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AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di AGOSTO 2015

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aggiornamento al 28.08.2015

aggiornamento al 21.08.2015

aggiornamento al 13.08.2015

aggiornamento al 05.08.2015

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 28.08.2015

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IN EVIDENZA

     Con l'AGGIORNAMENTO AL 13.08.2015 abbiamo trattato il seguente argomento: "Abuso edilizio, vincolo paesaggistico sopravvenuto e richiesta di sanatoria (ordinaria, ex art. 36 oppure 37 DPR n. 380/2001): occorre, o meno, presentare la richiesta di accertamento della compatibilità paesaggistica ex art. 167 d.lgs. 42/2004??"
     Davamo conto, tra l'altro, di come tre Regioni fossero allineate nel sostenere la tesi secondo la quale non occorre presentare la richiesta di accertamento compatibilità paesaggistica ex art. 167 D.Lgs. 42/2004.
     Ebbene, navigando a destra e manca, abbiamo trovato una "voce fuori dal coro" ossia un parere reso dalla Regione Abruzzo -ad un comune- di seguito riportato:

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Sanatoria opere edilizie abusive realizzate prima dell’imposizione del vincolo paesistico ambientale, richiesta di accertamento di conformità art. 36 D. P.R. n. 380/2001 e s.m.i. in epoca in cui l’area è ricompresa nel vincolo di cui al D.Lgs. n. 42/2004 - Riscontro (Regione Abruzzo, nota 04.09.2014 n. 3814 di prot. - tratto da www.regione.abruzzo.it).

     Comunque, un U.T.C. di è cortesemente prestato per chiedere lumi -in alto loco- di come stiano esattamente i termini della questione ... non appena avremo novità Vi aggiorneremo.
28.08.2015 - LA SEGRETERIA PTPL

UTILITA'

EDILIZIA PRIVATARegola tecnica orizzontale di prevenzione incendi, lo Speciale di BibLus-net.
Pubblicata in Gazzetta la nuova regola tecnica orizzontale di prevenzione incendi. Le principali novità da conoscere nello Speciale di BibLus-net
E’ stato pubblicato sulla Gazzetta ufficiale n. 192 del 20.08.2015, Supplemento ordinario n. 51, il DM 03.08.2015 recante “Approvazione di norme tecniche di prevenzione incendi, ai sensi dell’articolo 15 del decreto legislativo 08.03.2006, n. 139”.
Il decreto, che entrerà in vigore il 18.11.2015, costituisce una regola tecnica orizzontale, ossia una regola tecnica che uniforma i diversi aspetti della progettazione antincendio, definendo criteri operativi e progettuali validi per diverse attività.
Molte attività, infatti, non sono dotate di regola tecnica verticale, rientrando nel gruppo delle attività non normate. Per tali attività occorre seguire in linea di principio i criteri generali di prevenzioni incendi, anche se negli anni sono state fornite alcune linee guida e di indirizzo.
Il nuovo decreto fornisce per tali attività un vero e proprio iter di progetto.
In questo articolo proponiamo ai nostri lettori uno Speciale sulla nuova regola tecnica orizzontale di prevenzione incendi, illustrando le principali novità introdotte dal DM 03.08.2015.
Lo speciale è così strutturato:
• Premessa
• Regola tecnica orizzontale
• Attività interessate
• Norme alternative
• Obiettivi del decreto
• Struttura del decreto
• Modalità operative
• Strategia antincendio – Reazione al fuoco: un esempio di misura
• Attività non normate
• Attività normate
• Metodologia per l’ingegneria della sicurezza antincendio (27.08.2015 - link a www.acca.it).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Pubblici spettacoli - Articoli 68, 69 e 80 del TULPS ed applicabilità dell'istituto della SCIA (Ministero dell'Interno, Dipartimento della Pubblica Sicurezza, nota 21.05.2015 n. 7764 di prot.).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATA: D. Minussi, Distanza fra costruzioni (19.08.2015 - link a www.e-glossa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: V. Cingano, Rimozione dei rifiuti e bonifica fra tutela della proprietà e tutela dell’ambiente (29.07.2015 - tratto da www.federalismi.it).

EDILIZIA PRIVATA: A. Di Mario, Il ritardo nel pagamento degli oneri di urbanizzazione tra garanzie e sanzioni (Urbanistica e appalti n. 3/2015).
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Resta aperta la querelle giurisprudenziale sui rapporti tra garanzia e sanzioni per il ritardo nel pagamento degli oneri di urbanizzazione. La sentenza in commento si apprezza perché supera l’orientamento secondo il quale la mancata escussione della garanzia può escludere in toto le sanzioni.
Permangono opinioni diverse in merito all’applicazione delle sanzioni per i ritardi superiori al primo. La sentenza in commento rappresenta lo sforzo della Quinta Sezione del Consiglio di Stato di rifondare il suo classico orientamento più favorevole al privato. (... continua).

CORTE DEI CONTI

INCARICHI PROFESSIONALI - PUBBLICO IMPIEGOPosizione Organizzativa. Condanna per inutile conferimento di incarico di Posizione Organizzativa a personale esterno.
I giudici contabili lombardi, pur verificando la conformità alla legge del conferimento di incarico di Posizione Organizzativa ad un soggetto esterno, dimostrano l'inutilità delle funzione conferite, chiamano a rispondere del relativo danno erariale, equivalenti alle spese inutilmente sopportate, i soggetti che a vario titolo hanno partecipato al citato conferimento dell'incarico.
In particolare
sono stati chiamati in ugual misura a rispondere del danno erariale:
a) il Sindaco, in quanto partecipante in via prevalente alla citata inutile nomina;
b) il Segretario Comunale, per aver ricoperto il citato ruolo prima dell'affidamento dell'incarico senza aver obiettano nulla sulla sua inutilità;
c) il soggetto percettore dell'incarico, in quanto in qualità di funzionario dell'ex Ages non poteva non sapere dell'inutilità dell'incarico che gli veniva conferito.

Infine la parte restante del danno erariale, pari al 10% delle somme inutilmente spese, è stata attribuita ai componenti della Giunta Comunale per aver adottato la deliberazione di conferimento dell'incarico.
Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Lombardia, sentenza 27.07.2015 n. 134).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGOIl giudizio civile (nella specie del lavoro) e quello di responsabilità amministrativa esercitato innanzi al giudice contabile si muovo su piani diversi, essendo volti a regolare rapporti giuridici soggettivamente e oggettivamente distinti aventi diversi parametri normativi.
Il giudice civile conosce e valuta fatti afferenti al rapporto tra l’ente pubblico ed i soggetti danneggiati, ed il giudizio è funzionale all’accertamento della colpa dell’ente nella sua struttura unitaria, indipendentemente dalla valutazione della condotta dei singoli.
Il giudice contabile, diversamente, si pronuncia sui fatti connessi al rapporto di servizio che vincola i dipendenti pubblici all’ente, per cui il giudizio è finalizzato all’accertamento della responsabilità personale (condotta, violazione degli obblighi di servizio, caratterizzata da dolo o colpa grave, efficienza causale nella determinazione dell’evento dannoso): salvo il caso in cui le ragioni del credito erariale siano state già integralmente soddisfatte in sede civile con l’accordo transattivo stipulato tra l’amministrazione danneggiata ed il danneggiato, e conseguente improcedibilità del giudizio contabile.
---------------
Dovendo il giudice contabile, al fine di addivenire ad una sentenza di condanna nei confronti del soggetto convenuto in giudizio individuare, tra gli altri elementi, la colpa grave dell’agente pubblico, osserva il Collegio che nella specie esso non si può ritenere sussistente.

Infatti
a fronte della revoca della competenza delegata originariamente dal sindaco in tema di incarichi dirigenziali e dell’ordine comunicato al Direttore Generale di procedere al riassetto dell’apparato organizzatorio del comune con immediatezza, e con la prospettazione di accertamento di eventuali responsabilità penali nel caso di inottemperanza, non era ipotizzabile una diversa condotta dal parte del convenuto, per cui allo stesso non può essere imputata alcuna colpa grave.
La giurisprudenza contabile ha, infatti, affermato che la sussistenza della colpa grave non può essere affermata in astratto ma deve essere valutata in concreto: infatti non ogni condotta divergente da quella doverosa implica la colpa grave, ma solo quella caratterizzata, nel caso concreto, dalla mancanza del livello minimo di diligenza, prudenza o perizia dei dipendenti, dal tipo di attività concretamente richiesto all’agente.
L’elemento soggettivo, inoltre, si configura in una situazione di macroscopica contraddizione tra il comportamento tenuto dal pubblico operatore nella circostanza e quello nella stessa imposto quale minimum del composito dovere di diligenza derivante dal rapporto di servizio che lega il soggetto alla Pubblica Amministrazione.
---------------
FATTO
La Procura contabile con atto introduttivo del giudizio depositato il 14.03.2014 ha affermato la sussistenza della responsabilità amministrativa del sig. L.T., all’epoca dei fatti Direttore Generale del Comune di Bagno a Ripoli, per un importo pari a € 61.001,40 costituito da due voci di danno:
a) € 39.769,96 che il Comune di Bagno a Ripoli aveva liquidato in esecuzione della sentenza del Tribunale di Firenze - Sezione Lavoro n. 600 del 13.05.2008 a seguito del ricorso proposto dall’arch. Z.;
b) € 21.231,98 a titolo di compenso per l’attività di difesa che il legale nominato dall’ente aveva svolto nel detto giudizio.
La vicenda di cui è causa ha origine nell’incarico dirigenziale a tempo determinato di Coordinatore dell’Area funzionale 2 “Servizi al Territorio” conferito all’arch. C.Z. (che all’epoca era funzionario tecnico inquadrato nella cat. D del CCNL enti locali 31.03.1999), con atti prot. n. 1638 del 31.12.2001, n. 256 del 04.03.2003 e n. 456 del 30.04.2003.
L’incarico dirigenziale era stato disposto dal Direttore Generale, oggi convenuto in giudizio, a seguito della delega esercitata nei suoi confronti dal sindaco del Comune di Bagno a Ripoli con riferimento a quanto previsto dall’art. 50, comma 10, del TUEL 267/2000 per gli incarichi dirigenziali e di collaborazione esterna.
Successivamente il sindaco, sig. L., revocava la delega a suo tempo conferita al Direttore Generale, e nello stesso tempo assegnava l’incarico dirigenziale delle aree Servizi del Territorio, all’ambiente, di rete e pianificazione urbanistica e gestione del territorio all’ing. P. in luogo dell’arch. Z..
Nello stesso atto del 27.05.2003 il Sindaco dava mandato al Direttore Generale ed al dirigente dell’area programmazione ed organizzazione di disporre i necessari provvedimenti affinché l’arch. Z., già incaricata della direzione e coordinamento dell’area funzionale pianificazione urbanistica e gestione del territorio, fosse assegnata ad incarichi di progettazione di opere pubbliche.
La detta determinazione del sindaco era anticipata, via fax, al direttore generale avv. T. e si ordinava di “dare sollecita esecuzione ..ogni inadempimento sarà considerata omissione di atti d’ufficio, passibile di conseguenze penali”.
In esecuzione della disposizione del sindaco il Direttore Generale con determinazione n. 574 del 30.05.2003 prevedeva:
a) la revoca del collocamento in aspettativa senza assegni dell’arch. Z.;
b) il reintegro della detta dipendente nel posto in dotazione organica prima prevista (categoria professionale D4 – Funzionario specialista in attività tecniche e progettuali);
c) l’assegnazione all’interessata di funzioni di progettazione di opere pubbliche.
La Procura contabile, attivava il giudizio di responsabilità, vista la delib. consiliare del Consiglio Comunale del Comune di Bagno a Ripoli n. 1467 del 04.11.2008 avente ad oggetto la legittimità del debito fuori bilancio correlato all’esecuzione della sentenza n. 600/2008 emessa dal Tribunale di Firenze Sezione Lavoro sul ricorso promosso dall’arch. Z..
Il giudice del Lavoro aveva ritenuto l’illegittimità del provvedimento di revoca dell’incarico dirigenziale a tempo determinato suddetto, nonché del provvedimento con cui si riteneva non conferito l’incarico dirigenziale “specialista della progettazione” (di cui alla determinazione dirigenziale n. 630/2003 del 12.06.2003) e dichiarava l’intervenuto demansionamento per il periodo maggio 2003–marzo 2004.
In data 01.07.2003 decedeva il sig. G.L. sindaco pro-tempore del Comune di Bagno a Ripoli e con successiva determinazione del 17.07.2003 il sig. T. prendeva atto della mancata sottoscrizione, da parte della dell’arch. Z., dell’incarico di posizione organizzativa relativa al ruolo di “specialista della progettazione”.
La Procura contestava al sig. L.T. di aver cagionato con la propria condotta, un danno evitabile al Comune di Bagno a Ripoli, con invito a dedurre del 17.10.2013 e successivamente con atto di citazione in cui confermava la sussistenza dei presupposti della responsabilità amministrativa, non avendo il sig. T. adottato un comportamento diligente con consapevole elusione dei canoni di buona amministrazione e di sana gestione dell’ente.
Con memoria del 27.11.2014 il legale difensore della parte convenuta eccepiva:
a) l’assenza di colpa grave in capo al convenuto avendo quest’ultimo adottato atti consequenziali alla decisione del sindaco del 27.05.2003;
b) la non imputabilità al sig. L.T. della responsabilità per la somma di € 21.231,98 che il Comune di Bagno a Ripoli, su richiesta dell’avv. E.C., aveva liquidato a favore di quest’ultimo, in quanto il sig. L.T., all’epoca della nomina dell’avv. C., non era più in servizio e, d’altro canto, esisteva una convenzione stipulata (sin dal 2001) con i comuni di Fiesole e Pontassieve per la gestione in forma associata dei servizi legali, con la gestione di un Ufficio Legale avente la funzione di supporto ai dirigenti/responsabili dei servizi nella costituzione in giudizio.
Sicché la responsabilità per questa posta di danno erariale doveva essere imputata al sindaco, alla giunta del Comune di Bagno a Ripoli ed alla dott.ssa M.R..
Concludeva, la parte convenuta, per l’assoluzione da ogni addebito e, in subordine, per una quota di responsabilità ridotta unicamente per l’importo derivante dalla sentenza di condanna del Tribunale di Firenze – Sezione Lavoro n. 600 del 13.05.2008.
Nella odierna udienza di discussione il Pubblico Ministero chiedeva l’accoglimento della domanda introduttiva del giudizio, mentre il legale difensore della parte convenuta ribadiva quanto dedotto con atti defensionali; quindi dopo le repliche e controrepliche la causa veniva introitata per la decisione.
DIRITTO
La domanda attorea appare infondata e va rigettata con tutte le conseguenze di legge.
La ricostruzione operata in sede di narrativa di fatto alla luce delle considerazioni attoree e della parte convenuta permettono di affermare che nel presente giudizio sia assente l’elemento soggettivo da contestare al sig. L.T..
In particolare dalle risultanze processuali (cfr. atto del Sindaco di Bagno a Ripoli del 27.05.2003) è emerso che il sindaco dapprima aveva revocato la delega che aveva conferito al direttore generale dell’ente per l’attribuzione degli incarichi dirigenziali e quindi aveva affidato ad altro soggetto (ing. F.P.), in luogo dell’arch. Z., l’incarico di dirigente delle aree “pianificazione, urbanistica, gestione del territorio”.
In siffatto modo il sindaco, revocando la delega, era ridivenuto titolare di una sua specifica competenza assegnatagli dalla legge, ai sensi dell’art. 50, comma 10, del T.U.E.L. D.Lgs. n. 267/2000 secondo cui “il sindaco ed il presidente della provincia nominano i responsabili degli uffici e dei servizi, attribuiscono e definiscono gli incarichi dirigenziali e quelli di collaborazione esterna secondo le modalità ed i criteri stabiliti dagli artt. 109 e 110, nonché dei rispettivi statuti e regolamenti comunali e provinciali”.
Ridivenuto titolare della relativa competenza a determinare, prima delegata all’odierno convenuto in giudizio, non solo invitava il sig. T. a “disporre i necessari provvedimenti”, ma ribadiva con indubitabile chiarezza quanto voluto ribadendo “anticipo via fax copia mia disposizione. Ordino dare sollecita esecuzione…. ogni inadempimento sarà considerato omissione di atti d’ufficio, passibile di conseguenze penali”.
In relazione alle volizioni del sindaco il sig. T. provvedeva alle successive determinazioni:
a) n. 574 del 2003 con rideterminazione dell’inquadramento e delle mansioni assegnate all’arch. Z.;
b) prot. n. 26142 del 17.07.2003 con cui si prendeva della mancata accettazione, da parte dell’arch. Z., dell’incarico della posizione organizzativa.
In questo contesto è stata emessa la sentenza del Tribunale di Firenze – Sezione Lavoro, che dichiarava l’illegittimità del provvedimento di revoca dell’incarico dirigenziale a tempo determinato, l’intervenuto demansionamento dell’arch. Z. per il periodo maggio 2003–marzo 2004, e l’illegittimità del provvedimento del 17.07.2003 con cui si riteneva non conferito l’incarico dirigenziale “specialista della progettazione” con conseguente risarcimento del danno e condanna alle spese legali in ragione della metà.
Orbene in conseguenza di quanto statuito dal giudice del lavoro la Procura contabile contesta il suddetto danno erariale al sig. T. nelle poste e nelle misure suddette.
Osserva il Collegio che
il giudizio civile (nella specie del lavoro) e quello di responsabilità amministrativa esercitato innanzi al giudice contabile si muovo su piani diversi, essendo volti a regolare rapporti giuridici soggettivamente e oggettivamente distinti aventi diversi parametri normativi.
Il giudice civile conosce e valuta fatti afferenti al rapporto tra l’ente pubblico ed i soggetti danneggiati, ed il giudizio è funzionale all’accertamento della colpa dell’ente nella sua struttura unitaria, indipendentemente dalla valutazione della condotta dei singoli.
Il giudice contabile, diversamente, si pronuncia sui fatti connessi al rapporto di servizio che vincola i dipendenti pubblici all’ente, per cui il giudizio è finalizzato all’accertamento della responsabilità personale (condotta, violazione degli obblighi di servizio, caratterizzata da dolo o colpa grave, efficienza causale nella determinazione dell’evento dannoso): cfr., ex plurimis, Sezione giurisdizionale Regione Lazio 20.01.2006 n. 215 con sull’assenza di efficacia vincolante o di alcuna preclusione del giudizio civile di condanna della P.A. sul giudizio contabile (cfr. Sezione giurisdizionale Regione Lombardia 01.02.2012 n. 63), salvo il caso in cui le ragioni del credito erariale siano state già integralmente soddisfatte in sede civile con l’accordo transattivo stipulato tra l’amministrazione danneggiata ed il danneggiato, e conseguente improcedibilità del giudizio contabile.
Orbene
dovendo il giudice contabile, al fine di addivenire ad una sentenza di condanna nei confronti del soggetto convenuto in giudizio individuare, tra gli altri elementi, la colpa grave dell’agente pubblico, osserva il Collegio che nella specie esso non si può ritenere sussistente.
Infatti
a fronte della revoca della competenza delegata originariamente dal sindaco in tema di incarichi dirigenziali e dell’ordine comunicato al Direttore Generale di procedere al riassetto dell’apparato organizzatorio del comune di Bagno a Ripoli con immediatezza, e con la prospettazione di accertamento di eventuali responsabilità penali nel caso di inottemperanza, non era ipotizzabile una diversa condotta dal parte del sig. T., per cui allo stesso non può essere imputata alcuna colpa grave.
La giurisprudenza contabile ha, infatti, affermato che la sussistenza della colpa grave non può essere affermata in astratto ma deve essere valutata in concreto: infatti non ogni condotta divergente da quella doverosa implica la colpa grave, ma solo quella caratterizzata, nel caso concreto, dalla mancanza del livello minimo di diligenza, prudenza o perizia dei dipendenti, dal tipo di attività concretamente richiesto all’agente: cfr. Sezione giurisdizionale Regione Sicilia 05.03.2010 n. 471.
L’elemento soggettivo, inoltre, si configura in una situazione di macroscopica contraddizione tra il comportamento tenuto dal pubblico operatore nella circostanza e quello nella stessa imposto quale minimum del composito dovere di diligenza derivante dal rapporto di servizio che lega il soggetto alla Pubblica Amministrazione: cfr. Sez. I Centr. 07.07.1998 n. 219/A.
La insussistenza della responsabilità amministrativa per la prima posta determina l’assenza di responsabilità anche per la posta relativa alle spese legali sia per assenza dell’elemento soggettivo che del nesso causale, ancor più ove si consideri che il sig. T. all’epoca dell’individuazione e della nomina dell’avv. C., difensore dell’arch. Z., non era più in servizio.
Va, pertanto, assolto da ogni addebito il sig. L.T., con spettanza del diritto al rimborso delle spese legali che ha sostenuto per il presente giudizio e ciò nella misura pari a € 500,00, oltre ad accessori di legge (Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Toscana, sentenza 11.05.2015 n. 86).

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Commistioni da evitare. Funzioni di governo e controllo separate. Deleghe ai consiglieri, poche le deroghe consentite dalla legge.
Gli incarichi di delega conferiti ai consiglieri comunali dal sindaco, per il loro contenuto, potrebbero essere inficiati da vizi di legittimità qualora determinassero una commistione tra funzioni di governo e funzioni di controllo politico?

Risposta
Nell'ambito dell'autonomia statutaria dell'ente locale, sancita dall'art. 6 del decreto legislativo n. 267/2000, è ammissibile la disciplina di deleghe interorganiche, purché il contenuto delle stesse sia coerente con la funzione istituzionale dell'organo cui si riferisce.
Tale istituto è disciplinato dello statuto del comune. Occorre considerare, quale criterio generale, che il consigliere può essere incaricato di studi su determinate materie, di compiti di collaborazione circoscritti all'esame e alla cura di situazioni particolari, che non implichino la possibilità di assumere atti a rilevanza esterna, né di adottare atti di gestione spettanti agli organi burocratici.
Il consigliere, infatti, svolge la sua attività istituzionale, in qualità di componente di un organo collegiale quale il consiglio, che è destinatario dei compiti individuati e prescritti dalle leggi e dallo statuto. Poiché il consiglio svolge attività di indirizzo e controllo politico-amministrativo, ne scaturisce l'esigenza di evitare una incongrua commistione nell'ambito dell'attività di controllo. Tale criterio generale può ritenersi derogabile solo in taluni casi previsti dalla legge.
Il Tar Toscana, con decisione n. 1284/2004, ha respinto il ricorso avverso una norma statutaria concernente la delega ai consiglieri di funzioni sindacali in quanto la stessa escludeva implicitamente che potessero essere delegati compiti di amministrazione attiva, tali da comportare «... l'inammissibile confusione in capo al medesimo soggetto del ruolo di controllore e di controllato».
Inoltre il Consiglio di stato, con parere n. 4883/2011 reso in data 17.10.2012, ha ritenuto fondato un ricorso straordinario al presidente della repubblica in quanto l'atto sindacale impugnato, nel prevedere la delega ai consiglieri comunali di funzioni di amministrazione attiva, determinava «una situazione, perlomeno potenziale, di conflitto di interesse». Come noto, l'ordinamento vigente non prevede poteri ordinari di controllo di legittimità sugli atti degli enti locali in capo all'Amministrazione dell'Interno (articolo ItaliaOggi del 21.08.2015).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Gruppo con unico componente.
Un consigliere provinciale uscito dal proprio gruppo originario di appartenenza può aderire al gruppo misto, formato da un unico componente?

Risposta
L'esistenza dei gruppi consiliari non è espressamente prevista dalla legge, ma si desume implicitamente da quelle disposizioni normative che contemplano diritti e prerogative in capo ai gruppi o ai capigruppo (art. 38, comma 3, art. 39, comma 4, e art. 125 del decreto legislativo n. 267/2000). La materia, pertanto, è regolata da apposite norme statutarie e regolamentari, adottate dai singoli enti locali nell'ambito dell'autonomia organizzativa dei consigli, riconosciuta dall'art. 38 del citato Tuoel.
Nella fattispecie in esame, lo statuto della provincia, dispone che “i gruppi consiliari sono composti dagli eletti sotto lo stesso contrassegno. I consiglieri che non intendano far parte dei gruppi costituitisi ai sensi del periodo che precede possono formare un nuovo gruppo che deve essere composto da almeno due membri".
Nell'ambito della suddetta fonte statutaria non si rinvengono norme riferite alla ipotesi di costituzione del gruppo misto. Il regolamento sul funzionamento del consiglio provinciale prevede la possibilità per i consiglieri che non intendano più far parte di un gruppo e di non aderire a ad altro gruppo consiliare, di confluire nel gruppo misto, senza però dare indicazione in ordine alla composizione numerica di quest'ultimo.
Ciò posto, tale disposizione regolamentare potrebbe essere interpretata quale previsione speciale, dettata con puntuale riferimento alla fattispecie del «gruppo misto» e, pertanto, non riconducibile alla normativa dettata dello statuto provinciale riferito alle ipotesi di costituzione di un nuovo gruppo consiliare diverso dal misto. In assenza di disposizioni che escludano espressamente la possibilità di istituire il gruppo misto anche con la partecipazione di un unico componente, si potrebbe accedere a un'interpretazione delle fonti di autonomia locale orientata alla valorizzazione dei diritti dei singoli di poter aderire ad un gruppo consiliare.
Occorre considerare che in linea generale il gruppo misto è un gruppo consiliare con carattere residuale, nel quale confluiscono i consiglieri, anche di diverso orientamento, che non si riconoscono negli altri gruppi costituiti, o che non possono costituire un proprio gruppo per mancanza delle condizioni previste dallo statuto e dal regolamento e la cui costituzione non può essere subordinata alla presenza di un numero minimo di componenti.
Tuttavia, poiché la materia dei «gruppi consiliari» è interamente demandata allo statuto ed al regolamento sul funzionamento del consiglio, è in tale ambito che devono trovare adeguata soluzione le relative problematiche applicative. Spetta, infatti, alle decisioni del consiglio provinciale, oltre che trovare soluzioni per le singole questioni, valutare l'opportunità di adottare apposite modifiche regolamentari che disciplinino anche le ipotesi in argomento (articolo ItaliaOggi del 21.08.2015).

PUBBLICO IMPIEGO: Personale degli enti locali. Incarico ex art. 110 TUEL.
La Corte dei conti, Sezioni riunite, ha ritenuto applicabile anche agli enti locali quanto disposto dall'art. 19, commi 6 e 6-bis, del d.lgs. n. 165/2001, in materia di conferimento di incarichi dirigenziali a termine, ritenendo ragionevole la percentuale massima dell'8 per cento della dotazione organica dirigenziale.
Il Comune ha chiesto di conoscere se sia possibile attribuire un incarico, ai sensi dell'art. 110, comma 2, del TUEL, alla luce delle valutazioni espresse dalla Corte dei conti, Sezioni riunite, con le pronunce n. 13 e 14 dell'08.03.2011.
L'Ente rappresenta di voler ricorrere a detto strumento per l'attribuzione di un incarico di posizione organizzativa relativa all'Area Servizi Pianificazione Territoriale e Urbanistica, come derivante da una recente modifica della struttura organizzativa comunale.
Preliminarmente si osserva che, trattandosi di un posto di responsabile d'Area, sembra più pertinente il riferimento a quanto disposto dal comma 1 del richiamato art. 110.
La predetta norma consente infatti agli enti locali di prevedere nello statuto la possibilità di ricoprire i posti di responsabile dei servizi o degli uffici, di qualifiche dirigenziali o di alta specializzazione, mediante contratti a tempo determinato, fermi restando i requisiti richiesti dalla qualifica da ricoprire.
Come rilevato dalla Corte dei conti
[1], si specifica, in tale norma, che le figure apicali delle strutture in cui è articolato l'ente locale possano avere diversa qualificazione, con naturale riferimento, da un lato alla dimensione della specifica struttura cui il soggetto è preposto e, dall'altro lato, alla dimensione complessiva dell'ente stesso.
Il comma in argomento non prevede altresì le limitazioni quantitative al ricorso ad incarichi a contratto (per ricoprire posti apicali previsti in pianta organica), contenute invece nel comma 2 dell'articolo medesimo.
Il citato comma 2 dell'art. 110 contempla la possibilità, negli enti in cui non è prevista la dirigenza, che il regolamento sull'ordinamento degli uffici e dei servizi stabilisca i limiti, i criteri e le modalità con cui possono essere stipulati, al di fuori della dotazione organica, solo in assenza di professionalità analoghe presenti all'interno dell'ente, contratti a tempo determinato di dirigenti, alte specializzazioni o funzionari dell'area direttiva. Tali contratti sono stipulati in misura complessivamente non superiore al 5 per cento della dotazione organica dell'ente arrotondando il prodotto all'unità superiore, o ad una unità negli enti con una dotazione organica inferiore alle 20 unità.
Come evidenziato dalla Corte dei conti
[2], 'la disciplina contenuta nel secondo comma dell'art. 110 del TUEL appare riferibile ad una fattispecie del tutto diversa da quella disciplinata dal comma precedente, in quanto volta a sopperire [...] ad esigenze gestionali straordinarie che, sole, determinano l'opportunità di affidare funzioni, anche dirigenziali, extra dotationem e quindi al di là delle previsioni della pianta organica dell'ente locale che, invece, cristallizza il fabbisogno ordinario di risorse umane.'
Con riferimento, in generale, all'attuale vigenza dell'art. 110 del d.lgs. n. 267/2000, dopo l'entrata in vigore del d.lgs. n. 150/2009, la questione concernente nello specifico l'affidamento di incarichi dirigenziali a contratto, dopo vari e divergenti orientamenti interpretativi, è stata esaminata dalle Sezioni riunite della Corte dei conti
[3] che ha affrontato il problema della compatibilità dell'art. 110 medesimo con la nuova formulazione dell'art. 19 del d.lgs. n. 165/2001.
In particolare, relativamente al comma 1 dell'art. 110 in esame, le Sezioni riunite, ponendosi in linea con la più recente giurisprudenza, anche costituzionale
[4], hanno ritenuto che l'art. 19, commi 6 e 6-bis, del d.lgs. n. 165/2001 sia applicabile anche alle amministrazioni locali, in quanto disposizione di principio e, come tale, direttamente operativa per tutte le amministrazioni.
Inoltre (e questo è l'aspetto più significativo), è stato ritenuto coerente con il sistema e, pertanto, ragionevole estendere agli enti locali
[5] anche la restrittiva percentuale dell'8% della dotazione organica dirigenziale per l'attivazione di incarichi dirigenziali a tempo determinato, considerando che la contrattazione collettiva di comparto non prevede la distinzione tra dirigenza di prima e di seconda fascia e che la percentuale più elevata del 10% è prevista per la dirigenza statale di prima fascia.
Ciò premesso, al fine del conferimento dell'incarico prospettato nel quesito (incarico che si configura quale incarico di responsabile di specifica Area Tecnica), il Comune potrà compiere le proprie discrezionali valutazioni, nell'ambito della propria autonomia organizzativa, considerati i riflessi applicativi delle citate pronunce delle Sezioni riunite sulla disciplina dell'art. 110 del TUEL
[6], sia, in concreto, partendo dal necessario presupposto della previsione statutaria della possibilità di conferire tale tipologia di incarico [7], avuto riguardo alla specifica attività da espletare, e tenuto conto delle proprie dimensioni e della dimensione della specifica struttura cui sarà preposto il soggetto incaricato.
In conclusione, la stipula di un contratto di natura fiduciaria a tempo determinato, nei termini sopra esposti, risulta essere tuttora possibile, nel rispetto dei limiti delineati.
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[1] Cfr. sez. reg. di controllo per la Lombardia, parere n. 308/2010.
[2] Cfr. Corte dei conti, Sezioni riunite, deliberazione n. 14 dell'08.03.2011.
[3] Cfr. deliberazioni n. 13 e 14 dell'08.03.2011.
[4] Cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 324/2010.
[5] Sebbene la formulazione dell'art. 110, comma 1, del TUEL non contenga alcuna limitazione percentuale.
[6] La modifica più rilevante da evidenziare è che comunque va rispettata la percentuale massima definita dalla normativa statale.
[7] L'art. 80, comma 2, del vigente Statuto dell'Ente prevede espressamente tale possibilità
(28.10.2011 -
link a www.regione.fvg.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Contratto a tempo determinato per alta specializzazione, ex art. 110, D.Lgs. 267/2000.
Preso atto della mancanza allo stato attuale di un orientamento giurisprudenziale consolidato in ordine alla vigenza dell'art. 110 del TUEL, successivamente all'entrata in vigore del DLgs. 150/2009, e nel ravvisare l'opportunità dell'attesa di una pronuncia delle sezioni riunite della Corte dei Conti, cui la questione è stata rimessa dalla sezione regionale FVG, pur esprimendosi nel senso dell'applicabilità diretta della novella legislativa alle autonomie locali, si rileva altresì l'orientamento generale delle Associazioni Anci e Upi in termini di vigenza dell'art. 110, del TUEL, ferma restando l'autonoma valutazione di ciascun Ente al riguardo.
È altresì rimessa all'Ente, secondo l'orientamento della magistratura contabile, la valutazione in concreto, ai fini del conferimento di incarico con contratto a tempo determinato a titolo di alta specializzazione, della sussistenza del requisito dell'alta specializzazione, in relazione alle specifiche attività da espletare.
L'assunzione a tempo determinato avviene, del resto, nell'ambito di quanto disposto dalla normativa regionale, relativamente alla previa verifica della possibilità di esternalizzazione e nel rispetto dei limiti di spesa previsti, derogabili per i comuni con popolazione fino a 5000 abitanti.

