglieri che non si identificano
in alcun gruppo costituito ovvero che non possono costituire
un proprio gruppo per mancanza delle condizioni previste
dalla normativa dell'Ente, deriva l'oggettiva impossibilità
per il consigliere costituente il gruppo misto di avvalersi
del simbolo della lista con cui si era presentato alle
elezioni a indicazione del gruppo misto di nuova
appartenenza.
Da ultimo, quanto alla proposta avanzata dal consigliere
concernente l'introduzione in sede regolamentare di
disposizioni più specifiche volte a dirimere ipotesi
particolari quale quella verificatasi nel caso in esame, si
osserva che la fonte deputata a contenere la disciplina dei
gruppi consiliari è, in linea di principio, il regolamento
del Consiglio comunale. Nel contempo, sembra che il livello
di dettaglio consentito a detta fonte debba comunque tenere
in considerazione il grado di autonomia dei gruppi
consiliari stessi. La disciplina relativa ai gruppi
consiliari, per quanto concerne le questioni 'interne'
al gruppo stesso, è infatti rimessa all'autonoma regolazione
da parte del gruppo (tra queste pare possa farsi rientrare
l'individuazione della denominazione del gruppo e del
proprio simbolo di riferimento).
Atteso un tanto, e considerata l'impossibilità di porre una
disciplina specifica per tutte le possibili situazioni
riguardanti i gruppi consiliari, risulta necessario valutare
l'opportunità di inserire, nel regolamento consiliare
dell'Ente, disposizioni di eccessivo dettaglio, che non
sarebbero comunque idonee a contemplare ogni fattispecie
potenzialmente realizzabile, sembrando a tal fine di
maggiore utilità la determinazione di norme regolamentari di
principio la cui applicazione garantisca il funzionamento
del Consiglio comunale. Tanto più che, nel caso in esame, la
situazione concreta venutasi a realizzare non necessita di
un intervento sulle norme regolamentari esistenti, potendosi
addivenire ad una soluzione della questione sorta sulla base
dei principi generali sopra esposti.
---------------
[1] Tale simbolo è quello della lista presentata alle
elezioni.
[2] In questo senso si veda parere dell'ANCI del 04.03.2011.
Nello stesso senso si è, espresso questo Ufficio nel parere
del 07.03.2007 (prot. n. 3758/1.3.16).
[3] Recita l'articolo 8, comma 6, del regolamento del
consiglio comunale: 'Un gruppo consiliare -tramite il
proprio Capo gruppo- può modificare la propria denominazione
durante il corso del mandato amministrativo, purché i
componenti del nuovo gruppo facciano riferimento allo stesso
candidato sindaco ed la suo programma elettorale depositato
prima delle elezioni amministrative. Dalla data di
modificazione del nuovo gruppo, vengono a cessare i Capi
gruppo consiliari confluenti nel gruppo di nuova
denominazione ed i componenti del nuovo gruppo procederanno
alla designazione del nuovo Capo gruppo. L'eventuale cambio
di denominazione deve essere sollecitamente comunicato al
Segretario comunale, al Sindaco, al Presidente del Consiglio
ed ai capigruppo consiliari, per opportuna conoscenza e per
consentire gli eventuali adempimenti amministrativi che si
rendessero necessari' (19.02.2016 -
link a
www.regione.fvg.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Esercizio del diritto di accesso agli atti dei consiglieri
comunali.
Il diritto all'informazione riconosciuto
ai consiglieri comunali per l'utile espletamento del loro
mandato soggiace al rispetto di alcune forme e modalità tese
ad evitare che l'attività degli uffici venga manifestamente
ostacolata da domande che si convertono in un eccessivo e
minuzioso controllo dei singoli atti da parte degli
amministratori o, comunque, in richieste che arrechino
nocumento all'azione amministrativa.
Il Comune chiede un parere in merito alle modalità con cui consentire ad
un consigliere comunale l'accesso agli atti. In particolare,
l'amministratore locale ha chiesto copia in formato digitale
di tutti i verbali del consiglio comunale di una serie di
annate pregresse.
Sentito il Servizio Consiglio autonomie locali ed elettorale
si formulano le seguenti considerazioni.
L'articolo 43, comma 2, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 riconosce in modo puntuale ai consiglieri
comunali il diritto di ottenere dagli uffici del comune
tutte le notizie e le informazioni in loro possesso utili
all'espletamento del proprio mandato.
Si osserva, in via generale, che la giurisprudenza ha
costantemente sottolineato che le informazioni acquisibili
debbano considerare l'esercizio, in tutte le sue potenziali
esplicazioni, del munus di cui ciascun consigliere comunale
è individualmente investito, in quanto membro del consiglio.
Ne deriva che tale munus comprende la possibilità per ogni
consigliere di compiere, attraverso la visione dei
provvedimenti adottati e l'acquisizione di informazioni, una
compiuta valutazione della correttezza e dell'efficacia
dell'operato dell'amministrazione comunale, utile non solo
per poter esprimere un voto maggiormente consapevole sugli
affari di competenza del consiglio, ma anche per promuovere,
nell'ambito del consiglio stesso, le varie iniziative
consentite dall'ordinamento ai membri di quel collegio.
[1]
Tale diritto incontra, comunque, il divieto di usare i
documenti per fini privati o comunque diversi da quelli
istituzionali. I dati acquisiti in virtù della carica
ricoperta devono, infatti, essere utilizzati esclusivamente
per le finalità collegate all'esercizio del mandato
(presentazione di mozioni, interpellanze, espletamento di
attività di controllo politico-amministrativo, ecc.).
Sul consigliere comunale, inoltre, non può gravare alcun
onere di motivare le proprie richieste di informazione, né
gli uffici comunali hanno titolo a richiedere le specifiche
ragioni sottese all'istanza di accesso, né a compiere alcuna
valutazione circa l'effettiva utilità della documentazione
richiesta ai fini dell'esercizio del mandato. Infatti,
secondo la giurisprudenza, diversamente opinando, la
struttura burocratica comunale si ergerebbe ad 'arbitro'
delle forme di esercizio delle potestà pubbliche proprie
dell'organo (consiglio comunale) deputato all'individuazione
ed al miglior perseguimento dei fini della collettività
civica.
[2]
Come affermato dalla giurisprudenza, gli unici limiti a tale
diritto di accesso sono da rinvenire: 'a) nella formalità,
minima, dell'esatta indicazione dei documenti richiesti, dei
quali, ancorché non sia necessaria la menzione degli estremi
identificativi precisi, occorre peraltro fornire almeno gli
elementi identificativi;
[3] b) nel fatto che tale diritto,
pur essendo più ampio di quello riconosciuto alla generalità
dei cittadini ai sensi degli artt. 22 ss., l. 07.08.1990
n. 241, non solo non può essere emulativo ma neppure
incondizionato e comunque fondato su richieste generiche e
indiscriminate, ma soggiace alle limitazioni derivanti dalla
molteplicità dei servizi che il Comune deve assicurare agli
amministrati e dal rispetto degli impegni di contenimento
delle spese generali di gestione dell'ente'.
[4]
Sulla stessa
linea si è espresso il Consiglio di Stato anche in altre
pronunce,
[5]
ove ha sottolineato la necessità che le
istanze di accesso del consigliere siano soggette al
rispetto di alcune formalità e modalità. Afferma il Supremo
giudice amministrativo: 'In effetti, oltre alla necessità
che l'interessato alleghi la sua qualità, permane l'esigenza
che le istanze siano comunque formulate in maniera specifica
e dettagliata, recando l'esatta indicazione degli estremi
identificativi degli atti e dei documenti o, qualora siano
ignoti tali estremi, almeno degli elementi che consentano
l'individuazione dell'oggetto dell'accesso (tra le molte
Cons. Stato, Sez. V, 13.11.2002, n. 6293). Tali
cautele derivano dall'esigenza che il consigliere comunale
non abusi, infatti del diritto all'informazione
riconosciutogli dall'ordinamento, piegandone le alte
finalità a scopi meramente emulativi od aggravando
eccessivamente, con richieste non contenute entro immanenti
limiti della proporzionalità e della ragionevolezza, la
corretta funzionalità amministrativa dell'ente civico'.
In altri termini, la giurisprudenza ha precisato come il
diritto all'informazione riconosciuto ai consiglieri
comunali per l'utile espletamento del loro mandato soggiace
al rispetto di alcune forme e modalità tese ad evitare che
l'attività degli uffici venga manifestamente ostacolata da
domande che si convertono in un eccessivo e minuzioso
controllo dei singoli atti da parte degli amministratori o,
comunque, in richieste che arrechino nocumento all'azione
amministrativa. 'Invero, l'articolo 43 del D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, che detta una particolare modalità di accesso
agli atti per il consigliere comunale, ai fini
dell'esercizio del mandato di cui è attributario, non può
essere utilizzato per porre in essere strategie
ostruzionistiche o di paralisi dell'attività amministrativa
con istanze che, a causa della loro continuità e numerosità,
potrebbero determinare un aggravio notevole del lavoro negli
uffici ai quali sono rivolte'.
[6]
Con riferimento specifico alla situazione posta si rileva,
altresì, che la giurisprudenza
[7]
ha precisato che va
ritenuta astrattamente ammissibile anche la richiesta di
ostensione di atti e documenti relativi a procedimenti ormai
conclusi o risalenti ad epoche remote, non potendosi
escludere a priori il verificarsi di situazioni in cui i
consiglieri comunali possano avere l'esigenza di conoscere
approfonditamente pregresse vicende gestionali dell'ente
locale, nel quale espletano il loro mandato.
Da quanto sopra esposto, riconosciuto, da un lato, il
diritto del consigliere a prendere visione ed estrarre copia
degli atti richiesti (purché -si ribadisce- la richiesta
di accesso sia contenuta entro gli immanenti limiti della
proporzionalità e della ragionevolezza) e, dall'altro,
quello dell'amministrazione a non subire un eccessivo
aggravio alla corretta funzionalità dei propri uffici, si
ritiene che l'amministrazione comunale possa concordare con
il richiedente le modalità più consone per garantire il
soddisfacimento dell'istanza di accesso.
A tale riguardo, la
visione degli atti da parte del richiedente potrebbe essere prodromica alla indicazione da parte dello stesso degli atti
selezionati e ritenuti rilevanti, fra quelli visionati, ai
fini dell'estrazione della copia. Qualora, invece,
l'amministratore locale avesse necessità di ottenere la
totalità dei verbali afferenti le annualità segnalate, si
rammenta che, qualora la documentazione richiesta sia
particolarmente copiosa è dato all'amministrazione locale
'dilazionare opportunamente nel tempo il rilascio delle
copie richieste, al fine di contemperare tale adempimento
straordinario con l'esigenza di assicurare l'adempimento
dell'attività ordinaria'.
[8]
Quanto, poi, al fatto di fornire la documentazione su
supporto informatico invece che cartaceo la Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
[9]
con riferimento
alla possibilità di avere copia di documenti in formato
digitale avanzata da un cittadino, ha affermato che:
'L'Amministrazione ha discrezionalità nel determinare [...]
le modalità dell'esercizio del diritto di accesso qualora
siano finalizzate ad agevolare e semplificare le operazioni
di visione e/o di rilascio di copia dei documenti richiesti.
L'art. 13 del d.P.R. n. 184/2006 prevede, inoltre, che le
pubbliche amministrazioni 'assicurano che il diritto di
accesso possa essere esercitato in via telematica'.
Ovviamente questa è una possibilità e non un obbligo per la
P.A. alla quale spetta la competenza regolamentare di
disciplinare il diritto di accesso secondo modalità che non
pregiudichino o appesantiscano l'ordinaria attività
amministrativa. [...]'.
[10]
Da ultimo si ricorda la possibilità per l'Ente locale,
nell'ambito della propria autonomia, di disciplinare con
regolamento le modalità di esercizio del diritto di accesso
da parte dei consiglieri comunali, in modo tale da
conciliare le prerogative agli stessi spettanti con
l'esigenza dell'amministrazione al regolare svolgimento
della propria attività.
---------------
[1] Cfr. Consiglio di Stato, sez. V, sentenze 21.02.1994, n. 119,
08.09.1994, n. 976, 26.09.2000,
n. 5109, che precisano che la facoltà di esaminare ed
estrarre copia dei documenti da parte del consigliere spetta
'a qualunque cittadino che vanti un proprio interesse
qualificato e sono, a maggior ragione, contenute nella più
ampia e qualificata posizione di pretesa all'informazione
spettante ratione officii al consigliere comunale'. Tale
principio è stato, successivamente, ripreso e confermato dal
TAR Piemonte, Sez. II, nella sentenza del 31.07.2009,
n. 2128. Di recente il TAR Calabria, Catanzaro, sez. II,
nella sentenza del 13.02.2015, n. 294 ha esplicitato
ulteriormente il principio di cui sopra. Si legge
nell'indicata sentenza che: 'La normativa delineata dal
successivo D.Lgs. 18.08.2000, n. 267 ha inteso
rafforzare i compiti di indirizzo e controllo politico
amministrativo, da parte del consiglio comunale e dei
singoli consiglieri, collocandosi in un contesto giuridico
caratterizzato dall'affievolimento del controllo da parte di
organi statali e regionali, dalla previsione di poteri più
incisivi in capo agli esecutivi comunali nonché dalla
distinzione dei compiti e responsabilità fra amministrazioni
e dirigenti locali.
In tale prospettiva, il diritto-dovere
del consigliere dell'ente locale di partecipare alla vita
politico-amministrativa, in funzione anche del perseguimento
fattuale dell'ordinato e corretto svolgersi delle sedute
consiliari e del rispetto della legalità di ogni fase
procedurale delle riunioni del Consiglio Comunale, trova un
particolare punto di riferimento nell'art. 43, comma 2, del D.Lgs. 18.08.2000 n. 267 [...] Dal riconoscimento, in
capo al consigliere comunale, della titolarità di un diritto
'soggettivo pubblico funzionalizzato' all'accesso agli atti
'muneris causa', discende l'assenza dell'onere della
motivazione e l'esclusione della possibilità, da parte della
P.A., di sindacare il collegamento tra i documenti chiesti
in ostensione ed il mandato consiliare, per tutto il tempo
in cui la P.A. continua a detenere detti documenti'.
[2] Così Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 02.09.2005, n. 4471. Cfr. anche Consiglio di Stato, sez.
V, sentenza del 20.10.2005, n. 5879 e, più di recente,
TAR Calabria, Catanzaro, sez. II, sentenza 294/2015
citata in nota 1.
[3] Circa la necessità che le istanze di accesso del
consigliere 'siano comunque formulate in maniera specifica e
dettagliata, recando l'esatta indicazione degli estremi
identificativi degli atti e dei documenti o, qualora siano
ignoti tali estremi, almeno degli elementi che consentano
l'individuazione dell'oggetto dell'accesso' si è espresso di
recente il Consiglio di Stato, sez. V, nella sentenza
dell'11.02.2014, n. 648, la quale richiama, a propria
volta, la sentenza del medesimo giudice, sez. V, del 13.11.2002, n. 6293.
[4] TAR Piemonte, sez. II, sentenza del 31.07.2009,
n. 2128.
[5] Consiglio di Stato, sez. V, sentenza dell'11.12.2013, n. 5931, richiamata da Consiglio di Stato, sez. V,
sentenza dell'11.02.2014, n. 648.
[6] TAR Calabria, Catanzaro, sentenza 294/2015, sopra
citata.
[7] Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 02.09.2005, n. 4471.
[8] Così Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi, parere del 17.01.2012. Per completezza
espositiva si ritiene utile riportare l'intero testo del
parere citato. Esso recita: 'L'accesso ai documenti deve
essere concesso nei tempi più celeri e ragionevoli possibili
in modo tale da consentire il concreto espletamento del
mandato da parte del Consigliere ex art. 43 TUEL, fatti
salvi i casi di abuso del diritto all'informazione, attuato
con richieste non contenute entro i limiti della
proporzionalità e della ragionevolezza e che determinino un
ingiustificato aggravio dell'ente. È necessario che il
Comune garantisca l'accesso al consigliere comunale
nell'immediatezza, e comunque nei tempi più celeri e
ragionevoli possibili (soprattutto nei casi di procedimenti
urgenti o che richiedano l'espletamento delle funzioni
politiche). Qualora l'accesso non possa essere garantito
subito (per eccessiva gravosità della richiesta), rientrerà
nelle facoltà del responsabile del procedimento dilazionare
opportunamente nel tempo il rilascio delle copie, ferma
restando la facoltà del consigliere comunale di prendere
visione, nel frattempo, di quanto richiesto negli orari
stabiliti presso gli uffici comunali competenti, anche con
mezzi informatici'.
[9] Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi,
parere del 13.04.2010. Sulla legittimità del rilascio di
documenti su supporti informatici si è espresso
favorevolmente anche il Ministero dell'Interno con parere
del 28.04.2015.
[10] Si ricorda, inoltre, che l'articolo 2, comma 1, del
decreto legislativo 07.03.2005, n. 82 (Codice
dell'amministrazione digitale) afferma che '[...] le
autonomie locali assicurano la disponibilità, la gestione,
l'accesso, la trasmissione, la conservazione e la fruibilità
dell'informazione in modalità digitale e si organizzano ed
agiscono a tale fine utilizzando con le modalità più
appropriate le tecnologie dell'informazione e della
comunicazione' (19.02.2016 -
link a
www.regione.fvg.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/ Quorum, vince lo statuto.
In caso di contrasto con il regolamento. Cosa accade se le
due fonti prevedono numeri diversi per le sedute.
Qual è la normativa da applicare, in ordine alla definizione
del quorum strutturale stabilito per la validità delle
sedute del consiglio comunale, in caso di contrasto tra
previsione statutaria e norma regolamentare?
L'art. 38, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000,
demanda al regolamento comunale, «nel quadro dei principi
stabiliti dallo statuto», la determinazione del «numero dei
consiglieri necessario per la validità delle sedute», con il
limite che tale numero non può, in ogni caso, scendere sotto
la soglia del «terzo dei consiglieri assegnati per legge
all'ente, senza computare a tale fine il sindaco e il
presidente della provincia»; quest'ultimo assunto deve
essere inteso nel senso che, limitatamente al computo del
«terzo» dei consiglieri, il sindaco deve essere escluso.
Nel caso di specie è stato rilevato un contrasto tra la
previsione recata dallo statuto comunale e la disciplina
prevista dal regolamento sul funzionamento del consiglio
dell' ente locale.
La prima delle due fonti normative, infatti, prevede, in
prima convocazione, la presenza della maggioranza assoluta
dei consiglieri assegnati al fine della validità delle
sedute e, in seconda convocazione, la presenza di almeno sei
consiglieri, non computando il sindaco. Ai sensi della norma
regolamentare è, invece, previsto che, per la validità delle
sedute di seconda convocazione, sia necessaria la presenza
di almeno un terzo dei consiglieri assegnati su un totale di
12 consiglieri oltre al sindaco.
Secondo il principio della gerarchia delle fonti,
conformemente anche all'articolo 7 del citato Tuel, che
disciplina l'adozione dei regolamenti comunali «nel rispetto
dei principi fissati dalla legge e dallo statuto» (cfr.
sentenza Tar Lombardia, Brescia, n. 2625 del 28.12.2009, Tar Lazio, n. 497 del 2011), la citata disposizione
regolamentare dovrebbe essere disapplicata, prevalendo la
norma statutaria.
È, tuttavia, opportuno comporre la discrasia evidenziata;
l'ente dovrà, pertanto, porre in essere un intervento
correttivo volto ad armonizzare le previsioni recate dalle
citate fonti di autonomia locale
(articolo ItaliaOggi del 19.02.2016). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/ Voto del vicesindaco.
È legittima una delibera di consiglio comunale adottata con
il voto espresso anche dal vicesindaco dell'ente?
Il Consiglio di stato, con parere n. 94/96 del 21.02.1996, ha
escluso che nel novero dei poteri vicari del vicesindaco
rientri l'esercizio delle funzioni di componente del
consiglio con diritto di voto.
Nel caso di specie, la deliberazione consiliare in questione
sarebbe stata approvata anche senza computare il voto
espresso dal vicesindaco, pertanto occorre valutare se sia
opportuno provvedere al ritiro della stessa, ove fosse
inficiata da vizi di legittimità.
In merito il Consiglio di stato, V sezione, con sentenza n.
1564 del 2005, con riferimento alla circostanza che la
delibera adottata sopravviva alla cosiddetta «prova di
resistenza», ha affermato che una giusta composizione tra
l'esigenza di reintegrare la legittimità violata nel corso
delle operazioni di voto e quella di salvaguardare la
volontà espressa dall'organo deliberante non consente di
pronunciare l'annullamento degli atti impugnati e dei voti
così espressi, se la loro illegittimità non influisca in
concreto sull'esito della deliberazione.
Circa il superamento della «prova di resistenza», questa è
del tutto irrilevante quando la controversia sia riferita
alla violazione degli obblighi di astensione gravanti sugli
amministratori locali ai sensi della vigente normativa in
materia (cfr. Consiglio di stato sez. IV 20/12/2013 n. 6177).
Nella fattispecie in esame, potrebbe farsi ricorso
all'istituto della convalida amministrativa grazie al quale,
qualora si sia in presenza di un atto annullabile, la
pubblica amministrazione, in virtù del principio di
conservazione degli atti giuridici, può decidere di
mantenere in vita tale atto, rimuovendo i vizi che lo
inficiano attraverso l'espressione di una manifestazione di
volontà finalizzata a eliminare il vizio ravvisato.
Infatti, la convalida si sostanzia in una nuova e autonoma
manifestazione di volontà che, collegandosi all'atto
originario, ne mantiene gli effetti fin dal momento in cui
esso venne emanato.
La legge n. 15 del 2005 ha modificato la legge n. 241 del
1990, introducendo l'art. 21-nonies che, al comma 2, prevede
la possibilità di convalida del provvedimento annullabile,
entro un termine ragionevole, nel caso in cui ne sussistano
le ragioni di pubblico interesse
(articolo ItaliaOggi del 19.02.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO:
OGGETTO: Articolo 1, comma 972, della legge 28.12.2015,
n. 208 (legge di stabilità 2016) (Ministero
dell'Economia e delle Finanze, Ragioneria Generale dello
Stato,
nota 27.01.2016 n. 6418 di prot.).
---------------
Chiarimenti in merito alla spettanza agli addetti del Corpo
di polizia Locale del contributo straordinario previsto
dall'articolo 1, comma 972, della legge 28.12.2015, n. 208
(legge di stabilità 2016). |
CORTE DEI CONTI |
LAVORI PUBBLICI:
Sulla possibilità, in base alla normativa vigente, di
prevedere in un regolamento comunale ad hoc, la
compensazione dei debiti avanzati da terzi consentendo a
tali terzi di essere autorizzati ad eseguire opere pubbliche
per l'intero importo del debito comprensivo degli interessi
maturati, previa apposita progettazione interamente
comunale, senza l'espletamento delle procedure ad evidenza
pubblica trattandosi di compensazione (art. 7, comma 8,
Legge 05.06.2003 n. 131).
La Sezione risponde negativamente al
quesito sottoposto, atteso che il D.Lgs. n. 163/2006 impone
alle “amministrazioni aggiudicatrici”, come definite
all’art. 3, comma 25, del medesimo decreto, e con esclusione
delle sole ipotesi tassativamente previste in via
d’eccezione, di osservare le regole della c.d. evidenza
pubblica per la conclusione di contratti aventi per oggetto
l'acquisizione di servizi, prodotti, lavori e opere.
La natura assolutamente inderogabile della citata normativa
rende pertanto del tutto impraticabile qualunque
comportamento che di fatto ne realizzi una sostanziale
elusione. Il contratto concluso senza l’osservanza delle
prescritte procedure di legge sarebbe dunque affetto da
nullità per violazione di norma imperativa, ex art. 1418,
comma 1, Cod. civ., oltre a determinare l’emersione in capo
agli autori di tali condotte delle connesse ipotizzabili
responsabilità, primariamente di carattere amministrativo.
D’altro canto, l’istituto della compensazione tra debiti (o
crediti) -quale modo di estinzione dell’obbligazione
alternativo all’adempimento- non potrebbe trovare
operatività nel caso di specie, essendo solo uno esistente,
mentre l’altro (quello dell’appaltatore nei confronti del
committente) futuro e peraltro del tutto eventuale, venendo
ad esistenza unicamente a seguito della integrale e
soddisfacente realizzazione dell’opera.
Infatti, ai sensi dell’art. 1242, comma 1, primo periodo,
c.c. la compensazione opera tra crediti reciproci omogenei,
liquidi ed esigibili, esclusivamente dal momento in cui i
rapporti vengono a coesistere.
---------------
Il Sindaco del Comune di Pozzilli (IS), con nota n.
74 del 05.01.2016, registrata in data 07.01.2016 al
protocollo di questa Sezione n. 3-07/01/2016-SC_MOL-T79-A,
ha inviato una richiesta di parere in merito alla
possibilità, in base alla normativa vigente, di
prevedere, in un regolamento comunale ad hoc, la
compensazione dei debiti di cui terzi risultano titolari,
consentendo a tali terzi di essere autorizzati ad eseguire
opere pubbliche per l’intero importo del debito comprensivo
degli interessi maturati, previa apposita progettazione
comunale, senza l’espletamento delle procedure ad evidenza
pubblica trattandosi di compensazione.
...
Com’è noto il D.Lgs. 12/04/2006, n. 163 (“Codice dei
contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in
attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE”)
impone alle “amministrazioni aggiudicatrici”, come
definite all’art. 3, comma 25, del medesimo decreto, e con
esclusione delle sole ipotesi tassativamente previste in via
d’eccezione, di osservare le regole della c.d. evidenza
pubblica per la conclusione di contratti aventi per oggetto
l'acquisizione di servizi, prodotti, lavori e opere.
La natura assolutamente inderogabile della citata normativa
rende pertanto del tutto impraticabile qualunque
comportamento che di fatto ne realizzi una sostanziale
elusione. Il contratto concluso senza l’osservanza delle
prescritte procedure di legge sarebbe dunque affetto da
nullità per violazione di norma imperativa, ex art. 1418,
comma 1, cod. civ., oltre a determinare l’emersione in capo
agli autori di tali condotte delle connesse ipotizzabili
responsabilità, primariamente di carattere amministrativo.
D’altro canto, appare tanto meno plausibile la
giustificazione addotta dall’Ente al fine di soprassedere
allo svolgimento di regolare gara pubblica, non potendo nel
caso di specie trovare operatività l’istituto della
compensazione tra debiti (o crediti) di cui solo uno
esistente, essendo l’altro futuro e peraltro del tutto
eventuale.
Invero, com’è noto, ai sensi dell’art. 1242, comma 1, primo
periodo, c.c. la compensazione, quale modo di estinzione
dell’obbligazione alternativo all’adempimento, opera tra
crediti reciproci omogenei, liquidi ed esigibili,
esclusivamente dal momento in cui i rapporti vengono a
coesistere.
Ne deriva che tale istituto non potrebbe –neppure in
ipotesi– trovare applicazione nel caso in questione, in
quanto uno dei due crediti (quello dell’appaltatore nei
confronti del committente) oltre ad essere futuro risulta di
verificazione del tutto eventuale, venendo ad esistenza
unicamente a seguito della integrale e soddisfacente
realizzazione dell’opera.
Alla luce delle considerazioni svolte, il Collegio conclude
pertanto rispondendo negativamente al quesito sottoposto
(Corte dei Conti, Sez. controllo Molise,
parere 21.01.2016 n. 12). |
TRIBUTI:
Tributi locali, blocco assoluto. Congelati il
contributo di sbarco e l'imposta di soggiorno.
I paletti della Corte conti Abruzzo: vietato
anche ridurre le agevolazioni ai contribuenti.
Nessuno spiraglio per superare il blocco
dei tributi locali.
Ai dubbi e alle incertezze sollevati dalle amministrazioni
locali sui limiti che la legge di stabilità 2016 ha fissato
agli aumenti di aliquote e tariffe, ha dato una risposta
chiara la Corte dei conti, sezione regionale di controllo
per l'Abruzzo, con il
parere 09.02.2016 n. 35, il quale ha
affermato che non esistono margini di manovra per effettuare
delle scelte di politica fiscale che possano comportare un
aumento della tassazione.
Al di là della formulazione
letterale della norma che si limita a imporre la sospensione
degli aumenti, per i giudici contabili la ratio legis è
quella di porre un freno all'innalzamento della pressione
fiscale a livello locale. Non rientra nel blocco solo ciò
che è espressamente escluso, come la Tari. Soni esonerati
dal vincolo anche gli enti locali che si trovano in uno
stato di dissesto o predissesto.
In queste settimane sono stati manifestati dei dubbi da
funzionari e dirigenti degli enti locali sui limiti del
blocco. In particolare, se è impedito istituire nuovi
tributi (imposta di soggiorno, imposta di scopo), se è
impossibile rimodulare le aliquote deliberate per
l'addizionale Irpef rapportate ai vari scaglioni di reddito
o fissare tariffe più elevate rispetto al 2015 per il nuovo
contributo di sbarco, sostitutivo dell'imposta di sbarco,
tenuto conto che è stato previsto proprio da una
disposizione di legge a partire dal 2016.
Secondo i giudici
contabili, che richiamano precedenti pareri espressi in
passato, unico obbiettivo dello stop all'aumento di imposte
e tasse negli enti locali è quello di contenere il livello
della pressione fiscale. Il blocco per il 2016 non è però
limitato solo al contenimento di aliquote e tariffe, ma
impedisce anche l'istituzione di nuovi tributi. Non va dato
rilievo alla differenza terminologica tra «aumento» e
«istituzione», poiché ciò che conta è che rimanga invariato
il carico fiscale sui contribuenti, siano essi residenti o
meno nel territorio comunale.
Ecco perché non è consentito
istituire neppure l'imposta di soggiorno, ancorché siano
soggetti al prelievo solo i non residenti. Allo stesso modo
non è possibile ridurre le agevolazioni già concesse ai
contribuenti. Sono escluse dal blocco la Tari, il cui
gettito serve a coprire integralmente il costo del servizio
di smaltimento rifiuti, e tutte le entrate che hanno natura
patrimoniale, come il canone occupazione spazi e aree
pubbliche, il canone idrico e via dicendo. Non sono soggetti
al vincolo gli enti che hanno deliberato il predissesto o il
dissesto.
L'articolo 1, comma 26, della legge di stabilità 2016
(208/2015), dunque, non consente di introdurre nuovi tributi
o aumenti di aliquote e tariffe, anche se le relative
delibere sono state adottate prima dell'entrata in vigore
della norma (1° gennaio). Peraltro, non solo è impossibile
ritoccare in aumento aliquote o tariffe, ma è anche impedito
che possano essere aboliti benefici già deliberati dagli
enti (aliquote agevolate, riduzioni, detrazioni), che
comunque inciderebbero sul carico fiscale e darebbero luogo
a un innalzamento della tassazione.
Tuttavia, questi vincoli non producono effetti per le
entrate che hanno natura patrimoniale o extratributaria. Al
riguardo, vi sono delle incertezze sulle entrate che devono
sottostare al divieto imposto dalla legge e questo dipende
anche dalla loro controversa natura. Va ricordato che il
canone per l'occupazione di spazi e aree pubbliche (Cosap)
ha natura patrimoniale. Sono entrate patrimoniali anche il
canone idrico e il canone depurazione.
Non è ammesso
l'aumento delle tariffe, invece, per il canone installazione
mezzi pubblicitari (Cimp) che, nonostante la trasformazione
da imposta a canone eventualmente operata
dall'amministrazione comunale, mantiene la sua natura
tributaria. Soggiace al blocco anche il diritto sulle
pubbliche affissioni, ancorché non sia mai stata del tutto
pacifica la sua natura giuridica
(articolo ItaliaOggi del 26.02.2016). |
NEWS |
APPALTI:
Acquisti centralizzati con tre soglie.
Scelte autonome fino a 150mila euro per i lavori e a 40mila
euro per beni e servizi.
Spending. La bozza di decreto legislativo di attuazione del
nuovo Codice appalti cambia ancora una volta le regole da
seguire.
La
centralizzazione degli acquisti di beni e servizi cambia
volto, con un assetto su tre livelli, e si correla con la
qualificazione delle stazioni appaltanti.
Il nuovo Codice degli appalti e delle concessioni assorbe
nel suo quadro normativo la disciplina dei modelli di
aggregazione per le acquisizioni di servizi, forniture e
lavori, definendo gli spazi di intervento delle singole
amministrazioni, delle centrali di committenza su base
locale e dei soggetti aggregatori.
Le disposizioni contenute nello
schema di decreto
legislativo, che sarà varato dal Consiglio dei ministri nei
prossimi giorni, individuano un primo livello, rapportato
alla soglia dei 40mila euro per i beni e i servizi e alla
soglia dei 150mila euro per i lavori, nell’ambito del quale
le amministrazioni aggiudicatrici possono operare
autonomamente, senza necessità di qualificazione,
rispettando gli obblighi di utilizzo degli strumenti
elettronici (Mepa e piattaforme telematiche).
Lo stesso
margine di operatività in autonomia è garantito in relazione
all’utilizzo degli strumenti di acquisto (ad esempio
convenzioni e accordi quadro) messi a disposizione dai
soggetti aggregatori (Consip, centrali di committenza
regionali, alcune città metropolitane e province).
Per effettuare acquisti di importo superiore alle due
soglie, le amministrazioni devono ottenere, come stazioni
appaltanti, la qualificazione, che ne dimostri le capacità
organizzative e funzionali a gestire appalti di maggiore
rilievo.
Nella fascia di valore compresa per i beni e servizi tra i
40mila euro e la soglia comunitaria (attualmente 209mila
euro), nonché per i lavori tra i 150mila euro e un milione
di euro, le stazioni appaltanti dotate di adeguata
qualificazione sviluppano le procedure utilizzando le
piattaforme telematiche messe a disposizione dalle centrali
di committenza qualificate e, solo in caso di
indisponibilità dell’infrastruttura informatica, svolgono la
procedura in modo tradizionale.
In tale fascia di valore i Comuni non capoluogo sono tenuti
a ricorrere a centrali di committenza o a soggetti
aggregatori qualificati, oppure a unioni di Comuni già
costituite e operanti come centrali di committenza già
qualificate.
Spetterà a un Dpcm definire i criteri e le modalità per la
costituzione delle centrali di committenza, in forma di
aggregazione di Comuni non capoluogo, nonché individuare gli
ambiti territoriali di riferimento in applicazione dei
principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza.
In ogni caso le amministrazioni potranno fare ricorso a
centrali di committenza qualificate, le quali possono
svolgere attività ausiliarie a favore di altre centrali di
committenza o di stazioni appaltanti.
Le disposizioni introducono anche la possibilità di appalti
congiunti (recependo la novità contenuta nelle direttive
comunitarie), ma questi possono essere realizzati solo da
stazioni appaltanti qualificate, potendo peraltro le stesse
cumulare le loro qualificazioni in relazione al valore
dell’appalto.
Proprio la qualificazione assume rilievo nel sistema
complessivo: il nuovo Codice delinea i criteri in base ai
quali potrà essere ottenuta dalle amministrazioni,
demandando all’Anac la gestione del procedimento.
Tra gli elementi che le amministrazioni devono possedere,
rilevano la presenza di un’organizzazione stabile che si
occupi di programmazione, affidamento e esecuzione degli
appalti, un sistema di formazione e di aggiornamento dei
dipendenti impegnati nella gestione delle gare, nonché il
numero e il valore delle procedure svolte nell’ultimo
triennio (articolo Il Sole 24 Ore del 29.02.2016). |
PUBBLICI DIPENDENTI - VARI:
Come richiedere, ottenere e gestire i Pin dell'Inps.
Il Pin (Personal identification number) è un codice
identificativo personale che consente l'accesso ai servizi
online dell'Inps, in base alle caratteristiche anagrafiche
dell'utente e ad altri dati presenti negli archivi. Ad
esempio un pensionato non può accedere ai servizi dedicati
ai lavoratori oppure un iscritto alla gestione previdenziale
del lavoro privato non può avere accesso ai servizi
riservati agli iscritti alla gestione previdenziale dei
dipendenti pubblici.
Pin ordinario e Pin dispositivo. Il Pin può essere di due
tipi:
a) ordinario: per consultare i dati relativi alla propria
posizione contributiva o alla propria pensione;
b) dispositivo: per richiedere le prestazioni e i benefici
economici ai quali si ha diritto.
Il Pin dispositivo è stato istituito per garantire maggiore
sicurezza sull'identità del richiedente: per ottenerlo il
cittadino deve inviare online oppure via fax copia del
proprio documento d'identità o recarsi personalmente presso
una sede territoriale (ufficio) dell'Inps.
Il cittadino può comunque inoltrare una domanda di
prestazione anche con il Pin ordinario, al fine per esempio
di bloccare l'eventuale decorrenza dei termini. La domanda,
tuttavia, verrà lavorata non appena l'utente avrà convertito
il suo Pin ordinario in Pin dispositivo.
Il Pin iniziale è composto di 16 caratteri. Al primo accesso
con tale Pin una procedura guidata assegna all'utente un Pin
di 8 caratteri, con il quale potrà accedere successivamente
ai servizi.
Come richiedere il Pin. Il Pin si può richiedere:
1. presso le sedi territoriali dell'Inps (in tal caso il Pin
sarà dispositivo);
2. online, attraverso la procedura di richiesta Pin;
3. tramite Contact center chiamando il numero verde 803 164
gratuito da rete fissa; per le chiamate da telefoni
cellulari è disponibile il numero 06 164164, che è però a
pagamento in base al piano tariffario del proprio gestore
telefonico (Wind, Tre, Vodafone ecc.).
Le sedi dell'Inps rilasciano immediatamente il Pin
dispositivo a seguito della presentazione, da parte
dell'utente, del modulo di richiesta, tutto correttamente
compilato e consegnato allo sportello assieme a un documento
di identità valido.
Il Pin ottenuto online o tramite il Contact center, invece,
è di tipo ordinario.
Scadenza e nuova generazione del Pin. Il Pin assegnato ai
cittadini ha durata semestrale (scade ogni 6 mesi), mentre
il Pin assegnato agli intermediari istituzionali ha durata
trimestrale (scade ogni 3 mesi). Ogni volta che si effettua
un accesso, il sistema verifica se il Pin è scaduto. In tal
caso, una procedura guidata fornisce automaticamente un
nuovo Pin che dà accesso agli stessi servizi del precedente.
Convertire il Pin in Pin dispositivo. Il Pin ordinario
ottenuto online o attraverso il Contact Center non permette
la presentazione e l'invio di domande per prestazioni e
benefici. Per fruire di tali servizi, occorre convertirlo
(il Pin ordinario) in Pin dispositivo, recandosi presso una
sede territoriale dell'Inps alla quale consegnare, una volta
compilato, il modulo MV35; in alternativa, può essere
utilizzata la procedura online di conversione del Pin.
Se si
utilizza tale procedura online, una volta inserito il Pin
ordinario, l'utente deve stampare e firmare il modulo di
richiesta, scansionare il modulo firmato e un documento di
riconoscimento e caricarli online. In alternativa, il modulo
firmato con la copia del documento possono essere inviati al Contact
center tramite il numero di fax 800 803164 oppure consegnati
a mano, recandosi presso una sede territoriale dell'Inps (articolo ItaliaOggi Sette del 29.02.2016
- tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Sanzioni Sistri, sconto a tempo.
Per altre violazioni confermata la punibilità solo dal 2017.
La conversione del dl 210/2015 dimezza le pene per omessa
iscrizione e contribuzione.
Riduzione del 50% delle sanzioni amministrative pecuniarie
per omessa iscrizione al sistema di tracciamento telematico
dei rifiuti e mancato pagamento del relativo contributo.
Lo
sconto sulle sanzioni Sistri, seppur temporaneo e limitato
alle citate violazioni, arriva con la legge di conversione
del dl 210/2015, approvata in via definitiva dal parlamento
il 24.02.2016.
La legge di conversione del «Milleproroghe 2016» conferma
parallelamente lo slittamento al 2017 dell'applicabilità
delle altre pene ex dlgs 152/2006 (c.d. Codice ambientale)
per l'inosservanza delle regole di stretto tracciamento
telematico dei rifiuti, già previsto dal testo originario
del decreto d'urgenza.
Le sanzioni ridotte. Pur lasciandone immutata
l'applicabilità (già operativa dallo scorso 01/04/2015) la
legge di conversione del dl 210/2015 dispone che le sanzioni
ex commi 1 e 2, articolo 260-bis del dlgs 152/2006, relative
a omessa iscrizione e regolarizzazione tributo, «sono
ridotte del 50%», ma solo «fino al 31.12.2016 e
comunque non oltre il collaudo con esito positivo della
piena operatività del nuovo sistema di tracciabilità
individuato a mezzo di procedura a evidenza pubblica,
indetta da Consip Spa con bando pubblicato il 26.06.2015».
Di conseguenza la cornice edittale delle sanzioni
passa, seppur temporaneamente, dai «range» di 2.600-15.500
euro (per le violazioni relative ai rifiuti non pericolosi)
e 15.500-93 mila euro (per i pericolosi) a quelli,
rispettivamente, coincidenti con le gamme 1.300-7.750 e
7.750-46.500 euro. La riduzione prevista, essendo formulata
in termini matematici, non appare però incidere
sull'ulteriore sanzione prevista dallo stesso comma 2 del
citato articolo 260-bis, laddove per l'omesso pagamento del
contributo (evidentemente da parte degli iscritti) si
dispone anche la sospensione immediata del servizio Sistri.
Ad alleggerire ulteriormente le sanzioni in parola appaiono
concorrere fin da subito due meccanismi già applicabili del dlgs 152/2006 (commi 9-bis e 9-ter, articolo 260-bis): il
«cumulo giuridico» delle pene per il concorso di reati, che
prevede la punibilità del solo evento più grave; il
«ravvedimento operoso», che da un lato non punisce chi entro
30 giorni dalla commissione dell'illecito vi pone riparo
adempiendo agli obblighi sottesi e dall'altro ammette al
pagamento di delle sanzioni chi definisce la controversia,
previo adempimento, entro 60 giorni dalla contestazione.
Le altre novità Sistri. A ridurre il potenziale novero dei
soggetti obbligati a iscrizione, e quindi pagamento del
contributo Sistri, concorre invece dallo scorso 02.02.2016 la legge 221/2015 (c.d. «Green economy»), che con la
riformulazione del dl 201/2011 ha allargato i confini del
regime semplificato di tracciamento rifiuti riservato agli
operatori del comparto benessere. Ciò sia estendendolo a
tutti i residui pericolosi prodotti che rendendolo satisfattivo (anche) degli obblighi previsti dal Sistri.
In
base al rinnovato regime semplificato i gestori di servizi
dei saloni di barbiere e parrucchiere, istituti di bellezza,
attività di tatuaggio e piercing (Codici Ateco 96.02.01,
96.02.02, 96.09.02) produttori di rifiuti speciali
pericolosi che effettuano l'autotrasporto degli stessi in
quantità massima di 30 Kg/giorno a impianti di smaltimento
possono assolvere gli obblighi di tracciamento sia
tradizionale (registri di carico e scarico, Mud) che (ora)
Sistri con la tenuta dei soli formulari di trasporto ex dlgs
152/2006 e loro conservazione.
L'osservanza di detto regime
semplificato non esclude, lo ricordiamo, l'obbligo
d'iscrizione all'Albo gestori ambientali per il trasporto e
l'osservanza delle norme specifiche su classificazione,
imballaggio, etichettatura e movimentazione delle sostanze
pericolose. L'iscrizione al Sistri (insieme alla
regolarizzazione del relativo contributo) è invece già
dovuta da parte dei vettori esteri che a titolo
professionale effettuano il trasporto di rifiuti sul
territorio nazionale.
A ricordarlo, evidentemente basandosi
sull'articolo 188-ter del dlgs 152/2006, è un comunicato
pubblicato il 01.02.2016 sul portale istituzionale sistri.it che invita detti operatori a formalizzare
l'adempimento tramite «Contact center». Una riduzione del
contributo Sistri dovrebbe invece arrivare, in base alla
relazione di accompagnamento della citata legge di
conversione del «Milleproroghe», con il nuovo decreto
ministeriale in itinere sulla semplificazione e lo
snellimento dell'attuale sistema.
Regime transitorio e obblighi operatori Sistri. Come
accennato, la legge di conversione del «Milleproroghe 2016»
conferma la già prevista sospensione fino al 31/12/2016
dell'applicazione delle altre sanzioni (anche penali) Sistri
che puniscono la violazione delle regole operative di
tracciamento dei rifiuti, lasciandone però immutate le
relative cornici edittali.
Tali sanzioni, previste dagli
articoli 260-bis, commi da 3 a 9, e 260-ter del dlgs
152/2006 puniranno la violazione delle regole sulla
compilazione delle Schede elettroniche Sistri, la
predisposizione di falsi certificati di analisi, il
trasporto dei rifiuti senza i previsti e corretti documenti
di accompagnamento cartacei. Solo dal 2017 sarà altresì
applicabile l'articolo 260-ter del dlgs 152/2006 che prevede
le sanzioni amministrative del fermo o della confisca del
mezzo di trasporto per le ipotesi più gravi.
La legge di
conversione del «Milleproroghe» conferma parallelamente
l'operatività fino allo stesso 31/12/2016 del periodo
transitorio del c.d. «doppio binario» in base al quale anche
i soggetti obbligati al Sistri devono continuare a
effettuare il tradizionale tracciamento dei residui (tramite
registri di carico/scarico, formulari di trasporto e
dichiarazione Mud) dietro minaccia delle relative e diverse
sanzioni ex Codice ambientale.
In relazione al Mud si
ricorda la vicina scadenza del 30.06.2016 entro cui
occorrerà presentare la nuova annuale denuncia dei rifiuti
prodotti o gestiti nel corso del 2015. Tale dichiarazione
dovrà essere effettuata secondo le indicazioni dettate dal Dpcm 21.12.2015 (G.U. del successivo giorno 28, n.
300) che da un lato conferma l'utilizzo «modello unico di
dichiarazione» recato dall'omonimo provvedimento del 17.12.2014 ma dall'altro prevede «informazioni
aggiuntive» che saranno diramate tramite i siti sviluppoeconomico.gov.it, minambiente.it;
isprambiente.gov.it, unioncamere.it, infocamere.it;
ecocerved.it, informazioni che potranno dunque recare nuove
indicazioni da rispettare.
La corretta dichiarazione Mud
2016, è opportuno sottolinearlo, presuppone a monte il
rispetto della nuova classificazione dei rifiuti introdotta
dalla decisione 2014/995/Ue, pienamente e integralmente
applicabile sul piano nazionale dal 01.06.2015 con
prevalenza sulle analoghe norme con esse in contrasto
contenute negli allegati alla Parte quarta del dlgs
152/2006, ancora formalmente non allineati alle disposizioni
Ue (articolo ItaliaOggi Sette del 29.02.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO: «Danno» dai contratti Pa bloccati.
Pubblico impiego. Il tribunale di Reggio Emilia dopo la
sentenza della Corte costituzionale.
Dal TRIBUNALE
di Reggio Emilia arriva la prima sentenza che mette nero su
bianco «l’illegittimità» dei mancati rinnovi dei contratti
per il pubblico impiego dopo il 30 luglio, cioè dopo che la
Corte costituzionale ha sancito l’obbligo di superare il
blocco deciso sei anni fa per abbassare la febbre del
bilancio pubblico.
La pronuncia condanna il ministero della Giustizia al
pagamento delle spese processuali (3mila euro, a cui si
aggiungono i rimborsi forfettari e il contributo unificato)
per il ricorso avviato da 13 dipendenti dello stesso
tribunale, assistiti dall’Unione nazionale dei sindacati
autonomi Confsal-Unsa.
Ma il punto non è nella cifra
riconosciuta dalla sentenza 26.02.2016 n. 51, ma nel
«precedente» creato dai giudici, che apre la porta alle
richieste di rimborso da parte dei dipendenti pubblici:
«Abbiamo avviato contenziosi in un’ottantina di tribunali in
tutta Italia», spiega Massimo Battaglia, segretario generale
della Confsal-Unsa, che ora con il precedente di Reggio
Emilia punta al riconoscimento giudiziario del danno da
“mancato rinnovo”.
Ancora una volta, insomma, è un tribunale dell’Emilia
Romagna a smuovere lo stagno della contrattazione nel
pubblico impiego, che per ripartire attende l’aggregazione
dei dipendenti pubblici in quattro comparti (l’atto di
indirizzo per chiudere la lunga trattativa avviata da Aran e
sindacati è stato firmato dal ministro della Pa, Marianna
Madia, nei giorni scorsi; si veda Il Sole 24 Ore del 23
febbraio), premessa indispensabile posta dalla riforma
Brunetta.
A chiamare in causa la Consulta era stato il
Tribunale di Ravenna, anche in quel caso per un ricorso
avviato dai dipendenti del palazzo di Giustizia e promosso
anche dalla Confsal Unsa, e i giudici delle leggi avevano
salvato il vecchio blocco stabilendo però l’obbligo di
rimuoverlo.
La sentenza è andata in Gazzetta Ufficiale il 29 luglio, ma
ovviamente i contratti non sono ripartiti il giorno dopo,
per le incognite sui costi e gli obblighi di attuare la
riforma Brunetta rimasta in naftalina per anni. Su questo
secondo “ritardo” intervengono i giudici reggiani,
aumentando l’urgenza di chiudere una partita che si presenta
ancora intricata.
Ad oggi, infatti, la strada per arrivare
al traguardo dei rinnovi non sembra breve, perché alle
incognite sui comparti seguiranno quelle sulle risorse (articolo Il Sole 24 Ore del 27.02.2016). |
VARI: La ricetta diventa elettronica Su carta solo un promemoria.
Sanità. Dal 1° marzo - Fino a dicembre 2017 un «salvagente»
in caso di disguidi Internet.
Addio vecchia
ricetta rossa per l’acquisto dei farmaci. Da martedì 1°
marzo comincia ufficialmente l’era della e-prescription,
ovvero la ricetta digitale. E medici e farmacie dovranno
farsi trovare pronti. Un passo verso la dematerializzazione,
avviata su questo fronte oltre tre anni fa, ma che si è
concretizzato con il Dpcm del 31.12.2015, entrato in
vigore dal 1° gennaio di quest’anno. Ma attenzione:
nell’Italia dei rinvii, anche in questo caso c’è una fase
transitoria, che dovrà concludersi a fine 2017.
Dunque la ricetta elettronica non significherà da subito
addio alla carta. Infatti il medico dovrà comunque
rilasciare un foglietto -in formato A5- da consegnare al
farmacista, dove ci saranno i dati utili a garantire il
servizio in tutte le situazioni, anche se dovesse saltare la
connessione internet o il collegamento con il sistema
centrale fosse fuori uso.
La rivoluzione è già partita e, al netto di non poche
criticità, sta ingranando. Ma i medici di famiglia segnalano
qualche intoppo non proprio insignificante: «Qualcuno ha
confuso gli studi medici con quelli dei Caf, vista la mole
di dati anagrafici, codici di esenzione dai ticket, adesso
anche quelli di erogabilità e appropriatezza e quant’altro
dovremo verificare. E in più -spiega il segretario
nazionale della Federazione dei medici di famiglia (Fimmg)
Giacomo Milillo- il dottore non potrà più contare sul
supporto dell’assistente di studio per rendere più rapide le
procedure di "ricettazione"». Con complicazioni anche per il
sostituto medico che salvo eccezioni (Campania), spiega Milillo, dovrà continuare a utilizzare la ricetta rossa. Il
rischio, secondo la Fimmg, è che tutti gli oneri ricadano
sul titolare, «con un aggravio di lavoro: tempo tolto alle
visite e attese più lunghe per gli assistiti». Dunque, serve
«una semplificazione delle procedure, che è ancora
possibile».
Però ci sono già vantaggi per i cittadini. Uno degli effetti
più importanti della nuova era digitale è che la ricetta
elettronica sarà valida in tutte le farmacie d’Italia. E i
farmaci potranno essere ritirati anche fuori della Regione
di residenza. Grazie al sistema tessera sanitaria, le
farmacie potranno applicare il ticket della Regione di
residenza dell’assistito: starà poi alle stesse Regioni
scambiarsi le informazioni sui medicinali prescritti e
procedere ai relativi rimborsi compensativi. Dal 1° marzo
dovrebbe essere disponibile per tutte le farmacie il sistema
di calcolo di ticket ed esenzioni della regione di
provenienza di ogni cittadino. Dove e se l’e-prescription
c’è, ovviamente.
A novembre Federfarma segnalava che il 64% delle farmacie
era pronto a partire, per un totale di 30 milioni di ricette
digitali. Con alcune Regioni che hanno più spinto
sull’acceleratore, come la Lombardia, dove in pochi mesi si
è passati dal 3 al 75%. Il cambiamento in ogni caso rende
ancora necessario l’utilizzo della "fustella" per
distinguere i farmaci erogati a carico del Ssn.
Fino a tutto
il 2017 sono però ancora esclusi dal nuovo metodo alcuni
farmaci come gli stupefacenti, l’ossigeno, le prescrizioni
per erogazione diretta in continuità assistenziale, i
medicinali con piano terapeutico Aifa (articolo Il Sole 24 Ore del 27.02.2016). |
VARI:
La ricetta elettronica al via dal 1° marzo. La
vecchia ricetta va in pensione e cede il passo a tablet e
computer. Nota della federazione
medici di famiglia. ma serve ancora il biglietto.
L'applicazione a regime della normativa sulla circolarità
nazionale della ricetta dematerializzata è prevista per il
01.03.2016, quando le farmacie dovrebbero essere nelle
condizione di calcolare ticket e regime di esenzione vigente
nella regione di provenienza del cittadino.
Lo ricorda la
nota 26.02.2016 della Fimmg, la Federazione dei
medici di famiglia.
La legge che manda in soffitta i blocchetti rossi è in
realtà del dicembre 2015 (dpcm 14.11.2015, in G.U. n. 303
del 31.12.2015) e recepisce un decreto di più di tre anni
fa. Superati alcuni blocchi informatici da martedì prossimo
per prescrivere un farmaco, un accertamento o una visita, il
medico si collegherà a un sistema informatico, lo stesso
visibile al farmacista.
Ma ricetta elettronica non è ancora sinonimo di abolizione
della carta. Per ora, infatti, si riceverà dal dottore un
piccolo promemoria da consegnare al bancone della farmacia,
che permetterà di recuperare la prescrizione anche in caso
di malfunzionamenti del sistema o assenza di linea internet.
Ma quando il sistema andrà a regime anche questo foglietto
sparirà, rendendo la procedura interamente paperless.
Tra i vantaggi della ricetta elettronica il risparmio sulla
stampa e distribuzione delle vecchie ricette rosa e il
controllo sulla falsificazione delle ricette stesse o sugli
abusi conseguenti il furto dei ricettari. Ma come funziona,
nel concreto, il nuovo sistema? I dottori, per effettuare
una prescrizione, si connettono dal proprio pc a un apposito
portale: compilando la ricetta sullo schermo, identica a
quella cartacea, un Nre (numero ricetta elettronica) sarà
associato al codice fiscale del paziente, aggiungendo in
automatico anche eventuali esenzioni. Il sistema stampa
quindi il promemoria, con il quale andare in farmacia: con i
dati presenti, attraverso i codici a barre stampati sul
piccolo foglio A5, il farmacista recupera la prescrizione
direttamente online e consegna la medicina.
Ci vorrà ancora tempo perché sparisca anche la vecchia «fustella»
da attaccare nei riquadri rossi, poiché anche se i codici
della confezione sono inseriti direttamente sul computer
ancora non è stato possibile determinare un meccanismo che
annulli il valore della fustella rispetto alla necessità di
identificare e distinguere i farmaci erogati a carico del
Ssn da quelli che anche se erogabili vengono invece pagati
direttamente dal cittadino.
Il procedimento nei prossimi mesi si diffonderà anche per la
prescrizioni di esami e visite specialistiche, visto che la
ricetta elettronica sarà accettata anche da cliniche,
ambulatori e ospedali. Fino a fine 2017, sono ancora esclusi
dal nuovo metodo stupefacenti, l'ossigeno, le prescrizioni
per erogazione diretta in continuità assistenziale, i
farmaci con piano terapeutico Aifa
(articolo ItaliaOggi del 27.02.2016). |
URBANISTICA:
Consumo suolo, enti in allarme. Si rischiano
contenziosi sull'Imu. Imprese ingessate.
A due anni dalla sua presentazione il ddl riparte
alla camera. I comuni: va cambiato.
Un provvedimento nato con i migliori
propositi (valorizzare e limitare il consumo del suolo) ma
che rischia di scontentare tutti: comuni e imprese.
Dopo due anni di gestazione in commissione alla camera, il
ddl (Atto
Camera n. 2039), presentato dall'ex ministro
delle politiche agricole Nunzia De Girolamo, torna a far
parlare di sé. Questa settimana sono infatti arrivati alle
commissioni riunite ambiente e agricoltura di Montecitorio
gli ultimi pareri delle commissioni. E mercoledì con il
conferimento del mandato ai relatori Chiara Braga e Massimo
Fiorio (entrambi del Pd) i lavori entreranno nuovamente nel
vivo.
Gli Affari costituzionali e la Bicamerale per le questioni
regionali si sono espressi dando parere favorevole, ma
chiedendo al tempo stesso significativi ritocchi al testo. A
preoccupare i comuni sono soprattutto due emendamenti
approvati in commissione. Il primo all'art. 10 a norma del
quale «i proventi dei titoli abilitativi edilizi e delle
sanzioni sono destinati esclusivamente e senza vincoli
temporali alla realizzazione delle opere di urbanizzazione
primaria e secondaria ed a interventi finalizzati al riuso e
alla rigenerazione, nonché alla tutela e riqualificazione
dell'ambiente e del paesaggio»
In secondo luogo a preoccupare sono le norme transitorie e
finali (art. 11 ) secondo cui, a decorrere dalla data di
entrata in vigore della legge, e fino all'adozione dei
provvedimenti volti alla riduzione del consumo del suolo, e
comunque non oltre il termine di tre anni, «non è consentito
il consumo di suolo tranne che per i lavori e le opere
inseriti negli strumenti di programmazione delle
amministrazioni aggiudicatrici».
I sindaci, invece, chiedono l'utilizzo senza limiti dei
proventi dei titoli edilizi rilasciati per la manutenzione
ordinaria e straordinaria delle opere di urbanizzazione già
realizzate. Opere che altrimenti andrebbero incontro a
sicuro degrado, dequalificando l'ambiente urbano circostante
e rendendo necessari ulteriori interventi di manutenzione
straordinaria che comporterebbero maggiori oneri economici.
Inoltre, il divieto triennale di consumo di suolo (tranne
che per lavori e opere già inseriti negli strumenti di
programmazione dei comuni) rischia di essere troppo
penalizzante, soprattutto per i piccoli comuni. Perché per
esempio renderebbe illegittima la rivendicazione dell'Imu su
diritti edificatori previsti, ma non più attivabili.
Prospettiva questa «dalle conseguenze economiche
insostenibili per i mini-enti che si vedrebbero coinvolti in
contenziosi fiscali infiniti, destinati a produrre mancate
entrate per cifre esorbitanti».
A chiedere modifiche al ddl sono all'unisono Anpci e Anci.
L'Associazione nazionale dei piccoli comuni, presieduta da
Franca Biglio, ha scritto il mese scorso ai ministri
dell'ambiente e dell'agricoltura Gian Luca Galletti e
Maurizio Martina e ai presidenti delle commissioni VIII e
XIII di Montecitorio Ermete Realacci e Luca Sani. Stessa
cosa ha fatto il presidente dell'Anci, Piero Fassino, che
ieri ha ieri ha sollecitato una richiesta di incontro estesa
anche ai ministri Graziano Delrio ed Enrico Costa.
«Data la rilevanza socio-economica della tematica», scrive
Fassino, «e nell'intento di contribuire alla definizione di
proposte concrete e utili alla soluzione di talune criticità
dall'Anci evidenziate nonché emerse anche in incontri con
altri soggetti di rappresentanza, ritengo urgente avviare un
lavoro che possa portare alla condivisione di alcune
correzioni».
L'Anpci, dal canto suo, pur apprezzando l'impianto generale
del disegno di legge, ritiene assolutamente indispensabile
che vengano garantiti i diritti acquisiti. Perché una loro
compressione, sostiene Franca Biglio, «si porrebbe in
contrasto con la generale politica di incentivo della
crescita e dell'occupazione: obiettivo questo da tutte le
istituzioni riconosciuto come un'esigenza vitale per il
Paese».
Oltre alle critiche degli enti locali, il ddl deve
fronteggiare anche l'opposizione delle imprese. A guidare la
protesta è stata Confindustria Cuneo che con il presidente,
Franco Biraghi, ha da subito evidenziato come il testo in
discussione alla camera, se non modificato, rappresenti «una
vera iattura per l'economia e le pmi perché nessuno di noi
potrà più programmare la propria attività e il proprio
sviluppo aziendale. Da un giorno all'altro, infatti,
potremmo sentirci dire che il terreno industriale acquistato
in passato nella prospettiva di ampliare il nostro capannone
improvvisamente è diventato agricolo. Chi investirà più?».
Il ddl 2039, secondo Biraghi, essendo basato «su una pioggia
di divieti per le attività economiche e soprattutto
industriali», prevede «esattamente l'opposto di quanto
invece servirebbe alle aziende in questo periodo, ossia
agevolazioni di natura fiscale e ambientale, premiando per
esempio le imprese che riutilizzano terreni dismessi,
attività oggi improponibile per gli alti costi previsti
dalle leggi attuali»
(articolo ItaliaOggi del 27.02.2016). |
APPALTI:
Codice dei contratti da rivedere. Sos per i
servizi di ingegneria, architettura e area tecnica.
La Rete delle professioni tecniche sul testo
chiamato a sostituire il dlgs 163/2006.
I servizi per l'ingegneria e l'architettura assimilabili a
quelli per la ristorazione. Può sembrare una provocazione,
ma è quello che accadrà se il nuovo codice dei contratti
pubblici, chiamato a sostituire l'attuale codice De Lise
(approvato con il decreto legislativo n. 163 del 2006), sarà
approvato come si presenta attualmente.
Il provvedimento,
che in sostanza attua (o almeno dovrebbe) la legge delega di
recepimento delle direttive europee, e che, tra i suoi
principali obiettivi, ha quello di conseguire una drastica
riduzione e razionalizzazione di leggi e regolamenti
esistenti, manca di un riferimento fondamentale: una
disciplina apposita per i servizi di architettura e
ingegneria e degli altri servizi dell'area tecnica, giacché,
come ha commentato Rino La Mendola, coordinatore del tavolo
lavori pubblici della Rete delle professioni tecniche, «gli
articoli che riguardano l'argomento sono disseminati nel
testo in modo disorganico e difficilmente leggibile». Con il
risultato che questo tipo di servizi sono regolamentati come
altre attività generiche, come quelle della ristorazione,
dimenticando la loro peculiarità e il loro preciso
riferimento a direttive comunitarie specifiche.
Inoltre,
secondo il rappresentante della Rete, «buona parte dei
principi enunciati dalla legge delega non trovano concreto
riscontro nell'articolato. Per esempio, non si comprende
come si concretizzi la drastica riduzione dell'appalto
integrato promossa dalla legge delega, oppure perché per i
concorsi di progettazione non è stato specificata, come
avevamo chiesto, la garanzia della priorità dell'affidamento
(e non l'opzione) delle fasi successive della progettazione
al professionista vincitore.
Un principio fondamentale per
scongiurare il rischio che le amministrazioni continuino a
bandire concorsi, magari a fini propagandistici, che non si
concretizzano mai con la realizzazione delle opere in linea
con le previsioni del progetto vincitore». Insomma il punto
chiave è che nel testo elaborato dal governo sono spariti
molti principi fondamentali enunciati dalla legge delega e
che la Rete delle professioni tecniche aveva apprezzato. C'è
poi un problema di metodo. «Siamo stati convocati in fretta
per l'audizione e con la stessa fretta ci è stato chiesto un
contributo con il quale, data la ristrettezza dei tempi,
abbiamo potuto evidenziare solo alcuni aspetti. Oltretutto
senza un testo completo».
«Il governo», ha aggiunto ancora
La Mendola, «infatti, non ha fornito agli addetti ai lavori
una traccia ufficiale su cui introdurre organicamente le
modifiche da proporre. Il risultato è che, in pochi giorni,
i diversi rappresentanti del settore hanno prodotto una
serie di proposte articolate e differenziate, facendo
riferimento a bozze di testo diverse, ricavate dal web, che
difficilmente potranno confluire in un testo condiviso,
entro i tempi strettissimi dettati dalla stessa presidenza
del consiglio dei ministri, che già oggi, salvo imprevisti,
potrebbe varare il decreto. La preoccupazione è che i tempi
stretti a disposizione possano produrre una norma di scarsa
qualità, inficiando l'ottimo lavoro svolto con la legge
delega».
In particolare, ha aggiunto ancora La Mendola, «la
Rtp aveva condiviso i princìpi di quella legge diretti a
snellire le procedure di affidamento, ridurre l'appalto
integrato, gli affidamenti in house e i requisiti
tecnico-organizzativi ed economici dei professionisti per
l'accesso alle gare. Abbiamo poi apprezzato l'apertura dei
concorsi di progettazione ai giovani o alle strutture
professionali medio piccole che, seppure non dispongano di
grossi fatturati e di un gran numero di dipendenti o
collaboratori, sono comunque in grado di garantire
prestazioni di qualità. Abbiamo giudicato positivamente
anche l'abbandono del criterio del prezzo più basso, che
negli ultimi anni ha prodotto prestazioni professionali
scadenti, alimentando una serie di varianti correttive in
corso d'opera ed un allarmante crescita del numero di opere
pubbliche incompiute nel paese».
«Siamo alla vigilia di un
nuovo inizio», ha concluso poi Sergio Molinari, consigliere Cnpi delegato alla materia e componente del tavolo lavori
pubblici per la Rtp, «con un'opportunità offerta dal
recepimento delle nuove direttive comunitarie. Ora la
speranza è che nell'iter successivo all'approvazione del
provvedimento in Consiglio dei ministri, ci sia lo spazio
per accogliere le proposte che abbiamo fatto come Rete delle
professioni tecniche, proponendo un articolato coerente con
i principi riportati nella direttiva comunitaria e nella
legge delega. Naturalmente ribadiamo, ancora una volta,
tutta la disponibilità dei professionisti dell'area tecnica
a collaborare con il legislatore e a fornire qualsiasi
contributo possa essere utile per la stesura di un testo che
non tradisca i principi per i quali è stato immaginato.
Questa può essere una chance significativa per riordinare,
semplificare e soprattutto correggere i difetti che il
sistema nel suo complesso ha mostrato fino ad ora. È
un'opportunità che non possiamo permetterci di perdere per
riattivare il mercato dei lavori pubblici, eccellente motore
di sviluppo economico del nostro paese»
(articolo ItaliaOggi del 26.02.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Riforma p.a., tocca ai dirigenti. Dlgs in arrivo.
Cds e Corte conti promuovono i decreti.
Il ministro ha incontrato le regioni in vista del
prossimo parere sui provvedimenti.
La riforma di Marianna Madia fa rotta sui dirigenti
pubblici. Dopo il pacchetto di 11 decreti legislativi
attuativi della delega p.a. (legge 124/2015), licenziati dal
consiglio dei ministri lo scorso 20 gennaio e in attesa di
essere pubblicati in Gazzetta Ufficiale entro un paio di
mesi, il governo sta preparando un secondo pacchetto di
provvedimenti.
Forse il più delicato perché riguarderà i dipendenti e i
dirigenti pubblici, questi ultimi, in particolare, messi al
centro della riforma con l'istituzione del ruolo unico e la
possibilità (forse più teorica che pratica) di non essere
più inamovibili ma soggetti al collocamento in disponibilità
qualora restino senza incarico.
A dare l'annuncio è stata lo stesso ministro della funzione
pubblica nel corso dell'incontro con i governatori in
Conferenza delle regioni. Un incontro propedeutico al parere
che le regioni dovranno licenziare sugli 11 decreti nelle
prossime settimane. «Saremo pronti per esprimere i pareri su
gran parte dei provvedimenti», ha spiegato il presidente del
parlamentino dei governatori Stefano Bonaccini, al termine
dell'incontro col ministro.
Madia ha riconosciuto l'apporto importante fornito dalle
regioni a tante parti della legge 124/2015 ed ha promesso
che sulla seconda tranche di provvedimenti in materia di
lavoratori e dirigenti pubblici «si può immaginare un
maggior coinvolgimento preliminare di regioni ed enti
locali».
Intanto sul primo pacchetto di decreti ieri sono arrivate
importanti «promozioni» da parte del Consiglio di stato e
della Corte dei conti.
Palazzo Spada ha espresso un parere tutto sommato favorevole
sullo schema di decreto trasparenza, primo dei decreti
attuativi della legge n. 124 del 2015. Il Consiglio di stato
ha focalizzato l'attenzione sull'importanza di «una solida
fase di implementazione, anche dopo l'approvazione dei
decreti attuativi», suggerendo la creazione di una «cabina
di regia» per l'attuazione pratica della riforma.
Questa task force non dovrà dimenticare aspetti, spesso
relegati in secondo piano, ma essenziali per il recepimento
dei decreti. In primis la formazione dei dipendenti
incaricati dell'attuazione. In secondo luogo la
comunicazione istituzionale a cittadini e imprese sui loro
nuovi diritti, l'adeguata informatizzazione dei
procedimenti, il coinvolgimento dei portatori di interessi
(i cosiddetti «stakeholders») sin dall'impostazione della
fase attuativa.
Una promozione sul campo per quello che, dopo i fatti di
Sanremo, è stato il più controverso degli 11 decreti, ossia
il dlgs sulla lotta all'assenteismo, è invece arrivata dal
procuratore regionale della Corte conti Lombardia, Antonio
Caruso, durante l'inaugurazione dell'anno giudiziario 2016.
«Va nella direzione giusta», ha osservato Caruso nella sua
relazione sull'attività della procura lombarda, «la scelta
di prevedere, da un lato, un importo minimo di danno
all'immagine pari a sei mensilità di stipendio e,
dall'altro, di sganciarlo dalla necessità del giudicato
penale».
Per il procuratore, il decreto Madia potrebbe determinare
«una inversione di tendenza rispetto alla normativa del dl
78/2009», che ha invece limitato il danno all'immagine «a
pochi reati contro la p.a., introducendo altresì una
pregiudiziale penale che allontana i tempi di risposta della
magistratura contabile»
(articolo ItaliaOggi del 26.02.2016
- tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it). |
APPALTI:
Appalti, aggregazioni nella p.a.. Stazioni
appaltanti autonome per contratti fino a 40 mila.
Un Dpcm stabilirà le procedure per
raggruppare i comuni non capoluogo di provincia.
Sarà un Dpcm a stabilire come si
dovranno aggregare i comuni non capoluogo di provincia che
vogliono bandire gare di appalto; le stazioni appaltanti
saranno libere di procedere in autonomia fino a 40 mila euro
di servizi e forniture e 150 mila per lavori; oltre queste
soglie si dovranno utilizzare le piattaforme informatiche
delle centrali di committenza e, se non qualificate,
dovranno affidare alla centrale di committenza la gestione
dell'appalto; previsti requisiti premiali per entrare
nell'albo delle stazioni appaltanti gestito dall'Anac.
Sono questi alcuni dei punti principali delineati
nell'ultima versione (datata 22 febbraio) del decreto di
riordino della disciplina in materia di appalti pubblici che
va oggi all'esame del consiglio dei ministri.
Nel testo è di particolare interesse la disciplina relativa
alle stazioni appaltanti che si muove su due filoni:
centralizzazione degli appalti e qualificazione delle
stazioni appaltanti.
Le stazioni appaltanti saranno libere di procedere
autonomamente per i contratti fino a 40 mila euro per
servizi e forniture e fino a 150 mila per lavori. Oltre tale
soglia e fino alle soglie Ue (per servizi e forniture)
nonché per gli acquisti di lavori di manutenzione ordinaria
di importo superiore a 150 mila euro e inferiore a 1 milione
di euro le stazioni appaltanti, qualificate dall'Anac,
procedono mediante ricorso autonomo agli strumenti
telematici messi a disposizione dalle centrali di
committenza (ad esempio il Mepa).
Se poi la stazione appaltante non risulti in possesso della
necessaria qualificazione dovrà procedere all'acquisizione
di forniture, servizi e lavori ricorrendo a una centrale di
committenza qualificata, ovvero mediante aggregazione con
una o più stazioni appaltanti aventi la necessaria
qualifica.
Se si tratta di un comune non capoluogo di provincia, esso
potrà scegliere una di queste due ipotesi: fare ricorso a
una centrale di committenza o procedere mediante unioni di
comuni costituite e qualificate come centrali di
committenza, ovvero associandosi o consorziandosi in
centrali di committenza nelle forme previste
dall'ordinamento. Sarà poi un Dpcm a definire gli ambiti
territoriali all'interno dei quali si dovranno aggregare i
comuni.
Per quel che riguarda la qualificazione delle stazioni
appaltanti tutto ruota intorno al sistema gestito dall'Anac
che riunirà stazioni appaltanti qualificate in base ai
principi indicati nel decreto e le centrali di committenza
(oltre ai provveditorati alle opere pubbliche, alle centrali
di committenza regionali e a Consip, che ne fanno parte di
diritto).
Per essere qualificati si farà riferimento al complesso
delle attività che caratterizzano il processo di
acquisizione di un bene, servizio o lavoro in relazione alla
capacità di programmazione e progettazione, alla capacità di
affidamento e alla capacità di esecuzione e controllo. I
parametri di valutazione saranno relativi alla struttura
organizzativa della stazione appaltante, alle competenze dei
dipendenti, alla loro formazione e al numero di gare svolte
nei tre anni precedenti.
Inoltre, saranno premiate le stazioni appaltanti che avranno
ricevuto una valutazione positiva dell'Anac in ordine
all'attuazione di misure di prevenzione dei rischi di
corruzione e promozione della legalità e che potranno
dimostrare la presenza di sistemi di gestione in qualità
degli uffici e dei procedimenti di gara, nonché la
disponibilità di tecnologie telematiche nella gestione di
procedure di gara e il livello di soccombenza nel
contenzioso.
La qualificazione varrà cinque anni e una volta
entrato in vigore il sistema di qualificazione delle
stazioni appaltanti l'Anac non rilascerà il codice
identificativo di gara per appalti non rientranti nella
qualificazione ottenuta dalla stazione appaltante
(articolo ItaliaOggi del 26.02.2016
- tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it). |
APPALTI:
Riforma appalti, potenziata la validazione dei
progetti. Delega. Pronto il decreto,
oggi o domani in Cdm.
Assume una
fisionomia pressoché definitiva il decreto legislativo che
attua la legge delega sulla riforma degli appalti, ma non è
ancora certo che il provvedimento vada all'esame del
Consiglio dei ministri oggi o domani. Il lavoro di
rifinitura richiede più tempo del previsto e incrocia anche
nodi rilevanti come quello del sistema di qualificazione
delle imprese, per cui resta fissata la soglia di un milione
di euro sotto la quale non è necessaria la certificazione
Soa.
Intanto nell’ultima versione, che consta di 230 articoli,
sono stati definiti alcuni capitoli fondamentali come quelli
sui poteri dell’Anac (che gestirà anche una Banca dati unica
sostitutiva delle molte esistenti oggi e facenti capo a
varie amministrazioni), sul subappalto, sulla qualificazione
delle stazioni appaltanti e delle centrali di committenza
(che comunque restano un elemento di tensione con i Comuni),
mentre dall’ultima stesura escono fortemente potenziate le
norme sulla validazione dei progetti (per cui sono
dettagliate le attività e i soggetti che possono svolgerla),
quelle sui motivi di esclusione ad opera della singola
stazione appaltante (in base a sentenze per reati gravi o
anche per gravi inadempimenti contrattuali del passato) e
quelle sulla risoluzione dei contenziosi per via
extragiudiziale. In pratica, saranno sei le strade che
potranno evitare il ricorso davanti al giudice, in parte
sulla scia di quanto accade oggi (sia pure con qualche
correzione), in parte con strumenti nuovi o riesumati (come
gli arbitrati).
Le sei alternative al giudice sono l’accordo
bonario per i lavori, l’accordo bonario per servizi e
forniture, il collegio consultivo tecnico, la transazione,
l’arbitrato e la definizione stragiudiziale su parere
vincolante dell’Anac. La norma è stata meglio precisata con
la necessaria adesione preventiva delle parti. Su
quest’ultimo punto scommettono comunque Raffaele Cantone e
la sua Autorità anticorruzione, proprio in virtù del fatto
che il parere viene trasformato in vincolante e dovrebbe
così rafforzare un istituto che già funziona su base
facoltativa.
Uno degli snodi fondamentali del nuovo sistema è la
qualificazione delle stazioni appaltanti. L’Anac terrà un
apposito elenco di cui faranno parte anche le centrali di
committenza. Le amministrazioni non qualificate potranno
scegliere fra varie strade: il ricorso autonomo agli
strumenti telematici di negoziazione messi a disposizione
dalle centrali di committenza qualificate (tipo Consip), il
ricorso a una centrale di committenza qualificata,
l’aggregazione con una o più stazioni appaltanti aventi la
necessaria qualificazione. I Comuni non capoluoghi potranno
fare ricorso a una centrale di committenza o a soggetti
aggregatori qualificati o ancora fare ricorso a unioni di
Comuni qualificate come centrali di committenza ovvero
associarsi o consorziarsi in centrali di committenza.
Cambia, inoltre, la modalità di abrogazione progressiva
delle norme vigenti (soprattutto il regolamento generale):
le disposizioni del periodo transitorio vengono inserite al
termine dei singoli articoli, con l’indicazione delle norme
vigenti che sopravvivono temporaneamente o altre
disposizioni che in genere tendono a dilatare i poteri delle
stazioni appaltanti sul singolo affidamento. Due esempi: in
attesa delle linee guida Anac, saranno le stazioni
appaltanti a inserire nei bandi i requisiti necessari per
società di ingegneria e società tra professionisti; fino
all’emanazione delle disposizioni Anac sull’albo dei
commissari delle commissioni giudicatrici, le stazioni
appaltanti continueranno a nominare i commissari «secondo
regole di competenza e trasparenza preventivamente
individuate da ciascuna stazione appaltante»
(articolo Il Sole 24 Ore del 25.02.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Congedi a ore, le regole per la Pa.
Jobs Act. L’Inps definisce durata e modalità di
comunicazione.
La Gestione
dipendenti pubblici dell’Inps fornisce nuove indicazioni in
ordine alla fruizione del congedo parentale ad ore, come
previsto dal decreto attuativo del Jobs Act, nonché sulle
modalità di comunicazione all’istituto di previdenza stesso
dei predetti periodi ai fini del riconoscimento della
contribuzione figurativa.
Il decreto legislativo 81/2015 riconosce ai genitori la
possibilità di fruire del congedo parentale a giorni ovvero
ad ore, la cui durata, in assenza di contrattazione
collettiva in merito, deve coincidere con la metà
dell’orario medio giornaliero del mese precedente l’inizio
del congedo stesso.
In sostanza, per i dipendenti pubblici
il cui orario è articolato su cinque giorni la settimana, la
durata dell’assenza dovrà essere pari a 3 ore e 36 minuti,
risultanti dalle 36 ore settimanali divise per i 5 giorni
lavorativi la settimana e ulteriormente divise per due.
Analogamente, per i lavoratori che prestano servizio su 6
giorni la settimana, il congedo ad ore deve essere pari a 3
ore giornaliere.
Con la
circolare 23.02.2016 n. 40, l’Inps chiarisce come
i periodi debbano essere correttamente comunicati al fine
dell’accredito della contribuzione figurativa. Innanzitutto
viene specificato che i destinatari della norma non sono
solo le pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1,
comma 2, del decreto legislativo 165/2001 (escluso, per
previsione normativa, il comparto sicurezza e difesa e
quello dei vigili del fuoco e soccorso pubblico) ma le
istruzioni devono essere applicate anche da tutti i datori
di lavoro che abbiano dipendenti iscritti alla gestione
pubblica.
Ne sono un esempio le fondazioni derivanti dalla
trasformazioni delle ex Ipab, i cui lavoratori abbiano
optato per il mantenimento dell’iscrizione al soppresso
Inpdap. Tecnicamente, in sede di predisposizione del flusso
Uniemens – ListaPosPA, è necessario compilare un quadro V1,
causale 7, codice motivo utilizzo 8, con i nuovi tipo
servizio, diversificati in base alla tipologia di congedo
(con retribuzione ridotta o senza retribuzione) ovvero alla
natura retributiva (stipendio ordinario o tredicesima).
La
percentuale è calcolata dividendo il totale delle ore fruite
a titolo di congedo parentale su base oraria per l’orario
medio giornaliero, come sopra indicato, e moltiplicando il
risultato per 1000. Non necessariamente la percentuale deve
corrispondere a giorni interi, anche se il numero da
indicare nell’Uniemens deve essere arrotondato all’unità (articolo Il Sole 24 Ore del 25.02.2016). |
LAVORI PUBBLICI:
Anticipo ricco all'appaltatore. Fino a luglio il
20% dell'importo (invece del 10%).
DECRETO MILLEPROROGHE/ Dal senato il via libera definitivo
al dl 210/2015.
Proroga di sette mesi, vale a dire dal 31.12.2015 al
31.07.2016, del termine fino al quale è elevata, dal 10%
al 20%, l'anticipazione dell'importo contrattuale in favore
dell'appaltatore, per i contratti relativi a lavori,
affidati a seguito di gare o di altra procedura di
affidamento.
Lo prevede il decreto legge Milleproroghe (210 del 2015)
che, dopo la posizione della fiducia da parte del governo,
ha avuto ieri il definitivo via libera dal Senato con 155 sì
e 122 no (la tabella in pagina riassume le principali novità
introdotte nel passaggio alla Camera, che ha prodotto il
testo definitivo).
Tra gli altri rinvii di rilievo, va
citata la proroga di sei mesi, cioè al 01.07.2016, del
termine a decorrere dal quale è obbligatorio, nel processo
amministrativo, sottoscrivere con firma digitale tutti gli
atti e i provvedimenti del giudice, dei suoi ausiliari, del
personale degli uffici giudiziari e delle parti.
Sempre in
materia di giustizia, il ministero avrà tempo fino al 31.05.2018 per approvare la permanenza in attività degli
uffici dei giudici di pace richiesta dagli enti locali.
Ancora per tutto il 2016 opererà la procedura che
attribuisce al prefetto i poteri di impulso e sostitutivi
relativi alla nomina del commissario ad acta incaricato di
predisporre lo schema del bilancio di previsione degli enti
locali in caso di inadempimento dell'ente stesso, mentre
l'adeguamento delle strutture adibite a servizi scolastici
alle vigenti disposizioni legislative e regolamentari in
materia di prevenzione degli incendi dovrà essere completato
non oltre il 31.12.2016.
Differito alla stessa data il
termine per l'adeguamento alla normativa antincendio delle
strutture ricettive turistico-alberghiere con oltre 25 posti
letto, esistenti alla data di entrata in vigore del dm
09.04.1994 e prorogati, sempre al 31.12.2016 i termini entro
i quali diventa obbligatoria la gestione in forma associata
delle funzioni fondamentali dei piccoli comuni. Ci sarà
invece tempo fino al 30.06.2016 per la revisione
obbligatoria delle macchine agricole immatricolate prima del
01.01.2009.
Spostato infine al 01.01.2017 il termine per l'entrata in
vigore delle disposizioni che sopprimono l'obbligo di
pubblicazione sui quotidiani per estratto del bando o
dell'avviso per l'affidamento dei contratti pubblici nei
settori ordinari, sopra e sotto soglia comunitaria
(articolo ItaliaOggi del 25.02.2016). |
VARI:
Bonus mobili allungato. L'agevolazione fino al
31.12.2016. Guida delle Entrate sulla detrazione del 50%
nelle ristrutturazioni.
Bonus mobili prorogato fino al 31.12.2016. L'Agenzia
delle entrate, con la pubblicazione del 27 gennaio sul
proprio sito della guida aggiornata per ottenere la
detrazione, ha reso attuativo il disposto previsto nella
legge di stabilità 2016.
La detrazione Irpef del 50% spetta
per l'acquisto di mobili e di grandi elettrodomestici di
classe non inferiore alla A+ (A per i forni), destinati ad
arredare un immobile oggetto di ristrutturazione. In
particolare, l'acquisto deve essere effettuato tra il 06.06.2013 e il 31.12.2016.
Per ottenere il bonus
occorre realizzare una ristrutturazione edilizia (e fruire
della relativa detrazione), sia su singole unità immobiliari
sia su parti comuni di edifici residenziali. E occorre che
le spese per tali interventi di recupero edilizio siano
sostenute a partire dal 26.06.2012.
Detrazione
La detrazione del 50% va calcolata su un importo massimo di
10.000 euro, riferito al totale delle spese sostenute per
l'acquisto di mobili e grandi elettrodomestici. Inoltre, la
detrazione deve essere ripartita tra gli aventi diritto in
dieci quote annuali di pari importo. Il bonus spetta per
l'acquisto di:
- mobili nuovi: letti, armadi, cassettiere, librerie,
scrivanie, tavoli, sedie, comodini, divani, poltrone,
credenze, materassi, apparecchi di illuminazione;
- elettrodomestici nuovi: di classe energetica non inferiore
alla A+ (A per i forni), come da etichetta energetica.
L'acquisto è agevolato per gli elettrodomestici privi di
etichetta, a condizione che per essi non ne sia stato ancora
previsto l'obbligo. Rientrano nei grandi elettrodomestici,
per esempio: frigoriferi, congelatori, lavatrici,
asciugatrici, lavastoviglie, apparecchi di cottura, stufe
elettriche, forni a microonde, piastre riscaldanti
elettriche, apparecchi elettrici di riscaldamento. radiatori
elettrici, ventilatori elettrici, apparecchi per il
condizionamento.
Inizio lavori
Per ottenere il bonus mobili è necessario che la data
dell'inizio dei lavori di ristrutturazione preceda quella in
cui si acquistano i beni. Non è fondamentale, invece, che le
spese di ristrutturazione siano sostenute prima di quelle
per l'arredo dell'immobile. La data di avvio dei lavori può
essere dimostrata da eventuali abilitazioni amministrative o
dalla comunicazione preventiva all'Asl.
Per gli interventi
che non necessitano di comunicazioni o titoli abilitativi, è
sufficiente una dichiarazione sostitutiva di atto di
notorietà. Sono agevolabili anche le spese di manutenzione
ordinaria: tinteggiatura pareti e soffitti, sostituzione di
pavimenti, sostituzione di infissi esterni, rifacimento di
intonaci, sostituzione tegole e rinnovo delle
impermeabilizzazioni, riparazione o sostituzione di cancelli
o portoni, riparazione delle grondaie, riparazione delle
mura di cinta.
Box esclusi
Tra gli interventi di recupero del patrimonio edilizio che
permettono di avere il bonus non sono compresi quelli per la
realizzazione di box o posti auto pertinenziali rispetto
all'abitazione principale.
Scontrini
Ai fini della detrazione, lo scontrino che riporta il codice
fiscale dell'acquirente e indica natura, qualità e quantità
dei beni acquistati, equivale alla fattura. Se manca il
codice fiscale, la detrazione è comunque ammessa se in esso
è indicata natura, qualità e quantità dei beni acquistati e
se esso è riconducibile al contribuente titolare della carta
in base alla corrispondenza con i dati del pagamento
(esercente, importo, data e ora)
(articolo ItaliaOggi del 24.02.2016). |
APPALTI: Riforma appalti, il testo definitivo in dirittura d’arrivo.
Lavori. Giovedì il Consiglio dei ministri.
Ultime
limature al decreto legislativo di riforma degli appalti. Il preconsiglio è slittato a domani, il consiglio dei ministri
a giovedì ma il testo è rimasto nella sostanza quello
raccontato dal Sole 24 Ore del 17 e 18 febbraio scorso anche
se molte sono state le limature, le sistemazioni e su alcune
norme le tensioni sono ancora forti dopo la conclusione dei
lavori della “commissione Manzione”.
La novità più rilevante è l’ingresso nel testo finale delle
norme sui poteri dell’Anac che finora pochi avevano letto
(si veda Quotidiano digitale Edilizia e Territorio per tutti
i contenuti).
Fra queste, c’è il parere vincolante dell’Autorita
anticorruzione nella definizione stragiudiziale delle
controversie, l’abrogazione progressiva del regolamento
generale via via che saranno approvate le linee guida Anac
(ma l’abrogazione avverrà sempre per la via regolamentare
per evitare di dare alle disposizioni Anac la forza di norma
regolamentare), il sistema unico di qualificazione degli
esecutori dei lavori pubblici con un rafforzamento dei
poteri sanzionatori dell’Anac verso le Soa e l’introduzione
delle “idonee misure di premialità connesse ai criteri
reputazionali”, il rafforzamento e l’articolazione
generalizzati dei poteri sanzionatori Anac, la prima
definizione di un sistema di qualificazione delle stazioni
appaltanti (si veda Il Sole 24 Ore del 17 e del 18
febbraio).
Quanto alle tensioni, riguardano soprattutto due norme. Una
è la norma inserita a sorpresa che consente alle singole
stazioni appaltanti di escludere le singole imprese in gara
in base al loro “curriculum”, cioè alle prestazioni fornite
in precedenti contratti. Se è largamente accettata
l’introduzione di un rating reputazionale e un rafforzamento
del rating di legalità in un sistema generale di
qualificazione, molte perplessità suscita invece la norma
che consente decisioni di esclusione alla singola
amministrazione.
Si temono abusi di discrezionalità che
possono generare gravi distorsioni di mercato. Più in
generale, i costruttori ritengono che la soglia di un
milione di euro sotto la quale sono le singole stazioni
appaltanti a fare la qualificazione sia troppo elevata.
L’altra norma su cui la mediazione a più soggetti (Consip,
Regioni, Comuni) sembra ancora lontana e che susciterà
reazioni soprattutto nei comuni è quella sulle aggregazioni
di stazioni appaltanti, sulle centrali di committenza e sul
rapporto con il sistema di qualificazione delle stazioni
appaltanti. Il nodo da sciogliere è se sarà possibile
lasciare in capo ad amministrazioni singole che appartengono
a categorie escluse (per esempio i comuni non capoluoghi) le
funzioni di stazioni appaltanti nel caso in cui queste
amministrazioni singole si strutturino per acquisire i
requisiti necessari alla qualificazione Anac.
In altre
parole, se aldilà delle unioni e delle centrali, i comuni
minori possano investire per acquisire i requisiti richiesti
alle stazioni appaltanti. Dal testo attuale del decreto,
questo sembra escluso ma una versione definitiva non sembra
ancora essere stata raggiunta (articolo Il Sole 24 Ore del 23.02.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO: Ascensori in sicurezza anche se installati ante ’99.
Controlli su porte e sistemi di allarme Confedilizia: «È una
tassa».
Impianti comuni. In arrivo un decreto sulle nuove verifiche
raccomandate dalla Ue.
Le imminenti
super verifiche sugli ascensori in mezza Italia hanno messo
in subbuglio il mondo condominiale. Il
Dpr che sta per
arrivare in Consiglio dei ministri (e che modifica il Dpr
162/1999) è la risposta a una vecchia raccomandazione europea
del 1995 che, spiega il ministero dei Lavori pubblici, è
stata già attuata nella maggior parte dei Paesi europei. Ma
anche all’obbligo di recepire la cosiddetta nuova direttiva
ascensori (2014/33/Ue), entro il 19 aprile prossimo.
Un
problema che il Mise si tiene nel cassetto da quando, nel
2010, Confedilizia aveva ottenuto l’annullamento del Dm 23.07.2009, anche per la mancanza del parere del Consiglio
di Stato.
Ora lo Sviluppo economico ha varato una versione
“depotenziata” del decreto Scajola (così era chiamato quello
del 2009): il Dpr, negli allegati, prevede controlli sulla
precisione di fermata e livellamento tra cabina e piano;
sulla presenza di illuminazione del locale macchine e in
cabina; sulla presenza ed efficacia dei dispositivi di
richiusura delle porte di piano con cabina fuori dalla zona
di sbloccaggio; sulla presenza di porte di cabina; sul
rischio di schiacciamento per porte motorizzate; sulla
presenza del dispositivo di comunicazione bidirezionale in
caso di intrappolamento in cabina. Di fatto, si tratta di
controlli che poi possono condurre all’imposizione di
interventi mirati, qualora non vengano superati.
I condomìni, quindi, dovranno adeguarsi alle indicazioni dei
tecnici responsabili, approvando i lavori con la maggioranza
degli intervenuti che rappresenti almeno 1/3 dei millesimi e
dei condòmini; ma, se i lavori sono di «notevole entità» (in
questi casi piuttosto di rado), meglio raggiungere la
maggioranza degli intervenuti in assemblea e almeno 500
millesimi. I lavori sono detraibili al 50% dall’Irpef dei condòmini se pagati entro il 2016 e al 36% se pagati dopo.
Confedilizia ha
bocciato lo schema di Dpr affermando che la spesa sarebbe
stata pari alla Tasi sulla prima casa, appena abrogata, di
200 euro in media per famiglia. «E in ogni caso, invece di
un obbligo generalizzato, gli interventi sulla sicurezza
andrebbero valutati caso per caso», ricorda il presidente di Confedilizia, Giorgio Spaziani Testa.
«In realtà –afferma Michele Mazzarda, presidente di Anacam
(costruttori e manutentori)- non tutti gli impianti devono
fare tutti gli interventi. Di fatto, circa l’80% deve
installare il combinatore telefonico ma per gli altri
interventi la percentuale è assai inferiore. Dal 1999,
quando per gli impianti di nuova costruzione è stata imposta
una serie di requisiti, anche per i 770mila allora già
esistenti, le verifiche periodiche hanno individuato la
necessità di realizzare alcuni di quegli interventi indicati
nel nuovo Dpr: nel 70% dei casi molti sono già stati
realizzati. Così il Governo ha riempito un vuoto ma si
tratta di lavori che sarebbero stati fatti comunque, prima o
poi, per ragioni di sicurezza».
La spesa reale per impianto,
spiega Mazzarda, andrà da 800 a 5mila euro al massimo
«quando si tratta di impianti vetusti e palesemente
pericolosi, in regola con le norme degli anni Settanta ma
oggettivamente insicuri».
Per il presidente di AssoAscensori
e vicepresidente di Ela, Roberto Zappa, «l’Italia è il
fanalino di coda nel recepire importanti norme sulla
sicurezza che impattano non solo sulla vita degli italiani
ma anche sui conti pubblici» (articolo Il Sole 24 Ore del 23.02.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'edilizia in 42 definizioni. Formulazioni
standard per lavori in tutta Italia.
Al tavolo tecnico ministeri-enti locali si definisce il
regolamento unico.
Verso la semplificazione del regolamento unico edilizio.
Quarantadue le definizioni standardizzate (dalla «superficie
territoriale» alla «veranda») idonee a creare un'importante
snellimento degli adempimenti in ambito edilizio. Le
nuove
definizioni standardizzate sono state condivise dal tavolo
tecnico tra i ministeri delle infrastrutture e della
funzione pubblica, le regioni e i comuni.
Tali definizioni confluiranno nel nuovo regolamento edilizio
unico e metteranno finalmente ordine negli uffici tecnici
degli oltre 8 mila comuni italiani. Dopo le definizioni
standardizzate appena decise sono in via di perfezionamento
gli articoli finali del regolamento unico che poi andrà in
conferenza stato regioni per la definitiva approvazione. A
quel punto le regioni avranno sei mesi di tempo per
recepirlo e gli enti locali dovranno farlo proprio.
Definizione di superficie.
Sei saranno le definizioni di superficie: totale, lorda,
utile accessoria, complessiva e calpestabile. La superficie
totale è la somma delle superfici di tutti i piani fuori
terra, seminterrati e interrati comprese nel profilo
perimetrale esterno dell'edificio. La superficie lorda è la
somma delle superfici di tutti i piani comprese nel profilo
perimetrale esterno dell'edificio escluse le superfici
accessorie. La superficie utile è la superficie di pavimento
degli spazi di un edificio misurata al netto della
superficie accessoria e di murature, pilastri, tramezzi,
sguinci e vani di porte e finestre.
La superficie accessoria
è la superficie di pavimento degli spazi di un edificio
aventi carattere di servizio rispetto alla destinazione
d'uso della costruzione medesima, misurata al netto di
murature, pilastri, tramezzi, sguinci, vani di porte e
finestre. Ricomprende: portici e gallerie pedonali,
ballatoi, logge, balconi e terrazze, tettoie, cantine,
sottotetti, vani scala interni alle abitazioni, garage,
parti comuni. La superficie complessiva è la somma della
superficie utile e del 60% della superficie accessoria. La
superficie calpestabile è quella risultante dalla somma
delle superfici utili e delle superfici accessorie di
pavimento.
Carico urbanistico, volume tecnico e
veranda. Per
carico urbanistico si intende il f abbisogno di dotazioni
territoriali di un determinato immobile o insediamento in
relazione alla sua entità e destinazione d'uso.
Costituiscono variazione del carico urbanistico l'aumento o
la riduzione di tale fabbisogno conseguenti all'attuazione
di interventi urbanistico edilizi ovvero a mutamenti di
destinazione d'uso.
Il volume tecnico è costituto dai «vani e spazi strettamente
necessari a contenere e a consentire l'accesso alle
apparecchiature degli impianti tecnici al servizio
dell'edificio (idrico, termico, di condizionamento e di
climatizzazione, di sollevamento, elettrico, di sicurezza,
telefonico ecc.)». La veranda è un «locale o spazio coperto
avente le caratteristiche di loggiato, balcone, terrazza o
portico, chiuso sui lati da superfici vetrate o con elementi
trasparenti e impermeabili, parzialmente o totalmente
apribili»
(articolo ItaliaOggi del 23.02.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In edilizia regole uniche con autonomia.
Territorio. Per i Comuni utilizzo «libero» degli standard in
arrivo.
La legge di
conversione del decreto Sblocca Italia ha previsto che il
Governo, le Regioni e le autonomie locali concludano in sede
di Conferenza unificata accordi o intese per adottare uno
schema di regolamento edilizio-tipo.
Mercoledì scorso al tavolo presso il ministero delle
Infrastrutture, con Regioni, Comuni e Funzione pubblica è
stato condiviso il «quadro delle definizioni uniformi», i 42
indici attraverso cui si articolerà la disciplina edilizia
degli 8mila Comuni italiani (si veda Il Sole 24 Ore del 18
febbraio).
Si tratta di una maglia dettagliata, utile a normalizzare
l’eterogeneo lessico delle costruzioni, ma che non limiterà
il potere degli enti locali di indirizzare autonomamente
l’attività edilizia, in termini qualitativi e quantitativi.
Particolare attenzione è stata posta alla nomenclatura della
superficie edificabile.
Sono state così introdotte le definizioni (e gli acronimi)
della «superficie totale» (ST - somma delle superfici di
tutti i piani fuori terra, seminterrati e interrati comprese
nel profilo perimetrale esterno dell’edificio), della
«superficie lorda» (SL - somma delle superfici di tutti i
piani comprese nel profilo perimetrale esterno dell’edificio
escluse le superfici accessorie), della «superficie utile»
(SU - superficie di pavimento degli spazi di un edificio
misurata al netto della superficie accessoria e di murature,
pilastri, tramezzi, sguinci e vani di porte e finestre),
della «superficie accessoria» (SA - superficie di pavimento
degli spazi di un edificio aventi carattere di servizio
rispetto alla destinazione d’uso della costruzione medesima,
misurata al netto di murature, pilastri, tramezzi, sguinci,
vani di porte e finestre, quali i portici, i balconi, le
tettoie. le cantine, i sottotetti con altezza inferiore a m
1,80, i vani scala interni alle unità immobiliari, le
autorimesse, le parti comuni), della «superficie
complessiva» (SC - somma della superficie utile e del 60%
della superficie accessoria) e della «superficie
calpestabile» (SU + SA - superficie risultante dalla somma
delle superfici utili e delle superfici accessorie di
pavimento).