Con la nota indicata a riferimento il Comune ha proposto due distinti quesiti; nell'informare il Comune che il quesito n. 1 è stato trasmesso per competenza al Servizio polizia locale e sicurezza, con il presente parere si risponde al quesito n. 2.
Il Comune riferisce di un posto previsto e vacante nella propria dotazione organica di istruttore amministrativo, cat. C, al servizio ufficio cultura e sport, non coperto da alcuni anni e le cui mansioni sono state assicurate sino al dicembre 2010 da una collaboratrice esterna.
Chiede, il Comune, la possibilità, nel rispetto della qualifica da ricoprire, di far ricorso alla stipula di un contratto pubblico a titolo di alta specializzazione, ex art. 110, DLgs. 267/2000, TUEL, per ovviare ai limiti di spesa per studi, incarichi e consulenze, posti dall'attuale normativa nazionale e regionale.
In tema di assunzione con contratto di lavoro a tempo determinato, nel caso di specie per la copertura dei posti in dotazione organica a titolo di alta specializzazione, la normativa da esaminare è la seguente.
Sul piano dell'ordinamento nazionale, viene in considerazione l'art. 110, comma 1, del TUEL, il quale consente agli Enti locali di prevedere nello Statuto la possibilità di ricoprire i posti di responsabile di servizi o uffici con qualifiche dirigenziali o di alta specializzazione, mediante contratti a tempo determinato di diritto pubblico.
Con riferimento all'attuale vigenza di tale norma, successivamente all'entrata in vigore del D.Lgs. 150/2009, che ha recato una significativa riforma delle modalità di conferimento degli incarichi dirigenziali di cui all'art. 110 del TUEL, prevedendo una riduzione, rispetto a quanto previsto dalla normativa vigente, delle quote percentuali di dotazione organica entro cui è possibile il conferimento di incarichi a soggetti estranei alla pubblica amministrazione, si è acceso un vivace dibattito giurisprudenziale, registrandosi due differenti avvisi da parte delle Sezioni regionali della Corte dei Conti.
Da un lato, la Sezione regionale di controllo per la Lombardia, con parere n. 308/2010 ha affermato l'attuale vigenza della disciplina contenuta nell'art. 110 del TUEL, riferita oltre che alle qualifiche dirigenziali, anche a quelle di alta specializzazione. E questo, in considerazione dell'autonomia organizzativa costituzionalmente riconosciuta agli enti locali e dell'attuale assenza di un intervento legislativo espresso di modifica, richiesto dalla clausola di specialità di cui all'art. 1, comma 4, DLgs 267/2000 per le deroghe al TUEL ad opera delle leggi della Repubblica.
Dall'altro, le Sezioni regionali di controllo per la Puglia (deliberazione n. 44/2010) e il Veneto (deliberazione 231/2010) hanno invece ritenuto che le disposizioni di cui all'art. 110, commi 1 e 2, del TUEL, non trovino più applicazione, muovendo da diverse argomentazioni.
E dunque:
a) l'abrogazione dell'art. 110 in base al criterio cronologico di cui all'art. 15 delle preleggi secondo cui tra fonti dello stesso grado gerarchico, promulgate in tempi successivi e regolanti la stessa materia, la legge posteriore deroga la legge precedente;
b) l'operatività della modifica operata dalla novella normativa di cui al D.Lgs. 150/2009 anche nell'ambito degli enti locali in virtù dell'estensione dell'ambito soggettivo a tutte le amministrazioni pubbliche di cui all'art. 1, secondo comma, D.Lgs. 165/2001, tra le quali sono compresi anche gli enti locali (art. 40, DLgs. 150/2009);
c) la riconducibilità della novella legislativa alla materia di accesso al pubblico impiego, (art. 97, terzo comma, Cost.) e dunque non inficiante l'autonomia regolamentare degli Enti locali in materia di organizzazione (art. 117, sesto comma, Cost.).
La Sezione regionale di controllo per la nostra regione FVG, con delibera n. 342 del 15.12.2010, in considerazione dei contrastanti avvisi da parte delle Sezioni regionali di controllo, ha ritenuto di rimettere la questione alle Sezioni Riunite, pur esprimendo delle considerazioni.
La Corte ha comunque espresso il proprio avviso circa l'applicabilità della novella del 2009 anche alle autonomie locali. Ha, infatti, evidenziato come l'intento del legislatore di riforma sia stato quello di estendere la nuova disciplina di definizione dei limiti percentuali di conferimento degli incarichi a soggetti esterni alla pubblica amministrazione anche agli enti locali al fine di meglio rispondere al principio di buon andamento ed imparzialità della pubblica amministrazione.
La Sezione regionale ha, inoltre, richiamato la posizione della Corte Costituzionale in ordine alla riconducibilità della disciplina degli incarichi esterni alla materia dell'ordinamento civile di competenza esclusiva dello Stato (art. 117, secondo comma, lett. l, Cost.), da cui consegue l'applicazione della novella normativa di cui al D.Lgs. 150/2009 anche agli Enti locali della Regione FVG.
Si riportano, infine, le considerazioni delle Associazioni Anci e Upi, (nota del 21.12.2010), le quali, nell'osservare la mancanza allo stato attuale di un orientamento giurisprudenziale consolidato, e nel far salve le autonome valutazioni proprie di ciascun Ente, esprimono un orientamento generale in termini di attuale vigenza dell'art. 110, del TUEL.
A tal fine adducono più argomentazioni: la modifica della disciplina degli incarichi non è stata qualificata dal legislatore di riforma come materia esclusiva dello Stato, non può dunque applicarsi direttamente alle Regioni ed autonomie locali; l'art. 110 del TUEL non può ritenersi implicitamente abrogato a ciò ostando la clausola di specialità di cui all'art. 1, co. 4, del TUEL, sopra richiamata; la novella del 2009 non ha finalità di contenimento della spesa pubblica complessiva in quanto si riferisce ad incarichi a contratto entro i limiti della dotazione organica che non possono determinare alcuna maggior spesa per l'Amministrazione.
Proseguono le Associazioni, muovendo dalla ratio evidente della novella legislativa del 2009 di evitare che le amministrazioni utilizzino in maniera eccessiva lo strumento dell'incarico a termine, con l'affermare la doverosità di ciascun Ente di recepire nel proprio regolamento il principio di contenimento degli incarichi a termine conferiti a soggetti esterni, definendolo in percentuale rispetto alla dotazione organica dell'area direttiva.
Ciò premesso, per completezza, venendo al contenuto della norma in questione, l'art. 110 del TUEL prescrive specificamente che la possibilità di conferire un incarico a titolo di alta specializzazione sia espressamente prevista nello statuto dell'Ente.
La norma indica altresì ai fini della sua concreta applicazione il possesso del requisito dell'alta specializzazione.
Al riguardo, appare di interesse quanto espresso dalla Corte dei Conti nella pronuncia n. 702/2010, sezione regionale di controllo per la Lombardia, dove si afferma che il requisito dell'alta specializzazione deve essere individuato in concreto dall'ente, in relazione alle attività da espletare ed alle necessità funzionali da soddisfare. E se è evidente, si legge nella pronuncia, che il requisito ordinario è quello della laurea (richiesto per l'accesso dall'esterno alla categoria D), trattandosi di un incarico di responsabile di ufficio, tuttavia non può trascurarsi che, in relazione a specifiche attività proprie dell'organizzazione degli enti pubblici, soprattutto di dimensioni minori, l'attività di specifici settori in particolare quelli tecnici, può esser svolta da soggetti che seppur privi di titolo di studio universitario, siano in possesso del titolo di studio specificamente richiesto per l'esercizio di una particolare attività, nonché di idonea e documentata esperienza di settore (Corte dei Conti, Lombardia, n. 702/2010).
Sul piano dell'ordinamento regionale, l'art. 13, co. 15, L.R. 24/2009 (Legge Finanziaria 2010), nell'ambito delle norme di contenimento della spesa pubblica, prevede che le amministrazioni del comparto unico del pubblico impiego regionale e locale di cui all'art. 127, L.R. 13/1998, prima di procedere anche alle assunzioni di personale con contratto di lavoro a tempo determinato verifichino la possibilità e la convenienza di ricorrere ad appalti di servizi o ad incarichi professionali.
In caso di esito negativo di detta verifica, la medesima norma prevede al comma 16 la possibilità per gli esercizi 2010 e 2011 di assunzioni a tempo determinato nel limite di spesa ivi indicato, ma derogabile per i comuni con popolazione fino a 5.000 abitanti.
Ciò premesso, al fine del conferimento di incarico a titolo di alta specializzazione, ex art. 110, del TUEL, il Comune, nell'attesa opportuna di una definitiva pronuncia delle Sezioni Riunite, potrà compiere le proprie autonome valutazioni, nell'ambito della sua autonomia organizzativa, sia in ordine all'applicabilità dell'art. 110 del TUEL, sia, in concreto, in relazione alla sussistenza del requisito dell'alta specializzazione, partendo dal necessario presupposto della previsione statutaria della possibilità di conferire tale tipologia di incarico, avuto riguardo alla specifica attività da espletare, e tenuto conto delle proprie dimensioni e della dimensione della specifica struttura cui sarà preposto il soggetto incaricato.
In tal caso, muovendo da una lettura combinata della normativa statale e regionale relativa alla stipula di contratti a tempo determinato, il Comune potrà procedere secondo quanto stabilito dalla finanziaria regionale 2010, e dunque in deroga ai limiti di spesa previsti, in quanto Comune con popolazione inferiore a 5.000 abitanti, e previa verifica della possibilità e convenienza di ricorrere ad appalti di servizi o ad incarichi professionali (08.03.2011 -
link a www.regione.fvg.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Personale degli enti locali. Art. 110 del d.lgs. n. 267/2000 e art. 19 del d.lgs. n. 165/2001.
La Corte dei conti, sez. Lombardia, ritiene che le disposizioni di cui all'art. 110 del TUEL siano tuttora applicabili agli enti locali. Certa dottrina però rileva come la richiamata norma risulti incompatibile con la riforma della dirigenza pubblica introdotta dal d.lgs. n. 150/2009.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine all'attuale applicabilità agli enti locali, dopo l'intervento del d.lgs. n. 150/2009 che ha modificato, tra l'altro, l'art. 19 del d.lgs. n. 165/2001, dell'art. 110 del d.lgs. n. 267/2000, in ordine alla possibilità di attribuire un incarico dirigenziale a tempo determinato a proprio dipendente di categoria D.
L'Ente chiede inoltre di conoscere se, volendo ricoprire con concorso pubblico il posto di dirigente resosi vacante, permanga comunque l'obbligo di ricorrere alla prioritaria procedura di mobilità di comparto e se la spesa derivante da detta assunzione debba essere contenuta nel limite di spesa del 20% imposto dall'art. 13, comma 16, della L.R. n. 24/2009.
Preliminarmente, si osserva che sono di evidente rilevanza le nuove disposizioni dettate dal d.lgs. n. 150/2009 in materia di incarichi dirigenziali, che hanno modificato ed integrato la disciplina contenuta nel d.lgs. n. 165/2001, introducendo elementi di maggiore garanzia e trasparenza nella regolazione dei sistemi di affidamento e di cessazione degli incarichi medesimi, sia per quanto riguarda i dirigenti a tempo indeterminato, che per quanto riguarda i dirigenti a tempo determinato.
Con riferimento al novellato art. 19 del d.lgs. n. 165/2001, si nota come, in vista della costruzione di un modello volto a garantire imparzialità, oggettività e qualità delle decisioni, vengano ridefiniti i criteri per l'attribuzione degli incarichi e vengano introdotti significativi elementi di pubblicità nella procedura di conferimento, con l'obbligo di motivare i criteri di scelta.
In materia di incarichi dirigenziali attribuiti con contratto a tempo determinato, disciplinati dall'art. 19, comma 6, del d.lgs. n. 165/2001, la nuova formulazione della norma dispone che tali incarichi sono conferiti, fornendone esplicita motivazione, a persone di particolare e comprovata qualificazione professionale, non rinvenibile nei ruoli dell'amministrazione.
Premesso un tanto, la questione fondamentale da affrontare è quella relativa all'incidenza di detta innovativa disciplina sugli incarichi dirigenziali con contratto a tempo determinato nei confronti degli enti locali.
Dal punto di vista normativo le disposizioni sulla dirigenza, contenute nel capo II del d.lgs. n. 165/2001, per le autonomie locali costituiscono, assieme al principio di distinzione dei poteri, norme di principio, che non trovano immediata applicazione, ma devono essere adeguate alla specificità delle singole amministrazioni, le quali esercitano, allo scopo, la propria potestà statutaria e regolamentare, in virtù di quanto disposto dall'art. 27 del medesimo decreto legislativo.
Per gli enti locali vigono norme speciali contenute nel d.lgs. n. 267/2000 (nella fattispecie l'art. 110 sugli incarichi a contratto) e, in virtù di quanto disposto dall'art. 1, comma 4, del TUEL, le norme contenute in tale provvedimento possono formare oggetto solo di modifica espressa.
Pertanto, una dottrina prevalente
[1], considerato che non c'è stata alcuna espressa abrogazione della suddetta norma da parte del d.lgs. n. 150/2009, né da parte dell'art. 74 del medesimo, ritiene di dover escludere le autonomie locali dall'applicabilità del nuovo art. 19 del d.lgs. n. 165/2001.
I dubbi sulla diretta applicabilità insorgono però allorché, ai sensi del novellato art. 19, comma 6-ter, del d.lgs. n. 165/2001, si stabilisce che il comma 6 ed il comma 6-bis dell'articolo medesimo, si applicano a tutte le amministrazioni pubbliche di cui all'art. 1, comma 2, del decreto medesimo (enti locali compresi).
Sembrerebbe, quindi, che si possano applicare direttamente alle autonomie locali quelle parti di disciplina che vanno ad integrare il TUEL, quindi, in particolare, gli aspetti correlati all'obbligo di motivare in modo esplicito le ragioni per le quali si intenda attingere a professionalità esterne, nonché la possibilità di ricorrere a tali incarichi solo in assenza di uguali professionalità all'interno dell'amministrazione.
Al riguardo, si consideri anche il tenore dell'art. 88 del TUEL, che contiene un rinvio dinamico alle disposizioni del d.lgs. n. 165/2001, ma -si potrebbe intendere- a completamento della disciplina contenuta nel testo unico sull'ordinamento locale stesso, senza possibilità di sovrapposizioni tra le fonti.
Pertanto, la chiave di lettura delle norme in esame per le autonomie locali potrebbe essere quella dell'adeguamento dello statuto e del regolamento alla disciplina della dirigenza (art. 111 del d.lgs. n. 267, nel rispetto dei principi stabiliti sia nel capo III (dirigenza e incarichi) del titolo IV del TUEL, sia nel capo II (dirigenza) del titolo II del d.lgs. n. 165/2001. Questa conclusione ermeneutica è rafforzata dal sopra richiamato art. 27 del d.lgs. n. 165/2001, che non è stato assolutamente modificato dal d.lgs. n. 150/2009 e che costituisce una norma speculare all'art. 11 del TUEL.
Pertanto, sembra che queste norme siano necessarie e sufficienti per costituire l'anello di congiunzione tra i due ordinamenti in materia di dirigenza.
Alla luce del canone interpretativo sopra esposto, quindi, si può dare applicazione alla riforma Brunetta con riferimento all'art. 110 del d.lgs. n. 267/2000, il quale disciplina particolari tipologie di incarichi a contratto e consente agli enti locali di avvalersi di prestazioni a tempo determinato per ricoprire i posti vacanti di dirigente in dotazione organica e di prevedere posti extra dotazione di natura dirigenziale.
In teoria il comma 1 dell'art. 110 consente agli enti locali di organizzare l'intero assetto della dirigenza locale solo con dirigenti a contratto di nomina fiduciaria, senza alcun limite percentuale sulla dotazione organica.
In questo caso gli enti locali dovrebbero adeguare gli statuti ed i regolamenti ai principi desumibili dalla giurisprudenza costituzionale ed a quello di riduzione delle quote percentuali della dotazione organica entro cui è possibile il conferimento degli incarichi ai soggetti estranei alla pubblica amministrazione
[2].
Sarebbe auspicabile, ad ogni buon conto, un intervento legislativo che apporti una modifica espressa a quelle parti del TUEL che sono in contrasto con il d.lgs. n. 165/2001, come modificato ed integrato dal d.lgs. n. 150/2009, come rilevato anche dalla Corte dei conti, sezione regionale di controllo per la Lombardia
[3], che si è espressa sulla 'sopravvivenza' dell'art. 110 del TUEL nei confronti degli enti locali, al fine di evitare incertezze interpretative che possano creare prassi applicative distorte. A tal proposito, la stessa Corte ha richiamato l'attenzione degli enti locali ad un utilizzo meditato e conforme alla buona gestione della possibilità di ricorrere al conferimento di incarichi dirigenziali a contratto a tempo determinato.
Le modifiche apportate dal d.lgs. n. 150/2009 -osserva la predetta sezione della Corte dei conti- alla disciplina del conferimento di incarichi dirigenziali a contratto riconducono la normativa sulla dirigenza pubblica ai principi generali di imparzialità e di buon andamento dell'azione amministrativa più volte richiamati dalla giurisprudenza costituzionale, ma, ad ogni buon conto, la disciplina statale troverebbe necessariamente il proprio limite nell'autonomia statutaria e regolamentare costituzionalmente garantite, in materia, agli enti locali.
Pertanto, ad avviso della Corte, la disciplina contenuta all'art. 110 del TUEL rientra nel particolare ambito di autonomia di ciascun ente locale di provvedere alla propria organizzazione amministrativa, che deve esplicitarsi in una scelta autonoma, in primo luogo nello statuto e, quindi, nel pertinente regolamento di organizzazione e della dirigenza.
Il testo dell'art. 110 TUEL, afferma la Corte, non è stato espressamente modificato dal d.lgs. n. 150/2009 e, ai sensi di quanto disposto dall'art. 74, comma 2, del decreto medesimo, nei limiti dell'autonomia riconosciuta agli enti locali, questi adegueranno i propri statuti e regolamenti ai principi ivi enunciati, ferma restando l'immediata vigenza delle disposizioni dichiarate applicabili anche agli enti locali ed esplicitate nell'art. 74, comma 1, del d.lgs. n. 150/2009.
La Corte dei conti perviene al convincimento che, in forza dell'autonomia organizzativa loro riconosciuta dalla Costituzione, i Comuni, nei limiti di cui all'art. 110 TUEL, possono disciplinare con le modalità più corrispondenti alla singola realtà locale i propri Uffici e le tipologie di incarichi da conferire ai dirigenti ad essi preposti.
In conclusione, la Corte dei conti, sezione Lombardia, ritiene che le disposizioni di cui all'art. 110 TUEL siano vigenti anche dopo l'entrata in vigore del d.lgs. n. 150/2009, che ha recato una significativa riforma delle modalità e dei limiti di conferimento di incarichi dirigenziali.
Ad ogni buon conto, non si può sottacere che certa dottrina
[4] non ha condiviso le illustrate osservazioni della Corte dei conti, evidenziando, invece, l'incompatibilità, con l'intervenuta riforma della dirigenza pubblica, dell'articolo 110 del d.lgs. 267/2000, che si porrebbe in evidente contrasto con la novellazione dell'articolo 19 del d.lgs. n. 165/2001 (perché non richiede la motivazione espressa del ricorso a dirigenti esterni; non contiene alcuna limitazione percentuale alla possibilità di coprire la dotazione organica dei dirigenti con assunzioni a tempo determinato; permette, al comma 2, anche di assumere dirigenti oltre la dotazione organica, con un sistema di limitazione percentuale riferito non solo alla dotazione dei dirigenti, ma anche dei funzionari).
Alla luce degli orientamenti non univoci sopra illustrati, si ritiene, quindi, opportuno suggerire la massima prudenza, agli enti locali, nel conferimento di incarichi dirigenziali a contratto, rammentando, comunque, il rigoroso rispetto dei principi enucleati dall'attuale art. 19, comma 6, del d.lgs. n. 165/2001.
Per quanto concerne inoltre la possibilità di affidare ad un proprio dipendente di categoria D un contratto a tempo determinato dirigenziale, si osserva che certa dottrina
[5] ha affermato (e le considerazioni espresse appaiono condivisibili) che laddove l'assunzione riguardasse personale privo di qualifica dirigenziale, il fenomeno configurerebbe un'ascesa verticale, una novazione cioè del rapporto di lavoro in una qualifica superiore. Il commentatore sostiene, infatti, che: 'Risulta assolutamente erroneo ritenere che l'incarico dirigenziale a contratto a dipendenti privi di qualifica dirigenziale del medesimo ente conferente non comporti una mutazione dello status giuridico del destinatario, per di più rilevando che ciò sarebbe confermato dalla posizione di questo in aspettativa. In disparte ogni considerazione sulla legittimità costituzionale, la razionalità e logicità di una norma che consenta ad un medesimo dipendente di condurre due rapporti lavorativi col medesimo ente: uno quiescente, l'altro in categoria superiore, un'aberrazione paradossale vera e propria [........] Nel caso dell'incarico dirigenziale a contratto, il dipendente viene assunto come dirigente. Cambia, dunque, il suo status giuridico: passa ad un'altra area, ad un'altra modalità gestionale del rapporto, ad altre funzioni e responsabilità. Si pone in essere, dunque, il fenomeno della novazione del rapporto contrattuale con l'acquisizione di una qualifica superiore esattamente identico a quello della progressione verticale. Ma il d.lgs. 150/2009 ha abolito in modo assoluto qualsiasi possibilità di ascesa verticale dei dipendenti pubblici (di ruolo o non di ruolo) attraverso sistemi di reclutamento non aperti al pubblico, consentendo solo il concorso con riserva di posti'.
Per quanto concerne l'ultima questione posta, se sia obbligatoria la procedura di mobilità preliminare di comparto unico anche per i posti vacanti dirigenziali e se, per dette assunzioni, valga comunque il limite di spesa imposto dall'art. 13, comma 16, della L. R. n. 24/2009, si è provveduto a contattare il Servizio innovazione e politiche del pubblico impiego, che ha dato risposta affermativa.
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[1] Cfr. Silvano Marchigiani e Natalia Mancini, Incarichi dirigenziali a contratto negli enti locali dopo la riforma Brunetta, in Azienditalia/Personale n. 2/2010; Pasquale Monea e Marco Mordenti, Nuove regole sugli incarichi dirigenziali negli EE.LL. e nelle Regioni a Statuto ordinario. La questione controversa degli incarichi a termine dopo la riforma voluta da Brunetta, in LexItalia.it, n. 4/2010; L'applicazione del decreto legislativo n. 150/2009 negli enti locali:le prime linee guida dell'Anci.
[2] Di orientamento nettamente opposto, invece, Luigi Oliveri, D.lgs. 150/2009 e riforma della dirigenza: le non condivisibili interpretazioni dell'ANCI, in LexItalia.it n. 2/2010.
[3] Cfr. parere n. 308 del 2010.
[4] Cfr. Luigi Oliveri, Disapplicato l'articolo 110, commi 1 e 2, del d.lgs. 267/2000. Deboli le motivazioni di interpretazioni di 'compromesso', in LexItalia n. 4/2010.
[5] Cfr. Luigi Oliveri, D.lgs. 150/2009 e riforma della dirigenza: le non condivisibili interpretazioni dell'ANCI, in LexItalia.It, n. 2/2010
(15.09.2010 -
link a www.regione.fvg.it).

NEWS

ATTI AMMINISTRATIVI: I Tar «entrano» in discoteca. Sospesi i divieti imposti dai sindaci, ma individuati i limiti alle attività. Provvedimenti d’urgenza. In estate i giudici amministrativi mediano tra residenti, esercenti e avventori.
L’attività della giustizia amministrativa è andata avanti anche in pieno agosto, soprattutto su temi urgenti visto il periodo: in zone turistiche -ad esempio- le discoteche generano forti contrasti su orari e modalità di esercizio, nonché episodi di forte impatto sociale. Rumori, parcheggi, controlli all’interno degli esercizi sono problemi ricorrenti, che in questa stagione hanno trovato risposte calibrate e rapide.
Sui livelli acustici, il Tar Salerno (decreto 19.08.2015 n. 501) ha sospeso un’ordinanza comunale che aveva disposto la cessazione dell’attività di una discoteca, ma ha ordinato di tarare l’impianto sonoro in maniera tale da non superare il limite assoluto consentito in orario notturno per la specifica classe di attività risultante da specifici piani.
Il Tar di Trieste (decreto 13.08.2015 n. 71) ha sospeso la chiusura di una discoteca per 15 giorni, consentendo l’ingresso ai soli maggiorenni previamente identificati con fotocopia della carta d’identità.
A Bologna, il Tar (decreto 07.08.2015 n. 254) si è occupato del provvedimento del questore di Rimini che ha disposto la chiusura per 120 giorni della discoteca Cocoricò di Riccione all’indomani della morte di un ragazzo nel locale: la chiusura è stata confermata.
A Milano, il Tar (decreto 06.08.2015 n. 1047) ha invece sospeso la chiusura di un locale disposta da un sindaco, ma ha imposto il limite di orario di chiusura (alle 0,30), ancor più breve per l’attività di vendita, in modo da evitare che l’assembramento dei clienti, all’esterno, si prolungasse oltre l’una. Il gestore dovrà poi pulire l’area antistante l’esercizio, rimuovendo ogni tipo di materiale proveniente dal locale e inibendo l’uso di ogni sua struttura esterna oltre l’orario.
Queste pronunce, emesse a pochi giorni dai provvedimenti delle autorità locali (sindaco, questore), esprimono il potere di urgenza (articolo 56, Dlgs 104 del 2010) che consente di ottenere un primo provvedimento in pochi giorni.
Ulteriore motivo d’interesse di questi interventi dei Tar sono la possibilità di colloquio giudiziario con l’amministrazione locale, escludendo contrapposizioni frontali, ma rimodulando il provvedimento impugnato (in genere, ordinanze sindacali) in modo da incidere con adeguatezza sugli interessi coinvolti. La gestione delle attività estive contrappone, infatti, diritti di particolare spessore, quali quelli alla salute, all’ordine e alla sicurezza pubblica, da coordinare con le attività economiche e le attrattive turistiche.
Le pronunce dei giudici non sono quindi di mero accoglimento o rigetto: mediando le contrapposte esigenze, i giudici amministrativi comprimono, nella durata o nella latitudine del divieto, i provvedimenti locali applicando il principio di proporzionalità. Si individuano quindi i problemi (un rumore eccessivo, la maleducazione agevolata da sedie e tavolini rimasti utilizzabili fino al mattino) e si suggerisce una soluzione.
Del resto, in numerosi altri settori i provvedimenti amministrativi non si sovrappongono più, ma cooperano a governare il problema: il disordine delle discoteche è affrontato quindi con la stessa logica che ammette continuità, con prescrizioni, alle imprese con problemi antimafia, attuando la logica della continuità aziendale presa a prestito dal diritto fallimentare
(articolo Il Sole 24 Ore del 27.08.2015).

EDILIZIA PRIVATA: Per gli eventi non basta la Scia. Grandi locali e manifestazioni vanno autorizzati per tempo.
Una circolare del Viminale limita la semplificazione. La Scia resta per le piccole attività.

Niente Scia per le attività di spettacolo. Per manifestazioni fieristiche, artistiche, musicali e per i pubblici locali con capienza da 200 persone in su ci vorrà il via libera di una commissione di vigilanza.
La Scia, infatti, non può sostituire le verifiche della commissione di vigilanza sui luoghi di spettacoli quantomeno per eventi che superino le 24 ore. Uno snellimento procedurale cui sarebbe preordinato l'applicazione generalizzata della Scia, applicato agli eventi legati allo spettacolo di qualsiasi dimensione ed entità, si tradurrebbe di fatto nella rinuncia a comprovate garanzie di sicurezza.

Lo chiarisce il Ministero dell'Interno con la
nota 21.05.2015 n. 7764 di prot. del dipartimento della pubblica sicurezza, avente a oggetto «pubblici spettacoli - artt. 68, 69 e 80 del Tulps e applicabilità dell'istituto della Scia».
Il rilascio dell'autorizzazione di pubblica sicurezza ai sensi dell'art. 80 rd 18.06.1931, n. 773 (Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza) presuppone poi la verifica della solidità e della sicurezza degli edifici e l'esistenza di uscite pienamente adatte allo sgombero, quindi, tale titolo autorizzatorio non può essere surrogato a mezzo di Scia.
La liberalizzazione delle attività economiche di cui all'articolo 19 della legge n. 241 del 1990 non è espressamente applicabile ai casi in cui, come nella specie, è necessaria la valutazioni di interessi sensibili (quali la sicurezza pubblica) in ordine ai quali è richiesto un particolare schema procedimentale. Nella nota, il ministero dell'interno risponde ad un quesito della regione Friuli Venezia Giulia.
Quest'ultima suggeriva di poter sostituire il parere della commissione di vigilanza sui luoghi di spettacoli sul progetto, per locali o impianti fino a 200 persone, con asseverazione di parte, e di applicare l'istituto della Scia per tutti i procedimenti di rilascio della licenza di spettacolo prevista dagli articoli 68 e 69 Tulps, indipendentemente dalla capienza del locale o dell'impianto. Contestata anche la tesi secondo la quale per eventi fino a 200 persone non sarebbe da tenere in alcun conto il limite delle ore 24 ai fini della presentazione della Scia, secondo la nuova versione dell'articolo 69 Tulps.
Dunque, niente segnalazione certificata di inizio attività, o Scia per le autorizzazioni, o licenze di locali e attività di spettacolo soggette all'agibilità di cui all'articolo 80 Tulps. Dello stesso parere anche il Consiglio di stato VI sezione, che con la sentenza dell'08/07/2015 n. 3397 sostiene «Il rilascio dell'autorizzazione di pubblica sicurezza ai sensi dell'art. 80 rd 18.06.1931, n. 773 (Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza) presuppone poi la verifica della solidità e della sicurezza degli edifici e l'esistenza di uscite pienamente adatte allo sgombero, quindi, tale titolo autorizzatorio non può essere surrogato a mezzo di Scia».
Inoltre, il presupposto per la sufficienza di una Scia, sempre in virtù del citato articolo 19 della legge n. 241 del 1990, è la natura strettamente vincolata dell'atto autorizzativo da essa sostituito, subordinatamente al mero accertamento positivo dei presupposti e dei requisiti di legge, laddove il parere delle commissione di vigilanza sui luoghi di spettacoli, e le licenze di agibilità o di esercizio che ne conseguono, presuppongono l'esercizio della discrezionalità tecnica, commisurata a ciascuno specifico locale o impianto (articolo ItaliaOggi del 27.08.2015).

VARIEmergenze, chi forza la porta paga. Nel caso di pericolo grave non si contesta la violazione di domicilio.
Gestire gli imprevisti. Dalla fuga di gas al corto circuito: le conseguenze sul piano penale e civilistico.

In casa d’altri si può entrare anche forzando la porta: ma solo se per evitare pericoli gravi alle persone. Situazioni che d’estate si verificano, con la chiusura di molti appartamenti per lunghe settimane, dove si possono verificare fughe di gas e corti circuiti.
Nel sistema giuridico italiano, che conferisce un’amplissima serie di diritti ai proprietari, vi è l’impossibilità per gli estranei di entrare nelle private abitazioni. Naturalmente il sistema normativo pone svariate leggi a tutela della casa e, in caso di effrazione o di accesso di una persona senza il consenso del proprietario, prevede l’applicazione del Codice penale con articolo 614: introdursi «nell’abitazione altrui, o in un altro luogo di privata dimora, o nelle appartenenze di essi, contro la volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderlo».
Come tutte le regole, però, anche la norma sopra citata prevede una serie di eccezioni motivate dall’esperienza e dalla necessità di temperamenti alle leggi più tassative.
Si pensi al caso in cui, nel condominio, ci si accorga che nell’appartamento contiguo i proprietari –ormai partiti per le vacanze estive– abbiano dimenticato l’impianto del gas aperto. Sarebbe paradossale infatti che tutto lo stabile fosse tenuto a sopportare il rischio di una fuga di gas a causa della tassativa inviolabilità dell’altrui dimora.
Il Codice penale, come anzidetto, prevede quindi un importante temperamento rappresentato dall’articolo 54. Detta norma, infatti, afferma che «non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona».
Non sarà penalmente perseguibile, quindi, chi abbia sfondato la porta del vicino e si sia introdotto nell’appartamento al solo scopo di salvare la propria persona o altri da un danno grave e incombente.
Inoltre, continua la norma, detto pericolo non deve essere stato cagionato dalla stessa persona che viola il domicilio altrui e tale danno deve essere tanto grave da giustificare l’effrazione. Si può quindi affermare che, in caso vi sia un grave pericolo per le persone derivante da un appartamento sito nel condominio, allora i condòmini saranno legittimati ad accedere allo stesso per metterlo in sicurezza, anche senza il consenso del proprietario.
Naturalmente tutto ciò a patto che sussistano gli elementi di urgenza, necessità, rischio per la vita umana e impossibilità di diverso corso d’azione e salvo la necessità di risarcire gli eventuali danni cagionati al proprietario.
Quella di avvertire le autorità della necessità di un intervento urgente ed evitare di agire in prima persona risulta, in ogni caso, la scelta migliore. Questo rimane il corso d’azione più consigliabile perché il personale delle unità di emergenza (carabinieri, pompieri o personale sanitario) è assolutamente addestrato a rispondere a emergenze in abitazione chiusa.
Occorre comunque sottolineare che in questi casi, anche se l’irruzione sarà stata giustificata dallo stato di necessità, l’agente sarà unicamente scagionato dalla responsabilità penale, mentre resterà l’obbligo di natura civilistica di risarcire l’eventuale danno causato al proprietario (si pensi ad esempio alla rottura di un vetro o allo sfondamento della porta d’ingresso).
L’articolo 2045 del Codice civile, infatti, chiaramente afferma che «quando chi ha compiuto il fatto dannoso vi è stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona e il pericolo non è stato da lui volontariamente causato né era altrimenti evitabile, al danneggiato è dovuta un’indennità, la cui misura è rimessa all’equo apprezzamento del giudice»
(articolo Il Sole 24 Ore del 25.08.2015).

EDILIZIA PRIVATARischio di corruzione in Scia. Dopo 18 mesi la segnalazione si consolida per sempre. In una norma della legge di riforma della p.a. pericoli per l'azione amministrativa.
La riforma della pubblica amministrazione aumenta i rischi di corruzione. Le modifiche apportate dall'articolo 6 della legge 124/2015 alla disciplina della segnalazione certificata di inizio attività e all'autotutela amministrativa contenute nella legge 241/1990 possono creare varchi molto ampi all'inquinamento dell'azione amministrativa.

In sintesi, l'articolo 6 della legge delega di riforma della p.a. per un verso ribadisce che le amministrazioni possono inibire la prosecuzione delle attività produttive avviate con la segnalazione certificata di inizio attività, oppure sospenderla per 30 giorni con invito a conformarsi alle prescrizioni imposte, entro il termine di 60 giorni.
La novità che innesca pericoli evidenti di corruzione è contenuta nel comma 4 dell'articolo 19 della legge 241/1990, novellato dall'articolo 6 della legge 124/2015, ove si prevede: «decorso il termine per l'adozione dei provvedimenti di cui al comma 3, primo periodo, ovvero di cui al comma 6-bis, l'amministrazione competente adotta comunque i provvedimenti previsti dal medesimo comma 3 in presenza delle condizioni previste dall'articolo 21-nonies».
Occorre, allora verificare cosa dispone l'articolo 21-nonies della legge 241/1990, anch'esso modificato al comma 1 dall'articolo 6 della legge Madia. Il nuovo testo dispone che l'annullamento d'ufficio dei provvedimenti (e anche dei provvedimenti tacitamente formatisi per iniziativa dei privati, come le Scia) può essere disposto «entro un termine ragionevole, comunque non superiore a 18 mesi».
Decorsi i 18 mesi, allora, la Scia si consolida e qualsiasi atto di autotutela o di annullamento risulterebbe illegittimo e addirittura fonte di risarcimento del danno. L'amministrazione conserva il potere di annullare la Scia anche oltre i 18 mesi dalla sua formazione solo se, ai sensi dell'articolo 21-nonies, comma 2-bis, della legge 241/1990 (introdotto anch'esso dall'articolo 6 della legge 124/2015) si accerti che la Scia si sia formata sulla base «di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell'atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato». Insomma, le Scia, decorsi i 18 mesi, vengono sostanzialmente «blindate» e solo una sentenza passata in giudicato (dunque dopo anni e anni) potrebbe scardinare avvii di attività imprenditoriali inficiati da dati o dichiarazioni illegittime, se non false.
Si comprende, dunque, come chi abbia intenzione di avviare attività produttive anche al di fuori dei vincoli e limiti imposti dalla legge abbia tutto l'interesse a che la p.a. non svolga i controlli né entro i 60 giorni entro i quali essi consentono un potere pieno di annullamento, né entro i 18 mesi successivi. Oggetto di un accordo corruttivo tra portatori di interessi illeciti e p.a. potrebbe essere semplicemente il non sottoporre a nessuna verifica le Scia, così da farle consolidare.
In apparenza, simile accordo potrebbe non apparire illecito: l'effetto di consolidamento del diritto è disposto dalla legge. Occorre, tuttavia, ricordare che ai sensi dell'articolo 2, comma 1, della legge 241/1990 le pubbliche amministrazioni hanno il dovere di concludere ogni procedimento amministrativo, anche quelli avvitati d'ufficio, «mediante l'adozione di un provvedimento espresso».
La Scia dovrebbe attivare un obbligo di avvio d'ufficio delle procedure di verifica della loro regolarità, così da portare al provvedimento espresso di presa d'atto della loro regolarità.
Per prevenire un'inerzia strumentale alla blindatura delle Scia, sarebbe necessario che i piani triennali anticorruzione vietassero drasticamente il sistema del decorso del termine, come modo ordinario di gestire le procedure amministrative, e imponessero percentuali molto elevate, se non proprio il 100%, delle verifiche amministrative entro i termini dei 60 giorni.
In assenza di simili modalità cautelative, il breve termine di 18 mesi entro il quale è legittimo adottare l'annullamento d'ufficio si presta a utilizzi e ad accordi illeciti molto pericolosi per la tenuta del sistema. La velocizzazione delle procedure, insomma, mette a dura prova la legalità dell'azione amministrativa e impone una nuova impostazione del lavoro nella p.a., per evitare che l'opportunità offerta ai privati di avere certezza sui tempi dell'azione amministrativa si tramuti in falle operative, tali da ledere non solo la legittimità dell'azione della p.a., ma anche il fondamentale principio di concorrenza leale nell'ambito dell'attività imprenditoriale (articolo ItaliaOggi del 25.08.2015).

EDILIZIA PRIVATA: Dal 19/11 l'antincendio cambia nei piccoli alberghi.
Dal 19 novembre nuove regole tecniche per l'adeguamento antincendio degli hotel. Le nuove disposizioni si applicheranno alle attività ricettive turistico-alberghiere tra 26 e 50 posti letto. I materiali dovranno avere adeguate caratteristiche di reazione al fuoco e rispondere alle caratteristiche del luogo di installazione. L'intera struttura ricettiva, a eccezione delle aree a rischio, potrà costituire un unico compartimento.

È con il decreto del ministro dell'interno 03.08.2015 recante «approvazione di norme tecniche di prevenzione incendi, ai sensi dell'art. 15 del decreto legislativo 08.03.2006, n. 139» (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 20.08.2015 n. 192) che vengono stabilite le regole per l'adeguamento antincendio delle strutture alberghiere.
Le porte in tutti i locali in diretta comunicazione con le vie di esodo o con spazi adiacenti e non separati dalle vie di esodo, dovranno essere dotate di dispositivo di autochiusura. La larghezza utile delle vie d'uscita dovrà essere misurata deducendo l'ingombro di eventuali elementi sporgenti, con esclusione dei maniglioni antipanico. Nel sistema di vie d'uscita sarà vietato collocare specchi che potranno tranne in inganno sulla direzione da seguire nell'esodo. Le norme tecniche si potranno applicare alle attività di nuova realizzazione ovvero a quelle esistenti alla data del 19.11.2015.
In caso di interventi di ristrutturazione parziale ovvero di ampliamento ad attività esistenti, le medesime norme tecniche si potranno applicare a condizione che le misure di sicurezza antincendio esistenti nella restante parte di attività, non interessata dall'intervento, saranno compatibili con gli interventi di ristrutturazione parziale o di ampliamento da realizzare. Per gli interventi di ristrutturazione parziale ovvero di ampliamento su parti di attività esistenti le norme tecniche si applicheranno all'intera attività (articolo ItaliaOggi del 25.08.2015).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Nuova Pa al via con silenzio-assenso e autotutela. Entro 30 giorni obbligo di risposta tra le amministrazioni - Annullamenti di atti non oltre i 18 mesi.
Silenzio-assenso tra amministrazioni, autotutela in tempi certi e consulenze sì ma solo gratuite. Sono solo tre ma di impatto notevolissimo le norme della legge di riforma della Pa che entrano in vigore subito, cioè da venerdì prossimo. Le altre -ben 18 innovazioni- verranno attuate strada facendo, in un arco di tempo che si concluderà solo nel febbraio 2017, data di scadenza dell’ultima delega, quella per il riordino del pubblico impiego.
Da questa settimana, quindi, cambiano i rapporti tra le pubbliche amministrazioni. Viene introdotto infatti un nuovo meccanismo per il silenzio assenso (non valido per i rapporti tra Pa e privati) sulle richieste di pareri e nullaosta di qualsiasi tipo (compreso il cosiddetto concerto sui decreti ministeriali), che diventa la regola nel dialogo tra Pa (compresi i gestori di servizi pubblici).
Con tempi certi e uguali per tutti: in pratica l’amministrazione invia la richiesta di parere all’altro ente pubblico; da quando viene ricevuta, scattano 30 giorni per rispondere. Un tempo che può essere interrotto una sola volta, per integrazioni e per un massimo di altri 30 giorni. Una volta trascorsa la scadenza senza risposte, il silenzio viene appunto interpretato come un sì.
Fanno eccezione le amministrazioni cosiddette sensibili (Beni culturali e Salute) e quelle di tutela ambientale, paesaggistica e culturale che hanno più tempo -90 giorni- prima di vedere scattare il silenzio assenso (sempre solo tra Pa). Una novità che ha suscitato anche polemiche per il timore che le sovrintendenze non riescano a far fronte alle richieste neanche in tre mesi.
L’altra disposizione subito operativa è quella sull’autotutela, ovvero la possibilità riconosciuta a ogni amministrazione pubblica di revocare un proprio atto se si scopre che è illegittimo. Ebbene, finora l’annullamento era possibile entro «un tempo ragionevole», indicazione normativa che generava molta incertezza e discrezionalità. Da venerdì prossimo subentra una data certa, anche questa uguale per tutti: 18 mesi. Facciamo un esempio concreto: per annullare in autotutela un permesso di costruire, ad esempio, il Comune avrà 18 mesi dalla data del rilascio. Trascorsi questi, il costruttore potrà stare tranquillo.
La legge Madia (la 124/2015) ripristina fin da subito anche la possibilità per le Pa di assegnare incarichi o consulenze a pensionati pubblici o privati, che era stata del tutto cancellata dal Dl 95/2012. I contratti di questo tipo sono di nuovo ammessi, ma solo a titolo gratuito.
La road map
Per tutto il resto, la riforma sarà attuata in sei tappe, a partire appunto,dall’entrata in vigore del 28 agosto (si vedano le schede qui accanto). Il secondo passaggio chiave sarà 90 giorni dopo (il prossimo 26 novembre), data entro cui deve essere pronto il cosiddetto “decreto ghigliottina” che farà pulizia delle norme rimaste inattuate dal 2011 a oggi e non più utili.
Terzo appuntamento entro sei mesi (28.02.2016) con la delega per snellire la macchina della trasparenza e le norme anti corruzione, che servirà anche a fare finalmente chiarezza su chi deve applicare le sanzioni agli enti che non pubblicano online le informazioni. Tappa intermedia a otto mesi, poi, per il taglio dei costi delle intercettazioni (da attuare entro aprile prossimo).
Ma il cuore della riforma Madia prenderà vita entro la prossima estate (la data limite è il 28.08.2016, ma alcune anticipazioni sono già allo studio). È concentrato infatti nei 12 mesi dall’entrata in vigore il maggior numero di decreti attuativi. A partire dall’(ennesima) riforma della conferenza di servizi per le opere pubbliche (che non sarà più sempre obbligatoria) fino alla cura dimagrante per le camere di Commercio, al riordino delle Forze di polizia (con il nuovo destino del corpo forestale) e al libretto unico per auto e moto. Ultima tappa fra 18 mesi con la riforma del pubblico impiego e dei meccanismi di accesso.
Per l’assetto definitivo della macchina dello Stato si rischia comunque di attendere anche oltre i 18 mesi: per tutti i decreti attuativi,infatti, il Governo avrà un ulteriore anno a disposizione per eventuali correzioni
(articolo Il Sole 24 Ore del 24.08.2015 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Arrivano nuovi concorsi per valorizzare i migliori e sanzioni certe ai fannulloni. Il pubblico impiego.
Con la riforma della Pa si riapriranno le occasioni di impiego nel settore pubblico e che cosa cambierà per i fannulloni? Se con la prossima legge di Stabilità non si faranno scelte diverse, anche nel 2016 dovrebbe permanere il blocco del turn-over deciso per facilitare la mobilità dei dipendenti delle province. Mentre dal 2017 si dovrebbe tornare alla possibilità, per ogni amministrazione, di reclutare otto nuovi dipendenti ogni dieci cessazioni.
Nel frattempo la riforma dovrebbe cominciare a dare i suoi frutti che, sul fronte di chi cerca un impiego pubblico, riguardano soprattutto i concorsi. Nelle selezioni future verranno valorizzate le esperienze professionali acquisite nella Pa con un contratto precario, la conoscenza della lingua inglese diventerà un titolo di merito valutabile dalle commissioni giudicatrici e verrà cancellato il requisito del voto minimo di laurea. Verrà inoltre valorizzato il titolo di dottore di ricerca.
Il nuovo testo unico del pubblico impiego che sarà varato in virtù della legge delega sarà accompagnato anche da norme transitorie per favorire il reclutamento di chi ha vinto vecchi concorsi nelle amministrazioni con graduatorie aperte.
Il testo unico annunciato, che semplificherà le norme sedimentate dal dlgs 165 del 2001 in poi, conterrà anche una nuova disciplina del lavoro flessibile nel pubblico (che teoricamente dovrebbe essere limitato a situazioni molto particolari per evitare nuovo precariato) e con il superamento delle vecchie dotazioni organiche dovrebbe entrare in funzione una vera programmazione delle assunzioni sulla base degli effettivi fabbisogni di ogni amministrazione; un meccanismo che dovrebbe essere facilitato da un sistema informativo nazionale attivato al Dipartimento Funzione pubblica.
Novità in arrivo anche per i fannulloni o gli “esperti di malattie del fine settimana”. La delega prevede l’introduzione di norme più stringenti in materia di responsabilità disciplinare con l’obiettivo di rendere certe ed eseguite le sanzioni. Si tratta di misure di semplificazione delle regole attuali che, come dimostrato i dati Aran, non riescono a garantire un’esecutività in tempi certi. Il tema delle sanzioni contro imboscati e fannulloni è ritornato di forte attualità dopo lo scandalo delle assenze di massa per malattia dei vigili di Roma in occasione del Capodanno scorso.
La ministra Marianna Madia aveva promesso che in futuro il sistema delle sanzioni sarebbero diventato più efficace e ora lo strumento normativo per farlo è arrivato. Nell’ambito della riorganizzazione degli accertamenti medico-legali in caso di assenza per malattia è stata fatto poi la scelta di attribuire tutte le competenze all’Inps. Un altra mossa che dovrebbe garantire più certezza nei controlli.
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CONCILIAZIONE
Gli uffici pubblici si riorganizzano per far posto allo smart-working
Il datore di lavoro pubblico dei prossimi anni, se la sfida lanciata da questa nuova riforma della Pa andrà in porto, potrebbe contare su almeno un dieci per cento di dipendenti operativi da postazioni remote. La delega prevede che le amministrazioni si riorganizzino, nell’arco del prossimo triennio, per garantire a chi lo vorrà forme di telelavoro e di effettiva conciliazione dei tempi di vita e di impiego. Non si tratta del primo tentativo in questa direzione ma la novità della delega Madia è che vengono ora fissati degli obiettivi quantitativi.
Inoltre l’adozione delle misure organizzative e il raggiungimento degli obiettivi indicati (10% dei dipendenti e non più 20% come era previsto in una prima versione del testo) costituiranno oggetto di valutazione «nell’ambito dei percorsi di misurazione della performance organizzativa e individuale all’interno delle amministrazioni pubbliche».
Insomma, l’iniziativa non dovrebbe essere presa sottogamba dai dirigenti che dovranno definire gli obiettivi sulla gestione del personale nel triennio di sperimentazione. Mentre ai dipendenti e ai funzionari che chiederanno di lavorare anche da casa in smart-working o co-working verrà garantito che non subiranno alcun tipo di penalizzazione «ai fini del riconoscimento delle professionalità e delle progressioni di carriera». La disposizione è prevista per tutte le amministrazioni, mentre gli organi costituzionali, nell’ambito della loro autonomia, potranno definire propri criteri per garantire forme di conciliazione e telelavoro.
A questa novità della delega si coniuga quella che prevede istituzione di una Consulta nazionale per garantire l’effettiva integrazione delle persone con disabilità. L’obiettivo è quello di rafforzare il monitoraggio sul diritto al lavoro dei disabili nel settore pubblico (legge 12.03.1999, n. 68) e prevedere nuovi piani di espansione e riorganizzazione.
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MOBILITÀ
I dipendenti della Repubblica trasferiti in base ai fabbisogni.
È uno degli obiettivi più ambiziosi della riforma Madia: consentire alle amministrazioni pubbliche di programmare le assunzioni sulla base degli effettivi fabbisogni (e non più delle vecchie dotazioni organiche) e dare ai dipendenti e ai funzionari la possibilità concreta di passare in mobilità volontaria da un’amministrazione all’altra. Insomma arrivare davvero al “dipendente della Repubblica” come è stato detto in qualche slogan.
Il nodo da sciogliere (vedremo come nel decreto legislativo) è proprio quello della definizione, sulla base di criteri oggettivi, dei nuovi fabbisogni di personale di un’amministrazione. Passaggio ineludibile per poi arrivare a quello che consente la mobilità volontaria da un posto a un altro (dove c’è un fabbisogno scoperto) senza che scatti il veto dell’amministrazione di provenienza.
Il meccanismo, per ora molto futuribile, dovrebbe funzionare tramite la pubblicazione di bandi di mobilità da parte delle varie amministrazioni che vengono raccolti sul portale istituito dal Dipartimento Funzione pubblica (www.mobilità.gov.it). È qui che si dovrebbe determinare il meccanismo di domanda/offerta capace di far funzionare davvero la mobilità volontaria.
In attesa di vedere questo risultato il cantiere della riforma Madia dovrà però smaltire ben altre procedure di mobilità (in questo caso obbligatorie) che non saranno semplicissime. Intanto c’è quella ancora apertissima legata alla riduzione degli organici delle province e delle città metropolitane, con circa 20mila dipendenti in soprannumero dai quali si può solo sottrarre i circa 6mila dei centri per l’impiego che passeranno alle Regioni.
A questo nodo se ne aggiungerà un altro legato alle mobilità che si determineranno con la chiusura di una serie di uffici periferici dello Stato (le riorganizzazioni spaziano dalle Prefetture alle Autorità portuali) e con gli accorpamenti della Camere di Commercio da 105 a 60 (sono 10mila circa i dipendenti di questi enti e delle società controllate). Si tratta di operazioni complesse e straordinarie che verranno gestite con ampie riorganizzazioni di apparati che potranno determinare mobilità non volontarie anche oltre il limite di 50 chilometri previsto dal dl 90/2014.
L’altro nodo che si dovrà affrontare -ma qui siamo fuori dalla Pa- riguarda la gestione del personale delle società partecipate che dovranno essere ridotte da 8mila circa a mille. In ballo ci sono oltre 260mila dipendenti: gli esuberi dovranno essere gestiti con ammortizzatori sociali in deroga. Si vedrà.
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TESTO UNICO
Licenziamenti e contratti: sintesi da fare tra privato e Pa.
Il capitolo della delega Madia dedicato ai rapporti di lavoro non sembra assumere la portata rivoluzionaria che invece caratterizza il Jobs Act del settore privato ed i suoi decreti attuativi: ad uno sguardo di insieme, l’orizzonte degli interventi per la Pa appare contenuto, di portata correttiva rispetto all’esistente, piuttosto che realmente modificativa. Il Testo Unico sul lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni si dovrà infatti limitare alle modifiche «strettamente necessarie per il coordinamento» formale e sostanziale del materiale normativo esistente, «apportando le modifiche strettamente necessarie per garantire la coerenza giuridica, logica e sistematica», con «risoluzione delle antinomie» ed «indicazione esplicita delle norme abrogate».
Se gli avverbi contano, non occorre dunque aspettarsi dall’esercizio della delega uno stravolgimento degli assetti regolativi esistenti, così come consolidatisi nelle riforme del pubblico impiego, a partire dalla storica “privatizzazione” del 1993. Tuttavia il progetto, che appunto ha come base questa complessa quanto utile operazione di drafting normativo (si pensi che, in alcuni ambiti, le norme di riferimento hanno subìto in pochi anni decine di interventi, alimentando il contenzioso e rendendo di fatto impossibile la gestione), può svolgere un contributo fondamentale verso uno degli obiettivi propri anche del Jobs Act.
Si tratta di dare certezza normativa e basi stabili ad un mercato del lavoro pubblico investito da una lunga stagione di leggi e leggine, che hanno aumentato e reso forse definitivo il distacco dal modello proprio e caratterizzante della privatizzazione, che da sempre impone un diritto del lavoro pubblico il più possibile coincidente con quello privato.
Pur nel mandato circoscritto dal legislatore delegante, se si guarda insieme alle operazioni di riforma in itinere per i mercati del lavoro (privato e pubblico), si deve allora porre con forza, e risolvere, il problema del coordinamento reciproco. In che modo le norme della legge n. 183/2014 e dei decreti attuativi si rapporteranno con la disciplina vigente e futura del lavoro nelle Pa? Si tratta di norme scritte per il solo settore privato o investono l’intero universo del lavoro subordinato? È scontata la loro “non” applicazione o è scontato il contrario? Quale sarà poi la linea sindacale, visto che qui esistono ancora spazi per rendere impermeabile il pubblico impiego dalle riforme Renzi-Poletti, ma risulterà poi difficile spiegare ai lavoratori dell’impresa perché i colleghi del settore pubblico mantengono assetti differenziati.
Poiché il Jobs Act non si è preoccupato di sciogliere questi nodi, salvo ambigui frammenti normativi del codice dei contratti flessibili di cui al decreto 81/2015, tocca ora alla legge Madia portare chiarezza applicativa, non foss’altro che per cavare dall’impasse la magistratura del lavoro. I temi più sensibili appaiono quelli delle tutele contro i licenziamenti illegittimi e del corretto utilizzo dei contratti flessibili.
Sul primo la delega Madia offre spazi di intervento per rendere più semplice e spedito il procedimento disciplinare: si dovrà però stabilire, appunto in ragione del “coordinamento normativo”, se la tutela per il licenziamento illegittimo è quella comune del lavoro privato, nell’opzione fra legge Fornero e tutele crescenti, oppure quella reintegratoria piena per ogni ipotesi di invalidità del recesso, con un aggiornamento di legge del vecchio art. 18 dello Statuto.
Sui contratti la linea di delega impone il contenimento del ricorso alle tipologie flessibili, anche per prevenire il precariato. La misura può essere favorita dal fondamentale passaggio dell’eliminazione delle dotazioni organiche, sostituite da una programmazione delle assunzioni che guardi ai fabbisogni sfruttando realmente i processi di mobilità. Si tratta però di dare corpo e sostanza alla giurisprudenza comunitaria sull’utilizzo abusivo dei contratti flessibili: ferma la possibilità di escludere la conversione/stabilizzazione del rapporto, il tema è quello della misura certa dell’indennizzo e della sua idoneità a compensare il danno subito dall’interessato in mancanza di conversione
(articolo Il Sole 24 Ore del 24.08.2015 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: I percorsi per le assunzioni. Vincoli severi per il riassorbimento dalle Province, deroghe per la scuola.
Personale. Le possibilità di intervento per le dotazioni degli enti dopo la conversione in legge del Dl 78/2015.