È proprio l’ampia articolazione delle definizioni a
consentirne l’utilizzo libero da parte dei Comuni, che
potranno così disciplinare l’edificabilità sul proprio
territorio utilizzando, ad esempio, solo il concetto di
superficie utile (così liberalizzando nella sostanza la
realizzazione delle superficie accessorie) senza magari
richiamare il concetto della superficie complessiva (che
limita in percentuale la costruzione degli spazi a
servizio).
Gli enti locali, infatti, pur avendo l’obbligo di utilizzare
la nomenclatura uniformata, non dovrebbero avere quello di
utilizzare tutti gli indici elencati nell’accordo, potendosi
avvalere solo di quelli che ritengano più confacenti a
regolare l’ordinato assetto del proprio territorio, attività
che resta insopprimibile prerogativa dei comuni.
Altra definizione di particolare interesse è quella del
«carico urbanistico» (CU), vale a dire il fabbisogno di
dotazioni territoriali di un determinato immobile o
insediamento in relazione alla sua entità e destinazione
d’uso.
Si tratta del cosiddetto standard urbanistico che può
risultare esuberante o da integrare (eventualmente mediante
il pagamento del controvalore delle aree per servizi che non
fossero reperibili) in relazione all’attuazione di
interventi urbanistico-edilizi, ovvero a mutamenti di
destinazione d’uso (articolo Il Sole 24 Ore del 22.02.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI
LOCALI: Partecipate, danno erariale se il sindaco non «punisce» i
cda. Società. Le implicazioni della riforma Madia sulle
responsabilità.
Il nuovo Testo
unico sulle partecipate affronta all’articolo 12 affronta il
tema della responsabilità degli amministratori di società e
quello degli enti partecipanti. Va detto, a testimonianza
della delicatezza del tema, che prima di assumere la forma
attuale, questa norma è cambiata più volte e in modo
radicale.
Nella sua versione definitiva, il comma 1 statuisce che gli
amministratori di società sono soggetti ad azione di
responsabilità secondo quanto previsto dal Codice civile. A
rafforzare questa facoltà dei soci interviene l’articolo 13,
dove si precisa che i soci pubblici sono legittimati a
presentare denuncia di grave irregolarità al tribunale
indipendentemente dalla propria quota. Tutto chiaro? In
verità il comma conclude con un ambiguo «salvo il danno
erariale». È da intendersi nel senso che per quanto riguarda
questa tipologia di danno resta impregiudicata l’azione
contabile oppure, al contrario, che gli amministratori della
azienda ne sono esenti?
Il tema andrà approfondito. Certo è che se dovesse prevalere
una interpretazione restrittiva, ne deriverebbe la
configurabilità per gli amministratori di un danno
perseguibile solo civilmente, perfino per le società in
house, il che metterebbe a rischio la tenuta, sul piano
concettuale e operativo, della stessa nozione di società in
house, quale ormai consolidatasi nel tempo e cristallizzata
con efficacia nella sentenza 1/2008, dal Consiglio di Stato
in adunanza plenaria: «Le società in house hanno della
società solo la forma esteriore ma costituiscono in realtà
delle articolazioni della pubblica amministrazione da cui
promanano».
L’articolo 12, ancora, interviene anche per quanto riguarda
la giurisdizione contabile, stabilendo che costituisce danno
erariale «esclusivamente» il danno subito dagli enti
partecipanti, compreso il danno determinato dai
rappresentanti degli enti partecipanti che abbiano
trascurato l’esercizio del diritto (e dovere) di socio.
L’articolo stabilisce dunque, e qui con chiarezza, la
perseguibilità del danno erariale in capo al socio, ove e
nella misura in cui questo sia anche solo indirettamente
cagionato all’ente partecipante. In questo quadro, però,
diviene essenziale documentare e quantificare il danno reale
al patrimonio e/o all’immagine/reputazione dell’ente socio.
Dimostrazione certo non semplice, in molti casi, soprattutto
se la società, al di là della fattispecie dannosa, resti in
utile.
Ancora, il combinato disposto degli articoli 9 e 12 rende
evidente che in ambito locale l’azione contabile per il
ristoro del danno erariale si indirizzerà, quando sia
contestato il fatto di aver trascurato il dovere di
esercitare compiutamente il ruolo di azionista, direttamente
nei confronti del sindaco, figura di cui viene in tal modo
indirettamente sancita la centralità nella definizione delle
politiche societarie dell’ente, che risultano quindi di sua
propria responsabilità, visto che a lui (articolo 9) spetta
la gestione delle partecipazioni.
In sostanza, l’articolo 12 sembra dunque implicare che siano
individuabili due ambiti distinti di danno, erariale e non
erariale, per i quali non vi sono interferenze: nel primo
caso l’azione sarà proposta dal pm contabile dinanzi al
giudice contabile, mentre nel secondo dagli azionisti
dinanzi al giudice civile. Due sedi giudiziarie, dunque, con
due giudici distinti che useranno categorie e paradigmi di
valutazione diversi. È chiaro, però, che un sindaco che
ometta di esercitare una azione di responsabilità quando ne
ricorrano gli estremi correrà il rischio di risponderne
sotto il profilo contabile (articolo Il Sole 24 Ore del 22.02.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO:
I vigili non hanno diritto al bonus di 80 euro.
I vigili urbani non hanno diritto al compenso straordinario
previsto dalla legge di Stabilità per le forze di polizia
dello stato, i militari e i pompieri per l'anno 2016.
Lo ha definitivamente chiarito la Ragioneria generale dello
Stato con la
nota 27.01.2016 n. 6418
di prot. inoltrato il 9 febbraio al comune di
Cinisello Balsamo.
L'articolo 1, comma 972, della legge di Stabilità 2016 ha
previsto per quest'anno un contributo straordinario di 80
euro mensili per il personale appartenente ai corpi di
polizia, al corpo nazionale dei vigili del fuoco e alle
forze armate. Non essendo chiaramente evidenziato nella
legge se per forze di polizia si intendono solo quelle dello
stato o anche quelle locali alcuni comuni hanno richiesto
chiarimenti al ministero che ha immediatamente eliminato
ogni dubbio.
L'incentivo economico, in ogni caso riferito solo all'anno
in corso, non può essere esteso anche alla polizia
municipale. Per arrivare a questa interpretazione
restrittiva a parere dell'ispettorato generale per gli
ordinamenti del personale e l'analisi dei costi del lavoro
pubblico occorre fare riferimento alle indicazioni letterali
della novella.
La legge di Stabilità specifica infatti che il compenso
straordinario venga corrisposto, «nelle more dell'attuazione
della delega sulla revisione dei ruoli delle forze di
polizia, del corpo nazionale dei vigili del fuoco e delle
forze armate, con ciò presupponendo che i corpi di polizia
interessati siano circoscritti a quelli statali».
Infatti, prosegue la nota che è stata trasmessa anche all'Anci
per la sua divulgazione generale, destinatario della delega
prevista dall'art. 8 della legge 07.08.2015, n. 124, è
esclusivamente il personale appartenente ai corpi di polizia
statali al quale il legislatore ha inteso attribuire un
compenso straordinario non avente natura retributiva.
Del resto, conclude la nota, la relazione tecnica della
legge, nel quantificare gli oneri dell'intervento ha
considerato circa 510 mila unità corrispondenti al totale
del personale dello stato. Quindi nessun bonus straordinario
per i vigili ai quali lo stato però contemporaneamente
richiede sempre maggior impegno nel controllo degli
incidenti
(articolo ItaliaOggi del 19.02.2016). |
APPALTI:
Commissari, libertà di scelta. Non serve
ricorrere all'albo per appalti affidati via internet.
Novità sulle commissioni giudicatrici nel
decreto delegato della riforma del codice dei contratti.
Commissari di gara nominati dalle stazioni appaltanti senza
utilizzo dell'albo dell'Anac per tutti gli appalti sotto la
soglia europea e per interventi affidati con le piattaforme
telematiche di negoziazione. Sarà l'Anac a definire i
requisiti dei commissari di gara che verranno scelti
dall'Albo che la legge le ha affidato.
È questa una delle novità principali introdotte nella bozza
di decreto delegato della riforma del codice appalti che
dovrebbe andare all'esame del prossimo consiglio dei
ministri.
Si tratta di una novità che peraltro riproduce
alcuni degli emendamenti e delle versioni della delicata
norma sulle commissioni di gara che poi non sono confluiti
nella legge delega n. 11/2016.
Secondo il testo che dovrebbe essere ormai definito si
prevede che la commissione giudicatrice è obbligatoria per
tutti i contratti affidati con il criterio dell'offerta
economicamente più vantaggiosa individuata sulla base del
miglior rapporto qualità-prezzo. Alla commissione è devoluta
la valutazione delle offerte dal punto di vista tecnico ed
economico. La commissione è costituta da esperti nello
specifico settore cui afferisce l'oggetto del contratto che
vengono scelti dall'albo dei commissari di gara previsto
dalla legge 11/2016.
È lo stesso decreto a precisare che l'Anac gestirà l'albo
aggiornandolo secondo criteri che verranno individuati con
apposite determinazioni. Sarà sempre l'Anac a dover fissare
i requisiti di incompatibilità e moralità, nonché di
comprovata competenza e professionalità nello specifico
settore cui si riferisce il contratto.
Tornando alla gara,
dovrà essere nominato un numero dispari di commissari non
superiori a cinque che, come dice la legge, che in questo
passaggio del decreto viene pedissequamente trasportata,
verrà individuato dalla stazione appaltante mediante
pubblico sorteggio da una lista di candidati costituita da
un numero di nominativi almeno doppio rispetto a quello dei
componenti da nominare. La nomina dei commissari e la
costituzione della commissione devono avvenire dopo la
scadenza del termine fissato per la presentazione delle
offerte. La lista dei commissari è comunicata dall'Anac alla
stazione appaltante di norma entro cinque giorni dalla
richiesta della stazione appaltante.
Da notare che il decreto stabilisce che i commissari possano
anche «lavorare a distanza con procedure telematiche che
salvaguardino la riservatezza delle comunicazioni». La
novità, che non trova riscontro nella legge 11/2016, è che
la stazione appaltante, in caso di affidamento di contratti
di importo inferiore alle soglie comunitarie (5,2 milioni
per lavori e 209 mila per servizi e forniture) o per
contratti «che non presentano particolare complessità»
possono nominare componenti interni alla stazione
appaltante.
Dalla lettura della norma parrebbe quindi che per gli
appalti al di sotto della soglia comunitaria non si debba
ricorrere all'albo Anac, così come per gli appalti
complessi. Lo stesso decreto chiarisce che sono considerate
di non particolare complessità le procedure svolte
attraverso piattaforme telematiche di negoziazione e, ma
questo era ovvio, le procedure aggiudicate al solo criterio
di aggiudicazione del prezzo o del costo.
I commissari non devono aver svolto né possono svolgere
alcun'altra funzione o incarico tecnico o amministrativo
relativamente al contratto oggetto dell'affidamento;
impossibile anche la nomina di commissari che devono
giudicare offerte relative a contratti affidati dalle
amministrazioni presso le quali hanno lavorato
(articolo ItaliaOggi del 19.02.2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
Regolamento edilizio unico per 8mila Comuni.
Semplificazioni. Dal Mit ok alle definizioni standard.
Svolta sul regolamento edilizio
unico. Al tavolo presso il Mit -con Regioni, Comuni e
Funzione pubblica- è stato infatti raggiunto un accordo
sulle definizioni standardizzate destinate a sostituire
quelle “personalizzate” in vigore negli oltre 8mila comuni
italiani.
A spingere per
chiudere la questione è stato il titolare delle
Infrastrutture, Graziano Delrio, che a maggio scorso ha
preso in carico questo dossier.
Il regolamento edilizio unico avrà 42 definizioni
standardizzate, identiche e immodificabili in ogni comune
d’Italia. Le definizioni sono il cuore del
regolamento edilizio. Proprio il braccio di ferro su quali
definizioni di “superficie” accogliere nel testo ha tenuto
bloccato a lungo il tavolo presso le Infrastrutture.
Il testo proposto dai tecnici del Mit la scorsa settimana ha
consentito di superare le ultime resistenze di alcuni enti
locali. Ora la strada del regolamento edilizio unico -“pezzo pregiato” dell’agenda del governo sulle
semplificazioni in materia edilizia- è tutta in discesa.
Dopo l’ok finale, preceduto dal passaggio in conferenza
unificata, toccherà alla Regioni recepirlo, entro sei mesi,
poi tocca ai Comuni (articolo Il Sole 24 Ore del
18.02.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI:
Bilanci comunali al 30 aprile Le Province vanno
al 31 luglio. Adempimenti. In Conferenza Stato-Città oggi
accordo sui termini «liberi» per il Dup.
Rinvio al 30 aprile per i bilanci
preventivi dei Comuni e al 31 luglio per quelli di Città
metropolitane e Province, chiarimento sul carattere
«ordinatorio» delle scadenze per il Dup, il nuovo Documento
unico di programmazione che sta mettendo in difficoltà
amministrazioni e revisori, aggiornamento delle «capacità
fiscali» dei Comuni e conferma dei criteri dell’anno scorso
per la replica dei tagli previsti dal decreto 66/2014.
È ricco il menu della Conferenza Stato-Città che oggi alle
13 proverà a rimettere ordine al calendario delle scadenze
per le amministrazioni locali: un calendario stretto fra le
incognite delle amministrazioni locali, alle prese con
l’applicazione a regime della nuova contabilità e del
pareggio di bilancio, e la spinta del Governo per evitare
proroghe a catena.
Di qui la scelta del 30 aprile (anticipata sul Sole 24 Ore
del 3 febbraio), che offre un po’ più tempo ai sindaci senza
entrare troppo nel territorio minato pre-elettorale: a
giugno vanno al voto più di 1.300 Comuni, e l’esperienza
insegna che un rinvio più lungo avrebbe proiettato quasi
inevitabilmente i bilanci in autunno. Molto dipende però
anche dalla rapidità dell’aggiornamento dei dati sulle
«capacità fiscali» dei Comuni, essenziali per il meccanismo
della perequazione che quest’anno governerà il 30% del fondo
di solidarietà nella quota extra rispetto ai rimborsi per il
mancato gettito Imu e Tasi. Il decreto con i nuovi dati
arriverà oggi in conferenza, prima tappa dell’iter per la
sua approvazione definitiva.
Il problema delle elezioni, anche se di secondo livello, non
esclude le Province e le Città metropolitane, ma per gli
enti di area vasta le questioni aperte sono più spinose. Si
aspettano, prima di tutto, i dati definitivi del
monitoraggio sul Patto di stabilità, che secondo i calcoli
disponibili oggi è stato mancato dall’ampia maggioranza
delle amministrazioni: se le cifre definitive confermeranno
questa situazione, le sanzioni a regime che prevedono un
taglio (o meglio un prelievo forzoso, perché Province e
Città non hanno trasferimenti) pari allo sforamento
porterebbero a un rischio di dissesti a catena.
È probabile
un intervento per tornare a penalità più soft (l’anno scorso
erano del 20% dello sforamento), che era stato ipotizzato
nel corso della legge di conversione del Milleproroghe ma
poi è stato rimandato proprio per aspettare il quadro
definitivo sul rispetto dei vincoli di finanza pubblica. In
un quadro del genere, dunque, i numeri sono destinati a
rimanere incerti ancora per un po’, e da qui l’esigenza di
spostare i termini al 31 luglio replicando il sistema delle
scadenze differenziate sperimentato lo scorso anno.
Il balletto delle scadenze investe anche il Dup, il
documento unico di programmazione che doveva essere
presentato entro il 31 dicembre scorso e andrebbe aggiornato
entro il 28 febbraio. Sul punto, la prospettiva dovrebbe
essere quella di una presa d’atto in Conferenza del
carattere «ordinatorio» delle scadenze, per dar modo ad
amministratori e revisori di procedere senza sanzioni a
patto, ovviamente, di approvare il tutto prima del bilancio
preventivo, di cui il Dup è premessa fondamentale (articolo Il Sole 24 Ore del
18.02.2016). |
TRIBUTI:
Comodati, pertinenze con vincoli sugli sconti.
Enti locali. Risoluzione del Def dopo
Telefisco.
Il Dipartimento
delle finanze, con
risoluzione
17.02.2016 n. 1/DF, interviene
nuovamente sull’intricata norma relativa ai comodati,
confermando le indicazioni già fornite a Telefisco 2016 e
alla Cna con la nota numero 2472 del 29 gennaio scorso, ma
fornendo anche nuove indicazioni.
Le conferme riguardano il concetto di “immobile” che deve
essere riferito alle sole unità immobiliari abitative.
Secondo il Ministero la norma si colloca nell’ambito del
regime delle agevolazioni riconosciute per gli immobili ad
uso abitativo e, dunque, laddove questa richiama in maniera
generica il concetto di immobile, la stessa deve intendersi
riferita all’immobile ad uso abitativo.
Il Ministero ricorda anche che è stata abrogata la
disposizione che autorizzava i Comuni a disporre
l’assimilazione all’abitazione principale di quella data in
comodato a parenti. Nel 2016 al Comune è preclusa la
possibilità di continuare a mantenere tale assimilazione in
quanto verrebbero violati i limiti imposti dall’articolo 52
del Dlgs 446/1997, vale a dire l’«individuazione e
definizione delle fattispecie imponibili, dei soggetti
passivi e della aliquota massima dei singoli tributi».
In merito alla registrazione del contratto di comodato,
vengono confermate le indicazioni già data con la nota del
29 gennaio, e quindi l’obbligo di registrare il contratto
entro 20 giorni, con la precisazione che l’agevolazione Imu
decorre dalla data del contratto di comodato e non da quello
della registrazione. Si precisa poi che anche per i
contratti verbali di comodato occorre avere riguardo alla
data di conclusione del contratto, ai fini della decorrenza
dell’agevolazione.
Per quanto riguarda le pertinenze che vengono concesse in
comodato unitamente all’abitazione è precisato che anche per
queste si renderà applicabile il trattamento di favore
previsto per l’abitazione, tuttavia nei limiti comunque
fissati dall’articolo 13, comma 2, del Dl 201/2011, o nei
limiti di una pertinenza per ciascuna categoria catastale
C/2, C/6 e C/7. Tale conclusione si fonda, ad avviso del Mef,
sulla circostanza che il comodatario, per espressa
previsione di legge, deve adibire a propria abitazione
principale l’immobile concesso in comodato.
L’interpretazione ministeriale tuttavia non convince, perché
comunque non si tratta di ipotesi di assimilazione
all’abitazione principale, come ricordato a proposito del
divieto per i Comuni di continuare a disporre
l’assimilazione con regolamento, e non essendo stato
previsto espressamente per legge un numero massimo di
pertinenze che possano accedere alla riduzione del 50% della
base imponibile, si deve applicare la norma di carattere
generale stabilita dal codice civile, che prevede lo stesso
trattamento giuridico previsto per il bene principale.
È, infine, trattato il caso delle abitazioni rurali ad uso
strumentale, di cui all’articolo 9, comma 3-bis del Dl
557/1993, o di quelle destinate ad abitazioni dei dipendenti
esercenti attività agricola assunti a tempo indeterminato o
a tempo determinato per un numero di giornate lavorative
superiori a 100. Secondo il Mef, il possesso di questo
immobile sebbene abitativo non preclude l’accesso
all’agevolazione, poiché è stato lo stesso legislatore che,
al verificarsi delle suddette condizioni, lo ha considerato
strumentale all’esercizio dell’agricoltura e non abitativo.
Anche questa conclusione non convince pienamente, perché non
si comprende quale sia la differenza tra il fabbricato
abitativo rurale disciplinato dall’articolo 9, comma 3, come
quello dato in comodato al soggetto che conduce il terreno,
e quello dato in comodato o affitto ai dipendenti agricoli (articolo Il Sole 24 Ore del
18.02.2016). |
APPALTI:
Appalti, arrivano gli advisors. Sì ai consulenti
per i responsabili unici del procedimento.
Bozza di decreto sul riordino delle concessioni.
Metodi di calcolo dell'anomalia sorteggiati.
Possibili advisors per il responsabile unico del
procedimento; trattativa privata con cinque inviti per tutti
i contratti da 40 mila a 150 mila euro e per i lavori fino a
un milione con dieci inviti; metodi di calcolo dell'anomalia
sorteggiati e non predeterminati; performance bond
sostituito da una cauzione definitiva e sugli extra costi;
forti limiti all'avvalimento.
Sono queste alcune delle
scelte che emergono dalla lettura delle bozze che circolano
del decreto di riordino degli appalti, attuativo della legge
11/2016, che dovrebbe essere portato ad una delle prossime
riunioni del consiglio dei ministri (si parla di domani o di
lunedì) per l'approvazione preliminare.
Al momento sembra
che si stiano consolidando alcune scelte di fondo, mentre su
altri importanti temi l'approfondimento è ancora in corso.
Premesso che ormai è definitiva la scelta di procedere con
un unico testo al recepimento delle direttive in materia di
appalti, concessioni e «settori speciali» (scartata
l'opzione delle due fasi: prima recepimento entro il 18
aprile e poi il nuovo codice entro fine luglio), va detto
che sono numerosissimi i rinvii ad altri decreti che
dovranno attuare parti, anche rilevanti, della materia
disciplinata a livello primario dal codice di riordino.
Per
quel che riguarda la soglia di anomalia delle offerte la
stazione appaltante individuerà, prima dell'apertura delle
buste economiche, il metodo di calcolo della soglia di
anomalia tramite sorteggio in sede di gara. Sarà poi un
decreto del ministro delle infrastrutture e dei trasporti,
su proposta dell'Anac, a individuare i metodi per la
determinazione dell'anomalia. Si sta però ragionando anche
sulla possibilità di definire normativamente una soglia
oltrepassata la quale si debba sempre verificare una
offerta: ad esempio l'ipotesi in esame prevedrebbe l'obbligo
di verifica per tutte le offerte al di sotto del 40%.
In
tema di responsabile del procedimento le versioni del testo
circolate sin ad oggi confermano la linea di continuità con
la disciplina vigente del codice e del regolamento, anche se
è all'attenzione della commissione anche la possibilità, per
interventi di una certa complessità, che il Rup,
responsabile unico del procedimento (project manager), possa
essere anche affiancato da uno staff di professionisti
esterni che siano il suo braccio operativo. Per la
disciplina dei contratti sotto la soglia Ue si prevede
l'affidamento diretto fino a 40 mila euro; la procedura
negoziata con cinque inviti da 40 mila a 150 mila; per i
soli lavori da 150 mila a un milione la procedura negoziata
con dieci invitati.
Si precisa che fino a 150 mila euro le
stazioni appaltanti verificheranno soltanto i requisiti di
carattere generale, consultando il casellario informatico
presso Anac (Autorità nazionale anticorruzione). La
disciplina del contraente generale (che non potrà avere
anche la direzione lavori) sembra essere ancora
integralmente inserita nelle bozze di lavoro, ivi compreso
l'albo dei contraenti generali gestito dal ministero delle
infrastrutture. Rispetto ai requisiti per la qualificazione
delle stazioni appaltanti il testo prevede che sia l'Anac a
gestire l'elenco introdotto con la legge delega e che i
requisiti siano definiti con decreto del presidente del
consiglio dei ministri.
Per le commissioni di gara si
prevede che dall'elenco gestito dall'Anac verranno scelti i
commissari che si occuperanno della valutazione delle
offerte dal punto di vista tecnico ed economico e che in
caso di affidamento di contratti che non presentano
particolare complessità, la stazione appaltante si prevede
che possa nominare componenti interni alla stazione
appaltante.
Il performance bond, oggi già sospeso in attesa
dell'abrogazione che avverrà fra due mesi, verrà sostituito
da una doppia cauzione: definitiva ed «extra costi».
Dovrebbe essere più limitato il ricorso all'avvalimento e,
in particolare, si dovrebbe arrivare al divieto di
avvalimento per la certificazione di qualità e per i
requisiti della qualificazione e dell'esperienza tecnica e
professionale soggettive
(articolo ItaliaOggi del 18.02.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
VARI:
Dal 2 marzo prestiti vitalizi per gli over 60,
con ipoteca sugli immobili.
Diventa definitivamente operativa a partire dal 02.03.2016
la disciplina in materia di prestito vitalizio ipotecario. I
proprietari over 60 di un immobile residenziale, da tale
data, potranno ottenere liquidità fino a 350.000 euro grazie
al prestito vitalizio ipotecario, senza perdere la proprietà
dell'immobile. Oggetto dell'iscrizione ipotecaria a garanzia
del prestito vitalizio ipotecario potranno essere soltanto
gli immobili aventi la destinazione urbanistica di civile
abitazione.
È con il regolamento del ministro dello sviluppo economico,
decreto 22.12.2015, n. 226 (pubblicato sulla Gazzetta
Ufficiale del 16.02.2016 n. 38) attuativo dell'articolo
11-quaterdecies, comma 12-quinquies, del decreto legge,
30.09.2005, n. 203, convertito dalla legge, 02.12.2005, n.
248 (come modificato dall'articolo 1, comma 1, della legge,
02.04.2015, n. 44) che viene delineata la disciplina di
attuazione del prestito vitalizio ipotecario.
Con successivo
studio 22.01.2016 n. 38-2016/C
il Consiglio nazionale del
notariato fornisce una panoramica d'insieme delle novità
contenute nel regolamento attuativo.
Cointestazione del contratto di
finanziamento.
Quando il soggetto finanziato risulti coniugato oppure
convivente more uxorio da almeno un quinquennio (documentato
attraverso la presentazione di un certificato di residenza
storico) il contratto di finanziamento andrà sottoscritto da
entrambi i soggetti, anche se l'immobile è di proprietà di
uno soltanto di essi.
In pratica, ai fini della cointestazione del finanziamento, sarà necessario che i
requisiti soggettivi siano posseduti da entrambi i soggetti
sottoscrittori, dovendo entrambi essere persone fisiche con
una età superiore a sessant'anni compiuti.
Se si tratta poi
di soggetti conviventi more uxorio, sarà necessario che tale
convivenza abbia una durata pari ad almeno un quinquennio
documentato attraverso la presentazione di un certificato di
residenza storico. Mentre, per quanto riguarda la titolarità
del bene oggetto garanzia, la norma non richiede che
entrambi i soggetti siano titolari del bene, ammettendosi
l'erogazione del finanziamento anche se il bene è di
esclusiva proprietà di uno soltanto di essi.
Rimborso integrale finanziamento.
Il finanziatore potrà richiedere il rimborso integrale del
finanziamento in un'unica soluzione in caso di morte del
soggetto finanziato. E se il finanziamento sarà cointestato,
tale condizione si avvererà al momento della morte del
soggetto finanziato più longevo
(articolo ItaliaOggi del 18.02.2016). |
TRIBUTI:
Imu, il comodato va registrato. Per usufruire
dell'agevolazione va utilizzato il mod. 69.
Una risoluzione del dipartimento delle finanze
sulla riduzione per la concessione ai figli.
Sui contratti di comodato verbali per l'agevolazione Imu
prima casa ok alla registrazione in duplice copia con
l'indicazione della stipula della data dal 01.01.2016.
Inoltre la Tasi non è dovuta dal comodatario. Sarà versata
dal comodante, una volta ridotta la base imponibile del 50%,
nella percentuale stabilità dal comune con riferimento
all'anno 2015. In caso il comune non abbia deliberato, si
applicherà la Tasi pari al 90% dell'ammontare complessivo
del tributo.
Infine ai fini dell'agevolazione, introdotta con la legge di
stabilità 2016, a favore di immobili concessi in comodato
tra parenti, per possesso di un solo immobile in Italia si
deve fare riferimento agli immobili ad uso abitativo e,
dunque il possesso delle pertinenze, o di un altro immobile
che non sia destinato ad uso abitativo, non impediscono il
riconoscimento dell'agevolazione (riduzione della base
imponibile del 50% in caso di cessione dell'abitazione in
comodato ai familiari).
Sono questi, in estrema sintesi, i chiarimenti giunti ieri
dal dipartimento delle finanze, con la
risoluzione
17.02.2016 n.
1/DF, sull'agevolazione prima casa introdotta dalla legge
208/2015 (legge di stabilità 2016).
Registrazione del contratto di comodato. Il contratto di
comodato non è soggetto all'obbligo di registrazione,
«tranne», spiegano dal dipartimento, «nell'ipotesi di
enunciazione in altri atti». La legge di stabilità però ha
richiesto espressamente la registrazione del contratto di
comodato e «ha inteso estendere», sottolineano dalle
Finanze, «tale adempimento limitatamente al godimento
dell'agevolazione Imu anche a quelli verbali».
Dunque, con
esclusivo riferimento ai contratti verbali di comodato, e ai
soli fini dell'applicazione Imu , la relativa registrazione
potrà essere effettuata con l'esclusiva presentazione del
modello di richiesta di registrazione (modello 69) in
duplice copia in cui, scrivono nella risoluzione, «dovrà
essere indicato contratto verbale di comodato».
Infine dal
dipartimento precisano che «anche per i contratti verbali di
comodato occorre avere riguardo alla data di conclusione del
contratto, ai fini della decorrenza dell'agevolazione». La
questione era stata sollevata da Cna che in una nota diffusa
sempre ieri ha sottolineato come «il ministero dell'economia
e delle finanze, amplia ulteriormente i contenuti di
risposte già fornite ai quesiti di Cna, in merito ai termini
di registrazione dei contratti verbali di comodato,
finalizzati al riconoscimento della riduzione dell'Imu e
della Tasi, nonché fornisce ulteriori chiarimenti su
questioni poste dalla Confederazione».
Possesso di un solo immobile da parte del comodante. Nella
risoluzione, si chiarisce che ai fini dell'agevolazione per
solo immobile, che deve possedere il comodante, si deve far
riferimento a immobili a uso abitativo. Sono esclusi dunque
i terreni agricoli o i negozi. Non solo. Non rientrano, nel
calcolo del possesso di un solo immobile abitativo, le
pertinenze e a queste ultime, qualora venga concesso lo
sgravio all'immobile a cui sono annesse, si applicherà lo
stesso trattamento di favore previsto, appunto, per la cosa
principale.
La risoluzione affronta, poi, diverse casistiche.
Il beneficio è riconosciuto nel caso in cui due coniugi
possiedono la comproprietà al 50% dell'immobile che viene
concesso in comodato al figlio e il marito possiede un altro
immobile ad uso abitativo in un comune diverso da quello del
primo immobile. Le finanze riconoscono l'agevolazione solo
con riferimento alla quota di possesso della moglie, in
quanto per il marito non è rispettato il requisito del
possesso dell'unico immobile.
A diversa soluzione si sarebbe giunti se il marito avesse
posseduto l'altro immobile nello stesso comune potendo in
tale modo entrambi usufruire dell'agevolazione. Situazione
capovolta. Se l'immobile è di comproprietà tra i coniugi ed
è concesso in comodato ai genitori di uno di essi, allora
l'agevolazione spetta al solo comproprietario per il quale è
rispettato il vincolo di parentela, in ragione della quota
di possesso. Infine nell'ipotesi di due immobili ad uso
abitativo, di cui uno in comproprietà, in un comune diverso
da quello in cui è ubicato il secondo, posseduto al 100% e
concesso in comodato, per il Fisco non si applica la
disposizione di favore, indipendentemente dalla quota di
possesso dell'immobile, poiché non è rispettato il requisito
di possedere un solo immobile in Italia.
L'agevolazione in questo caso opera solo se l'immobile,
posseduto in percentuale e ubicato nello stesso comune in
cui è situato l'immobile concesso in comodato, è destinato a
propria abitazione principale dal comodante
(articolo ItaliaOggi del 18.02.2016). |
APPALTI:
Appalti, tutti i poteri all’Anac. Salta la cabina
di regìa, vecchio regolamento ad abrogazione progressiva.
Palazzo Chigi. Il testo del Dlgs oggi in «commissione
Manzione» per l’ultima riunione, poi subito in Cdm.
Si svuota la cabina di regia a
Palazzo Chigi (che farà solo programmazione di investimenti)
per lasciare tutti i poteri di indirizzo normativo e
regolazione all’Anac di Raffaele Cantone; si prevede una
fase transitoria che, per evitare di bloccare i bandi e le
opere in corso, comporti una «abrogazione progressiva» del
vecchio regolamento via via che arriveranno le linee-guida
dell’Anac; si limita la possibilità di adottare il criterio
del massimo ribasso in gara solo per piccoli contratti di
manutenzione; si prevede «una soglia del sottosoglia Ue» (1
milione di euro per i lavori, 150mila euro per forniture e
servizi) sotto la quale sarà possibile affidare appalti
mediante procedure negoziate «previa consultazione di dieci
operatori economici, nel rispetto di un ciriterio di
rotazione degli inviti, individati sulla base di indagini di
mercato o tramite elenchi di operatori economici». In queste
gare semplificate la stazione appaltante potrà inserire
anche l’esclusione automatica delle offerte anomale.
Sono alcune delle novità del testo di decreto legislativo
che recepirà le direttive Ue e riformerà il codice degli
appalti, modificando radicalmente anche i sistemi di
qualificazione: ci saranno «idonee misure di premialità
connesse ai criteri reputazionali» per le imprese
appaltatrici di lavori, un potere sanzionatorio rafforzato
dell’Anac verso le Soa (società organismo di attestazione) e
un ventaglio assai ampio di sanzioni pecunarie e
amministrative per colpirne le distorsioni, il
«coordinamento con la normativa vigente in materia di rating
di legalità», la novità assoluta della istituzione di «un
sistema reputazionale delle stazioni appaltanti teso a
valutarne l’effettiva capacità tecnico-organizzativa sulla
base di di parametri oggettivi e criteri di qualità,
efficienza e professionalizzazione delle stesse».
Oggi pomeriggio la «commissione Manzione» terrà un’ultima
riunione, in plenaria, per bollare lo schema di decreto
attuativo della delega della legge 11/2016 e trasferirlo poi
nelle mani di Matteo Renzi che ha fretta di portarlo al
Consiglio dei ministri subito, forse già domani o al più
tardi la prossima settimana.
Ancora ieri sera il testo mancava di alcune parti
fondamentali (gli articoli sui poteri dell’Anac) e altre
venivano ancora riscritte e limate alla velocità della luce,
ma per oggi la stesura definitiva sarà pronta. Sfida nella
sfida -una sfida titanica quella in capo al direttore
dell’ufficio legislativo di Palazzo Chigi, Antonella Manzione, di riscrivere in due mesi l’intera disciplina
degli appalti pubblici- la riduzione del numero degli
articoli che è sceso dai 249 su cui ha lavorato la
commissione in questi ultimi 45 giorni a 219 (cui vanno
aggiunti una decina di articoli sui poteri Anac), in
ossequio al principio della semplificazione e
dell’alleggerimento normativo che anima il governo (e in
particolare il ministro delle Infrastrutture, Graziano
Delrio).
Per nessuna ragione al mondo Renzi vuole sforare la data del
18 aprile -scadenza per l’esercizio della delega e
soprattutto per il receprimento delle direttive Ue- per
l’approvazione definitiva del provvedimento. Tra il primo sì
e quello definitivo del Cdm c’è un percorso a ostacoli, con
i pareri del Consiglio di Stato, della Conferenza
Stato-Regioni e ben due pareri delle commissioni
parlamentari. Il percorso sarà “in simultanea” e non “in
sequenza” e dovrebbe richiedere almeno 45 giorni, ma il
premier vuole affrontarlo per tempo.
Sulla riforma degli appalti Renzi si gioca due partite
decisive: una interna, per avviare un nuovo sistema di
investimenti pubblici a blindatura anticorruzione che giri
intorno alla vigilanza e alla regolazione di Raffaele
Cantone; l’altra in Europa, dove Renzi spiegherà che questa
è un’altra fondamentale riforma economica che agisce su uno
dei punti più critici in questo momento: il rilancio degli
investimenti.
Un crocevia di tensioni che toccano il
rilancio del Pil italiano, l’accettazione da parte della Ue
della “clausola” di flessibilità per gli investimenti da 5
miliardi, le riforme economiche in senso lato. Normale
quindi che il premier voglia fare in fretta per ribaltare il
rischio di una procedura di infrazione per il mancato
recepimento in una carta a sua favore da giocare con
Bruxelles.
Il rilancio degli investimenti, in un regime di
legalità e di risultati effettivi (fare le opere in tempi e
costi certi e non solo avviare incompiute), è anche la carta
con cui si può spingere l’economia italiana a riprendere la
corsa. Il limite posto alle varianti in corso d’opera, le
procedure telematiche e il nuovo Osservatorio appalti
potenziato presso l’Anac lo aiuteranno in questo percorso (articolo Il Sole 24 Ore del
17.02.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI:
Stazioni appaltanti, le strade di qualifica o
aggregazione. Enti locali. Il testo
lascia aperte le diverse strade.
Uno dei nodi aperti
della riforma appalti è quello delle aggregazioni e delle
centralizzazioni delle committenze, posto con forza dalle
direttive Ue e dalle politiche di spending review, mentre la
legge delega individua anche nella qualificazione e nella
professionalizzazione delle stazioni appaltanti gli
strumenti per rendere efficiente il sistema. Un tema che non
è privo di contraddizioni e avrà un impatto sugli enti
locali che non di rado vivono questi processi di riforma “in
difesa” rispetto alle competenze attuali. Diverse strade
sono ancora aperte.
«Il recepimento delle direttive Ue –dice
Claudio Lucidi, componente della “commissione Manzione” in
rappresentanza dell’Anci, intervistato dal Quotidiano
Edilizia e Territorio- può rappresentare un’occasione
importante per rilanciare il ruolo e le funzioni dei comuni
e contemporaneamente contribuire a un riordino delle
modalità di approvvigionamento, razionalizzando procedure di
spesa attraverso l’applicazione di criteri di qualità ed
efficienza».
Ma qual è la strada giusta per dare efficienza al settore?
«Per raggiungere questi obiettivi -dice Lucidi- la legge
delega indica vari percorsi: a) professionalizzazione e
qualificazione delle stazioni appaltanti; b)
centralizzazione delle committenze e riduzione del numero
delle stazioni appaltanti; c) creazione di reti di
committenza per intensificare il ricorso ad affidamenti di
tipo telematico. La previsione di un sistema di
qualificazione potrebbe consentire ai comuni che intendono
“investire” in questo settore, di svolgere specifiche
funzioni non solo per sé stessi ma anche per altre
amministrazioni locali e stazioni appaltanti».
La direttiva Ue esprime un favor per i processi di
aggregazione della domanda o di centralizzazione delle
procedure, ma -dice Lucidi «segnala il rischio di eccessiva
concentrazione del potere di acquisto e collusioni, nonché
di preservare la trasparenza e la concorrenza e la
possibilità di accesso al mercato per le Pmi». L’auspicio è
che il nuovo codice individui strumenti per coniugare le
diverse esigenze, risolvendo «la problematicità
individuabile nel binomio aggregazione/centralizzazione».
Come? Vale l’esempio dei comuni non capoluogo di provincia
per cui si introduce l’obbligo di aggregazione o
centralizzazione a livello di unioni dei comuni. «I comuni
non capoluogo -dice Lucidi- possono propendere per una
delle due modalità, con coinvolgimento e responsabilità
diverse secondo a quale modello si intende fare riferimento.
Ovviamente nel sistema di reti di committenza occorre
considerare l’obbligo di rivolgersi per determinati
acquisiti di beni e servizi (in parte per lavori) alla Consip e ai soggetti aggregatori di livello regionale e a
livello di città metropolitane» (articolo Il Sole 24 Ore del
17.02.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO: Gli
ascensori fuorilegge. Confedilizia: salasso in arrivo sui
proprietari. Botta e risposta col
Mise sul dpr che rischia di imporre nuove verifiche.
Un nuovo balzello potrebbe presto abbattersi sui proprietari
di casa: la tassa sugli ascensori. La maggior parte dei
quali rischia di diventare da un giorno all'altro fuorilegge
con obbligo di metterli in regola a caro prezzo.
Il ministero dello sviluppo economico ha licenziato uno
schema di dpr attuativo della direttiva comunitaria
2014/33/Ue, affinché vada sul tavolo di uno dei prossimi
consigli dei ministri. Questo ha chiesto a palazzo Chigi
l'ufficio legislativo di via Veneto che ha ricordato come la
citata direttiva debba essere recepita in tempi brevi: entro
il 19 aprile.
A lanciare l'allarme è Confedilizia che
avverte: se il testo messo a punto dal Mise sarà approvato
così com'è, sui poveri proprietari si abbatterà un salasso
tale che in confronto i tempi in cui si pagavano Imu e Tasi
sulla prima casa saranno ricordati con nostalgia. Secondo
Confedilizia, il dpr imporrebbe infatti una verifica
straordinaria degli ascensori esistenti, attribuendo ai
soggetti verificatori la facoltà di prescrivere una serie di
interventi di adeguamento che potrebbero essere molto
costosi.
Il tutto aggravato dal fatto che, secondo Confedilizia, l'obbligo non è in alcun modo previsto dalla
direttiva europea di cui il dpr costituisce attuazione. In
pratica, si tratterebbe di un eccesso di zelo che finirà per
gravare sui soliti noti: i proprietari.
Ma dal Mise ribattono: il dpr non prevede nessuna verifica
straordinaria ma solo controlli di sicurezza da svolgersi
nell'ambito della prima verifica ordinaria utile. Il
ministero in una nota ha chiarito che «maggiore attenzione è
prevista solo per gli ascensori installati anteriormente al
1999, cioè prima dell'applicazione delle relative direttive
europee in materia che hanno aumentato i requisiti di
sicurezza per gli impianti. Tali ascensori saranno
verificati non solo con riferimento ai requisiti vigenti
all'epoca, ma anche con riferimento ai più importanti
requisiti di sicurezza introdotti successivamente, ad
esempio per la precisione della fermata e il livellamento
fra cabina dell'ascensore e piano».
Secondo Confedilizia,
tuttavia, la replica del ministero di Federica Guidi non
regge. Anzi, implicitamente conferma che «nel recepire la
direttiva Ue è stata inserita nello schema di dpr una
verifica straordinaria (non sapremmo come definire
altrimenti una verifica sinora non prevista ) sugli
ascensori, che la direttiva in questione non prevede».
Per questo il presidente dell'Organizzazione della proprietà
edilizia, Giorgio Spaziani Testa, rilancia. E fa appello al
governo chiedendo un dietrofront. «Ci appelliamo al
presidente del consiglio affinché non venga imposta a
milioni di famiglie, già provate dalla congiuntura
economica, una spesa che annullerebbe in un colpo solo gli
effetti dell'abolizione della Tasi sull'abitazione
principale, imponendo esborsi pari al doppio del gettito
della Tasi stessa».
Il Mise però anche su questo punto tranquillizza: «i
nuovi controlli sono stati individuati in modo selettivo e,
quindi, non possono determinare spese eccessive». E in
ogni caso gli interventi «potranno essere graduati su
quattro anni e beneficeranno delle detrazioni fiscali per le
ristrutturazioni»
(articolo ItaliaOggi del 17.02.2016). |
GIURISPRUDENZA |
APPALTI: L’Adunanza
Plenaria ritiene di dover dare continuità al consolidato
orientamento giurisprudenziale secondo cui l’incameramento
della cauzione provvisoria, previsto dall’art. 48 del Codice
dei contratti pubblici, costituisce una conseguenza
automatica del provvedimento di esclusione, come tale non
suscettibile di alcuna valutazione discrezionale con
riguardo ai singoli casi concreti.
Tale misura, quindi, risulta insensibile ad eventuali
valutazioni volte ad evidenziare la non imputabilità a colpa
della violazione che ha dato causa all’esclusione.
Già questa Adunanza Plenaria ha peraltro riconosciuto che la
passibilità di incamerare la cauzione provvisoria può
trovare fondamento anche nell’art. 75, comma 6, del Codice
di contratti pubblici, che riguarda tutte le ipotesi di
mancata sottoscrizione del contratto per fatto
dell’affidatario, intendendosi per “fatto dell’affidatario”
qualunque ostacolo alla stipulazione a lui riconducibile, e
tra cui anche, come nel caso di specie, il difetto di un
requisito d ordine generale.
---------------
XII) L’appello
incidentale proposto da Consip
31. Può passarsi ora ad esaminare l’appello incidentale
proposto da Consip.
32. Come si è ricordato in narrativa, la Consip contesta la
parte della sentenza impugnata che, in parziale accoglimento
dei motivi aggiunti al ricorso di primo grado, ha annullato
la nota del 24.03.2015, prot. n. 8069, con cui Consip ha
escusso le cauzioni provvisorie prescritte per i lotti 5 e
6, di importo pari ad € 1.200.000,00 per il lotto 5 ed €
870.000,00 per il lotto 6.
Il Tribunale amministrativo regionale ha accolto in questa
parte il ricorso ritenendo che, alla luce della peculiarità
della vicenda, «la condotta della ricorrente Romeo
Gestioni s.p.a. (peraltro estranea alle irregolarità che
hanno riguardato imprese partecipanti al raggruppamento) non
rivesta carattere di gravità, potendo riconoscersi, in capo
alla ricorrente, la scusabilità dell’errore».
Consip critica la sentenza richiamando l’orientamento
giurisprudenziale secondo cui l’escussione della cauzione
provvisoria ai sensi dell’art. 48 del decreto legislativo n.
163 del 2006 rappresenta una misura di indole patrimoniale,
priva di carattere sanzionatorio amministrativo, che
costituisce l’automatica conseguenza della violazione di
doveri o regole contrattuali espressamente accertate. Essa,
quindi, sarebbe applicabile a prescindere dalla scusabilità
dell’errore, come automatica conseguenza della violazione
riscontrata.
33. L’appello incidentale merita accoglimento.
L’Adunanza Plenaria ritiene di dover dare continuità al
consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui
l’incameramento della cauzione provvisoria, previsto
dall’art. 48 del Codice dei contratti pubblici, costituisce
una conseguenza automatica del provvedimento di esclusione,
come tale non suscettibile di alcuna valutazione
discrezionale con riguardo ai singoli casi concreti. Tale
misura, quindi, risulta insensibile ad eventuali valutazioni
volte ad evidenziare la non imputabilità a colpa della
violazione che ha dato causa all’esclusione (cfr., tra le
tante, Cons. Stato, 26.05.2015, n. 2638; Cons. Stato, sez.
V, 10.09.2012, n. 4778; Cons. Stato 18.04.2012, n. 2232;
Cons. Stato, sez. IV, 16.02.2012, n. 810; Cons. Stato, sez.
III, n. 4773 del 2012; Cons. Stato sez. V, 01.10.2010, n.
7263; nonché Corte Cost., ord. n. 211 del 13.07.2011).
Già questa Adunanza Plenaria (nella sentenza 04.05.2012, n.
8) ha peraltro riconosciuto che la passibilità di incamerare
la cauzione provvisoria può trovare fondamento anche
nell’art. 75, comma 6, del Codice di contratti pubblici, che
riguarda tutte le ipotesi di mancata sottoscrizione del
contratto per fatto dell’affidatario, intendendosi per “fatto
dell’affidatario” qualunque ostacolo alla stipulazione a
lui riconducibile, e tra cui anche, come nel caso di specie,
il difetto di un requisito d ordine generale.
Inoltre, anche a prescindere dal condivisibile rigore del
citato orientamento giurisprudenziale nell’applicazione
della misura dell’escussione della cauzione provvisoria, nel
caso di specie, la ragione dell’esclusione (dovuta alla
dichiarazione non veritiera sulla esistenza di una
situazione di regolarità contributiva al momento della
presentazione della domanda), non risulta incolpevole o
scusabile, atteso che rientra nell’ordinaria diligenza
dell’impresa che partecipa ad una gara di appalto verificare
la sussistenza della propria posizione contributiva con
riferimento alla data di presentazione della domanda.
L’appello incidentale proposto da Consip deve, pertanto,
essere accolto e, per l’effetto, in parziale riforma della
sentenza appellata, deve essere respinto il ricorso per
motivi aggiunti proposto in primo grado avverso la nota
24.03.2015, n. 8069
(Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria,
sentenza 29.02.2016 n. 5 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PATRIMONIO:
Se l'alunno cade nella palestra del comune, paga sempre la
scuola.
L'istituto deve vigilare sull'idoneità dei luoghi nei quali
realizza la prestazione scolastica: anche il detentore è
infatti custode.
La scuola ha un preciso dovere di
garantire la sicurezza e l'incolumità dei suoi allievi nel
tempo in cui i ragazzini usufruiscono delle prestazioni
scolastiche.
A tal proposito, con la
sentenza 25.02.2016 n. 3695, la Corte di
Cassazione -Sez. III civile- ha precisato che tale obbligo
si estende alla prestazione scolastica in tutte le sue
manifestazioni e non resta invece circoscritta alle sole
attività che si svolgono all'interno dell'edificio di
pertinenza della scuola.
In particolare, l'istituto è chiamato a vigilare
sull'idoneità dei luoghi nei quali realizza la prestazione
scolastica e a predisporre gli accorgimenti che, in
conseguenza del loro stato, si rendano necessari.
Lo studente, invece, deve provare solo di aver subito il
danno mentre era sottoposto alla vigilanza del personale
della scuola.
Di conseguenza è indifferente che chi agisca per ottenere il
risarcimento del danno subito dall'allievo invochi la
responsabilità contrattuale o quella extracontrattuale e
quindi faccia valere il negligente adempimento dell'obbligo
di sorveglianza o l'omissione delle cautele necessarie
secondo l'ordinaria diligenza.
Invece, all'amministrazione scolastica spetta dimostrare di
aver esercitato la sorveglianza sugli allievi con la
diligenza idonea ad impedire il fatto dannoso.
Nel caso di specie, quindi, la scuola è stata condannata a
risarcire l'alunno che era scivolato sul pavimento bagnato
di una palestra di proprietà del Comune, esterna
all'edificio scolastico.
Del resto, per i giudici anche il detentore è custode, a
meno che non riesca a provare l'assoluta mancanza di potere
di ingerenza sulla cosa o di intervento sul bene (commento
tratto da www.studiocataldi.it).
---------------
MASSIMA
In caso di danno cagionato
dall’alunno a se stesso, la responsabilità dell’Istituto
scolastico e dell’insegnante ha natura contrattuale, atteso
che, quanto all’Istituto, l’accoglimento della domanda di
iscrizione determina l’instaurazione di un vincolo
negoziale, dal quale sorge l’obbligo di vigilare sulla
sicurezza e sull’incolumità del discepolo nel tempo in cui
questi fruisce della prestazione scolastica in tutte le sue
espressioni; quanto al precettore, tra insegnante e allievo
si instaura, per contatto sociale, un rapporto giuridico
nell’ambito del quale il primo assume anche uno specifico
obbligo di protezione e vigilanza, onde evitare che l’alunno
si procuri da solo un danno alla persona.
Ne deriva che, nelle controversie instaurate per il
risarcimento del danno da autolesione nei confronti
dell’istituto scolastico dell’insegnante, è applicabile il
regime probatorio imposto dall’art. 1218 c.c., sicché,
mentre il danneggiato deve provare esclusivamente che
l’evento dannoso si è verificato nel corso dello svolgimento
del rapporto, sulla scuola incombe l’onere di dimostrare che
l’evento è stato determinato da causa non imputabile né alla
scuola né all’insegnante
(tratta da http://renatodisa.com). |
TRIBUTI:
Cartelle ok senza firma di apicali.
Cassazione: basta la sigla del responsabile
dell'iter.
La cartella di pagamento è valida con la sola indicazione
del responsabile del procedimento senza che sia necessario
leggere sull'atto il nome di un dirigente apicale.
È quanto affermato dalla Corte di Cassazione -Sez. VI
civile- che, con
l'ordinanza
23.02.2016 n. 3533, ha respinto il
ricorso del contribuente.
Ciò perché, ha spiegato la sesta sezione civile, ai sensi
del dl 248 del 2007, art. 36, comma 4-ter, l'indicazione del
responsabile del procedimento di iscrizione a ruolo e di
quello di emissione e di notificazione della stessa cartella
è prevista, in relazione ai ruoli consegnati agli agenti
della riscossione a decorrere dal 01.06.2008, a pena di
nullità; in base al tenore letterale di detta disposizione è
tuttavia sufficiente, al fine di non incorre nella detta
nullità, l'indicazione di persona responsabile del
procedimento, a prescindere quindi dalla funzione (apicale o
meno) della stessa effettivamente esercitata; siffatta
indicazione appare peraltro sufficiente ad assicurare gli
interessi sottostanti alla detta indicazione, e cioè la
trasparenza dell'attività amministrativa, la piena
informazione del cittadino (anche ai fini di eventuali
azioni nei confronti del responsabile) e la garanzia del
diritto di difesa. Nel caso sottoposto all'esame della
Corte, la Ctp di Napoli aveva in prima battuta annullato
l'atto in quanto privo della firma del dirigente.
Poi, su ricorso del fisco, il verdetto era stato ribaltato.
Ora la Cassazione lo ha reso definitivo precisando che le
indicazioni contenute in cartella erano sufficienti
(articolo ItaliaOggi del 24.02.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Costituisce
ius receptum l'affermazione secondo cui non sussiste obbligo
per l’amministrazione di provvedere alla comunicazione
prevista dall’art. 7. l. 241 del 1990 in materia di
irrogazione di sanzioni per abusi edilizi, poiché il
procedimento sanzionatorio non prevede la possibilità di
valutazioni discrezionali ma si risolve in un mero
accertamento tecnico sull’esistenza delle opere abusivamente
realizzate.
---------------
Non
può aver rilievo la circostanza che le opere abusive in
questione sono state realizzate da parecchi anni, in quanto
[...] il mero decorso del tempo non è di per sé idoneo ad
ingenerare un legittimo affidamento del privato.
Il potere di irrogare sanzioni in materia urbanistica ed
edilizia, infatti, può essere esercitato in ogni tempo,
atteso che la legge non lo sottopone a termini di
prescrizione o di decadenza, riguardando una situazione di
illiceità permanente, ossia una situazione di fatto
attualmente contra jus.
Né i provvedimenti attraverso i quali l’autorità preposta
alla tutela del territorio provvede alla repressione degli
illeciti amministrativi in materia edilizia ed urbanistica
richiedono alcuna particolare motivazione volta ad
evidenziare le specifiche ragioni di pubblico interesse che
impongano di dar corso al ripristino dello stato dei luoghi
ed a comparare tale interesse pubblico con il sacrificio
imposto al privato, in quanto la repressione degli abusi
edilizi si connota come un preciso obbligo
dell'Amministrazione, la quale non gode di alcuna
discrezionalità al riguardo.
Nel caso di specie, l'aver parte ricorrente destinato
l'immobile, manifestamente abusivo, a civile abitazione ed
averlo anche ritenuto sottoposto agli obblighi fiscali, non
può spiegare effetti sulla legittimità dell'operato
dell'Amministrazione, tenuta a reprimere una condotta che
rimane contra legem.
D'altronde, in tema di abusi edilizi ed urbanistici si è in
presenza di illeciti di carattere permanente, caratterizzati
dall’obbligo, perdurante nel tempo, di ripristinare secundum
jus lo stato dei luoghi, con l’ulteriore conseguenza che se
l’Autorità emana un provvedimento repressivo di demolizione
non emana un atto «a distanza di tempo» dall’abuso, ma
reprime una situazione antigiuridica ancora sussistente e
non esercita alcuna discrezionalità.
---------------
... per l'annullamento dell’ordinanza di demolizione n. 5
del 04.06.2007.
...
Il ricorso, poiché infondato, deve essere rigettato.
Con il primo motivo parte ricorrente deduce l'omessa
comunicazione di avvio del procedimento da parte
dell'amministrazione comunale intimata.
La doglianza non è meritevole di pregio.
Costituisce ius receptum l'affermazione, condivisa
dal Collegio, secondo cui non sussiste obbligo per
l’amministrazione di provvedere alla comunicazione prevista
dall’art. 7. l. 241 del 1990 in materia di irrogazione di
sanzioni per abusi edilizi, poiché il procedimento
sanzionatorio non prevede la possibilità di valutazioni
discrezionali ma si risolve in un mero accertamento tecnico
sull’esistenza delle opere abusivamente realizzate (cfr.,
tra le tante, da ultimo, C.G.A., SS.RR., n. 47 del 2016).
Nel caso di specie, peraltro, parte ricorrente non ha
offerto elementi significativi in ragione dei quali poter
ritenere che ove la pretesa partecipativa si fosse
realizzata il provvedimento avrebbe potuto avere un diverso
contenuto dispositivo.
Con il secondo motivo parte ricorrente deduce la
violazione del principio del legittimo affidamento
asseritamente ingenerato dall'amministrazione sul rilievo
che l'immobile, al momento dell'adozione del provvedimento,
risultava (in tesi) costruito da oltre vent'anni, oltreché
destinato a civile abitazione e sottoposto agli adempimenti
fiscali e catastali previsti dalla legge.
Il motivo è infondato.
Ritiene il Collegio di dover aderire, in continuità con la
giurisprudenza della Sezione, alla tesi secondo cui «non
può aver rilievo la circostanza che le opere in questione
sono state realizzate da parecchi anni, in quanto [...] il
mero decorso del tempo non è di per sé idoneo ad ingenerare
un legittimo affidamento del privato. Il potere di irrogare
sanzioni in materia urbanistica ed edilizia, infatti, può
essere esercitato in ogni tempo, atteso che la legge non lo
sottopone a termini di prescrizione o di decadenza,
riguardando una situazione di illiceità permanente, ossia
una situazione di fatto attualmente contra jus (cfr., tra le
diverse C.G.A., SS.RR. n. 1225 del 2015 e giurisprudenza
amministrativa ivi richiamata). Né i provvedimenti
attraverso i quali l’autorità preposta alla tutela del
territorio provvede alla repressione degli illeciti
amministrativi in materia edilizia ed urbanistica richiedono
alcuna particolare motivazione volta ad evidenziare le
specifiche ragioni di pubblico interesse che impongano di
dar corso al ripristino dello stato dei luoghi ed a
comparare tale interesse pubblico con il sacrificio imposto
al privato, in quanto la repressione degli abusi edilizi si
connota come un preciso obbligo dell'Amministrazione, la
quale non gode di alcuna discrezionalità al riguardo (cfr.
C.G.A., Sezioni riunite, 29.11.2011, n. 1701; 29.01.2013, n.
1039/12)».
Nel caso di specie, l'aver parte ricorrente destinato
l'immobile, manifestamente abusivo, a civile abitazione ed
averlo anche ritenuto sottoposto agli obblighi fiscali, non
può spiegare effetti sulla legittimità dell'operato
dell'Amministrazione, tenuta a reprimere una condotta che
rimane contra legem.
D'altronde, in tema di abusi edilizi ed urbanistici si è in
presenza di illeciti di carattere permanente, caratterizzati
dall’obbligo, perdurante nel tempo, di ripristinare
secundum jus lo stato dei luoghi, con l’ulteriore
conseguenza che se l’Autorità emana un provvedimento
repressivo di demolizione non emana un atto «a distanza
di tempo» dall’abuso, ma reprime una situazione
antigiuridica ancora sussistente (cfr. Consiglio di Stato,
Sez. IV, 16.04.2010, n. 2160) e non esercita alcuna
discrezionalità (cfr. C.G.A., Sezioni riunite, 26.05.2015,
n. 608/14).
Da ultimo, la censura involgente la statuizione del
provvedimento inerente alla futura acquisizione
dell'immobile è del tutto generica e comunque infondata
considerato che l'amministrazione si è limitata a richiamare
la fonte attributiva del potere di acquisizione gratuita,
subordinando la stessa alla notificazione dell'accertamento
inottemperanza all'ingiunzione demolitoria.
Alla luce delle suesposte considerazioni il ricorso deve
essere rigettato (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 23.02.2016 n. 532 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Spese, compensazione più estesa. Requisito della soccombenza
reciproca per le cause dopo l’11.12.2014.
L’accoglimento
parziale di una domanda può far scattare la reciproca
soccombenza con la possibilità di compensare le spese di
lite.
Cassazione. Per i giudici di legittimità c’è «riparto» anche
con l’accoglimento parziale di una domanda.
La Corte di Cassazione, con
la
sentenza 22.02.2016 n. 3438,
Sez. III civile, fa il punto sulle nuove disposizioni in
tema di compensazione delle spese introdotte dall’articolo
13 del Dl 132/2014.
La Suprema corte ricorda che, in seguito
alle modifiche apportate all’articolo 92 del Codice di rito,
per le cause iniziate dopo l’11.12.2014, la
compensazione delle spese di lite è prevista solo nella
soccombenza reciproca, fatta eccezione per i casi in cui vi
sia una assoluta novità o un mutamento della giurisprudenza
su questioni dirimenti. Un “paletto” che, secondo la
Cassazione, impone una corretta ricostruzione della nozione
di soccombenza, decisiva per individuare le residue
possibilità di rendere operativa la regola della
compensazione totale o parziale delle spese.
Per i giudici della Terza sezione civile escludere che
l’accoglimento parziale di una domanda determini una
situazione di reciproca soccombenza, impedirebbe in radice
la compensazione anche parziale. Con un’interpretazione
rigida si metterebbe il convenuto nella situazione di dover
pagare sempre e integralmente le spese all’attore, anche
quando quest’ultimo “vince” solo su un’unica domanda,
proposta per un importo trascurabile. Conclusione che -sottolinea la Suprema corte- oltre a contrastare con il
principio di causalità, non sarebbe neppure logica né equa.
Secondo la Cassazione la reciproca soccombenza può essere
individuata sia nelle ipotesi di più domande contrapposte,
accolte o rigettate, che si siano cumulate nel medesimo
processo fra le stesse parti, sia in caso di accoglimento
parziale dell’unica domanda proposta. E questo vale tanto se
la domanda è stata articolata in più capi, con uno o più
d’uno accolti e altri rigettati, come nel caso «la
parzialità dell’accoglimento sia meramente quantitativa e
riguardi una domanda articolata in un unico capo». Nella
compensazione parziale delle spese la parte che paga di più
è quella che ha dato «causa in misura prevalente agli oneri
processuali e alla quale questi siano in maggior misura
imputabili». E individuarla spetta al giudice, che sceglie
con una valutazione discrezionale ma non arbitraria perché
fondata sul principio di causalità.
Il giudice dovrà dunque imputare idealmente a ciascuna parte
gli oneri processuali imposti all’altra per aver resistito a
pretese fondate o per aver avanzato richieste infondate,
operando una compensazione. La Suprema corte precisa che, in
tale ideale compensazione alla parte che agisce vanno
riconosciuti per intero gli oneri necessari per proporre le
pretese fondate, ridotti «in ragione della maggior quota
differenziale degli oneri necessari alla controparte per
resistere anche alle pretese infondate» (articolo Il Sole 24 Ore del 23.02.2016). |
APPALTI:
Principio di separazione tra l’offerta tecnica e l’offerta
economica – Segretezza dell’offerta economica sino alla
conclusione delle valutazioni delle offerte tecniche –
Richiesta di soluzioni migliorative, che si risolvano
nell’indicazione di elementi di rilievo economico
nell’offerta tecnica – Principi di ragionevolezza e di
proporzionalità.
La previsione della necessità
dell’assenza, nell’offerta tecnica, di elementi riferibili
all’offerta economica è a presidio del principio
dell’autonomia dell’apprezzamento discrezionale dell’offerta
tecnica rispetto a quello dell’offerta economica, e il suo
rispetto è garantito dall’anteriorità della prima
valutazione e dalla necessità che dall’offerta tecnica
esulino elementi e valori propri dell’offerta economica,
sicché è principio che le offerte economiche restino segrete
fino alla conclusione della valutazione delle offerte
tecniche.
Ma se il bando richiede o permette soluzioni migliorative,
la cui tecnicità richieda necessariamente anche esami di
tipo aritmetico o l’indicazione di parametri dei costi o,
ancora, comparazioni rispetto a prezzi di mercato o listini
ufficiali, ne viene che fatalmente l’offerta tecnica va a
dover contenere alcuni elementi di rilievo economico, al
limite indici indiretti di prezzi. Il che, nel limite della
ragionevolezza e delle proporzionalità, non vulnera il
principio generale di separatezza delle due offerte.
Infatti diversamente si dovrebbero ritenere a priori
precluse tutte le formulazioni dell’offerta tecnica –e, a
maggior ragione, le richieste di formulazioni dell’offerta
tecnica a opera della lex specialis– che prendano in
considerazione siffatti parametri economici: mentre ne
ricorre il divieto solo nel caso in cui quel limite sia
concretamente superato e dunque dall’offerta tecnica si
possa agevolmente desumere l’offerta economica, con
conseguente lesione effettiva della separatezza dell’offerta
tecnica dall’offerta economica.
---------------
È giurisprudenza pacifica che il principio che il giudizio
di valutazione sia espressione di un potere ampiamente
discrezionale connotato da elementi di tecnicismo
insindacabili in questa sede, fatti salvi i limiti di
illogicità o irrazionalità manifeste.
L’utilizzazione della tecnica per le attività valutative
delle giustificazioni sulla congruità dell’offerta tecnica
si sostanzia in un’operazione tipica di merito, con uso di
criteri e regole di fatto, nel caso di specie tecniche e
comunque non giuridiche: per cui -per il principio di
separazione dei poteri- non possono essere oggetto di
sindacato del giudice amministrativo, seppur con le
eccezioni delle manifeste irrazionalità richiamate, oppure
laddove si sia fatto improprio uso di scienze esatte che
consentano di ottenere dati o accertamenti matematicamente
ripetibili.
---------------
Ritenuto che la
Sezione, prescindendo dalle eccezioni pregiudiziali
sollevate dalla Italstrutture e dal Comune di Scisciano, non
ravvisa ragioni per discostarsi dalle conclusioni negative
del giudice di primo grado in quanto:
-1. I requisiti di forma sono fondamentali nelle offerte di
partecipazione a una procedura di gara; ma non vanno intesi
come un valore assoluto e insuperabile, specie quando la
legge di gara permetta una serie di attenuazioni basate
sulla logica e sulla ricerca del migliore offerente; tanto
vale anche per la pur necessaria separazione tra offerta
tecnica, da valutare per prima, e offerta economica, solo
dopo la quale si forma la graduatoria finale,
È vero che la previsione della necessità dell’assenza,
nell’offerta tecnica, di elementi riferibili all’offerta
economica è a presidio del principio dell’autonomia
dell’apprezzamento discrezionale dell’offerta tecnica
rispetto a quello dell’offerta economica, e che il suo
rispetto è garantito dall’anteriorità della prima
valutazione e dalla necessità che dall’offerta tecnica
esulino elementi e valori propri dell’offerta economica (es.
Cons. Stato, VI, 27.11.2014, n. 5890), sicché è principio
che le offerte economiche restino segrete fino alla
conclusione della valutazione delle offerte tecniche.
Ma se il bando, come era nel caso di specie, richiede o
permette soluzioni migliorative, la cui tecnicità richieda
necessariamente anche esami di tipo aritmetico o
l’indicazione di parametri dei costi o, ancora, comparazioni
rispetto a prezzi di mercato o listini ufficiali, ne viene
che fatalmente (come è stato qui) l’offerta tecnica va a
dover contenere alcuni elementi di rilievo economico, al
limite indici indiretti di prezzi. Il che, nel limite della
ragionevolezza e delle proporzionalità, non vulnera il
principio generale di separatezza delle due offerte.
Infatti diversamente si dovrebbero ritenere a priori
precluse tutte le formulazioni dell’offerta tecnica –e, a
maggior ragione, le richieste di formulazioni dell’offerta
tecnica a opera della lex specialis– che prendano in
considerazione siffatti parametri economici: mentre ne
ricorre il divieto solo nel caso in cui quel limite sia
concretamente superato e dunque dall’offerta tecnica si
possa agevolmente desumere l’offerta economica, con
conseguente lesione effettiva della separatezza dell’offerta
tecnica dall’offerta economica.
Inoltre, riguardo alle peculiarità del caso di specie, va
considerato che se le soluzioni migliorative della
Italstrutture riportavano effettivamente alcuni “dati
economici”, questi nondimeno riguardavano solo 15 voci
su 101 dell’intero oggetto dell’appalto – e il 38%
dell’intera lavorazione. Vale a dire, riguardavano elementi
numericamente ben minoritari. Sicché la loro specificazione,
per di più riferita il più delle volte a dati percentuali,
ben difficilmente avrebbe potuto permettere un’effettiva
ricostruzione ex ante dell’(intera) offerta economica
al punto da poter inquinare la trasparenza dell’intera
procedura.
Non solo: questa considerazione varrebbe anche se, in
ipotesi, questi dati avessero riguardato tutte le 15 voci e
indicando i rispettivi prezzi specifici. Non v’è infatti chi
non veda che una sommatoria di poco superiore a un terzo del
complesso delle lavorazioni non può dar luogo a una previa
conoscenza dell’importo globale dell’offerta economica:
dunque ad una vera anticipazione dell’offerta economica
fatta in sede di offerta tecnica.
-2. Destituito di fondamento è poi il secondo motivo, che
tenta un sindacato di analisi di dettaglio dell’offerta
nelle sue singole voci, passandole in sostanza in rassegna
allo scopo manifesto di reiterare –come al giudice non è
consentito- la valutazione tecnico-discrezionale di
congruità dell’intera offerta per la gran parte dei suoi
singoli aspetti: dalla valutazione del parco macchine ai
singoli rapporti con i fornitori, alle singole lavorazioni
prese nel dettaglio sino all’incidenza delle spese generali,
dai tempi di esecuzione ai contenuti di singole soluzioni
migliorative, dal rapporto di quanto ottenuto dall’utilizzo
di un solo martello demolitore con la sua incidenza oraria
alla rimozione di una barriera metallica; e ciò solo a
titolo esemplificativo.
È giurisprudenza pacifica che il principio che il giudizio
di valutazione sia espressione di un potere ampiamente
discrezionale connotato da elementi di tecnicismo
insindacabili in questa sede, fatti salvi i limiti di
illogicità o irrazionalità manifeste. L’utilizzazione della
tecnica per le attività valutative delle giustificazioni
sulla congruità dell’offerta tecnica si sostanzia in
un’operazione tipica di merito, con uso di criteri e regole
di fatto, nel caso di specie tecniche e comunque non
giuridiche: per cui -per il principio di separazione dei
poteri- non possono essere oggetto di sindacato del giudice
amministrativo, seppur con le eccezioni delle manifeste
irrazionalità richiamate, oppure laddove si sia fatto
improprio uso di scienze esatte che consentano di ottenere
dati o accertamenti matematicamente ripetibili.
Nel caso di specie le abnormità conoscibili non sussistono:
ne è dimostrazione il ricordato ribasso superiore al 20%,
offerto da cinque concorrenti su undici (tra cui
l’aggiudicataria): per cui non si riscontra alcuna manifesta
illogicità nella verifica di congruità svolta dalla stazione
appaltante;
Considerato, da ultimo, che è inammissibile la censura
concernente lo smaltimento delle acque meteoriche in quanto
ciò che è stato oggetto dell’offerta altro appare
corrispondere all’esecuzione del progetto esecutivo posto a
base di gara;
Ritenuto perciò che l’appello deve essere respinto con la
conferma della sentenza impugnata, mentre le spese di
giudizio restano a carico dell’appellante e sono liquidate
nei modi e nella misura indicati in dispositivo
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 22.02.2016 n. 703 - link a
www.ambientediritto.it). |
APPALTI:
Gare e servizi analoghi.
Sentenza cds sulla qualificazione.
Negli appalti pubblici di servizi la richiesta di pregresse
esperienze analoghe non può portare ad ammettere alla gara
soltanto i concorrenti che abbiano svolto servizi identici
all'oggetto della procedura di affidamento.
Lo ha affermato il Consiglio di Stato, Sez. III, con la
sentenza
19.02.2016 n. 695 che affronta il tema
dei cosiddetti «servizi analoghi», elemento di
qualificazione dei concorrenti che partecipano ad appalti
pubblici di servizi.
Il problema si pone generalmente quando il concetto di
analogia viene interpretato dalla stazione appaltante in
termini eccessivamente restrittivi, arrivando a configurare
addirittura la richiesta negli atti di gara di servizi
«identici» a quelli oggetto dell'affidamento.
Si tratta evidentemente di scendere nel dettaglio, caso per
caso, ma alcuni punti fermi il Consiglio di stato li fa
presenti. In particolare, si specifica che laddove il bando
di gara richieda quale requisito il pregresso svolgimento di
«servizi analoghi», tale nozione non può, se non con grave
forzatura interpretativa, essere assimilata a quella di
«servizi identici».
Per i giudici quindi il concorrente è in regola rispetto
alla prescrizione del bando di gara se ha dimostrato lo
svolgimento di servizi rientranti nel «medesimo settore
imprenditoriale o professionale al quale afferisce
l'appalto». Nel caso di specie oggetto dell'appalto era
l'affidamento di un centro diurno polifunzionale e, cioè, un
servizio articolato in spazi multivalenti, che si colloca
nella rete dei servizi sociali territoriali, e offre la
possibilità di aggregazione finalizzata alla prevenzione di
situazioni di disagio attraverso proposte di socializzazione
tra minori e di identificazione di persone adulte
significative.
La stazione appaltante aveva chiarito che per servizi
analoghi si dovesse fare riferimento al numero di
classificazione Cpv europeo di riferimento che è indicato
per ogni lotto, cioè, in relazione al Cpv 85320000-8,
relativo ai servizi sociali. Per i giudici quindi l'appalto
ha ad oggetto un servizio sociale e non sanitario e riguarda
specificamente i minori, mentre le pregresse esperienze
vantate dal consorzio ed elencate nel suo curriculum sono
estranee rispetto alla specificità del servizio richiesto
(articolo ItaliaOggi del 26.02.2016). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Difficile togliere le armi al vigile.
Cds: bisogna revocargli la qualifica di ps.
Se il rappresentante governativo vuole togliere l'armamento
al vigile urbano non più affidabile deve prima revocargli la
qualifica di pubblica sicurezza. Non è infatti possibile
mantenere la qualifica di ps e disporre con decreto il
divieto di porto d'armi.
Lo ha chiarito il Consiglio di Stato, Sez. III, con la
sentenza 19.02.2016 n. 690.
Un agente di polizia municipale è rimasto coinvolto in un
procedimento penale conclusosi poi favorevolmente. All'esito
di questa vicenda l'interessato ha quindi richiesto e
ottenuto dalla prefettura la qualifica di agente di pubblica
sicurezza.
Nonostante questa attribuzione il rappresentante governativo
ha successivamente confermato un precedente divieto
personale di detenere armi e per questo motivo l'interessato
ha proposto con successo ricorso ai giudici amministrativi.
In prima battuta il Tar in realtà non ha accolto le censure
ma i giudici di palazzo Spada hanno approfondito meglio la
questione ripristinando la necessaria coerenza nelle
determinazioni del prefetto.
La legge n. 65/1986, specifica il collegio, dispone che gli
addetti di polizia municipale ai quali è stata conferita la
qualifica di agente di pubblica sicurezza possono, previa
delibera del consiglio comunale, portare senza licenza le
armi di cui possono essere dotati in relazione al tipo di
impiego, anche fuori servizio, purché nell'ambito
territoriale del proprio comune. All'interno del sistema
normativo nazionale dove l'armamento per i cittadini è
normalmente vietato, prosegue la sentenza, la disposizione
dell'art. 5 della legge 65/1986 è chiara. Gli agenti della
polizia municipale muniti della qualifica di pubblica
sicurezza «possono portare armi senza licenza in quanto
detta autorizzazione consegue all'attribuzione della stessa
qualifica».
In pratica non occorre un ulteriore provvedimento per
autorizzare il porto delle armi se il vigile è stato
ritenuto idoneo dalla prefettura alla qualifica di pubblica
sicurezza. Coerentemente con queste indicazione se la
prefettura attribuisce la qualifica di pubblica sicurezza si
deve considerare implicitamente annullato anche un
precedente provvedimento contrario
(articolo ItaliaOggi del 23.02.2016). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Il
porto d’armi presuppone il previo rilascio di un
provvedimento di polizia che accerti il possesso di
requisiti in capo al destinatario, in quanto il titolare
dell'autorizzazione a detenere armi deve essere persona
assolutamente esente da mende o da indizi negativi e
assicurare la sua sicura e personale affidabilità circa il
buon uso, escludendo che vi possa essere pericolo di abusi.
La norma di cui all’art. 5, c. 5, della L. 65/1986 dispone
espressamente che “gli addetti al servizio di polizia
municipale ai quali è conferita la qualità di agente di
pubblica sicurezza possono … portare senza licenza armi”: è
evidente che detta norma –inserita all’interno di un sistema
normativo fondato sul principio del divieto, che consente il
porto di armi solo in seguito al rilascio di un
provvedimento permissivo– non può avere altro significato
che quello prospettato dall’appellante: gli agenti della
polizia municipale, ai quali è stata riconosciuta la qualità
di agente di pubblica sicurezza, possono portare armi senza
licenza in quanto detta autorizzazione (o concessione,
secondo altra tesi) consegue all’attribuzione della stessa
qualifica di agente di pubblica sicurezza.
Non occorre quindi un provvedimento formale che autorizzi il
porto di armi, perché la valutazione sull’idoneità del
soggetto è stata già svolta, al momento del rilascio della
qualifica.
---------------
E’ stato correttamente ritenuto in giurisprudenza che la
valutazione sull’attribuzione all’interessato della
qualifica di agente di P.S. ha un valore sicuramente
assorbente rispetto a quella relativa alla possibilità per
lui di detenere armi, tanto che in forza della più volte
citata norma, le armi possono essere portate anche senza
licenza, con una valutazione che resta di esclusiva
spettanza del Consiglio Comunale.
---------------
La censura è fondata.
Dalla lettura della sentenza emerge chiaramente che il primo
giudice ha omesso totalmente di esaminare il primo motivo di
ricorso, con il quale il -OMISSIS- aveva dedotto
l’illegittimità del diniego impugnato per palese
contraddizione con il precedente provvedimento del Prefetto
–risalente al 2010–, di attribuzione della qualità di agente
di pubblica sicurezza, che consente di portare armi senza
licenza (art. 5, comma 5, della L. 07.03.1986 n. 65).
Dispone infatti, la suddetta disposizione che "gli
addetti al servizio di polizia municipale ai quali è
conferita la qualità di agente di pubblica sicurezza
possono, previa deliberazione in tal senso del consiglio
comunale, portare, senza licenza, le armi, di cui possono
essere dotati in relazione al tipo di servizio nei termini e
nelle modalità previsti dai rispettivi regolamenti, anche
fuori dal servizio, purché nell'ambito territoriale
dell'ente di appartenenza e nei casi di cui all'articolo 4
(…)”.
In merito ai provvedimenti relativi alla detenzione ed al
porto di armi, la giurisprudenza ha sottolineato come nel
nostro ordinamento viga la regola generale rappresentata dal
divieto, sancito dagli artt. 699 c.p. e 4, comma 1, della L.
n. 110/1975, essendo vista con sfavore l’utilizzazione delle
armi da parte di privati cittadini: secondo la
giurisprudenza “il titolo abilitativo al porto d'armi non
costituisce una mera autorizzazione di polizia che rimuove
il limite ad una situazione giuridica soggettiva che già fa
parte della sfera del privato, ma assume contenuto
permissivo, costituendo l'assenso alla disponibilità
dell'arma regime derogatorio alla regola ordinaria di
generale divieto” (cfr. TAR Calabria Catanzaro Sez. I,
19.11.2015, n. 1782).
Tale divieto è suscettibile di rimozione, in presenza di
specifiche ragioni ed in assenza di rischi anche solo
potenziali, a seguito di autorizzazione di polizia, o, per
meglio dire, di un provvedimento concessorio (Cons. Stato,
Sez. III, 19.01.2015, n. 116; TAR Umbria Perugia Sez. I,
Sent., 22/10/2015, n. 499).
È dunque evidente che il porto d’armi presuppone il previo
rilascio di un provvedimento di polizia che accerti il
possesso di requisiti in capo al destinatario, in quanto il
titolare dell'autorizzazione a detenere armi deve essere
persona assolutamente esente da mende o da indizi negativi e
assicurare la sua sicura e personale affidabilità circa il
buon uso, escludendo che vi possa essere pericolo di abusi
(cfr., tra le tante, TRGA Trentino-Alto Adige Bolzano,
16.10.2015, n. 318; TAR Calabria Catanzaro Sez. I,
19.11.2015, n. 1782).
La norma di cui all’art. 5, c. 5, della L. 65/1986 dispone
espressamente che “gli addetti al servizio di polizia
municipale ai quali è conferita la qualità di agente di
pubblica sicurezza possono … portare senza licenza armi”:
è evidente che detta norma –inserita all’interno di un
sistema normativo fondato sul principio del divieto, che
consente il porto di armi solo in seguito al rilascio di un
provvedimento permissivo– non può avere altro significato
che quello prospettato dall’appellante: gli agenti della
polizia municipale, ai quali è stata riconosciuta la qualità
di agente di pubblica sicurezza, possono portare armi senza
licenza in quanto detta autorizzazione (o concessione,
secondo altra tesi) consegue all’attribuzione della stessa
qualifica di agente di pubblica sicurezza.
Non occorre quindi un provvedimento formale che autorizzi il
porto di armi, perché la valutazione sull’idoneità del
soggetto è stata già svolta, al momento del rilascio della
qualifica.
Nella fattispecie, avendo il Prefetto ha attribuito al
-OMISSIS- la qualità di agente di pubblica sicurezza con
provvedimento del 2010, non avrebbe potuto rigettare nel
2012 la sua richiesta di revoca del provvedimento di divieto
di detenzione di armi munizioni e materiale esplodente
risalente al 06.04.1985, essendo ormai detto provvedimento
incompatibile con quello emesso due anni prima (salva la
facoltà, ove ne ricorressero i presupposti secondo la
valutazione discrezionale dell’Amministrazione, di
provvedere prima al ritiro del provvedimento di attribuzione
della qualità di agente di pubblica sicurezza).
E’ stato correttamente ritenuto in giurisprudenza che la
valutazione sull’attribuzione all’interessato della
qualifica di agente di P.S. ha un valore sicuramente
assorbente rispetto a quella relativa alla possibilità per
lui di detenere armi, tanto che in forza della più volte
citata norma, le armi possono essere portate anche senza
licenza, con una valutazione che resta di esclusiva
spettanza del Consiglio Comunale (cfr. TAR Campania-Napoli,
Sez. V, 14.01.2010 n. 311).
L’appello deve essere dunque accolto
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 19.02.2016 n. 690 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
È abuso d’ufficio l’azione disciplinare fatta per
ritorsione.
Abuso d’ufficio per
i direttori dell’azienda pubblica che esercitano l’azione
disciplinare per ritorsione.
Licenziamenti e Pa. I limiti ai poteri dei
vertici.
La Corte di
Cassazione, Sez. VI penale, con la
sentenza 18.02.2016 n. 6665, accoglie il ricorso del
Pubblico ministero contro la decisione del Gip di dichiarare
il non luogo a procedere nei confronti del direttore
generale e di quello dell’area tecnica dell’Azienda
territoriale per l’edilizia pubblica. L’accusa era di aver
“preso di mira” un ingegnere, bersagliandola con rilievi e
sanzioni disciplinari, arrivando poi alla soluzione finale
del licenziamento, sulla base di presupposti inesistenti.
Secondo il Gip l’abuso d’ufficio non poteva essere
contestato perché i rapporti di lavoro con l’Agenzia
territoriale sono regolati dal codice civile e dunque la
contestata distorta o mancata applicazione delle norme che
li disciplinano, non può essere considera una violazioni di
legge o di regolamento idonea a far scattare il reato di
abuso d’ufficio. Inoltre, per quanto riguardava il
licenziamento senza preavviso, disposto come massima
sanzione disciplinare, questo poteva essere attribuito al
direttore generale, il solo che aveva messo la sua firma sul
foglio di “espulsione”, mentre nessuna responsabilità andava
addebitata al direttore di area, solo in virtù del suo
potere di iniziativa nell’applicazione delle sanzioni.
La Cassazione accoglie il ricorso del Pm.
La Suprema corte chiarisce che la condotta contestata di
abuso d’ufficio, contrariamente a quanto rilevato dal Gip,
non riguarda la violazione delle norme che disciplinano il
rapporto di lavoro nell’ente pubblico, indubbiamente, di
tipo privato, ma l’esercizio distorto della “funzione”
disciplinare da parte di un pubblico ufficiale o
dell’esercente un pubblico servizio. Un potere che certo
rientra nell’area di gestione dei rapporti di lavoro
sottoposto ai contratti collettivi e si esprime attraverso
atti negoziali e non con provvedimenti amministrativi, ma
che va comunque esercitato nel rispetto della legge, con
eventuali integrazioni della contrattazione collettiva.
I giudici precisano che è suscettibile di integrare l’abuso
d’ufficio (articolo 323 del Codice penale) la violazione
delle disposizioni di legge fissate in materia di
procedimento disciplinare, quando il potere non è “figlio”
dell’interesse pubblico, ma viene usato per motivi
pretestuosi sorretti da un intento ritorsivo.
E il Gip sbaglia anche quando proscioglie il direttore di
area. Nel concorso di reato il contributo acquista rilevanza
non solo quando ha efficacia causale e si pone come
condizione dell’evento illecito ma anche quando agevola o
rafforza un proposito criminoso già esistente.
Almeno in linea ipotetica, conclude la corte, il giudice per
le indagini preliminari non poteva escludere che il
l’imputata, a prescindere dalla mancata firma, possa
comunque aver assicurato il suo contributo, morale e
materiale, al prodursi dell’evento. Questo senza arrivare ad
ipotizzare una responsabilità oggettiva in virtù della
posizione apicale ricoperta. La Cassazione annulla la
sentenza del Gip e rinvia per una nuova valutazione (articolo Il Sole 24 Ore del
19.02.2016 - tratto da
http://rstampa.pubblica.istruzione.it).
---------------
MASSIMA
4. Con riguardo alle contestazioni di abuso d'ufficio,
va invero rilevato che -contrariamente a quanto deciso dal
Giudice laziale- nel caso sub iudice,
la condotta di abuso d'ufficio non riguarda la contestata
violazione di norme a disciplina del rapporto di lavoro in
seno all'ente pubblico, rapporto avente indubitabilmente
natura privatistica, bensì l'esercizio da parte del pubblico
ufficiale o dell'esercente il pubblico servizio del potere
attribuito all'ufficio di appartenenza in una materia, quale
quella disciplinare, che è e resta disciplinata dalla legge.
4.1. Ed invero, il potere disciplinare nel
pubblico impiego, pur rientrando nell'area della gestione
dei rapporti di lavoro sottoposto a contratto collettivo di
matrice privatistica e si esprima mediante atti negoziali, e
non con provvedimenti amministrativi, deve essere esercitato
nei limiti disegnati dalla legge ed eventualmente integrati
dalla contrattazione collettiva.
Giova rammentare che la disciplina legale
in materia è delineata da plurime fonti normativa,
segnatamente dall'art. 2106 cod. civ., dall'art. 7 L.
20.05.1970, n. 300 (c.d. Statuto dei lavoratori) e dagli
artt. da 54 a 55-octies del D.Lgs. 30.03.2001, n. 165, come
modificati con D.Lgs. 27.10.2009, n. 150.
In particolare, l'art. 40 del citato decreto stabilisce, al
comma 1 che "La contrattazione collettiva determina i
diritti e gli obblighi direttamente pertinenti al rapporto
di lavoro, nonché le materie relative alle relazioni
sindacali. (...) Nelle materie relative alle sanzioni
disciplinari, alla valutazione delle prestazioni ai fini
della corresponsione del trattamento accessorio, della
mobilità e delle progressioni economiche, la contrattazione
collettiva è consentita negli esclusivi limiti previsti
dalle norme di legge".
All'art. 55, commi 1 e 2, stesso decreto viene espressamente
sancito: "1. Le disposizioni del presente articolo e di
quelli seguenti, fino all'articolo 55-octies, costituiscono
norme imperative, ai sensi e per gli effetti degli articoli
1339 e 1419, secondo comma, del codice civile, e si
applicano ai rapporti di lavoro di cui all'articolo 2, comma
2, alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche di cui
all'articolo 1, comma 2.
2. Ferma la disciplina in materia di responsabilità civile,
amministrativa, penale e contabile, ai rapporti di lavoro di
cui al comma 1 si applica l'articolo 2106 del codice civile.
Salvo quanto previsto dalle disposizioni del presente Capo,
la tipologia delle infrazioni e delle relative sanzioni è
definita dai contratti collettivi. La pubblicazione sul sito
istituzionale dell'amministrazione del codice disciplinare,
recante l'indicazione delle predette infrazioni e relative
sanzioni, equivale a tutti gli effetti alla sua affissione
all'ingresso della sede di lavoro".
L'art. 55-bis (come novellato nel 2009) disciplina le forme
e termini del procedimento disciplinare. Infine, l'art.
54-bis stesso decreto del 2001 prevede una specifica tutela
del dipendente pubblico che segnali condotte illecite di cui
sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro,
prevedendo che questi non possa essere sanzionato,
licenziato o sottoposto ad una misura discriminatoria,
diretta o indiretta, avente effetti sulle condizioni di
lavoro per motivi collegati direttamente o indirettamente
alla denuncia.
4.2. Orbene, dal quadro normativo sopra delineato discende
che è certamente suscettibile di integrare
la violazione di legge rilevante ai fini dell'art. 323 cod.
pen. l'inosservanza alle disposizioni fissate in materia di
procedimento disciplinare dalla legge (appunto dall'art.
2106 cod. civ. e dal D.Lgs. 30.03.2001, n. 165 come
modificato con D.Lgs. 27.10.2009, n. 150), allorché il
potere disciplinare sia esercitato -almeno secondo l'ipotesi
accusatoria da sottoporre al vaglio giurisdizionale- non in
funzione dell'interesse pubblico, ma da motivi pretestuosi e
sorretti da un intento ritorsivo.
Per altro verso, si deve ribadire che,
anche dopo la privatizzazione del rapporto di lavoro dei
pubblici dipendenti, non è mutata la natura pubblicistica
della funzione svolta e dei poteri esercitati dai dirigenti
amministrativi e, con essa, la qualifica di pubblico
ufficiale rilevante ai fini dell'art. 357 cod. pen.
(Sez. 6, n. 19135 del 02/04/2009 - dep. 07/05/2009,
Palascino, Rv. 243535).
5. E' fondato anche il secondo profilo di doglianza
concernente il disposto proscioglimento di Va.Fr. in
relazione al delitto di abuso d'ufficio sub capo M).
5.1. Per un verso, va evidenziato come, secondo i principi
di diritto già sopra ricordati sub punto 2), in presenza di
una situazione nella quale il quadro probatorio si prestava
ad una molteplicità ed alternatività di soluzioni valutative
in merito al coinvolgimento diretto della Fr. nel
licenziamento disciplinare, il Giudice si sarebbe dovuto
limitare a verificare la possibilità di superare tale
situazione attraverso le verifiche e gli approfondimenti
propri della fase del giudizio, senza compiere valutazioni
di tipo sostanziale spettanti al giudice dibattimentale.
Operando in tale senso ed, in particolare, entrando nel
merito del contributo prestato dalla Fr. ai fini della
adozione del provvedimento di licenziamento nei confronti
della Br., il Giudice di Viterbo si è illegittimamente
spinto oltre i limiti previsti per la sentenza ex art. 425
c.p.p..
5.2. Per altro verso, il Giudice ha comunque errato là dove
ha escluso il concorso della Fr. nella condotta di abuso sub
capo M) sulla scorta della considerazione che l'imputata,
non avendo apposto la propria firma in calce al
provvedimento di licenziamento disciplinare non potrebbe
rispondere della condotta a mero titolo di responsabilità
oggettiva, tenuto conto della sua posizione e della
conseguente titolarità del potere d'iniziativa per
l'applicazione delle sanzioni disciplinari.
Ed invero, secondo i principi generali in
tema di concorso di persone nel reato cristallizzati
nell'art. 110 cod. pen., il contributo concorsuale acquista
rilevanza non solo quando abbia efficacia causale, ponendosi
come condizione dell'evento illecito, ma anche quando assuma
la forma di un contributo agevolatore e di rafforzamento del
proposito criminoso già esistente nei concorrenti, in modo
da aumentare la possibilità di commissione del reato
(fattispecie in tema di abuso di ufficio) (Sez. 6, n. 36125
del 13/05/2014 - dep. 25/08/2014, Minardo e altro, Rv.
260235).
Ne discende che, almeno in linea ipotetica,
non può essere escluso che l'imputata, a prescindere dalla
mancata apposizione della firma sotto il provvedimento di
licenziamento e senza dover ipotizzare una responsabilità
oggettiva discendente dalla posizione apicale ricoperta in
seno all'ufficio, possa comunque avere assicurato il proprio
contributo, morale o materiale, anche di natura meramente
agevolatrice, al prodursi dell'evento. |
PUBBLICO IMPIEGO:
Concussione minacciare controlli. Un funzionario
del fisco intascava soldi per tacitare presunte
irregolarità.
Cassazione. Due decisioni confermano la linea dura - Sì al
doppio regime di sanzioni contabili e ordinarie.
Con due pronunce
contestuali della stessa sezione (la VI penale, ma a collegi
diversi) la Corte di Cassazione - Sez. VI penale- conferma la linea del rigore
verso gli imputati di concussione. La severità nel
circoscrivere il reato spacchettato dalla legge Severino
(190/2012), con le
sentenza 18.02.2016
n. 6656 e
sentenza 18.02.2016
n. 6659, si accompagna alla conferma del doppio
regime delle sanzioni patrimoniali a carico dei funzionari
infedeli; le statuizioni civili a favore della parte lesa
costituita a processo non escludono l’iniziativa della
magistratura contabile, almeno fino alla maturazione del
titolo esecutivo.
Diverse le figure di pubblico ufficiale colpite dalle
sentenze di ieri -un dipendente delle Entrate di Varese, un
curatore fallimentare incaricato dal Tribunale di Rimini-
ma identiche le sintesi sulle fattispecie ribadite dalla
Suprema corte.
Nel primo caso il funzionario infedele aveva avvicinato con
approcci insoliti oltreché irrituali un imprenditore,
esponendogli con «modalità terroristiche» delle presunte
irregolarità nella dichiarazione dei redditi e chiedendo -e
ricevendo poi- 5mila euro per tacitare la vicenda.
Ugualmente “dirette” le modalità estorsive, a giudizio della
Corte, messe in campo dal curatore fallimentare romagnolo,
che aveva “barattato” la disponibilità a tradire l’ufficio -restituendo una chiavetta Usb con la contabilità occulta
della società indagata e impegnandosi a non esecutare i beni
personali del fallito- con la promessa di ricevere 95mila
euro.
In entrambi i casi le difese avevano tentato di ricondurre i
fatti nell’alveo della induzione indebita della legge
Severino (articolo 319-quater del codice penale), sostenendo
in sostanza la libertà di scelta delle vittime e adombrando
una ragionevole convenienza nell’accordo illecito loro
proposto.
Confermando l’inquadramento delle corti di merito
e i precedenti di legittimità -a cominciare dalle Sezioni
Unite 12228/13- la Cassazione ha però sottolineato come,
nei casi analizzati, il rapporto tra le parti «non si
svolgesse affatto su un piano di parità», scaturendo da
un’iniziativa dell’esercente il potere pubblico, proseguendo
con la prospettazione di una minaccia contra ius e
culminando nella richiesta di denaro per chiudere le
pendenze con l’erario, da un lato, e con i creditori e i
giudici dall’altro.
Il metus, torna a ripetere la Sesta, fa da discrimine tra
l’ipotesi classica più grave e quella depotenziata, insieme
al carattere ingiusto della minaccia, tali da limitare in
concreto la libertà di autodeterminazione del destinatario.
Quanto ai diversi profili di sanzionabilità patrimoniale
della concussione, la Sesta riattualizza le Sezioni Unite
26852/13 sulla indipendenza del doppio canale, civile/penale
da un lato e giurisdizione contabile dall’altro. I beni
tutelati e le finalità sono diversi -si va dal risarcimento
del danno privato al buon funzionamento e all’immagine della
pubblica amministrazione- e vanno gestiti in autonomia, con
la funzione riparatoria che si abbina a quella
sanzionatoria.
E, nel caso di sovrapposizione delle
iniziative (per esempio per danno d’immagine alla Pa) il
giudicato civile/penale preclude il processo erariale,
«senza dar luogo a una questione di giurisdizione» (articolo Il Sole 24 Ore del
19.02.2016).
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MASSIMA -
Corte di
Cassazione, Sez. VI penale,
sentenza 18.02.2016
n. 6656.
2. Anche il secondo motivo è infondato.
Le Sezioni unite,
risolvendo un contrasto interpretativo insorto nella
giurisprudenza di legittimità, a seguito
della riforma dei reati contro la pubblica amministrazione,
da parte della l. n. 190 del 2012, hanno individuato il
discrimine fra il delitto di concussione e quello di
indebita induzione, ritenendo, in particolare, che il
primo reato sussista in presenza di un abuso costrittivo del
pubblico ufficiale, attuato mediante violenza o minaccia, da
cui derivi una grave limitazione della libertà di
autodeterminazione del destinatario, che, senza ricevere
alcun vantaggio, venga posto di fronte all'alternativa di
subire il male prospettato o di evitarlo con la dazione o la
promessa dell'utilità. Nella concussione di cui
all'art. 317 cod. pen., si è quindi in presenza di una
condotta del pubblico ufficiale che limita radicalmente la
libertà di autodeterminazione del soggetto passivo.
Il discrimen tra il concetto di costrizione e quello
di induzione va quindi ricercato nella dicotomia
minaccia-non minaccia. La minaccia non deve necessariamente
concretizzarsi in espressioni esplicite e brutali ma può
anche essere implicita, velata, allusiva, potendo,
eventualmente, assumere anche la forma del consiglio,
dell'esortazione, della metafora, purché tali comportamenti
siano connotati da una carica intimidatoria analoga a quella
della minaccia esplicita.
La nozione di induzione, invece, esplicando una
funzione di selettività residuale rispetto al concetto di
costrizione, copre gli spazi non riconducibili a
quest'ultimo, inerendo a quei comportamenti, pur sempre
abusivi, del pubblico agente che non si materializzano nella
violenza o nella minaccia di un male ingiusto e non pongono
il destinatario di fronte alla scelta obbligata tra due mali
parimenti ingiusti.
Il delitto di cui all'ad 319-quater cod. pen. consiste
infatti nell'abuso induttivo posto in essere dal pubblico
ufficiale o dall'incaricato di pubblico servizio, che, con
una condotta di persuasione, suggestione, inganno o
pressione morale,condizioni in modo più tenue la libertà di
autodeterminazione del privato, il quale, disponendo di ampi
margini decisori, accetta di prestare acquiescenza alla
richiesta della prestazione non dovuta, nella prospettiva di
un tornaconto personale.
Dunque la fattispecie di induzione indebita, di cui
all'art. 319-quater cod. pen., è caratterizzata da una
condotta di pressione non irresistibile da parte del
pubblico ufficiale o dell'incaricato di un pubblico
servizio, che lasci al destinatario un margine significativo
di autodeterminazione e si coniughi con il perseguimento di
un indebito vantaggio per il privato
(Sez. U., n. 12228 del 24.10.2013).