Con la conversione in legge del decreto legge 78/2015 si è conclusa la mappa delle possibilità di assunzione per gli enti locali. Le varie questioni rimaste in sospeso dopo l’entrata in vigore dell’articolo 1, comma 424, della legge di stabilità per l’anno 2015, trovano finalmente un po’ di chiarezza anche grazie all’intervento della sezione Autonomie della Corte dei conti sulle principali criticità interpretative. È quindi il momento di tirare le somme.
La premessa obbligatoria a qualsiasi assunzione è la verifica del rispetto del Patto di stabilità, dei tempi medi dei pagamenti e del contenimento della spesa di personale ai sensi dell’articolo 1, comma 557 e seguenti della legge 296/2006. Il Dl 78/2015 ha previsto, però, che il riassorbimento dei dipendenti in soprannumero degli enti di area vasta è possibile anche per gli enti che non hanno rispettato il Patto di stabilità o i tempi medi dei pagamenti.
A questo punto, per gli enti locali, si aprono due strade alternative:
- da una parte, è possibile procedere con autonome assunzioni a tempo indeterminato, utilizzando le possibilità residue egli anni precedenti. Questa azione è stata recentemente convalidata dalla Corte dei conti, sezione Autonomie con la Deliberazione numero 26/2015;
- dall’altra parte, per quanto riguarda le uscite di lavoratori degli anni 2014 e 2015, che generano opportunità di assunzioni negli anni 2015 e 2016, gli enti sono obbligati a destinare le risorse all’impiego dei vincitori delle proprie graduatorie e alla ricollocazione dei dipendenti di area vasta dichiarati in soprannumero. Per questi anni, quindi, il turn-over non può essere toccato in nessun modo, neppure con procedure di mobilità volontaria, così come indicato dapprima dalla Funzione pubblica nella circolare n. 1/2015 e confermato, successivamente, dai magistrati contabili con la Deliberazione numero 19/2015 della sezione Autonomie.
Per quanto riguarda le possibili assunzioni relative al 2015 e 2016 è quindi vietato, per esempio, assumere i soggetti idonei delle graduatorie, trasformare il rapporto di lavoro da tempo parziale a tempo pieno, procedere alla stabilizzazione del personale, attivare progressioni di carriera e avviare procedure di mobilità volontaria da altri enti (ex articolo 30 del decreto legislativo 165/2001).
Va ricordato che, in caso di assunzione di dipendenti di province e città metropolitane, il turn-over può arrivare al cento per cento della spesa dei rapporti di lavoro cessati negli anni 2014 e 2015 e che la spesa dei dipendenti trasferiti non grava sul calcolo delle spese di personale da contenere nella media del triennio 2011-2013.
Possibili deroghe
La legge di conversione del Dl 78/2015, ha inoltre introdotto, all’articolo 1, comma 424, della legge 190/2014, una deroga. È infatti, fatta salva la possibilità di indire concorsi per assumere a tempo indeterminato personale in possesso dei necessari titoli di studio, per svolgere funzioni fondamentali relative all’organizzazione e gestione dei servizi educativi e scolastici, con esclusione del personale amministrativo.
Questa deroga è ammessa in caso di esaurimento delle graduatorie vigenti e di dimostrata assenza, negli enti di area vasta, di figure professionali in grado di assolvere a queste funzioni. La norma sembrerebbe anche contemplare, in ogni caso, una verifica su base nazionale dell’assenza di queste figure professionali: ma su questo aspetto, l’Anci ha già avuto una conferma dal ministro per la Semplificazione e la pubblica amministrazione, Marianna Madia, per una lettura riferita esclusivamente al territorio provinciale di appartenenza di ciascun Comune.
Un’ulteriore possibilità di assunzione è concessa per i dipendenti che, alla data di entrata in vigore del Dl 78/2015, si trovavano in posizione di comando o distacco da un ente di area vasta a un ente locale. Una soluzione, però, ammessa solo se l’ente di destinazione ha capienza nella dotazione organica, nei limiti delle risorse finanziarie disponibili a legislazione vigente, e comunque quando risulti garantita la sostenibilità finanziaria, a regime, della relativa spesa
(articolo Il Sole 24 Ore del 24.08.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Blocco del turn-over per la polizia locale. Sicurezza stradale. Per i nuovi agenti sono possibili soltanto impieghi di tipo stagionale.
Gli enti locali non possono assumere, a qualsiasi titolo e con qualunque tipologia contrattuale, nelle funzioni di polizia locale, fino a quando non vi sarà la totale ricollocazione dei dipendenti della polizia provinciale dichiarati in soprannumero. Sono fatte salve le assunzioni di agenti stagionali disposte dalle amministrazioni, dall’entrata in vigore del Dl 78/2015, ma per una durata massima di cinque mesi nell’anno solare. Le modifiche introdotte dalla legge di conversione offrono la possibilità di tirare le fila su quali azioni sono concesse agli enti locali in materia di personale.
Al di là delle assunzioni a tempo indeterminato, di quali altre regole devono tenere conto gli operatori e gli amministratori locali?
Il comma 424, della legge 190/2014, si riferisce esclusivamente alla capacità di assunzione e, quindi, solamente alle prestazioni di lavoro subordinato a tempo indeterminato. La norma non intacca la possibilità di fare ricorso alle prestazioni di lavoro flessibile, anche se, va sottolineato, alle rigide condizioni previste dall’articolo 36, Dlgs 165/2001, ovvero in presenza di esigenze temporanee o eccezionali.
Inoltre queste prestazioni possono essere attivate solo nel rispetto del Patto di stabilità, della riduzione delle spese di personale e della spesa sostenuta nell’anno 2009 per le medesime finalità di lavoro flessibile, ai sensi dell’articolo 9, comma 28, del Dl 78/2015.
Ci si è chiesti se anche gli incarichi dirigenziali (o di responsabili di servizi) di cui all’articolo 110, del Dlgs 267/2000, rientrino nel blocco delle assunzioni. La risposta è giunta dalla Corte dei conti, sezione Autonomie, che nella Deliberazione numero 19/2015, ha stabilito l’estraneità di questo istituto dalle limitazioni del comma 424.
Agli enti locali rimangono altre strade purché, ovviamente, non eludano l’obbligo di ricollocazione dei dipendenti degli enti di area vasta. Sono, infatti, sempre valide le possibilità di utilizzare dipendenti di altre amministrazioni attraverso l’istituto previsto dall’articolo 14 del Contratto nazionale di lavoro del 22.01.2004, oppure di procedere con comandi e distacchi, ma sempre in un’ottica di temporaneità in modo da non occupare posti di dotazione organica destinati, invece, ai dipendenti di province e città metropolitane.
Sembra un’ottima strada anche quella di anticipare le manovre di ricollocazione con accordi/convenzioni per l’utilizzo temporaneo dei dipendenti delle amministrazioni provinciali; ma in questo caso è da verificare se poi il portale informatico che incrocia domanda e offerta, sarà in grado di gestire simili situazioni.
Nel campo della polizia locale, è altamente suggerita la procedura dell’avvalimento, di cui al comma 427, della legge di stabilità 2015.
Infine, la legge di conversione del Dl 78/2015 ha modificato l’articolo 98 del Dlgs 267/2000, prevedendo la possibilità di stipulare convenzioni per l’ufficio di segretario anche tra Comuni e Provincia e tra Province
(articolo Il Sole 24 Ore del 24.08.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Ricollocazione privilegiata ma poco praticabile. Riforma Delrio. Dagli enti di area vasta.
Dopo che il decreto legge 78/2015 ha dato la possibilità, agli enti locali, di utilizzare anche i resti della «capacità assunzionale» provenienti dal triennio 2011-2013, ha tenuto banco la questione se queste risorse potessero essere utilizzate liberamente oppure se anch’esse fossero vincolate alla ricollocazione obbligatoria dei dipendenti in soprannumero provenienti dalle Province e dalle Città metropolitane.
La parola fine sembra essere arrivata con la Deliberazione n. 26/2015 della Sezione Autonomie della Corte dei Conti, nella quale si prevede la possibilità di assumere a tempo indeterminato utilizzando «la capacità assunzionale del 2014 derivante dalle cessazioni di personale nel triennio 2011-2013» (si veda l’altro articolo in questa stessa pagina).
A questo punto, per gli enti locali, si apre un doppio binario. Da una parte, le quote assunzionali calcolate sulle cessazioni 2014 e 2015 (ovvero la capacità assunzionale degli anni 2015 e 2016), sono vincolate alla ricollocazione dei dipendenti degli enti di area vasta, mentre il turn-over residuo è libero da vincoli.
Per procedere in quest’ultima direzione, è innanzitutto necessario verificare l’ammontare dei resti, ricordando che le percentuali in vigore, per i Comuni soggetti al Patto di stabilità, erano le seguenti:
- 20% della spesa dei «cessati» nell’anno 2010;
- 40% della spesa dei «cessati» nell’anno 2011 e nell’anno 2012.
Dopo aver calcolato questo budget, vanno detratte tutte le assunzioni effettuate che hanno già eroso la capacità assunzionale. La quota rimanente è quella che la Corte dei conti definisce «libera» e che non è vincolata al riassorbimento dei dipendenti delle Province.
Problemi operativi
L’interpretazione dei giudici contabili lascia comunque qualche perplessità. Innanzitutto, questa conclusione sembra essere contraria con quanto indicato dalla Corte dei Conti Sezione Autonomie nella Deliberazione n. 19/2015, con la quale veniva sancito il principio che, in questo particolare contesto, è necessario agire prevedendo la massima capacità assunzionale verso i dipendenti degli enti di area vasta. Se così fosse, anche il turn-over degli anni precedenti avrebbe dovuto essere indirizzato a questa finalità.
In secondo luogo, vi è un problema operativo. Infatti, ammettendo che davvero i Comuni possano procedere ad assunzioni sulla base dei resti degli anni precedenti, prima di espletare un concorso è comunque necessario procedere, ai sensi dell’articolo 34-bis, del decreto legislativo 165/2001, alla verifica dei dipendenti in disponibilità della pubblica amministrazione. Già questo è strano, se pensiamo che agli enti locali, viene invece richiesto un “obbligo di solidarietà” prima di tutto con i dipendenti delle Province.
Ma non basta. Infatti, prima del concorso, è pure necessario svolgere le procedure di mobilità volontaria di cui all’articolo 30 del decreto legislativo 165/2001, procedure che la stessa Corte dei Conti e la Funzione Pubblica hanno affermato essere inconciliabili con il comma 424 della legge 190/2014, in quanto comunque limitano il trasferimento dei dipendenti degli enti di area vasta.
Sembra proprio un cane che si morde la coda e probabilmente si apre un ulteriore varco interpretativo per i prossimi mesi
 (articolo Il Sole 24 Ore del 24.08.2015).

APPALTI: Centrali uniche avanti piano. Poche categorie previste e confusione nei questionari. APPALTI/ Partenza difficile per i 34 soggetti aggregatori riconosciuti dall'Anac.
Pochi appalti per i soggetti aggregatori e rischio caos. L'entrata a regime dell'idea di concentrare gli appalti delle amministrazioni pubbliche in soli 34 enti mostra subito i limiti operativi. Poche le categorie previste, e quelle poche soprattutto in ambito sanitario. E indicazioni molto superficiali, come nel caso del Veneto che chiede di programmare l'appalto per i servizi di ristorazione, senza specificare se si tratti di mense scolastiche, aziendali o catering di rappresentanza.
In molti hanno considerato l'idea, disciplinata dall'articolo 9 del dl 66/2014 e attuata dalla deliberazione 23.07.2015 dell'Autorità nazionale anticorruzione, come l'uovo di Colombo: aggregare tutti gli acquisti della pubblica amministrazione in pochi soggetti (in genere stazioni uniche regionali, ma non mancano le città metropolitane), per eliminare gran parte dei rischi di corruzione connessi alle moltissime procedure di appalto necessarie e ottenere anche prezzi migliori, grazie all'allargamento delle commesse e alla standardizzazione dei prezzi.
A ben vedere, questi obiettivi generali, meritori, saranno conseguiti solo in parte. A molti è sfuggito che l'articolo 9, comma 3, del dl 66/2014 non obbliga affatto le amministrazioni pubbliche a utilizzare in via esclusiva i soggetti aggregatori per acquisire lavori, servizi e forniture. La norma, in effetti, dispone che un tavolo dei soggetti aggregatori individuerà «le categorie di beni e di servizi nonché le soglie al superamento delle quali le amministrazioni statali centrali e periferiche, a esclusione di istituti e scuole di ogni ordine e grado, delle istituzioni educative e delle istituzioni universitarie, nonché le regioni, gli enti regionali, nonché loro consorzi e associazioni, e gli enti del servizio sanitario nazionale ricorrono a Consip spa o agli altri soggetti aggregatori di cui ai commi 1 e 2 per lo svolgimento delle relative procedure».
Dunque, le amministrazioni pubbliche saranno obbligate ad avvalersi di Consip spa o dei soggetti aggregatori (si veda tabella in pagina) solo per alcune categorie merceologiche e solo per appalti al di sopra di un certo valore.
I 35 soggetti aggregatori riconosciuti dall'Anac hanno già costituito il «tavolo tecnico» allo scopo di individuare i fabbisogni di acquisto di beni, lavori e servizi delle amministrazioni. E hanno elaborato un formulario, per chiedere alle amministrazioni dei vari territori regionali quali acquisizioni abbiano programmato per il 2015 e ritengano di programmare per il 2016, indicando le categorie merceologiche.
Guardando ai contenuti del questionario, salta all'occhio come la concentrazione degli appalti sarà più di nome che di fatto. Le categorie previste sono ben poche, prevalentemente di ambito sanitario.
Dando una scorsa ai questionari, si evidenziano, poi, alcune storture. Un dettaglio sulla tipologia delle acquisizioni si riscontra esclusivamente appunto per le acquisizioni in ambito sanitario. Vi sono, invece, molte voci assolutamente generiche che, così come formulate, non consentono a ben guardare nessuna programmazione: la regione Veneto, per esempio, mediante il Crav (Centro regionale acquisti) chiede di programmare l'appalto per «infrastrutture Ced» o per «ristorazione». Si tratta di voci che richiederebbero, ai fini di una programmazione, la disaggregazione in moltissime altri prodotti: la «ristorazione», per esempio, qual è? La mensa scolastica? La mensa aziendale? Il servizio di catering per attività di rappresentanza?
I questionari, inoltre chiedono alle singole amministrazioni di indicare il valore presunto delle acquisizioni che ritengono di effettuare, e anche la durata dei contratti da stipulare.
Si tratta di dati oggettivamente inutili, se i soggetti aggregatori sono intenzionati a fare quel che la legge richiede loro: cioè essenzialmente mettere a disposizione degli enti contratti già disponibili, dopo aver effettuato le gare d'appalto per individuare il contraente, perché gli enti effettuino semplicemente gli ordinativi, scegliendo in proposito le modalità più opportune: le convenzioni come da tempo fa la Consip, o portali analoghi al Me.Pa. o i sistemi dinamici di acquisizione.
La conoscenza del dettaglio della pianificazione del singolo appalto e della durata ha un senso solo se il soggetto aggregatore agisca come centrale di committenza, esclusivamente incaricata di effettuare un singolo appalto per conto della singola amministrazione. L'aggregazione degli appalti, invece, presupporrebbe un massiccio intervento nel mercato, intercettando il ventaglio più ampio possibile (con capitolati dettagliati) di acquisizioni.
Il questionario riporta in grandissima parte acquisizione di beni, per altro tutti o quasi già presenti nel Me.Pa., e qualche servizio. Tra i quali il trasporto locale o la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti, per i quali competenti, se si applicasse la legge Delrio, dovrebbero essere le province (articolo ItaliaOggi del 22.08.2015).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Neo-attività con silenzio-assenso e limiti all'autotutela p.a..
Certezza sulle regole da seguire per avviare un'attività imprenditoriale. Individuando con precisione i procedimenti per i quali serve la segnalazione certificata di inizio attività (Scia), quelli per i quali vige il silenzio-assenso e quelli per i quali serve autorizzazione espressa. Comunicando ai soggetti interessati i tempi entro i quali si forma il silenzio-assenso.

Questo è l'obiettivo della legge 07.08.2015, n. 124, recante «deleghe al governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche» (pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 13.08.2015, n. 187).
Il testo affida al governo oltre 15 deleghe da adottare entro termini che vanno da 90 a 180 giorni e da 12 a 18 mesi. Tuttavia, ci sono delle misure che si possono definire auto-applicative, come la definizione di un meccanismo per il silenzio-assenso tra amministrazioni con tempi certi, per cui dopo 30 giorni, massimo 90, in caso di mancata risposta, si intende ottenuto il via libera.
Nuove norme sul silenzio-assenso. L'articolo 3 della legge della riforma della Pa, rubricato «silenzio-assenso tra amministrazioni pubbliche e tra amministrazioni pubbliche e gestori di beni o servizi pubblici» aggiunge alla legge n. 241/1990 l'articolo 17-bis, rubricato «silenzio-assenso tra amministrazioni pubbliche e tra amministrazioni pubbliche e gestori di beni o servizi pubblici».
Nei casi in cui è prevista l'acquisizione di assensi, concerti o nulla osta comunque denominati di amministrazioni pubbliche e di gestori di beni o servizi pubblici, per l'adozione di provvedimenti normativi e amministrativi di competenza di altre amministrazioni pubbliche, le amministrazioni o i gestori competenti sono tenuti a comunicare il proprio assenso, concerto o nulla osta entro trenta giorni dal ricevimento dello schema di provvedimento, corredato della relativa documentazione, da parte dell'amministrazione procedente.
Il termine è interrotto qualora l'amministrazione o il gestore che deve rendere il proprio assenso, concerto o nulla osta rappresenti esigenze istruttorie o richieste di modifica, motivate e formulate in modo puntuale nel termine stesso. In tal caso, l'assenso, il concerto o il nulla osta è reso nei successivi trenta giorni dalla ricezione degli elementi istruttori o dello schema di provvedimento; non sono ammesse ulteriori interruzioni di termini.
Autotutela. Ennesima modifica all'articolo 19 della legge n. 241/1990. Dovrà essere fissato un tempo massimo per il potere di agire in autotutela da parte delle pubbliche amministrazioni. L'amministrazione competente avrà 60 giorni per intervenire in caso di Scia (30 giorni per la Scia edilizia) successivamente potrà intervenire in autotutela (al massimo entro 18 mesi) quando il provvedimento è illegittimo. Dopo 18 mesi non si potrà più cambiare idea. Il limite temporale non si applica se l'autotutela consegue a fatti costituenti reati accertati con sentenze passate in giudicato (articolo ItaliaOggi del 21.08.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Le associazioni sono un flop. Aggregando i piccoli comuni i costi si moltiplicano. Fallimento certificato dalla Corte dei conti nella relazione sulla gestione 2014.
La cooperazione intercomunale, così come attualmente configurata dalla normativa vigente, proprio non funziona: non solo non genera i tanto attesi risparmi, ma anzi impone alla collettività ulteriori costi, scaricando sulle forme associative le tensioni finanziarie degli enti partecipanti.

A certificare il fallimento dell'ormai datato progetto di aggregazione dei piccoli comuni è la Corte dei conti, che nella recente relazione sulla gestitone finanziaria 2014 degli enti locali ha fatto il punto sullo stato di attuazione di una riforma avviata oltre 20 anni fa, invitando il legislatore a correggere la rotta.
Ma su quale sia la strada giusta, fra i diretti interessati, cioè i sindaci, ci sono visioni fortemente contrastanti.
È dal 1990 che si tenta di accorpare i comuni di minori dimensioni, dapprima con un approccio volontaristico e successivamente, diventando sempre più pressanti le esigenze di contenimento della spesa pubblica, attraverso precisi vincoli legislativi. Ma finora i risultanti sono quasi nulli.
Ciò, scrivono i giudici contabili, a causa, da un lato, delle ripetute proroghe dei termini entro cui attuare le gestioni associate obbligatorie, ossia quelle imposte ai comuni con meno di 5.000 abitanti (3.000 in montagna) per lo svolgimento delle proprie funzioni fondamentali. Dall'altro, dalla circostanza che il legislatore nazionale e le regioni hanno ripetutamente modificato e integrato la normativa, variando le funzioni da associare, le «soglie» relative alla popolazione degli enti interessati e le modalità procedimentale.
Tali continui ripensamenti, tuttavia, costituiscono solo sintomi delle difficoltà registrate nella concreta attuazione del percorso istituzionale normativamente delineato, che necessiterebbe di «aggiustamenti», a partire da un'approfondita analisi delle criticità e delle resistenze finora riscontrate alle politiche di «associazionismo» forzato
Se su tale diagnosi sono tutti concordi, sulla cura le ricette sono molto diverse. La Corte dei conti, naturalmente, non entra nel merito delle scelte politiche, limitandosi a evidenziare la necessità di una maggiore semplificazione e di più efficienti forme di incentivazione finanziaria (ad esempio, da collegare ai risultati concretamente conseguiti in termini di risparmi di spesa).
Ma cosa ne pensano i diretti interessati, ossia i sindaci? Qui i punti di vista sono spesso distanti, se non diametralmente opposti. Nell'ultima Conferenza nazionale dei piccoli comuni, che si è svolta il mese scorso a Cagliari, l'Anci ha proposto una disciplina nuova di zecca, che preveda la «definizione di ambiti adeguati e omogenei entro i quali realizzare processi di riorganizzazione territoriale per rafforzare la rappresentanza degli enti, la capacità progettuale, quella dell'offerta dei servizi ai cittadini e alle imprese».
In tali ambiti, dovrebbe essere prevista la gestione associata di non meno di tre funzioni fondamentali, contro le 10 attualmente interessate dall'obbligo. Inoltre, dovrebbero essere cancellate le soglie demografiche minime dei nuovi soggetti (che oggi sono fissate a 10.000 abitanti in pianura e a 3.000 in montagna) e che secondo i sindaci rappresentano «un ostacolo alla costruzione di processi associativi funzionali ed efficaci».
A ridisegnare la mappa della pa locale dovrebbe essere un «Comitato permanente per il coordinamento dei processi di riorganizzazione territoriale del sistema dei comuni», chiamato a chiudere i lavori entro 12 mesi dall'insediamento. Nel frattempo, quindi, sarebbe giocoforza prevedere una nuova proroga.
Ma non tutti sono d'accordo: di recente, ad esempio, la Consulta Finanze dell'Anci Piemonte si è espressa in senso fortemente contrario all'ennesimo differimento delle scadenze, chiedendo anzi un rafforzamento degli obblighi aggregativi per arrivare addirittura e sia pure gradualmente verso la fusione. Una posizione, quest'ultima, decisamente più rigorista di quella del nazionale, da sempre favorevole al modello intermedio dell'unione di comuni.
La terza via è quella indicata dall'Anpci, che da sempre si batte per vincoli più flessibili e quindi sostiene le più agili convenzioni.
In tutto questo, chi si aspettava un'accelerazione del processo, anche in un'ottica di spending review, è destinato a rimanere nuovamente deluso (articolo ItaliaOggi del 21.08.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

GIURISPRUDENZA

PUBBLICO IMPIEGOPer i vigili niente arresti «in trasferta». Penale. Limite confermato anche in caso di pedinamento iniziato nel comune di lavoro.
I vigili urbani, pur avendo funzioni di polizia giudiziaria, non possono effettuare arresti fuori dal territorio del Comune di appartenenza.
Un principio già stabilito espressamente dall’articolo 57 del Codice di procedura penale e ora ribadito dalla Corte di Cassazione, Sez. III penale -con la sentenza 21.08.2015 n. 35099- anche per il caso in cui l’arresto “in trasferta” avvenga alla fine di un pedinamento iniziato nel proprio territorio comunale.
La sentenza evidenzia anche l’altro limite cui sono soggetti tutti gli appartenenti ai corpi di polizia locale, cioè quello di poter operare solo durante di servizio; va però aggiunto che questo limite può non essere valido per le funzioni di polizia stradale.
Il caso su cui ha deciso la Cassazione riguardava un vigile arrestato dai suoi colleghi per truffa aggravata, perché risultato assenteista. Per provare il reato, i colleghi si sono appostati vicino all’apparecchio conta presenze del comando, accertando che l’imputato aveva “strisciato” regolarmente il suo badge ma poco dopo era uscito dall’ufficio. Seguendolo, hanno documentato che era tornato a casa, in un paese vicino. Lì lo hanno arrestato.
Un arresto che, per il tipo di reato, era facoltativo (articolo 381 del Codice di procedura penale). Ma che è stato dichiarato illegittimo proprio per questioni di competenza territoriale. All’obiezione secondo cui l’arresto “in trasferta” è reso possibile dalla legge sulla polizia locale (la 65/1986, articolo 5) anche in flagranza, la Cassazione risponde che il caso in questione è diverso: un pedinamento organizzato e pianificato nei confronti di una persona che esce tranquillamente dall’ufficio non è un inseguimento a un criminale che scappa e che quindi diventa urgente catturare.
La sentenza -nel richiamare l’articolo 57, comma 2, lettera b), del Codice di procedura penale- ricorda anche il limite temporale delle funzioni di polizia giudiziaria dei vigili, che coincide con il loro orario di servizio, mentre gli appartenenti ai corpi dello Stato sono da considerare sempre in servizio, anche fuori dall’orario in cui sono di turno. Un principio che spesso viene seguito anche riguardo ai servizi di polizia stradale espletati dai vigili. Ma ciò non è affatto pacifico.
Infatti, un anno fa (sentenza sulla causa 6269/2011, depositata il 29.07.2014), il Tribunale di Parma ha riconosciuto valido l’accertamento di due infrazioni (velocità pericolosa e invasione della corsia opposta) effettuato da un vigile fuori servizio che si trovava come passeggero su una vettura che stava per essere travolta da quella del trasgressore.
Alla base di questa decisione c’è la semplice constatazione che la legge 65/1986 non prevede esplicitamente limiti di orario. Visto che essi sono stabiliti solo dall’articolo 57 del Codice di procedura penale e che questa norma tocca solo l’«accertamento dei fatti di reato», non ci sono limiti per le infrazioni stradali. O, perlomeno, per la loro grande maggioranza, che ha natura di illecito amministrativo, non penale.
Nella prassi seguita finora, invece, spesso si è ritenuto di “assorbire” le funzioni di polizia stradale in quelle di polizia giudiziaria. Quindi i vigili fuori servizio hanno rinunciato a procedere o si sono visti annullare i verbali
(articolo Il Sole 24 Ore del 22.08.2015).

EDILIZIA PRIVATAQuesto Tribunale in tema di abuso cd. risalente, ovvero commesso molto tempo prima del provvedimento sanzionatorio, si conforma all’orientamento più rigoroso, secondo il quale il potere di applicare misure repressive in materia urbanistica ed edilizia può essere esercitato in ogni tempo, senza necessità, per i relativi provvedimenti, di motivare in modo specifico in ordine alla sussistenza dell'interesse pubblico a disporre una demolizione.
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Il Tribunale non condivide l’orientamento più favorevole al privato, espresso ad esempio da C.d.S. 883/2008, secondo il quale invece “il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell'abuso” e “il protrarsi dell'inerzia dell'amministrazione preposta alla vigilanza” potrebbero ingenerare un affidamento del privato, rispetto al quale sussisterebbe un “onere di congrua motivazione” circa il “pubblico interesse, evidentemente diverso da quello al ripristino della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato”.
A tale conclusione, infatti, questo Tribunale arriva osservando principalmente, sulla scorta della citata decisione C.d.S. 5509/2009, che di affidamento si potrebbe parlare solo ove il privato avesse correttamente e in modo compiuto reso nota la propria posizione alla p.a. e fosse stato indotto da un provvedimento della stessa a ritenere la legittimità del proprio operato, non già nel caso normale in cui si commette un abuso a tutta insaputa della p.a. medesima.
In tali termini il Tribunale non intende certo affermare che il tempo decorso dalla commissione dell’abuso sia sempre e comunque irrilevante; afferma invece che di regola non lo è, perché andrebbe considerato solo quale elemento costitutivo di un affidamento normalmente assente. E’ però altrettanto chiaro, ed anzi discende per necessità dalla premessa rigorosa che viene condivisa, che nel caso in qualche modo eccezionale in cui l’affidamento sussista, allo stesso va riconosciuta piena rilevanza.

3. Questo Tribunale, com’è noto, in tema di abuso cd. risalente, ovvero commesso molto tempo prima del provvedimento sanzionatorio, si conforma all’orientamento più rigoroso, secondo il quale il potere di applicare misure repressive in materia urbanistica ed edilizia può essere esercitato in ogni tempo, senza necessità, per i relativi provvedimenti, di motivare in modo specifico in ordine alla sussistenza dell'interesse pubblico a disporre una demolizione: così fra le molte C.d.S. sez. IV, 15.09.2009 n. 5509 e, nella giurisprudenza della Sezione, già TAR Brescia sez. I 22.02.2010 n. 860.
4. Il Tribunale, corrispondentemente, non condivide l’orientamento più favorevole al privato, espresso ad esempio da C.d.S. sez. V 04.03.2008 n. 883, secondo il quale invece “il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell'abuso” e “il protrarsi dell'inerzia dell'amministrazione preposta alla vigilanza” potrebbero ingenerare un affidamento del privato, rispetto al quale sussisterebbe un “onere di congrua motivazione” circa il “pubblico interesse, evidentemente diverso da quello al ripristino della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato”.
5. A tale conclusione, infatti, questo Tribunale arriva osservando principalmente, sulla scorta della citata decisione C.d.S. 5509/2009, che di affidamento si potrebbe parlare solo ove il privato avesse correttamente e in modo compiuto reso nota la propria posizione alla p.a. e fosse stato indotto da un provvedimento della stessa a ritenere la legittimità del proprio operato, non già nel caso normale in cui si commette un abuso a tutta insaputa della p.a. medesima.
6. In tali termini, interessa ora notare, il Tribunale non intende certo affermare che il tempo decorso dalla commissione dell’abuso sia sempre e comunque irrilevante; afferma invece che di regola non lo è, perché andrebbe considerato solo quale elemento costitutivo di un affidamento normalmente assente. E’ però altrettanto chiaro, ed anzi discende per necessità dalla premessa rigorosa che viene condivisa, che nel caso in qualche modo eccezionale in cui l’affidamento sussista, allo stesso va riconosciuta piena rilevanza (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 21.08.2015 n. 1105 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La semplice "ristrutturazione" si verifica ove gli interventi, comportando modificazioni esclusivamente interne, abbiano interessato un edificio del quale sussistano e rimangano inalterate le componenti essenziali, quali i muri perimetrali, le strutture orizzontali, la copertura, mentre è ravvisabile la "ricostruzione" allorché dell'edificio preesistente siano venute meno, per evento naturale o per volontaria demolizione, dette componenti, e l'intervento si traduca nell'esatto ripristino delle stesse operato senza alcuna variazione rispetto alle originarie dimensioni dell'edificio, e, in particolare, senza aumenti della volumetria.
In presenza di tali aumenti, si verte, invece, in ipotesi di "nuova costruzione", come tale sottoposta alla disciplina in tema di distanze vigente al momento della medesima.
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La semplice constatazione dell'aumento di superficie e di volumetria è quindi sufficiente a rendere l'intervento edilizio non riconducibile al paradigma normativo della ristrutturazione e all'esonero dall'osservanza delle distanze legali previsto per detto tipo di interventi.
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Qualora siano venute meno, per eventi naturali o per demolizione, le preesistenti strutture edilizie, si ha "mera ricostruzione" se l'intervento si traduca nell'esatto ripristino delle strutture precedenti, senza alcuna variazione rispetto alle originarie dimensioni dell'edificio e, in particolare, senza aumenti della volumetria né delle superfici occupate in relazione alla originaria sagoma di ingombro; in presenza di tali aumenti, si verte, invece, in ipotesi di "nuova costruzione", come tale sottoposta alla disciplina in tema di distanze vigente al momento della medesima.
1. - Col primo motivo, assistito da quesito di diritto ex art. 366-bis c.p.c., applicabile ratione temporis, i ricorrenti lamentano la violazione degli artt. 31 legge n. 457/1978 dei punti 3.2.3. delle NTA del PRG del comune di Omegna del 1989 e dell'art. 21 delle NTA del PRG del 2001.
Deducono al riguardo che la costruzione in oggetto, essendo stata realizzata con un'eccedenza volumetrica del 30% rispetto al pregresso, non è qualificabile né come demolizione e ricostruzione, ai sensi delle NTA del 1989, né come ristrutturazione edilizia, ai sensi dell'art. 21 NTA del 2001, sicché essa non va esente dal rispetto delle distanze dal confine, previsto per le nuovo costruzioni in cinque metri tanto dalla precedente, quanto dall'attuale disciplina urbanistica locale.
Richiama, a sostegno, la giurisprudenza amministrativa sul concetto di ristrutturazione edilizia ai sensi dell'art. 31, comma 1, lett. d), legge n. 457/1978, e ad ulteriore conforto l'art. 3, comma 1, lett. d), del D.P.R. n. 380/2001, recante il T.U. delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia.
...
3. - Il primo motivo è fondato.
Il concetto normativo di ristrutturazione edilizia è disciplinato dall'art. 31, 1° comma, lett. d) della legge n. 457/1978, applicabile ratione temporis alla fattispecie (il D.P.R. n. 380/2001, recante il T.U. delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, è entrato in vigore il 30.06.2003), e in base al 2° comma dello stesso articolo tale norma prevale sulle disposizioni degli strumenti urbanistici generali e dei regolamenti edilizi (ferme restando le sole disposizioni e competenze previste dalle leggi nn. 1089/1939 e 1497/1939 e successive modificazioni ed integrazioni).
Esso è stato puntualizzato da questa Corte, da ultimo con ordinanza 19.10.2011 n. 21578 S.U. civili, osservando che —anche alla luce dei criteri di cui all'art. 31, primo comma lettera d), della legge 05.08.1978, n. 457—
la semplice "ristrutturazione" si verifica ove gli interventi, comportando modificazioni esclusivamente interne, abbiano interessato un edificio del quale sussistano e rimangano inalterate le componenti essenziali, quali i muri perimetrali, le strutture orizzontali, la copertura, mentre è ravvisabile la "ricostruzione" allorché dell'edificio preesistente siano venute meno, per evento naturale o per volontaria demolizione, dette componenti, e l'intervento si traduca nell'esatto ripristino delle stesse operato senza alcuna variazione rispetto alle originarie dimensioni dell'edificio, e, in particolare, senza aumenti della volumetria. In presenza di tali aumenti, si verte, invece, in ipotesi di "nuova costruzione", come tale sottoposta alla disciplina in tema di distanze vigente al momento della medesima.
E detta pronuncia ha concluso, dunque, che
la semplice constatazione dell'aumento di superficie e di volumetria è quindi sufficiente a rendere l'intervento edilizio non riconducibile al paradigma normativo della ristrutturazione e all'esonero dall'osservanza delle distanze legali previsto per detto tipo di interventi.
Analogamente, questa Corte si era espressa con sentenza n. 3391/2009, nel senso che
qualora siano venute meno, per eventi naturali o per demolizione, le preesistenti strutture edilizie, si ha "mera ricostruzione" se l'intervento si traduca nell'esatto ripristino delle strutture precedenti, senza alcuna variazione rispetto alle originarie dimensioni dell'edificio e, in particolare, senza aumenti della volumetria né delle superfici occupate in relazione alla originaria sagoma di ingombro; in presenza di tali aumenti, si verte, invece, in ipotesi di "nuova costruzione", come tale sottoposta alla disciplina in tema di distanze vigente al momento della medesima.
Ed ancora, in precedenza, essa aveva affermato il medesimo principio con le del tutto analoghe sentenze nn. 9637/2006 e 14128/2000.
3.1. - Principio da cui la Corte torinese si è discostata sotto due profili.
In primo luogo, lì dove ha esaminato la questione della riconducibilità della costruzione in oggetto alla previsione della ristrutturazione edilizia, sulla base non della disciplina legislativa ma di quella regolamentare, assumendone i parametri dell'allineamento all'edificio preesistente e della franchigia volumetrica del 30% in più rispetto ad esso per effetto della sopraelevazione.
In secondo luogo, allorché, riscontrato il rispetto del primo ma non anche del secondo parametro, ha escluso la tutela ripristinatoria in quanto le norme locali che vietavano d'incrementare volumi e superfici dei fabbricati preesistenti non erano integrative dell'art. 873 c.c. in materia di distanze.
Il che dimostra la sostanziale inutilità del ragionamento giuridico svolto nella sentenza impugnata. Assunto (erroneamente) a criterio decisivo il rispetto di norme regolamentari non dirette (né comunque legittimate) a integrare l'art. 873 c.c., è vano scrutinare se ed in qual misura esse siano state osservate. Secondo la stessa logica eletta, il giudizio di valore derivabile sarebbe stato in ogni caso privo di effetti ai fini della domanda di condanna alla rimessione in pristino.
Al contrario, applicata —come avrebbe dovuto essere applicata— la predetta norma legislativa e non già quella regolamentare,
la semplice constatazione dell'aumento plano-volumetrico rispetto al ricostruito espunge l'opera in oggetto dall'ambito della ristrutturazione edilizia, configurandola come nuova costruzione. In presenza della quale si riespande la tutela ripristinatoria, mediante demolizione o arretramento (cfr. Cass. n. 7809/2014), non essendo concesso ai regolamenti locali di incidere, neppure indirettamente attraverso la previsione di soglie massime d'incremento edilizio, sulle anzi dette nozioni normative e sui rimedi esperibili nei rapporti interprivati.
4. - L'accoglimento del primo mezzo d'annullamento assorbe l'esame del secondo motivo (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 20.08.2015 n. 17043).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Danno esistenziale. I rumori degli animali non sempre da risarcire.
Chi, ormai sepolto nei sonni inquieti della calura urbana, non sogna di risvegliarsi dietro persiane socchiuse, all’amichevole belato di pecore che passeggiano sul prato verdeggiante?
Certamente non chi deve convivere con un gregge nelle vicinanze, che con i campanacci a martello assicura la sua presenza arcadica giorno e notte. Al punto da ottenere che i bucolici quadrupedi vengano confinati in recinti ad almeno 100 metri dalla sua abitazione, ma senza vedersi riconoscere un risarcimento per il disturbo.

La Corte di Cassazione, Sez. III civile (sentenza 20.08.2015 n. 17013), ha così confermato una sentenza del Tribunale di Arezzo, che obbligava i pastori a contenere le esuberanze fonetiche dei loro animali all’interno di un recinto a una certa distanza dalla casa di chi aveva fatto loro causa, ma non a risarcire 10mila euro per il «danno esistenziale».
Per la Cassazione, infatti, il nodo non è tanto sul tipo di suono emesso, giacché il belato, universalmente considerato evocativo di una pace che, addirittura, serve a conciliare il sonno, favorito proprio dall’inesauribile conta dei lanosi quadrupedi.
Piuttosto, i giudici precisano che in questo come in altri tipi di disturbo, derivanti o meno da «immissioni» di rumori, occorre che si verifichi un nesso diretto tra evento e danno: «il risarcimento del danno non patrimoniale richiede, in definitiva, la prova di una violazione che abbia determinato in concreto una lesione la quale, andando oltre la suddetta soglia di tollerabilità, ne rende significativamente apprezzabile la portata». Prova che, appunto, non era stata prodotta dai ricorrenti
(articolo Il Sole 24 Ore del 21.08.2015).
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MASSIMA
2.1 Con il secondo motivo di ricorso R. e L. lamentano -ex art. 360, 1^ co. nn. 3) e 5) cpc- l'erroneo rigetto da parte della corte di appello, in riforma della prima decisione, della loro domanda di risarcimento del danno; posto che ancorché si ritenesse insussistente la prova di una lesione psicofisica (danno biologico alla salute) per effetto delle immissioni acustiche, la sussistenza di un danno morale o esistenziale doveva invece ritenersi insita nell'accertata lesione dei diritti costituzionali alla libertà di spostamento; al tranquillo godimento del domicilio; alla serena fruizione del tempo libero.
Sicché la prova della intollerabilità delle immissioni (così come ritenuta anche dal giudice di appello) implicava di per sé la prova del danno risarcibile.
§ 2.2 La doglianza non può trovare accoglimento, né sotto il profilo della violazione normativa, né sotto quello della carenza motivazionale.
Partendo da quest'ultimo aspetto,
il giudice di appello ha escluso che gli attori avessero fornito la prova, su di essi gravante, non solo di un danno alla loro integrità psicofisica, ma anche di un danno non patrimoniale di natura esistenziale da inquinamento acustico e da limitazione del movimento.
Riformando, sul punto, la prima decisione, il tribunale ha infatti osservato che i testi sentiti avevano confermato la sussistenza ed intollerabilità delle immissioni sonore provenienti dal gregge al pascolo in prossimità dell'abitazione degli attori, senza che da ciò si deducessero tuttavia elementi utili alla dimostrazione di un danno risarcibile; sicché
gli appellati non avevano, in definitiva, "offerto alcuna prova (né articolato richieste in tal senso) idonea a documentare la verificazione di un pregiudizio, derivante dalle lamentate immissioni, alla loro vita quotidiana, con conseguente impedimento o difficoltà nello svolgimento di attività che ne costituivano parte integrante (in cui si sostanzia propriamente il danno esistenziale) (...)" (sent. pag. 6). Si tratta di un convincimento di merito qui non sindacabile, risultando del resto ben chiaro dalla motivazione censurata come il difetto di prova del danno non patrimoniale abbia riguardato non tanto (o soltanto) il quantum riconoscibile, bensì l'esistenza stessa (an debeatur) del pregiudizio.
Parimenti destituita di fondamento è la censura di violazione normativa, dal momento che i principi di diritto richiamati dal giudice di appello trovano riscontro nella ormai assodata giurisprudenza di legittimità.
Quanto, in particolare, al fatto che il danno ex art. 2059 cc -pur quando sia astrattamente riconoscibile- si atteggia in ogni caso quale danno-conseguenza (v. note decisioni di cui alle SSUU nn. 26972/3/4/5 del 2008); così da non potersi ritenere in re ipsa, e richiedere invece la comprovata sussistenza dei caratteri generali della gravità della lesione e della apprezzabile serietà, comunque valutata sul metro dei diritti costituzionali inviolabili, del pregiudizio di cui si chieda il risarcimento (tra le altre, da ultimo, Cass. n. 15240 del 03.07.2014; Cass. n. 17974 del 14.08.02014).
Alla luce di tali parametri -costituenti il punto di equilibrio costituzionale tra il dovere di protezione e solidarietà verso la vittima dell'illecito ed il generale dovere di tolleranza nei rapporti sociali-
il risarcimento del danno non patrimoniale richiede, in definitiva, la prova di una violazione che abbia determinato in concreto una lesione la quale, andando oltre l suddetta soglia di tollerabilità, ne renda significativamente apprezzabile la portata e costituzionalmente meritevole il ristoro.
Di tale orientamento non  mancano applicazioni proprio in tema di danno non patrimoniale da immissioni intollerabili; essendosi in proposito affermato che l'accertata esposizione ad immissioni sonore intollerabili non costituisce di per sé prova dell'esistenza di danno alla salute, la cui risarcibilità è subordinata all'accertamento dell'effettiva esistenza di una lesione fisica o psichica (Cass. n. 25820 del 10/12/2009); e che il danno non patrimoniale consistente nella modifica delle abitudini di vita del danneggiato (alla quale si ricollega la nozione di danno esistenziale) in conseguenza delle immissioni non può essere risarcito in difetto di specifica prospettazione e dimostrazione di un danno attuale e concreto (Cass. n. 4394 del 20/03/2012).
Ora, nel caso in esame, il giudice di merito ha correttamente escluso che la prova delle immissioni, ancorché illegittime, concretasse la prova di un danno risarcibile, non potendo quest'ultimo considerarsi in re ipsa; né gli attori avevano allegato ed offerto di provare (anche a mezzo di presunzioni) che, per effetto delle immissioni sonore, essi avevano subito un significativo mutamento delle loro condizioni ed abitudini di vita, concretante un pregiudizio risarcibile.
Corretta, infine, deve ritenersi l'affermazione del tribunale secondo cui
la prova della sussistenza di un danno risarcibile deve essere fornita dalla parte pur in presenza di domanda di liquidazione equitativa; ciò perché il potere giudiziale di liquidazione equitativa ex articoli 1226 e 2056 cod. civ. non esonera la parte dall'onere di provare il danno nella sua esistenza ontologica, intervenendo unicamente nella determinazione quantitativa del pregiudizio allorquando la prova diretta ed analitica di quest'ultima risulti, per la peculiarità della fattispecie, impossibile o particolarmente difficile.

ATTI AMMINISTRATIVI - INCARICHI PROGETTUALIIl progetto può avere omissis. Diritti d’autore. Se viene chiesta la visione in un contenzioso.
L’opera d’ingegno del professionista va tutelata e per questo l’esibizione a terzi dei suoi elaborati va limitata.
Lo sottolinea la sentenza 20.08.2015 n. 626 del TAR Marche, definendo il rapporto tra diritto d’autore ed accesso agli atti custoditi pubblica amministrazione.
Nel caso esaminato, un ente di bonifica aveva approfondito alcuni fenomeni idraulici (impaludamento), giungendo a conclusioni non condivise da uno dei proprietari delle aree interessate. Ne è sorta una controversia, con richiesta di visionare ed estrarre copia dello studio geologico; richiesta accolta solo in parte.
Situazioni analoghe emergono con gli atti di pianificazione, quando vi sono studi, ricerche e calcoli che possono interessare più proprietà e quindi potenzialmente utili a più professionisti. In questi casi occorre tutelare la proprietà intellettuale, con le norme sul diritto d’autore e del Codice civile (articolo 2575).
Per risolvere il caso, il Tar marchigiano ha quindi consentito un accesso parziale, coprendo alcuni passi di dettaglio della consulenza. Secondo i giudici, le norme sulla proprietà intellettuale sono funzionali a garantire gli interessi economici dell’autore, mentre la normativa sull’accesso (legge 241/1990) è funzionale a garantire altri interessi. E solo nei limiti di tali ultimi interessi va consentita la visione e l'estrazione di copia. In altri termini, né il diritto di autore né la proprietà intellettuale precludono la riproduzione, ma va impedita la riproduzione che consenta uno sfruttamento economico dell’opera d’ingegno.
Ciò significa che, quando l’accesso agli atti non lede il diritto all’uso economico esclusivo dell’opera, l’esibizione va consentita, sia come visione sia come estrazione di copia. Fermo restando che le informazioni possono essere ottenute solo in correlazione con l’interesse fatto valere per ottenere la copia. Appunto per garantire i diritti del professionista, la copia può essere fornita coprendo o estrapolando le parti, quali quelle dalle quali possa desumersi il metodo di indagine seguito dal professionista.
Soluzioni analoghe con secretazione parziale sono già state adottate nei procedimenti antitrust, nei quali va garantita la riservatezza di informazioni di carattere personale, commerciale, industriale e finanziario (ad esempio sul commercio di cosmetici o di prodotti discografici, Consiglio di Stato, sentenze 2513/2015 e 652/2001). Stesso procedimento a livello comunitario, quando l’accesso è limitato in caso di conflitti imprenditoriali su documenti segreti (Corte di giustizia, sentenza sulla causa C-107/82-83, tra AEG e Telefunken; Tribunale Ce, T-30/91, 29.06.1995, sulla Solvay).
Identico principio di secretazione parziale è infine adottato anche nelle gare di appalto (articolo 13, comma 5, lettera a, del Dlgs 163/2006), quando il concorrente secondo classificato contesti il pregio delle migliorie offerte dal vincitore, e tenta di dimostrarne l’irrealizzabilità: l’accesso va garantito perché necessario a fini difensivi, ma non può violare segreti industriali.
Quindi (Tar Lazio, sentenza 2064/2008) vi è accesso sui progetti di realizzazione di una residenza per anziani, ma non (Tar Marche sentenza 116/2015 e Milano 2857/2014) per conoscere il know how o le modalità di funzionamento di alcune fontane pubbliche date in appalto da un Comune
 (articolo Il Sole 24 Ore del 22.08.2015).
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MASSIMA
II. Il ricorso è fondato.
A norma dell’art. 24 della legge n. 241/1990,
la natura di opera dell’ingegno dei documenti di cui si chiede l’ostensione non rappresenta una causa di esclusione dall’accesso.
La disciplina dettata a tutela del diritto di autore e della proprietà intellettuale è funzionale a garantire gli interessi economici dell’autore ovvero del titolare dell’opera intellettuale, mentre la normativa sull’accesso è funzionale a garantire altri interessi ed in questi limiti va consentita la visione e l’estrazione di copia (TAR Puglia Bari, II, 13.02.2013, n. 217).
In altri termini,
né il diritto di autore né la proprietà intellettuale precludono la riproduzione sic et simpliciter, ma solo la riproduzione che consenta uno sfruttamento economico e, non essendo l’accesso lesivo di tale diritto all’uso economico esclusivo dell’opera, l’ostensione va consentita nelle forme richieste dall’interessata (visione ed estrazione di copia), fermo restando che delle informazioni ottenute dovrà essere fatto un uso appropriato, ossia esclusivamente in maniera funzionale all’interesse fatto valere con l’istanza di accesso (che, per espressa allegazione della ricorrente, è rappresentato dalla tutela della proprietà), in quanto ciò costituisce non solo la funzione per cui è consentito l’accesso stesso, ma anche il limite di utilizzo dei dati appresi.
Peraltro,
ad ulteriore garanzia dei diritti del terzo, l’Amministrazione potrà consentire l’estrazione di copia coprendo o estrapolando le parti dello studio geologico da cui possa desumersi il metodo di indagine seguito dal professionista, atteso che l’interesse della ricorrente potrà ugualmente essere soddisfatto con l’accesso pieno alla relazione conclusiva redatta dal geologo all’esito delle indagini condotte.

ATTI AMMINISTRATIVILa giurisprudenza sembra ormai consolidarsi sull’orientamento secondo cui la mancata acquisizione dei pareri di regolarità tecnica e contabile non comporta l'invalidità delle deliberazioni della giunta o del consiglio comunale, ma la loro mera irregolarità, atteso che la disposizione posta dall'art. 49 del TUEL, ha l'unico scopo di individuare i responsabili in via amministrativa e contabile delle deliberazioni, ma senza che l'omissione del parere incida sulla validità delle deliberazioni stesse.
4. Con il terzo motivo viene dedotta violazione dell’art. 49 del D.Lgs. n. 267/2000, poiché nella delibera di Consiglio n. 42/2014 mancano i pareri di regolarità tecnica e dell’Ufficio Urbanistica. Tale carenza comporta non solo vizio del procedimento ma anche difetto istruttorio. Viene inoltre dedotta violazione dell’art. 41 del Regolamento del Consiglio Comunale, stante il mancato rispetto del termine di 48 ore per porre a disposizione dei consiglieri tutta la documentazione riguardante la proposta di deliberazione.
4.1 Anche tali censure vanno disattese.
4.2 Riguardo al primo profilo va osservato che, dopo un primo orientamento conforme alla prospettazione di parte ricorrente (cfr. ad es. TAR Piemonte, Sez. I, 12.10.2005 n. 2902), la giurisprudenza successiva sembra ormai consolidarsi sull’orientamento contrario, secondo cui la mancata acquisizione dei pareri di regolarità tecnica e contabile non comporta l'invalidità delle deliberazioni della giunta o del consiglio comunale, ma la loro mera irregolarità, atteso che la disposizione posta dall'art. 49 del TUEL, ha l'unico scopo di individuare i responsabili in via amministrativa e contabile delle deliberazioni, ma senza che l'omissione del parere incida sulla validità delle deliberazioni stesse (cfr. tra le ultime, Cons. Stato, Sez. IV, 26.01.2012 n. 351; id. Sez. V, 21.08.2009 n. 5012; TAR Liguria, Sez. I, 26.02.2014 n. 350; TAR Campania, Salerno, Sez. II, 19.01.2012 n. 55; TAR Campania, Napoli, Sez. VII, 08.04.2011 n. 2002; TAR Calabria, Catanzaro, Sez. I, 25.03.2011 n. 401; TAR Lazio, Latina, Sez. I, 15.01.2008 n. 41).
Anche la giurisprudenza tributaria si è pronunciata nel medesimo senso (cfr. Cass. Civile, Sez. Trib. 12.08.2004 n. 15639).
L’odierno Collegio non intravede quindi ragioni per discostarsi da tale orientamento
(TAR Marche, sentenza 20.08.2015 n. 623 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAE' sempre possibile, per l’amministrazione, rivedere le proprie scelte in materia urbanistica, essendo solo obbligata a rendere una motivazione rinforzata e comparativa, tra interesse pubblico e privato, quando le nuove valutazioni incidono su aspettative dei privati particolarmente qualificate, come, ad esempio, quelle sorte da impegni già assunti dalla stessa amministrazione mediante approvazione di piani attuativi o stipula di convenzioni.
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Nel caso specifico non si verte, tuttavia, in tali situazioni, ma in fattispecie meno garantita, poiché il procedimento di approvazione del piano attuativo, in variante al PRG, non si è mai concluso favorevolmente (creando un’aspettativa qualificata nei termini sopra indicati), ma ha visto il consenso dell’amministrazione comunale espresso solo nella fase iniziale della procedura, ovvero nell’adozione della proposta avanzata dal privato.
Se l’amministrazione ha il potere di cambiare opinione su piani attuativi ormai approvati e convenzionati, non si intravedono allora ragioni ostative affinché possa farlo anche nel corso del procedimento.
Peraltro va osservato che se il procedimento in esame risulta strutturato in più fasi autonome tra loro (adozione e approvazione finale), ciò giustifica e ammette una rivalutazione della proposta anche in fase conclusiva, secondo uno schema assimilabile alla legittima revoca (in questo caso non di atti amministrativi ma del precedente consenso) per sopravvenuta rivalutazione dell’interesse pubblico originario (art. 21-quinquies della Legge n. 241/1990).

5. Con il quarto motivo viene dedotta violazione della L.r. n. 34/1992, nonché eccesso di potere per illogicità, incoerenza e contraddittorietà dell’azione amministrativa.
In particolare viene dedotto che il piano particolareggiato aveva ottenuto per due volte il consenso del Consiglio Comunale (adozione provvisoria e definitiva), oltre a tutti i pareri favorevoli degli organi coinvolti nel procedimento (Provincia, ASUR, Genio Civile), per cui l’approvazione finale era atto dovuto e vincolato, senza possibilità di ripensamenti di natura politico-amministrativa.
La doglianza viene riproposta nella prima parte del motivo successivo (nr. V), circa la pretesa violazione del legittimo affidamento che il ricorrente aveva riposto nella positiva conclusione della procedura.
Le censure non possono trovare condivisione.
Occorre innanzitutto richiamare il principio giurisprudenziale secondo cui è sempre possibile, per l’amministrazione, rivedere le proprie scelte in materia urbanistica, essendo solo obbligata a rendere una motivazione rinforzata e comparativa, tra interesse pubblico e privato, quando le nuove valutazioni incidono su aspettative dei privati particolarmente qualificate, come, ad esempio, quelle sorte da impegni già assunti dalla stessa amministrazione mediante approvazione di piani attuativi o stipula di convenzioni (cfr., tra le tante, Consiglio Stato, Sez. IV, 09.06.2008 n. 2837; id. 11.10.2007 n. 5357; 04.10.2007 n. 5210; 01.10.2007 n. 5058; 08.06.2007 n. 2999; 14.05.2007 n. 2411; TAR Sicilia, Palermo, Sez. III, 21.12.2012 n. 2757; id. Sez. II, 10.12.2009, n. 1892; TAR Veneto, Sez. I, 12.12.2012 n. 1549; TAR Piemonte, Sez. I, 22.07.2011 n. 805; TAR Lombardia, Brescia, Sez. II, 22.06.2009 n. 1245).
Nel caso specifico non si verte, tuttavia, in tali situazioni, ma in fattispecie meno garantita, poiché il procedimento di approvazione del piano attuativo, in variante al PRG, non si è mai concluso favorevolmente (creando un’aspettativa qualificata nei termini sopra indicati), ma ha visto il consenso dell’amministrazione comunale espresso solo nella fase iniziale della procedura, ovvero nell’adozione della proposta avanzata dal privato.
Se l’amministrazione ha il potere di cambiare opinione su piani attuativi ormai approvati e convenzionati, non si intravedono allora ragioni ostative affinché possa farlo anche nel corso del procedimento.
Peraltro va osservato che se il procedimento in esame risulta strutturato in più fasi autonome tra loro (adozione e approvazione finale), ciò giustifica e ammette una rivalutazione della proposta anche in fase conclusiva, secondo uno schema assimilabile alla legittima revoca (in questo caso non di atti amministrativi ma del precedente consenso) per sopravvenuta rivalutazione dell’interesse pubblico originario (art. 21-quinquies della Legge n. 241/1990).
Resta pur sempre l’obbligo di motivazione, che il Consiglio Comunale ha comunque formalmente assolto facendo proprie le argomentazioni contenute nella ricordata nella nota 26.09.2014 prot. 14506 sottoscritta dal Sindaco e dall’Assessore all’Urbanistica (TAR Marche, sentenza 20.08.2015 n. 623 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Senza il titolo abilitante salta la concessione.
È legittimo il doveroso diniego della concessione in sanatoria di opere eseguite senza titolo abilitante, qualora le stesse non risultino conformi tanto alla normativa urbanistica vigente al momento della loro realizzazione quanto a quella vigente al momento della domanda di sanatoria.

Lo hanno ribadito i giudici della II Sez. del TAR Lombardia-Milano con la sentenza 13.08.2015 n. 1900.
Secondo i giudici amministrativi milanesi, anche in aderenza a un ormai consolidato orientamento che tra spunto sia dalla Corte costituzionale che dal Consiglio di stato, solo il legislatore statale (con preclusione non solo per il potere giurisdizionale, ma anche per il legislatore regionale: Corte cost., 29.05.2013, n. 101) ha la facoltà di prevedere i casi in cui può essere rilasciato un titolo edilizio in sanatoria (avente anche una rilevanza estintiva del reato già commesso), pertanto risulta coerente il divieto legale di rilasciare una concessione (o il permesso) in sanatoria, anche nel caso in cui dopo la commissione dell'abuso vi sia una modifica favorevole dello strumento urbanistico (si veda: Cons. stato, sez. V, 27.05.2014, n. 2755).
È possibile rinvenire la ragionevolezza di tale divieto dall'esigenza, presa in considerazione dalla legge, di sfuggire alla situazione in cui il potere di pianificazione possa essere strumentalizzato al fine di rendere lecito ex post (e non punibile) ciò che risulta illecito (e punibile) nonché è possibile cogliere una finalità dissuasiva dall'intenzione di commettere abusi, «poiché chi costruisce sine titulo è consapevole di essere tenuto alla demolizione, anche in presenza di una sopraggiunta modificazione favorevole dello strumento urbanistico».
Inoltre, secondo i giudici lombardi, nel caso in cui un'istanza di sanatoria vada a prevedere la realizzazione di ulteriori interventi per rendere l'opera conforme alle norme vigenti, sarà evidente una sorta di insussistenza del requisito della conformità al momento della richiesta di rilascio del titolo in sanatoria.
Pertanto, un eventuale provvedimento di sanatoria che prevedesse l'esecuzione di tali ulteriori lavori sarebbe quindi illegittimo, poiché l'articolo 36 del dpr n. 380 del 2001 non consente spazi interpretativi, nel senso che la concessione in sanatoria è ammessa soltanto entro i limiti delineati dal legislatore, senza alcuna possibilità di estensione discrezionale da parte della p.a. (articolo ItaliaOggi Sette del 24.08.2015).

EDILIZIA PRIVATALa realizzazione di lavori abusivi senza titolo edilizio e senza preventiva autorizzazione paesaggistica (quali lavori di sistemazione e di pavimentazione delle aree esterne e la sopraelevazione del muro divisorio e la realizzazione della piscina, che hanno realizzato una duratura trasformazione del suolo, in quanto tale, urbanisticamente rilevante) comporta che l’ordine di demolizione e di messa in pristino risulta una misura appropriata e vincolata al tipo di opere compiute sine titulo.
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La presentazione dell’istanza di accertamento di conformità non produce conseguenze sulla legittimità dell’ordinanza di demolizione ma solo sulla sua efficacia, destinata peraltro a riespandersi ove il Comune respinga la domanda di sanatoria.
Ne consegue che, in caso di accoglimento dell’istanza di sanatoria, l’ordinanza di demolizione è automaticamente travolta dalla contraria e positiva determinazione dell’amministrazione circa l’assentibilità e la conformità normativa e regolamentare dell’intervento.
In caso di rigetto, l’ordinanza di demolizione riacquista efficacia.
Peraltro, il termine di 90 giorni per dare seguito alla demolizione, comincia nuovamente a decorrere dalla comunicazione del provvedimento di rigetto della domanda di accertamento di conformità..
Osserva ancora il Collegio che, ai sensi dell’art. 36, comma 3, d.P.R. n. 380/2001, qualora il Comune non si pronunci espressamente sull’istanza di accertamento di conformità entro sessanta giorni dal suo ricevimento, la stessa s’intende respinta. In altri termini, sulla domanda si forma una fattispecie normativamente tipica di silenzio–rigetto che l’interessato ha l’onere di impugnare mediante proposizione di motivi aggiunti o ricorso autonomo.
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L’indicazione e la specificazione dell’area da acquisire (in caso di mancata demolizione abuso realizzato) non costituisce requisito di legittimità dell’ordinanza di demolizione ma è onere che contrassegna i provvedimenti successivi.
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Secondo orientamento ormai costante della giurisprudenza, l’ordine di demolizione, in quanto atto dovuto e dal contenuto rigidamente vincolato, presuppone un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere abusivo delle stesse. A fronte di questi presupposti, siffatto ordine non richiede la previa comunicazione di avvio del procedimento.
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La giurisprudenza predica la non necessità di motivazione delle ordinanze di demolizione, in considerazione del loro contenuto rigidamente vincolato e dal fatto che traggono origine dal mero accertamento del carattere abusivo delle opere.
Sul punto, questa Sezione ha da tempo affermato che i provvedimenti repressivi, quali l’ordine di demolizione di una costruzione abusiva, prescindono da qualsiasi valutazione discrezionale dei fatti e sono subordinati al solo verificarsi dei presupposti stabiliti dalla legge.
Ne consegue che, una volta accertata la consistenza dell’abuso, non vi è alcun margine di discrezionalità per l’interesse pubblico eventualmente collegato. Pertanto, i provvedimenti repressivi che ordinano la demolizione di manufatti abusivi non necessitano di congrua motivazione, posto che l’attualità dell’interesse pubblico alla rimozione dell’abuso è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell’assetto urbanistico violato.
L’ordinanza di demolizione è pertanto sufficientemente motivata con la descrizione delle opere abusive, non occorrendo ulteriore sviluppo motivazionale.
1.- Il ricorso è infondato
2.- Con la prima censura, la ricorrente deduce l’illegittimità della misura demolitoria per violazione dell’art. 31 d.p.r. 380/2001, poiché, a suo avviso, ove l’opera dovesse essere effettivamente considerata abusiva, l’amministrazione comunale avrebbe potuto semmai comminare la più mite sanzione pecuniaria, in relazione all’entità delle stesse consistenti in lavori di sistemazione e di pavimentazione delle aree esterne.
La doglianza è infondata.
Le opere effettuate, come descritte dalla ricorrente medesima, mostrano chiaramente che gli interventi effettuati non hanno prodotto semplici strutture precarie, ma hanno realizzato una duratura trasformazione del suolo, in quanto tale urbanisticamente rilevante, almeno per quanto concerne la sopraelevazione del muro divisorio e la realizzazione della piscina.
Deve peraltro considerarsi che le opere effettuate, come d’altronde spiega chiaramente l’ordinanza impugnata nella parte motiva, sono situate in area vincolata ai sensi del d.lgs. n. 42/2004 (ex L. 1497/1939) nonché della legge regionale n. 21 del 10.12.2003 (contenente le “Norme urbanistiche per i comuni rientranti nelle zone a rischio vulcanico dell’area vesuviana”) e che, pertanto, le stesse “sono da considerarsi abusive perché realizzate in assenza di autorizzazione paesaggistico-ambientale ai sensi dell’art. 146 del D.Lgs. n. 42/2004, essendo l’intero territorio del Comune di San Giuseppe Vesuviano sottoposto alla tutela prevista dalla citata normativa, in virtù dei DD.MM. 06/10/1961.”.
Sicché l’ordine di demolizione e di messa in pristino risulta una misura appropriata e vincolata al tipo di opere compiute sine titulo.
3.- Con il secondo motivo, la ricorrente rileva che in data 02.07.2013 aveva presentato istanza di permesso di costruire in sanatoria, ai sensi dell’art. 36 d.p.r. n. 380/2001.
Da ciò reclama “l’improduttività di effetti anche ex lege, dell’impugnato provvedimento fino alla conclusione del procedimento di cui all’istanza di concessione in sanatoria”.
La censura è infondata.
Alla luce della pacifica giurisprudenza di questo TAR, più volte condivisa anche da questa Sezione, la presentazione dell’istanza di accertamento di conformità non produce conseguenze sulla legittimità dell’ordinanza di demolizione ma solo sulla sua efficacia, destinata peraltro a riespandersi ove il Comune respinga la domanda di sanatoria (TAR Campania, Napoli, Sez. II, 14.09.2009, n. 4961; Cons. di Stato, Sez. IV, 19.02.2008, n. 849 ord.; più di recente questa Sezione 05.12.2012, n. 4941 e 17.05.2012, n. 2787).
Ne consegue che, in caso di accoglimento dell’istanza di sanatoria, l’ordinanza di demolizione è automaticamente travolta dalla contraria e positiva determinazione dell’amministrazione circa l’assentibilità e la conformità normativa e regolamentare dell’intervento.
In caso di rigetto, l’ordinanza di demolizione riacquista efficacia (in tal senso, questa Sezione, 28.01.2013, n. 651; idem, 05.12.2012, n. 4941).
Peraltro, il termine di 90 giorni per dare seguito alla demolizione, comincia nuovamente a decorrere dalla comunicazione del provvedimento di rigetto della domanda di accertamento di conformità (sempre questa Sezione, 22.02.2013, n. 1070).
Osserva ancora il Collegio che, ai sensi dell’art. 36, comma 3, d.P.R. n. 380/2001, qualora il Comune non si pronunci espressamente sull’istanza di accertamento di conformità entro sessanta giorni dal suo ricevimento, la stessa s’intende respinta. In altri termini, sulla domanda si forma una fattispecie normativamente tipica di silenzio–rigetto che l’interessato ha l’onere di impugnare mediante proposizione di motivi aggiunti o ricorso autonomo.
Nel caso in esame, l’istanza è stata presentata al Comune intimato in data 02.07.2013 (protocollo dell’ente n. 2013-001976807 di pari data, di cui copia è allegata al ricorso).
L’amministrazione non si è pronunciata; pertanto su di essa si è ormai formato il silenzio–rigetto; quest’ultimo non risulta impugnato, con conseguente stabilizzazione degli effetti della precedente ordinanza di demolizione.
4.- Con altra censura la ricorrente lamenta l’illegittimità dell’ordinanza contestata poiché la stessa non specifica quale sia l’area di sedime che, in caso di inottemperanza, sarebbe acquisita di diritto al patrimonio comunale, area che, quindi “non risulta in alcun modo identificata e/o identificabile” (ricorso, pag. 6).
Tale censura, oltre a non risultare pertinente al caso in esame è comunque infondata.
Il Collegio osserva in primo luogo come l’ordinanza in questione non faccia alcun riferimento all’acquisizione gratuita in caso di inottemperanza; la stessa, infatti, contiene l’avvertenza che, in assenza di demolizione, decorsi 90 giorni dalla notifica, l’amministrazione “procederà d’ufficio alla demolizione delle opere indicate in premessa a cura del Comune con avvio della procedura di ristoro delle spese sostenute a carico del responsabile dell’abuso, tenuto al relativo pagamento, ai sensi dell’art. 31, c. 4, del D.P.R. n. 380/2001.”.
In caso d’inottemperanza è quindi prevista non l’acquisizione ma la demolizione e la messa in pristino in danno.
In secondo luogo, la giurisprudenza ha precisato sul punto che l’indicazione e la specificazione dell’area da acquisire non costituisce requisito di legittimità dell’ordinanza di demolizione ma è onere che contrassegna i provvedimenti successivi (TAR Puglia, Lecce, Sez. III, 07.04.2011, n. 618; in terminis, TAR Campania, Salerno, Sez. I, 04.04.2011, n. 628, TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, 09.03.2011, n. 644; più di recente, questa Sezione, 15.01.2013, n. 299).
Peraltro l’ingiunzione di ripristinare lo stato dei luoghi è conseguente ai vincoli che gravano sull’area in questione, tant’è che il provvedimento impugnato richiama espressamente l’art. 167 del d.lgs. n. 42 del 2004.
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6.- La ricorrente sviluppa anche argomenti in merito all’eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 7, l. n. 47/1985 nella parte in cui contempla, quale conseguenza dell’inottemperanza alla demolizione, anche l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale del suolo su cui si erge la costruzione abusiva; sostiene al riguardo che la costruzione ha una sua individualità giuridica distinta da quella del suolo, non sussistendo un’inscindibile unità costruzione/suolo che, al contrario, il legislatore sembra avere presupposto nel momento in cui ha previsto l’acquisizione del terreno al patrimonio del comune.
L’illustrata eccezione è inammissibile perché non indica quale norma costituzionale sia stata violata e comunque non appare rilevante nel caso in esame, atteso che l’ordinanza di demolizione in questione dispone, in caso di inottemperanza, non l’acquisizione al patrimonio comunale ma la riduzione in danno. In ogni caso l'acquisizione gratuita dell'area al patrimonio comunale quale sanzione per l'inottemperanza all'ingiunzione di demolizione è stata ritenuta immune da vizi di legittimità costituzionale (cfr. Corte cost., 15/2/1991, n. 82).
7.- Con le ultime due censure la ricorrente lamenta l’illegittimità dell’ordinanza impugnata perché con essa l’amministrazione comunale non le avrebbe consentito di partecipare al procedimento, onde acquisire tutti gli interessi coinvolti; né la stessa è stata corredata di adeguata motivazione delle ragioni giustificatrici dell’ordine di demolizione impartito.
Anche tali censure si palesano infondate.
Invero, secondo orientamento ormai costante della giurisprudenza, l’ordine di demolizione, in quanto atto dovuto e dal contenuto rigidamente vincolato, presuppone un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere abusivo delle stesse. A fronte di questi presupposti, siffatto ordine non richiede la previa comunicazione di avvio del procedimento (TAR Liguria, Sez. I, 22.04.2011, n. 666; TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 10.08.2008, n. 9710; Idem 17.01.2007, n. 357; TAR Umbria, 05.06.2007, n. 499).
La Sezione ha di recente più volte confermato questo indirizzo (cfr. 26.06.2013, n. 3328; 22.02.2013, n. 1069).
Quanto all’ultima censura, la giurisprudenza predica la non necessità di motivazione delle ordinanze di demolizione, in considerazione del loro contenuto rigidamente vincolato e dal fatto che traggono origine dal mero accertamento del carattere abusivo delle opere.
Sul punto, questa Sezione ha da tempo affermato che i provvedimenti repressivi, quali l’ordine di demolizione di una costruzione abusiva, prescindono da qualsiasi valutazione discrezionale dei fatti e sono subordinati al solo verificarsi dei presupposti stabiliti dalla legge; ne consegue che, una volta accertata la consistenza dell’abuso, non vi è alcun margine di discrezionalità per l’interesse pubblico eventualmente collegato. Pertanto, i provvedimenti repressivi che ordinano la demolizione di manufatti abusivi non necessitano di congrua motivazione, posto che l’attualità dell’interesse pubblico alla rimozione dell’abuso è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell’assetto urbanistico violato (Consiglio di Stato, Sez. IV, 11.01.2011, n. 79; TAR Campania, Napoli, Sez. III, 26.09.2013, n. 4450; Idem 28.01.2013, n. 651).
L’ordinanza di demolizione è pertanto sufficientemente motivata con la descrizione delle opere abusive, non occorrendo ulteriore sviluppo motivazionale (TAR Lazio, Sez. I, 08.06.2011, n. 5082) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 10.08.2015 n. 4231 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

TRIBUTI: Più facile edificare anche con i vincoli.
La destinazione del terreno ad attrezzature pubbliche non vale, di per sé, a escludere l'edificabilità, dovendo al contrario ritenersi che le limitazioni e i vincoli contenuti nel Prg denotino comunque una suscettibilità edificatoria. In tema di imposte sui redditi non può escludersi l'imponibilità delle plusvalenze da redditi diversi per la sola circostanza che il terreno ceduto si trovi all'interno di zona vincolata a un utilizzo meramente pubblicistico, dovendosi avere riguardo alla destinazione effettiva dell'area.

Così la Corte di Cassazione con la sentenza 07.08.2015 n. 16222.
Nel caso di specie la Ctr del Lazio aveva annullato l'avviso di accertamento con cui era stata sottoposta a tassazione una plusvalenza relativa al corrispettivo della vendita di un immobile, rilevando che il contribuente aveva dimostrato, con apposito certificato di destinazione urbanistica, che il terreno non era edificabile.
L'Agenzia rilevava però che proprio le limitazioni e i vincoli contenuti nel Prg denotavano la natura edificatoria dell'area, anche in considerazione del fatto che nel certificato erano ben evidenziate le differenti sottozone per le quali era invece esclusa ogni possibilità di edificazione.
La censura, secondo i giudici di legittimità, era fondata, dato che le limitazioni e i vincoli stabiliti nel Prg non risultavano sufficienti a privare i terreni di potenzialità edificatoria, visto che parte delle aree ricadevano nella sottozona delle attrezzature pubbliche di interesse urbano territoriale.
La Ctr, nel richiamare le risultanze del certificato di destinazione urbanistica, aveva del resto omesso di precisare se le limitazioni alla potenzialità edificatoria del terreno si riferissero alla sola edilizia residenziale, o ad ogni possibilità di sviluppo edificatorio.
In tema di imposte sui redditi, peraltro, la potenzialità edificatoria, desumibile oltre che dagli strumenti urbanistici anche da altri elementi, certi e obiettivi, che attestino una concreta attitudine dell'area all'edificazione, è un elemento oggettivo idoneo a influenzare il valore dei terreni e rappresenta un indice di capacità contributiva ai sensi dell'art. 53 della Costituzione (articolo ItaliaOggi del 21.08.2015).

EDILIZIA PRIVATA: Permessi di costruzione rilasciati a seguito di Piano Attuativo convenzionato, la proroga triennale opera automaticamente.
Il confronto testuale tra il comma 3 ed il comma 3-bis dell’art. 30 del d.l. 69/2013 induce a ritenere, per il secondo, che il legislatore non abbia prescritto la ricorrenza di taluni presupposti per l’operatività della proroga triennale: si tratta, in particolare, della “previa comunicazione del soggetto interessato” e della condizione che i termini iniziali e finali “non siano già decorsi al momento della comunicazione dell’interessato”.
Pertanto, la più lunga proroga triennale dell’efficacia dei permessi convenzionati opera automaticamente e risulta ammissibile, ed anzi dovuta, anche qualora il termine originario sia già venuto a scadenza.
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Come è noto, nella responsabilità da provvedimento illegittimo l’elemento della colpevolezza resta presuntivamente ancorato alla illegittimità dell’atto, ma nel contempo si ammette l’esimente dell’errore scusabile, dando in tal senso rilevanza giustificativa all’oggettiva incertezza della situazione di fatto o di diritto, dovuta a complessità della situazione o a difficoltà interpretative della norma da applicare o all’esistenza di contrasti giurisprudenziali, tutti elementi che fanno venir meno la riferibilità della violazione alla mancanza di diligenza dell’amministrazione convenuta.

La M.C. s.r.l. ha invocato la proroga dei termini di inizio e fine lavori ai sensi del comma 3-bis dell’art. 30 del d.l. n. 69 del 2013 (nel testo modificato dalla legge di conversione n. 98 del 2013). La norma disciplina diversamente i presupposti della proroga di efficacia ex lege, per i titoli edilizi rilasciati nell’ambito di convenzioni di lottizzazione.
Ed infatti, il comma 3 dell’art. 30 dispone in via generale: “Salva diversa disciplina regionale, previa comunicazione del soggetto interessato, sono prorogati di due anni i termini di inizio e di ultimazione dei lavori (…), come indicati nei titoli abilitativi rilasciati o comunque formatisi antecedentemente all’entrata in vigore del presente decreto, purché i suddetti termini non siano già decorsi al momento della comunicazione dell’interessato e sempre che i titoli abilitativi non risultino in contrasto, al momento della comunicazione dell’interessato, con nuovi strumenti urbanistici approvati o adottati. È altresì prorogato di tre anni il termine delle autorizzazioni paesaggistiche in corso di efficacia alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto”; il successivo comma 3-bis dell’art. 30, aggiunto in sede di conversione, dispone più sinteticamente: “Il termine di validità nonché i termini di inizio e fine lavori nell’ambito delle convenzioni di lottizzazione di cui all’articolo 28 della legge 17.08.1942, n. 1150, ovvero degli accordi similari comunque nominati dalla legislazione regionale, stipulati sino al 31.12.2012, sono prorogati di tre anni”.
La seconda disposizione, che pure non brilla per chiarezza (specialmente per l’incerto collegamento con il comma che precede), deve necessariamente essere interpretata nel senso di riconoscere una maggiore ampiezza alla proroga ex lege dell’efficacia dei permessi rilasciati in attuazione di convenzioni di lottizzazione comunque denominate, come nella fattispecie controversa.
Per questi titoli, la ratio del trattamento ancor più favorevole può essere individuata non soltanto nella maggiore importanza e complessità degli interventi costruttivi che solitamente rientrano nei piani attuativi, ma anche nell’interesse pubblico a portare ad ultimazione il complesso di opere (specialmente le urbanizzazioni primarie e secondarie) in uno spazio temporale più lungo, tenendo conto delle difficoltà in cui versano le imprese del settore edilizio nell’attuale congiuntura economica.
Il confronto testuale tra il comma 3 ed il comma 3-bis dell’art. 30 induce a ritenere, per il secondo, che il legislatore non abbia prescritto la ricorrenza di taluni presupposti per l’operatività della proroga triennale: si tratta, in particolare, della “previa comunicazione del soggetto interessato” e della condizione che i termini iniziali e finali “non siano già decorsi al momento della comunicazione dell’interessato”.
Pertanto, la più lunga proroga triennale dell’efficacia dei permessi convenzionati opera automaticamente e risulta ammissibile, ed anzi dovuta, anche qualora il termine originario sia già venuto a scadenza.
Ciò premesso, il Comune di Castiglione Torinese ha illegittimamente decretato la decadenza del permesso di costruire n. 68/2008, senza tener conto della proroga automatica del termine per l’inizio dei lavori fino al 29.09.2013 (doc. 11 di parte ricorrente, con fotografie allegate).
Ne discende che il provvedimento comunale del 27.02.2014 è illegittimo e va annullato, assorbita ogni ulteriore censura ed escluso ogni interesse in ordine alla distinta questione dell’efficacia dell’autorizzazione paesaggistica, sulla quale il provvedimento impugnato nulla ha disposto (non avendo il Comune competenza in materia).
2. Deve invece essere respinta la domanda di risarcimento del danno, che la società ricorrente ha puntigliosamente specificato nella memoria conclusiva.
Come è noto, nella responsabilità da provvedimento illegittimo l’elemento della colpevolezza resta presuntivamente ancorato alla illegittimità dell’atto, ma nel contempo si ammette l’esimente dell’errore scusabile, dando in tal senso rilevanza giustificativa all’oggettiva incertezza della situazione di fatto o di diritto, dovuta a complessità della situazione o a difficoltà interpretative della norma da applicare o all’esistenza di contrasti giurisprudenziali, tutti elementi che fanno venir meno la riferibilità della violazione alla mancanza di diligenza dell’amministrazione convenuta (cfr., tra molte: Cons. Stato, sez. III, 10.07.2014 n. 3526; Id., sez. III, 06.05.2013 n. 2452; Id., sez. V, 17.02.2013 n. 798).
Difetta, nella specie, la colpa dell’amministrazione.
L’imperfetta formulazione dell’art. 30 del d.l. n. 69 del 2013, soprattutto in relazione al rapporto di specialità intercorrente tra il comma 3 ed il comma 3-bis, costituisce un’apprezzabile giustificazione dell’errore in cui è incorso il Comune di Castiglione Torinese.
Non risulta, peraltro, che su tale profilo vi fossero già indicazioni interpretative della giurisprudenza amministrativa.
D’altronde, l’immediato accoglimento dell’istanza cautelare ha scongiurato il protrarsi degli effetti lesivi del provvedimento di decadenza, consentendo alla società ricorrente di riprendere i lavori (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 31.07.2015 n. 1304 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVII pareri di regolarità contabile previsti per l’adozione delle delibere comunali prima dall’art. 53 della legge 08.06.1990 n. 142 e poi dall’art. 49 del T.U. 18.08.2000 n. 267 non costituiscono requisiti di legittimità di queste ultime, in quanto sono preordinati all’individuazione sul piano formale, nei funzionari che li formulano, della responsabilità eventualmente in solido con i componenti degli organi politici in via amministrativa e contabile, così che la loro eventuale mancanza –e anche il discostarsi dal loro contenuto– costituisce una mera irregolarità che non incide sulla legittimità e la validità delle deliberazioni stesse.
Con il 12° motivo la ricorrente censura il fatto che il Consiglio comunale avrebbe immotivatamente disatteso le considerazioni del dirigente del servizio bilancio nel parere reso da quest’ultimo.
L’argomento è palesemente contraddetto dalla consolidata giurisprudenza amministrativa, per la quale i pareri di regolarità contabile previsti per l’adozione delle delibere comunali prima dall’art. 53 della legge 08.06.1990 n. 142 e poi dall’art. 49 del T.U. 18.08.2000 n. 267 non costituiscono requisiti di legittimità di queste ultime, in quanto sono preordinati all’individuazione sul piano formale, nei funzionari che li formulano, della responsabilità eventualmente in solido con i componenti degli organi politici in via amministrativa e contabile, così che la loro eventuale mancanza –e anche il discostarsi dal loro contenuto– costituisce una mera irregolarità che non incide sulla legittimità e la validità delle deliberazioni stesse (per tutte: Cons. Stato Se. V, n. 1663 dell’08.04.2014) (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 29.07.2015 n. 968 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIAllo scopo di stabilire se un atto amministrativo sia meramente confermativo (e perciò non impugnabile) ovvero di conferma in senso proprio (e, quindi, autonomamente lesivo e da impugnarsi nei termini), occorre verificare se l'atto successivo sia stato adottato o meno senza una nuova istruttoria e una nuova ponderazione degli interessi.
In particolare, non può considerarsi meramente confermativo rispetto ad un atto precedente l'atto la cui adozione sia stata preceduta da un riesame della situazione che aveva condotto al precedente provvedimento, giacché solo l’esperimento di un ulteriore adempimento istruttorio, sia pure mediante la rivalutazione degli interessi in gioco e un nuovo esame degli elementi di fatto e di diritto che caratterizzano la fattispecie considerata, può dare luogo a un atto propriamente confermativo in grado, come tale, di dare vita ad un provvedimento diverso dal precedente e quindi suscettibile di autonoma impugnazione.
Ricorre invece l’atto meramente confermativo quando l’amministrazione, a fronte di un’istanza di riesame si limita a dichiarare l'esistenza di un suo precedente provvedimento senza compiere alcuna nuova istruttoria e senza una nuova motivazione.