2.1. Nel caso di specie, risulta dalla motivazione della
sentenza impugnata che il male ingiusto prospettato
dall'imputato, pubblico ufficiale, alla persona offesa ha
determinato in quest'ultima un gravissimo stato di
costrizione.
L'imputato infatti aveva richiesto alla persona offesa il
pagamento di un'ingente somma per la restituzione di una
chiavetta USB, contenente la contabilità completa e corretta
della società fallita e la mancata restituzione di tale
chiavetta avrebbe avuto importanti conseguenze
pregiudizievoli per la persona offesa, che avrebbe potuto
subire un procedimento per bancarotta fraudolenta e una
sanzione da parte dell'Agenzia delle entrate, per il mancato
pagamento di alcuni debiti IVA.
Trattasi di motivazione esente da vizi logico-giuridici, da
cui risulta lo stato di costrizione in cui versava il
soggetto passivo, con conseguente configurabilità del reato
di cui agli artt. 56-317 cod. pen..
---------------
MASSIMA -
Corte di
Cassazione, Sez. VI penale,
sentenza 18.02.2016
n. 6659.
6. Anche il quarto ed ultimo motivo di doglianza,
concernente la denunciata "manifesta illogicità della
motivazione in relazione alla conferma delle statuizioni
civili", avuto riguardo all'entità della liquidazione
equitativa del danno, non ha alcun reale pregio.
6.1 In primo luogo, ancorché non appaia corretto il richiamo
al criterio di calcolo fissato per il danno erariale
dall'art. 1, co. 62, L. 11.06.2012 n. 190, in misura "pari
al doppio della somma di denaro o del valore patrimoniale di
altra utilità illecitamente percepita dal dipendente"
-per la semplice ragione che detta disposizione, al di là
della natura meramente presuntiva sua propria e perciò
superabile, non ha carattere retroattivo, di talché non
opera per i fatti verificatisi in epoca antecedente alla sua
entrata in vigore (cfr. Corte dei conti, Sez. GA2, sent. n.
489 del 25.07.2013)- assorbente è in ogni
caso il rilievo che si verte qui in tema di risarcimento del
danno da reato.
Invero, è principio pacifico che la
giurisdizione contabile, da un lato, e, dall'altro,
quella civile e penale per il risarcimento dei danni
derivanti appunto da reato, sono tra loro reciprocamente
indipendenti, anche quando scaturiscano da un medesimo fatto
materiale, fermi
restando i profili di proponibilità dell'azione di
responsabilità e di preclusione da giudicato che l'eventuale
interferenza può comportare: a significare, cioè, che
l'azione di responsabilità contabile può essere
coltivata solo se l'ente danneggiato non abbia già ottenuto,
in sede civile o penale, un titolo per il risarcimento dei
danni patiti, ed altrettanto dicasi per la situazione
inversa, così come concordemente insegnano la giurisprudenza
di legittimità e quella contabile:
●
"In
tema di responsabilità erariale, la giurisdizione civile e
quella penale, da un lato, e la giurisdizione contabile,
dall'altro, sono reciprocamente indipendenti nei loro
profili istituzionali, anche quando investono un medesimo
fatto materiale, e l'eventuale interferenza che può
determinarsi tra i relativi giudizi pone esclusivamente un
problema di proponibilità dell'azione di responsabilità da
far valere davanti alla Corte dei conti, senza dar luogo ad
una questione di giurisdizione"
(Cass. Sez. Un. Civ., sent. n. 26582 del 28.11.2013, Rv.
628611);
●
"Nell'ipotesi di danno erariale per
fatto costituente reato possono concorrere, nei confronti
del medesimo agente pubblico, l'azione di responsabilità
amministrativa del pubblico ministero contabile e l'azione
di parte civile dall'ente danneggiato nel processo penale,
salvo che intervenga un titolo esecutivo definitivo che
faccia venire meno l'interesse dell'azione del pubblico
ministero contabile"
(Corte dei conti, Sez. GA2, sent. n. 26 del 16.01.2013).
E si è altresì precisato, a maggior
supporto della detta autonomia reciproca, con riferimento al
rapporto tra un giudizio civile e quello promosso per i
medesimi fatti dal procuratore contabile innanzi alla Corte
dei conti, che quest'ultimo è finalizzato alla tutela
dell'interesse pubblico generale, al buon andamento della
P.A. ed al corretto impiego delle risorse, con funzione
essenzialmente o prevalente sanzionatoria, mentre il primo è
preordinato al pieno ristoro del danno, con funzione
riparatoria ed integralmente compensativa, a tutela
dell'interesse particolare della singola Amministrazione
attrice (cfr.
Cass. Civ., Sez. 3, sent. n. 14632 del 14.07.2015, Rv.
636278).
6.2 Secondariamente, l'assunto secondo cui
la vicenda per cui è processo avrebbe avuto "un riflesso
mediatico ridotto ed estremamente contenuto a livello locale",
onde non avrebbe comportato una serie lesione d'immagine
della P.A. (anche
in considerazione dell'immediato intervento delle Forze
dell'Ordine), costituisce una valutazione
in fatto, per di più meramente assertiva perché non
corroborata in alcun modo dal riferimento agli atti
processuali esistenti, di talché non si vede come essa possa
incrinare la linearità e congruenza del ragionamento del
giudice d'appello, che ha valutato come "significativo"
il discredito che l'episodio ha comportato per l'immagine
dell'Agenzia delle Entrate, avendo proiettato all'esterno la
rappresentazione di un ufficio pubblico "in mano a
prevaricatori, la cui azione appare diretta più a soddisfare
i loro illegittimi interessi patrimoniali che non l'equità
fiscale"; con l'opportuna puntualizzazione ulteriore che
l'esistenza di altri episodi, coinvolgenti il medesimo
ufficio, non implica affatto un meno grave apprezzamento del
danno arrecato, giacché, al contrario, "proprio
l'ampiezza ed il carattere non occasionale del mercimonio
della funzione pubblica incrementa l'entità della lesione". |
EDILIZIA PRIVATA: Contributo di costruzione: deve essere fissato al momento
del rilascio del titolo edilizio.
Se i contributi concessori (per entrambe
le componenti, e, quindi, sia con riferimento alla voce
relativa agli oneri di urbanizzazione che in relazione alla
voce inerente al costo di costruzione) devono essere
determinati e liquidati, secondo la lettera della norma, al
momento del rilascio del permesso di costruire, “a tale
momento occorre dunque avere riguardo per l’entità
dell’onere, facendo applicazione della normativa vigente al
momento del rilascio del titolo edilizio”: pertanto, “la
determinazione del contributo di costruzione deve avvenire
sulla base dei parametri vigenti al momento del rilascio del
permesso di costruire”.
Ciò significa che i provvedimenti
comunali di adeguamento dei contributi concessori (sia oneri
di urbanizzazione che costo di costruzione) possono trovare
applicazione esclusivamente “per i permessi rilasciati a far
tempo dall’epoca di adozione dell’atto deliberativo e non
anche per quelli rilasciati in epoca anteriore”, dovendosi
ritenere, sulla base del dato normativo e in conformità
dell’orientamento giurisprudenziale consolidato (da cui non
vi sono ragioni di discostarsi), che “non solo la
determinazione degli oneri debba avvenire sulla base delle
tariffe vigenti, ma che la stessa non possa essere richiesta
che una tantum al momento del rilascio del permesso
edilizio”, salvo l’ipotesi, da un lato, del (doveroso)
esercizio (entro il termine prescrizionale) del potere di
autotutela volto a correggere eventuali meri errori di
determinazione o calcolo, compiuti all’epoca del rilascio
del permesso di costruire, e, dall’altro, della
“riliquidazione …. quando vi sia rilascio di nuovo titolo
edilizio in relazione alla scadenza dell'efficacia temporale
del precedente e per il completamento con mutamento di
destinazione d'uso delle opere assentite in origine” (così
Consiglio di Stato che ha affermato la legittimità del
“ricalcolo degli oneri già corrisposti per la prima
concessione” -decaduta ai sensi dell’art. 15, comma 3, del
D.P.R. n. 380/2001- “applicando anche ad essi la nuova
disciplina (fermo restando, come è ovvio, lo scomputo delle
somme già corrisposte), ….. nella sola ipotesi in cui le
opere assentite col secondo permesso comportino un mutamento
di destinazione d’uso ovvero una variazione essenziale del
manufatto con passaggio da una categoria urbanistica ad
altra funzionalmente autonoma, in tale caso giustificandosi
col maggior carico urbanistico conseguente il ricalcolo
degli oneri dovuto).
Di conseguenza, una volta che la determinazione degli oneri
concessori sia correttamente avvenuta sulla base delle
tabelle vigenti all’epoca del rilascio del permesso di
costruire, né ricorra la seconda ipotesi (di legittimo
“ricalcolo”) appena illustrata, non può che rivelarsi
illegittima la pretesa dell’Amministrazione di addossare ex
post al titolare del permesso edilizio rilasciato anni prima
l’ulteriore carico finanziario derivante dal meccanismo di
aggiornamento.
D’altro canto, la convenienza a realizzare o meno
l’intervento edilizio non può prescindere da una valutazione
degli oneri concessori quale significativa componente del
costo complessivo dello stesso; per cui, un adeguamento del
contributo ex post si tradurrebbe in un’alea insopportabile
per chi, qualora a conoscenza di una diversa e maggiore
entità del contributo, si sarebbe magari astenuto
dall’iniziativa economica intrapresa.
---------------
1. - Il ricorso è fondato.
Fondato ed assorbente è il primo motivo di gravame, con il
quale i ricorrenti assumono (essenzialmente) che, con le
impugnate note (prot. n. 7287 del 24.09.2014 e prot. n. 8219
del 29.10.2014), il Comune di Arnesano abbia
(illegittimamente) rideterminato retroattivamente l’importo
del contributo correlato al costo di costruzione, a distanza
di ben sette anni dal rilascio dei permessi di costruire n.
19 del 23.04.2007 e n. 58 del 17.10.2007, ad avvenuto saldo
del pagamento degli oneri richiesti, in violazione dell’art.
16 del D.P.R. n. 380/2001 e dell’art. 2 della L.R. n.
1/2007.
1.1 - Osserva il Collegio che l’art. 16 del D.P.R n.
380/2001 stabilisce che “la quota di contributo relativa
agli oneri di urbanizzazione va corrisposta al comune
all’atto del rilascio del permesso di costruire e, su
richiesta dell’interessato, può essere rateizzata”
(comma 2), mentre “la quota di contributo relativa al
costo di costruzione, determinata all’atto del rilascio, è
corrisposta in corso d’opera, con le modalità e le garanzie
stabilite dal comune, non oltre sessanta giorni dalla
ultimazione della costruzione” (comma 3).
Se i contributi concessori (per entrambe le componenti, e,
quindi, sia con riferimento alla voce relativa agli oneri di
urbanizzazione che in relazione alla voce inerente al costo
di costruzione) devono essere determinati e liquidati,
secondo la lettera della norma, al momento del rilascio del
permesso di costruire, “a tale momento occorre dunque
avere riguardo per l’entità dell’onere, facendo applicazione
della normativa vigente al momento del rilascio del titolo
edilizio” (TAR Puglia, Lecce, III, 27.09.2013, n. 2058):
pertanto, “la determinazione del contributo di
costruzione deve avvenire sulla base dei parametri vigenti
al momento del rilascio del permesso di costruire” (TAR
Puglia, Lecce, III, 15.05.2013, n. 1103, in tal senso anche
Consiglio di Stato, IV, 12.06.2014, n. 3010; idem,
19.03.2015, n. 1504).
Ciò significa che i provvedimenti comunali di adeguamento
dei contributi concessori (sia oneri di urbanizzazione che
costo di costruzione) possono trovare applicazione
esclusivamente “per i permessi rilasciati a far tempo
dall’epoca di adozione dell’atto deliberativo e non anche
per quelli rilasciati in epoca anteriore” (TAR Puglia,
Lecce, III, cit., n. 48/2013), dovendosi ritenere, sulla
base del dato normativo e in conformità dell’orientamento
giurisprudenziale consolidato (da cui non vi sono ragioni di
discostarsi), che “non solo la determinazione degli oneri
debba avvenire sulla base delle tariffe vigenti, ma che la
stessa non possa essere richiesta che una tantum al momento
del rilascio del permesso edilizio” (TAR Lecce, III,
cit., n. 1103/2013), salvo l’ipotesi, da un lato, del
(doveroso) esercizio (entro il termine prescrizionale) del
potere di autotutela volto a correggere eventuali meri
errori di determinazione o calcolo, compiuti all’epoca del
rilascio del permesso di costruire, e, dall’altro, della “riliquidazione
…. quando vi sia rilascio di nuovo titolo edilizio in
relazione alla scadenza dell'efficacia temporale del
precedente e per il completamento con mutamento di
destinazione d'uso delle opere assentite in origine”
(così Consiglio di Stato, IV, 19.03.2015, n. 1504, con
relativo richiamo a Consiglio di Stato, IV, 27.04.2012, n.
2471, che ha affermato la legittimità del “ricalcolo
degli oneri già corrisposti per la prima concessione”
-decaduta ai sensi dell’art. 15, comma 3, del D.P.R. n.
380/2001- “applicando anche ad essi la nuova disciplina
(fermo restando, come è ovvio, lo scomputo delle somme già
corrisposte), ….. nella sola ipotesi in cui le opere
assentite col secondo permesso comportino un mutamento di
destinazione d’uso ovvero una variazione essenziale del
manufatto con passaggio da una categoria urbanistica ad
altra funzionalmente autonoma, in tale caso giustificandosi
col maggior carico urbanistico conseguente il ricalcolo
degli oneri dovuto (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 29.04.2004,
nr. 2611; Cons. Stato, sez. V, 25.05.2004, nr. 6289; id.,
23.01.2004, nr. 174; id., 29.01.2004, nr. 295; id.,
24.09.2001, nr. 1427)”).
Di conseguenza, una volta che la determinazione degli oneri
concessori sia correttamente avvenuta sulla base delle
tabelle vigenti all’epoca del rilascio del permesso di
costruire, né ricorra la seconda ipotesi (di legittimo “ricalcolo”)
appena illustrata, non può che rivelarsi illegittima la
pretesa dell’Amministrazione di addossare ex post al
titolare del permesso edilizio rilasciato anni prima
l’ulteriore carico finanziario derivante dal meccanismo di
aggiornamento.
D’altro canto, la convenienza a realizzare o meno
l’intervento edilizio non può prescindere da una valutazione
degli oneri concessori quale significativa componente del
costo complessivo dello stesso; per cui, un adeguamento del
contributo ex post si tradurrebbe in un’alea
insopportabile per chi, qualora a conoscenza di una diversa
e maggiore entità del contributo, si sarebbe magari astenuto
dall’iniziativa economica intrapresa (TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 17.02.2016 n. 326 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
Revisione prezzi, in tribunale.
Controversia relativa ai canoni.
Se la revisione prezzi di un canone viene pattuita fra le
parti l'eventuale controversia è di competenza del giudice
ordinario. Se, invece, deriva dall'applicazione di norme di
legge l'eventuale giudizio va instaurato presso il giudice
amministrativo.
È quanto ha affermato il Consiglio di Stato, Sez. V,
con la
sentenza 12.02.2016 n. 621, rispetto a un
contratto nel quale si era provveduto alla rideterminazione
del canone per l'appalto (si trattava dell'affidamento della
gestione dei servizi di igiene urbana) con un meccanismo di
revisione, da svolgersi con cadenza semestrale attraverso un
accertamento in contraddittorio tra l'appaltatrice e la
stazione appaltante. Rispetto a questo meccanismo i giudici
hanno rilevato che, non derivando da alcun meccanismo
revisionale previsto dalla legge, ancorché riprodotto in
clausole negoziali ogni controversia avendo a oggetto un
diritto soggettivo, non può che essere portata davanti al
giudice ordinario.
Altro sarebbe stato se si fosse trattato di meccanismi di
adeguamento del canone d'appalto aventi fonte di rango
normativo perché in questi casi sarebbero stati
configurabili poteri dell'amministrazione appaltante di
apprezzamento discrezionale di carattere autoritativo, i
quali costituiscono il necessario fondamento costituzionale
della giurisdizione amministrativa, con riguardo alle
fattispecie di violazione degli interessi legittimi del
contraente sotto il profilo dell'eccesso di potere o di
analoghe fattispecie elaborate dalla giurisprudenza
amministrativa.
Nel caso esaminato dai giudici la clausola revisionale era
stata autonomamente pattuita dalle parti e inserita nel
contenuto del contratto d'appalto, nell'ambito di una
relazione bilaterale paritaria avente fonte nel vincolo
negoziale e nella quale l'amministrazione era priva di
poteri di supremazia speciale nei confronti del contraente
privato. D'altra parte, la giurisdizione amministrativa
esclusiva, avente per oggetto la revisione dei prezzi,
riguarda tecnicamente i meccanismi di rideterminazione del
quantum dovuto per le prestazioni rese dalle controparti
sulla base del contratto, e non anche la domanda volta a far
determinare in sede giurisdizionale se le prestazioni da
effettuare vadano modificate
(articolo ItaliaOggi del 19.02.2016).
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MASSIMA
1. L’odierna appellante Mo. s.r.l. è un’impresa facente
parte del raggruppamento temporaneo che si è aggiudicato
l’appalto indetto dall’Ambito territoriale Lecce/1 «per i
servizi di spazzamento delle reti stradali urbane e delle
aree pubbliche di 9 comuni appartenenti all’autorità per la
gestione dei rifiuti solidi urbani nel bacino di Lecce/1, di
raccolta indifferenziata e differenziata, trasporto agli
impianti di smaltimento e/o trattamento dei rifiuti urbani (rsu)
e dei rifiuti speciali assimilati agli urbani (rsau) e per
la gestione dell’impianto di Campi Salentina per lo
stoccaggio e lavorazioni dei materiali rinvenienti dalla
raccolta differenziata», stipulando il relativo
contratto in data 23.05.2006.
2. Come deduce la società appellante, il servizio oggetto
dell’appalto in questione era stato affidato per la prima
volta a livello di ambito territoriale sovracomunale («in
via sperimentale»: pag. 2 dell’appello). In ragione di
ciò, il corrispettivo, fissato secondo le «quantità
presunte» di mezzi da impiegare nell’esecuzione del
contratto, era stato convenzionalmente assoggettato ad un
meccanismo di revisione, da svolgersi con cadenza semestrale
attraverso un accertamento in contraddittorio tra
l’appaltatrice e l’autorità appaltante (art. 8, rubricato «ampliamento
e/o riduzione dei servizi e aggiornamento del canone»).
La pretesa azionata dalla Mo. nel presente giudizio trae
origine proprio dalla sopra richiamata previsione negoziale,
e più precisamente dal diniego di adeguamento del canone che
il Comune di San Cesario di Lecce, facente parte dell’ambito
territoriale, ha opposto all’istanza della società odierna
appellante per il periodo dal 01.04.2006 al 31.12.2011.
3. Sulla conseguente impugnativa di quest’ultima, il TAR
Puglia – sez. staccata di Lecce ha dichiarato il proprio
difetto di giurisdizione con la sentenza in epigrafe.
Il giudice di primo grado ha escluso che la clausola in
questione sia riconducibile al meccanismo di revisione dei
prezzi dell’appalto previsto dall’art. 6 della legge
537/1993 (“Interventi correttivi di finanza pubblica”),
in relazione alla cui applicazione sussiste la giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo ex art. 133, comma 1,
lett. e), n. 2, cod. proc. amm., e che nel contratto
d’appalto tra le parti in causa trova separata
regolamentazione, all’art. 7.
Sul punto il TAR ha in particolare specificato che il
meccanismo di rideterminazione di cui al successivo art. 8 è
invece finalizzato a coprire «i costi ulteriori che si
ritengono sostenuti per rendere prestazioni eccedenti quelle
previste nel contratto», e dunque attiene alla fase
esecutiva del rapporto.
4. Tanto premesso, le ragioni a sostegno della declinatoria
di giurisdizione, ora esposte, resistono alle critiche
formulate dalla s.r.l. Mo. nel presente appello, che deve
dunque essere respinto.
Il TAR ha infatti colto esattamente il fondamento della
pretesa azionata nel presente giudizio dalla società odierna
appellante, la quale, non derivando da alcun meccanismo
revisionale previsto dalla legge, ancorché riprodotto in
clausole negoziali, ma appunto da queste ultime tout
court, ha secondo la giurisprudenza delle Sezioni unite
della Cassazione natura di diritto soggettivo, conoscibile
dal giudice ordinario (sentenza 19.03.2009, n. 6595;
ordinanza 13.07.2015, n. 14559).
5. Deve precisarsi al riguardo che
solo per meccanismi di adeguamento del canone d’appalto
aventi fonte di rango normativo sono configurabili poteri
dell’amministrazione appaltante di apprezzamento
discrezionale di carattere autoritativo, i quali
costituiscono il necessario fondamento costituzionale della
giurisdizione amministrativa
(cfr. Corte Cost., 06.07.2004, n. 204).
All’opposta conclusione deve invece pervenirsi laddove la
clausola revisionale sia stata autonomamente pattuita dalle
parti ed inserita nel contenuto del contratto d’appalto,
perché le pretese da essa discendenti sorgono nell’ambito di
una relazione bilaterale paritaria avente fonte nel vincolo
negoziale e nella quale l’amministrazione è priva di poteri
di supremazia speciale nei confronti del contraente privato.
D’altra parte,
la giurisdizione amministrativa esclusiva, avente per
oggetto la revisione dei prezzi, riguarda tecnicamente i
meccanismi di rideterminazione del quantum dovuto per le
prestazioni rese dalle controparti sulla base del contratto,
e non anche la domanda volta a far determinare in sede
giurisdizionale se le prestazioni da effettuare vadano
modificate in considerazioni di sopravvenienze, con i
conseguenti conguagli.
6. Non induce a conclusioni diverse il fatto che sullo
stesso contratto d’appalto e con specifico riguardo alla
stessa clausola revisionale qui in contestazione un’altra
società facente parte del medesimo raggruppamento
aggiudicatario, la mandataria As. s.r.l., abbia ottenuto da
questa Sezione una pronuncia affermativa della giurisdizione
amministrativa (sentenza 06.05.2008, n. 2668).
Come infatti deduce il Comune di San Cesario di Lecce in
contrario agli assunti della Mo., la pronuncia in questione,
risalente ad epoca precedente al chiarimento fornito dalle
Sezioni unite della Cassazione con la citata sentenza del
19.03.2009, n. 6595, non ha autorità di giudicato nella
presente fattispecie controversa, essendo stata pronunciata
nei confronti di parti diverse da quelle coinvolte in questo
giudizio. |
APPALTI SERVIZI:
Sulla legittimità dell'ammissione ad una gara per
il servizio di gestione centri comunali di raccolta, per la
quale sia richiesta l'iscrizione all'Albo Nazionale Gestori
Ambientali, di un consorzio stabile.
Il modulo associativo del "consorzio stabile",
delineato dall'art. 36 del d.lgs. n. 163/2006, dà vita ad un
soggetto giuridico autonomo, costituito in forma collettiva
e con causa mutualistica, che opera in base ad uno stabile
rapporto organico con le imprese associate, in forza del
quale può giovarsi, senza dover ricorrere all'avvalimento,
degli stessi requisiti di idoneità tecnica e finanziaria
delle consorziate stesse, secondo il criterio del "cumulo
alla rinfusa".
In tal senso depongono inequivocabilmente sia l'art. 37, c.
7, d.lgs. n. 163/2006, per cui "il consorzio stabile si
qualifica sulla base delle qualificazioni possedute dalle
singole imprese consorziate", sia l'att. 94 del DPR
207/2010 in base al quale "I consorzi stabili di cui agli
artt. 34, c. 1, lett. c), e 36 del codice, eseguono i lavori
o con la propria struttura o tramite i consorziati indicati
in sede di gara senza che ciò costituisca subappalto, ferma
la responsabilità solidale degli stessi nei confronti della
stazione appaltante".
Tale principio è poi ulteriormente ribadito, per i "consorzi
stabili per servizi e forniture", dal successivo art. 277
del DPR 207/2010 secondo cui: "1. Ai consorzi stabili per
servizi e forniture si applicano le disposizioni di cui
all'articolo 94, commi 1 e 4.
2. La sussistenza in capo ai consorzi stabili dei requisiti
richiesti nel bando di gara per l'affidamento di servizi e
forniture è valutata, a seguito della verifica della
effettiva esistenza dei predetti requisiti in capo ai
singoli consorziati".
Pertanto, nel caso di specie, è legittima l'ammissione ad
una gara per il servizio di gestione centri comunali di
raccolta, per la quale sia richiesta l'iscrizione all'Albo
Nazionale Gestori Ambientali, di un consorzio stabile,
partecipante alla gara in nome proprio, ma per conto di tre
società cooperative specificamente indicate come "esecutrici
dell'appalto", tutte iscritte all'Albo Nazionale Gestori
Ambientali (TAR Veneto, Sez. I,
sentenza 12.02.2016 n. 138 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
E' illegittima l'ordinanza sindacale che vieta l'accesso dei
cani a tutti i giardini pubblici comunali.
Il potere sindacale di emanare ordinanze contingibili ed
urgenti di cui agli artt. 50, comma 5, e 54 comma 2, d.lgs.
267/2000, permette anche l'imposizione di obblighi di fare o
di non fare a carico dei destinatari. Tuttavia il potere
extra ordinem ivi previsto presuppone, da un lato, una
situazione di pericolo effettivo, da esternare con congrua
motivazione, e, dall'altro, una situazione eccezionale e
imprevedibile, cui non sia possibile far fronte con i mezzi
previsti in via ordinaria dall'ordinamento. L'ordinanza
contingibile ed urgente non può, pertanto, essere utilizzata
per soddisfare esigenze che siano invece prevedibili ed
ordinarie.
In particolare il sindaco può ricorrere al detto strumento
al fine di fronteggiare un'emergenza con rimedi eccezionali
in attesa dell'espletamento delle ordinarie misure previste
dall'ordinamento per il corretto esercizio dell'azione
amministrativa, ma comunque si presuppone sempre la
necessità di provvedere con immediatezza in ordine a una
situazione di natura eccezionale ed imprevedibile.
---------------
In casi del tutto analoghi a quello qui esaminato, la
giurisprudenza è ormai pacifica nell’affermare
l’illegittimità di provvedimenti che limitano la
circolazione ai possessori di cani.
In tal senso, in modo del tutto condivisibile, il Tar
Basilicata ha avuto modo di affermare che “E’ illegittima
una ordinanza con la quale il Sindaco, al fine di tutelare
il diritto alla salute e all’igiene pubblica, ha disposto il
divieto assoluto di introdurre cani, anche se custoditi,
nelle aree destinate a giardini pubblici. Tale ordinanza,
infatti, risulta eccessivamente limitativa della libertà di
circolazione delle persone ed è comunque posta in violazione
dei principi di adeguatezza e proporzionalità dell’azione
amministrativa, atteso che lo scopo perseguito dall’Ente
locale di mantenere il decoro e l’igiene pubblica è già
adeguatamente soddisfatto con lo stesso provvedimento
sindacale, nella parte in cui impone agli accompagnatori o
custodi di cani di rimuovere le eventuali deiezioni con
apposite palette, sacchetti di plastica o qualsiasi altro
strumento idoneo predisposte all’uso e di provvedere al loro
smaltimento nei rifiuti indifferenziati”.
---------------
... per l'annullamento dell'ordinanza n. 6 del 10.09.2014,
emessa dal Sindaco del Comune di Nuragus, nella sola parte
in cui vieta ai conduttori di cani, anche se muniti di
guinzaglio, di poter accedere a tutti i pubblici giardini
del territorio comunale.
...
Nel merito il ricorso è fondato e deve essere accolto.
Il potere sindacale di emanare ordinanze contingibili ed
urgenti di cui agli artt. 50, comma 5, e 54 comma 2, d.lgs.
267/2000, permette anche l'imposizione di obblighi di fare o
di non fare a carico dei destinatari. Tuttavia il potere
extra ordinem ivi previsto presuppone, da un lato, una
situazione di pericolo effettivo, da esternare con congrua
motivazione, e, dall'altro, una situazione eccezionale e
imprevedibile, cui non sia possibile far fronte con i mezzi
previsti in via ordinaria dall'ordinamento. L'ordinanza
contingibile ed urgente non può, pertanto, essere utilizzata
per soddisfare esigenze che siano invece prevedibili ed
ordinarie.
In particolare il sindaco può ricorrere al detto strumento
al fine di fronteggiare un'emergenza con rimedi eccezionali
in attesa dell'espletamento delle ordinarie misure previste
dall'ordinamento per il corretto esercizio dell'azione
amministrativa, ma comunque si presuppone sempre la
necessità di provvedere con immediatezza in ordine a una
situazione di natura eccezionale ed imprevedibile.
Nel caso all’esame del collegio, l’impugnata ordinanza
sconta tutti i vizi dedotti dalla difesa della associazione
ricorrente.
In particolare non è rinvenibile dagli atti di causa alcuna
delle situazioni di eccezionalità ed imprevedibilità che
porti a far temere emergenze igienico sanitarie o pericoli
per la pubblica incolumità.
Dall’esame degli atti di causa non è dato rinvenire,
inoltre, alcuna idonea istruttoria volta a suffragare la
decisione di adottare un’ordinanza quale quella impugnata.
Va peraltro rilevato che in casi del tutto analoghi a quello
qui esaminato, la giurisprudenza è ormai pacifica
nell’affermare l’illegittimità di provvedimenti che limitano
la circolazione ai possessori di cani.
In tal senso, in modo del tutto condivisibile, il Tar
Basilicata, con sentenza 17.10.2013, n. 611 ha avuto modo di
affermare che “E’ illegittima una ordinanza con la quale
il Sindaco, al fine di tutelare il diritto alla salute e
all’igiene pubblica, ha disposto il divieto assoluto di
introdurre cani, anche se custoditi, nelle aree destinate a
giardini pubblici. Tale ordinanza, infatti, risulta
eccessivamente limitativa della libertà di circolazione
delle persone ed è comunque posta in violazione dei principi
di adeguatezza e proporzionalità dell’azione amministrativa,
atteso che lo scopo perseguito dall’Ente locale di mantenere
il decoro e l’igiene pubblica è già adeguatamente
soddisfatto con lo stesso provvedimento sindacale, nella
parte in cui impone agli accompagnatori o custodi di cani di
rimuovere le eventuali deiezioni con apposite palette,
sacchetti di plastica o qualsiasi altro strumento idoneo
predisposte all’uso e di provvedere al loro smaltimento nei
rifiuti indifferenziati”.
Questa stessa Sezione ha avuto modo di affermare analoghi
principi con sentenza del 30.11.2012, n. 1080.
Il ricorso è, in definitiva, fondato e deve essere accolto
(TAR Sardegna, Sez. I,
sentenza 12.02.2016 n. 127 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
Sull'annullamento di un bando concernente
l'appalto annuale del servizio di gestione dei servizi
educativi per la prima infanzia del Comune per non aver
calcolato correttamente il costo del lavoro.
Deve essere annullato il bando pubblicato sulla Gazzetta
Ufficiale concernente l'appalto annuale del servizio di
gestione dei servizi educativi per la prima infanzia del
Comune in quanto viola le norme degli appalti e dei principi
sanciti dalla stesse norme secondo cui deve essere garantita
la qualità delle prestazioni e il rispetto dei principi di
economicità, efficacia, tempestività e correttezza e deve
esser altresì assicurato che il valore economico sia
adeguato e sufficiente rispetto al costo del lavoro e al
costo relativo della sicurezza.
Infatti, dai fogli di calcolo, elaborati
dall'amministrazione e posti a base della fissazione del
prezzo di gara, risulta che la stazione appaltante ha preso
a riferimento il costo annuo indicato nelle tabelle
ministeriali con riferimento alle "ore teoriche"
ammontanti a 1976 ore (38 ore x 52 settimane), senza
considerare che da tali "ore teoriche" devono essere
detratte le "ore mediamente non lavorate" (pari ad
ore 428) a causa di ferie, festività, festività soppresse,
assemblee sindacali, malattia, gravidanza, infortunio,
diritto allo studio, formazione professionale, permessi; al
fine di pervenire al dato delle "ore mediamente lavorate"
che risultano quindi ammontare a ore 1548 (1976 - 428) e che
deve considerarsi il dato effettivo e concreto di cui tenere
conto ai fini della determinazione del costo orario reale e
non teorico del personale medesimo.
E', infatti, evidente che se il costo annuo di un lavoratore
è 1000, il costo orario teorico (ottenuto dividendo tale
costo annuale per le ore teoriche) sarà un costo molto più
basso e non attendibile al fine di individuare il costo
orario effettivo del lavoratore; rispetto invece al costo
orario medio (ottenuto dividendo il medesimo costo annuale
per le "ore mediamente lavorate", numericamente ben
inferiori alle ore teoriche, in quanto depurate dalle ore
mediamente non lavorate per ferie, festività, malattia,
gravidanza, infortunio, ecc.), che non potrà che essere
nettamente più elevato rispetto al costo orario teorico e
l'unico attendibile al fine di individuare il reale ed
effettivo costo orario del lavoratore (TAR Sardegna, Sez. I,
sentenza 12.02.2016 n. 122 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
Sulla sussistenza di un potere
dell'Amministrazione aggiudicatrice di procedere alla revoca
in autotutela dell'appalto anche dopo l'aggiudicazione
definitiva a condizione di un'adeguata motivazione del
provvedimento di revoca.
Non è precluso alla stazione appaltante di procedere alla
revoca o all'annullamento dell'aggiudicazione allorché la
gara stessa non risponda più alle esigenze dell'ente e
sussista un interesse pubblico, concreto ed attuale,
all'eliminazione degli atti divenuti inopportuni, idoneo a
giustificare il sacrificio del contrapposto interesse
dell'aggiudicatario nei confronti dell'Amministrazione.
Un tale potere si fonda, tuttavia, oltre che sulla
disciplina di contabilità generale dello Stato, che consente
il diniego di approvazione per motivi di interesse pubblico
(art. 113, r.d. 23.05.1924 n. 827), sul principio generale
dell'autotutela della Pubblica Amministrazione, che
rappresenta una delle manifestazioni tipiche del potere
amministrativo, direttamente connesso ai criteri
costituzionali di imparzialità e buon andamento della
funzione pubblica.
Inoltre, la nuova valutazione dell'interesse pubblico, cui
l'Amministrazione deve accedere, non debba necessariamente
basarsi sulla intervenuta formale adozione di atti, essendo
sufficiente che dallo stesso provvedimento di revoca
emergano le ragioni, plausibili e concrete, che determinano
la suddetta rivalutazione dell'interesse pubblico.
Una volta affermata la sussistenza di un potere
dell'Amministrazione aggiudicatrice di procedere alla revoca
in autotutela dell'appalto anche dopo l'aggiudicazione
definitiva, la verifica in concreto della legittimità
dell'atto di ritiro passa attraverso un attento scrutinio
della motivazione del provvedimento, quale fondamentale
elemento di riscontro, attraverso l'analisi delle ragioni
giustificative del corretto esercizio della relativa
pubblica potestà e la chiara indicazione di un preciso e
concreto interesse pubblico (TAR Molise,
sentenza 12.02.2016 n. 73 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Se un soggetto -anche, come nel caso di
specie, mero "detentore" di
rifiuti- appresta una serie di condotte finalizzate alla
gestione di rifiuti, mediante preliminare raccolta,
raggruppamento, trasporto e vendita di rifiuti, pur non
esercitando in forma imprenditoriale, pone in essere una "attività"
di gestione di rifiuti per la quale occorre preliminarmente
ottenere i necessari titoli abilitativi.
---------------
3. In ordine alla pretesa irrilevanza penale della condotta
in ragione della occasionalità, va ribadito che, trattandosi
di illecito istantaneo, ai fini della configurabilità del
reato di cui all'art. 256, comma 1, lett. a), d.lgs. 152 del
2006, è sufficiente anche una sola condotta integrante una
delle ipotesi alternative tipizzate dalla fattispecie penale
(Sez. 3, n. 8979 del 02/10/2014, dep. 2015, Cristinzio, Rv.
262514; Sez. 3, n. 45306 del 17/10/2013, Carlino, Rv.
257631; Sez. 3, n. 24428 del 25/05/2011, D'Andrea, Rv.
250674; Sez. 3, n. 21655 del 13/ 04/2010, Hrustic, Rv.
247605), purché costituisca una "attività" e non sia
assolutamente occasionale.
3.1. La natura occasionale delle condotte di gestione di
rifiuti è strettamente legata alla qualificazione della
fattispecie penale in termini di reato comune o proprio, e,
di conseguenza, alla dimensione delle attività di gestione.
L'art. 256, comma 1, d.lgs. 152 del 2006, infatti, punisce "chiunque"
effettua una attività di "raccolta, trasporto, recupero,
smaltimento, commercio ed intermediazione di rifiuti" in
mancanza delle autorizzazioni, iscrizioni o comunicazioni
prescritte dagli artt. 208-216.
Innanzitutto, l'utilizzazione dell'espressione "chiunque"
a proposito del reato di esercizio abusivo di attività di
gestione di rifiuti indizia una qualificazione dell'illecito
in termini di reato comune, atteso che, al contrario, nel
reato di abbandono o deposito incontrollato di rifiuti
disciplinato dal successivo comma 2 (che rinvia al solo
trattamento sanzionatorio del primo comma, non già al
precetto), i soggetti attivi sono espressamente indicati
come i "titolari di imprese" ed i "responsabili di
enti"; in tal senso, del resto, depone altresì la
soppressione, ad opera dell'art. 7, comma 6, d.lgs.
08.11.1997, n. 389, dell'inciso, riferito all'appartenenza
dei rifiuti oggetto di abusiva gestione, "prodotti da
terzi", contenuto nel previgente art. 51 d.lgs. 22 del
1997 (successivamente trasfuso nell'art. 256 T.U. amb.)
(nella vigenza della precedente norma, già Sez. 3, n. 21925
del 06/06/2002, Saba; di recente, Sez. 3, n. 29992 del
24/06/2014, Lazzaro).
Tuttavia, si è sostenuto, in dottrina, che il pronome "chiunque"
non è riferibile ad un agente indefinito, essendo in realtà
il destinatario della norma penale soltanto il soggetto che
abbia l'obbligo di sottoporsi al controllo della P.A.,
individuabile mediante il richiamo alle norme autorizzatorie
di cui agli artt. 208-216 T.U. amb.; in altri termini,
soltanto i soggetti che esercitano l'attività di gestione in
forma imprenditoriale possono (e devono) dotarsi dei titoli
abilitativi.
In tal senso, a corroborare la qualifica di reato proprio
della fattispecie penale in oggetto, si è, dunque,
evidenziata la necessità, per l'integrazione della tipicità,
dei requisiti di organizzazione e professionalità
dell'attività di gestione; e se ne è tratta conferma dal
principio secondo cui "In materia di rifiuti, il soggetto
privato, non titolare di una attività di impresa o
responsabile di un ente, che abbandoni in modo incontrollato
un proprio rifiuto e che, a tal fine, lo trasporti
occasionalmente nel luogo ove lo stesso verrà abbandonato,
risponde solo dell'illecito amministrativo di cui all'art.
255 del D.Lgs. n. 152 del 2006 per l'abbandono e non anche
del reato di trasporto abusivo previsto dall'art. 256, comma
primo, del D.Lgs. cit., in quanto il trasporto costituisce
solo la fase preliminare e preparatoria rispetto alla
condotta finale di abbandono, nella quale rimane assorbito"
(Sez. 3, n. 41352 del 10/06/2014, Parpaiola).
La tesi, tuttavia, a parere di questo Collegio, dimostra più
di quanto la norma incriminatrice consenta.
Invero, se l'uso del pronome "chiunque" rappresenta
un mero indizio della qualificazione in termini di reato
comune, e la costruzione della fattispecie incriminatrice
secondo la consueta 'tecnica ingiunzionale' -mediante
penalizzazione di condotte poste in essere in assenza di
provvedimenti amministrativi autorizzatori, alla stregua di
un modello di tutela penale 'condizionato', e non 'puro'-
individua i soggetti destinatari degli obblighi delineati
dagli artt. 208-216 T.U. annb., nondimeno qualificare la
fattispecie quale reato proprio rischia di determinare
un'inversione metodologica nell'ermeneusi proposta. Ed anche
il richiamo al principio di diritto espresso da Sez. 3, n.
41352 del 10/06/2014, Parpaiola, non appare del tutto
conferente, in quanto la pronuncia richiamata esclude la
rilevanza penale del trasporto abusivo in quanto del tutto
occasionale, perché esclusivamente propedeutico e
strumentale ad un abbandono dei rifiuti (sanzionato in via
amministrativa dall'art. 255 T.U. amb.).
Quanto al soggetto attivo del reato, va chiarito che l'uso
normativo del pronome indefinito "chiunque" va
interpretato alla luce della tecnica di tutela 'relativa'
adottata dal legislatore, secondo il modello 'ingiunzionale':
in altri termini, l'agente può essere "chiunque"
eserciti abusivamente una delle attività di gestione
indicate, in via alternativa, nell'art. 256 cit.
(fattispecie a condotte alternative), anche se non
costituito formalmente in veste imprenditoriale; ciò che
rileva, dunque, per assumere la veste di agente del reato
non è una qualifica soggettiva (una forma imprenditoriale,
necessaria, ad esempio, per l'iscrizione all'Albo nazionale
dei gestori ambientali), bensì la concreta attività posta in
essere.
In tal senso, si è espressa altresì la giurisprudenza più
recente che ha affrontato il profilo della rilevanza penale
dell'attività "ambulante" di raccolta e trasporto,
secondo cui "la condotta sanzionata dal D.Lgs. n. 152 del
2006, art. 256, comma 1, è riferibile a chiunque svolga, in
assenza del prescritto titolo abilitativo, una attività
rientrante tra quelle assentibili ai sensi degli art. 208,
209, 210, 211, 212, 214, 215 e 226 del medesimo Decreto,
svolta anche di fatto o in modo secondario o consequenziale
all'esercizio di una attività primaria diversa che richieda,
per il suo esercizio, uno dei titoli abilitativi indicati e
che non sia caratterizzata da assoluta occasionalità"
(Sez. 3, n. 29992 del 24/06/2014, Lazzaro; Sez. 3, n. 269
del 10/12/2014, dep. 2015, Seferovic).
Appare, dunque, improprio, e frutto di un'inversione
metodologica, qualificare la fattispecie di cui all'art.
256, comma 1, T.U. amb. come reato proprio, il cui soggetto
attivo può essere individuato soltanto nei soggetti operanti
in forme imprenditoriali, in quanto legittimati
all'iscrizione nell'Albo nazionale gestori ambientali.
Sarebbe sufficiente essere privi -come normalmente si
rileva- della qualifica soggettiva asseritamente richiesta
dalla norma per sottrarsi all'applicazione della fattispecie
incriminatrice. Non è la astratta qualifica soggettiva,
bensì la condotta concretamente posta in essere di gestione
abusiva di rifiuti a rilevare ai fini dell'applicabilità
della fattispecie in oggetto, che può essere "svolta
anche di fatto o in modo secondario" (Sez. 3, n. 29992
del 24/06/2014, Lazzaro), purché in assenza di uno dei
titoli abilitativi, e che non sia caratterizzata da assoluta occasionalità.
Del resto, che l'attività imprenditoriale possa essere
esercitata, anche solo di fatto, in forma anche individuale
implica che non è la forma giuridica rivestita, bensì
l'attività concretamente posta in essere ad assumere rilievo
ai fini dell'obbligo di autorizzazione (art. 212 T.U. amb.),
e, di conseguenza, ai fini dell'individuazione del soggetto
attivo del reato.
Peraltro, la rilevanza della "assoluta occasionalità"
ai fini dell'esclusione della tipicità deriva non già da una
arbitraria delimitazione interpretativa della norma, bensì
dal tenore della fattispecie penale, che, punendo la "attività"
di raccolta, trasporto, recupero, smaltimento, commercio ed
intermediazione, concentra il disvalore d'azione su un
complesso di azioni, che, dunque, non può coincidere con la
condotta assolutamente occasionale (in tal senso, già Sez.
3, n. 5031 del 17/01/2012, Granata, non massimata, secondo
cui "con il termine "attività" deve intendersi ogni
condotta che non sia caratterizzata da assoluta
occasionalità, mentre la norma non richiede ulteriori
requisiti di carattere soggettivo o oggettivo perché sia
integrata la fattispecie criminosa. Si tratta, infatti, di
reato comune, in quanto può essere commesso da "chiunque", e
non di reato proprio, sicché non occorrono i requisiti della
professionalità della condotta ovvero di un'organizzazione
imprenditoriale della stessa" (sez. 3, 28.10.2009 n. 79
del 2010, Guglielmo, RV 245709) (sez. 3, 15.01.2008 n. 7462,
Cozzoli, RV 239011) ).
È dunque la descrizione normativa ad escludere dall'area di
rilevanza penale le condotte di assoluta occasionalità (si
pensi alla dismissione, da parte di un privato, di quanto
contenuto in un proprio locale cantina).
Al contrario, proprio il pronome "chiunque" impone di
includere nella portata applicativa della norma
incriminatrice anche il "detentore" del rifiuto,
ovvero "il produttore dei rifiuti o la persona fisica o
giuridica che ne è in possesso" (secondo la norma
definitoria generale di cui all'art. 183, comma 1, lett. h),
T.U. amb.), allorquando l'attività di raccolta, trasporto,
commercio, ecc., sia caratterizzata non da assoluta
occasionalità.
Al riguardo, giova rilevare che la norma definitoria
generale in materia di rifiuti (art. 183, comma 1, lett. f),
g), h), i), I), T.U. amb.) distingue tra "produttore di
rifiuti" ("il soggetto la cui attività produce
rifiuti e il soggetto al quale sia giuridicamente riferibile
detta produzione"), "produttore del prodotto" ("qualsiasi
persona fisica o giuridica che professionalmente sviluppi,
fabbrichi, trasformi, tratti, venda o importi prodotti"),
"detentore" ("il produttore dei rifiuti o la
persona fisica o giuridica che ne è in possesso"), "commerciante"
("qualsiasi impresa che agisce in qualità di committente,
al fine di acquistare e successivamente vendere rifiuti")
e "intermediario" ("qualsiasi impresa che dispone
il recupero o lo smaltimento dei rifiuti per conto di terzi").
Ebbene, il carattere imprenditoriale dell'attività viene
richiesto soltanto per i "commercianti" e gli "intermediari"
("qualsiasi impresa"), mentre la professionalità
dell'attività è requisito indispensabile per la categoria
del "produttore del prodotto" ("professionalmente");
al contrario, per il "produttore di rifiuti" e per il
"detentore" -che espressamente comprende anche la
nozione di produttore di rifiuti- non è richiesto alcun
requisito ulteriore, né di imprenditorialità, né di
professionalità.
Da tale considerazione deriva che il pronome indefinito "chiunque"
contenuto nella fattispecie di cui all'art. 256, comma 1,
T.U. amb., fa riferimento a tutte le categorie indicate
nella norma definitoria generale, e quindi anche al "detentore",
senza che al riguardo possano essere introdotte surrettizie
limitazioni interpretative fondate sui requisiti -non
espressamente richiesti- di imprenditorialità e/o di
professionalità; ciò che assume rilievo, ai fini
dell'individuazione dell'autore del reato, è l'attività
concretamente svolta di gestione di rifiuti, che, al di
fuori dell'ipotesi di assoluta occasionalità, integra la
tipicità del reato di gestione abusiva allorquando svolta in
assenza di autorizzazione.
In tal senso, del resto, depone altresì, come osservato in
precedenza, la soppressione, ad opera dell'art. 7, comma 6,
d.lgs. 08.11.1997, n. 389, dell'inciso, riferito
all'appartenenza dei rifiuti oggetto di abusiva gestione, "prodotti
da terzi", contenuto nel previgente art. 51 d.lgs. 22
del 1997 (successivamente trasfuso nell'art. 256 T.U. amb.)
(nella vigenza della precedente norma, già Sez. 3, n. 21925
del 06/06/2002, Saba; di recente, Sez. 3, n. 29992 del
24/06/2014, Lazzaro).
Pertanto, l'assoluta occasionalità non può essere desunta
esclusivamente dalla natura giuridica del soggetto agente
(privato, imprenditore, ecc.), dovendo invece ritenersi non
integrata in presenza di una serie di indici dai quali poter
desumere un minimum di organizzazione che escluda la natura
esclusivamente solipsistica della condotta (ad es., dato
ponderale dei rifiuti oggetto di gestione, necessità di un
veicolo adeguato e funzionale al trasporto di rifiuti, fine
di profitto perseguito).
In altri termini, se un soggetto
-anche, come nel caso di specie, mero "detentore" di
rifiuti- appresta una serie di condotte finalizzate alla
gestione di rifiuti, mediante preliminare raccolta,
raggruppamento, trasporto e vendita di rifiuti, pur non
esercitando in forma imprenditoriale, pone in essere una "attività"
di gestione di rifiuti per la quale occorre preliminarmente
ottenere i necessari titoli abilitativi.
Evidentemente il profilo della assoluta occasionalità sarà
oggetto precipuo della valutazione di fatto rimessa al
giudice del merito, e dunque questione essenzialmente
probatoria, e, ove congruamente motivata, non sarà
suscettibile di censura in sede di legittimità.
3.2. Nel caso di specie, e limitandosi alle condotte che
risultano contestate nell'imputazione, risulta che il
trasporto ed il conseguente commercio di rifiuti ferrosi
siano stati effettuati in tre distinte occasioni; tali
condotte, lungi dall'essere connotate da assoluta
occasionalità, denotano un minimum di organizzazione,
atteso che la raccolta di ben 932 kg. di rifiuti metallici
implica una preliminare fase di raggruppamento e cernita dei
soli metalli, il trasporto di un tale consistente
quantitativo di rifiuti necessita di un apposito veicolo,
adeguato e funzionale al contenimento degli stessi, ed il
commercio è evidentemente finalizzato all'ottenimento di un
profitto.