Al riguardo il Collegio ritiene di richiamare il consolidato (e qui condiviso) orientamento secondo cui allo scopo di stabilire se un atto amministrativo sia meramente confermativo (e perciò non impugnabile) ovvero di conferma in senso proprio (e, quindi, autonomamente lesivo e da impugnarsi nei termini), occorre verificare se l'atto successivo sia stato adottato o meno senza una nuova istruttoria e una nuova ponderazione degli interessi.
In particolare, non può considerarsi meramente confermativo rispetto ad un atto precedente l'atto la cui adozione sia stata preceduta da un riesame della situazione che aveva condotto al precedente provvedimento, giacché solo l’esperimento di un ulteriore adempimento istruttorio, sia pure mediante la rivalutazione degli interessi in gioco e un nuovo esame degli elementi di fatto e di diritto che caratterizzano la fattispecie considerata, può dare luogo a un atto propriamente confermativo in grado, come tale, di dare vita ad un provvedimento diverso dal precedente e quindi suscettibile di autonoma impugnazione.
Ricorre invece l’atto meramente confermativo quando l’amministrazione, a fronte di un’istanza di riesame si limita a dichiarare l'esistenza di un suo precedente provvedimento senza compiere alcuna nuova istruttoria e senza una nuova motivazione (in tal senso –ex multis -: Cons. Stato, IV, 12.02.2015, n. 758. In termini analoghi: Sez. V, 05.12.2014, n. 6014; id., V, 18.10.2014, n. 5006)
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 27.07.2015 n. 3667 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIBVATA: Il vincolo cimiteriale determina una situazione di inedificabilità ex lege, suscettibile di venire rimossa solo in ipotesi eccezionali e comunque solo per considerazioni di interesse pubblico, in presenza delle condizioni specificate nell'art. 338, quarto comma; ma non per interessi privati, come ad esempio per legittimare ex post realizzazioni edilizie abusive di privati, o comunque interventi edilizi futuri, su un’area a tal fine indisponibile per ragioni di ordine igienico-sanitario, nonché per la sacralità dei luoghi di sepoltura, salve ulteriori esigenze di mantenimento di un'area di possibile espansione della cinta cimiteriale.
Pertanto, il procedimento attivabile dai singoli proprietari all'interno della fascia di rispetto è in ogni caso soltanto quello finalizzato agli interventi di cui all’articolo 338, settimo comma, del citato Testo unico (recupero o cambio di destinazione d'uso di edificazioni preesistenti); mentre resta attivabile nel solo interesse pubblico -per i motivi anzidetti- la procedura di riduzione della fascia inedificabile in questione.

4.3.1. Ebbene, fermo restando quanto appena osservato, si osserva comunque che il motivo dinanzi richiamato sub iii) (si tratta del motivo di diniego opposto dal Comune in relazione al vincolo cimiteriale insistente sull’area) non può comunque trovare accoglimento.
In punto di fatto si osserva che è pacifica l’esistenza su una parte del compendio per cui è causa di un vincolo cimiteriale ai sensi dell’articolo 338 del regio decreto n. 27.07.1034, n. 1265 (c.d. ‘Testo unico delle leggi sanitarie’).
Risulta in atti che le iniziative attivate dall’odierno appellante al fine di ottenere una nuova e diversa perimetrazione della richiamata fascia di rispetto sino al limite minimo dei 50 metri siano state respinte sia dal TAR della Lombardia (sentenza n. 2035 del 2013), sia da questo Consiglio di Stato (sentenza n. 1317/2014).
Ai fini della presente decisione appare dirimente richiamare quanto già stabilito dalla Sezione con la sentenza da ultimo richiamata.
Si è in tale occasione ribadito che, per consolidata giurisprudenza, il vincolo cimiteriale determina una situazione di inedificabilità ex lege, suscettibile di venire rimossa solo in ipotesi eccezionali e comunque solo per considerazioni di interesse pubblico, in presenza delle condizioni specificate nell'art. 338, quarto comma; ma non per interessi privati, come ad esempio per legittimare ex post realizzazioni edilizie abusive di privati, o comunque interventi edilizi futuri, su un’area a tal fine indisponibile per ragioni di ordine igienico-sanitario, nonché per la sacralità dei luoghi di sepoltura, salve ulteriori esigenze di mantenimento di un'area di possibile espansione della cinta cimiteriale (cfr. Cass., I, 23.06.2004, n. 11669; Cons. Stato, IV, 11.10.2006, n. 6064; id., V, 29.03.2006, n. 1593; 03.05.2007, n. 1934 e 14.09.2010, n. 6671).
Pertanto, il procedimento attivabile dai singoli proprietari all'interno della fascia di rispetto è in ogni caso soltanto quello finalizzato agli interventi di cui all’articolo 338, settimo comma, del citato Testo unico (recupero o cambio di destinazione d'uso di edificazioni preesistenti); mentre resta attivabile nel solo interesse pubblico -per i motivi anzidetti- la procedura di riduzione della fascia inedificabile in questione.
Non può, quindi, essere condivisa la tesi dell’appellante secondo cui nelle aree sottoposte a vincolo cimiteriale sarebbero in ogni caso ammessi gli interventi di edilizia c.d. ‘libera’, ostandovi –anche in questo caso– la previsione di cui al comma 1 dell’articolo 6 del d.P.R. 380 del 2001 il quale fa in ogni caso salve le preclusioni rinvenienti “[da] altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia (…)
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 27.07.2015 n. 3667 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai sensi del comma 6 dell’articolo 31 dpr 380/2001, l’acquisizione coattiva è disposta in tutti i casi di “interventi abusivamente eseguiti su terreni sottoposti, in base a leggi statali o regionali, a vincolo di inedificabilità” (si tratta di una previsione idonea a ricomprendere anche l’intervento per cui è causa, realizzato in violazione della disposizione di legge statale in tema di rispetto del c.d. ‘vincolo cimiteriale’).
Non può essere condiviso l’argomento secondo cui il Comune non potrebbe comunque procedere all’eventuale acquisizione coattiva dell’area, non essendo identificabile quale “amministrazion[e] cui compete la vigilanza sull’osservanza del vincolo”. Al riguardo è appena il caso di richiamare i generali compiti di vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia che spettano ai Comuni ai sensi del comma 1 dell’articolo 27 del d.P.R. 380 del 2001, cit..

5. Ed ancora, non può trovare accoglimento il motivo con cui (riproponendo un analogo argomento già profuso in primo grado) il sig. A. ha lamentato l’illegittimità del provvedimento comunale impugnato in primo grado per la parte in cui ha preconizzato l’acquisizione dell’area al patrimonio del Comune in caso di mancata ottemperanza all’ordine di rimozione della pavimentazione per asserita violazione dell’articolo 338 del ‘Testo unico delle leggi sanitarie’ del 1934, nonché per violazione dell’articolo 31 del d.P.R. 380 del 2001.
5.1. Al riguardo ci si limita ad osservare:
- che, ai sensi del comma 6 dell’articolo 31, cit., l’acquisizione coattiva è disposta in tutti i casi di “interventi abusivamente eseguiti su terreni sottoposti, in base a leggi statali o regionali, a vincolo di inedificabilità” (si tratta di una previsione idonea a ricomprendere anche l’intervento per cui è causa, realizzato in violazione della disposizione di legge statale in tema di rispetto del c.d. ‘vincolo cimiteriale’;
- che non può essere condiviso l’argomento secondo cui il Comune non potrebbe comunque procedere all’eventuale acquisizione coattiva dell’area, non essendo identificabile quale “amministrazion[e] cui compete la vigilanza sull’osservanza del vincolo”. Al riguardo è appena il caso di richiamare i generali compiti di vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia che spettano ai Comuni ai sensi del comma 1 dell’articolo 27 del d.P.R. 380 del 2001, cit..
5.2. Naturalmente, stante la sospensione degli effetti della sentenza di primo grado già disposta con l’ordinanza della Sezione n. 3505/2014, il termine di novanta giorni di cui al comma 3 dell’articolo 31 del d.P.R. n. 380, cit. decorrerà dalla data in cui il signor A. acquisirà legale conoscenza del contenuto della presente decisione.
6. Si osserva, infine, che non può trovare accoglimento il motivo di appello con cui si è nuovamente lamentata la violazione dell’articolo 10-bis della legge 07.08.1990, n. 241 per avere l’amministrazione comunale omesso di comunicare all’interessato il c.d. ‘preavviso di rigetto’ prima di adottare il provvedimento impugnato in primo grado.
6.1. Al riguardo ci si limita a richiamare il consolidato –e qui condiviso– orientamento secondo cui l’articolo 10-bis, cit. deve essere valutato dal Giudice avendo riguardo al successivo articolo 21-octies relativo alla non annullabilità degli atti per omessa comunicazione di avvio (cui è da assimilare, ai fini che qui rilevano, il mancato preavviso di rigetto) laddove l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto dispositivo dell’atto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato (sul punto –ex multis -: Cons. Stato, VI, 07.05.2015, n. 2298; id., V, 24.03.2014, n. 1388; id., V, 20.02.2014, n. 824)
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 27.07.2015 n. 3667 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICAIl termine “opere di urbanizzazione” indica l’insieme degli interventi necessari a rendere una porzione di territorio idonea all’uso insediativo previsto dagli strumenti urbanistici vigenti ovvero a garantire l’uso futuro dei nuovi edifici realizzati e la vita di relazione degli abitanti.
Le opere di urbanizzazione primaria -che rappresentano la premessa indispensabile all’edificabilità dell’area e alla possibilità che essa ospiti insediamenti abitativi o produttivi- comprendono tutte le attrezzature a rete o infrastrutture, necessarie per assicurare all’area medesima l’idoneità insediativa in senso tecnico, cioè tutte quelle attrezzature che rendono possibile l’uso degli edifici, tra cui, ai fini che qui rilevano, le strade locali.
Le opere di urbanizzazione secondaria includono, invece, tutte quelle attrezzature di carattere locale che rendono l’insediamento funzionale per gli abitanti, garantendo la vita di relazione.
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Gli impegni assunti in sede convenzionale non vanno riguardati isolatamente, ma vanno rapportati alla complessiva remuneratività dell'operazione, che costituisce il reale parametro per valutare l'equilibrio del sinallagma contrattuale e, quindi, la sostanziale liceità degli impegni stessi.
In altri termini, la causa della convenzione urbanistica e cioè l'interesse che l'operazione contrattuale è diretta a soddisfare, va valutata non con riferimento ai singoli impegni assunti, ma con riguardo alla oggettiva funzione economico-sociale del negozio, in cui devono trovare equilibrata soddisfazione sia gli interessi del privato che della pubblica amministrazione.
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L'assunzione nell'ambito di una lottizzazione di obbligazioni ulteriori rispetto a quelle espressamente previste dalla legge, non può di per sé essere esclusa e tantomeno automaticamente ricondotta a fenomeni estorsivi o comunque di <costrizione> ... sicché non esiste nell'ordinamento una norma generale che impedisca, in sede di convenzione urbanistica, la libera erogazione di ulteriori contribuzioni rispetto a quelle fissate dalla legge che, quindi, costituiscono semplicemente il minimo legale.
Gli accordi sostitutivi ex art. 11 legge 07.08.1990, n. 241, al cui modello procedimentale vanno ricondotte le convenzioni urbanistiche, consentono, infatti, di conseguire un assetto di interessi diverso e più ampio di quello conseguibile con il rilascio del provvedimento amministrativo unilaterale, fermo restando, in ogni caso, la sua finalizzazione alle esigenze di urbanizzazione dell’area.
E’ da ritenersi, peraltro, pacifico che il Comune possa richiedere e il lottizzante accettare la realizzazione di opere eccedenti rispetto agli oneri di urbanizzazione normativamente dovuti.
In giurisprudenza è stato, infatti, anche chiarito che “la convenzione di lottizzazione rappresenta un istituto di complessa ricostruzione, a causa dei profili di stampo giuspubblicistico che si accompagnano allo strumento dichiaratamente contrattuale (…) frutto dell'incontro di volontà delle parti contraenti nell'esercizio dell'autonomia negoziale retta dal codice civile.
Tale ricostruzione conserva la sua validità anche nelle ipotesi (…) in cui alcuni contenuti dell'accordo vengono proposti dall'Amministrazione in termini non modificabili dal privato, essendo evidente che una tale evenienza non esclude che la parte che abbia sottoscritto la convenzione, conoscendone il contenuto, abbia inteso aderirvi e ne resti vincolata, salvo il ricorso agli strumenti di tutela in caso di invalidità del contratto”.
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Nella fattispecie in esame, la puntuale e dettagliata descrizione degli obblighi inerenti gli oneri di urbanizzazione primaria, contenuta nelle convenzioni, induce questo Collegio a ritenere che gli stessi siano il risultato di una libera negoziazione tra le parti e non possano ascriversi alla imposizione unilaterale del Comune, come, invece, preteso dalle ricorrenti.
In tal senso depone, invero, non solo la sottoscrizione da parte di tutti i lottizzanti della relazione illustrativa allegata alla deliberazione consiliare n. 39/2000 (ovvero l’atto in forza del quale è stata sottoscritta la prima convenzione) ma anche la lunga “pausa di riflessione” intercorsa tra l’adozione dei piani particolareggiati e la stipula delle relative convenzioni, di cui si è già dianzi detto, la chiara descrizione, contenuta nelle convenzioni medesime, delle opere di urbanizzazione primaria che i lottizzanti si sono impegnati a realizzare e cedere gratuitamente al Comune, la precisa quantificazione del loro importo complessivo, la precisazione che si tratta di opere “interne alla lottizzazione” e, infine, la clausola, contenuta all’art. 8, il quale -a proposito della piena ed esatta esecuzione dei lavori e delle opere di cui all’art. 6 e della loro manutenzione, nonché a garanzia della cessione delle relative aree– ha previsto la costituzione di “cauzione", da svincolarsi solo “al collaudo finale delle opere rispettive, di ogni singolo lotto”, fatto salvo l’obbligo di integrarne il valore e/o di ricostruirla in caso di avvenuto, totale o parziale, utilizzo a seguito di inadempienze.
L’inequivoca volontà espressa dalle parti contraenti appalesa, quindi, che i lottizzanti hanno inteso liberamente assumere gli impegni patrimoniali previsti in convenzione, anche se, per ventura, ritenuti maggiori e più onerosi rispetto a quelli minimi astrattamente previsti dalla legge: impegno questo che, come già dianzi evidenziato, rientra, in ogni caso, nella piena disponibilità delle parti, posto che la normativa vigente non esclude affatto che le parti possano, per valutazioni di convenienza, regolare il rapporto in termini diversi.
Pare, quindi, condivisibile e mutuabile l’osservazione del Comune laddove richiama l’attenzione sul fatto che “la previsione della convenzione urbanistica, assunta per mutuo accordo tra le parti e non contrastante con alcuna previsione normativa, ha carattere vincolante tra esse e non può invocarsene la parziale nullità per la parte eccedente le opere di urbanizzazione rispetto al minimo di legge, pacificamente derogabile”.

Va, in primo luogo, rammentato che il termine “opere di urbanizzazione” indica l’insieme degli interventi necessari a rendere una porzione di territorio idonea all’uso insediativo previsto dagli strumenti urbanistici vigenti ovvero a garantire l’uso futuro dei nuovi edifici realizzati e la vita di relazione degli abitanti.
Le opere di urbanizzazione primaria -che rappresentano la premessa indispensabile all’edificabilità dell’area e alla possibilità che essa ospiti insediamenti abitativi o produttivi- comprendono tutte le attrezzature a rete o infrastrutture, necessarie per assicurare all’area medesima l’idoneità insediativa in senso tecnico, cioè tutte quelle attrezzature che rendono possibile l’uso degli edifici, tra cui, ai fini che qui rilevano, le strade locali.
Le opere di urbanizzazione secondaria includono, invece, tutte quelle attrezzature di carattere locale che rendono l’insediamento funzionale per gli abitanti, garantendo la vita di relazione.
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Con specifico riguardo alla convenienza economica dell’operazione deve, peraltro, evidenziarsi che in giurisprudenza è stato condivisibilmente affermato che “gli impegni assunti in sede convenzionale non vanno riguardati isolatamente, ma vanno rapportati alla complessiva remuneratività dell'operazione, che costituisce il reale parametro per valutare l'equilibrio del sinallagma contrattuale e, quindi, la sostanziale liceità degli impegni stessi. In altri termini, la causa della convenzione urbanistica e cioè l'interesse che l'operazione contrattuale è diretta a soddisfare, va valutata non con riferimento ai singoli impegni assunti, ma con riguardo alla oggettiva funzione economico-sociale del negozio, in cui devono trovare equilibrata soddisfazione sia gli interessi del privato che della pubblica amministrazione” (C.d.S., V, 26.11.2013, n. 5603).
Al di là delle considerazioni sin qui svolte sulla qualificazione della strada oggetto di contestazione e sulla liceità sostanziale complessiva degli impegni assunti, già di per sé sufficienti ad appalesare l’infondatezza degli assunti delle ricorrenti, risultano, comunque, condivisibili le puntuali osservazioni proposte dalla difesa dell’ente civico sulla derogabilità della quota di partecipazione dei privati alle opere di urbanizzazione e sulla prevalenza del profilo della libera negoziazione affermatasi nell’ambito delle convenzioni di lottizzazione.
In giurisprudenza è stato, infatti, affermato che “l'assunzione nell'ambito di una lottizzazione di obbligazioni ulteriori rispetto a quelle espressamente previste dalla legge, non possa di per sé essere esclusa e tantomeno automaticamente ricondotta a fenomeni estorsivi o comunque di <costrizione>” e che “(…) non esiste nell'ordinamento una norma generale che impedisca, in sede di convenzione urbanistica, la libera erogazione di ulteriori contribuzioni rispetto a quelle fissate dalla legge che, quindi, costituiscono semplicemente il minimo legale” (C.d.S., V, 26.11.2013, n. 5603).
Gli accordi sostitutivi ex art. 11 legge 07.08.1990, n. 241, al cui modello procedimentale vanno ricondotte le convenzioni urbanistiche, consentono, infatti, di conseguire un assetto di interessi diverso e più ampio di quello conseguibile con il rilascio del provvedimento amministrativo unilaterale, fermo restando, in ogni caso, la sua finalizzazione alle esigenze di urbanizzazione dell’area.
E’ da ritenersi, peraltro, pacifico che il Comune possa richiedere e il lottizzante accettare la realizzazione di opere eccedenti rispetto agli oneri di urbanizzazione normativamente dovuti.
In giurisprudenza è stato, infatti, anche chiarito che “la convenzione di lottizzazione rappresenta un istituto di complessa ricostruzione, a causa dei profili di stampo giuspubblicistico che si accompagnano allo strumento dichiaratamente contrattuale (…) frutto dell'incontro di volontà delle parti contraenti nell'esercizio dell'autonomia negoziale retta dal codice civile.
Tale ricostruzione conserva la sua validità anche nelle ipotesi (…) in cui alcuni contenuti dell'accordo vengono proposti dall'Amministrazione in termini non modificabili dal privato, essendo evidente che una tale evenienza non esclude che la parte che abbia sottoscritto la convenzione, conoscendone il contenuto, abbia inteso aderirvi e ne resti vincolata, salvo il ricorso agli strumenti di tutela in caso di invalidità del contratto
” (C.d.S., IV, 28.07.2005, n. 4015; in termini C.d.S., IV, del 22.01.2013, n. 351).
Orbene, nella fattispecie in esame, la puntuale e dettagliata descrizione degli obblighi inerenti gli oneri di urbanizzazione primaria, contenuta nelle convenzioni del 2001 e 2004 (in entrambe agli artt. 5 e 6), induce questo Collegio a ritenere che gli stessi siano il risultato di una libera negoziazione tra le parti e non possano ascriversi alla imposizione unilaterale del Comune, come, invece, preteso dalle ricorrenti.
In tal senso depone, invero, non solo la sottoscrizione da parte di tutti i lottizzanti della relazione illustrativa allegata alla deliberazione consiliare n. 39/2000 (ovvero l’atto in forza del quale è stata sottoscritta la prima convenzione), ove, ai fini che qui rilevano, viene specificato che le opere di urbanizzazione primaria sono costituite dalla “viabilità di progetto via Oberdan – via Belvedere” (vedi all. 1, pag. 21, sub pt. 3.6 – fascicolo doc. Comune), ma anche la lunga “pausa di riflessione” intercorsa tra l’adozione dei piani particolareggiati e la stipula delle relative convenzioni, di cui si è già dianzi detto, la chiara descrizione, contenuta nelle convenzioni medesime, delle opere di urbanizzazione primaria che i lottizzanti si sono impegnati a realizzare e cedere gratuitamente al Comune, la precisa quantificazione del loro importo complessivo, la precisazione che si tratta di opere “interne alla lottizzazione” e, infine, la clausola, contenuta all’art. 8, il quale -a proposito della piena ed esatta esecuzione dei lavori e delle opere di cui all’art. 6 e della loro manutenzione, nonché a garanzia della cessione delle relative aree– ha previsto la costituzione di “cauzione", da svincolarsi solo “al collaudo finale delle opere rispettive, di ogni singolo lotto”, fatto salvo l’obbligo di integrarne il valore e/o di ricostruirla in caso di avvenuto, totale o parziale, utilizzo a seguito di inadempienze.
L’inequivoca volontà espressa dalle parti contraenti appalesa, quindi, che i lottizzanti hanno inteso liberamente assumere gli impegni patrimoniali previsti in convenzione, anche se, per ventura, ritenuti maggiori e più onerosi rispetto a quelli minimi astrattamente previsti dalla legge: impegno questo che, come già dianzi evidenziato, rientra, in ogni caso, nella piena disponibilità delle parti, posto che la normativa vigente non esclude affatto che le parti possano, per valutazioni di convenienza, regolare il rapporto in termini diversi (cfr., CdS, Sez. V, 29.09.1999, n. 1209).
Pare, quindi, condivisibile e mutuabile l’osservazione del Comune, laddove, pag. 10 della memoria depositata in data 08.05.2015, richiama l’attenzione sul fatto che “la previsione della convenzione urbanistica, assunta per mutuo accordo tra le parti e non contrastante con alcuna previsione normativa, ha carattere vincolante tra esse e non può invocarsene la parziale nullità per la parte eccedente le opere di urbanizzazione rispetto al minimo di legge, pacificamente derogabile”.
Per converso, sono prive di pregio le deduzioni difensive dei ricorrenti, laddove pretendono di far discendere dalla qualificazione della strada in questione in termini di “opera di urbanizzazione primaria” l’impossibilità per esse di sottrarsi al relativo onere, essendo evidente che la libera negoziazione degli obblighi convenzionali non può venir pregiudicata dall’eventuale impropria inclusione tra le opere del tipo dianzi detto di un onere aggiuntivo liberamente assunto.
In definitiva, le clausole convenzionali non sono affette da alcuna nullità e costituiscono giustificazione idonea e sufficiente per l’assunzione da parte dei lottizzanti degli oneri per la realizzazione della strada di lottizzazione.
Ne deriva, l’insussistenza di valide ragioni giuridiche per riconoscere, a qualsiasi titolo, il diritto delle medesime ad ottenere in tutto o in parte il rimborso delle spese conseguentemente sostenute e ciò anche in considerazione del fatto che, come agevolmente si ritrae dalla lettura dell’art. 6 della/e convenzione/i e dalle condivisibili argomentazioni svolte dalla difesa del Comune, cui si rinvia, la prestazione relativa alle “opere di urbanizzazione primaria” individuate nella medesima norma è stata concepita dalla parti contraenti quale prestazione “a corpo” e non “a misura”, con conseguente irripetibilità anche degli eventuali maggiori costi asseritamente sostenuti, peraltro del tutto indimostrati (TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza 23.07.2015 n. 354 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa normativa in tema di parcheggi costituisce un corpus di regole speciali (art. 41-sexies della legge n. 1150/1942; d.m. 1444/1968; art. 18 legge n. 765/1989; legge n. 122/1989) connotate da un evidente regime di favor, strettamente connesse e funzionali per le amministrazioni locali all’obiettivo di garantire ed assicurare alla collettività un adeguato livello di standards quali-quantitativi nell’ambito della predisposizione del complesso sistema delle infrastrutture e dei servizi ai cittadini.
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Per tutti gli spazi a parcheggio, quale che sia la sorte del vincolo pertinenziale di stampo privatistico rispetto alle costruzioni servite, deve ritenersi indiscutibile la permanenza e la inderogabilità del vincolo pubblicistico di destinazione, quale connotazione necessaria dell'essere quegli spazi funzionali al perseguimento di primarie esigenze della collettività, legate alla stessa vivibilità degli spazi urbani.
Ne consegue che in nessun caso potrebbe essere consentito il cambio di destinazione d'uso in relazione agli immobili predetti, dato che sarebbe contro ogni logica che il diverso uso individuale possa prevalere sulla destinazione a parcheggio che partecipa dei suddetti caratteri di rilevanza pubblica.
Tale destinazione deve pertanto orientare, a guisa di vero e proprio vincolo, l'azione della pubblica amministrazione dal momento che consentire, per il tramite dell'autorizzazione al cambio di destinazione d'uso, la sottrazione di spazi destinati a garage realizzati grazie al meccanismo derogatorio di legge dianzi brevemente descritto, equivarrebbe certamente ad infrangere un vincolo di inedificabilità.

3. La ricostruzione attorea non convince essendo basata su un’erronea interpretazione della normativa in tema di parcheggi che costituisce un corpus di regole speciali (art. 41-sexies della legge n. 1150/1942; d.m. 1444/1968; art. 18 legge n. 765/1989; legge n. 122/1989) connotate da un evidente regime di favor, strettamente connesse e funzionali per le amministrazioni locali all’obiettivo di garantire ed assicurare alla collettività un adeguato livello di standards quali-quantitativi nell’ambito della predisposizione del complesso sistema delle infrastrutture e dei servizi ai cittadini.
Tanto premesso la circostanza secondo cui il permesso di costruire n. 15/2002 rilasciato per la costruzione delle due autorimesse in questione sarebbe stato emesso a titolo oneroso, e non avrebbe natura pertinenziale, non equivale a ritenere per ciò solo sottratto il titolo edilizio al regime di favor della normativa di settore predetto.
Ed infatti anche per i parcheggi non pertinenziali da realizzarsi in aree libere nel sottosuolo o al pian terreno di fabbricati l’art. 6, comma 2, della legge regionale Campania n. 19/2001 prevede la possibilità di realizzarli “in deroga” agli strumenti urbanistici vigenti.
Né alcun rilievo può attribuirsi alla circostanza secondo cui il permesso di costruire sarebbe stato rilasciato “a titolo oneroso” e non a titolo gratuito, dal momento che la gratuità presuppone, innanzitutto, che si tratti di autorimesse e parcheggi, realizzate in locali preesistenti o totalmente al di sotto del piano di campagna naturale, mentre nella specie le autorimesse sono state realizzate “ex novo” ed il complesso immobiliare autorizzato non è completamente interrato poiché con il permesso di costruire n. 15 cit. oltre la costruzione delle due autorimesse è stata altresì assentita la realizzazione di due sovrastanti strutture a carattere smontabile complete di tettoie.
A ciò aggiungasi che per i parcheggi non connotati da vincolo di pertinenzialità trova applicazione l’art. 41-quinquies, l. 17.08.1942, n. 1150 relativa agli spazi per parcheggi da conteggiarsi ai fini della dotazione di standard.
Per tale ragione non può validamente sostenersi che il mutamento di destinazione d’uso avverrebbe nell’ambito della medesima categoria omogenea, stante la peculiarità della destinazione d’uso attribuita e del regime giuridico agevolato cui è assoggettato il rilascio di titoli edilizi per la realizzazione di autorimesse anche non pertinenziali sulla cui base l’intervento assentito appare per lo più sussumibile nell’ambito di una destinazione a “servizi” che non di tipo produttivo commerciale.
Cionondimeno per tutti gli spazi a parcheggio, quale che sia la sorte del vincolo pertinenziale di stampo privatistico rispetto alle costruzioni servite, deve ritenersi indiscutibile la permanenza e la inderogabilità del vincolo pubblicistico di destinazione, quale connotazione necessaria dell'essere quegli spazi funzionali al perseguimento di primarie esigenze della collettività, legate alla stessa vivibilità degli spazi urbani.
Ne consegue che in nessun caso potrebbe essere consentito il cambio di destinazione d'uso in relazione agli immobili predetti, dato che sarebbe contro ogni logica che il diverso uso individuale possa prevalere sulla destinazione a parcheggio che partecipa dei suddetti caratteri di rilevanza pubblica. Tale destinazione deve pertanto orientare, a guisa di vero e proprio vincolo, l'azione della pubblica amministrazione dal momento che consentire, per il tramite dell'autorizzazione al cambio di destinazione d'uso, la sottrazione di spazi destinati a garage realizzati grazie al meccanismo derogatorio di legge dianzi brevemente descritto, equivarrebbe certamente ad infrangere un vincolo di inedificabilità (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 22.07.2015 n. 3872 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Anche in presenza di un cambio di destinazione d’uso che intervenga all’interno della medesima categoria funzionale la giurisprudenza amministrativa lo ha ritenuto urbanisticamente rilevante ogni qual volta esso abbia comportato un aumento o un aggravamento del carico urbanistico insistente sull’area.
Sicché, nei casi di stabile mutamento di utilizzazione dell'immobile o di porzioni di esso, ascrivibili ad una diversa e più onerosa classe contributiva, occorre garantire un regime contributivo conforme alla nuova tipologia d’uso, non potendo ammettersi che l’intervento si giovi del più favorevole regime contributivo applicato per la destinazione originaria.

4. Del resto pur a voler accedere alla tesi di parte ricorrente circa l’ascrivibilità dell’autorimessa in argomento alla destinazione d’uso commerciale non può comunque predicarsi l’assunta omogeneità con la destinazione ad attività di ristorazione e di accoglienza riconducibile alla diversa categoria funzionale ricettiva come ora disciplinata dalla lett. a) dell’art. 23-bis del t.u.ed. inserito dall’art. 17 del d.l. c.d. sblocca Italia n. 133 del 12.09.2014 che ha introdotto la definizione di ”mutamento di destinazione d’uso urbanisticamente rilevante” come quello comportante il passaggio ad una diversa categoria funzionale tra quelle ivi elencate laddove la categoria funzionale “commerciale” è riportata alla lettera sub c) e quella ricettiva alla diversa lettera sub b) [nella versione applicabile ratione temporis anteriormente alle modifiche apportate dalla legge di conversione n. 164/2014 che ha disgiunto la destinazione turistico ricettiva sub a-bis) dalla residenziale sub a)].
4.1 Peraltro anche in presenza di un cambio di destinazione d’uso che intervenga all’interno della medesima categoria funzionale la giurisprudenza amministrativa lo ha ritenuto urbanisticamente rilevante ogni qual volta esso abbia comportato un aumento o un aggravamento del carico urbanistico insistente sull’area (cfr. Consiglio Stato, sez. V, 29.01.2009 n. 498). Sicché, nei casi di stabile mutamento di utilizzazione dell'immobile o di porzioni di esso, ascrivibili ad una diversa e più onerosa classe contributiva, occorre garantire un regime contributivo conforme alla nuova tipologia d’uso, non potendo ammettersi che l’intervento si giovi del più favorevole regime contributivo applicato per la destinazione originaria (cfr. Tar Palermo sez. I 10.04.2015 n. 857).
5. Né sotto altro profilo può dirsi percorribile l’opzione sulla cui base la modifica di destinazione in questione intervenendo tra categorie omogenee non abbisognerebbe del previo rilascio del permesso essendo assoggettabile a scia. Al riguardo parte ricorrente non ha espressamente impugnato la nota prot. 23544 dell’08.07.2014 con cui l’amministrazione comunale le contestava l’insussistenza dei requisiti e dei presupposti della scia preventivamente presentata in data 04.06.2014. Sicché non può dolersi della non assoggettabilità dell’intervento in oggetto a permesso di costruire avendo prestato acquiescenza al predetto atto anche tramite il successivo inoltro nel mese di agosto del 2014 dell’istanza di rilascio del permesso di costruire in esame (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 22.07.2015 n. 3872 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI: a) nel regime transitorio previsto dal comma 12, prima parte, dell'art. 375 del d.P.R. n. 207 del 2010 per le categorie non modificate dal nuovo regolamento, di validità delle attestazioni rilasciate nella vigenza del d.P.R. n. 34 del 2000 “fino alla naturale scadenza prevista per ciascuna di esse”, è applicabile l'onere di verifica triennale imposto prima dall'art. 15-bis del d.P.R. n. 34 del 2000 e poi dall'art. 77 del d.P.R. n. 207 del 2010;
b) nel regime transitorio dettato dall'art. 375, commi 13, 16 e 17, del d.P.R. n. 207 del 2010 e ss.mm.ii. per le categorie "variate” non sussiste, durante il regime di proroga, l'obbligo di verifica triennale, di cui agli artt. 15-bis del d.P.R. n. 34 del 2000 e 77 del d.P.R. n. 207 del 2010;
c) nelle gare di appalto per l’aggiudicazione di contratti pubblici i requisiti generali e speciali devono essere posseduti dai candidati non solo alla data di scadenza del termine per la presentazione della richiesta di partecipazione alla procedura di affidamento, ma anche per tutta la durata della procedura stessa fino all’aggiudicazione definitiva ed alla stipula del contratto, nonché per tutto il periodo dell’esecuzione dello stesso, senza soluzione di continuità.