Peraltro, anche il richiamo, contenuto nella sentenza
impugnata, alla norma derogatoria di cui all'art. 193, comma
5, d.lgs. 152 del 2006 (come riformulato dall'art. 16, commi
1 e 2, d.lgs. 03.12.2010, n. 205) appare non conferente, in
quanto, oltre a superare di oltre nove volte il limite
massimo dei trasporti 'in deroga' (100 kg. all'anno),
essa riguarda l'applicabilità della disciplina sulla
tracciabilità dei rifiuti al gestore del servizio pubblico
di raccolta ed al produttore di rifiuti, ferma restando
l'illiceità del trasporto e del commercio dei rifiuti in
assenza delle prescritte autorizzazioni, iscrizioni o
comunicazioni di cui agli artt. 208-216 T.U. amb.
(Corte di Cassazione, Sez. III Penale,
sentenza
11.02.2016 n. 5716). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Compensi solo a causa chiusa. Per la liquidazione
serve la sentenza di fine giudizio.
AVVOCATI/ Cassazione sui calcoli per le prestazioni
antecedenti ai nuovi parametri.
Per la liquidazione delle spese all'avvocato, occorre
attendere che l'attività sia conclusa e quindi è necessaria
una sentenza che chiuda il giudizio.
Lo hanno affermato i giudici della VI Sez. civile della Corte
di Cassazione con la
sentenza
11.02.2016 n. 2748.
Nella medesima sentenza in commento gli Ermellini hanno,
altresì, evidenziato come in tema di spese processuali, ai
sensi di legge, i nuovi parametri, cui devono essere
commisurati i compensi dei professionisti in luogo delle
abrogate tariffe professionali, sono da applicare ogni qual
volta la liquidazione giudiziale intervenga in un momento
successivo alla data di entrata in vigore del dm 140/2012 e
si riferisca al compenso spettante a un avvocato che, a
quella data, non abbia ancora completato la propria
prestazione professionale, benché tale prestazione abbia
avuto inizio e si sia in parte svolta quando ancora erano in
vigore le tariffe abrogate, anche perché secondo l'accezione
onnicomprensiva di «compenso» si tratterebbe di un
corrispettivo unitario per l'opera complessivamente
prestata.
I giudici di piazza Cavour hanno, però,
evidenziato che tale principio non potrà assolutamente
essere esteso all'attività professionale relativa ad un
grado del giudizio che si è concluso con sentenza e in
relazione al quale, il Giudice dell'appello, tenuto conto
dell'esito complessivo del giudizio, rideterminerà il
regolamento delle spese, anche per il primo grado del
giudizio, perché l'attività professionale deve ritenersi
conclusa, con la sentenza che chiude il giudizio, sia pure
relativamente ad una fase dello stesso.
Anche le sezioni unite hanno sottolineato che i nuovi
parametri professionali vanno applicati ogni qual volta la
liquidazione giudiziale intervenga in un momento successivo
alla data di entrata in vigore del predetto decreto e si
riferisca al compenso spettante ad un professionista che, a
quella data, non abbia ancora completato la propria
prestazione professionale, e, secondo la Cassazione,
l'attività professionale si deve ritenere conclusa ed
espletata tutte le volte in cui sia intervenuta una sentenza
che chiude una fase del giudizio anche con la liquidazione
delle spese
(articolo ItaliaOggi Sette del 22.02.2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'istallazione di cartelli pubblicitari e l'omessa rimozione
su suolo pubblico, ai sensi dell'art. 23, comma 13-bis, sono
due cose distinte e separate.
La giurisprudenza amministrativa ha
chiarito che il comma 13-bis dell'art. 23 del codice della
strada non dispone una sanzione accessoria, ma è
un'espressione del potere di autotutela riconosciuto
all'ente proprietario onde assicurare il rispetto delle
disposizioni contenute nello stesso art. 23, che variamente
limitano e disciplinano la pubblicità sulle strade per
armonizzarla con le esigenze di sicurezza e di ordine del
traffico: ciò in considerazione del tenore delle
disposizioni stesse che attribuiscono direttamente ed
immediatamente all'amministrazione proprietaria della strada
(senza necessità di una pronuncia giudiziale che accerti la
commissione dell'illecito) il potere di imporre la rimozione
dell'impianto pubblicitario abusivo o irregolare.
---------------
Anche la giurisprudenza di legittimità si è pronunciata in
tal senso affermando che "in tema di violazioni previste dal
codice della strada, ai fini dell'applicazione, a carico del
proprietario (o del possessore) del suolo su cui è avvenuta
l'abusiva installazione di cartelli pubblicitari, della
sanzione prevista dall'art. 23, comma 13-bis, per l'omessa
rimozione di detti cartelli nel termine di legge nonostante
la previa diffida dell'ente titolare della strada, non
occorre che al proprietario (o possessore) venga, altresì,
contestata o notificata, ai sensi dell'art. 14 della legge
24.11.1981, n. 689, la violazione amministrativa di abusiva
installazione di detti cartelli, essendo questa prevista a
carico di soggetti diversi da una autonoma fattispecie
sanzionatoria (commi 7 e 13-bis del citato art. 23), ferma
restando la possibilità per il proprietario (o il
possessore) del suolo di dedurre, in sede di ricorso
amministrativo o giurisdizionale, l'illegittimità derivata
del verbale a lui rivolto per l'insussistenza della
violazione presupposta, ossia per la mancata installazione
dei cartelli pubblicitari o per la non abusività dei
medesimi".
---------------
3.2) I motivi
meritano accoglimento sotto il profilo delle asserite
violazioni di legge.
La giurisprudenza amministrativa ha chiarito che il comma
13-bis dell'art. 23 del codice della strada non dispone una
sanzione accessoria, ma è un'espressione del potere di
autotutela riconosciuto all'ente proprietario onde
assicurare il rispetto delle disposizioni contenute nello
stesso art. 23, che variamente limitano e disciplinano la
pubblicità sulle strade per armonizzarla con le esigenze di
sicurezza e di ordine del traffico: ciò in considerazione
del tenore delle disposizioni stesse che attribuiscono
direttamente ed immediatamente all'amministrazione
proprietaria della strada (senza necessità di una pronuncia
giudiziale che accerti la commissione dell'illecito) il
potere di imporre la rimozione dell'impianto pubblicitario
abusivo o irregolare (Tar Marche, Ancona, 12.08.2005, n.
957).
3.2.1) Anche la giurisprudenza di legittimità, in un caso
non dissimile da quello di specie, si è pronunciata in tal
senso, affermando che "in tema di violazioni previste dal
codice della strada, ai fini dell'applicazione, a carico del
proprietario (o del possessore) del suolo su cui è avvenuta
l'abusiva installazione di cartelli pubblicitari, della
sanzione prevista dall'art. 23, comma 13-bis, per l'omessa
rimozione di detti cartelli nel termine di legge nonostante
la previa diffida dell'ente titolare della strada, non
occorre che al proprietario (o possessore) venga, altresì,
contestata o notificata, ai sensi dell'art. 14 della legge
24.11.1981, n. 689, la violazione amministrativa di abusiva
installazione di detti cartelli, essendo questa prevista a
carico di soggetti diversi da una autonoma fattispecie
sanzionatoria (commi 7 e 13-bis del citato art. 23), ferma
restando la possibilità per il proprietario (o il
possessore) del suolo di dedurre, in sede di ricorso
amministrativo o giurisdizionale, l'illegittimità derivata
del verbale a lui rivolto per l'insussistenza della
violazione presupposta, ossia per la mancata installazione
dei cartelli pubblicitari o per la non abusività dei
medesimi" (Cass. 21606/2011).
Ciò che rileva di questa pronuncia ai fini del presente
ricorso è la riconosciuta autonomia sanzionatoria della
fattispecie prevista dal comma 13-bis. Pertanto la sanzione
conseguente alla omessa rimozione dei cartelli dopo la
diffida può essere irrogata senza necessità di contestare
preventivamente la violazione di apposizione abusiva di
cartelli pubblicitari.
Il comma 11 dell'art. 23 c.d.s. stabilisce la sanzione
applicabile a chi pone in essere la condotta di abusiva
collocazione di insegne pubblicitarie; il comma 13-bis
invece concerne l'inosservanza di un autonomo obbligo di
rimozione nel termine di dieci giorni dalla comunicazione
della preventiva diffida.
Pertanto i motivi vanno accolti, essendo errata la sentenza
del tribunale di Bari nella parte in cui ha ritenuto che la
violazione di cui al comma 13-bis dell'art. 23
(inottemperanza alla diffida di rimozione) possa essere
contestata, in via accessoria, soltanto al responsabile
della omessa collocazione degli impianti pubblicitari.
Va inoltre riaffermato che la previsione sanzionatoria
secondo la quale: "chiunque viola le prescrizioni
indicate al presente comma e al comma 7 è soggetto alla
sanzione amministrativa [...1" prevista dal comma 13-bis
è riconducibile, per quanto qui interessa, alla violazione
commessa da chi sia inadempiente all'obbligo di rimozione di
cui alla diffida preventivamente comunicatagli. Questa è la
condotta che era stata addebitata alla Sp. srl, la quale,
essendo subentrata alla In. spa, come si legge nella
sentenza impugnata, "in virtù della cessione del ramo
d'azienda", era il soggetto che, come contestatole,
aveva "mantenuto in esercizio l'impianto pubblicitario
ritenuto abusivo".
Ad essa correttamente era stata quindi inviata la diffida a
rimuovere i mezzi pubblicitari.
Nessuna delle parti è comparsa all'adunanza fissata con il
rito camerale.
Il Collegio condivide pienamente la relazione e ritiene
quindi che il ricorso sia da accogliere. Ne discende la
cassazione della sentenza impugnata
(Corte di Cassazione, Sez. VI civile,
ordinanza 11.02.2016 n. 2712). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Dalle spese di lite non si sfugge.
C'è la condanna. Anche se la domanda è stata ridotta. CASSAZIONE/ La mancata statuizione è omissione censurabile
in sede di legittimità.
Ci sarà comunque la condanna alle spese di lite, anche nel
caso in cui l'autorità giudicante avrà ridotto la domanda.
A sostenerlo sono stati i giudici della VI Sez.
civile della Corte di Cassazione con la
sentenza
11.02.2016 n. 2709.
I giudici della Cassazione hanno evidenziato come in materia
di spese processuali la parte, già soccombente nei
precedenti gradi di giudizio di merito, ma poi vittoriosa
all'esito del giudizio di rinvio conseguente a quello di
cassazione, avrà certamente diritto a ottenere la
liquidazione non solo delle spese processuali relative al
giudizio di rinvio e a quello di cassazione, ma anche di
quelle sostenute nei precedenti gradi di merito. Pertanto
nel caso in cui la parte ne abbia fatto richiesta, la
mancata statuizione, sul punto, del giudice del rinvio
integra un'omissione censurabile in sede di legittimità.
Inoltre se il giudice di appello, procede con la riforma, in
tutto o in parte, la sentenza impugnata, dovrà procedere
d'ufficio, quale conseguenza della pronuncia di merito
adottata, ad un nuovo regolamento delle spese processuali, e
l'onere andrà attribuito e ripartito tenendo presente
l'esito complessivo della lite, poiché la valutazione della
soccombenza opera, ai fini della liquidazione delle spese,
in base ad un criterio unitario e globale,
Nel caso sottoposto all'attenzione dei giudici di piazza
Cavour, il ricorrente era risultato vincitore all'esito
della precedente sentenza pronunciata dalla Cassazione
stessa e, di conseguenza, avrebbe avuto diritto alla
liquidazione delle spese di giudizio anche in relazione ai
precedenti gradi di merito. La Corte d'appello, invece, dopo
aver accolto la domanda nel giudizio di rinvio, aveva
liquidato le spese soltanto a quanto quel giudizio e a
quello di cassazione; il che configurava, secondo gli
Ermellini, una sicura omissione in considerazione
dell'esistenza di una forma richiesta in tal senso.
Inoltre, per quanto riguarda i giudizi di equa riparazione
per violazione della durata ragionevole del processo,
proposti ai sensi della legge 24.03.2001, n. 89, questi non
si sottraggono all'applicazione delle regole poste, in tema
di spese processuali, dagli artt. 91 e ss. cod. proc. civ.,
trattandosi di giudizi destinati a svolgersi dinanzi al
giudice secondo le disposizioni processuali dettate dal
codice di rito.
Ne consegue, che la compensazione delle spese, anche nel
giudizio di equa riparazione, postula che il giudice motivi
adeguatamente la propria decisione in tal senso (articolo ItaliaOggi
Sette del 29.02.2016). |
APPALTI SERVIZI:
Negli appalti pubblici niente contratto
collettivo determinato. Tar Lazio. Subentrante e clausola
sociale.
Negli appalti pubblici di servizi non si
può imporre alle imprese concorrenti l’applicazione di un
determinato contratto collettivo per i dipendenti:
lo sottolinea il TAR Lazio-Roma, Sez. II, con
sentenza 11.02.2016 n. 1969. Il principio è rilevante
per le conseguenze sulla “clausola sociale” e perché
garantisce concorrenza tra imprese.
La clausola sociale impone di riassumere i dipendenti
dell’impresa uscente, ed è oggetto di recente conferma nella
legge 11/2016 (delega per recepire direttive comunitarie nel
settore degli appalti). Nel futuro codice dei contratti
pubblici vi sarà un punteggio premiale per le clausole
sociali ma nell’attesa ci si domanda fino a che punto la
clausola sociale possa imporre all’aggiudicatario lo stesso
contratto, o il numero e la tipologia della forza lavoro
applicata dal precedente fornitore di servizi.
Alla clausola
sociale si contrappone la diversa organizzazione
imprenditoriale del subentrante, perché il contratto
collettivo dell’impresa subentrante può essere diverso da
quello indicato nel bando di gara, pur essendo pertinente
all’oggetto dell’appalto e garante dei livelli retributivi
dei lavoratori. Trasporti, vigilanza e pulizie sono i
settori in cui le clausole sociali e i contenziosi sono
frequenti: nella sentenza 1969/2016, i giudici romani hanno
esaminato una gara per il servizio di assistenza domiciliare
a disabili, dalla quale una Onlus era stata esclusa perché
non applicava il contratto collettivo delle cooperative
sociali.
Secondo il Tar, l’esclusione è illegittima perché la Onlus
aveva calibrato la sua offerta su di un contratto (quello
dei dipendenti da strutture associative Anfaas) che comunque
prevedeva livelli retributivi adeguati e congrui, idonei a
remunerare anche il personale da riassorbire. In un altro
caso, per un appalto di servizio di logistica di un’Azienda
ospedaliera, l’impresa aggiudicataria aveva dichiarato di
voler assumere i lavoratori con il Ccnl del comparto
generale Pulizie servizi integrati/multiservizi, mentre il
bando imponeva, per la specificità delle prestazioni in
gara, l’applicazione del diverso e più oneroso Ccnl
Logistica, trasporto merci e spedizioni.
Il contenzioso su
questo punto è stato risolto dal Consiglio di Stato
(5597/2015), che ha condiviso la tesi dell’impresa che si
era discostata dal bando, sottolineando che la stazione
appaltante deve tener conto anche delle possibili economie
che le diverse singole imprese possano conseguire nel
calcolo del costo del lavoro con diversi contratti. Infine,
il Tar Torino (23/2015), per un appalto di servizio di
vigilanza antincendio ad un elisoccorso, ha ritenuto che il
vincitore avesse legittimamente applicato il Ccnl
“sorveglianza antincendio” invece di quello “multiservizi”,
previsto dalla stazione appaltante.
In tutti questi casi, la differenza di contratto si
rifletteva sull’entità dell’offerta e sul principio di
libera determinazione delle condizioni lavorative ad opera
delle parti interessate (articolo 2607 e seguenti del Codice
civile): da un lato, infatti, spetta all’autonomia negoziale
delle parti definire l’ambito di applicazione dei contratti
collettivi di lavoro che esse stipulano (Tar Toscana
1160/2013), ma dall’altro occorre riassumere i dipendenti
altrui. L’impresa aggiudicataria che subentri può scegliere
il Ccnl da applicare, purché garantisca il mantenimento dei
livelli occupazionali in atto (Tar Lazio 2848/2011 e
9570/2011).
Il numero e la qualifica dei dipendenti da
assumere devono cioè essere armonizzabili con
l’organizzazione d’impresa prescelta dall’imprenditore
subentrante (Consiglio di Stato 3850/2009), anche perché i
lavoratori che non trovino spazio nell’organigramma
dell’appaltatore subentrante e che non vengano impiegati
dall’appaltatore uscente in altri settori, sono destinatari
degli ammortizzatori sociali
(articolo Il Sole 24 Ore del 25.02.2016). |
APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI: Danni della p.a., prove solide.
Non sufficiente il solo annullamento dell'atto lesivo.
Consiglio di stato: ai fini della responsabilità rilevano
azione illegittima e dolo o colpa.
La configurabilità della responsabilità della pubblica
amministrazione per i danni provocati dall'azione
amministrativa esige l'adozione di un provvedimento
illegittimo, la dimostrazione del dolo o della colpa, da
valersi quale elemento costitutivo del diritto al
risarcimento, dell'autorità che lo ha emanato, non essendo
sufficiente il solo annullamento dell'atto lesivo.
È quanto affermato dai giudici della III Sez. del
Consiglio di Stato con la
sentenza
09.02.2016 n. 559.
I giudici amministrativi hanno altresì evidenziato che
occorre la prova che dalla colpevole condotta amministrativa
sia derivato, nella sfera patrimoniale del presunto
danneggiato, un pregiudizio economico direttamente
riferibile all'assunzione od all'esecuzione della
determinazione illegittima.
Inoltre, nella stessa sentenza in commento, circa, poi, la
risarcibilità del danno da perdita di chance, i giudici del
Consiglio di stato, hanno riconosciuta nelle sole ipotesi in
cui l'illegittimità dell'atto ha provocato, in via diretta,
una lesione della concreta occasione di conseguire un
determinato bene e quest'ultima presenti un rilevante grado
di probabilità (se non di certezza) di ottenere l'utilità
sperata, e ciò anche in ossequio ad un ormai recente
orientamento giurisprudenziale (si veda: Cons. st., sez. V,
01.10.2015, n. 4592).
È stato, inoltre, chiarito, che, nelle pubbliche gare, il
predetto diritto risarcitorio spetta solo se l'impresa
illegittimamente pretermessa dall'aggiudicazione illegittima
riesca a dimostrare, con il dovuto rigore, che la sua
offerta sarebbe stata selezionata come la migliore e che,
quindi, l'appalto sarebbe stato ad essa aggiudicato, con un
elevato grado di probabilità (Cons. st., sez. V, 22.09.2015, n. 4431).
Il danneggiato risulta, perciò, gravato dell'onere di
provare l'esistenza di un nesso causale tra l'adozione o
l'esecuzione del provvedimento amministrativo illegittimo e
la perdita dell'occasione concreta di conseguire un
determinato bene della vita (Cons. st., sez. VI, 04.09.2015, n. 4115), con la conseguenza che il danno in questione
può essere risarcito solo quando sia collegato alla
dimostrazione della probabilità del conseguimento del
vantaggio sperato, e non anche quando le chance di ottenere
l'utilità perduta restano nel novero della mera possibilità
(Cons. st., sez. IV, 23.06.2015, n. 3147) (articolo ItaliaOggi
Sette del 29.02.2016 - tratto da
http://rstampa.pubblica.istruzione.it).
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MASSIMA
4.2- Così decifrata la domanda sostanzialmente azionata
dalla ricorrente, si deve rilevare che la
configurabilità della responsabilità della pubblica
amministrazione per i danni provocati dall’azione
amministrativa esige l’adozione di un provvedimento
illegittimo, la dimostrazione del dolo o della colpa, da
valersi quale elemento costitutivo del diritto al
risarcimento, dell’autorità che lo ha emanato, non essendo
sufficiente il solo annullamento dell’atto lesivo
(cfr. ex multis Cons. St., sez. III, 11.03.2015, n.
1272), e la prova che dalla colpevole
condotta amministrativa sia derivato, nella sfera
patrimoniale del presunto danneggiato, un pregiudizio
economico direttamente riferibile all’assunzione od
all’esecuzione della determinazione illegittima
(cfr. ex multis Cons. St., sez, VI, 08.07.2015, n.
3400).
Orbene, nella fattispecie controversa ricorrono sicuramente
i primi due elementi costitutivi dell’illecito
(l’illegittimità degli atti dedotti come dannosi e la
sussistenza della colpa dell’Amministrazione), ma non il
terzo (l’esistenza di un danno patrimoniale direttamente
ricollegabile all’adozione del provvedimento illegittimo).
4.3- In merito ai prime due elementi, è sufficiente, in
estrema sintesi, osservare che gli
affidamenti diretti controversi non possono in alcun modo
reputarsi legittimati dall’applicazione dell’art. 57, comma
2, lett. c), d.lgs. n. 163 del 2006
(da valersi quale disposizione invocata dalla stessa
Amministrazione per giustificarli), sia
perché l’estrema urgenza che impedisce l’aggiudicazione
dell’appalto in esito ad una procedura indetta con la
pubblicazione di un bando di gara
(e, cioè, la condizione che autorizza la procedura
contestata) risulta, nella specie,
provocata dalla stessa Amministrazione e, quindi, del tutto
prevedibile, siccome ascrivibile al ritardo con il quale è
stata organizzata ed attivata l’internalizzazione del
servizio
(contrariamente a quanto espressamente postulato dalla
disposizione citata per la legittimità dell’affidamento ivi
previsto), sia, ancora, perché, in ogni
caso, il servizio di sterilizzazione dello strumentario
chirurgico non può in alcun modo ritenersi complementare a
quello di lavanolo
(del tutto sconnesso dal primo) già svolto
dalla Servizi Ospedalieri presso l’Azienda.
4.3.1- Una violazione così palese e ripetuta nel tempo di
una disposizione tanto chiara e univoca nella sua portata
precettiva (là dove, per quanto qui rileva, autorizza la
procedura negoziata senza previa pubblicazione di bando
nelle sole, eccezionali, e, nella specie, del tutto
inesistenti, situazioni di urgenza) non può, inoltre, che
integrare gli estremi della configurabilità, in capo
all’Amministrazione, dell’elemento psicologico della colpa,
tanto più che la SO.GE.SI. aveva più volte rappresentato
all’Azienda l’illegittimità delle reiterate proroghe del
servizio.
4.4- Difetta, invece, l’elemento del pregiudizio
risarcibile.
4.4.1- La ricorrente allega, come voce, nella specie
rivendicata, del danno provocato dagli illegittimi
affidamenti diretti del servizio in questione, il lucro
cessante, nella peculiare declinazione della c.d. perdita di
chance, e, cioè, nel pregiudizio sofferto per aver perduto,
quale conseguenza dell’adozione dei predetti atti
illegittimi, l’occasione di conseguire il bene della vita
(l’aggiudicazione dell’appalto) che avrebbe potuto ottenere
se l’Amministrazione si fosse comportata correttamente (e,
cioè, se avesse bandito una procedura aperta, anziché
procedere ad una illegittima procedura negoziata senza
pubblicazione del bando).
4.4.2- La disamina della fondatezza di tale pretesa
risarcitoria postula una sintetica ricognizione dei principi
e delle regole che presidiano lo scrutinio della spettanza
del relativo diritto.
La risarcibilità del danno da perdita di
chance è stata riconosciuta nelle sole ipotesi in cui
l’illegittimità dell’atto ha provocato, in via diretta, una
lesione della concreta occasione di conseguire un
determinato bene e quest’ultima presenti un rilevante grado
di probabilità (se non di certezza) di ottenere l’utilità
sperata (Cons.
St., sez. V, 01.10.2015, n.4592).
E’ stato, inoltre, chiarito, che, nelle
pubbliche gare, il predetto diritto risarcitorio spetta solo
se l’impresa illegittimamente pretermessa
dall’aggiudicazione illegittima riesca a dimostrare, con il
dovuto rigore, che la sua offerta sarebbe stata selezionata
come la migliore e che, quindi, l’appalto sarebbe stato ad
essa aggiudicato, con un elevato grado di probabilità
(Cons. St., sez. V, 22.09.2015, n. 4431).
Il danneggiato risulta, perciò, gravato
dell’onere di provare l’esistenza di un nesso causale tra
l’adozione o l’esecuzione del provvedimento amministrativo
illegittimo e la perdita dell’occasione concreta di
conseguire un determinato bene della vita
(Cons. St., sez. VI, 04.09.2015, n.4115),
con la conseguenza che il danno in questione può essere
risarcito solo quando sia collegato alla dimostrazione della
probabilità del conseguimento del vantaggio sperato, e non
anche quando le chance di ottenere l’utilità perduta restano
nel novero della mera possibilità
(Cons. St., sez. IV, 23.06.2015, n. 3147).
Mentre, infatti, nel primo caso
(probabilità di conseguimento del bene della vita) appare
ravvisabile un nesso causale, da valersi quale indefettibile
elemento costitutivo dell’illecito aquiliano, tra condotta
antigiuridica e danno risarcibile, nella seconda ipotesi
(mera possibilità di conseguimento del vantaggio perduto)
risulta interrotta proprio la sequenza causale tra l’atto
illegittimo e la perdita patrimoniale rivendicata dal
danneggiato.
Nel caso, in cui, quest’ultimo non riesca a dimostrare che,
senza l’adozione dell’atto illegittimo, avrebbe certamente
(o molto probabilmente) conseguito il vantaggio che, invece,
l’attività provvedimentale lesiva gli ha impedito di
ottenere, non appare ravvisabile alcuna perdita patrimoniale
eziologicamente riconducibile all’atto invalido, nelle forme
del lucro cessante e, cioè, nella perdita di un’occasione
concreta e molto probabile di accrescimento del patrimonio
del danneggiato.
4.4.3- Così precisati i parametri alla cui stregua dev’essere
giudicata la spettanza della voce di danno nella specie
reclamata, occorre rilevare che, nella fattispecie
scrutinata, difetta proprio la dimostrazione dell’elevato
grado di probabilità del conseguimento dell’appalto da parte
della ricorrente e, quindi, in altri termini, del requisito
del nesso causale tra le determinazioni illegittime di
affidamento del servizio in questione e la perdita
patrimoniale allegata a fondamento della pretesa
risarcitoria.
Nelle controversie aventi ad oggetto le
procedure di aggiudicazione di appalti pubblici la perdita
di chance può, infatti, essere risarcita solo quando
vengono giudicate illegittime l’esclusione di un’impresa da
una gara o l’aggiudicazione della stessa a un’altra impresa
e quella invalidamente pretermessa dall’affidamento
dell’appalto riesce a dimostrare che, se la procedura fosse
stata amministrata correttamente, la sua offerta avrebbe
avuto concrete probabilità di essere selezionata come la
migliore, risultando provato, in questo caso, il nesso
causale diretto tra la violazione accertata e la perdita
patrimoniale (nella forma del lucro cessante) patita dalla
concorrente alla quale è stata invalidamente sottratta
l’occasione di conseguire l’aggiudicazione.
Quando, invece, viene giudicato illegittimo l’affidamento
diretto di un appalto (e, quindi, la gara non è stata
proprio indetta), l’impresa che, come operatrice del
settore, lo ha impugnato, lamentando la sottrazione al
mercato di quel contratto, riceve, in via generale, una
tutela risarcitoria integralmente satisfattiva per mezzo
dell’effetto conformativo che impone all’Amministrazione di
bandire una procedura aperta per l’affidamento dell’appalto
(ed alla quale potrà partecipare, conservando, perciò,
integre le possibilità di aggiudicazione del contratto,
l’impresa che ha ottenuto, in via giudiziaria,
l’annullamento dell’affidamento diretto).
Nelle ipotesi, tuttavia, in cui tale forma di tutela (in
forma specifica) non è più possibile perché, come nel caso
di specie, l’Amministrazione ha deciso di gestire
direttamente il servizio, internalizzandone l’esercizio,
quella risarcitoria per equivalente da perdita di chance
resta, in ogni caso, preclusa dall’assorbente rilievo che
l’impresa asseritamente danneggiata non può certo
dimostrare, per il solo fatto di operare nel settore
dell’appalto illegittimamente sottratto al mercato, di aver
perduto, quale diretta conseguenza dell’invalida
assegnazione del contratto ad altra impresa, una occasione
concreta di aggiudicarsi quell’appalto o, in altri, termini
che, se l’Amministrazione lo avesse messo a gara, se lo
sarebbe con elevata probabilità) aggiudicato.
Nella situazione appena descritta, infatti,
le possibilità che l’impresa che ha denunciato
l’illegittimità dell’affidamento diretto (ottenendone
l’annullamento) si sarebbe aggiudicata l’appalto, se
l’Amministrazione lo avesse messo a gara, sono pari a quelle
di qualsiasi altro operatore del settore legittimato a
partecipare alla procedura, sicché resta preclusa
qualsivoglia analisi delle concrete possibilità di esito
favorevole della selezione per l’impresa asseritamente
danneggiata, che non può che fondarsi, come sopra rilevato,
sulla verifica della competitività della sua offerta
(che, tuttavia, nella situazione esaminata non è stata
proprio presentata, con la conseguenza dell’impossibilità
materiale dello scrutinio del grado di probabilità di
successo della ricorrente). |
EDILIZIA PRIVATA:
Verifica pericolosità, l giudice non c'entra.
PASSI CARRAI/ Parola agli organi preposti.
Nei centri urbani cittadini, e in particolare in quelli
storici, la verifica di pericolosità di un passo carraio dev'essere
effettuata nel concreto dagli organi preposti e non dal
giudice amministrativo.
Pertanto, in presenza di un parere favorevole espresso sulla
base di argomentazioni tecniche e circostanze di luogo
specifiche, è illegittimo il diniego di autorizzazione
all'apertura, ove il comune ometta di illustrare, con
altrettanta specificità, le ragioni tecniche ostative allo
accoglimento dell'istanza.
È quanto ribadito dai giudici della II Sez. del TAR
per la Calabria-Catanzaro, con la
sentenza
09.02.2016 n. 283.
I giudici calabresi sono stati chiamati ad esprimersi su un
caso in cui Tizio con ricorso impugnava un provvedimento con
il quale il comune dichiarava la procedibilità di una Scia
relativa al cambio d'uso senza opere, in parcheggio
pertinenziale, di un magazzino posto al pianterreno di un
immobile.
A sostegno del gravame, Tizio rilevava che la Scia conteneva
dichiarazioni mendaci, non veritiere o comunque incomplete,
nonché evidenziava che non era dato sapere quali «idonei
controlli» fossero stati posti in essere
dall'amministrazione per verificare la fondatezza di quanto
asseverato dal progettista, mancando ogni richiamo ad una
eseguita istruttoria.
Con motivi aggiunti Tizio oltre a sollevare ulteriori
censure riguardo al primo atto, estendeva il gravame
all'autorizzazione di un passo carrabile (rilevando la
violazione dell'art. 46, comma 2, lett. a), del dpr
495/1992: regolamento di attuazione al codice della strada,
per mancanza della distanza di almeno 12 metri dalle
intersezioni e per assenza dei presupposti di sicurezza) ed
impugnava la nota con cui la polizia municipale confermava
il parere favorevole per il rilascio del passo carrabile.
Il Tribunale amministrativo respingeva il gravame, poiché la
specifica valutazione da parte della polizia municipale,
insindacabile dal giudice amministrativo, in quanto
espressione di discrezionalità tecnica poneva in luce che la
via dove il locale era ubicato, era una strada urbana a
bassa densità di circolazione veicolare; che l'adiacente via
risultava percorribile in un unico senso di marcia; che
sulle due strade sopra citate la velocità consentita era di
30 km/h e che pertanto lo spazio d'arresto necessario era
pari a m. 4,43 e che lo spazio di visibilità dal passo
carrabile era di m. 25-50 (articolo ItaliaOggi Sette del
29.02.2016).
---------------
MASSIMA
Con due motivi aggiunti, il ricorrente impugna il
rilascio dell’autorizzazione all’apertura del passo
carrabile, rilevando la violazione dell’art. 46, comma 2,
lett. a), del D.P.R. 495/1992 (regolamento di attuazione al
codice della strada), per mancanza della distanza di almeno
12 metri dalle intersezioni e per assenza dei presupposti di
sicurezza.
In proposito, osserva il collegio che, nei
centri urbani cittadini, ed in particolare in quelli
storici, la verifica di pericolosità di un passo carraio dev’essere
effettuata nel concreto dagli organi preposti, di modo che,
in presenza di un parere favorevole espresso sulla base di
argomentazioni tecniche e circostanze di luogo specifiche, è
illegittimo il diniego di autorizzazione all’apertura, ove
il comune ometta di illustrare, con altrettanta specificità,
le ragioni tecniche ostative allo accoglimento dell’istanza
(cfr. TAR Toscana, Sez. II, 05.11.1993 n. 578).
Orbene, nella fattispecie concreta, la detta verifica è
stata oggetto di una specifica valutazione da parte della
Polizia municipale, la quale, con motivazione insindacabile
dal giudice amministrativo, in quanto espressione di
discrezionalità tecnica, ha posto in luce le seguenti
risultanze:
1. che la via Casalinuovo (dove il locale è ubicato) è una
strada urbana a bassa densità di circolazione veicolare;
2. che l’adiacente via Poerio risulta attualmente
percorribile in un unico senso di marcia, nella direzione
piazza Matteotti - piazza Unità d’Italia;
3. che sulle due strade sopra citate la velocità consentita
è di 30 km/h e che pertanto lo spazio d’arresto necessario è
pari a m. 4,43;
4. che lo spazio di visibilità dal passo carrabile sulla via
Poerio è di m. 25-50.
In conclusione, alla luce di quanto esposto, il gravame va
complessivamente respinto. |
CONDOMINIO - VARI:
Perdita di gas, omicidio colposo al locatore.
Sicurezza. L’omessa manutenzione dello scaldabagno provoca
la morte dell’inquilino per intossicazione da monossido di
carbonio.
Per la morte causata
dall’intossicazione del monossido di carbonio fuoriuscito da
impianti obsoleti risponde il locatore che ha omesso di
eseguire la dovuta manutenzione.
E’ stato ritenuto colpevole, in entrambi i gradi di merito,
per omicidio colposo (articolo 589 codice penale) e per
lesioni personali colpose (articolo 590 codice penale), il
proprietario di un immobile locato che, per negligenza,
imprudenza, imperizia, inosservanza di norme tecniche in
materia dei sicurezza e di manutenzione degli impianti
domestici e delle apparecchiature alimentate a gas, non
aveva eliminato le difformità di uno scaldabagno alimentato
a gas. provocando la morte dell’ inquilino e lesioni ai
condomini e agli inquilini adiacenti e soprastanti (Corte di
Cassazione, Sez. IV penale,
sentenza
03.02.2016 n. 4451).
La morte era stata causata dall’esalazione di monossido di
carbonio sprigionato dallo scaldabagno nonostante i ripetuti
inviti dell’amministratore a mettere l’impianto in
sicurezza.
I supremi giudici, nel confermare la sentenza di appello,
richiamando l’articolo 1575 codice civile in base al quale
il locatore deve consegnare al conduttore al cosa locata in
buono stato di manutenzione e mantenerla in stato da servire
all’uso convenuto, hanno confermato, a seguito di appurata
verifica, la responsabilità del locatore indipendentemente
dalla occlusione della canna fumaria condominiale
circostanza che, seppure poteva aver contribuito in maniera
sensibile alla produzione dell’evento, non lo avrebbe
cagionato se lo scaldabagno non avesse esalato il monossido
di carbonio in percentuali tali da salutare l'aria in pochi
minuti.
In analoghe circostanze gli stessi giudici avevano affermato
che la responsabilità del locatore per i danni derivanti
dall’esistenza dei vizi sussiste anche in relazione a vizi
preesistenti la consegna ma manifestatisi successivamente ad
essa, nel caso in cui il locatore poteva conoscerli, usando
l’ordinaria diligenza, secondo la disciplina di cui
all’articolo 1578 codice civile (Cassazione sentenza n.
18854 /2008).
Il tal caso il locatore «è tenuto a risarcire il danno alla
salute subito dal conduttore in conseguenza delle condizioni
abitative dell’ immobile locato anche quando tali condizioni
fossero note al conduttore al momento della conclusione del
contratto, in quanto la tutela del diritto alla salute
prevale su qualsiasi patto interprivato di esclusione o
limitazione della responsabilità» (Cassazione sentenza n.
915/1999).
Con lo stesso principio è stato condannato il proprietario a
risarcire il danno per la morte dell’inquilino folgorato da
una scarica elettrica proveniente da uno scaldabagno
difettoso che lui stesso aveva comprato e installato, per
non aver installato il salva vita (Cassazione sentenza n.
7699/2015) (articolo Il Sole 24 Ore del 24.02.2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
La fattispecie di demolizione e ricostruzione
di un fabbricato, che costituisce una delle tre tipologie
della ristrutturazione edilizia delineate dall’art.
3, primo comma, lett. d), del D.P.R. 06.06.2001 n. 380 e
ss.mm. (ristrutturazione “leggera”, “pesante” e mediante
demolizione e ricostruzione), può rientrare in tale ambito
nei soli casi in cui ricostruzione è sostanzialmente
conforme alla precedente struttura oggetto di demolizione.
A tal fine, l’insegnamento giurisprudenziale consolidatosi
in “subiecta materia” (sino alla modifica normativa del
2013) ha chiarito che l'elemento che, in linea generale,
contraddistingue la ristrutturazione dalla nuova
edificazione deve rinvenirsi nella già avvenuta
trasformazione del territorio, mediante una edificazione di
cui si conservi la struttura fisica (sia pure con la
sovrapposizione di un "insieme sistematico di opere, che
possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte
diverso dal precedente": art. 3, primo comma, lett. d, T.U.)
ovvero la cui stessa struttura fisica venga del tutto
sostituita, ma -in quest'ultimo caso- con ricostruzione, se
non "fedele" (per effetto della modifica apportata al Testo
Unico dal DLGS 27.12.2002 n. 301), comunque rispettosa della
volumetria e della sagoma della costruzione preesistente.
Ancora più in dettaglio, si è notato che, ai sensi della
lettera d), primo comma, dell'art. 3 del T.U. in materia
edilizia, sono inclusi nella definizione di
"ristrutturazione edilizia", gli interventi di demolizione e
ricostruzione con identità di volumetria e di sagoma
rispetto all'edificio preesistente; la successiva lettera e)
classifica come interventi di "nuova costruzione" quelli di
"trasformazione edilizia e urbanistica del territorio non
rientranti nelle categorie definite alle lettere
precedenti".
In base alla menzionata disposizione normativa nel testo
vigente sino al 2013, quindi, un intervento di demolizione e
ricostruzione che non rispetti la volumetria o la sagoma
dell'edificio preesistente -intesa quest'ultima come la
conformazione planivolumetrica della costruzione e il suo
perimetro considerato in senso verticale e orizzontale- è
stato costantemente qualificato come un intervento di
nuova costruzione e non di ristrutturazione edilizia.
Ora, se è vero che in forza delle modifiche normative al
testo dell’art. 3, primo comma, lett. d), del D.P.R.
06.06.2001 n. 380, recentemente introdotte dall’art. 30,
primo comma, del DL 21.06.2013 n. 69, c.d. “Decreto del
Fare”, (convertito dalla Legge 09.08.2013 n. 98), la
ristrutturazione edilizia realizzata tramite demolizione
e ricostruzione di un fabbricato non presuppone più il
rispetto dalla sagoma preesistente (ma solo della
preesistente volumetria), non può però essere trascurato
che, nella fattispecie concreta oggetto del presente
giudizio, risulta “per tabulas” che si è in presenza di un
progetto di demolizione (pressoché completa) dell’edificio
esistente a piano terra al fine di realizzare una civile
abitazione di maggior consistenza volumetrica con tipologia
duplex disposta su due livelli di piano, e quindi (oltre che
di una modifica della precedente sagoma) di un sicuro
ampliamento volumetrico (lo stesso progettista parla nella
relazione tecnica illustrativa di “ristrutturazione al piano
terra e di realizzazione di un ampliamento al primo piano”,
ossia -in pratica- dell’edificazione “ex novo” di un
ulteriore piano del fabbricato demolito), che si pone -con
ogni evidenza- al di fuori della nozione attualmente
delineata dall’art. 3, primo comma, lett. d), del D.P.R.
06.06.2001 n. 380 e ss.mm., statuente che: “Nell’ambito
degli interventi di ristrutturazione edilizia sono
ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e
ricostruzione con la stessa volumetria dell’edificio
preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per
l’adeguamento alla normativa antisismica, nonché quelli
volti al ripristino di edifici, o parti di essi,
eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro
ricostruzione, purché sia possibile accertarne la
preesistente consistenza”.
---------------
... per
l'annullamento del provvedimento prot. n. 6621 del
18.05.2015, pervenuto in data 22.05.2015, con il quale il
Responsabile della IV Struttura del Comune di Latiano ha
disposto il diniego della domanda di permesso di costruire
presentata dalla ricorrente il 16.10.2014;
...
Il ricorso è manifestamente infondato nel merito e va
respinto.
E’ necessario, innanzitutto, rammentare –in punto di fatto–
che l’impugnato provvedimento di diniego di permesso di
costruire è del seguente tenore: “…..Rilevata l’entità e
la tipologia dell’intervento edilizio in progetto, dagli
elaborati progettuali redatti dall’Arch. Profilo (Tav. Unica
Bis - relazione tecnica), consistente nell’esecuzione delle
seguenti opere: - demolizione della totalità delle strutture
orizzontali e verticali dell’impianto originale
dell’edificio esistente a piano terra ad eccezione di alcuni
residui della muratura di prospetto; - ampliamento
volumetrico dell’edificio esistente a piano terra al fine di
realizzare una civile abitazione di maggior consistenza con
tipologia duplex disposta su due livelli di piano;
Vista la comunicazione preventiva di motivi ostativi
all’accoglimento della domanda formulata da questo U.T.C.
con nota prot. n. 3890 in data 16.03.2015 ai sensi della
Legge n. 241/1990; Rilevate le osservazioni trasmesse del
Tecnico progettista Arch. Ca.Pr. con note acquisite al
protocollo generale comunale……;
Considerato che le osservazioni prodotte non superano le
motivazioni che ostano all’accoglimento della domanda;………….
DISPONE il diniego della domanda di permesso di costruire di
cui in oggetto per le seguenti motivazioni già espresse
nella comunicazione preventiva prot. n. 3890/2015:
L’intervento edilizio in progetto, così come proposto e
descritto nelle premesse, si configura come un intervento di
nuova costruzione definito dall’art. 3, primo comma, lett.
e), del D.P.R. n. 380/2001, e pertanto soggetto al rispetto
delle N.T.A. prescritte dal vigente Programma di
Fabbricazione per le nuove costruzioni”.
Ciò premesso, il Collegio osserva –in diritto– che tutte le
censure formulate nel ricorso (con cui, in buona sostanza,
si sostiene che le opere edilizie in questione
rientrerebbero nell’ambito degli interventi di
ristrutturazione edilizia, anziché di nuova costruzione) si
rivelano palesemente prive di giuridico fondamento, ove si
consideri che il progetto edilizio presentato (il
16.10.2014) dalla odierna ricorrente prevedeva la
realizzazione di un edificio del tutto diverso rispetto al
preesistente e, quindi, incompatibile con il concetto di
ristrutturazione edilizia per demolizione e ricostruzione.
A tal fine, va evidenziato come la fattispecie di
demolizione e ricostruzione di un fabbricato, che
costituisce una delle tre tipologie della
ristrutturazione edilizia delineate dall’art. 3, primo
comma, lett. d), del D.P.R. 06.06.2001 n. 380 e ss.mm.
(ristrutturazione “leggera”, “pesante” e
mediante demolizione e ricostruzione), può rientrare in tale
ambito nei soli casi in cui ricostruzione è sostanzialmente
conforme alla precedente struttura oggetto di demolizione.
A tal fine, l’insegnamento giurisprudenziale consolidatosi
in “subiecta materia” (sino alla modifica normativa
del 2013) ha chiarito che l'elemento che, in linea generale,
contraddistingue la ristrutturazione dalla nuova
edificazione deve rinvenirsi nella già avvenuta
trasformazione del territorio, mediante una edificazione di
cui si conservi la struttura fisica (sia pure con la
sovrapposizione di un "insieme sistematico di opere, che
possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte
diverso dal precedente": art. 3, primo comma, lett. d,
T.U.) ovvero la cui stessa struttura fisica venga del tutto
sostituita, ma -in quest'ultimo caso- con ricostruzione, se
non "fedele" (per effetto della modifica apportata al
Testo Unico dal Decreto Legislativo 27.12.2002 n. 301),
comunque rispettosa della volumetria e della sagoma della
costruzione preesistente (cfr: “ex multis”: Consiglio
di Stato, IV Sezione, 12.05.2014 n. 2397).
Ancora più in dettaglio, si è notato (Consiglio di Stato, IV
Sez., 06.12.2013 n. 5822) che, ai sensi della lettera d),
primo comma, dell'art. 3 del T.U. in materia edilizia, sono
inclusi nella definizione di "ristrutturazione edilizia",
gli interventi di demolizione e ricostruzione con identità
di volumetria e di sagoma rispetto all'edificio
preesistente; la successiva lettera e) classifica come
interventi di "nuova costruzione" quelli di "trasformazione
edilizia e urbanistica del territorio non rientranti nelle
categorie definite alle lettere precedenti".
In base alla menzionata disposizione normativa nel testo
vigente sino al 2013, quindi, un intervento di demolizione e
ricostruzione che non rispetti la volumetria o la sagoma
dell'edificio preesistente -intesa quest'ultima come la
conformazione planivolumetrica della costruzione e il suo
perimetro considerato in senso verticale e orizzontale- è
stato costantemente qualificato come un intervento di
nuova costruzione e non di ristrutturazione edilizia.
Ora, se è vero che in forza delle modifiche normative al
testo dell’art. 3, primo comma, lett. d), del D.P.R.
06.06.2001 n. 380, recentemente introdotte dall’art. 30,
primo comma, del Decreto Legge 21.06.2013 n. 69, c.d. “Decreto
del Fare”, (convertito dalla Legge 09.08.2013 n. 98), la
ristrutturazione edilizia realizzata tramite
demolizione e ricostruzione di un fabbricato non presuppone
più il rispetto dalla sagoma preesistente (ma solo della
preesistente volumetria), non può però essere trascurato
che, nella fattispecie concreta oggetto del presente
giudizio, risulta “per tabulas” che si è in presenza
di un progetto di demolizione (pressoché completa)
dell’edificio esistente a piano terra al fine di realizzare
una civile abitazione di maggior consistenza volumetrica con
tipologia duplex disposta su due livelli di piano, e quindi
(oltre che di una modifica della precedente sagoma) di un
sicuro ampliamento volumetrico (lo stesso progettista parla
nella relazione tecnica illustrativa di “ristrutturazione
al piano terra e di realizzazione di un ampliamento al primo
piano”, ossia -in pratica- dell’edificazione “ex novo”
di un ulteriore piano del fabbricato demolito), che si pone
-con ogni evidenza- al di fuori della nozione attualmente
delineata dall’art. 3, primo comma, lett. d), del D.P.R.
06.06.2001 n. 380 e ss.mm., statuente che: “Nell’ambito
degli interventi di ristrutturazione edilizia sono
ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e
ricostruzione con la stessa volumetria dell’edificio
preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per
l’adeguamento alla normativa antisismica, nonché quelli
volti al ripristino di edifici, o parti di essi,
eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro
ricostruzione, purché sia possibile accertarne la
preesistente consistenza”.
Appare assurda, poi, la pretesa della parte ricorrente di
distinguere (ai fini di causa) la ristrutturazione edilizia
del solo piano terra demolito dalla (contestuale)
realizzazione dell’ampliamento al primo piano, in quanto la
domanda di permesso di costruire di che trattasi è da
intendersi richiesta, ai sensi dell’art. 10, primo comma,
lett. c), del D.P.R. 06.06.2001 n. 380, per l’unitario
intervento (definito dall’istante di ristrutturazione
edilizia) consistente nella demolizione dell’edificio
preesistente a piano terra al fine di realizzare una civile
abitazione di maggior consistenza volumetrica con tipologia
duplex disposta su due livelli di piano; pertanto, anche ai
sensi dell’art. 21-octies secondo comma della Legge
07.08.1990 n. 241 e ss.mm., l’impugnato provvedimento di
diniego si configura come atto dovuto (risultando
irrilevante, nel caso di specie, il denunciato difetto di
adeguata motivazione).
Per le ragioni sopra sinteticamente illustrate il ricorso
deve essere respinto (TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 03.02.2016 n. 233 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
titolare del permesso di costruire non può realizzare le
opere (a scomputo oneri) di sua iniziativa, né limitarsi ad
inviare una richiesta di autorizzazione mai riscontrata al
Comune, essendo invece necessario che la P.A. disciplini
espressamente le modalità di esecuzione delle opere e le
necessarie garanzie.
Ed invero, l’ammissione allo scomputo forma oggetto di una
valutazione discrezionale da parte della P.A., che ben può
optare per soluzioni diverse senza neanche un obbligo di
specifica motivazione.
---------------
... per la declaratoria di illegittimità del silenzio
serbato dalla P.A. sull'istanza presentata dalla ricorrente
il 15.07.2014 e riproposta il 29.07.2015, volta ad ottenere
l’autorizzazione a realizzare opere a scomputo degli oneri
di urbanizzazione relativi all’intervento edilizio richiesto
con istanza di permesso di costruire presentata anch’essa il
15.07.2014;
... per l’ordine all’Amministrazione comunale di provvedere
e per la nomina, sin da subito, di un Commissario ad acta
incaricato di provvedere in sostituzione del Comune, nel
caso di persistente inerzia di quest’ultimo, mediante
l’adozione del provvedimento conclusivo del procedimento in
oggetto.
...
Il ricorso è fondato e da accogliere nei limiti che si vanno
di seguito ad esporre.