...
7. - Con il primo quesito viene posto a questa Adunanza Plenaria il problema se, nel regime transitorio dettato dall’art. 357 del D.P.R. 05/10/2010, n. 207 (Regolamento di esecuzione ed attuazione del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, recante «Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE») ed in particolare per il caso di bandi di gara pubblicati precedentemente alla data di entrata in vigore del regolamento (la gara d'appalto de qua è stata indetta con bando trasmesso alla G.U.U.E. il 28.03.2011 e pubblicato sulla G.U.R.I. il 01.04.2011), le disposizioni di cui ai commi 12, 13, 16 e 17 del citato art. 357, per le attestazioni SOA rilasciate secondo la “vecchia” normativa di cui al D.P.R. n. 34/2000 (delle quali le dette norme transitorie prevedono un periodo di ultrattività, come si vedrà differenziato a seconda che si tratti di attestazioni relative a categorie variate o meno dal regolamento stesso ed in particolare, per quanto rileva nel presente giudizio, alla categoria variata OG11 ed alla categoria non variata OG1), sia comunque necessario, per usufruire della “prorogatio“ successiva all’entrata in vigore del regolamento e per il periodo ivi considerato in misura come s’è detto distinta tra categorie variate o meno, il requisito della verifica triennale, come prescritta prima dall’art. 15-bis del d.P.R. n. 34 del 2000 e poi dall’art. 76 del d.P.R. n. 207 del 2010; se, in definitiva, detto adempimento debba considerarsi “doveroso” o meno nell’anzidetto periodo transitorio ai fini del valido utilizzo delle attestazioni SOA.
Osserva anzitutto il Collegio che così dispongono le citate disposizioni transitorie: “12. Le attestazioni rilasciate nella vigenza del decreto del Presidente della Repubblica n. 34 del 2000 nelle categorie non modificate dal presente regolamento hanno validità fino alla naturale scadenza prevista per ciascuna di esse; gli importi ivi contenuti, dal cinquecentoquarantaseiesimo giorno dalla data di entrata in vigore del presente regolamento, si intendono sostituiti dai valori riportati all'articolo 61, commi 4 e 5. Cessano di avere validità a decorrere dal cinquecentoquarantaseiesimo giorno dalla data di entrata in vigore del presente regolamento le attestazioni relative alla categoria OG 11 di cui all' allegato A del decreto del Presidente della Repubblica n. 34 del 2000, nonché le attestazioni relative alle categorie OS 7, OS 8, OS 12, OS 18, OS 21, di cui all' allegato A del decreto del Presidente della Repubblica n. 34 del 2000, e alla categoria OS 2, individuata ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica n. 34 del 2000 e rilasciata ai sensi del regolamento di cui al decreto del Ministro per i beni e le attività culturali 03.08.2000, n. 294, e successive modificazioni, relative a imprese che hanno ottenuto, a seguito della riemissione dei certificati di esecuzione dei lavori ai sensi del comma 14-bis, l'attestazione nelle corrispondenti categorie modificate dal presente regolamento …
13. Le attestazioni relative alle categorie OG 10, OG 11, OS 7, OS 8, OS 12, OS 18, OS 20, OS 21, di cui all'allegato A del decreto del Presidente della Repubblica 25.01.2000, n. 34, e OS 2, individuata ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 25.01.2000, n. 34 , e rilasciata ai sensi del D.M. 03.08.2000, n. 294 , come modificato dal D.M. 24.10.2001, n. 420 , la cui scadenza interviene nel periodo intercorrente tra la data di pubblicazione del presente regolamento e la data di entrata in vigore dello stesso, si intendono prorogate fino alla data di entrata in vigore del presente regolamento…
16. Per trecentosessantacinque giorni successivi alla data di entrata in vigore del presente regolamento, i soggetti di cui all' articolo 3 , comma 1, lettera b), ai fini della predisposizione dei bandi o degli avvisi con cui si indice una gara nonché in caso di contratti senza pubblicazione di bandi o avvisi ai fini della predisposizione degli inviti a presentare offerte, applicano le disposizioni del decreto del Presidente della Repubblica 25.01.2000, n. 34 e le categorie del relativo allegato A. Per trecentosessantacinque giorni successivi alla data di entrata in vigore del presente regolamento, ai fini della partecipazione alle gare riferite alle lavorazioni di cui alle categorie OG 10, OG 11, OS 7, OS 8, OS 12, OS 18, OS 20, OS 21, di cui all' allegato A del decreto del Presidente della Repubblica 25.01.2000, n. 34, e OS 2 individuata ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 25.01.2000, n. 34, e rilasciata ai sensi del D.M. 03.08.2000, n. 294 , come modificato dal D.M. 24.10.2001, n. 420, la dimostrazione del requisito relativo al possesso della categoria richiesta avviene mediante presentazione delle attestazioni di qualificazione rilasciate dalle SOA in vigenza del decreto del Presidente della Repubblica 25.01.2000, n. 34 , purché in corso di validità alla data di entrata in vigore del presente regolamento anche per effetto della disposizione di cui al comma 13.
17. Le attestazioni di qualificazione rilasciate dalle SOA relative alle categorie OG 10, OG 11, OS 2-A, OS 2-B, OS 7, OS 8, OS 12-A, OS 12-B, OS 18-A, OS 18-B, OS 20-A, OS 20-B, OS 21 e OS 35, di cui all' allegato A del presente regolamento, possono essere utilizzate, ai fini della partecipazione alle gare, a decorrere dal trecentosessantaseiesimo giorno dalla data di entrata in vigore del presente regolamento
”.
Ciò posto, precisato che l'art. 1, comma 1, D.L. 06.06.2012, n. 73 , convertito, con modificazioni, dalla L. 23.07.2012, n. 119, ha prorogato di centottanta giorni i termini di cui ai veduti commi 15, 16 e 17 e che non è contestato che il bando della gara del cui esito qui si controverte ha fatto regolare applicazione delle disposizioni del decreto del Presidente della Repubblica 25.01.2000, n. 34 e delle categorie del relativo allegato “A”, la risposta al primo quesito posto dalla Sezione remittente mérita un differenziato esame (che comporta, come si vedrà, un diverso ésito), a seconda che si tratti della disciplina transitoria dettata per le categorie non variate o di quella prevista per le categorie variate ad opera del d.P.R. n. 207 del 2010.
7.1 - Invero, quanto alla prima, nel veduto quadro normativo, una volta abrogato il decreto del Presidente della Repubblica 25.01.2000, n. 34 “fermo quanto disposto dall’articolo 357” (art. 358, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 207/2010) con decorrenza dalla data di entrata in vigore di quest’ultimo, non v’è dubbio, ad avviso del Collegio, che, sulla base del chiaro disposto del primo periodo del veduto comma 12 (“le attestazioni rilasciate nella vigenza del decreto del Presidente della Repubblica n. 34 del 2000 nelle categorie non modificate dal presente regolamento hanno validità fino alla naturale scadenza prevista per ciascuna di esse …”), la conferma di validità delle attestazioni in corso valga anche a configurare un’implicita, ma inequivoca, applicabilità dell’onere di verifica triennale, che medio tempore maturi, richiesto sia dalla normativa previgente (art. 15-bis del d.P.R. n. 34/2000), che dal nuovo testo regolamentare (art. 77 del d.P.R. n. 207/2010).
Se, infatti, le attestazioni rilasciate nella vigenza del d.P.R. n. 34/2000 per le categorie non modificate dal “nuovo” regolamento (ivi compresa, per quanto più da vicino riguarda la fattispecie all’esame, la categoria “OG1”) conservano la loro validità per l’intera originaria durata della loro efficacia (cinque anni, ai sensi del primo periodo del comma 5 dell’art. 15 del d.P.R. n. 34/2000), tale norma transitoria, che si pone in palese linea di continuità con la durata a regime prevista sia dalla “vecchia” normativa che dalla “nuova” (v. il primo periodo del comma 5 dell’art. 76 del d.P.R. n. 207/2010), dev’essere interpretata nel senso che le imprese concorrenti devono essere in grado di provare, ai fini della partecipazione alla procedura selettiva per l’aggiudicazione di appalti di lavori pubblici, il possesso dell’attestazione SOA richiesta sia nel vecchio che nel nuovo regime con caratteri e requisiti immutati, della cui persistente validità fino alla naturale scadenza del quinquennio (sulla quale il legislatore non è intervenuto innovativamente nemmeno per la sola fase transitoria) costituisce pacificamente condizione indefettibile, derivante per la fase transitoria dal sottolineato integrale carattere di continuità tra “vecchio” e “nuovo” regime, l’anzidetto onere di verifica triennale, ch’è coessenziale alla durata quinquennale dell’attestazione, al chiaro fine di prevenire ogni diminuzione del livello qualitativo delle imprese in così lungo periodo; livello, questo, i cui caratteri, come s’è detto, restano immutati nel passaggio tra un regime e l’altro, sì che non possono che restarne confermate le garanzie all’uopo predisposte dal sistema (Cons. St., III, 12.11.2014, n. 5573; Cons. St., ad. plen., 18.07.2012, n. 27, secondo cui, tra l’altro, “fra i titoli da presentare ai sensi dell’art. 11, c. 8, del d.lgs. n. 163 del 2006, perché l’aggiudicazione sia efficace rientra anche l’attestazione dell’esito positivo della verifica” in questione).
Va peraltro precisato che una tale interpretazione delle vedute disposizioni transitorie riguardanti le categorie non modificate dal Regolamento del 2010, oltre a rispettare l’evidente, già sottolineato, principio di continuità che connota il passaggio della disciplina delle relative attestazioni SOA dal d.P.R. n. 34/2000 al d.P.R. n. 207/2010, non mette in alcun modo a repentaglio:
- i principi di certezza del diritto e di buona fede ed affidamento reciproco che devono improntare i rapporti tra stazioni appaltanti ed operatori economici circa l’individuazione della normativa applicabile alle gare ricadenti in tale periodo transitorio, così come l’esigenza sottolineata dall’Ordinanza di rimessione di esaustività del “complesso delle regole destinate a presidiare la fase di transizione dal vecchio al nuovo regime normativo”, dal momento che l’univocità del bando nel prevedere classi e categorie dei lavori con riferimento al DPR n. 34/2000 (sulla cui vigenza ed applicabilità alla procedura di gara le concorrenti dovevano intendersi dunque espressamente avvisate sin dalla sua indizione), nonché la conferma nel periodo transitorio della “normale” durata dell’efficacia delle attestazioni relative alle categorie non modificate, non potevano indurre in dubbio i soggetti interessati circa la normale “attrazione” nella disciplina transitoria anche dell’onere di verifica intermedia, che, quale componente essenziale della fattispecie normativa della fissazione al quinquennio della “naturale” durata dell’attestazione (Cons. St., ad. plen., n. 27/2012, cit.), produce notoriamente nell’ordinamento uno specifico effetto di determinazione della validità o meno della stessa dopo il triennio dal rilascio e dunque condiziona la stessa ininterrotta efficacia quinquennale dell’attestazione.
Effetto, questo, che non può certo considerarsi sic et simpliciter eliso sol perché la normale durata quinquennale dell’attestazione viene qui in considerazione in quanto confermata dalla norma transitoria, che, nella misura in cui ha appunto mero carattere di conferma, non può che ricomprendere tutti i caratteri del regime confermato; il che non può sfuggire ad ogni operatore qualificato, accorto e diligente, che deve seguire l’evoluzione normativa delle regole che ne disciplinano l’attività secondo cànoni di professionalità, responsabilità ed in definitiva di riduzione del rischio derivante dal mancato adempimento di oneri posti in realtà a tutela del corretto funzionamento del complesso mercato ristretto di cui si tratta;
- l’esigenza di non gravare le imprese di oneri inutilmente gravosi, atteso che, nel passaggio dalle “vecchie” alle “nuove” disposizioni, la tempistica come sopra disegnata della progressiva entrata a regime delle nuove qualificazioni ai fini SOA per le categorie non modificate dal nuovo regolamento lascia invariata sia la scadenza finale che quella intermedia delle attestazioni rilasciate anteriormente alla data della sua entrata in vigore, con conseguente invarianza sia degli adempimenti che dei costi di certificazione gravanti sulle imprese, che, pur libere di dotarsi da subito di una nuova attestazione nel nuovo regime (come nella fattispecie incontestatamente accaduto a seguito di rilascio di una nuova attestazione con decorrenza di validità dal 22.09.2011), possono utilizzare le qualificazioni SOA rilasciate nella medesima categoria secondo il previgente allegato “A” del DPR n. 34/2000 per tutta la loro naturale durata, cui è riconnesso, come s’è visto, ove ricorrente (come nella fattispecie all’esame, in cui la data di scadenza del periodo triennale dell’attestazione ex DPR n. 34/2000 era quella del 31.07.2011), l’onere di provvedere alla presentazione in termini della domanda di verifica (come precisato dalla ridetta decisione dell’Adunanza Plenaria n. 27/2012, l'attestazione decade non soltanto se l'esito della verifica è negativo, ma anche, ai sensi della normativa, se l'impresa non vi si sottopone, come nella specie incontestatamente non vi si è assoggettata, almeno sessanta giorni prima della scadenza del triennio: comma 1 dell'art. 15-bis del d.P.R. n. 34/2000, vigente al sessantesimo giorno antecedente al 31.07.2011);
- il corretto espletamento da parte delle SOA della procedura di verifica triennale, che avrà riguardo, anche durante il periodo transitorio di cui si tratta, ai requisiti d’ordine generale, di capacità strutturale e di congruità organizzativa dettati dal d.P.R. n. 207/2010, che, una volta come s’è visto intervenuta l’abrogazione del d.P.R. n. 34/2000 con decorrenza dall’08.06.2011, richiede, per dette categorie, capacità organizzative ed esecutive in tutto e per tutto invariate rispetto al sistema anteriore.
Alla luce delle considerazioni di cui sopra e della documentazione in atti, nel caso all’esame risulta in definitiva scoperto, quanto alla categoria OG1, il periodo intercorso dal 31.07.2011 (data di scadenza del periodo di verifica triennale del certificato ARTIGIANSOA, senza che fosse stata presentata tempestiva istanza di verifica) al 22.09.2011 (data di efficacia ex nunc del nuovo certificato rilasciato dalla AXSOA s.p.a.).
7.2 – A diversa conclusione deve pervenirsi quanto alla disciplina transitoria che riguarda le categorie modificate dal d.P.R. n. 207 del 2010, fra le quali la categoria “OG11”, la cui attestazione è contemplata tra i requisiti di partecipazione alla gara di cui qui si tratta.
Non è al riguardo anzitutto condivisibile l’assunto, secondo cui la proroga legale nel periodo transitorio della efficacia delle attestazioni rilasciate sotto il regime del “vecchio” regolamento sia recata dal secondo periodo del comma 12 dell’art. 357 più volte citato.
Tale disposizione (“cessano di avere validità a decorrere dal cinquecentoquarantaseiesimo giorno dalla data di entrata in vigore del presente regolamento le attestazioni relative alla categoria OG 11 di cui all' allegato A del decreto del Presidente della Repubblica n. 34 del 2000, nonché le attestazioni relative alle categorie OS 7, OS 8, OS 12, OS 18, OS 21, di cui all'allegato A del decreto del Presidente della Repubblica n. 34 del 2000, e alla categoria OS 2, individuata ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica n. 34 del 2000 e rilasciata ai sensi del regolamento di cui al decreto del Ministro per i beni e le attività culturali 03.08.2000, n. 294, e successive modificazioni, relative a imprese che hanno ottenuto, a seguito della riemissione dei certificati di esecuzione dei lavori ai sensi del comma 14-bis, l'attestazione nelle corrispondenti categorie modificate dal presente regolamento”), relativa sì alle categorie “variate” (tra cui la categoria “OG11”), prevede piuttosto una scadenza anticipata rispetto alla naturale scadenza quinquennale delle attestazioni S.O.A. rilasciate nella vigenza del d.P.R. n. 34 del 2000, quando siffatta scadenza si collochi in un momento posteriore alla nuova “attestazione nelle corrispondenti categorie modificate dal presente regolamento”, che l’impresa potrà poi utilizzare “a decorrere dal trecentosessantaseiesimo giorno dalla data di entrata in vigore del presente regolamento” (comma 17; termine poi prorogato di centottanta giorni); in tal senso, del resto, è da leggersi, e da condividersi, il comunicato AVCP, con relativa esemplificazione, del 22.07.2011.
Trattasi di indubbia situazione di svantaggio (e di stimolo a dotarsi di attestazioni “aggiornate”) per le imprese che versino in tale situazione, che trova comunque la sua giustificazione logica e ragionevole nell’esigenza, tipica di tutte le discipline transitorie, di introdurre uno spartiacque tra la “vecchia” e la “nuova” normativa, ancorandolo ad una data precisa, alla quale fissare la scadenza della validità del possesso dei requisiti ormai superati dal nuovo ordinamento; nel caso della disciplina in esame, al fine di consentire un graduale adeguamento delle attestazioni alla nuova disciplina dei requisiti di qualificazione per l’esecuzione di lavori pubblici.
La proroga legale della scadenza quinquennale delle attestazioni in esame è piuttosto da individuarsi nel disposto del secondo periodo del comma 16 dell’art. 357 in considerazione, che, come s’è visto, dispone: “Per trecentosessantacinque giorni successivi alla data di entrata in vigore del presente regolamento, ai fini della partecipazione alle gare riferite alle lavorazioni di cui alle categorie OG 10, OG 11, OS 7, OS 8, OS 12, OS 18, OS 20, OS 21, di cui all' allegato A del decreto del Presidente della Repubblica 25.01.2000, n. 34, e OS 2 individuata ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 25.01.2000, n. 34, e rilasciata ai sensi del D.M. 03.08.2000, n. 294, come modificato dal D.M. 24.10.2001, n. 420, la dimostrazione del requisito relativo al possesso della categoria richiesta avviene mediante presentazione delle attestazioni di qualificazione rilasciate dalle SOA in vigenza del decreto del Presidente della Repubblica 25.01.2000, n. 34, purché in corso di validità alla data di entrata in vigore del presente regolamento anche per effetto della disposizione di cui al comma 13” (l'art. 1, comma 1, del D.L. 06.06.2012, n. 73, convertito, con modificazioni, dalla L. 23.07.2012, n. 119, ha poi prorogato di centottanta giorni il termine ivi indicato ).
Orbene, siffatta disposizione non può esser letta, ad avviso del Collegio, nel senso che, per le imprese per le quali la scadenza triennale dell’attestazione intervenga tra la data di pubblicazione del nuovo regolamento (v. comma 13) e quella finale anzidetta di “utilizzabilità” delle attestazioni rilasciate sotto il precedente regime, esse siano comunque tenute all’obbligo di verifica triennale.
Se, invero, tale obbligo assolve alla funzione di accertare la permanenza dei requisiti di qualificazione in capo all'impresa certificata, onde garantirne l'effettivo mantenimento fino alla scadenza del quinquennio di validità della certificazione, osserva il Collegio che l'esigenza di un controllo attorno all'effettiva permanenza dei requisiti di qualificazione che avevano consentito l’iniziale rilascio dell’attestazione non solo non è espressamente previsto dalla norma di deroga all’ordinario periodo di validità dell’attestazione (all’interno del quale esso rappresenta come s’è visto condizione indefettibile della persistenza della stessa fino alla naturale scadenza del quinquennio), ma essa deve ritenersi esclusa dalla stessa locuzione “purché in corso di validità alla data di entrata in vigore del nuovo regolamento”; locuzione, questa, il cui unico senso logico ( salvo volerla ritenere meramente pleonastica, il che non risponde agli ordinari criteri di esegesi interpretativa ) è quello di ritenere per disposto di legge la permanenza dei requisiti per tutto il periodo transitorio, visto che l’unica condizione apposta alla proroga dell’efficacia dell’attestazione è quella della sua “validità alla data di entrata in vigore” del regolamento; donde la non applicabilità alle attestazioni relative alle categorie variate dell’onere di verifica triennale.
Del resto, ammesso che l’impresa avanzi in tale periodo transitorio istanza di verifica dell’attestazione “in corso di validità” (il che non è pacificamente avvenuto nel caso di specie), la SOA non potrebbe fare applicazione dei “vecchi” requisiti di qualificazione per effetto dell’ormai intervenuta abrogazione delle relative disposizioni del d.P.R. n. 34/2000 (non fatte salve nel periodo transitorio, sì che non è più possibile in tale periodo alcuna qualificazione sulla base delle “vecchie” categorie di cui all’Allegato “A” al DPR medesimo) e non potrebbe applicare i nuovi e diversi requisiti, di cui al DPR n. 207/2010, che il legislatore, col disegno della fase transitoria di cui si tratta, ha voluto che facessero ingresso nell’ordinamento solo in un momento storico successivo (chiaramente senza soluzione di continuità) a quello di scadenza della fase stessa, com’è reso palese anche dalla già veduta prescrizione, di cui al comma 17 dell’art. 357, relativa all’utilizzabilità delle nuove attestazioni.
Ne consegue che, per le categorie non modificate dal nuovo Regolamento, le attestazioni in corso di validità alla data di entrata in vigore dello stesso possono essere validamente utilizzate fino allo scadere del termine di cui al secondo periodo del comma 16 dell’art. 357 del DPR n. 207/2010, senza onere di verifica triennale in tale arco temporale.
7.3 – Conclusivamente, al primo quesito posto dall’Ordinanza di rimessione deve essere data la seguente soluzione:
a) nel regime transitorio previsto dal comma 12, prima parte, dell'art. 375 del d.P.R. n. 207 del 2010 per le categorie non modificate dal nuovo regolamento, di validità delle attestazioni rilasciate nella vigenza del d.P.R. n. 34 del 2000 “fino alla naturale scadenza prevista per ciascuna di esse”, è applicabile l'onere di verifica triennale imposto prima dall'art. 15-bis del d.P.R. n. 34 del 2000 e poi dall'art. 77 del d.P.R. n. 207 del 2010;
b) nel regime transitorio dettato dall'art. 375, commi 13, 16 e 17, del d.P.R. n. 207 del 2010 e ss. mm. ii. per le categorie “variate” non sussiste, durante il regime di proroga, l'obbligo di verifica triennale, di cui agli artt. 15-bis del d.P.R. n. 34 del 2000 e 77 del d.P.R. n. 207 del 2010.

8. – Si può passare ora all’esame del secondo quesito sollevato dall’Ordinanza stessa, che conserva la rilevanza in essa sottolineata, alla luce del fatto che la riscontrata carenza di continuità dell’attestazione del requisito di qualificazione per la categoria “OG1” in capo all’anzidetta ausiliaria è in grado di comportare o meno l’esclusione dalla gara de qua del R.T.I. risultato aggiudicatario a seconda della soluzione che venga data al quesito medesimo.
Premesso, invero, che la menzionata ditta ausiliaria “ha perso la qualificazione OG1 nel solo periodo intercorrente tra il 31 luglio e il 22.09.2011 (e, quindi, in un segmento temporale nel quale nella gara non è accaduto nulla di rilevant)”, la Sezione remittente dubita che il deficit di tale requisito in un segmento temporale intermedio della procedura (diverso dai momenti nei quali soli assumerebbe “rilievo il possesso dei requisiti di partecipazione e di qualificazione”) possa comportare “la necessaria esclusione dell’impresa, che lo ha provvisoriamente perso, nonostante il suo possesso al momento della domanda di partecipazione alla gara e dell’aggiudicazione”; sì che, conclude, il temporaneo deficit di uno o più requisiti in siffatto arco di tempo “dovrebbe essere giudicato del tutto ininfluente sulla regolarità del procedimento e sulla legittimità dell’aggiudicazione”.
Ritiene l’Adunanza Plenaria di dover ribadire la costante giurisprudenza, anche di questa stessa Adunanza, che ha affermato il principio generale, secondo cui il possesso dei requisiti di ammissione si impone a partire dall'atto di presentazione della domanda di partecipazione e per tutta la durata della procedura di evidenza pubblica (cfr., fra le tante, Cons. Stato, sez. IV, 18.04.2014, n. 1987; Cons. Stato, sez. V, 30.09.2013, n. 4833 e 26.03.2012, n. 1732; Cons. Stato, sez. III, 13.07.2011, n. 4225; Cons. Stato, Ad. pl., 25.02.2014, n. 10; nn. 15 e 20 del 2013; nn. 8 e 27 del 2012; n. 1 del 2010).
Invero, per esigenze di trasparenza e di certezza del diritto, che non collidono col pur rilevante principio del favor partecipationis, la verifica del possesso, da parte del soggetto concorrente (ancor prima che aggiudicatario), dei requisiti di partecipazione alla gara deve ritenersi immanente all’intero procedimento di evidenza pubblica, a prescindere dalla indicazione, da parte del legislatore, di specifiche fasi espressamente dedicate alla verifica stessa, quali quelle di cui all’art. 11, comma 8, ed all’art. 48 del D.Lgs. n. 163/2006.
Proprio perché la verifica può avvenire in tutti i momenti della procedura (a tutela dell’interesse costante dell’Amministrazione ad interloquire con operatori in via permanente affidabili, capaci e qualificati), allora in qualsiasi momento della stessa deve ritenersi richiesto il costante possesso dei detti requisiti di ammissione; tanto, vale la pena di sottolineare, non in virtù di un astratto e vacuo formalismo procedimentale, quanto piuttosto a garanzia della permanenza della serietà e della volontà dell’impresa di presentare un’offerta credibile e dunque della sicurezza per la stazione appaltante dell’instaurazione di un rapporto con un soggetto, che, dalla candidatura in sede di gara fino alla stipula del contratto e poi ancora fino all’adempimento dell’obbligazione contrattuale, sia provvisto di tutti i requisiti di ordine generale e tecnico-economico-professionale necessari per contrattare con la P.A.
Al riguardo va sottolineato che lo stesso legislatore richiede la dimostrazione delle capacità tecniche (art. 42 del D.Lgs. n. 163/2006 ) ed economica e finanziaria (art. 41 del D.Lgs. n. 163/2006) alle imprese “concorrenti” e tale qualità l’impresa mantiene indubbiamente per tutta la durata della procedura, con correlato obbligo di mantenimento (e di prova del possesso) del corrispondente requisito richiestole.
D’altra parte, con specifico riferimento all’ambito dei lavori pubblici, l’art. 92 del D.P.R. n. 207/2010, nel prescrivere che “il concorrente singolo può partecipare alla gara qualora sia in possesso dei requisiti economico-finanziari e tecnico-organizzativi …”, dà anch’esso rilievo ad un attributo dell’impresa (quello di “concorrente”) e ad un’attività della stessa (quella di “partecipazione alla gara”), che hanno un rilievo con tutta evidenza dinamico, in quanto non si esauriscono in uno o più specifici momenti, nei quali “soli”, secondo l’Ordinanza di rimessione, “assume rilievo il possesso dei requisiti di partecipazione e di qualificazione”; mentre l’art. 50 dello stesso D.P.R. disciplina i “requisiti economico-finanziari e tecnico-organizzativi di partecipazione alla gara” sempre dando rilievo alla “partecipazione”, che non si riduce certo a specifici passaggi del procedimento di gara..
E tale specifico onere di continuità in corso di gara del possesso dei requisiti, è appena il caso di rilevarlo, non solo è del tutto ragionevole, siccome posto a presidio dell'esigenza della stazione appaltante di conoscere in ogni tempo dell’affidabilità del suo interlocutore “operatore economico” (e dunque di poter monitorare stabilmente la perdurante idoneità tecnica ed economica del concorrente), ma è altresì non sproporzionato, essendo assolvibile da quest’ultimo in modo del tutto agevole, mediante ricorso all’ordinaria diligenza, che gli operatori professionali devono tenere al fine di poter correttamente insistere e gareggiare nel concorrenziale mercato degli appalti pubblici; il che significa, per quanto qui ne occupa, garantire costantemente la qualificazione loro richiesta e la possibilità concreta della sua dimostrazione e verifica.
Diversamente ritenendo, del resto, la naturale flessibilità temporale dei momenti della procedura che l’Ordinanza di rimessione assume come “esclusivamente” rilevanti si tradurrebbe nella assoluta aleatorietà della collocazione, nell’arco temporale della procedura stessa, dei singoli momenti, nei quali (“soli”) sarebbero richiesti il possesso a pena di esclusione dei requisiti e la sua prova; aleatorietà, questa, che, oltre a contrastare palesemente con i principi indefettibili della trasparenza e della par condicio che presiedono all’evidenza pubblica, finirebbe col collidere con la stessa esigenza, sottolineata dall’Ordinanza di rimessione in collegamento con il diritto dell’Unione, di “un controllo ragionevole, trasparente e proporzionato” in relazione a termini temporali, che la qui assunta (o, meglio, confermata) interpretazione del principio di continuità della sussistenza dei requisiti per tutta la durata della procedura consente, invece, di assicurare con caratteri di sufficiente certezza (quanto meno in relazione alla univocità delle conseguenze della perdita del requisito in qualunque momento della gara essa si collochi) sia per la stazione appaltante che per gli operatori concorrenti.
La qui prospettata inconfigurabilità di una qualsivoglia soluzione di continuità in ordine al possesso dei requisiti di partecipazione nel corso della procedura di gara tiene poi anche conto del fatto, già accennato, che trattasi di requisiti indispensabili per la stessa partecipazione alla gara (la mancanza dei quali l’amministrazione appaltante può in ogni momento accertare: Cons. St., V, 12.07.2010, n. 4477), del cui possesso, nel campo dei lavori pubblici, l’attestazione SOA costituisce lo strumento necessario e sufficiente, nonché esclusivo, di dimostrazione; circostanza, questa, che vale ad escludere la stessa sua pertinenza, come ventilata dall’Ordinanza di rimessione, alla sola “fase dell’esecuzione dell’appalto”, dal momento che il sistema di qualificazione di cui all’art. 40 del D.Lgs. n. 163/2006 ( nel pieno rispetto dei principi, anche comunitari, di par condicio, massima partecipazione alle procedure di evidenza pubblica e di capacità tecnico-professionale ed economica degli operatori: v. artt. 45 e ss. della Dir. 31/03/2004, n. 2004/18/CE) richiede indubbiamente la dimostrazione della qualificazione ad effettuare i lavori (in termini di esperienze professionali pregresse dell’operatore e di connotati attuali della sua struttura organizzativa e della sua capacità economica, elementi tutti “riassunti” dall’attestazione SOA) quale requisito indispensabile per la stessa partecipazione alla gara e dunque fin dal momento dell’ammissione alla stessa e non certo a far tempo dal momento, eventuale e successivo, dell’effettuazione concreta dei lavori a seguito dell’aggiudicazione e del contratto (“la qualificazione in una categoria abilita l’impresa a partecipare alle gare e ad eseguire i lavori della propria classifica …”: art. 61, comma 2, del D.P.R. n. 207 del 2010).
Anche, peraltro, nella fattispecie all’esame, alla stregua del dato sistematico enucleabile dalla disciplina di gara, il requisito di cui si tratta costituisce invero il titolo professionale minimo richiesto expressis verbis ai fini della proficua ammissione e non certo una condizione da soddisfare successivamente all’aggiudicazione per la corretta esecuzione del contratto.
Né a diverse conclusioni è dato giungere, come pretenderebbe nelle sue difese il R.T.I. controinteressato, sol perché si tratta qui del possesso non dei requisiti generali e speciali di partecipazione (nella specie attestati dalla certificazione SOA) da parte del diretto concorrente, ma dei requisiti richiesti in capo al soggetto indicato come “ausiliario” dal concorrente stesso, sulla base delle norme in materia di avvalimento, di cui all’art. 49 del codice dei contratti pubblici.
A tal proposito, devesi sottolineare che, laddove il concorrente non sia in possesso delle qualificazioni necessarie per l’esecuzione in via autonoma delle lavorazioni oggetto dell’appalto, la dichiarazione dello stesso di volersi avvalere “dei requisiti di un altro soggetto o dell’attestazione SOA di altro soggetto” (comma 1 dell’art. 49, cit.) non vale certo ad escludere che la stazione appaltante debba essere posta in condizione di valutare, fin dall’ammissione alla gara e per tutta la durata della procedura sulla base dei principi sopra enunciati, l’idoneità dell’offerente all’aggiudicazione del contratto, anche con riguardo ai requisiti (e dunque al titolare degli stessi) oggetto di avvalimento.
In definitiva, dunque, un RTI (quale l’odierno controinteressato), in caso di mancato autonomo possesso, da parte della mandataria e delle mandanti, dei necessari requisiti di qualificazione, deve necessariamente indicare l’impresa ausiliaria, dei cui requisiti si avvalga ( allegando la documentazione, di cui al comma 2 dell’art. 49 cit.); e deve dimostrare il possesso, da parte di quest’ultima, di tali requisiti e dunque, in caso di attestazione di qualificazione SOA, di una attestazione valida ed efficace per tutta la durata della procedura.
Al contrario, la pretesa possibilità che, in caso di ricorso all’avvalimento, il concorrente possa acquisire (e dimostrare il possesso) dei requisiti a gara conclusa, in sede o quanto meno ai soli fini dell’esecuzione, costituirebbe una precisa violazione delle norme sulla qualificazione, che sono previste a pena di esclusione e della parità di trattamento, in danno dei concorrenti più diligenti.
In base ai canoni dell'imparzialità e della par condicio non si può infatti consentire che vengano ammesse alla gara offerte provenienti da soggetti sprovvisti dei requisiti, che, in ragione della loro peculiare rilevanza sul piano economico e tecnico, la legge prevede debbano essere "a qualificazione obbligatoria"; la qualificazione, insomma, deve essere valutata “in gara” (v. art. 88 del D.P.R. n. 207/2010).
Ne consegue, sul piano dell’accertamento dei requisiti di ordine generale e tecnico-professionali ed economici, una totale equiparazione tra gli operatori economici offerenti in via diretta e gli operatori economici in rapporto di avvalimento e dunque, in definitiva, fra i primi e l’imprenditore, che preferisca seguire la via del possesso mediato ed indiretto dei requisiti di partecipazione ad una gara.
Va pertanto escluso chi si avvale di soggetto ausiliario a sua volta privo del titolo (Cons. St., IV, 19.03.2015, n. 1425).
Né appare rilevante il riferimento al costante indirizzo giurisprudenziale, secondo cui, in caso di ricorso a tale istituto (che ha una portata generale), è onere del concorrente di dimostrare che l'impresa ausiliaria non si impegna semplicemente a prestare il requisito soggettivo richiesto, quale mero valore astratto, ma assume l'obbligazione di mettere a disposizione dell'impresa ausiliata, in relazione all'esecuzione dell'appalto, le proprie risorse e il proprio apparato organizzativo, in tutte le parti che giustificano l'attribuzione del requisito di qualità (Cons. St., sez. III, 25.02.2014, n. 887; 07.04.2014, n. 1636; sez. IV, 16.01.2014, n. 135; sez. V, 20.12.2013, n. 6125; da ultimo, sez. V, 22.01.2015, n. 257) e quindi, a seconda dei casi, mezzi, personale, prassi e tutti gli altri elementi aziendali qualificanti, in relazione all'oggetto dell'appalto (Cons. St., sez. III, 22.01.2014, n. 294).
Ed invero, se non v’è ragione di dubitare dell'ammissibilità dell'avvalimento anche quanto alla certificazione SOA (del resto espressamente prevista dal legislatore), la notazione, più volte fatta dalla giurisprudenza, secondo cui la messa a disposizione del requisito mancante non può risolversi nel prestito di un valore puramente cartolare e astratto (essendo invece necessario che dal contratto risulti chiaramente l'impegno dell'impresa ausiliaria a prestare le proprie risorse e il proprio apparato organizzativo in tutte le parti che giustificano l'attribuzione del requisito di qualità: a seconda dei casi, mezzi, personale, prassi e tutti gli altri elementi aziendali qualificanti), non porta certo alla possibilità di prescindere dalla necessità preliminare della verifica della coerenza dell’offerta con i requisiti di qualificazione e dunque della serietà ed affidabilità dell’impresa concorrente (ed in via mediata dell’impresa ausiliaria) sotto il profilo del possesso degli stessi ai fini ed in sede di partecipazione al procedimento di gara.
Quanto sopra considerato si rivela peraltro perfettamente congruente con la normativa comunitaria sugli appalti pubblici, ch’è volta nel suo complesso a far sì che la massima concorrenza sia anche condizione per la più efficace e sicura esecuzione degli appalti (Cons. St., VI, 13.06.2011, n. 3565), nel rispetto comunque ineludibile delle garanzie di imparzialità, pubblicità e trasparenza dell’azione amministrativa, che costituiscono principi fondanti del diritto comunitario.
Tanto porta a ritenere non necessaria ed irrilevante la presentazione sul punto, richiesta dal R.T.I. controinteressato, di una questione pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, non esistendo dubbio alcuno, ad avviso del Collegio, né sul fatto che, se secondo lo stesso diritto comunitario finalità dell’avvalimento è quella di fornire alle imprese la possibilità di ricorrere ai requisiti di altri soggetti solo se ed in quanto da questi autonomamente posseduti, nel caso di specie l’ausiliaria dallo stesso individuata non ha posseduto (o non ha dimostrato comunque di possedere), come sopra s’è ampiamente visto, il richiesto requisito di qualificazione (l’attestazione SOA per la categoria “OG1”, della quale, per espressa disposizione normativa, è coessenziale il momento della verifica) per l’intera procedura; né in ordine alla evidente compatibilità col diritto comunitario del predetto principio di continuità, alla luce in particolare del disposto dell’art. 44 della Dir. 31/03/2004, n. 2004/18/CE, che, nel subordinare l'aggiudicazione degli appalti al “previo accertamento dell'idoneità degli operatori economici non esclusi in forza degli articoli 45 e 46”, non limita detto accertamento ad alcuna specifica fase del procedimento di gara.
In definitiva, quanto al secondo dei quesiti posti dall’Ordinanza di rimessione, resta così confermata la statuizione dell’Adunanza Plenaria 07.04.2011, n. 4, secondo cui, “in materia di accertamento dei requisiti di ordine speciale per il conseguimento degli appalti di lavori pubblici, vige il principio secondo cui le qualificazioni richieste dal bando debbono essere possedute dai concorrenti non solo al momento della scadenza del termine per la presentazione delle offerte, ma anche in ogni successiva fase del procedimento di evidenza pubblica e per tutta la durata dell'appalto, senza soluzione di continuità”.
Trattasi peraltro di affermazione che non si pone di certo in contraddizione con quella, richiamata dall’Ordinanza di rimessione, di cui al par. 59 della stessa sentenza (laddove si premette che “nelle gare di appalto i requisiti generali e speciali devono essere posseduti non solo alla data di scadenza del bando, ma anche al momento della verifica dei requisiti da parte della stazione appaltante e al momento dell'aggiudicazione sia provvisoria che definitiva”), rivelandosi l’individuazione di tali momenti come meramente esemplificativa, come è ben dimostrato dall’assenza in tale proposizione di qualsiasi aggettivo od avverbio, che consenta di identificarli come i “soli”, in cui assuma rilievo il possesso dei requisiti di partecipazione.
Come chiarito dalla stessa Adunanza Plenaria n. 4/2011, il principio che non ammette soluzioni di continuità nel possesso (e nella sua dimostrazione) di detti requisiti risponde “ad evidenti esigenze di certezza e di funzionalità del sistema di qualificazione obbligatoria, imperniato sul rilascio da parte degli organismi di attestazione di certificati che costituiscono condizione necessaria e sufficiente per l'idoneità ad eseguire contratti pubblici”; e “pertanto, l'impresa che partecipa alla procedura selettiva deve dimostrare di possedere, dalla presentazione dell'offerta fino all'eventuale fase di esecuzione dell'appalto, la qualificazione tecnico-economica richiesta dal bando”.
8.1 - Conclusivamente, al secondo quesito posto dall’Ordinanza di rimessione deve essere data la seguente soluzione:
nelle gare di appalto per l’aggiudicazione di contratti pubblici i requisiti generali e speciali devono essere posseduti dai candidati non solo alla data di scadenza del termine per la presentazione della richiesta di partecipazione alla procedura di affidamento, ma anche per tutta la durata della procedura stessa fino all’aggiudicazione definitiva ed alla stipula del contratto, nonché per tutto il periodo dell’esecuzione dello stesso, senza soluzione di continuità.
9. – Alla luce dei principi sopra enunciati (v. punti 7.3 e 8.1) la Sezione remittente, cui il giudizio viene restituito ai sensi dell’art. 99, comma 4, c.p.a., deciderà il ricorso, anche con riguardo alle preliminari questioni della ammissibilità dell’atto di intervento dispiegato in grado di appello, dell’ammissibilità del ricorso incidentale per la prima volta proposto in primo grado in sede di riassunzione del giudizio e del rapporto tra appello principale ed appello incidentale alla stregua della Sentenza Corte di Giustizia del 04.07.2013 nella causa n. 100/2012, così come interpretata dall'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con la decisione n. 9 del 25.02.2014.
10. Spese al definitivo.
P.Q.M.
il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria), non definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe, enuncia i seguenti principi di diritto:
a) nel regime transitorio previsto dal comma 12, prima parte, dell'art. 375 del d.P.R. n. 207 del 2010 per le categorie non modificate dal nuovo regolamento, di validità delle attestazioni rilasciate nella vigenza del d.P.R. n. 34 del 2000 “fino alla naturale scadenza prevista per ciascuna di esse”, è applicabile l'onere di verifica triennale imposto prima dall'art. 15-bis del d.P.R. n. 34 del 2000 e poi dall'art. 77 del d.P.R. n. 207 del 2010;
b) nel regime transitorio dettato dall'art. 375, commi 13, 16 e 17, del d.P.R. n. 207 del 2010 e ss.mm.ii. per le categorie "variate” non sussiste, durante il regime di proroga, l'obbligo di verifica triennale, di cui agli artt. 15-bis del d.P.R. n. 34 del 2000 e 77 del d.P.R. n. 207 del 2010;
c) nelle gare di appalto per l’aggiudicazione di contratti pubblici i requisiti generali e speciali devono essere posseduti dai candidati non solo alla data di scadenza del termine per la presentazione della richiesta di partecipazione alla procedura di affidamento, ma anche per tutta la durata della procedura stessa fino all’aggiudicazione definitiva ed alla stipula del contratto, nonché per tutto il periodo dell’esecuzione dello stesso, senza soluzione di continuità
(Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 20.07.2015 n. 8 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - VARI: Uffici postali salvi. La crisi non basta per chiudere. Tar Friuli: Poste deve valutare i siti svantaggiati.
La crisi colpisce tutti e alle Poste le esigenze di spending review non bastano per chiudere i due suoi uffici nelle frazioni del comune di montagna: in base alle regole Ue un servizio universale come quello per raccomandate e bollettini di pagamento deve essere garantito contemperando le legittime necessità di taglio dei costi delle imprese con le condizioni orografiche delle zone svantaggiate. E non è stata presa in considerazione la proposta di chiusura alternata delle due sedi avanzata dall'amministrazione locale.

È quanto emerge dalla sentenza 15.07.2015 n. 332, pubblicata dalla I Sez. del TAR Friuli Venezia Giulia.
Istruttoria carente
Accolto il ricorso di uno dei comuni che furono devastati dal terremoto del '76. Poste italiane spa può senz'altro sopprimere gli uffici per risparmiare ma la chiusura deve avvenire dopo aver comparato gli interessi in gioco e necessita di un'adeguata motivazione.
Il richiamo al mero dato economico e ai criteri di distanze indicati dal dm 07.10.2008 non bastano nella specie a giustificare la decisione: si tratta infatti di criteri che non possono essere considerati assoluti né di automatica applicazione perché in base ai principi della direttiva 2008/6/Ce bisogna tenere conto della situazione geografica di determinate zone, in modo da raggiungere un equilibrio e un bilanciamento tra gli interessi degli utenti e quelli dell'azienda.
Evidente, dunque, la carenza d'istruttoria e di motivazione per il provvedimento delle Poste che ignorano la controproposta proveniente dal comune. E pagano le spese di giudizio (articolo ItaliaOggi del 26.08.2015).

VARI: Patente. Tre rossi e si torna sui banchi.
Chi si fa immortalare per tre volte mentre attraversa l'incrocio con il proprio veicolo nonostante il semaforo rosso rischia di restare a piedi. Ovvero di ripetere almeno l'esame di guida tornado sui banchi di scuola.

Lo ha chiarito il Consiglio di Stato, Sez. IV, con la sentenza 14.07.2015 n. 3508.
Un automobilista negligente è stato pizzicato ripetutamente in condotte di guida vietate con applicazione di tre decurtazioni differenti di punti patente. Al ricevimento dell'ordine di sottoporsi alla revisione della licenza si è presentato all'esame senza riuscire a superarlo.
Contro la conseguente revoca della patente ha proposto censure ai giudici amministrativi ma senza successo. L'art. 126-bis del codice stradale prevede espressamente l'obbligo della revisione sia per i recidivi che per i conducenti senza punti patente. Nel caso esaminato dal collegio l'interessato è incorso in un anno in tre violazioni che prevedono una decurtazione di almeno cinque punti ciascuna.
Per questo motivo è corretta l'intimazione alla revisione e tutta la procedura conseguente. E non è plausibile ipotizzare un esame di guida agevolato per i conducenti senior (articolo ItaliaOggi del 21.08.2015).

APPALTI: Serve il contraddittorio. Per escludere imprese collegate.
L'esclusione da una gara per collegamento fra due imprese non può essere disposta automaticamente ma deve conseguire a un contraddittorio con le imprese.

È questo il principio affermato dal TAR Piemonte, Sez. II, con la sentenza 10.07.2015 n. 1214, rispetto all'esclusione disposta da una stazione appaltante nei confronti di due imprese con la motivazione che le rispettive offerte sarebbero state imputabili a un unico centro decisionale e quindi in violazione del principio di partecipazione contemporanea per collegamento sostanziale.
Il Tar ha dichiarato illegittima l'esclusione in quanto avvenuta «sulla base di indizi di collegamento (numerosi e concreti), senza concedere la possibilità di presentare deduzioni allo scopo di dimostrare l'ininfluenza della situazione di collegamento sulla formulazione dell'offerta economica».
In passato su questa materia si era espressa anche la Corte di giustizia europea (sentenza 19.05.2009, C-538/2007), che dichiarava incompatibile la normativa italiana con il diritto comunitario nella parte in cui essa «
vietava, in assoluto, la partecipazione alla medesima gara d'appalto da parte di imprese che si trovassero in una situazione di collegamento senza lasciare loro la possibilità di dimostrare che il predetto rapporto non ha influito, di fatto, sul rispettivo comportamento nell'ambito della gara».
In aderenza a questa pronuncia il codice dei contratti fu modificato disponendo che non più il solo controllo formale fra imprese, bensì ogni situazione di controllo e collegamento accompagnata da univoci elementi di prova che dimostrino come le offerte siano riconducibili a un unico centro decisionale potesse essere motivo di esclusione dopo l'apertura delle buste contenenti l'offerta economica.
Per i giudici, quindi sotto il profilo procedimentale non è più consentita l'esclusione automatica per collegamento sostanziale ma occorre accertare se, in concreto, tale situazione abbia influito o meno sul loro rispettivo comportamento nell'ambito della gara, consentendo alle imprese interessate di dimostrare nell'apposito sub-procedimento di verifica l'insussistenza di rischi di turbativa della selezione (articolo ItaliaOggi del 21.08.2015).
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MASSIMA
3. Nel merito, il primo motivo ha carattere assorbente ed è fondato.
L’art. 38, primo comma – lett. m-quater), del Codice dei contratti pubblici dispone che sono esclusi dalla partecipazione alle procedure di affidamento di appalti i soggetti “che si trovino, rispetto ad un altro partecipante alla medesima procedura di affidamento, in una situazione di controllo di cui all’art. 2359 del codice civile o in una qualsiasi relazione, anche di fatto, se la situazione di controllo o la relazione comporti che le offerte sono imputabili ad un unico centro decisionale”.
In forza di tale disposizione,
sono sanzionate con l’esclusione dalla gara non solo le ipotesi di collegamento formale tipizzate dall’art. 2359 cod. civ., ma anche le situazioni di cosiddetto collegamento sostanziale le quali, attestando la riconducibilità dei soggetti partecipanti alla selezione ad un unico centro decisionale, possono mettere in pericolo il rispetto delle regole generali di par condicio, segretezza delle offerte e trasparenza della competizione. Il legislatore ha inteso evitare il rischio di ammettere alla gara soggetti che, in quanto legati da stretta e stabile comunanza di interessi, non sono ritenuti capaci di formulare offerte caratterizzate dalla necessaria indipendenza, serietà ed affidabilità.
Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza,
la riconducibilità delle offerte ad un unico centro decisionale può essere affermata dalla stazione appaltante solo in presenza di indizi gravi, precisi e concordanti.
Come è noto, la Corte di Giustizia ha avuto modo di pronunciarsi sul previgente D.Lgs. n. 157 del 1995, giudicando la normativa italiana in materia di appalti di servizi incompatibile con il diritto comunitario, e segnatamente con la Direttiva 1992/50/CE, nella parte in cui vietava in assoluto la partecipazione alla medesima gara d’appalto di imprese che si trovassero in una situazione di collegamento: secondo la Corte,
il diritto comunitario osta ad una disposizione nazionale che, pur perseguendo gli obiettivi legittimi di parità di trattamento degli offerenti e di trasparenza nell’ambito delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici, stabilisca un divieto assoluto, a carico di imprese tra le quali sussista un rapporto di controllo o che siano tra loro collegate, di partecipare in modo simultaneo e concorrente ad una medesima gara d’appalto, senza lasciare loro la possibilità di dimostrare che il rapporto suddetto non ha influito sul rispettivo comportamento nell’ambito della gara (Corte Giust. CE, sent. 19.05.2009, in C-538/07, Assitur s.r.l.).
Il Codice dei contratti pubblici è stato prontamente adeguato al principio affermato dalla Corte. L’art. 38, primo comma – lett. m-quater) e secondo comma, del D.Lgs. n. 163 del 2006, come modificato dall’art. 3, secondo comma, del D.L. n. 135 del 2009),
contempla come causa di esclusione non più il controllo formale ex se, ma ogni situazione di controllo e collegamento, formale o sostanziale, accompagnata da univoci elementi di prova che le offerte siano riconducibili ad un unico centro decisionale, prescrivendo altresì che la verifica e l’eventuale esclusione siano disposte dalla stazione appaltante solo dopo l’apertura delle buste contenenti l’offerta economica.
Sotto il profilo procedimentale, a seguito della pronuncia della Corte di Giustizia,
non è più consentito alle stazioni appaltanti di sanzionare il collegamento tra imprese mediante l’esclusione automatica dalla procedura selettiva, ma occorre accertare se, in concreto, tale situazione abbia influito o meno sul loro rispettivo comportamento nell’ambito della gara, consentendo alle imprese interessate di dimostrare nell’apposito sub-procedimento l’insussistenza di rischi di turbativa della selezione (così, da ultimo: TAR Piemonte, sez. I, 06.03.2015 n. 430; nel senso della necessità di un accertamento in contraddittorio con le imprese concorrenti, si veda già: TAR Lazio, sez. II, 08.05.2014 n. 4810; Cons. Stato, sez. IV, 25.01.2010 n. 247).
Nella seduta pubblica del 09.01.2015, il responsabile del procedimento ha invece deliberato l’immediata esclusione delle concorrenti T.G. s.r.l. ed I. s.r.l., ritenendo che le rispettive offerte fossero imputabili ad un unico centro decisionale, senza darne alcun preavviso e senza consentire loro la presentazione di controdeduzioni entro un termine breve compatibile con l’esigenza di celerità della gara.
Ad avviso del Collegio,
il vizio del contraddittorio non può essere degradato come inidoneo all’annullamento dell’esclusione, in applicazione dell’art 21-octies, secondo comma, della legge n. 241 del 1990.
Infatti,
al cospetto di una decisione della stazione appaltante tipicamente discrezionale, quale quella sulla effettiva incidenza della situazione di collegamento sulla formulazione delle offerte, non incombe sulla ricorrente l’onere di fornire la prova circa la rilevanza del momento partecipativo, essendo invece vero il contrario.
Sul punto, l’amministrazione resistente non ha fornito in modo convincente la prova, seppur in chiave necessariamente prognostica, della inutilità a priori dell’apporto partecipativo delle società escluse dalla gara.
Con specifico riguardo alla fattispecie di esclusione disciplinata dall’art. 38, primo comma – lett. m-quater), del Codice dei contratti pubblici,
è ben possibile che l’instaurazione del contraddittorio con i soggetti interessati permetta di raggiungere una differente valutazione degli indizi di collegamento. Ad esempio, le imprese avrebbero potuto rendere giustificazioni in ordine alla vicinanza dei ribassi percentuali, alle somiglianze grafiche delle offerte, alle date ed alle modalità di confezionamento e spedizione dei plichi, alle date di effettuazione dei versamenti obbligatori, alla condivisione dei soggetti emittenti delle cauzioni provvisorie, e così via.
Come affermato da autorevole dottrina,
l’indefettibilità del contraddittorio discende, anche nell’ambito delle gare d’appalto, dall’art. 47, par. 2, della Carta dei diritti dell’Unione Europea, per effetto del quale il diritto di ogni individuo di essere ascoltato prima che nei suoi confronti venga adottato un provvedimento individuale che gli rechi pregiudizio è stato elevato a principio comunitario, quale parte integrante del “diritto ad una buona amministrazione” ed in perfetta corrispondenza con le garanzie discendenti dall’art. 6, par. 1, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
Con il conseguente necessario adeguamento, innanzitutto in via di interpretazione conforme, delle norme di diritto interno ed in particolare degli artt. 21-octies e 21-nonies della legge n. 241 del 1990, nelle fattispecie in cui l’amministrazione procedente non abbia rispettato gli obblighi partecipativi.
La Corte europea, infatti, ha affermato che il necessario svolgimento di un procedimento in contraddittorio presuppone non soltanto la facoltà per l’interessato di accedere al fascicolo, ma anche il dovere per l’autorità procedente di dare comunicazione d’ufficio all’interessato degli elementi fattuali e giuridici rilevanti per consentirgli un contraddittorio effettivo, tale da poter influire sull’esito della decisione: in tal senso, non è consentita la violazione delle regole poste a garanzia dei soggetti coinvolti nel procedimento, anche se, in ipotesi, tale violazione non abbia influito in concreto sull’esito della decisione amministrativa
(cfr. Corte europea dei diritti dell’uomo, sent. 25.07.2000, Mattoccia; Id., sent. 05.10.2000, APEH Uldozotteinek Szovetsege).
Né può dubitarsi, alla luce della consolidata giurisprudenza della Corte, circa l’attinenza dei procedimenti di evidenza pubblica per l’affidamento di appalti ai “diritti e doveri di carattere civile” richiamati dall’art. 6, par. 1, della Convenzione (cfr., tra molte: Corte europea dei diritti dell’uomo, sent. 10.07.1998, Tinnelly & Sons Ltd; Id., sent. 21.09.2006, Arac; Id., sent. 11.12.2008, Velted-98 AD).

ATTI AMMINISTRATIVI: Vantaggi economici ko per difetto di motivazione.
Il difetto di motivazione vizia i provvedimenti attributivi di vantaggi economici della p.a., alla stregua della violazione dell'art. 12 della legge n. 241/1990, che prevede, al primo comma, che l'attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a privati o a enti pubblici sia subordinata alla predeterminazione di criteri e modalità, cui le amministrazioni erogatrici debbano attenersi.

Lo hanno ribadito i giudici della I Sez. del TAR Molise con la sentenza 10.07.2015 n. 304.
Tale principio, come evidenziato anche da un precedente indirizzo giurisprudenziale (si veda: Tar Molise I, 24/10/2014 n. 561), ha l'evidente finalità di evitare ingiustificate discriminazioni e per garantire la trasparenza dell'azione amministrativa.
Nel caso sottoposto all'attenzione dei giudici amministrativi molisani, poi, non erano neppure bene esplicate le ragioni per le quali alcune opere erano state considerate «cantierabili», ma escluse dai finanziamenti. Anche tale aspetto, secondo i giudici del tribunale amministrativo denota carenza o incongruità di motivazione.
Nello specifico, il presidente della Regione, nella qualità di commissario delegato per la ricostruzione post-sisma 2002, con provvedimento prometteva al Comune un finanziamento. Con successivo provvedimento riconosceva un finanziamento ulteriore, ma tali promesse di finanziamenti venivano largamente disattese, poiché la Regione, mediante progressive rettifiche e rimodulazioni, decurtava, in modo consistente, gli importi delle contribuzioni.
Le principali ragioni di detti provvedimenti attenevano all'esigenza sopravvenuta di recuperare risorse per finanziare «azioni di sistema» dell'Agenzia regionale di protezione civile, pertanto, il percorso logico seguito dall'Amministrazione regionale nel rettificare o rimodulare i finanziamenti dei programmi edilizi unitari (p.e.u.) proposti dai Comuni, escludendone alcuni dai finanziamenti o dal riconoscimento di «cantierabilità», non risultavano chiari, né evidenti.
Soprattutto, non era visibile né tracciabile la ragione (o la pluralità di ragioni) per la quale il Comune si fosse trovato a subire decurtazioni tanto consistenti dei finanziamenti riconosciuti o promessi in origine (articolo ItaliaOggi Sette del 24.08.2015).
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MASSIMA
VI – I motivi dei tre gravami –con i quali s’impugna la sequenza di atti regionali di revisione e rimodulazione del riparto dei fondi post-sisma tra enti locali- sono attendibili.
Il Presidente della Regione Molise, nella qualità di Commissario delegato per la ricostruzione post-sisma 2002, con provvedimento prot. n. 1340 del 6.2.2008, ha promesso al Comune ricorrente un finanziamento complessivo di euro 33.750.431,60. Con il successivo provvedimento n. 515 del 29.1.2010, ha riconosciuto un finanziamento ulteriore di euro 6.178.431,60.
Tali promesse di finanziamenti sono state largamente disattese, poiché la Regione -con i provvedimenti qui impugnati nel ricorso e nei duplici motivi aggiunti– mediante progressive rettifiche e rimodulazioni, ha decurtato, in modo consistente, gli importi delle contribuzioni del cosiddetto “Percorso ricostruzione”, destinando meno di 15 milioni di euro al Comune di Ripabottoni.
Nella sostanza, il finanziamento si riduce a circa 5,5 milioni di euro, atteso che dei 15 milioni riconosciuti, 9,5 milioni sono stati già erogati con i decreti commissariali nn. 153/2011 155/2011, 158/2011, 159/2011 e 136/2012. Ben 44 progetti di classe A, proposti dal detto Comune, per un importo complessivo di euro 16.980.392,61, già programmati per il finanziamento, sono stati stralciati dall’elenco dei finanziamenti, redatto dall’Agenzia regionale della protezione civile e approvato dalla Giunta regionale del Molise, con più deliberazioni consecutive.
VII – Le principali ragioni di detti provvedimenti attengono all’esigenza sopravvenuta di recuperare risorse per finanziare “azioni di sistema” dell’Agenzia regionale di protezione civile (A.r.p.a. Molise), nonché per erogare i risarcimenti dei danni dovuti dal Comune di San Giuliano di Puglia alle famiglie delle vittime dell’edificio scolastico crollato il 31.10.2002 in quel Comune, a seguito del passaggio in giudicato della sentenza di Cassazione, IV sezione penale, 28.1.2010 n. 173.
Sennonché, il percorso logico seguito dall’Amministrazione regionale nel rettificare o rimodulare i finanziamenti dei programmi edilizi unitari (p.e.u.) proposti dai Comuni, escludendone alcuni dai finanziamenti o dal riconoscimento di “cantierabilità”, non sono chiari, né evidenti.
Soprattutto, non è visibile né tracciabile –dai documenti esaminati– la ragione (o la pluralità di ragioni) per la quale il Comune di Ripabottoni abbia subito decurtazioni tanto consistenti dei finanziamenti riconosciuti o promessi in origine, in misura più che proporzionale rispetto ad altri enti locali ammessi al finanziamento, tra i quali vi è la resistente Provincia di Campobasso.
Pertanto,
il difetto di motivazione vizia i provvedimenti, alla stregua della violazione dell’art. 12 della legge n. 241/1990. Detta normativa, recante “provvedimenti attributivi di vantaggi economici” prevede, al primo comma, che l’attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a privati o a enti pubblici sia subordinata alla predeterminazione di criteri e modalità, cui le amministrazioni erogatrici debbano attenersi. Ciò al fine di evitare ingiustificate discriminazioni e per garantire la trasparenza dell’azione amministrativa.
Neppure sono bene esplicate le ragioni per le quali alcune opere sono considerate “cantierabili”, ma sono escluse dai finanziamenti. Anche tale aspetto denota carenza o incongruità di motivazione (cfr.: Tar Molise I, 24.10.2014 n. 561).

ATTI AMMINISTRATIVIE' stato riconosciuto che −in forza della generale previsione dell’art. 50, comma 7, del d.lgs. n. 267 del 2000− il sindaco può disciplinare gli orari delle sale giochi e degli esercizi nei quali siano installate apparecchiature per il gioco e che ciò può fare per esigenze di tutela della salute, della quiete pubblica, ovvero della circolazione stradale.
Già con sentenza n. 300/2011, la Corte Costituzionale ha precisato che le norme che stabiliscono e contingentano il gioco d’azzardo sono finalizzate a tutelare soggetti ritenuti maggiormente vulnerabili, o per la giovane età o perché bisognosi di cure di tipo sanitario o socio-assistenziale, e a prevenire forme di gioco cosiddetto compulsivo, nonché ad evitare effetti pregiudizievoli per il contesto urbano, la viabilità e la quiete pubblica, sicché non sono riferibili alla competenza legislativa statale in materia di “ordine pubblico e sicurezza”, che attiene alla prevenzione dei reati e al mantenimento dell’ordine pubblico, inteso questo quale complesso dei beni giuridici fondamentali e degli interessi pubblici primari sui quali si regge la civile convivenza nella comunità nazionale.
Ne deriva che la disciplina in tema di sale da gioco non è diretta a garantire l’ordine pubblico, in quanto gli apparecchi da gioco sono considerati esclusivamente nel loro aspetto negativo di strumenti di grave pericolo per la salute individuale e il benessere psichico e socio-economico della popolazione locale.
Benessere psico-fisico la cui tutela è sicuramente compresa tra le attribuzioni dell’ente locale, non solo in base alla generale previsione di cui all’art. 3 del d.lgs. n. 267/2000, ma anche in considerazione delle norme che attribuiscono al Sindaco un potere di ordinanza a tutela della salute dei cittadini, in caso di emergenze sanitarie, ai sensi del medesimo art. 50 del TUEL.
Né rileva in senso contrario la circostanza che il Sindaco abbia disciplinato, oltre all’orario di apertura e di chiusura delle sale da gioco, anche gli orari di attivazione degli apparecchi da gioco collocati in altre tipologie di esercizi.
Invero, una volta messa in luce la correlazione tra il potere in esame e le finalità di tutela anche della salute e del benessere dei cittadini, è del tutto ragionevole ritenere che la delimitazione degli orari possa essere effettuata in maniera selettiva, ossia in relazione al tipo di attività svolta all’interno dei pubblici esercizi, delimitando l’orario di svolgimento delle singole attività, come l’attivazione delle apparecchiature da gioco.
In quest’ottica il potere esercitato dal Sindaco nel caso concreto trova preciso fondamento nell’art. 50, comma 7, del d.lgs. n. 267/2000, interpretato in coerenza con i canoni ermeneutici già evidenziati dalla giurisprudenza amministrativa e valorizzati dalla giurisprudenza costituzionale, con conseguente infondatezza della censura di difetto di attribuzioni.

3.1. La Sezione si è già recentemente occupata della questione relativa alla sussistenza o meno in capo al Sindaco del potere di disciplinare gli orari di apertura delle sale da gioco (v. TAR Lombardia–Milano, Sez. I, n. 704/2015; id., Sez. IV, n. 995/2015).
3.2. Al riguardo si è rilevato che l’ordinanza sindacale in questione si fonda su un titolo di competenza attribuito con legge all’autorità emanante.
Il fondamento normativo del potere esercitato dal Comune di Milano è costituito dall’art. 50 del d.lgs. n. 267/2000, ove si assegna al Sindaco il compito di coordinare ed organizzare, sulla base degli indirizzi espressi dal Consiglio comunale e nell’ambito dei criteri eventualmente indicati dalla Regione, gli orari degli esercizi commerciali, dei pubblici esercizi e dei servizi pubblici, al fine di armonizzare l’espletamento dei servizi con le esigenze complessive e generali degli utenti.
3.3. Con particolare riferimento all’individuazione e delimitazione dei poteri esercitabili dal Sindaco ai sensi dell’art. 50, comma 7, del d.lgs. n. 267/2000, si registra un’evoluzione giurisprudenziale.
3.4. Secondo un primo filone della giurisprudenza amministrativa esulano dall’ambito di applicazione del citato art. 50 “finalità di tutela della incolumità, salute, della quiete pubblica, atteso che a fronte di tali esigenze il sindaco può ricorrere soltanto al diverso potere di ordinanza contingibile ed urgente, qualora ne sussistano gli estremi (TAR Umbria, Sez. I, n. 119/2012; TAR Toscana, Sez. II, n. 629/2012) fatti sempre salvi i poteri sanzionatori di cui il Comune dispone nel caso di violazione delle leggi o dei propri regolamenti” (TAR Lombardia–Milano, Sez. I, n. 1182/2013; cfr. anche TAR Lombardia–Milano, Sez. I, n. 2308/2012 e n. 2479/2013; TAR Lombardia–Brescia, n. 1673/2012; TAR Piemonte, n. 513/2011; TAR Lombardia-Milano, Sez. III, ord. n. 1566/2011 e Sez. I, ord. n. 998/2012; TAR Piemonte, Sez. II, ord. n. 107/2012).
3.5. A tale orientamento se ne è contrapposto di recente un altro, che appare in via di consolidamento a seguito dell’ordinanza della Corte Costituzionale n. 220/2014.
Nella richiamata pronuncia, invero, la Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibile la questione di costituzionalità sollevata dal TAR Piemonte con riguardo all’art. 50, comma 7, del d.lgs. n. 267, nella parte in cui tale norma non prevede che i poteri dalla stessa attribuiti al Sindaco possano essere esercitati con finalità di contrasto del fenomeno del gioco d’azzardo patologico (g.a.p.).
La Corte, sul punto, ha evidenziato che “l’evoluzione della giurisprudenza amministrativa, sia di legittimità, sia di merito, ha elaborato un’interpretazione dell’art. 50, comma 7, del d.lgs. n. 267 del 2000, compatibile con i principi costituzionali evocati, nel senso di ritenere che la stessa disposizione censurata fornisca un fondamento legislativo al potere sindacale in questione”.
In tale direzione si collocano diverse pronunce, con le quali “è stato riconosciuto che −in forza della generale previsione dell’art. 50, comma 7, del d.lgs. n. 267 del 2000− il sindaco può disciplinare gli orari delle sale giochi e degli esercizi nei quali siano installate apparecchiature per il gioco e che ciò può fare per esigenze di tutela della salute, della quiete pubblica, ovvero della circolazione stradale” (cfr. C.d.S., sentenza n. 3271/2014; id., ordinanze nn. 2133 e 996 del 2014 e n. 2712/2013; TAR Lombardia-Brescia, sentenza n. 1484/2012; TAR Campania, sentenza n. 2976/2011; TAR Lazio, sentenza n. 5619/2010).
In quest’ottica, la Corte Costituzionale ha ritenuto inammissibile la questione sollevata dal TAR Piemonte in considerazione della “non adeguata utilizzazione dei poteri interpretativi che la legge riconosce al giudice rimettente” e della “mancata esplorazione di diverse, pur praticabili, soluzioni ermeneutiche”, con ciò implicitamente invitando il giudice a quo a “praticare” l’opzione interpretativa da essa richiamata, onde evitare che la norma in questione possa porsi in contrasto con i principi costituzionali.
3.6. Del resto, già con sentenza n. 300/2011, la Corte Costituzionale ha precisato che le norme che stabiliscono e contingentano il gioco d’azzardo sono finalizzate a tutelare soggetti ritenuti maggiormente vulnerabili, o per la giovane età o perché bisognosi di cure di tipo sanitario o socio-assistenziale, e a prevenire forme di gioco cosiddetto compulsivo, nonché ad evitare effetti pregiudizievoli per il contesto urbano, la viabilità e la quiete pubblica, sicché non sono riferibili alla competenza legislativa statale in materia di “ordine pubblico e sicurezza”, che attiene alla prevenzione dei reati e al mantenimento dell’ordine pubblico, inteso questo quale complesso dei beni giuridici fondamentali e degli interessi pubblici primari sui quali si regge la civile convivenza nella comunità nazionale.
Ne deriva che la disciplina in tema di sale da gioco non è diretta a garantire l’ordine pubblico, in quanto gli apparecchi da gioco sono considerati esclusivamente nel loro aspetto negativo di strumenti di grave pericolo per la salute individuale e il benessere psichico e socio-economico della popolazione locale.
Benessere psico-fisico la cui tutela è sicuramente compresa tra le attribuzioni dell’ente locale, non solo in base alla generale previsione di cui all’art. 3 del d.lgs. n. 267/2000, ma anche in considerazione delle norme che attribuiscono al Sindaco un potere di ordinanza a tutela della salute dei cittadini, in caso di emergenze sanitarie, ai sensi del medesimo art. 50 del TUEL.
3.7. Né rileva in senso contrario la circostanza che il Sindaco abbia disciplinato, oltre all’orario di apertura e di chiusura delle sale da gioco, anche gli orari di attivazione degli apparecchi da gioco collocati in altre tipologie di esercizi.
Invero, una volta messa in luce la correlazione tra il potere in esame e le finalità di tutela anche della salute e del benessere dei cittadini, è del tutto ragionevole ritenere che la delimitazione degli orari possa essere effettuata in maniera selettiva, ossia in relazione al tipo di attività svolta all’interno dei pubblici esercizi, delimitando l’orario di svolgimento delle singole attività, come l’attivazione delle apparecchiature da gioco.
3.8. In quest’ottica il potere esercitato dal Sindaco nel caso concreto trova preciso fondamento nell’art. 50, comma 7, del d.lgs. n. 267/2000, interpretato in coerenza con i canoni ermeneutici già evidenziati dalla giurisprudenza amministrativa e valorizzati dalla giurisprudenza costituzionale, con conseguente infondatezza della censura di difetto di attribuzioni (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 08.07.2015 n. 1569 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAL’atto dichiarativo di scadenza del piano di lottizzazione si configura come un atto ricognitivo.
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La scadenza massima del piano di lottizzazione è di 10 anni, ma la scadenza non preclude la realizzazione dei volumi purché siano state realizzate le opere di urbanizzazione, che nel caso invece non sono state affatto realizzate in modo completo.

Per scrupolo di completezza si osserva comunque che l’atto dichiarativo di scadenza del piano di lottizzazione si configura come un atto ricognitivo. Va poi osservato come la ditta non abbia mai chiesto una proroga della convenzione intervenuta con il comune; in ogni caso la scadenza massima del piano di lottizzazione è di 10 anni, ma la scadenza non preclude la realizzazione dei volumi purché siano state realizzate le opere di urbanizzazione, che nel caso invece non sono state affatto realizzate in modo completo, come ammette la stessa ricorrente.
Quanto poi al risarcimento del danno, a parte l’assoluta genericità delle affermazioni di parte ricorrente, si osserva che per essere risarcibile esso deve dipendere con un diretto nesso di causalità dal provvedimento illegittimo del comune. Nel caso in esame nessuna colpa è attribuibile al Comune, il quale ha negato la proroga che la stessa ricorrente, nella memoria depositata l’08.05.2015, a pagina uno, afferma essere del tutto discrezionale.
Va poi osservato da un lato come il diniego della proroga appare giustificato dall’imminente scadenza della convenzione, e d’altro lato come, contrariamente a quanto si assume in ricorso, la legge numero 98 del 2013 consentiva una proroga delle convenzioni ma non del termine della concessione edilizia. Inoltre la convenzione era comunque cessata nel gennaio 2012 prima dell’entrata in vigore della citata legge e infine la proroga doveva essere espressamente richiesta.
Sulla base di quanto evidenziato emerge come il diniego di proroga del Comune fosse pienamente giustificato; non essendo quindi alcuna illegittimità imputabile al Comune, non sussiste alcun nesso di causalità in riferimento ai presunti e indimostrati danni subiti dalla ricorrente (TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza 17.06.2015 n. 286 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Abusivismo. Irregolarità ignorata, box salvo.
Box e terrazza abusivi non si toccano, almeno per ora. Possibile? Sì, se il proprietario dell'immobile non era a conoscenza delle irregolarità del predecessore, che al rogito dichiarò la conformità delle opere alla concessione edilizia. Per dare il via alle ruspe il Comune deve motivare l'interesse pubblico alla demolizione, anche nella zona soggetta a vincolo.

È quanto emerge dalla sentenza 08.06.2015 n. 1349, pubblicata dalla I Sez. del TAR Campania-Salerno.
Accolto il ricorso del proprietario che risiede nell'immobile da vent'anni. Il suo dante causa ha dato un tetto ai posti auto scoperti ricavandone un box con tanto di terrazza sopra. Ma, a quanto risulta, l'attuale titolare ha sempre ritenuto leciti i lavori: la buona fede deve essere confermata da quanto risulta agli atti della compravendita.
Le opere sono piuttosto risalenti e l'attuale proprietario ha riposto un legittimo affidamento nella struttura dell'immobile per com'è ora.
Trova ingresso la censura contro il provvedimento dell'amministrazione secondo cui l'ordinanza viola le regole sulle misure sanzionatorie in campo edilizio: non dà conto dell'entità delle opere né della loro esatta qualificazione giuridica.
Ciò non toglie che il Comune possa di nuovo esercitare il potere repressivo (articolo ItaliaOggi del 21.08.2015).
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MASSIMA
Come evidenziato dal Consiglio di Stato, Sez. IV, con la sentenza n. 1016 del 04.03.2014,
nell’ipotesi in cui l’ordinanza ingiuntiva sia indirizzata ad un soggetto che non è il diretto autore dell’opera ed attinga un bene di realizzazione assai risalente, essa deve menzionare le esigenze di pubblico interesse sottese alla emanazione del provvedimento demolitorio.
Ebbene, i suindicati presupposti per imporre all’amministrazione, nell’esercizio del suo potere repressivo, uno specifico onere motivazionale sussistono nella fattispecie in esame, allegando il ricorrente, senza essere smentito dall’amministrazione comunale, il carattere risalente delle opere (esistenti quantomeno a far data dal 09.03.1995, risultando menzionate nell’atto di compravendita stipulato in pari data dal ricorrente e dal dante causa sig. P.G.) e la sua buona fede (avendo il ricorrente acquistato l’immobile facendo legittimo affidamento sulla dichiarazione del dante causa in ordine alla conformità dei beni compravenduti alla concessione edilizia n. 114 del 16.09.1986).
Né a diverse conclusioni potrebbe pervenirsi sulla scorta del fatto, evidenziato dalla difesa comunale, che le opere de quibus ricadono in area paesaggisticamente tutelata (cd. Masso della Signora) ex d.m. 15.09.1971,
trattandosi di dato rilevante in sede di eventuale riesercizio del potere repressivo, in occasione del quale l’amministrazione ben potrà tenere conto, previa attenta valutazione della consistenza delle opere abusive, della effettiva incidenza delle stesse sui valori paesaggistici tutelati e meritevoli di conservazione.

EDILIZIA PRIVATA: Sulla mega-antenna la parola allo Stato.
Sì alla mega-antenna per cellulari vicino a case, scuole, ospedali e case di riposo. O meglio: non è il Comune che col suo regolamento può intervenire sui valori di attenzione invadendo il campo dello Stato, cui spetta legiferare in materia. Ecco allora che è accolto il ricorso del big delle telecomunicazioni contro il regolamento dell'ente locale che vieta di installare praticamente ovunque le stazioni radio-base che servono a far funzionare i telefonini: gli impianti sono invece «compatibili con qualsiasi destinazione urbanistica».

È quanto emerge dalla sentenza 29.05.2015 n. 503, pubblicata dal TAR Calabria-Reggio Calabria.
Sbaglia la compagnia telefonica quando sostiene che l'amministrazione locale avrebbe bisogno del placet della Regione nell'adottare il regolamento con tutte le modifiche che ha introdotto sul piano urbanistico. In realtà l'ente locale ha i poteri per disciplinare il corretto insediamento territoriale degli impianti.
Il punto è che con il regolamento di «minimizzazione» il Comune non può spingersi a porre divieti generalizzati che puntano a tutelare la popolazione amministrata dai campi magnetici: spetta infatti al legislatore nazionale indicare obiettivi di qualità per le installazioni degli impianti con criteri unitari da applicare uniformemente in tutta Italia.
Bisogna invece consentire dappertutto la copertura della telefonia mobile: le mega-antenne devono infatti ritenersi «infrastrutture primarie e impianti di interesse generale». Spese compensate (articolo ItaliaOggi del 21.08.2015).

LAVORI PUBBLICI: SULLA DIFFERENZA TRA CONCESSIONE DI COSTRUZIONE E CONTRATTO DI APPALTO.
Prima dell’entrata in vigore della L. n. 109/1994, la concessione di sola costruzione era un istituto distinto dall’appalto, perché il concessionario non si assumeva la sola obbligazione di compiere l’opera pubblica ma era investito di poteri e facoltà tipiche dell’ente concedente, quali la progettazione e la direzione dei lavori, la sorveglianza e la scelta degli appaltatori, incluse anche le attività tecniche e amministrative, preparatorie e funzionali, come acquisizione di aree e autorizzazioni, espletamento delle procedure espropriative.
All’esito dei due gradi di merito fu dichiarata risolta, per inadempimento dell’Amministrazione concedente, una convenzione stipulata tra un Comune e un’ATI relativa alla costruzione di un’opera pubblica, nella specie costituita da un tratto viario. La decisione fu assunta in ragione della ritenuta assimilabilità di tale convenzione a un appalto di opere pubbliche: per il che fu dichiarata illegittima anche la sequenziale rescissione del rapporto, pronunciata da detto ente in danno dell’impresa, perché il progetto esecutivo predisposto dallo stesso Comune (e sulla scorta del quale l’appalto era stato affidato) era deficitario, sicché era sull’Ente che dovevano ricaderne le conseguenze, quali i tempi di sospensione dei lavori -i cui danni erano stati richiesti dall’appaltatore con tempestive riserve- e la revisione prezzi ai sensi dell’allora operante art. 33 della L. n. 41/1986.
Per la cassazione della sentenza il Comune ha proposto un ricorso articolato in numerosi motivi in parte riuniti per connessione logica e giuridica, qui accolti.
La Suprema Corte anzitutto rileva la violazione della L. n. 1137/1929 essendosi addebitati erroneamente al Comune, da parte della Corte territoriale, gli inadempimenti, muovendo dal presupposto che si trattasse d’un appalto di opere pubbliche, a cui la L. n. 584/1977 aveva equiparato la concessione di sola costruzione.
Di contro, detta equiparazione era limitata all’osservanza delle procedure di aggiudicazione richieste dalle Direttive CE. Ancora, osservandosi che la L. n. 584/1977 (come del resto neppure il successivo D.Lgs. n. 406/1991) non avesse modificato la differenza strutturale tra i due istituti o mutato il contenuto della concessione di costruzione, istituto caratterizzato dall’assunzione da parte del concessionario di poteri e ruolo propri del concedente: fra essi, la progettazione dell’opera. Per il che, erroneamente, il Giudice di merito, ad avviso della Corte di legittimità ha obliterato l’esame delle disposizioni della convenzione intercorsa, che appunto qualificavano il rapporto come “concessione di costruzione” e ponevano ogni obbligo di progettazione a carico del concessionario.
Circostanze, queste, ignorate sia nella determinazione dell’onerosità dei lavori da quest’ultimo lamentata, sia nelle conseguenti responsabilità per non averli eseguiti a regola d’arte. Ad avviso del Supremo Collegio, erroneamente la Corte d’appello ha mosso dalla premessa che la concessione di mera costruzione -contenuta nella convenzione stipulata tra le parti- fosse equiparabile all’appalto ai sensi della L. n. 584/1977 e che quindi, in conformità a quest’ultimo contratto, la stazione appaltante dovesse rispondere delle deficienze della progettazione esecutiva e delle attività derivanti dalla stessa, a nulla rilevando il contrario tenore letterale della convenzione in merito a obbligazioni e responsabilità del concessionario.
In tal modo, i Giudici di merito hanno disatteso sia il quadro legislativo in allora vigente, sia i principi in proposito affermati dalla costante giurisprudenza di legittimità, per la quale la concessione di sola costruzione, introdotta dalle L. n. 107/1919, n. 1657/1926 e n. 1137/1929 è istituto diverso dall’appalto, perché il concessionario non assume la sola obbligazione di compiere l’opera pubblica ma è investito di poteri e facoltà propri dell’ente concedente, quali ad esempio la progettazione dell’opera o dei lavori, direzione degli stessi, sorveglianza, scelta degli appaltatori (Cass. 4145/2003; 15687/2001).
In quest’ottica, l’ambito della concessione di lavori è stato ampliato così da includere ogni fase delle lavorazioni affidate al concessionario, insieme alla realizzazione dell’opera: sono incluse anche le attività tecniche e amministrative, preparatorie e funzionali alla realizzazione (programmazione e progettazione dei lavori, acquisizione di aree e autorizzazioni; espletamento delle procedure espropriative; stipulazione degli appalti; vigilanza sull’andamento dei lavori e i collaudi) fino a comprendere ogni compito, seppur atipico a quello di eseguire l’opera ma non estraneo al contratto d’appalto (Cass., SS.UU., nn. 73/2000; 287 e 580/1999; 12622/1998).
Né tale distinguo è venuto meno con la L. n. 584/ 1977 o con il successivo D.Lgs. n. 406/1991 che hanno equiparato i due istituti soltanto “ai fini della presente legge”, contenente norme di adeguamento delle procedure di aggiudicazione alle direttive comunitarie (Cass., SS.UU., nn. 12166/1993; 12966/1991; 12221/1990).
Tale disciplina è mutata solo dopo la L. n. 109/1994, che in attuazione della Dir. 89/440/CEE ha disposto nell’art. 19 che “i lavori pubblici di cui alla presente legge possono essere realizzati esclusivamente mediante contratti di appalto o di concessione di lavori pubblici” qualificando i primi come contratti a titolo oneroso conclusi in forma scritta e aventi per oggetto anche la progettazione esecutiva e l’esecuzione dei lavori pubblici e contrapponendovi (al comma 2) le concessioni di lavori pubblici definite come contratti “aventi a oggetto la progettazione definitiva, la progettazione esecutiva e l’esecuzione dei lavori pubblici, o di pubblica utilità, e di lavori ad essi strutturalmente e direttamente collegati, nonché la loro gestione funzionale ed economica” (Cass., SS.UU., nn. 28804/2011; 19391/2012; 11022/2014).
Tuttavia nel caso in esame, osserva la Cassazione, il Giudice di merito ha accertato che al momento del bando di gara vigevano le previgenti leggi sulla concessione di costruzione, in particolare la n. 584/1977, sicché le obbligazioni e le responsabilità assunte dal concessionario dovevano essere inserite nell’effettivo strumento giuridico di natura pubblicistica di cui le parti avevano inteso avvalersi (Cass., nn. 18611 e 19228/2008 che, sull’accertato presupposto che la concessione di sola costruzione aveva comportato il trasferimento al concessionario di poteri e facoltà appartenenti alla P.A., hanno ritenuto l’ATI a cui era stato delegato il compimento delle espropriazioni responsabile unica -o comunque corresponsabile unitamente all’Ente pubblico- delle espropriazioni illegittime compiute in danno dei proprietari di terreni occupati per la realizzazione dell’opera pubblica: in tal modo smentendo le contrarie conclusioni della sentenza impugnata per cui il contenzioso sugli espropri che aveva concorso a provocare le sospensioni dei lavori, fosse imputabile alla P.A. La Suprema Corte enuclea un altro profilo d’illogicità nel fatto che il Giudice di merito, dopo aver dichiarato la risoluzione del contratto (così essendo già di per sé erroneamente stata ritenuta la concessione) per inadempimento della concedente nonché -in via automatica- l’illegittimità della rescissione pronunciata dalla P.A. (con riguardo agli obblighi del concessionario ritenuti inadempiuti) non ha tenuto conto di detta statuizione, continuando invece la disamina dei comportamenti tenuti dalle parti e individuando i diritti dell’impresa alla stregua di una permanente valenza ed avvenuta esecuzione del contratto; per cui ha valutato -sempre al lume delle riferite erronee premesse- fondamento e legittimità delle sospensioni dei lavori, tempestività e consistenza delle riserve apposte e perfino la decorrenza e il criterio di determinazione della revisione prezzi asseritamente dovuta, senza però individuarne la fonte, pur richiesta dall’art. 33, comma 3, della ora abrogata L. n. 41/1986.
Di contro, una volta che sia stata pronunciata la risoluzione del contratto ex artt. 1453 o 1456 c.c., in forza della sua operatività retroattiva stabilita dall’art. 1458 c.c., si produce per ciascuno dei contraenti e indipendentemente dall’imputabilità dell’inadempienza, rilevante ad altri fini, una totale restitutio in integrum sicché ogni effetto del negozio viene meno e con ciò ogni diritto che ne sarebbero derivato e che si considera come mai entrato nella sfera giuridica dei contraenti stessi (Cass. nn. 3830/2013; 12468/2004; 7470/2001).
Con la conseguenza che, se l’asserito rapporto negoziale è considerato tamquam non esset unitamente al titolo giustificativo della loro attribuzione, non è consentito discutere dei diritti e delle obbligazioni delle parti nascenti dal contratto di cui è stata dichiarata la risoluzione, né in particolare dei crediti (anche risarcitori) e dei debiti maturati a favore dell’appaltatore in conseguenza della sua avvenuta esecuzione, né tanto meno della loro fondatezza e della loro reale consistenza sulla quale si è incentrata la seconda parte della sentenza in palese contrasto con quella precedente: posto che le stesse presuppongono invece un contratto di appalto (fino alla conclusione) valido ed operante, e che invece, intervenuta la sua caducazione giudiziale la disciplina di detti diritti ed obblighi predisposta dalle parti, nonché dei corrispettivi a ciascuna di esse spettanti, oggetto del giudizio, è sostituita con quella introdotta dalla ricordata norma dell’art. 1458 c.c. (Cass. nn. 8247/2009; 22521/2011; 15705/2013; 364/2014) (Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 20.02.2015 n. 3455 - tratto da Urbanistica e appalti n. 4/2015).

EDILIZIA PRIVATA: L’esenzione dal rispetto delle distanze fra costruzioni di cui all'art. 878 cod.civ. si applica anche ai muri di cinta quando l'altezza sia superiore a tre metri.
L'esenzione dal rispetto delle distanze tra costruzioni, prevista dall'art. 878 c.c., si applica sia ai muri di cinta, qualificati dalla destinazione alla recinzione di una determinata proprietà, dall'altezza non superiore a tre metri, dall'emersione dal suolo nonché dall'isolamento di entrambe le facce da altre costruzioni, sia ai manufatti che, pur carenti di alcuni dei requisiti indicati, siano comunque idonei a delimitare un fondo ed abbiano ugualmente la funzione e l'utilità di demarcare la linea di confine e di recingere il fondo.
Per "costruzione", dunque, si intende qualsiasi manufatto dotato di stabilità, solidità ed immobilizzazione al suolo che abbia caratteristiche comunque tali da non poter rientrare nella qualifica di "muro di conta". Questi ultimi infatti sono connotati dall'avere una altezza massima di tre metri da misurarsi dal piano di campagna, altezza che, nella fattispecie, risultava superata
(massima tratta da www.e-glossa.it).
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1.- Il primo motivo, lamentando violazione degli artt. 873 e 878 cod. civ., censura la decisione gravata che, nell'escludere la natura di costruzione del muro realizzato nella proprietà della ricorrente, non aveva tenuto conto che si trattava di un muro di altezza superiore ai tre metri e Che, come tale, non poteva qualificarsi come muro di cinta, che non viene considerato al fine dell'osservanza delle distanze legali.
2.- Il secondo motivo, lamentando violazione degli artt. 873 e 934 cod. civ., deduce che, una volta accertato che il muro-costruzione era di proprietà della convenuta, perché edificato all'interno della sua proprietà, non avrebbero potuto trovare applicazione le norme sulle distanze legali in relazione a un opera -la tettoia- che era stata realizzata all'interno di costruzione preesistente.
3. - Il terzo motivo, lamentando violazione degli artt. 115, 2729 e 950 cod. civ., censura la sentenza impugnata laddove avrebbe ritenuto che il muro de quo non sarebbe all'interno della proprietà di essa ricorrente, facendo riferimento alle mappe catastali, senza peraltro esaminarle in relazione agli altri elementi probatori e in particolare quanto emerso dalla descrizione compiuta dal consulente tecnico.
4.- Il quarto motivo denuncia sotto il profilo del vizio di omessa o insufficiente motivazione le doglianze formulate con il terzo motivo.
5.- I motivi -che, per la stretta connessione, possono essere esaminati congiuntamente- sono infondati.
La sentenza, nel verificare l'inosservanza delle distanze dal confine prescritte dallo strumento urbanistico locale della tettoia edificata dalla convenuta, ha respinto la tesi dell'appellante secondo cui la tettoia non sarebbe soggetta al rispetto del distacco, in quanto collocata all'interno del muro-costruzione di proprietà della stessa convenuta; al riguardo i Giudici hanno escluso:
a) innanzitutto che fosse stata fornita la prova che detto muro ricadesse all'interno della proprietà attorea;
b) in ogni caso, anche ove si fosse accolta tale tesi, che lo stesso potesse essere considerato costruzione, dovendo piuttosto qualificarsi come muro di cinta, attesa la funzione di delimitazione dei fondi; pertanto, il manufatto edificato all'interno avrebbe dovuto rispettare la distanza dal confine.
Orbene, la decisione è corretta, posto che
un muro può essere qualificato come muro di cinta quando ha determinate caratteristiche: destinazione a recingere una determinata proprietà, altezza non superiore a tre metri, emergere dal suolo ed avere entrambe le facce isolate dalle altre costruzioni; in presenza di tali caratteristiche è applicabile la disciplina prevista dall'art. 878 cod. civ. e dalle norme di esso integrative, in ordine all'esenzione dal rispetto delle distanze tra costruzioni; tuttavia, tale normativa si applica anche nel caso in cui si abbia un manufatto in tutto o in parte carente di alcune di esse, purché sia idoneo a delimitare un fondo e gli possa ugualmente essere riconosciuta la funzione e l'utilità di demarcare la linea di confine e di recingere il fondo (Cass. 8671/2001; 2940/1992).
Ne consegue che correttamente la sentenza impugnata ha escluso che il muro de quo potesse essere considerato costruzione al fine del calcolo delle distanze
(Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 16.02.2015 n. 3037).

PATRIMONIOÈ il Comune l’unico responsabile del marciapiede. Oneri. La competenza per danni e manutenzione.
Sono molti i Comuni che hanno deliberato ordinanze con le quali attribuiscono ai condòmini l’onere di curare la manutenzione del tratto di marciapiede antistante lo stabile (soprattutto l’onere di spargere sul marciapiede antistante ai palazzi il sale nei periodi invernali), liberandosi così dalle spese di gestione dei marciapiedi e dalla responsabilità in caso di incidenti dovuti alla mancata o inesatta manutenzione. Ma queste ordinanze non possono ribaltare sui condomìni le responsabilità dei danni causati a terzi da mancata manutenzione.
Il marciapiedi antistante al condominio, infatti, a differenza dei cortili e degli spazi interni, è suolo pubblico e quindi appartiene totalmente alla pubblica amministrazione. Il decreto legislativo 285/1992 (codice della Strada) definisce chiaramente il concetto di strada pubblica e annovera i marciapiedi nel demanio.
L’articolo 3, numero 33, infatti, specifica che si intende per marciapiede «parte della strada, esterna alla carreggiata, rialzata o altrimenti delimitata e protetta, destinata ai pedoni». Ed è quindi illegittimo che una semplice ordinanza comunale deroghi a un decreto legislativo.
In particolare, il Comune mantiene la proprietà del marciapiedi anche per la porzione antistante allo stabile condominiale e tale diritto di proprietà comprende l’onere di effettuare le opere di manutenzione dovute e necessarie. Non esiste quindi alcun obbligo in capo al condominio e al suo amministratore di effettuare riparazioni o manutenzioni per rendere sicuro o agibile il marciapiedi. Si può affermare quindi che l’estensione del condominio arriva fino alle proprie mura esterne (tranne che esiste un’area «di sedime» dell’edificio), e che il marciapiede antistante non ne faccia parte.
Questa affermazione risulta cruciale, oltre che per le spese di manutenzione già accennate, al fine di determinare chi debba rispondere dei danni cagionati dal marciapiede.
Sul punto risulta chiara una sentenza emessa dalla IV Sez. sez. civile del TRIBUNALE di Torino, che con sentenza 05.12.2012 dirimeva ogni dubbio in merito a queste problematiche.
Nel caso in oggetto un passante era scivolato sul marciapiede a causa della neve accumulatasi, e aveva chiesto un risarcimento al condominio antistante al camminamento. Nell’atto di citazione la parte attrice aveva citato il condominio, in persona del suo amministratore pro tempore, ritenuto proprietario del marciapiede e quindi onerato dello spargimento del sale.
La difesa del condominio era stata, principalmente, quella di contestare la propria legittimazione a stare in giudizio. Il legale dello stabile, infatti, aveva sottolineato come il marciapiede fosse indiscutibilmente parte della strada e quindi del demanio comunale. Di conseguenza, a prescindere da eventuali ordinanze comunali di senso contrario, era lo stesso Comune a doversi occupare della manutenzione della carreggiata, compreso lo spargimento di sale in periodo invernale. Il giudice ha dato ragione al condominio.
È infatti responsabile per i danni cagionati dalla cosa in custodia colui che ha del bene la custodia, intesa come potere di gestione. E, come chiarisce il Codice della strada, «gli enti proprietari delle strade (...) provvedono: a) alla manutenzione, gestione e pulizia delle strade, delle loro pertinenze e arredo, nonché delle attrezzature, impianti e servizi»
(articolo Il Sole 24 Ore del 25.08.2015).