La ricorrente sostiene che l’obbligo del Comune di
provvedere sulla domanda di autorizzazione alla
realizzazione di opere a scomputo degli oneri di
urbanizzazione avrebbe, nella fattispecie all’esame, una
duplice fonte:
- da un lato discenderebbe dall’essere il Comune di Latina
Ente titolare della potestà di governo del territorio
(profilo pubblicistico);
- dall’altro lato, invece, discenderebbe dall’essere il
Comune di Latina parte della convenzione per l’esecuzione
dei criteri perequativi afferenti l’attuazione del P.P.E.
R/6 Quartiere Isonzo, stipulata il 7 agosto (in realtà, il
15 aprile) 2014 tra lo stesso Comune, la ricorrente ed altri
soggetti privati, che all’art. 11.1 avrebbe previsto
l’autorizzazione, da parte del competente dirigente del
Comune, al cd. scomputo degli oneri di urbanizzazione a
carico della CEPS S.r.l., su richiesta della predetta
società (profilo privatistico).
Sotto quest’ultimo aspetto, la ricorrente precisa che la
previsione convenzionale circa la possibilità per essa di
realizzare, nell’area in discorso, le opere di
urbanizzazione a scomputo dei relativi oneri era stata
dettata dalla situazione di mancata urbanizzazione di tale
area: situazione che impedirebbe sia il rilascio del
permesso di costruire, sia la fruizione del futuro
fabbricato.
Pertanto –conclude la società– l’inerzia tenuta dalla P.A.
sull’istanza autorizzatoria, dal cui inoltro sono passati
oltre tre mesi, costituisce violazione sia dell’art. 2 della
l. n. 241/1990, sia dei succitati obblighi convenzionali.
Ritiene, tuttavia, il Collegio che l’assunto della
ricorrente sia fondato esclusivamente sotto il profilo della
violazione, da parte del Comune di Latina, dell’obbligo di
concludere il procedimento con un provvedimento espresso, ex
art. 2 della l. n. 241/1990, ma non anche sotto l’aspetto
della violazione di un preteso obbligo negoziale posto
dall’art. 11.1 della convenzione del 15.04.2014.
Al riguardo va fatta una premessa: l’obbligo di matrice
pubblicistica di concludere il procedimento in modo
espresso, ex art. 2 della l. n. 241/1990 –che, come si
preciserà infra, incombe certamente sul Comune di
Latina nel caso di specie– non ha uguale contenuto del
presunto obbligo di matrice negoziale che discenderebbe
dall’art. 11.1 della citata convenzione. Nel primo caso,
infatti, si tratta solo dell’obbligo di concludere il
procedimento con un atto espresso, quale che ne sia il
contenuto; nel secondo, invece, si tratterebbe di condannare
l’Amministrazione Comunale, in base all’art. 11.1 cit., a
rilasciare l’autorizzazione allo scomputo degli oneri, ossia
ad adottare un atto amministrativo dal contenuto ben
preciso.
Peraltro, se fosse vero quanto sostiene la ricorrente circa
l’esistenza di un obbligo convenzionale di rilascio
dell’autorizzazione, si porrebbe il problema della
conversione, ai sensi dell’art. 32, comma 2, c.p.a.,
dell’azione proposta con il ricorso in epigrafe, in azione
di accertamento dell’obbligo del Comune di adempiere alla
succitata clausola convenzionale (art. 11.1) e di condanna
dello stesso a rilasciare la richiesta autorizzazione. Ciò,
pur restando ferma la devoluzione della controversia alla
giurisdizione del G.A., atteso che la convenzione del
15.04.2014, quale accordo perequativo, ha natura di accordo
ex art. 11 della l. n. 241/1990 (TAR Lombardia, Milano, Sez.
II, 04.04.2012, n. 1008): in relazione a detto accordo,
pertanto, la giurisdizione esclusiva del G.A. si estende
anche alla fase della sua esecuzione (art. 133, comma 1,
lett. a), n. 2, c.p.a.; v. TAR Lombardia, Milano, Sez. III,
01.09.2014, n. 2289).
Tuttavia, la ricostruzione della ricorrente non convince,
perché l’art. 11.1 della convenzione del 15.04.2014 prevede
la facoltà, non l’obbligo, del dirigente del Comune di
rilasciare l’autorizzazione allo scomputo degli oneri di
urbanizzazione. Ne segue che non vi è alcun obbligo
convenzionale, in forza del quale la P.A. è tenuta a
rilasciare la suddetta autorizzazione.
Come già detto, sussiste, invece, l’obbligo del Comune, ex
art. 2 della l. n. 241/1990, di rispondere con un
provvedimento espresso all’istanza di rilascio
dell’autorizzazione, quale che sia il contenuto di tale
provvedimento. Ciò, in virtù dell’art. 16, comma 2, del
d.P.R. n. 380/2001, il quale prevede che a scomputo totale o
parziale della quota di contributo che l’interessato deve
pagare al Comune, in base al precedente comma 1, in
relazione agli oneri di urbanizzazione, il privato possa
obbligarsi a realizzare direttamente le opere di
urbanizzazione con le modalità e le garanzie stabilite dalla
P.A. (con acquisizione delle opere realizzate al patrimonio
indisponibile del Comune).
Perciò, il titolare del permesso di costruire non può
realizzare le opere di sua iniziativa, né limitarsi ad
inviare una richiesta di autorizzazione mai riscontrata al
Comune, essendo invece necessario che la P.A. disciplini
espressamente le modalità di esecuzione delle opere e le
necessarie garanzie (cfr. C.d.S., Sez. IV, 28.11.2012, n.
6033). Ed invero, l’ammissione allo scomputo forma oggetto
di una valutazione discrezionale da parte della P.A., che
ben può optare per soluzioni diverse senza neanche un
obbligo di specifica motivazione (cfr. TAR Sicilia, Catania,
Sez. I, 02.02.2012, n. 279).
Ne discende che nella fattispecie all’esame è azionabile
dalla CEPS S.r.l. il rito speciale ex artt. 31 e 117 c.p.a.,
senza che si ponga un problema di conversione dell’azione.
L’azionabilità del rimedio del rito speciale del silenzio ex
artt. 31 e 117 c.p.a. si evince, nel caso di specie, dalla
circostanza che, all’epoca della notificazione del ricorso,
erano trascorsi quasi tre mesi dalla presentazione
dell’istanza di autorizzazione allo scomputo inoltrata al
Comune di Latina il 29.07.2015. Tale azionabilità sussiste,
sia ove si configuri l’istanza de qua come “nuova
richiesta”, secondo quanto si legge a pag. 4 del
ricorso, sia ove la si consideri, invece, quale diffida o
sollecito rispetto alla precedente del 15.04.2014, come si
ricava da altri passaggi del ricorso, in quanto la diffida a
provvedere si configura quale una nuova istanza di avvio del
procedimento, ai sensi e per gli effetti degli artt. 2,
comma 5, della l. n. 241/1990 e 31, comma 2, ultimo periodo,
c.p.a, (cfr., da ultimo, TAR Lazio, Latina, Sez. I,
13.10.2015, n. 658).
Sul punto si evidenzia che la qualificazione dell’istanza
del 29.07.2015 quale nuova richiesta di provvedere non urta
contro il disposto dell’art. 31, comma 2, c.p.a., che fa
salva la riproponibilità dell’istanza “ove ne ricorrano i
presupposti”: nel frattempo, infatti, era mutato il
quadro-giuridico fattuale della vicenda, per la
presentazione da parte della ricorrente, il 01.07.2015, di
modifiche al progetto delle opere previste a scomputo degli
oneri di urbanizzazione.
In definitiva, è dal ricevimento, il 29.07.2015,
dell’istanza di autorizzazione allo scomputo, sia che la si
consideri quale nuova richiesta, sia che la si intenda quale
diffida rispetto alla precedente, che va conteggiato il
termine di proposizione del ricorso ex art. 31, comma 2,
primo periodo, c.p.a. (secondo cui l’azione può essere
proposta finché perdura l’inadempimento ed in ogni caso non
oltre un anno dalla scadenza del termine di conclusione del
procedimento).
Orbene, come già accennato, il ricorso è stato notificato a
circa novanta giorni dalla surriferita data del 29.07.2015
(e precisamente: il 15.10.2015), quando, pertanto, era
ampiamente spirato il termine generale di trenta giorni per
la conclusione del procedimento ex art. 2, comma 2, della l.
n. 241/1990.
Detto termine generale, che trova applicazione, in via
residuale, in mancanza della previsione di un termine
diverso da parte di leggi o regolamenti (TAR Friuli Venezia
Giulia, Sez. I, 14.04.2015, n. 182), pur se previsto
esplicitamente dall’art. 2, comma 2, cit. per i procedimenti
amministrativi di competenza delle Amministrazioni statali e
degli Enti pubblici nazionali, va considerato estensibile ai
procedimenti amministrativi di competenza dei Comuni (TAR
Lazio, Roma, Sez. II, 03.05.2012, n. 3924; v., pure, TAR
Abruzzo, L’Aquila, Sez. I, 02.05.2014, n. 397, che l’ha
ritenuto applicabile ai procedimenti di competenza della
Provincia), in forza dell’art. 29, comma 2-bis, della l. n.
241/1990.
In base a tale disposizione, infatti, attengono ai livelli
essenziali delle prestazioni di cui all’art. 117, secondo
comma, lettera m), Cost., tra le altre, le disposizioni
della stessa l. n. 241/1990 concernenti gli obblighi per la
P.A. di concludere il procedimento entro il termine
prefissato e quelle riguardanti la durata massima dei
procedimenti.
Ne consegue –secondo la dottrina– che la libertà di Regioni
ed Enti locali di disciplinare i termini di conclusione dei
procedimenti di propria competenza incontra un limite nel
citato art. 29, il quale impedisce la fissazione di garanzie
inferiori a quelle assicurate dalla stessa l. n. 241, ferma
restando, in ogni caso, la possibilità di prevedere livelli
ulteriori di tutela.
Nella fattispecie all’esame, non risulta l’esistenza di
alcuna disciplina specifica in ordine al termine per la
conclusione del procedimento di autorizzazione allo scomputo
degli oneri di urbanizzazione, non avendo l’art. 16, comma
2, del d.P.R. n. 380/2001 fissato un termine entro cui il
Comune deve riscontrare l’istanza di scomputo: a detto
procedimento, dunque, è applicabile il ricordato termine di
trenta giorni ex art. 2, comma 2, della l. n. 241/1990,
scaduto il 28.08.2015. Donde l’intervenuta maturazione del
cd. silenzio inadempimento ancor prima della proposizione
del ricorso.
In definitiva, pertanto, il ricorso è fondato nei limiti
della declaratoria della sussistenza dell’obbligo del Comune
di Latina di riscontrare l’istanza di autorizzazione allo
scomputo presentata dalla CEPS S.r.l. in data 29.07.2015 con
un provvedimento espresso (quale che ne fosse il contenuto),
e del connesso accertamento dell’illegittimità dell’inerzia
serbata su di essa dalla citata Amministrazione comunale.
Per conseguenza, deve ordinarsi al Comune di Latina di
riscontrare l’istanza in discorso, emanando il provvedimento
conclusivo del relativo procedimento nel termine di trenta
(30) giorni ex art. 117, comma 2, c.p.a., a decorrere dalla
comunicazione in via amministrativa, ovvero, se anteriore,
dalla notificazione a cura di parte della presente
decisione.
Ai sensi dell’art. 117, comma 3, c.p.a., va, altresì,
accolta la domanda di nomina di un Commissario ad acta,
incaricato di provvedere in sostituzione del Comune di
Latina, ove l’inerzia di quest’ultimo permanga allo spirare
del suindicato termine di trenta giorni, individuandolo nel
Prefetto di Latina, o in altro dipendente della Prefettura
con qualifica non inferiore a funzionario, all’uopo delegato
dal precedente.
Il predetto Commissario provvederà, su sollecitazione di
parte, in luogo del Comune inerte, entro un termine di
trenta (30) giorni a partire da detta sollecitazione (che la
parte potrà fargli pervenire, una volta che sia inutilmente
scaduto il termine di trenta giorni sopra visto).
È fatta salva la possibilità della richiesta motivata di
proroghe, che potranno essere accordate anche mediante
decreto presidenziale.
Si ritiene, infine, di dover rinviare ogni decisione sulla
liquidazione del compenso del Commissario ad acta,
qualora si rendesse necessario il suo intervento, alla
presentazione, da parte dello stesso, di un’apposita
relazione che documenti l’espletamento dell’incarico, con
avviso sin da ora, peraltro, –anche ai fini delle
conseguenti responsabilità erariali– che di detta
liquidazione verrebbe onerato il Comune di Latina (TAR
Lazio-Latina,
sentenza 02.02.2016 n. 57 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
La procura alle liti sopperisce al contratto.
Effetti del conferimento da parte di un ente
pubblico.
Se a un avvocato viene conferita una procura alle liti da un
ente pubblico, questa sarà idonea a sopperire alla formale
sottoscrizione del contratto di patrocinio e pertanto
all'avvocato spetterà il compenso.
A stabilirlo sono stati i giudici della VI Sez. civile della
Corte di Cassazione con l'ordinanza
29.01.2016 n. 1795.
In sede di commento sembra opportuno premettere che sulla
questione dell'idoneità del rilascio della procura ad
lites, quando seguita dall'atto difensivo sottoscritto
dall'avvocato, a sopperire alla formale sottoscrizione del
contratto di patrocinio, sono intervenute numerose pronunce
della stessa corte di Cassazione, tra l'altro in giudizi tra
le stesse parti (si vedano, tra le tante, sez. VI-3,
16.04.2015, n. 7796; sez. VI-3, 22.05.2015, n. 10674; sez.
VI-3, 25.05.2015, n. 10753; sez. VI-3, 22.07.2015, n. 15454;
sez. VI-3, 28.07.2015, n. 15925).
A parere dei giudici di piazza Cavour, per quanto riguarda i
contratti della pubblica amministrazione, che devono essere
stipulati ad substantiam per iscritto, il requisito
della forma del contratto di patrocinio sarà soddisfatto con
il rilascio al difensore, a mezzo di atto pubblico, di
procura generale alle liti ai sensi dell'art. 83 cod. proc.
civ., qualora sia puntualmente fissato l'ambito delle
controversie per le quali opera la procura stessa (nel caso
sottoposto all'attenzione degli Ermellini: tutte le cause
attive e passive promosso e da promuoversi, innanzi a
qualsiasi Autorità giudiziaria, esclusa la Suprema corte di
cassazione, aventi ad oggetto il solo recupero dei crediti
della stessa Camera di commercio mandante, con espressa
autorizzazione, a tal fine, di intraprendere azioni
esecutive, intervenire in quelle da altri iniziate e dare
loro impulso).
Pertanto, secondo tale principio, il giudice del merito sarà
chiamato ad esaminare il fatto decisivo costituito
dall'idoneità della predetta procura, quale negozio
unilaterale di conferimento della rappresentanza
processuale, e dell'atto difensivo in concreto redatto e
sottoscritto dal difensore, a integrare la proposta e la
correlativa accettazione di un contratto di patrocinio tra
l'avvocato e l'ente pubblico, valido anche sotto il profilo
formale (articolo ItaliaOggi Sette del 22.02.2016).
---------------
MASSIMA
- Ritenuto che il consigliere designato ha depositato,
in data 15.04.2015, la seguente proposta di definizione, ai
sensi dell'art. 380-bis cod. proc. civ.:
«Il Giudice di pace di Cassino, nel decidere
sull'opposizione proposta dalla Camera di commercio di
Frosinone avverso il decreto ingiuntivo emesso nei suoi
confronti, su istanza dell'Avv. Gi.Sa., ha dichiarato il
diritto di quest'ultimo ad ottenere il pagamento dei
compensi professionali in dipendenza di prestazioni
concretizzatesi in atti di intervento in procedure esecutive
a carico di debitori dell'Ente.
La pronuncia, gravata di appello dalla Camera di commercio,
è stata riformata dal Tribunale di Cassino che in
accoglimento della proposta impugnazione, con sentenza n.
812 del 14.10.2013, ha dichiarato non dovuta la somma
oggetto del decreto monitorio.
Il giudice di merito ha ritenuto la procura generale
conferita all'Avv. Sa. dall'allora segretario generale della
Camera di commercio di Frosinone inidonea a soddisfare le
prescrizioni di legge. Ha segnatamente osservato che la
procura de qua, conferita al professionista affinché
rappresentasse e difendesse la Camera di commercio, non
individuava con esattezza l'oggetto del contratto, essendo
genericamente riferita a tutte le cause di recupero crediti,
di talché difettava il necessario collegamento tra la stessa
e l'atto di difesa sottoscritto dal difensore.
Per la cassazione di tale sentenza l'Avv. Sa. ha proposto
ricorso, con atto notificato il 01.12.2014, formulando due
motivi.
La Camera di commercio ha resistito con controricorso.
Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione
degli artt. 16 e 17 del regio decreto 18.11.1923, n. 2440,
1325, 1326 e ss. e 1346 ss cod. civ., nonché 83 cod. proc.
civ..
Secondo il ricorrente, il Tribunale avrebbe fatto malgoverno
della giurisprudenza di legittimità, secondo cui è ben
possibile il perfezionamento di contratto di patrocinio, in
forma scritta, attraverso, da un lato, il rilascio di
procura alle liti, generale o speciale, e, dall'altro, la
redazione del singolo atto di difesa sottoscritto dal
difensore, e cioè, nello specifico, degli atti con i quali
l'Avv. Sa. aveva espletato il mandato professionale ricevuto
per il recupero dei crediti della Camera di commercio.
Con il secondo mezzo l'impugnante lamenta nullità
della sentenza e del procedimento, violazione degli artt.
116 e 132 cod. proc. civ., 1325 e 1346 cod. civ. e 83 cod.
proc. civ., ovvero omesso esame di un fatto decisivo per il
giudizio, che è stato oggetto di discussione tra le parti.
Il ricorrente critica l'affermazione del giudice di merito
secondo cui la procura non individuava con esattezza
l'oggetto del contratto, essendo stata genericamente
riferita a tutte le cause di recupero crediti.
I due motivi, che si prestano ad essere esaminati
congiuntamente per la loro connessione, appaiono fondati,
alla luce del precedente specifico di questa Corte
rappresentato da Sez. VI-3, 24.02.2015, n. 3721.
Ad avviso del relatore, la doglianza relativa alla omessa
considerazione che lo ius postulandi era stato espressamente
conferito anche per "intraprendere azioni esecutive,
intervenire in quelle da altri iniziate e dare loro impulso"
e che il Sa. aveva utilizzato la procura proprio per
costituirsi in un processo esecutivo, coglie un deficit
motivazionale che è ragionevolmente frutto di un
corrispondente deficit nell'iter cognitivo del decidente, il
quale ha ritenuto generica la procura senza valutarne un
profilo essenziale sia in astratto, sia, quel che più conta,
in concreto, in relazione, cioè, all'attività difensiva
svolta e posta a base della domanda di pagamento.
Il ricorso appare pertanto destinato all'accoglimento, alla
luce del principio di diritto enunciato -in controversia tra
le stesse parti- dalla citata Cass., Sez. VI-3, 24.02.2015,
n. 3721.
Infatti,
in tema di contratti della P.A., che devono essere
stipulati ad substantlam per iscritto, il requisito della
forma del contratto di patrocinio è soddisfatto con il
rilascio al difensore, a mezzo di atto pubblico, di procura
generale alle liti ai sensi dell'art. 83 cod. proc. civ.,
qualora sia puntualmente fissato l'ambito delle controversie
per e quali opera la procura stessa (nella specie:
"tutte le cause attive e passive promosso e da promuoversi,
innanzi a qualsiasi Autorità Giudiziaria, esclusa la Suprema
Corte di cassazione, aventi ad oggetto il solo recupero dei
crediti della stessa Camera di commercio mandante", con
espressa autorizzazione, a tal fine, di "intraprendere
azioni esecutive, intervenire in quelle da altri iniziate e
dare loro impulso").
In relazione a tale principio, il giudice del merito sarà
chiamato ad esaminare il fatto decisivo costituito
dall'idoneità della predetta procura, quale negozio
unilaterale di conferimento della rappresentanza
processuale, e dell'atto difensivo in concreto redatto e
sottoscritto dal difensore, a integrare la proposta e la
correlativa accettazione di un contratto di patrocinio tra
l'ente pubblico e il professionista, valido anche sotto il
profilo formale.
Il ricorso può essere avviato alla trattazione in camera di
consiglio, per esservi accolto».
- Letta la memoria di parte controricorrente.
- Considerato che il Collegio condivide la proposta di
definizione contenuta nella relazione ex art. 380-bis cod.
proc. civ.;
- che non ricorrono le ragioni previste dall'art. 374 cod.
proc. civ. per la rimessione della causa alle Sezioni Unite,
giacché va registrato che, sulla questione dell'idoneità del
rilascio della procura ad lites, quando seguita
dall'atto difensivo sottoscritto dall'avvocato, a sopperire
alla formale sottoscrizione del contratto di patrocinio,
sono già intervenute numerose pronunce di questa Corte, tra
l'altro in giudizi tra le stesse parti, che hanno ribadito
il principio richiamato nella relazione ex art. 380-bis cod.
proc. civ. (si vedano, tra le tante, Sez. VI-3, 16.04.2015,
n. 7796; Sez. VI-3, 22.05.2015, n. 10674; Sez. VI-3,
25.05.2015, n. 10753; Sez. VI-3, 22.07.2015, n. 15454; Sez.
V-3, 28.07.2015, n. 15925);
- che la memoria non offre argomenti nuovi che giustifichino
il discostamento dall'indirizzo consolidato;
- che, pertanto, il ricorso deve essere accolto e la
sentenza impugnata cassata;
- che la causa deve essere rinviata al Tribunale di Cassino,
che la deciderà in persona di diverso magistrato;
- che il giudice del rinvio provvederà anche sulle spese del
giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e
rinvia la causa, anche per le spese, al Tribunale di
Cassino, in persona di diverso magistrato. |
LAVORI PUBBLICI - URBANISTICA: Al
privato proprietario di un’area destinata
all'espropriazione, siccome interessata dalla realizzazione
di un’opera pubblica, dev’essere garantita, mediante la
formale comunicazione dell'avviso di avvio del procedimento,
la possibilità di interloquire con l'amministrazione
procedente sulla sua localizzazione e, quindi,
sull'apposizione del vincolo, prima della dichiarazione di
pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza e, quindi,
dell'approvazione del progetto definitivo.
Tale adempimento, che è di fondamentale importanza anche
perché preordinato a consentire la presentazione di
osservazioni e opposizioni, va posto in essere non solo in
sede di prima apposizione del vincolo, ma anche di sua
reiterazione al fine di consentire al privato di verificare
il corretto esercizio di un potere particolarmente incidente
sulla propria posizione.
---------------
Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, la
decadenza del vincolo espropriativo non esclude, infatti,
quanto meno in astratto, che l'amministrazione possa
reiterare lo stesso vincolo, ma il provvedimento che procede
in tal senso deve essere congruamente motivato in ordine
alla persistenza delle ragioni di diritto pubblico sottese
alla necessità della reiterazione al fine di escludere una
inutile perpetuazione della situazione di compressione del
diritto del privato.
---------------
7. In ordine al primo e al secondo profilo profilo, va
richiamato il consolidato indirizzo giurisprudenziale,
formatosi sulla scorta della decisione dell’Adunanza
plenaria del Consiglio di Stato n. 8 del 20.12.2002, secondo
il quale al privato proprietario di un’area destinata
all'espropriazione, siccome interessata dalla realizzazione
di un’opera pubblica, dev’essere garantita, mediante la
formale comunicazione dell'avviso di avvio del procedimento,
la possibilità di interloquire con l'amministrazione
procedente sulla sua localizzazione e, quindi,
sull'apposizione del vincolo, prima della dichiarazione di
pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza e, quindi,
dell'approvazione del progetto definitivo (per tutte
Consiglio di Stato, IV, 11.11.2014, n. 5525).
Tale adempimento, che è di fondamentale importanza anche
perché preordinato a consentire la presentazione di
osservazioni e opposizioni, va posto in essere non solo in
sede di prima apposizione del vincolo, ma anche di sua
reiterazione al fine di consentire al privato di verificare
il corretto esercizio di un potere particolarmente incidente
sulla propria posizione.
Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, la
decadenza del vincolo espropriativo non esclude, infatti,
quanto meno in astratto, che l'amministrazione possa
reiterare lo stesso vincolo, ma il provvedimento che procede
in tal senso deve essere congruamente motivato in ordine
alla persistenza delle ragioni di diritto pubblico sottese
alla necessità della reiterazione al fine di escludere una
inutile perpetuazione della situazione di compressione del
diritto del privato (per tutte Consiglio di Stato, IV,
12.03.2015, n. 1317).
Nella specie, non soltanto non si è data comunicazione alla
ricorrente dell’avvio del procedimento di reiterazione del
vincolo espropriativo scaduto gravante sul suo fondo, né
dell’adozione del provvedimento finale, ma non sono nemmeno
state esternate le specifiche ragioni di pubblico interesse
sottostanti alla determinazione di procrastinare la sua
efficacia (TAR Sicilia-Palermo, Sez. III,
sentenza 26.01.2016 n. 212 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sulla
realizzazione, senza titolo edilizio, di un locale esterno
(sostanzialmente un ampliamento del bar) mediante
tensostruttura posta davanti al parcheggio.
La predetta tensostruttura è costituita da profilati di
alluminio a L rovesciata, fissati da un lato alla parete
esterna del bar e dall’altro al terreno, ed è dotata di
serramenti in alluminio e vetro, e di una copertura
costituita da una tenda scorrevole in materiale
impermeabile. La superficie coperta è pari 45,70 mq.
L’altezza interna varia da 2,40 metri (lato parcheggio) a
3.30 metri (lato bar).
(a) le tensostrutture, comprese quelle
dotate di tende retrattili, sono utilizzate normalmente per
creare locali protetti all’esterno degli edifici in
muratura, o in aree dove non possono essere realizzati
edifici in muratura. Lo scopo è di consentire lo svolgimento
di attività lavorative, o di attività comunque diverse dalla
semplice residenza.
Per struttura, materiali e funzione, le tensostrutture si
prestano a un utilizzo prolungato, ma sono anche facilmente
amovibili, e anzi sono appositamente progettate per
agevolare le operazioni di installazione e smontaggio;
(b) queste caratteristiche impediscono di far ricadere le
tensostrutture nell’attività edilizia libera, ma anche di
equipararle pienamente alle nuove costruzioni in muratura;
(c) tenendo conto della funzione, la qualificazione
preferibile è quella ex art. 3, comma 1-e.5, del DPR
06.06.2001 n. 380 (manufatti leggeri utilizzati come
ambienti di lavoro). Tenendo poi conto delle dimensioni,
occorre valutare se si tratti di interventi pertinenziali ex
art. 3, comma 1-e.6, del medesimo testo unico.
Sotto questo secondo profilo, la classificazione spetta ai
singoli comuni, fermo restando che un’opera non può essere
considerata pertinenza minore quando il volume della stessa
sia superiore al 20% del volume dell'edificio principale;
(d) da questo inquadramento discendono importanti
conseguenza per quanto riguarda la disciplina applicabile.
Innanzitutto, se la tensostruttura non supera i limiti
dimensionali fissati per le pertinenze minori dalla legge o
dai regolamenti comunali, non può essere considerata nuova
costruzione, e quindi ricade in un regime autorizzatorio e
sanzionatorio più favorevole.
Nello specifico, questa condizione non risulta dimostrata,
ma sul punto potranno essere svolti approfondimenti a cura
degli uffici comunali;
(e) in ogni caso, in quanto manufatto leggero utilizzato
come ambiente di lavoro ai sensi dell’art. 3, comma 1-e.5,
del DPR 380/2001, la tensostruttura non produce una
volumetria e una superficie assimilabili a quelle delle
costruzioni in muratura. I diritti edificatori incorporati
nelle tensostrutture sono giuridicamente limitati, in quanto
non si trasmettono al suolo e non possono dare origine a una
diversa destinazione d’uso.
Persa la funzione di ambiente di lavoro (nello specifico,
per cessazione dell’attività del bar, o per trasformazione
in esercizio pubblico di altro tipo), la tensostruttura deve
essere rimossa;
(f) per altri aspetti, tuttavia, non essendo prefissato il
momento della rimozione, la tensostruttura non può dirsi
funzionalmente precaria. Si tratta dunque di un’opera che
rimane subordinata al rilascio del permesso di costruire,
come ogni altra nuova costruzione.
In caso di installazione abusiva, è applicabile la procedura
di accertamento di conformità urbanistica ex art. 36 del DPR
380/2001.
Qualora non vengano superati i limiti delle pertinenze
minori, e sia regolato l’uso delle tende retrattili per
contenere l’impatto dell’involucro, è invece applicabile la
disciplina sanzionatoria più favorevole di cui all’art. 37,
comma 1, del DPR 380/2001;
---------------
(g) sempre in caso di installazione abusiva, è poi
applicabile la procedura di accertamento di compatibilità
paesistica ex art. 167, commi 4 e 5, del Dlgs. 42/2004. Non
sussiste la preclusione rappresentata dalla formazione di
nuova superficie e volumetria utile, in quanto, come si è
visto, i diritti edificatori delle tensostrutture non sono
né permanenti né trasformabili, e dunque non sono
urbanisticamente utili come quelli delle costruzioni in
muratura.
Le uniche valutazioni appropriate sono pertanto quelle
riferite all’impatto sul paesaggio. Nello specifico,
peraltro, la Soprintendenza ha già chiarito che non sono
pregiudicati i valori paesistici oggetto di tutela;
(h) se la disciplina urbanistica lo consente, la
tensostruttura può essere sostituita da un fabbricato in
muratura, previa acquisizione dell’autorizzazione
paesistica. Non vi sono impedimenti particolari collegati al
precedente abuso edilizio, in quanto la tensostruttura in
tale ipotesi verrebbe rimossa, o comunque inserita in
un’opera diversa e urbanisticamente nuova.
---------------
... per l'annullamento:
(a) nel ricorso introduttivo: - dell’ordinanza del
responsabile dell’Area Tecnica n. 11 del 28.03.2013, con la
quale è stata ingiunta la demolizione di una tensostruttura
realizzata mediante profilati in alluminio, dotata di
serramenti in alluminio e vetro, e coperta da una tenda
scorrevole in materiale impermeabile;
(b) nei motivi aggiunti:
- del provvedimento del responsabile dell’Area Tecnica prot.
n. 5636 del 17.04.2014, con il quale è stato negato
l’accertamento di compatibilità paesistica;
- dell’ordinanza del responsabile dell’Area Tecnica n. 24
del 02.05.2014, con la quale è stata nuovamente ingiunta la
demolizione dell’opera abusiva;
...
1. Il ricorrente Se.Pa., titolare del pubblico esercizio
denominato “Bar Colibrì”, situato in via Brescia nel
Comune di Rodengo Saiano, ha realizzato senza titolo
edilizio un locale esterno (sostanzialmente un ampliamento
del bar) mediante tensostruttura posta davanti al
parcheggio.
2. La predetta tensostruttura è costituita da profilati di
alluminio a L rovesciata, fissati da un lato alla parete
esterna del bar e dall’altro al terreno, ed è dotata di
serramenti in alluminio e vetro, e di una copertura
costituita da una tenda scorrevole in materiale
impermeabile. La superficie coperta è pari 45,70 mq.
L’altezza interna varia da 2,40 metri (lato parcheggio) a
3.30 metri (lato bar).
3. L’area è classificata tra gli ambiti residenziali
consolidati a media densità edificatoria, ed è sottoposta a
vincolo ambientale.
4. Il Comune, qualificando l’opera abusiva come nuova
costruzione (veranda), ne ha ingiunto la demolizione con
ordinanza del responsabile dell’Area Tecnica n. 11 del
28.03.2013.
5. In seguito, il Comune, con provvedimento del responsabile
dell’Area Tecnica del 17.04.2014, ha negato l’accertamento
di compatibilità paesistica ex art. 167, comma 4, del Dlgs.
22.01.2004 n. 42, rilevando la formazione di nuova
superficie e volumetria utile.
La Soprintendenza, preventivamente interpellata, aveva in un
primo momento dato parere di compatibilità favorevole
(19.12.2013), ma poi, su richiesta degli uffici comunali, si
è pronunciata nuovamente (31.01.2014), e ha precisato che
formazione di nuova superficie e volumetria utile è un
ostacolo insuperabile alla sanatoria paesistica, rimettendo
sul punto ogni valutazione al Comune.
6. Confermando la qualificazione dell’opera abusiva come
nuova costruzione, il Comune, con ordinanza del responsabile
dell’Area Tecnica n. 24 del 02.05.2014, ha ribadito la
necessità della demolizione.
7. Contro questi provvedimenti il ricorrente ha presentato
impugnazione con atto notificato il 30.05.2013 e depositato
il 14.06.2013, integrato da successivi motivi aggiunti. Le
censure possono essere sintetizzate come segue:
(i) travisamento, in quanto la tensostruttura, per le
caratteristiche strutturali e funzionali, non dovrebbe
essere qualificata come nuova costruzione, ma come semplice
opera di copertura, priva di volumetria, essendo le tende
retrattili;
(ii) contraddittorietà, in quanto è stata esclusa la
compatibilità paesistica nonostante il parere favorevole
della Soprintendenza, che nel primo pronunciamento non aveva
rilevato alcun sostanziale pregiudizio per i valori
paesistici tutelati.
8. Il Comune si è costituito, chiedendo la reiezione del
ricorso.
9. Sulle questioni rilevanti ai fini della decisione si
possono svolgere le seguenti considerazioni:
(a) le tensostrutture, comprese quelle dotate di tende
retrattili, sono utilizzate normalmente per creare locali
protetti all’esterno degli edifici in muratura, o in aree
dove non possono essere realizzati edifici in muratura. Lo
scopo è di consentire lo svolgimento di attività lavorative,
o di attività comunque diverse dalla semplice residenza. Per
struttura, materiali e funzione, le tensostrutture si
prestano a un utilizzo prolungato, ma sono anche facilmente
amovibili, e anzi sono appositamente progettate per
agevolare le operazioni di installazione e smontaggio;
(b) queste caratteristiche impediscono di far ricadere le
tensostrutture nell’attività edilizia libera, ma anche di
equipararle pienamente alle nuove costruzioni in muratura;
(c) tenendo conto della funzione, la qualificazione
preferibile è quella ex art. 3, comma 1-e.5, del DPR
06.06.2001 n. 380 (manufatti leggeri utilizzati come
ambienti di lavoro). Tenendo poi conto delle dimensioni,
occorre valutare se si tratti di interventi pertinenziali ex
art. 3, comma 1-e.6, del medesimo testo unico.
Sotto questo secondo profilo, la classificazione spetta ai
singoli comuni, fermo restando che un’opera non può essere
considerata pertinenza minore quando il volume della stessa
sia superiore al 20% del volume dell'edificio principale;
(d) da questo inquadramento discendono importanti
conseguenza per quanto riguarda la disciplina applicabile.
Innanzitutto, se la tensostruttura non supera i limiti
dimensionali fissati per le pertinenze minori dalla legge o
dai regolamenti comunali, non può essere considerata nuova
costruzione, e quindi ricade in un regime autorizzatorio e
sanzionatorio più favorevole. Nello specifico, questa
condizione non risulta dimostrata, ma sul punto potranno
essere svolti approfondimenti a cura degli uffici comunali;
(e) in ogni caso, in quanto manufatto leggero utilizzato
come ambiente di lavoro ai sensi dell’art. 3, comma 1-e.5,
del DPR 380/2001, la tensostruttura non produce una
volumetria e una superficie assimilabili a quelle delle
costruzioni in muratura. I diritti edificatori incorporati
nelle tensostrutture sono giuridicamente limitati, in quanto
non si trasmettono al suolo e non possono dare origine a una
diversa destinazione d’uso. Persa la funzione di ambiente di
lavoro (nello specifico, per cessazione dell’attività del
bar, o per trasformazione in esercizio pubblico di altro
tipo), la tensostruttura deve essere rimossa;
(f) per altri aspetti, tuttavia, non essendo prefissato il
momento della rimozione, la tensostruttura non può dirsi
funzionalmente precaria. Si tratta dunque di un’opera che
rimane subordinata al rilascio del permesso di costruire,
come ogni altra nuova costruzione.
In caso di installazione abusiva, è applicabile la procedura
di accertamento di conformità urbanistica ex art. 36 del DPR
380/2001 (per una fattispecie relativa ai tunnel-serra v.
TAR Brescia Sez. I 17.06.2015 n. 852). Qualora non vengano
superati i limiti delle pertinenze minori, e sia regolato
l’uso delle tende retrattili per contenere l’impatto
dell’involucro, è invece applicabile la disciplina
sanzionatoria più favorevole di cui all’art. 37, comma 1,
del DPR 380/2001 (v. TAR Brescia Sez. I 04.06.2014 n. 600);
(g) sempre in caso di installazione abusiva, è poi
applicabile la procedura di accertamento di compatibilità
paesistica ex art. 167, commi 4 e 5, del Dlgs. 42/2004. Non
sussiste la preclusione rappresentata dalla formazione di
nuova superficie e volumetria utile, in quanto, come si è
visto, i diritti edificatori delle tensostrutture non sono
né permanenti né trasformabili, e dunque non sono
urbanisticamente utili come quelli delle costruzioni in
muratura. Le uniche valutazioni appropriate sono pertanto
quelle riferite all’impatto sul paesaggio. Nello specifico,
peraltro, la Soprintendenza ha già chiarito che non sono
pregiudicati i valori paesistici oggetto di tutela;
(h) se la disciplina urbanistica lo consente, la
tensostruttura può essere sostituita da un fabbricato in
muratura, previa acquisizione dell’autorizzazione
paesistica. Non vi sono impedimenti particolari collegati al
precedente abuso edilizio, in quanto la tensostruttura in
tale ipotesi verrebbe rimossa, o comunque inserita in
un’opera diversa e urbanisticamente nuova.
10. Il ricorso deve quindi essere accolto nei limiti sopra
evidenziati.
11. La pronuncia determina l’annullamento degli atti
impugnati, e vincola il Comune a riesaminare la posizione
del ricorrente nel rispetto delle indicazioni esposte ai
punti precedenti. Il termine ragionevole per tale
adempimento è fissato in novanta giorni dal deposito della
presente sentenza.
12. La complessità delle valutazioni in materia di abusi
edilizi e la particolarità dei problemi posti
dall’edificazione tramite tensostrutture consentono la
compensazione delle spese di giudizio.
13. Il contributo unificato è a carico dell’amministrazione
ai sensi dell’art. 13, comma 6-bis.1, del DPR 30.05.2002 n.
115 (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 26.01.2016 n. 159 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Gli strumenti del contadino vendibili dal
contadino.
Vanga e rastrello in vendita dal contadino che però per
vendere tavoli e sedie deve rispettare le norme commerciali.
L'attività imprenditoriale agricola non va interpretata in
senso stretto; e, pertanto, in base all'articolo 2135 codice
civile introdotto dal dlgs 228/2001, non si può inquadrare
l'azienda florovivaistica come mera attività di coltivazione
di piante e fiori e della loro vendita, escludendo tutte le
attività dirette alla fornitura di beni o servizi che siano
strettamente connessi appunto con il florovivaismo. Con la
conseguenza che va ricompresa in questo genere di attività
la commercializzazione di una serie di prodotti accessori o
funzionali alle attività di giardinaggio o di allestimento
di spazi verdi.
In linea puramente teorica, ha chiarito il Consiglio di
Stato, Sez. V, con la
sentenza 18.01.2016 n. 131, si deve ammettere che
il legislatore ha dato un riconoscimento a tale lettura
dell'attività delle aziende attive nel giardinaggio.
In sostanza, ha precisato il Collegio, con il dlgs 228/2001
è stato dato il via a un'ampia liberalizzazione del
commercio dei propri prodotti da parte delle aziende
agricole, sia nella forma più semplice del fiore, del frutto
o della pianta, sia in quella più complessa della loro
manipolazione o di beni a questa connessi. Fatto che può
inevitabilmente comprendere cose non direttamente derivanti
dall'agricoltura, ma ad essa connesse come vasi, strumenti
di irrigazione, concimi, insetticidi o strumenti per
l'immediato utilizzo della terra come rastrelli o vanghe.
Appare però evidente che la commercializzazione dei prodotti
agricoli o florovivaistici o la fornitura di beni connessi a
queste attività deve rispettare le stesse regole che la
ammettono, così come quelle attinenti altre attività come
quella commerciale.
Infatti, se a un'azienda florovivaistica è permessa la vendita di prodotti
e beni riconducibili alla sua attività, ciò non può
comportare che la medesima si renda attiva nella vendita di
prodotti che solamente in senso estremamente lato possono
avvicinarsi al giardinaggio: dai barbecue ai vasi in
ceramica, dalle padelle alle graticole, dai tavoli e sedie
in vimini o in plastica alle case in legno prefabbricate a
uso deposito da giardino. In tal caso, infatti,
l'imprenditore agricolo dovrà rispettare la normativa
commerciale (articolo ItaliaOggi del 25.02.2016).
---------------
MASSIMA
... per la riforma della sentenza del TAR Emilia
Romagna, Bologna, Sez. II n. 776/2014, resa tra le parti,
concernente l’ordine di chiusura di un esercizio commerciale
abusivo;
...
5. L’appello è infondato.
Il Collegio non ravvisa elementi in senso difforme rispetto
a quanto ritenuto dal giudice di primo grado relativamente
alla sostanziale trasformazione dell’azienda florovivaistica
Garden Ga. in esercizio commerciale di vicinato, senza i
titoli necessari.
Espone in sintesi l’appellante Azienda che alla
configurazione dell’attività imprenditoriale agricola non si
può dare nell’ambito della legislazione vigente una ‘lettura
restrittiva’, poiché secondo il nuovo testo dell’art.
2135 c.c. introdotto dall’art. 1 D.Lgs. 18.05.2001, n. 228,
non si può inquadrare l’azienda florovivaistica come mera
attività di coltivazione di piante e fiori e della loro
vendita, escludendo tutte le attività dirette alla fornitura
di beni o servizi che siano strettamente connessi appunto
con il florovivaismo.
Dunque andrebbe ricompresa in questo genere di attività la
commercializzazione di una serie di prodotti accessori o
funzionali alle attività di giardinaggio o di allestimento
di spazi verdi, cosa che non si porrebbe nemmeno contrasto
con la destinazione agricola dell’area in cui ricade
l’azienda, visto che tali attività devono virtualmente
essere ricomprese in un tutt’uno con le gestione di serre,
l’attività di florovivaismo e la conseguente vendita dei
beni ordinariamente ricompresi in tali iniziative.
In linea puramente teorica, si deve ammettere che il
legislatore ha dato un riconoscimento a tale lettura
dell’attività delle aziende attive nel giardinaggio e ciò
con i nuovi contenuti dell’art. 2135 c.c., secondo il quale
«È imprenditore agricolo chi esercita una delle seguenti
attività: coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento
di animali e attività connesse. ... Si intendono comunque
connesse le attività, esercitate dal medesimo imprenditore
agricolo, dirette alla manipolazione, conservazione,
trasformazione, commercializzazione e valorizzazione che
abbiano ad oggetto prodotti ottenuti prevalentemente dalla
coltivazione del fondo o del bosco o dall'allevamento di
animali, nonché le attività dirette alla fornitura di beni o
servizi mediante l’utilizzazione prevalente di attrezzature
o risorse dell’azienda normalmente impiegate nell’attività
agricola esercitata, ivi comprese le attività di
valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale e
forestale, ovvero di ricezione ed ospitalità come definite
dalla legge».
Quanto alla commercializzazione, i nuovi contenuti della
figura dell’imprenditore agricolo vanno correlati ed insieme
limitati con quanto riportato dall’art. 4 del D.Lgs. n. 228
del 2001, in particolare dal comma 1, per il quale «Gli
imprenditori agricoli, singoli o associati, iscritti nel
registro delle imprese di cui all'art. 8 della legge
29.12.1993, n. 580, possono vendere direttamente al
dettaglio, in tutto il territorio della Repubblica, i
prodotti provenienti in misura prevalente dalle rispettive
aziende, osservate le disposizioni vigenti in materia di
igiene e sanità».
Per il successivo comma 5, «La presente
disciplina si applica anche nel caso di vendita di prodotti
derivati, ottenuti a seguito di attività di manipolazione o
trasformazione dei prodotti agricoli e zootecnici,
finalizzate al completo sfruttamento del ciclo produttivo
dell'impresa».
Ritiene la Sezione che
la lettura complessiva che se ne ricava è sicuramente quella
di un’ampia liberalizzazione del commercio dei propri
prodotti da parte delle aziende agricole, sia nella forma
più semplice del fiore, del frutto o della pianta, ma anche
in quella più complessa della loro manipolazione oppure di
beni a questa connessi, fatto che può inevitabilmente
comprendere cose non direttamente derivanti
dall’agricoltura, ma ad essa strettamente connesse come
vasi, strumenti di irrigazione, concimi, insetticidi o
strumenti per l’immediato utilizzo della terra come
rastrelli o vanghe.
Ritenuto ciò in generale, appare però evidente che
la commercializzazione dei prodotti agricoli o
florovivaistici oppure la fornitura di beni connessi a
queste attività deve rispettare le stesse regole che la
ammettono, così come quelle attinenti altre attività come
quella prettamente commerciale.
Infatti,
se ad un’azienda florovivaistica deve essere permessa la
vendita dei propri prodotti e dei beni strettamente
riconducibili alla sua attività, ciò non può comportare che
la medesima si renda attiva nella vendita di prodotti che
solamente in senso estremamente lato possono avvicinarsi al
giardinaggio; dai barbecue carrellati ai vasi in ceramica,
dalle padelle alle graticole, dai tavoli e sedie in vimini o
in plastica alle case in legno prefabbricate ad uso deposito
da giardino.
Né gli spazi di vendita, ove indicati in una superficie pari
a mq. 20, possono essere ampliati ad oltre 200 senza
segnalazione certificata di inizio attività nel rispetto del
D.Lgs. 31.03.1998, n. 114, e successive modificazioni, e
sempre nel rispetto dei relativi presupposti e delle
relative leggi regionali di attuazione.
Alla luce di quanto finora rilevato, risulta evidente che
l’attività dell’appellante ha largamente trasmodato le
possibilità commerciali connesse con l’attività
imprenditoriale agricola. |
LAVORI PUBBLICI:
Appalti, un soccorso istruttorio. L'impresa torna
in gioco. Se iscritta in banca dati Anac.
Tar Palermo: l'azienda può produrre in un secondo
momento la documentazione.
Può essere il soccorso istruttorio a salvare l'azienda che
punta all'appalto pubblico, ma solo se si è iscritta per
tempo alla banca dati dell'Anac, l'autorità nazionale
anticorruzione: il fatto di aver adempiuto all'obbligo di
registrazione consente all'impresa candidata di produrre
soltanto in un secondo momento il PassOe, vale a dire il
documento che attesta la possibilità di verificare
l'operatore economico con Avcpass, il sistema di controllo
dei requisiti per ottenere lavori pubblici. Diversamente
l'azienda sarà esclusa dalla procedura.
È quanto emerge dalla
sentenza 15.01.2016 n. 150, pubblicata dalla I
Sez. del TAR Sicilia-Palermo.
Dal 01.07.2014 un'impresa che vuole partecipare alle
procedure pubbliche deve iscriversi alla banca dati dell'Anac,
che apre un fascicolo virtuale per ogni operatore economico:
grazie alle credenziali ottenute l'azienda inserisce di
volta in volta il Cig, codice che identifica la gara che la
interessa, per poter generare il PassOe, lo strumento
necessario alle stazioni appaltanti per verificare tramite
interfaccia web che la società candidata ha le carte in
regola. E il pass deve essere presentato dall'impresa
concorrente nella domanda per partecipare alla selezione.
Una volta perfezionata l'iscrizione al registro Anac, il
prerequisito è soddisfatto e il PassOe può essere
qualificato come «dichiarazione», in quanto serve al
controllo dei requisiti di partecipazione e in quanto tale
risulta funzionalmente analogo alle «dichiarazioni
sostitutive attestanti il possesso dei requisiti» di cui
al codice dei contratti pubblici (articolo
ItaliaOggi Sette del 29.02.2016 - tratto da
www.centrostudicni.it).
---------------
MASSIMA
Quanto al merito, non ha pregio la censura, svolta dalle
ricorrenti, circa il metodo seguito per il calcolo
dell’anomalia.
Il Collegio, sul punto, rileva che
giurisprudenza consolidata, anche di secondo grado
(da ultimo, C.G.A. 13.06.2013, n. 575 e 09.06.2014, n. 306;
C.d.S., V, 12.11.2009, n. 7042 e 22.01.2015, n. 268)
precisa che, in assenza di puntuale e specifica
disposizione del bando, per il calcolo della soglia di
anomalia deve considerarsi tutta l’offerta, senza
troncamenti, giacché “ogni arrotondamento costituisce una
deviazione dalle regole matematiche da applicare in via
automatica; ciò premesso, deve ritenersi che gli
arrotondamenti siano consentiti solo se espressamente
previsti dalle norme speciali della gara”
(C.d.S., V, 12.11.2009, n. 7042).
Nella specie, la lex specialis (cfr. disciplinare di
gara, art. 3) prevedeva che l’offerta economica dovesse
indicare “l’importo complessivo finale offerto per
l’esecuzione dei lavori … ed il conseguente ribasso
percentuale” rispetto all’ammontare posto a base di
gara; la lex specialis, peraltro, proseguiva
precisando che “la percentuale di ribasso potrà riportare
fino ad un massimo di tre decimali. In caso di offerte con
quattro o più decimali la terza cifra decimale sarà
arrotondata all’unità superiore qualora la quarta cifra
decimale sia pari o superiore a cinque”.
Nessuna simile disposizione veniva dettata in relazione al
giudizio di anomalia, per il quale il disciplinare (art. 4)
si limitava a rimandare ai criteri previsti dall’art. 86 del
D.Lgs. 163/2006, che, come noto, riferendosi alla “media
aritmetica dei ribassi percentuali di tutte le offerte
ammesse”, fa evidentemente riferimento all’offerta come
predisposta dal singolo concorrente, senza alcun intervento
manipolativo da parte del seggio di gara.
In assenza, dunque, di alcuna previsione,
negli atti di gara, dell’adozione di criteri particolari
(quali l’arrotondamento od il troncamento) per
l’individuazione della soglia di anomalia, deve prendersi in
considerazione l’offerta così come formulata dal
concorrente, sia perché, altrimenti, sarebbe indebitamente
manipolata la volontà negoziale espressa dai partecipanti e
potenzialmente falsato l’esito della procedura, sia perché
il giudizio di anomalia risponde ad esigenze (eliminazione
di offerte che appaiano, in base ad un confronto comparativo
con la media delle altre, economicamente ed
imprenditorialmente insostenibili) ed è retto da criteri
(individuazione, normativamente indirizzata, di una soglia
di valore al di sotto della quale si apre l’area della
potenziale anomalia economica) diversi da quelli che
presiedono alla selezione comparativa dei concorrenti in
base al (mero) confronto algebrico fra le rispettive
offerte.
E’, inoltre, destituita di fondamento l’argomentazione,
svolta dai ricorrenti, secondo la quale il disciplinare di
gara, ove prescrive che “la percentuale di ribasso potrà
riportare fino ad un massimo di tre decimali”, limita e
conforma per così dire a monte le modalità di formulazione
dell’offerta ad ogni effetto, ivi incluso il calcolo di
anomalia.
A ben vedere, infatti, l’offerta, a tenore del disciplinare,
è costituita dall’indicazione dello “importo complessivo
finale offerto per l’esecuzione dei lavori”, cui deve
essere affiancato pure “il conseguente ribasso percentuale”,
quale mera proiezione frazionaria dell’offerta rispetto
all’importo a base d’asta; tale ribasso, pertanto, concreta
una mera modalità di espressione (appunto relativa e
frazionaria) dell’offerta, comunque rappresentata
dall’ammontare dei lavori espresso in valore monetario
assoluto.
La stazione appaltante ha, poi, ritenuto di limitare le
cifre decimali di tale ribasso, con ogni evidenza per
finalità di semplificazione di calcolo ed omogeneizzazione
delle offerte, ma ciò non autorizza a ritenere che tale
manipolazione delle offerte possa valere anche ai (diversi)
fini del giudizio di anomalia, per il quale deve prendersi
in considerazione, ai sensi del richiamato art. 86 D.Lgs.
163/2006, l’offerta, qui rappresentata dal valore assoluto
dei lavori e, ai fini de quibus, da una formula
percentuale indicante il conseguente ribasso che, in assenza
di puntuali e specifiche disposizioni derogatorie della
lex specialis, non può subire interventi manipolativi da
parte dell’Amministrazione.
E’, altresì, infondata la censura relativa all’assunta
violazione dell’art. 38, comma II-bis, D.Lgs. 163/2006.
Osserva, anzitutto, il Collegio che la
disposizione in parola, introdotta dal D.L. 90/2014, collega
la definitiva cristallizzazione del calcolo della soglia di
anomalia al completamento della “fase di ammissione,
regolarizzazione o esclusione delle offerte”; tale “fase”,
in considerazione delle novità normative contestualmente
apportate dal D.L. 90 al testo del codice appalti, deve a
sua volta essere riferita, con ogni verosimiglianza,
all’effettiva attivazione del sub-procedimento del “soccorso
istruttorio”, del resto delineato dalla novella quale
dovere procedimentale gravante sul seggio di gara
(in termini, TAR Palermo, I, 03.03.2015, n. 583, da ultimo
confermata da C.G.A. 22.12.2015, n. 740).
Ove si dovesse argomentare diversamente,
peraltro, non avrebbe senso né il richiamo alla “regolarizzazione”
(introdotta, quale principio generale, proprio dall’attuale
disciplina dell’istituto in commento) né, prima ancora,
l’utilizzo del termine “fase”, giacché, ove si
prescinda dal soccorso istruttorio, la “ammissione … o
esclusione delle offerte” si concentrano ed esauriscono
in un’unica determinazione provvedimentale.
Inoltre,
ritiene il Collegio, la norma in parola
deve comunque essere interpretata in maniera compatibile sia
con il fondamentale valore della continuità del potere
pubblico, precipitato tecnico del principio costituzionale
di buon andamento dell’azione amministrativa, sia con
basilari esigenze di logica e ragionevolezza: in
particolare, pare illogico che, già prima
dell’aggiudicazione definitiva, l’Amministrazione sia tout
court privata del potere di emenda, la cui attivazione
consenta alla stazione appaltante, in ipotesi quale quella
in esame, di evitare di emanare un atto di aggiudicazione
illegittimo, con conseguente prospettica esposizione ad
istanze risarcitorie.
Nel caso di specie, dunque, la revoca dell’aggiudicazione
provvisoria ed il conseguente ricalcolo della soglia di
anomalia non presentano i censurati profili di
illegittimità, sia perché adottati prima della conclusione
della “fase di ammissione, regolarizzazione o esclusione
delle offerte”, dunque in un momento in cui la soglia di
anomalia non era ancora normativamente immodificabile, sia,
comunque, perché derivanti dal riconoscimento, da parte del
seggio di gara, di un previo errore proprio nelle modalità
di computo di detta soglia, cui il detto ricalcolo è
finalizzato, nel doveroso perseguimento dell’interesse
pubblico, a porre rimedio.
Fondate, invece, le doglianze in punto di mancata
produzione, da parte della contro-interessata, del
protocollo di legalità e del PassOE.
Rileva il Collegio che, in base a quanto documentato
dall’Amministrazione in adempimento all’incombente
istruttorio disposto con ordinanza n. 851, la
contro-interessata, debitamente richiesta dalla stazione
appaltante con la procedura del soccorso istruttorio, ha
prodotto il documento PassOE (in origine non allegato
all’offerta) in data 20.11.2014.
Il Collegio osserva, in proposito, che “AVCpass”
è un nuovo sistema di verifica dei requisiti di
partecipazione alle gare pubbliche, in attuazione dell’art.
6-bis, comma I, del D.Lgs. 163/2006: in virtù di tale
disposizione, come noto, le stazioni appaltanti sono
obbligate ad acquisire, con modalità informatiche, la
documentazione comprovante i requisiti di carattere
generale, tecnico-organizzativo ed economico-finanziario
dichiarati dai concorrenti nelle domande di partecipazione a
gare pubbliche esclusivamente attraverso la “Banca Dati
Nazionale dei Contratti Pubblici – B.D.N.C.P.”,
istituita presso l’attuale A.N.A.C..
A partire dal 01.07.2014
(a seguito di proroga da ultimo disposta con la L.
27.02.2014, n. 15, di conversione, con modificazioni, del
D.L. 30.12.2013 n. 150, nel corpo del cui art. 9 ha inserito
il comma 15-ter), qualunque operatore
economico che intenda partecipare ad una gara pubblica è
tenuto (ai sensi
dell’art. 6-bis, D.Lgs. 163/2006, cui ha dato applicazione
la Deliberazione A.N.A.C. n. 111 del 20.12.2012)
a registrarsi ai servizi informatici dell’A.N.A.C.
seguendo i manuali dalla stessa messi a disposizione: la
registrazione comporta la creazione di un fascicolo virtuale
dell’operatore economico. A seguito dell’accesso al sistema
con le credenziali ricevute dall’Autorità, l’operatore
economico deve inserire, volta per volta, il Codice
Identificativo della Gara (il “C.I.G.”) cui intende
partecipare per poter generare il relativo “PassOE”,
strumento necessario alle stazioni appaltanti per procedere
alla verifica, tramite interfaccia web, dei menzionati
requisiti e che, dunque, deve essere incluso nella
documentazione amministrativa prodotta dal concorrente in
uno con la domanda di partecipazione.
Mentre, dunque, la registrazione ai servizi informatici
dell’A.N.A.C. è un atto unico, la generazione del PassOE
deve essere ripetuta per ogni gara.
Ora, nella specie risulta che il PassOE (richiesto a pena di
esclusione dal disciplinare di gara) è stato prodotto dalla
contro-interessata, in esito a soccorso istruttorio, in data
(20.11.2014) successiva alla scadenza del termine di
presentazione della domanda (27.10.2014), giacché, a tale
data, “la procedura per l’ottenimento dello stesso non
era stata completata” (così la stazione appaltante si è
espressa nell’atto di soccorso istruttorio).
Peraltro, in esito all’ordinanza istruttoria disposta in
esito all’udienza pubblica del 10.07.2015, l’A.N.A.C. ha
reso noto che la registrazione presso il sistema da parte
della contro-interessata è avvenuta in data 13.11.2014 e,
pertanto, “l’impresa è abilitata da tale data alla
produzione e rilascio del PassOE”.
Risulta, quindi, che, al momento della scadenza del termine
per la partecipazione alla gara, la contro-interessata non
era ancora iscritta al sistema “AVCpass” e, quindi,
non poteva presentare –né, prima ancora, ottenere– il PassOE.
Ritiene, in proposito, il Collegio che l’elemento dirimente,
ai fini della legittima ammissione alla gara, è proprio la
data di effettuazione della registrazione presso i servizi
informatici dell’A.N.A.C.: se, alla
scadenza del termine di presentazione della domanda, la
registrazione sia già stata perfezionata, il PassOE può
essere prodotto pure in seguito (in particolare, in esito
alla procedura del soccorso istruttorio), giacché il
prerequisito fondamentale (appunto, la registrazione) è
stato perfezionato e, dunque, ai sensi e per gli effetti
dell’art. 38, comma II-bis, D.Lgs. 163/2006, il PassOE può
essere qualificato come “dichiarazione”, in
considerazione della sua natura di strumento necessario al
seggio di gara per verificare il possesso, in capo al
concorrente, dei requisiti di partecipazione e, come tale,
funzionalmente analogo alle “dichiarazioni sostitutive
attestanti il possesso dei requisiti” di cui al comma II
dell’art. 38, cui rimanda il mentovato comma II-bis.
In caso contrario, ossia di registrazione
non completata prima della scadenza del termine per
partecipare alla gara, non si ravvisano margini per
procedere al soccorso istruttorio, perché non si tratta più
di rendere ex novo, ovvero di integrare o regolarizzare
ex post, una “dichiarazione”, ma, viceversa, di
adempiere tardivamente ad un obbligo di legge
(conforme TAR Campania–Salerno, II, 23.03.2015, n. 663,
emessa in un caso in cui era documentato che, alla scadenza
del termine per la presentazione delle offerte, la società
non si era ancora registrata ai servizi informatici
dell’A.N.A.C.).
L’esposta conclusione non cambia se si pone
mente al comma 1-ter dell’art. 46 del D. Lgs. 163/2006, che
parla di “ipotesi di mancanza, incompletezza o
irregolarità degli elementi e delle dichiarazioni, anche di
soggetti terzi, che devono essere prodotte dai concorrenti”,
mentre qui, alla data di scadenza del termine per proporre
la domanda di partecipazione, non mancavano semplicemente “elementi
o dichiarazioni”, bensì difettava in rerum natura
la possibilità stessa di produrli (data dalla sola
registrazione).
L’ammissione della contro-interessata alla gara (e,
conseguentemente, l’aggiudicazione in suo favore) è,
peraltro, illegittima anche sotto un ulteriore profilo.
Risulta, infatti, dai chiarimenti qui forniti
dall’Amministrazione che non è stata attivata la procedura
del soccorso istruttorio in relazione al protocollo di
legalità, anch’esso richiesto dal disciplinare di gara a
pena di esclusione e non prodotto dalla contro-interessata.
In proposito, il Collegio rileva che, ad
aggiudicazione definitiva disposta, dunque a procedimento
amministrativo concluso, non è evidentemente più possibile
attivare il soccorso istruttorio, fase strutturalmente
endo-procedimentale finalizzata proprio a consentire la
legittima conclusione del procedimento di selezione del
contraente e, dunque, ontologicamente non percorribile “ora
per allora”.
Del resto, la suggestiva argomentazione per cui, così
ragionando, si fa di fatto pagare al concorrente l’omissione
di un adempimento doveroso da parte della stazione
appaltante non vale ad elidere la circostanza per cui
l’omissione di un adempimento doveroso ai fini di gara
(appunto, la produzione del protocollo di legalità) è,
comunque, prima di tutto stata del concorrente; in termini
più generali, inoltre, l’aggiudicazione disposta senza la
previa (doverosa) regolarizzazione della posizione
dell’aggiudicatario è, oggettivamente e strutturalmente,
illegittima.
L’aggiudicazione impugnata è, pertanto, illegittima e deve
essere annullata.
Sussistono, inoltre, i presupposti per la configurazione
della responsabilità aquiliana della stazione appaltante:
l’illegittima ammissione (recte, la mancata
esclusione) della contro-interessata ha, infatti, impedito
alla ricorrente C.M.R. (seconda classificata), cui poi è
subentrata la Aurora, l’ottenimento dell’appalto, mentre per
condivisibile orientamento, non è necessario provare la
colpa dell’Amministrazione (cfr., da ultimo, C.d.S., VI,
15.09.2015, n. 4283, punto 13.2; v. anche C.d.S., III,
10.04.2015, n. 1839: “in materia di
risarcimento da mancato affidamento di gare pubbliche di
appalto, non è necessario provare la colpa
dell’amministrazione aggiudicatrice, poiché il rimedio
risarcitorio risponde al principio di effettività previsto
dalla normativa comunitaria e le garanzie di trasparenza e
di non discriminazione operanti in materia di aggiudicazione
dei pubblici appalti fanno sì che qualsiasi violazione degli
obblighi di matrice comunitaria consente alla impresa
pregiudicata di ottenere un risarcimento dei danni, a
prescindere da un accertamento in ordine alla colpevolezza
dell’ente e alla imputabilità soggettiva della lamentata
violazione”).
La domanda di risarcimento in forma specifica, tuttavia, non
può essere accolta, alla luce dell’intervenuta ultimazione
dei lavori, attestata dalla documentazione prodotta dalla
contro-interessata alla pubblica udienza del 18.12.2015.
La ricorrente Aurora, dunque, quale soggetto che avrebbe
beneficiato di una corretta condotta dell’Amministrazione,
ha diritto al risarcimento per equivalente del danno “subito
e provato” (cfr. art. 124 c.p.a.).
Rileva, in proposito, il Collegio che l’Amministrazione, nel
corso del giudizio, non ha contestato, neppure in forma
generica, che Aurora disponga effettivamente “dei
requisiti di ordine generale, di ordine speciale, nonché dei
requisiti necessari in base agli eventuali criteri selettivi
utilizzati dalla stazione appaltante ai sensi dell'articolo
62” (cfr. art. 51 D.Lgs. 163/2006), per la dimostrazione
dei quali, oltretutto, consta che Aurora abbia prodotto alla
stazione appaltante, in uno con la comunicazione del proprio
subentro nella posizione procedimentale di C.M.R., la
necessaria documentazione.
In ordine alle voci di danno concretamente riconoscibili,
osserva il Collegio che niente spetta a titolo di danno
emergente, non solo non provato né quantificato ma, prima
ancora, neppure allegato (C.d.S., V, 08.08.2014, n. 4242).
Quanto al lucro cessante, può riconoscersi alla ricorrente
Aurora, pur in difetto di una qualunque sua allegazione sul
punto, un mancato guadagno pari presuntivamente (e
prudenzialmente) al 5% del complessivo importo a suo tempo
offerto da C.M.R. per l’esecuzione dei lavori: anche in
assenza di una puntuale prova in merito, infatti,
costituisce fatto notorio la circostanza che,
dall’esecuzione di un appalto, un operatore economico trae,
secondo l’id quod plerumque accidit, un utile. La
(ragionevolmente sicura) affermazione della ricorrenza,
nell’an, di un danno consente, pertanto, al Collegio
il ricorso al meccanismo presuntivo di cui all’art. 1226 c.c..
Niente, invece, spetta (in ossequio alla natura soggettiva
del giudizio amministrativo) a titolo di danno curriculare,
non allegato e, prima ancora, non specificamente richiesto,
quale voce autonoma di pregiudizio, dalle ricorrenti
(C.d.S., V, 22.01.2015, n. 285 e 01.08.2015, n. 3769). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
carattere precario di un’opera edilizia va valutata con
riferimento non alle modalità costruttive bensì alla
funzione cui essa è destinata, con la conseguenza che non
possono essere considerati quali opere destinate a
soddisfare esigenze meramente temporanee quelle adibite ad
un utilizzo perdurante nel tempo, tale per cui l'alterazione
del territorio –circostanza decisiva ai fini
dell’autorizzazione paesaggistica- non può essere
considerata irrilevante.
Da ciò consegue che, laddove si realizzi un manufatto
destinato ad un uso prolungato nel tempo, anche in assenza
di immobilizzazione al suolo o al solaio, la precarietà
dello stesso non dipende dai materiali impiegati o dal suo
sistema di ancoraggio al suolo, bensì dall'uso al quale il
manufatto è rivolto e va quindi valutata alla luce
dell'obiettiva ed intrinseca destinazione naturale
dell’opera, senza che rilevino le finalità, ancorché
temporanee, date o auspicate dai proprietari.
---------------
Come chiarito da questa stessa Sezione, in adesione ad un
indirizzo giurisprudenziale in materia consolidato, il
carattere precario di un’opera edilizia va valutata con
riferimento non alle modalità costruttive bensì alla
funzione cui essa è destinata, con la conseguenza che non
possono essere considerati quali opere destinate a
soddisfare esigenze meramente temporanee quelle adibite ad
un utilizzo perdurante nel tempo, tale per cui l'alterazione
del territorio –circostanza decisiva ai fini
dell’autorizzazione paesaggistica- non può essere
considerata irrilevante (TAR Napoli, sez. III, 14.05.2013,
n. 2505).
Da ciò consegue che, laddove si realizzi un manufatto
destinato ad un uso prolungato nel tempo, anche in assenza
di immobilizzazione al suolo o al solaio, la precarietà
dello stesso non dipende dai materiali impiegati o dal suo
sistema di ancoraggio al suolo, bensì dall'uso al quale il
manufatto è rivolto e va quindi valutata alla luce
dell'obiettiva ed intrinseca destinazione naturale
dell’opera, senza che rilevino le finalità, ancorché
temporanee, date o auspicate dai proprietari (TAR
Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 13.01.2016 n. 137 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il passo carrabile non comprende la sbarra.
I proprietari di alcuni garage che ottengono le licenza per
passo carrabile da posizionare all'ingresso del condominio
non possono installare anche una sbarra automatica
finalizzata a regolare meglio l'accesso dei veicoli ai box.
Anche se la strada è cieca infatti si tratta pur sempre di
una via pubblica che non può essere chiusa in modalità
arbitraria.
Lo ha chiarito il TAR Liguria, Sez. II, con la
sentenza 11.01.2016 n. 17.
I proprietari di alcune autorimesse posizionate in fondo a
una strada senza uscita hanno ottenuto dal comune
l'autorizzazione al posizionamento di un passo carrabile in
prossimità del varco di accesso al fabbricato.
Conseguentemente gli interessati hanno installato anche una
sbarra automatica per regolare meglio l'accesso alla zona
dei garage. A seguito di alcune segnalazioni dei vicini il
comune ha ordinato la rimozione immediata della sbarra,
posizionata in un'area pubblica, annullando anche la licenza
di passo carrabile.
Contro questa severa misura gli interessati hanno proposto
ricorso ai giudici amministrativi. La revoca della licenza
di passo carrabile è illegittima perché anche se si tratta
di una strettoia stradale pubblica la necessità di accedere
ai fabbricati laterali deve essere riconosciuta ai
proprietari dei veicoli. Ma non è possibile installare una
sbarra sulla stessa area dove insiste un passo carrabile. Al
massimo potranno essere utilizzati dei dissuasori di sosta
regolarmente autorizzati (articolo ItaliaOggi Sette del
22.02.2016).
---------------
MASSIMA
Occorre premettere come, alla luce delle emergenze
documentali in atti (cfr. la documentazione di progetto dei
box – doc. 10 delle produzioni 01.06.2015 di parte comunale,
nonché il doc. 15 delle produzioni 04.11.2015), non possa
seriamente contestarsi la natura pubblica della porzione di
via Toti antistante i box, cui si accede per il tramite del
passo carraio.
Stando così le cose,
pare al collegio che la revoca dell’autorizzazione per passo
carrabile sia illegittima: la proprietà pubblica del sedime
del varco non fa infatti venire meno il presupposto
dell’autorizzazione, che è costituito, ex art. 22 del codice
della strada, proprio dalla necessità di accedere –tramite
esso– ai fabbricati laterali (nel caso di specie, i box).
Infondato è invece il ricorso avverso l’ingiunzione di
rimozione della sbarra.
Premesso che il provvedimento di autorizzazione revocato
(doc. 5 delle produzioni 13.5.2015 di parte ricorrente) non
reca alcuna menzione della sbarra, che dunque è stata
abusivamente installata, è evidente come la stessa precluda
di fatto l’utilizzo pubblico del tratto di via abusivamente
intercluso, per esempio per effettuare inversione di marcia
(specialmente ai mezzi di soccorso).
L’ingiunzione di rimozione della sbarra, non consistendo in
un atto di ritiro, non deve del resto necessariamente
motivare in ordine alla sussistenza –ex art. 21-nonies L. n.
241/1990– di un interesse pubblico prevalente, interesse che
pure è insito nella finalità di ripristino dell’uso pubblico
della strada, ben potendo il contrapposto interesse privato
all’effettivo utilizzo dell’accesso carraio essere
adeguatamente tutelato altrimenti, per esempio mediante la
posa di dissuasori negli spazi impropriamente utilizzati per
la sosta dei veicoli, previa richiesta di occupazione del
suolo pubblico ex art. 46, comma 3, del D.P.R. 16.12.1992,
n. 495
(regolamento di esecuzione e di attuazione del nuovo codice
della strada). |
EDILIZIA PRIVATA: Sanatoria straordinaria rigorosa.
Tar Toscana sull'ammissione.
L'ammissione alla sanatoria straordinaria ha presupposti
rigorosamente individuati dalla legge, tra cui la
realizzazione delle opere abusive entro il termine fissato
dalla legge.
A sottolinearlo sono stati i giudici della III sez. del
TAR Toscana con la
sentenza
22.12.2015 n. 1781.
Secondo i giudici amministrativi fiorentini, qualora tali
presupposti individuati dalla legge non vengano rispettati,
il diniego sarà legittimo e ciò non potrà essere superato in
ragione di una asserita disparità di trattamento.
Nel caso sottoposto all'attenzione dei giudici toscani, la
parte ricorrente censurava la motivazione dei dinieghi di
sanatoria laddove essa poneva in evidenza la mancata
ultimazione dei manufatti alla data di scadenza del condono,
rilevando in contrario che i manufatti stessi alla data del
31.03.2003 erano dotati di copertura e tamponature in
lamiera e quindi compiuti secondo quanto previsto dalla
legge n. 47 del 1985.
Secondo il Tar la censura era infondata: infatti risultava
dalla documentazione versata in atti, dalle foto prodotte e
dalla stessa ricostruzione fattuale operata dalle parti che
i manufatti originariamente realizzati e oggetto della
domanda di condono del 10.12.2004 erano costituiti da
«baracche con struttura in elevazione realizzata in
profilati metallici, struttura portante la copertura in
profilati metallici e pannelli ondulati a costituire sia la
copertura che le tamponature laterali».
Gli stessi ricorrenti affermavano però nei ricorsi che il
manufatto originario era stato nel tempo oggetto di
modifiche. In realtà dall'esame della documentazione e delle
fotografie in atti risultava che le baracche originarie
avevano subito una profonda trasformazione che le aveva rese
opere profondamente diverse da quelle originarie e non più
riconducibili ai manufatti di cui era stato chiesto il
condono.
Lo stesso tribunale amministrativa aveva sottolineato che se
è possibile, in pendenza di condono, il semplice mutamento
della tamponatura del manufatto, non è tuttavia legittimo un
intervento in corso di procedimento di sanatoria che renda
irriconoscibile il manufatto originario, come nel caso di
inserimento di una struttura in cemento armato (articolo ItaliaOggi
Sette del 29.02.2016). |
INCARICHI PROFESSIONALI: La prescrizione non si ferma.
Il caso del cliente disinteressato alla pratica.
Se il cliente non mostra interesse per la propria pratica e
non sollecita l'avvocato, la prescrizione maturerà comunque.
Lo dice la III Sez. civile della Corte di Cassazione con
sentenza
21.12.2015 n. 25613.
I giudici hanno
altresì affermato che nel caso in cui la decisione impugnata
sia fondata su una pluralità di ragioni, tra di loro
distinte e tutte autonomamente sufficienti a sorreggerla sul
piano logico-giuridico, sarà necessario, perché si giunga
alla cassazione della pronuncia, che il ricorso si rivolga
contro ciascuna di queste, in quanto, in caso contrario, le
ragioni non censurate sortirebbero l'effetto di mantenere
ferma la decisione basata su di esse (si veda anche: Cass.
20.11.2009, n. 24540).
I giudici di piazza Cavour sono
stati chiamati ad esprimersi sul seguente caso: con sentenza
la Corte di appello, rigettando l'appello proposto da un
cliente nei confronti del proprio avvocato, confermava la
sentenza del Tribunale di rigetto della domanda proposta
dall'appellante per il risarcimento dei danni conseguenti
all'assoluta inerzia serbata dal professionista in ordine al
mandato conferitogli di procedere ad azione esecutiva.
Avverso detta sentenza l'assistito proponeva ricorso per
cassazione.
Secondo gli Ermellini, non è stata affatto
assunta come dies a quo della prescrizione la data
dell'inadempimento del mandato professionale, ma è stata
considerato un ulteriore lasso temporale, individuato nel
decorso di un anno da quello in cui avrebbe potuto essere (e
non venne) intrapresa l'azione esecutiva per cui era stato
conferito il mandato, pertanto escludendo che, dopo tale
data, il cliente del legale potesse (giustificatamente)
accampare l'inconsapevolezza dell'inerzia del professionista
e della sua rilevanza causale.
In base, poi ad un
consolidato orientamento giurisprudenziale, richiamato dai
giudici di piazza Cavour, il significato da attribuirsi
all'espressione «verificarsi del danno» di cui all'art. 2935
cod. civ. è stato specificato nel senso che il danno si
manifesta all'esterno quando diviene «oggettivamente
percepibile e riconoscibile» anche in relazione alla sua
rilevanza giuridica.
E quindi, il suddetto principio in tema
di exordium praescriptionis «non apre la strada»,
secondo gli Ermellini, «a una rilevanza della mera
conoscibilità soggettiva del soggetto leso e che l'indagine,
circa l'evolversi nel tempo delle conseguenze del fatto
illecito o dell'inadempimento, deve essere ancorata a
rigorosi dati obiettivi» (articolo ItaliaOggi
Sette del 29.02.2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
Non può aver rilievo la circostanza che le opere
in questione sono state realizzate da parecchi anni, in
quanto per opinione unanime della giurisprudenza il mero
decorso del tempo non è di per sé idoneo ad ingenerare un
legittimo affidamento del privato.
Il potere di irrogare sanzioni in materia urbanistica ed
edilizia, infatti, può essere esercitato in ogni tempo,
atteso che la legge non lo sottopone a termini di
prescrizione o di decadenza, riguardando una situazione di
illiceità permanente, ossia una situazione di fatto
attualmente contra jus.
Né i provvedimenti attraverso i quali l’autorità preposta
alla tutela del territorio provvede alla repressione degli
illeciti amministrativi in materia edilizia ed urbanistica
richiedono alcuna particolare motivazione volta ad
evidenziare le specifiche ragioni di pubblico interesse che
impongano di dar corso al ripristino dello stato dei luoghi
ed a comparare tale interesse pubblico con il sacrificio
imposto al privato, in quanto la repressione degli abusi
edilizi si connota come un preciso obbligo
dell'Amministrazione, la quale non gode di alcuna
discrezionalità al riguardo.
E' stato peraltro anche osservato che in tema di abusi
edilizi ed urbanistici si è in presenza di illeciti di
carattere permanente, caratterizzati dall’obbligo,
perdurante nel tempo, di ripristinare “secundum jus” lo
stato dei luoghi, con l’ulteriore conclusione che se
l’Autorità emana un provvedimento repressivo di demolizione
non emana un atto “a distanza di tempo” dall’abuso, ma
reprime una situazione antigiuridica ancora sussistente con
l’evidente inesistenza di alcun obbligo di motivare la
scelta di amministrazione attiva, discendendo l’attività
provvedimentale sanzionatoria da un preciso potere
repressivo in relazione al quale l’Autorità non esercita
alcuna discrezionalità.
---------------
Ricorso straordinario al Presidente della Regione siciliana
proposto da VI.SA. ed altri avverso ordinanza del Comune di
Siracusa 03.09.2013, n. 183 di demolizione di opere edilizie
abusivamente realizzate.
...
CONSIDERATO:
Il ricorso in esame, regolare sotto il profilo fiscale,
appare ricevibile essendo stato notificato entro il termine
di centoventi giorni dalla data di notifica ai ricorrenti
del provvedimento impugnato. Esso è tuttavia infondato, come
rilevato anche dall’Ufficio legislativo e legale della
Presidenza della Regione.
Nel merito, con riguardo al primo motivo di gravame si
osserva che non può aver rilievo la circostanza che le opere
in questione sono state realizzate da parecchi anni, in
quanto per opinione unanime della giurisprudenza il mero
decorso del tempo non è di per sé idoneo ad ingenerare un
legittimo affidamento del privato. Il potere di irrogare
sanzioni in materia urbanistica ed edilizia, infatti, può
essere esercitato in ogni tempo, atteso che la legge non lo
sottopone a termini di prescrizione o di decadenza,
riguardando una situazione di illiceità permanente, ossia
una situazione di fatto attualmente contra jus (Cfr.: C.G.A.,
Sezioni riunite, 03.11.2009, n. 351/09; 17.04.2012,
n. 1918/11).
Né i provvedimenti attraverso i quali
l’autorità preposta alla tutela del territorio provvede alla
repressione degli illeciti amministrativi in materia
edilizia ed urbanistica richiedono alcuna particolare
motivazione volta ad evidenziare le specifiche ragioni di
pubblico interesse che impongano di dar corso al ripristino
dello stato dei luoghi ed a comparare tale interesse
pubblico con il sacrificio imposto al privato, in quanto la
repressione degli abusi edilizi si connota come un preciso
obbligo dell'Amministrazione, la quale non gode di alcuna
discrezionalità al riguardo (cfr. C.G.A., Sezioni riunite,
29.11.2011, n. 1701; 29.01.2013, n. 1039/12).
E' stato peraltro anche osservato che in tema di abusi
edilizi ed urbanistici si è in presenza di illeciti di
carattere permanente, caratterizzati dall’obbligo,
perdurante nel tempo, di ripristinare “secundum jus” lo
stato dei luoghi, con l’ulteriore conclusione che se
l’Autorità emana un provvedimento repressivo di demolizione
non emana un atto “a distanza di tempo” dall’abuso, ma
reprime una situazione antigiuridica ancora sussistente
(cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 16.04.2010, n. 2160)
con l’evidente inesistenza di alcun obbligo di motivare la
scelta di amministrazione attiva, discendendo l’attività provvedimentale sanzionatoria da un preciso potere
repressivo in relazione al quale l’Autorità non esercita
alcuna discrezionalità (cfr. C.G.A., Sezioni riunite, 26.05.2015, n. 608/14) (CGARS,
parere 16.12.2015 n. 1225 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza ha affermato in più
occasioni che “La recinzione di un fondo non può essere
ostacolata dall'esistenza di una previsione vincolistica del
piano regolatore, in quanto il legittimo esercizio dello jus
excludendi, di per sé, non contrasta con la detta
previsione, non avendo per fine quello di imprimere all'area
una destinazione diversa da quella prevista dalle norme
urbanistiche e non limitando in alcun modo l'amministrazione
nell'esercizio dei poteri, eventualmente ablativi, che dal
vincolo discendono”.
---------------
Entrambi i ricorsi
risultano essere fondati.
L’ordine di rimozione della si fonda sull’art. 84-bis della
L.R.T. 1/2005 che consente al comune di esercitare i propri
poteri repressivi anche dopo il trentesimo giorno dalla
presentazione della s.c.i.a. nel caso in cui l’opera
segnalata non risulti conforme agli strumenti urbanistici,
oppure quando essa si fondi su una asseverazione non
rispondente al vero.
La Sezione con ordinanza n. 469 del 2015 ha espresso dubbi
sulla costituzionalità della predetta norma rimettendo la
relativa questione alla Consulta.
Nel caso di specie, tuttavia, non è necessario riproporre
nuovamente la questione di costituzionalità attesa la
fondatezza del terzo motivo di ricorso.
La giurisprudenza ha, invero, affermato in più occasioni che
“La recinzione di un fondo non può essere ostacolata
dall'esistenza di una previsione vincolistica del piano
regolatore, in quanto il legittimo esercizio dello jus
excludendi, di per sé, non contrasta con la detta
previsione, non avendo per fine quello di imprimere all'area
una destinazione diversa da quella prevista dalle norme
urbanistiche e non limitando in alcun modo l'amministrazione
nell'esercizio dei poteri, eventualmente ablativi, che dal
vincolo discendono” (TAR Pescara, I, 15/01/2015 n. 26;
TAR Milano, II, 23/03/2012 n. 908).
Sicché, nel caso di specie non sussistevano i presupposti
per l’esercizio del potere repressivo tardivo previsti
dall’art. 84-bis della L.R.T. n. 1/2005 atteso che l’opera
oggetto di s.c.i.a. non poteva ritenersi incompatibile con
gli strumenti urbanistici approvati e che anche la
contestata falsità della rappresentazione cartografica
contenuta nella asseverazione si profilava del tutto
ininfluente ai fini della conformità urbanistica della
stessa
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 14.12.2015 n. 1703 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Come già altre volte affermato dalla
Sezione, l’interesse pubblico all’annullamento in autotutela
dei permessi edilizi non può considerarsi in re ipsa tutte
le volte in cui vi sia stata una violazione dei parametri
urbanistici previsti dal PRG, dovendo l’amministrazione di
volta in volta specificare quale concreto pregiudizio abbia
subito per effetto dell’opera realizzata l’assetto del
territorio astrattamente prefigurato dallo strumento
generale.
Né l’annullamento della variante al permesso di costruire
può basarsi sulla asserita falsità della asseverazione
allegata all’istanza presentata.
Invero, l’erroneità della asseverazione allegata alla
istanza tesa ad ottenere un titolo edilizio può divenire
presupposto per l’annullamento d’ufficio dello stesso solo
nel caso in cui la rappresentazione di determinati stati di
fatto sia obiettivamente idonea ad indurre in errore
l’amministrazione.
Ciò non accade tutte le volte in cui dal contenuto del
progetto, della relazione tecnica, o anche da precedenti
atti riferibili al medesimo procedimento appaia chiara la
ragione che ha indotto il professionista ad adottare una
certa impostazione tecnica o giuridica che a posteriori può
anche rivelarsi errata. In tali ipotesi, infatti, l’errore
giuridico o tecnico è sempre evincibile dall’esame del
progetto o degli atti ad esso correlati; esame che
l’amministrazione è sempre tenuta a compiere nonostante
l’asseverazione non avendo questa l’effetto di attenuare i
controlli che la legge pone a sua carico.
---------------
Anche il ricorso per motivi aggiunti risulta essere fondato.
L’impugnato annullamento d’ufficio della variante al
permesso di costruire che ha assentito l’ampliamento del
fabbricato non risulta supportato da una motivazione
relativa all’interesse pubblico concreto avuto di mira
dall’amministrazione, tale non potendo considerarsi il
generico riferimento all’esigenza di impedire trasformazioni
urbanistiche non consentite dal vigente piano regolatore.
Invero, come già altre volte affermato dalla Sezione,
l’interesse pubblico all’annullamento in autotutela dei
permessi edilizi non può considerarsi in re ipsa tutte le
volte in cui vi sia stata una violazione dei parametri
urbanistici previsti dal PRG, dovendo l’amministrazione di
volta in volta specificare quale concreto pregiudizio abbia
subito per effetto dell’opera realizzata l’assetto del
territorio astrattamente prefigurato dallo strumento
generale.
Né l’annullamento della variante al permesso di costruire
può basarsi sulla asserita falsità della asseverazione
allegata all’istanza presentata dalla To..
Invero, l’erroneità della asseverazione allegata alla
istanza tesa ad ottenere un titolo edilizio può divenire
presupposto per l’annullamento d’ufficio dello stesso solo
nel caso in cui la rappresentazione di determinati stati di
fatto sia obiettivamente idonea ad indurre in errore
l’amministrazione.
Ciò non accade tutte le volte in cui dal
contenuto del progetto, della relazione tecnica, o anche da
precedenti atti riferibili al medesimo procedimento appaia
chiara la ragione che ha indotto il professionista ad
adottare una certa impostazione tecnica o giuridica che a
posteriori può anche rivelarsi errata. In tali ipotesi,
infatti, l’errore giuridico o tecnico è sempre evincibile
dall’esame del progetto o degli atti ad esso correlati;
esame che l’amministrazione è sempre tenuta a compiere
nonostante l’asseverazione non avendo questa l’effetto di
attenuare i controlli che la legge pone a sua carico.
Nel caso di specie la To. con l’istanza del 20/11/2011
aveva fatto presente al comune di Capannori di considerare
il disallineamento fra i confini delle zone urbanistiche e
quelli catastali della sua proprietà come un mero errore
della cartografia del piano regolatore. Sulla base del
medesimo assunto è stata successivamente presentata
l’istanza del 04/02/2013 con cui è stato chiesto l’assenso
del Comune per realizzare un ampliamento del fabbricato
esistente in variante al relativo permesso di costruire.
Il comune di Capannori al momento del rilascio della
predetta variante aveva, quindi, a disposizione tutti i dati
per comprendere l’impostazione tecnica seguita dal
progettista e per rilevare la sua erroneità alla luce
dell’esatto rilievo dei confini fra le diverse zone
urbanistiche.
Non avendolo fatto, esso non può lamentarsi di essere stato
tratto in errore dalle rappresentazioni progettuali
contenute nella istanza di variante atteso che l’errore non
è imputabile alla Società istante (che aveva dichiarato da
quali presupposti muoveva la sua impostazione progettuale)
ma ad un difetto dell’istruttoria compiuta sulla domanda.
Per le suddette ragioni il ricorso ed i motivi aggiunti
devono essere accolti
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 14.12.2015 n. 1703 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Documenti, serve precisione.
Nell'indicazione di motivi e sede processuale.
Nel ricorso per Cassazione la produzione del documento su
cui fonda il motivo ed in quale sede processuale il
documento stesso è stato prodotto, vanno espressamente
indicati.
A sottolinearlo sono state le Sezz. Unite civili della Corte
di Cassazione
con la
sentenza
04.12.2015 n. 24708.
Già
la stessa Cassazione ebbe modo di sottolineare (si vedano:
Cass. S.u. 02.12.2008 n. 28547, Cass. Cass. 23.09.2009 n. 20535, Cass. S.u. 25.03.2010 n. 7161 e
Cass. S.u. 03.11.2011 n. 22726) che il requisito
previsto dall'art. 366 c.p.c. n. 6, il quale sancisce che il
ricorso deve contenere a pena d'inammissibilità la specifica
indicazione degli atti processuali, dei documenti e dei
contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si
fonda, per essere assolto, «postula che sia specificato in
quale sede processuale il documento è stato prodotto, poiché
indicare un documento significa necessariamente, oltre che
specificare gli elementi che valgono a individuarlo,
allegare dove nel processo è rintracciabile».
Pertanto, la causa di inammissibilità prevista dal nuovo
art. 366, n. 6 c.p.c., hanno meglio chiarito i giudici di
piazza Cavour, è direttamente ricollegata al contenuto del
ricorso, come requisito che si deve esprimere in una
indicazione contenutistica dello stesso. Tale specifica
indicazione, quando riguardi un documento, in quanto
quest'ultimo sia un atto prodotto in giudizio, richiede che
si individui dove è stato prodotto nelle fasi di merito e,
quindi, anche in funzione di quanto dispone l'art. 369,
comma 2, n. 4, c.p.c. prevedente un ulteriore requisito di
procedibilità del ricorso, che esso sia prodotto in sede di
legittimità.
Nel caso sottoposto all'attenzione degli
Ermellini non risultava specificata in quale sede
processuale fosse rinvenibile il documento sul quale si
fondava la censura. Inoltre l'inosservanza della
prescrizione non potrebbe essere sanata neppure
dall'eventuale presenza dei documenti in parola nei
fascicoli di parte o di quelli d'ufficio del giudizio del
merito atteso che siffatta prescrizione vada, secondo i
giudici della Cassazione, correlata a quella ulteriore,
sancita a pena d'improcedibilità, di cui all'art. 369,
secondo comma, n. 4, c.p.c. che deve ritenersi soddisfatta «qualora
il documento sia stato prodotto nelle fasi di merito dallo
stesso ricorrente e si trovi nel fascicolo di esse, mediante
la produzione del fascicolo, purché nel ricorso si
specifichi che il fascicolo è stato prodotto e la sede in
cui il documento è rinvenibile» (articolo ItaliaOggi Sette del 29.02.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: La
fattispecie in esame si caratterizza per la realizzazione di
opere abusive, incidenti su un preesistente fabbricato,
realizzate senza alcun titolo abilitativo.
Ne consegue che non ricade nell’ambito applicativo dell’art.
34 –il quale presuppone l’esistenza di un permesso di
costruire e della realizzazione di opere in parziale
difformità da esso– bensì rientra nel campo di applicazione
dell’art. 33 (Interventi di ristrutturazione edilizia in
assenza di permesso di costruire o in totale difformità).
Tale disposizione, infatti, prevede, al comma 1, che gli
interventi e le opere di ristrutturazione edilizia (che, ai
sensi dell’art. 10, sono quelli che «portino ad un organismo
edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che
comportino aumento di unità immobiliari, modifiche del
volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici»)
«eseguiti in assenza di permesso o in totale difformità da
esso, sono rimossi ovvero demoliti e gli edifici sono resi
conformi alle prescrizioni degli strumenti
urbanistico-edilizi entro il congruo termine stabilito dal
dirigente o dal responsabile del competente ufficio comunale
con propria ordinanza, decorso il quale l’ordinanza stessa è
eseguita a cura del comune e a spese dei responsabili
dell’abuso».
Il comma 2 del medesimo art. 33 dispone che: «Qualora, sulla
base di motivato accertamento dell’ufficio tecnico comunale,
il ripristino dello stato dei luoghi non sia possibile, il
dirigente o il responsabile dell'ufficio irroga una sanzione
pecuniaria pari al doppio dell’aumento di valore
dell'immobile, conseguente alla realizzazione delle
opere[…]», di cui vengono indicate le modalità di
realizzazione.
La disposizione di esordio del comma 2, testé riportata (che
ripete l’art. 9 della legge 28.02.1985 n. 47), va intesa,
quanto al “ripristino dello stato dei luoghi” che “non sia
possibile”, nel senso che soltanto nel caso in cui risulti
oggettivamente impossibile il ripristino dello stato dei
luoghi va irrogata una sanzione pecuniaria.
---------------
3.– L’appello non è fondato.
3.1.– Con un primo motivo si assume l’erroneità della
sentenza nella parte in cui non ha rilevato la violazione
dell’art. 34 (Interventi eseguiti in parziale difformità dal
permesso di costruire) del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 del
2001 anche in relazione all’art. 7 della legge 07.08.1990,
n. 241. L’amministrazione, infatti, non avrebbe consentito
all’odierno appellante la partecipazione procedimentale al
fine di dimostrare che la demolizione avrebbe «arrecato
un pregiudizio alla struttura già esistente da tempo
immomarabile».
In particolare, l’art. 34 imporrebbe all’amministrazione,
nella scelta tra sanzione demolitoria e sanzione pecuniaria,
di valutare «preventivamente se la demolizione possa
avvenire senza pregiudizio della parte del fabbricato
eseguita in conformità».
Il motivo non è fondato.
In via preliminare, è bene chiarire che la fattispecie in
esame si caratterizza per la realizzazione di opere abusive,
incidenti su un preesistente fabbricato, realizzate senza
alcun titolo abilitativo. Ne consegue che non ricade
nell’ambito applicativo dell’art. 34 –il quale presuppone
l’esistenza di un permesso di costruire e della
realizzazione di opere in parziale difformità da esso– bensì
rientra nel campo di applicazione dell’art. 33 (Interventi
di ristrutturazione edilizia in assenza di permesso di
costruire o in totale difformità).
Tale disposizione, infatti, prevede, al comma 1, che gli
interventi e le opere di ristrutturazione edilizia (che, ai
sensi dell’art. 10, sono quelli che «portino ad un
organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente e che comportino aumento di unità immobiliari,
modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti o delle
superfici») «eseguiti in assenza di permesso o in
totale difformità da esso, sono rimossi ovvero demoliti e
gli edifici sono resi conformi alle prescrizioni degli
strumenti urbanistico-edilizi entro il congruo termine
stabilito dal dirigente o dal responsabile del competente
ufficio comunale con propria ordinanza, decorso il quale
l’ordinanza stessa è eseguita a cura del comune e a spese
dei responsabili dell’abuso».
Il comma 2 del medesimo art. 33 dispone che: «Qualora,
sulla base di motivato accertamento dell’ufficio tecnico
comunale, il ripristino dello stato dei luoghi non sia
possibile, il dirigente o il responsabile dell'ufficio
irroga una sanzione pecuniaria pari al doppio dell’aumento
di valore dell'immobile, conseguente alla realizzazione
delle opere[…]», di cui vengono indicate le modalità di
realizzazione.
La disposizione di esordio del comma 2, testé riportata (che
ripete l’art. 9 della legge 28.02.1985 n. 47), va intesa,
quanto al “ripristino dello stato dei luoghi” che “non
sia possibile”, nel senso che soltanto nel caso in cui
risulti oggettivamente impossibile il ripristino dello stato
dei luoghi va irrogata una sanzione pecuniaria.
Nel caso in esame, dalla valutazione della natura delle
opere quale risulta dagli atti del processo, consistenti
nell’ampliamento di un fabbricato preesistente e nella
tamponatura di una vecchia tettoia, non emerge alcun dato
che possa indurre a ritenere che non fosse materialmente
possibile ripristinare lo stato originario dei luoghi.
L’appellante non ha del resto dedotto alcun elemento
probatorio idoneo a condurre ad un diverso giudizio
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 29.11.2012 n. 6071 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’esercizio del potere repressivo degli abusi
edilizi costituisce manifestazione di attività
amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi
provvedimenti, quali l’ordinanza di demolizione,
costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è
necessario l’invio della comunicazione di avvio del
procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi
del destinatario dell’atto.
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3.2.– Con un secondo motivo si deduce la violazione degli
artt. 7 e 8 della legge n. 241 del 1990, per mancata
comunicazione dell’avvio del procedimento, e il difetto di
istruttoria per non avere l’amministrazione valutato il «carico
urbanistico presente nella zona interessata».
Il motivo non è fondato.
La giurisprudenza del Consiglio di Stato, da cui non vi è
ragione di discostarsi, è costante nel considerare che
l’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi
costituisce manifestazione di attività amministrativa
doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti,
quali l’ordinanza di demolizione, costituiscono atti
vincolati per la cui adozione non è necessario l’invio della
comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi
spazio per momenti partecipativi del destinatario dell’atto
(tra gli altri Cons. Stato, IV, 18.09.2012; 10.08.2011, n.
4764; IV, 20.07.2011, n. 4403; VI, 24.09.2010, n. 7129).
Per quanto attiene, poi, all’assunta mancata valutazione del
«carico urbanistico presente nella zona», la stessa
-ammesso che non vi sia effettivamente stata- non ha, avuto
riguardo alla normativa del settore, alcuna incidenza o
valenza invalidante del provvedimento sanzionatorio, perché
il doveroso ripristino della situazione antecedente l’abuso
prescinde da un siffatto accertamento. Questo profilo è,
pertanto, irrilevante nel giudizio di abusività delle opere (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 29.11.2012 n. 6071 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'art. 27 dpr 380/2001 prevede che il dirigente o
il responsabile dell’ufficio ordina, qualora accerti la
violazione delle norme in materia edilizia, «l’immediata
sospensione dei lavori, che ha effetto fino all’adozione dei
provvedimenti definitivi[…], da adottare e notificare entro
quarantacinque giorni dall’ordine di sospensione dei
lavori».
La norma attribuisce all’amministrazione un potere cautelare
discrezionale che in quanto tale non rappresenta una fase
necessaria del procedimento sanzionatorio orientato alla
demolizione. La sua omissione, pertanto, non inficia la
validità del provvedimento finale adottato
dall’amministrazione comunale.
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3.2.– Con un terzo motivo si deduce la violazione dell’art.
27 (Vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia) del d.P.R.
n. 380 del 2001 per non avere l’amministrazione adottato e
comunicato l’ordine di sospensione dei lavori.
Il motivo non è fondato.
Il citato art. 27 prevede che il dirigente o il responsabile
dell’ufficio ordina, qualora accerti la violazione delle
norme in materia edilizia, «l’immediata sospensione dei
lavori, che ha effetto fino all’adozione dei provvedimenti
definitivi[…], da adottare e notificare entro quarantacinque
giorni dall’ordine di sospensione dei lavori».
La norma attribuisce all’amministrazione un potere cautelare
discrezionale che in quanto tale non rappresenta una fase
necessaria del procedimento sanzionatorio orientato alla
demolizione. La sua omissione, pertanto, non inficia la
validità del provvedimento finale adottato
dall’amministrazione comunale.
4.– Per le ragioni sin qui esposte, l’appello deve essere
rigettato
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 29.11.2012 n. 6071 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
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