EDILIZIA PRIVATA: Nell'ambito delle opere edilizie, la semplice ristrutturazione si verifica ove gli interventi, comportando modificazioni esclusivamente interne, abbiano interessato un edificio del quale sussistano (e, all'esito degli stessi, rimangano inalterate) le componenti essenziali, quali i muri perimetrali, le strutture orizzontali, la copertura, mentre è ravvisabile la ricostruzione allorché dell'edificio preesistente siano venute meno, per evento naturale o per volontaria demolizione, dette componenti, e l'intervento si traduca nell'esatto ripristino delle stesse operato senza alcuna variazione rispetto alle originarie dimensioni dell'edificio, e, in particolare, senza aumenti della volumetria, né delle superfici occupate in relazione alla originaria sagoma di ingombro.
In presenza di tali aumenti, si verte, invece, in ipotesi di nuova costruzione, da considerare tale, ai fini del computo delle distanze rispetto agli edifici contigui come previste dagli strumenti urbanistici locali, nel suo complesso, ove lo strumento urbanistico rechi una norma espressa con la quale le prescrizioni sulle maggiori distanze previste per le nuove costruzioni siano estese anche alle ricostruzioni, ovvero, ove una siffatta norma non esista, solo nelle parti eccedenti le dimensioni dell'edificio originario
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Nozione, questa, che non muta ove si abbia riguardo alla legge n. 457 del 1978, invocata dal ricorrente, atteso che in proposito si è affermato che, "
in base all'art. 31, primo comma, lett. d), della legge 05.08.1978, n. 457, costituiscono ristrutturazioni edilizie, con conseguente esonero dall'osservanza delle prescrizioni sulle distanze per le nuove costruzioni, gli interventi su fabbricati ancora esistenti e, dunque, su entità dotate quanto meno di murature perimetrali, di strutture orizzontali e di copertura, tali da assolvere alle loro essenziali funzioni di delimitazione, sostegno e protezione dell'entità stessa. Ne consegue che, pur non esulando dal concetto normativo di ristrutturazione edilizia la demolizione del fabbricato ove sia seguita dalla sua fedele ricostruzione, ai fini della qualificazione di un intervento ricostruttivo come ristrutturazione, da un lato, non è sufficiente che un anteriore fabbricato sia fisicamente individuabile in tutta la sua perimetrazione, essendo indispensabile a soddisfare il requisito della sua esistenza che non sia ridotto a spezzoni isolati, rovine, ruderi e macerie, e, dall'altro, che la ricostruzione di esso, oltre ad essere effettuata in piena conformità di sagoma, di volume e di superficie, venga eseguita in un tempo ragionevolmente prossimo a quello della avvenuta demolizione per cause naturali od opera dell'uomo".
Invero, "
in materia urbanistica tra gli interventi di recupero del patrimonio edilizio esistente, anche alla luce del disposto dell'art. 31 legge 05.08.1978, n. 457, possono rientrare le sostituzioni di manufatti precedenti con costruzioni completamente nuove, purché il risultato finale, per quanto rimaneggiato ed in parte ricostruito, conservi la struttura e la funzionalità precedenti e non si tratti di un'opera del tutto nuova, sia strutturalmente che funzionalmente. Detto accertamento è compito del giudice dei merito e non è sindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato".
La semplice constatazione dell'aumento di superficie e di volumetria è quindi sufficiente a rendere l'intervento edilizio non riconducibile ai paradigma normativo della ristrutturazione e all'esonero dall'osservanza delle distanze legali previsto per detto tipo di interventi.

Con il secondo motivo, il ricorrente denuncia violazione dell'art. 31 della legge n. 457 del 1978 e dell'art. 58, punto 4, delle NTA del PRG del Comune di Ruino.
Il ricorrente, sulla premessa che gli interventi di ristrutturazione edilizia di cui alla citata legge possono portare alla realizzazione di un organismo edilizia in tutto o in parte diverso da quello preesistente, anche quanto alla superficie e alla volumetria, e che il manufatto oggetto di causa era un rustico in zona agricola e quindi una infrastruttura produttiva, sostiene che la Corte d'appello avrebbe errato a ritenere che il modestissimo ampliamento della superficie non consentisse la qualificazione dell'intervento come ristrutturazione e comunque a non ritenere detto ampliamento ininfluente se rapportato alle dimensioni dell'azienda agricola all'esercizio della quale era destinato.
Il motivo è in parte manifestamente infondato e in parte inammissibile.
La Corte d'appello ha da un lato ritenuto che la definizione degli interventi edilizi contenuta nell'art. 31 della legge n. 457 del 1978 non rilevasse nei rapporti tra privati, essendo detta disposizione finalizzata a disciplinare i rapporti tra privati e amministrazione; dall'altro, che l'eccezione relativa all'applicabilità dell'art. 54 delle norme tecniche introduceva una questione nuova e che l'intervento edilizio non aveva interessato una struttura produttiva.
Orbene, quanto al primo profilo, deve rilevarsi che "
nell'ambito delle opere edilizie, la semplice ristrutturazione si verifica ove gli interventi, comportando modificazioni esclusivamente interne, abbiano interessato un edificio del quale sussistano (e, all'esito degli stessi, rimangano inalterate) le componenti essenziali, quali i muri perimetrali, le strutture orizzontali, la copertura, mentre è ravvisabile la ricostruzione allorché dell'edificio preesistente siano venute meno, per evento naturale o per volontaria demolizione, dette componenti, e l'intervento si traduca nell'esatto ripristino delle stesse operato senza alcuna variazione rispetto alle originarie dimensioni dell'edificio, e, in particolare, senza aumenti della volumetria, né delle superfici occupate in relazione alla originaria sagoma di ingombro. In presenza di tali aumenti, si verte, invece, in ipotesi di nuova costruzione, da considerare tale, ai fini del computo delle distanze rispetto agli edifici contigui come previste dagli strumenti urbanistici locali, nel suo complesso, ove lo strumento urbanistico rechi una norma espressa con la quale le prescrizioni sulle maggiori distanze previste per le nuove costruzioni siano estese anche alle ricostruzioni, ovvero, ove una siffatta norma non esista, solo nelle parti eccedenti le dimensioni dell'edificio originario" (Cass. n. 9637 del 2006; Cass. n. 19287 del 2009).
Nozione, questa, che non muta ove si abbia riguardo alla legge n. 457 del 1978, invocata dal ricorrente, atteso che in proposito si è affermato che, "
in base all'art. 31, primo comma, lett. d), della legge 05.08.1978, n. 457, costituiscono ristrutturazioni edilizie, con conseguente esonero dall'osservanza delle prescrizioni sulle distanze per le nuove costruzioni, gli interventi su fabbricati ancora esistenti e, dunque, su entità dotate quanto meno di murature perimetrali, di strutture orizzontali e di copertura, tali da assolvere alle loro essenziali funzioni di delimitazione, sostegno e protezione dell'entità stessa. Ne consegue che, pur non esulando dal concetto normativo di ristrutturazione edilizia la demolizione del fabbricato ove sia seguita dalla sua fedele ricostruzione, ai fini della qualificazione di un intervento ricostruttivo come ristrutturazione, da un lato, non è sufficiente che un anteriore fabbricato sia fisicamente individuabile in tutta la sua perimetrazione, essendo indispensabile a soddisfare il requisito della sua esistenza che non sia ridotto a spezzoni isolati, rovine, ruderi e macerie, e, dall'altro, che la ricostruzione di esso, oltre ad essere effettuata in piena conformità di sagoma, di volume e di superficie, venga eseguita in un tempo ragionevolmente prossimo a quello della avvenuta demolizione per cause naturali od opera dell'uomo" (Cass. n. 22688 del 2009).
Invero, "
in materia urbanistica tra gli interventi di recupero del patrimonio edilizio esistente, anche alla luce del disposto dell'art. 31 legge 05.08.1978, n. 457, possono rientrare le sostituzioni di manufatti precedenti con costruzioni completamente nuove, purché il risultato finale, per quanto rimaneggiato ed in parte ricostruito, conservi la struttura e la funzionalità precedenti e non si tratti di un'opera del tutto nuova, sia strutturalmente che funzionalmente. Detto accertamento è compito del giudice dei merito e non è sindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato" (Cass. n. 8733 del 2001).
La semplice constatazione dell'aumento di superficie e di volumetria è quindi sufficiente a rendere l'intervento edilizio non riconducibile ai paradigma normativo della ristrutturazione e all'esonero dall'osservanza delle distanze legali previsto per detto tipo di interventi.
Per il primo profilo, quindi, il motivo è manifestamente infondato (Corte di Cassazione, Sezz. unite civili,
ordinanza 19.10.2011 n. 21578).

AGGIORNAMENTO AL 21.08.2015

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IN EVIDENZA

INCARICHI PROFESSIONALI:
nulla di nuovo sotto il sole ma, semplicemente, vogliamo ricordarlo a beneficio di quei dirigenti/apicali duri di comprendonio (ancora molti, purtroppo) ovvero che vogliono -imperterriti- assaporare forti emozioni giocando alla "roulette russa" col proprio portafoglio:
la Corte dei Conti, Sez. di controllo, "controlla" la deliberazione/determinazione di incarico professionale (all'esterno dell'ente) ed invia il fascicolo ai "cugini" della porta accanto della Sez. giurisdizionale (PROCURA!)
BUONA LETTURA... e buona fortuna.

     La Corte dei Conti, Sez. di controllo, nel caso di specie censura l'operato del Comune laddove quest'ultimo incarica un professionista esterno all'ente quale responsabile dell'UTC anziché ricorrere alle professionalità interne esistenti:
 

INCARICHI PROFESSIONALIL'’amministrazione deve svolgere le sue funzioni con la propria organizzazione e il proprio personale; conseguentemente, il ricorso a rapporti di collaborazione con “soggetti esterni è consentito solo nei casi previsti dalla Legge, od in relazione ad eventi straordinari, non sopperibili con la struttura burocratica esistente”.
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II) Il controllo delle sezioni regionali sulle singole determinazioni di affidamento di incarichi a soggetti esterni alle amministrazioni locali.
L’art. 1, comma 173, della legge 23.12.2005, n. 266, ha previsto che gli atti di spesa relativi ai precedenti commi 9 (
ndr: studi ed incarichi di consulenza conferiti a soggetti estranei all'amministrazione), 10 (ndr: spese per relazioni pubbliche, convegni, mostre, pubblicità e di rappresentanza), 56 (ndr: somme riguardanti indennità, compensi, retribuzioni o altre utilità comunque denominate, corrisposti per incarichi di consulenza) e 57 (ndr: contratti di consulenza) di importo superiore a 5.000 euro devono essere trasmessi alla competente sezione della Corte dei conti per l'esercizio del controllo successivo sulla gestione.
Questa Sezione ha già affermato che “
l’accertamento dell’illegittimità per il mancato rispetto di una o più dei requisiti di legge (talora verificabile nei limiti di sindacabilità di scelte discrezionali) comporta da un lato l’obbligo di rimuovere, ove possibile, l’atto con un provvedimento di secondo grado e dall’altro la responsabilità del soggetto che lo ha posto in essere”.
Si aggiunga che
un utilizzo improprio delle collaborazioni esterne per ricoprire uffici dell’ente è fonte di responsabilità. Questo principio -affermato dalla giurisprudenza contabile in materia di conferimento di incarichi esterni nella P.A.- è stato recentemente fatto proprio dal legislatore nell'articolo 22, comma 2, della legge n. 69 del 2009, e poi dall'articolo 17, comma 27, della legge n. 102 del 2009, che hanno novellato l’articolo 7, comma 6, del d.lgs. n. 165/2001.
Nel nuovo art. 7 T.U. Pubbl. Imp., infatti, è stato previsto che
il ricorso a contratti di collaborazione coordinata e continuativa per lo svolgimento di funzioni ordinarie o l'utilizzo dei collaboratori come lavoratori subordinati è causa di responsabilità amministrativa per il dirigente che ha stipulato i contratti.
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Occorre indicare quali sono in linea generale i presupposti di legittimità per il conferimento di “incarichi esterni” (presupposti di carattere sostanziale e procedimentale) che la Corte dei Conti valuta nello svolgimento dell’attività di controllo attribuitale dall’art. 1, comma 173, della legge 23.12.2005, n. 266.
Il nuovo testo del sesto comma dell’art. 7 T.U. Pubb. Imp.
qualifica “come presupposti di legittimità tutti i requisiti già ritenuti dalla giurisprudenza contabile necessari per il ricorso ad incarichi di collaborazione o di studio”.
   1) La rispondenza dell’incarico agli obiettivi dell’amministrazione.
In merito a questo presupposto, questa Sezione ha già chiarito che “
il requisito della corrispondenza della prestazione alla competenza attribuita dall’ordinamento all’amministrazione conferente è determinato dal poter ricorrere a contratti di collaborazione autonoma solo con riferimento alle attività istituzionali stabilite dalla legge o previste dal programma approvate dal Consiglio dell’ente locale ai sensi dell’art. 42 del D.lvo 267/2000”.
   2) L’inesistenza, all’interno della propria organizzazione, della figura professionale idonea allo svolgimento dell’incarico, da accertare per mezzo di una reale ricognizione.
   3) L’indicazione specifica dei contenuti e dei criteri per lo svolgimento dell’incarico.
   4) L’indicazione della durata dell’incarico.
   5) La proporzione fra il compenso corrisposto all’incaricato e l’utilità conseguita dall’amministrazione.
Sotto il profilo della spesa è, tuttavia, doveroso ricordare che “
il comma 3 dell’art. 46 del D.L. 112/2008, unificando ai fini dell’inserimento nel regolamento di cui all’art. 89 del D.lvo 267/2000 tutti gli incarichi di collaborazione autonoma, ha eliminato l’obbligo di individuare nel regolamento il livello massimo di spesa sostenibile per taluni di essi, prevedendo invece la fissazione del limite massimo annuale nel bilancio preventivo degli enti territoriali. E’, pertanto, necessario accertare in sede di conferimento degli incarichi l’esistenza di un apposito stanziamento di spesa ed il rispetto del suo limite".
   6) Il requisito della “comprovata specializzazione universitaria”.
Le amministrazioni, per esigenze cui non possono far fronte con personale in servizio, possono conferire incarichi individuali (con contratti di lavoro autonomo professionale, occasionale o di collaborazione coordinata e continuativa)
a esperti “di particolare e comprovata specializzazione universitaria”.
   7) Obbligo di motivazione della determina con cui viene affidato l’incarico esterno.
Le Sezioni Riunite della Corte dei Conti hanno già ricordato che “
l’atto di incarico deve contenere tutti gli elementi costitutivi ed identificativi previsti per i contratti della Pubblica Amministrazione ed in particolare oggetto della prestazione, durata dell’incarico, modalità di determinazione del corrispettivo e del suo pagamento, ipotesi di recesso, verifiche del raggiungimento del risultato. Quest’ultima verifica è peraltro indispensabile in ipotesi di proroga o rinnovo dell’incarico. In ogni caso tutti i presupposti che legittimano il ricorso alla collaborazione debbono trovare adeguata motivazione nelle delibere di incarico”.
   8) La valutazione del revisore o del collegio dei revisori dei conti.
In numerose delibere le Sezioni Regionali di Controllo hanno ribadito che
le disposizioni della legge 311/2004 (finanziaria 2005) concernenti la valutazione dell’organo interno di revisione, non sono state né abrogate esplicitamente dalla finanziaria per l’anno 2006 né sono incompatibili con la disciplina intervenuta successivamente, pertanto tale obbligo permane.
L’obbligo di verifica da parte dell’organo di revisione riguarda il singolo atto di spesa e assolve a finalità nettamente distinte da quelle affidate al controllo sulla gestione di pertinenza della magistratura contabile. L’intervento del revisore contabile è necessario quale titolare di funzioni di controllo interno all’ente e di raccordo con gli organi di controllo esterno.
   9) L’obbligo di seguire procedure comparative.
Ogni Amministrazione deve adottare e rendere pubbliche le procedure comparative per il conferimento degli incarichi di collaborazione (comma 6-bis, art. 7, D. Lg.vo n. 165/2001).
Tale obbligo è considerato dalla giurisprudenza amministrativa un adempimento essenziale per la legittima attribuzione di incarichi di collaborazione. Di fatto, però, la norma è stata disattesa dalla maggior parte degli enti.
Una parte della Giurisprudenza amministrativa ha ricordato che “
l'affidamento di incarichi di consulenza e/o di collaborazione da conferire a soggetti esterni alla Pubblica amministrazione non può prescindere dal preventivo svolgimento di una selezione comparativa adeguatamente pubblicizzata”.
   10) L’obbligo pubblicazione degli elenchi sul sito web istituzionale.
La legge finanziaria per il 2008 modificando il comma 127, art. 1, della legge n. 662/1996, impone alle amministrazioni (anche gli enti locali) che si avvalgono di collaboratori esterni o che affidano incarichi di consulenza per i quali è previsto un compenso, di pubblicare sul proprio sito web i relativi provvedimenti, con l’indicazione dei soggetti percettori, della ragione dell’incarico e dell’ammontare erogato.
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III) Profili di non conformità a legge degli atti di affidamento di incarico oggetto della presente deliberazione.
Il comune, mediante elusione, non ha rispettato il Patto di stabilità per l’anno 2010 ed ha violato il Patto di stabilità per l’anno 2011.
Il vigente Regolamento per l’affidamento di incarichi individuali di collaborazione autonoma approvata dalla Giunta Comunale stabilisce che “
in caso di mancato rispetto del Patto di stabilità, sussistendone l’obbligo, non possono essere conferiti incarichi nell’anno successivo”.
Si rileva quindi la mancanza del presupposto di legittimità per l’affidamento di incarichi per gli esercizi 2012 e 2013, in palese violazione del regolamento comunale.
Incarichi conferiti alla geom. T.A. per attività inerenti l’edilizia privata ed urbanistica.
Le deliberazioni di giunta comunale n. 35 del 31.01.2012 e n. 166 del 18.12.2012 con le quali è stato affidato l’incarico di prestazione di opera intellettuale alla geom. T.A. per attività inerenti l’edilizia privata ed urbanistica presentano sia vizi sostanziali sia vizi procedimentali; il comune, contravvenendo ai principi in precedenza esposti, ha fatto ricorso all’istituto della collaborazione professionale esterna in violazione di norme di legge, atteso che la prestazione in questione si è sempre risolta, nella sostanza, in una mera ridondanza delle mansioni che avrebbe dovuto svolgere per dovere istituzionale un pubblico impiegato alle dipendenze dell’amministrazione comunale.
Il lasso temporale in cui sono stati conferiti gli incarichi alla professionista in questione, senza peraltro mai valutare con tenore esplicito il buon esito del precedente incarico ed il raggiungimento degli obiettivi prefissati, si è tradotto in una surrettizia instaurazione di un rapporto di lavoro subordinato a tempo determinato in violazione del principio dell’accesso concorsuale ai pubblici uffici.
Alla luce di quanto già esposto nella prima parte di questa deliberazione, il comune ha violato le seguenti norme di legge:
   1. Violazione dell’art. 7 TUPI che impone lo svolgimento di procedure comparative per l’affidamento di ogni incarico esterno, salve le eccezioni previste.
Ogni Amministrazione deve adottare e rendere pubbliche le procedure comparative per il conferimento degli incarichi di collaborazione (comma 6-bis, art. 7, D.Lg.vo n. 165/2001). Tale obbligo è considerato dalla giurisprudenza amministrativa un adempimento essenziale per la legittima attribuzione di incarichi di collaborazione. Infatti, “
l'affidamento di incarichi di consulenza e/o di collaborazione da conferire a soggetti esterni alla Pubblica amministrazione non può prescindere dal preventivo svolgimento di una selezione comparativa adeguatamente pubblicizzata”.
In proposito questa Sezione ribadisce che
l’art. 7 TUPI che
impone l’espletamento di procedure comparative a prescindere dall’importo pattuito. Detta regola trova solo tre tassative eccezioni (“procedura comparativa andata deserta”; “unicità della prestazione sotto il profilo soggettivo”; “assoluta urgenza determinata dalla imprevedibile necessità della consulenza in relazione ad un termine prefissato o ad un evento eccezionale”).
Dunque,
poiché nel caso di specie non ricorre nessuna di queste tre ipotesi aventi carattere eccezionale, questa Sezione ritiene che il comune, avendo proceduto all’affidamento diretto dell’incarico, abbia violato il disposto dell’art. 7 TUPI che impone l’espletamento di una procedura comparativa per la selezione dell’affidatario di un incarico esterno.

   2. Violazione dell’art. 7 TUPI in merito alla durata dell’incarico e al contenuto delle mansioni affidate esternamente.
Con riferimento all’indeterminatezza dell’oggetto della prestazione, le osservazioni contenute nelle memorie prodotte dall’amministrazione sono destituite di ogni fondamento giuridico, posto che risulta per tabulas che l’oggetto degli incarichi alla geom. T.A. sono ”le attività inerenti l’edilizia privata ed urbanistica”, senza alcuna specificazione circa la specialità e la contestualizzazione delle prestazioni, tale da dissimulare nell’asserito incarico di collaborazione professionale l’instaurazione surrettizia di un rapporto di lavoro pubblico a tempo determinato in carenza di procedure concorsuali o selettive dei possibili candidati.
Infine, si osserva che la durata del rapporto intercorso tra il comune e la geom. T.A. (ovvero, primo incarico a decorrere dal 2012 successivamente prorogato a tutto il 2013) non risponde ai principi più volte ribaditi dalla Magistratura contabile secondo cui
la durata dei contratti di collaborazione (ex art. 7, c. 6, del d.lgs. n. 165/2001) devono avere “natura temporanea, in quanto conferiti allo scopo di sopperire ad esigenze di carattere temporaneo per le quali l’amministrazione non possa oggettivamente fare ricorso alle risorse umane e professionali presenti al suo interno. Al riguardo, infatti, l’indirizzo giurisprudenziale prevalente in materia considera l’incarico di collaborazione coordinata e continuativa non rinnovabile e non prorogabile, se non a fronte di un ben preciso interesse dell’Amministrazione committente, adeguatamente motivato ed al solo fine di completare le attività oggetto dell’incarico, limitatamente all’ipotesi di completamento di attività avviate contenute all’interno di uno specifico progetto”.
Infatti,
l’istituto giuridico della proroga deve essere collegato alla possibilità che il progetto, per il quale è stato conferito l’incarico, non venga portato a compimento. La “proroga si configura, essenzialmente, come spostamento in avanti del termine contrattuale, e, dunque, come una sorta di ultra-attività del contratto originario”.
Nel caso di specie non è riscontrabile il presupposto di eccezionalità, in quanto la necessità di un dipendente con professionalità tecniche per l’ente locale rappresenta una esigenza organizzativa che si configura come permanente.
Ne consegue che
l’ente locale conferente non può fare ricorso all’affidamento di incarichi a soggetti estranei per lo svolgimento di funzioni ordinarie, attribuibili a personale che dovrebbe essere previsto in organico, altrimenti questa esternalizzazione si tradurrebbe in una forma atipica di assunzione, “con conseguente elusione delle disposizioni in materia di accesso all’impiego nelle Pubbliche amministrazioni, nonché di contenimento della spesa di personale”.
In conclusione, l’amministrazione comunale deve attenersi all’insegnamento delle Sezioni Riunite della Corte dei Conti: “
fermo restando il limite della spesa storica riferito al 2004, gli enti non sottoposti alle regole del patto di stabilità possono procedere, ai sensi del combinato disposto dei commi 557, 557-bis e 562 dell’art. 1 della legge 27.12.2006 n. 296 (legge finanziaria per il 2007) e dell’art. 76, comma 7, del d.l. n. 112/2008, all’instaurazione in via temporanea ed occasionale di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa o per programma anche se non vi siano state corrispondenti cessazioni di rapporti di lavoro a tempo indeterminato, a condizione che:
- detti rapporti di collaborazione coordinata e continuativa o per programma abbiano carattere temporaneo nelle more di un’adeguata programmazione del personale e di una riorganizzazione degli uffici in forma associata;
- l’esercizio di funzioni pubbliche indefettibili venga assicurato, prioritariamente e a regime, mediante la previsione in organico di adeguato e qualificato personale;
- il ricorso a tali forme di collaborazione non costituisca occasione di elusione dei limiti di spesa previsti in tema di contenimento di spesa pubblica, ed in particolare di incarichi di consulenza
”.
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La Corte dei conti Sezione regionale di controllo per la Lombardia
accerta che gli atti di affidamento di incarico esterno del comune sopra individuati, non sono conformi ai presupposti di legge come esposti in parte motiva.
Dispone che la presente deliberazione sia trasmessa alla Procura regionale della Corte dei conti per le determinazioni di competenza.

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Le recenti novelle legislative che hanno inciso sulla disciplina degli atti di affidamento delle consulenze da parte degli enti locali sono accomunate da un indiscusso principio ispiratore:
l’amministrazione deve svolgere le sue funzioni con la propria organizzazione e il proprio personale; conseguentemente, il ricorso a rapporti di collaborazione con “soggetti esterni è consentito solo nei casi previsti dalla Legge, od in relazione ad eventi straordinari, non sopperibili con la struttura burocratica esistente (in questo senso, si veda la sentenza 20.03.2006 n. 122 della Corte Conti, II sez. app.).
La crescita del fenomeno e l’utilizzo improprio delle collaborazioni negli ultimi anni hanno spinto il Legislatore ad intervenire in materia con disposizioni restrittive ai fini del contenimento della spesa. Si vedano, ad esempio, le disposizioni di cui agli artt. 34 della Legge 27.12.2002, n. 289, 3 della Legge 24.12.2003, n. 350 e 1, commi 9 e 11 del decreto Legge 12.07.2004, n. 168, convertito con Legge 30.07.2004, n. 191 (sostituite, a decorrere dal 01.01.2005, dall’articolo 1, commi 11 e 42, della Legge 30.12.2004, n. 311) con l’introduzione di fattispecie tipizzate di illecito amministrativo contabile, per cui la violazione del disposto normativo “costituisce illecito disciplinare e determina responsabilità erariale”.
In questo contesto va inquadrata la funzione di controllo esercitata dalle sezioni regionali della Corte dei conti sugli atti di affidamento di consulenze esterne; funzione che la magistratura svolge su due livelli, ovvero su quello più generale che investe l’esercizio della potestà regolamentare dell’ente locale conferente, nonché su quello più specifico che attiene la singola determina di affidamento dell’incarico.
I) Il controllo della sez. regionale della Corte dei Conti sui regolamenti adottati dagli Enti locali per l'affidamento di incarichi di collaborazione autonoma.
Con riferimento all’attività di controllo che la Corte dei Conti esercita a livello di regolamentazione adottata dagli enti, in questa sede, è sufficiente ricordare che l’art. 3 della legge Finanziaria per l’anno 2008 (legge 24/12/2007 n. 244), come sostituito dall’art. 46, comma 3, D.L. 25.06.2008, n. 112 e relativa legge di conversione, al comma 56 recita che “
con il regolamento di cui all'articolo 89 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, sono fissati, in conformità a quanto stabilito dalle disposizioni vigenti, i limiti, i criteri e le modalità per l'affidamento di incarichi di collaborazione autonoma, che si applicano a tutte le tipologie di prestazioni. La violazione delle disposizioni regolamentari richiamate costituisce illecito disciplinare e determina responsabilità erariale. Il limite massimo della spesa annua per incarichi di collaborazione è fissato nel bilancio preventivo degli enti territoriali”. Il successivo comma 57, poi, sancisce che “le disposizioni regolamentari di cui al comma 56 sono trasmesse, per estratto, alla sezione regionale di controllo della Corte dei conti entro trenta giorni dalla loro adozione”.
Questa Sezione con il
parere 11.03.2008 n. 37, parere 06.11.2008 n. 224 e parere 11.02.2009 n. 37 ha individuato alcuni principi che devono informare le disposizioni regolamentari in materia (si vedano anche i più recenti, Lombardia parere 30.06.2010 n. 715 e Lombardia parere 22.10.2010 n. 967).
Nel caso di specie, tuttavia, la verifica di questa Sezione si incentra sulle singole determinazioni di affidamento di incarico esterno di cui si è detto in premessa; conseguentemente, è opportuno soffermarsi sui presupposti di carattere procedimentale e sostanziale che devono ricorrere per qualificare come conforme alla disciplina la determina in parola.
II) Il controllo delle sezioni regionali sulle singole determinazioni di affidamento di incarichi a soggetti esterni alle amministrazioni locali.
L’art. 1, comma 173, della legge 23.12.2005, n. 266, ha previsto che gli atti di spesa relativi ai precedenti commi 9 (
ndr: studi ed incarichi di consulenza conferiti a soggetti estranei all'amministrazione), 10 (ndr: spese per relazioni pubbliche, convegni, mostre, pubblicità e di rappresentanza), 56 (ndr: somme riguardanti indennità, compensi, retribuzioni o altre utilità comunque denominate, corrisposti per incarichi di consulenza) e 57 (ndr: contratti di consulenza) di importo superiore a 5.000 euro devono essere trasmessi alla competente sezione della Corte dei conti per l'esercizio del controllo successivo sulla gestione.
La finalità di tale previsione normativa è riconducibile all’accertamento, di tipo collaborativo, da parte della Corte, dell’idoneità dell’attività amministrativa posta in essere dagli enti locali a raggiungere determinati risultati, attraverso una verifica della sua efficacia, efficienza ed economicità, che non può comunque prescindere da un riscontro della conformità della stessa a norme giuridiche.
Questa Sezione ha già affermato che “
l’accertamento dell’illegittimità per il mancato rispetto di una o più dei requisiti di legge (talora verificabile nei limiti di sindacabilità di scelte discrezionali) comporta da un lato l’obbligo di rimuovere, ove possibile, l’atto con un provvedimento di secondo grado e dall’altro la responsabilità del soggetto che lo ha posto in essere” (Sez. contr. Reg. Lombardia, n. 244/2008).
Si aggiunga che
un utilizzo improprio delle collaborazioni esterne per ricoprire uffici dell’ente è fonte di responsabilità. Questo principio -affermato dalla giurisprudenza contabile in materia di conferimento di incarichi esterni nella P.A.- è stato recentemente fatto proprio dal legislatore nell'articolo 22, comma 2, della legge n. 69 del 2009, e poi dall'articolo 17, comma 27, della legge n. 102 del 2009, che hanno novellato l’articolo 7, comma 6, del d.lgs. n. 165/2001.
Nel nuovo art. 7 T.U. Pubbl. Imp., infatti, è stato previsto che
il ricorso a contratti di collaborazione coordinata e continuativa per lo svolgimento di funzioni ordinarie o l'utilizzo dei collaboratori come lavoratori subordinati è causa di responsabilità amministrativa per il dirigente che ha stipulato i contratti.
Prima di procedere alla verifica di conformità alla disciplina giuridica vigente dell’incarico esterno conferito dall’amministrazione comunale di Pontevico,
occorre indicare quali sono in linea generale i presupposti di legittimità per il conferimento di “incarichi esterni” (presupposti di carattere sostanziale e procedimentale) che la Corte dei Conti valuta nello svolgimento dell’attività di controllo attribuitale dall’art. 1, comma 173, della legge 23.12.2005, n. 266.
Il nuovo testo del sesto comma dell’art. 7 T.U. Pubb. Imp. (modificato dall’art. 3, comma 76, della l. n. 244/2007, poi sostituito dall’art. 46, comma 1, d.l. n. 112/2008) qualifica “come presupposti di legittimità tutti i requisiti già ritenuti dalla giurisprudenza contabile necessari per il ricorso ad incarichi di collaborazione o di studio (Sez. Contr. Reg. Lombardia,
parere 06.11.2008 n. 224).
   1) La rispondenza dell’incarico agli obiettivi dell’amministrazione.
In merito a questo presupposto, questa Sezione ha già chiarito che “
il requisito della corrispondenza della prestazione alla competenza attribuita dall’ordinamento all’amministrazione conferente è determinato dal poter ricorrere a contratti di collaborazione autonoma solo con riferimento alle attività istituzionali stabilite dalla legge o previste dal programma approvate dal Consiglio dell’ente locale ai sensi dell’art. 42 del D.lvo 267/2000” (Sez. contr. Reg. Lombardia,
parere 11.02.2009 n. 37, nonché Sez. Reg. Lombardia, n. 244/2008).
   2) L’inesistenza, all’interno della propria organizzazione, della figura professionale idonea allo svolgimento dell’incarico, da accertare per mezzo di una reale ricognizione.
   3) L’indicazione specifica dei contenuti e dei criteri per lo svolgimento dell’incarico.
   4) L’indicazione della durata dell’incarico.
   5) La proporzione fra il compenso corrisposto all’incaricato e l’utilità conseguita dall’amministrazione.
Sotto il profilo della spesa è, tuttavia, doveroso ricordare che
il comma 3 dell’art. 46 del D.L. 112/2008, unificando ai fini dell’inserimento nel regolamento di cui all’art. 89 del D.lvo 267/2000 tutti gli incarichi di collaborazione autonoma, ha eliminato l’obbligo di individuare nel regolamento il livello massimo di spesa sostenibile per taluni di essi, prevedendo invece la fissazione del limite massimo annuale nel bilancio preventivo degli enti territoriali. E’, pertanto, necessario accertare in sede di conferimento degli incarichi l’esistenza di un apposito stanziamento di spesa ed il rispetto del suo limite” (Sez. contr. Reg. Lombardia,
parere 11.02.2009 n. 37).
   6) Il requisito della “comprovata specializzazione universitaria”.
Le amministrazioni, per esigenze cui non possono far fronte con personale in servizio, possono conferire incarichi individuali (con contratti di lavoro autonomo professionale, occasionale o di collaborazione coordinata e continuativa) a esperti “di particolare e comprovata specializzazione universitaria.
   7) Obbligo di motivazione della determina con cui viene affidato l’incarico esterno.
Le Sezioni Riunite della Corte dei Conti (delibera 15.02.2005 n. 6/2005) hanno già ricordato che “
l’atto di incarico deve contenere tutti gli elementi costitutivi ed identificativi previsti per i contratti della Pubblica Amministrazione ed in particolare oggetto della prestazione, durata dell’incarico, modalità di determinazione del corrispettivo e del suo pagamento, ipotesi di recesso, verifiche del raggiungimento del risultato. Quest’ultima verifica è peraltro indispensabile in ipotesi di proroga o rinnovo dell’incarico. In ogni caso tutti i presupposti che legittimano il ricorso alla collaborazione debbono trovare adeguata motivazione nelle delibere di incarico” (Sez. contr. Reg. Lombardia, n.
parere 11.02.2009 n. 37).
   8) La valutazione del revisore o del collegio dei revisori dei conti.
In numerose delibere le Sezioni Regionali di Controllo hanno ribadito che
le disposizioni della legge 311/2004 (finanziaria 2005) concernenti la valutazione dell’organo interno di revisione, non sono state né abrogate esplicitamente dalla finanziaria per l’anno 2006 né sono incompatibili con la disciplina intervenuta successivamente, pertanto tale obbligo permane (Corte Conti, sez. reg. contr. Lombardia, delib. n. 231/2009/par. del 14.05.2009; Corte Conti, sez. reg. contr. Lombardia, parere 23.04.2010 n. 506; contra, ma con affermazione apodittica, delibera in data 17.02.2006 della Sezione delle Autonomie).
L’obbligo di verifica da parte dell’organo di revisione riguarda il singolo atto di spesa e assolve a finalità nettamente distinte da quelle affidate al controllo sulla gestione di pertinenza della magistratura contabile. L’intervento del revisore contabile è necessario quale titolare di funzioni di controllo interno all’ente e di raccordo con gli organi di controllo esterno (Corte Conti, sez. reg. contr. Lombardia, parere 23.04.2010 n. 506; Sez. Contr. Reg. Piemonte,
col parere 18.03.2010 n. 23).
   9) L’obbligo di seguire procedure comparative.
Ogni Amministrazione deve adottare e rendere pubbliche le procedure comparative per il conferimento degli incarichi di collaborazione (comma 6-bis, art. 7, D. Lg.vo n. 165/2001).
Tale obbligo è considerato dalla giurisprudenza amministrativa un adempimento essenziale per la legittima attribuzione di incarichi di collaborazione (TAR Puglia n. 494/2007). Di fatto, però, la norma è stata disattesa dalla maggior parte degli enti.
Una parte della Giurisprudenza amministrativa ha ricordato che “
l'affidamento di incarichi di consulenza e/o di collaborazione da conferire a soggetti esterni alla Pubblica amministrazione non può prescindere dal preventivo svolgimento di una selezione comparativa adeguatamente pubblicizzata” (Cons. St., sent. 28.05.2010, n. 3405).
   10) L’obbligo pubblicazione degli elenchi sul sito web istituzionale.
La legge finanziaria per il 2008 modificando il comma 127, art. 1, della legge n. 662/1996, impone alle amministrazioni (anche gli enti locali) che si avvalgono di collaboratori esterni o che affidano incarichi di consulenza per i quali è previsto un compenso, di pubblicare sul proprio sito web i relativi provvedimenti, con l’indicazione dei soggetti percettori, della ragione dell’incarico e dell’ammontare erogato.
III) Profili di non conformità a legge degli atti di affidamento di incarico oggetto della presente deliberazione.
Preliminarmente occorre osservare che il comune di Pontevico, mediante elusione, non ha rispettato il Patto di stabilità per l’anno 2010 (così come accertato dalla deliberazione di questa Sezione n. 409/2012/PRSE depositata il 25/09/2012, con corredo sanzionatorio per l’anno 2013) ed ha violato il Patto di stabilità per l’anno 2011 (delibera n. 293/2013/PRSE depositata il 25/06/2013, con applicazione delle sanzioni per l’anno 2012, susseguente la violazione).
Ciò premesso, si evidenzia che il vigente Regolamento per l’affidamento di incarichi individuali di collaborazione autonoma approvata dalla Giunta Comunale di Pontevico con deliberazione n. 87 del 21.04.2009, che si applica a tutte le tipologie di prestazioni, all’art. 2, punto 6), stabilisce che “
in caso di mancato rispetto del Patto di stabilità, sussistendone l’obbligo, non possono essere conferiti incarichi nell’anno successivo”.
Si rileva quindi la mancanza del presupposto di legittimità per l’affidamento di incarichi per gli esercizi 2012 e 2013, in palese violazione del regolamento comunale.
Incarichi conferiti alla geom. T.A. per attività inerenti l’edilizia privata ed urbanistica.
Le deliberazioni di giunta comunale del comune di Pontevico n. 35 del 31.01.2012 e n. 166 del 18.12.2012 con le quali è stato affidato l’incarico di prestazione di opera intellettuale alla geom. T.A. per attività inerenti l’edilizia privata ed urbanistica presentano sia vizi sostanziali sia vizi procedimentali; il comune di Pontevico, contravvenendo ai principi in precedenza esposti, ha fatto ricorso all’istituto della collaborazione professionale esterna in violazione di norme di legge, atteso che la prestazione in questione si è sempre risolta, nella sostanza, in una mera ridondanza delle mansioni che avrebbe dovuto svolgere per dovere istituzionale un pubblico impiegato alle dipendenze dell’amministrazione comunale.
Il lasso temporale in cui sono stati conferiti gli incarichi alla professionista in questione, senza peraltro mai valutare con tenore esplicito il buon esito del precedente incarico ed il raggiungimento degli obiettivi prefissati, si è tradotto in una surrettizia instaurazione di un rapporto di lavoro subordinato a tempo determinato in violazione del principio dell’accesso concorsuale ai pubblici uffici.
Alla luce di quanto già esposto nella prima parte di questa deliberazione, il comune di Pontevico ha violato le seguenti norme di legge:
   1. Violazione dell’art. 7 TUPI che impone lo svolgimento di procedure comparative per l’affidamento di ogni incarico esterno, salve le eccezioni previste.
Ogni Amministrazione deve adottare e rendere pubbliche le procedure comparative per il conferimento degli incarichi di collaborazione (comma 6-bis, art. 7, D.Lg.vo n. 165/2001).
Tale obbligo è considerato dalla giurisprudenza amministrativa un adempimento essenziale per la legittima attribuzione di incarichi di collaborazione (TAR Puglia n. 494/2007). Infatti, “
l'affidamento di incarichi di consulenza e/o di collaborazione da conferire a soggetti esterni alla Pubblica amministrazione non può prescindere dal preventivo svolgimento di una selezione comparativa adeguatamente pubblicizzata” (Cons. St., sent. 28.05.2010, n. 3405).
In proposito questa Sezione ribadisce che
l’art. 7 TUPI che impone l’espletamento di procedure comparative a prescindere dall’importo pattuito. Detta regola trova solo tre tassative eccezioni (“procedura comparativa andata deserta”; “unicità della prestazione sotto il profilo soggettivo”; “assoluta urgenza determinata dalla imprevedibile necessità della consulenza in relazione ad un termine prefissato o ad un evento eccezionale”).
Dunque,
poiché nel caso di specie non ricorre nessuna di queste tre ipotesi aventi carattere eccezionale, questa Sezione ritiene che il comune di Pontevico, avendo proceduto all’affidamento diretto dell’incarico, abbia violato il disposto dell’art. 7 TUPI che impone l’espletamento di una procedura comparativa per la selezione dell’affidatario di un incarico esterno.
   2. Violazione dell’art. 7 TUPI in merito alla durata dell’incarico e al contenuto delle mansioni affidate esternamente.
Con riferimento all’indeterminatezza dell’oggetto della prestazione, le osservazioni contenute nelle memorie prodotte dall’amministrazione sono destituite di ogni fondamento giuridico, posto che risulta per tabulas che l’oggetto degli incarichi alla geom. T.A. sono ”le attività inerenti l’edilizia privata ed urbanistica”, senza alcuna specificazione circa la specialità e la contestualizzazione delle prestazioni, tale da dissimulare nell’asserito incarico di collaborazione professionale l’instaurazione surrettizia di un rapporto di lavoro pubblico a tempo determinato in carenza di procedure concorsuali o selettive dei possibili candidati.
Infine, si osserva che la durata del rapporto intercorso tra il comune di Pontevico e la geom. T.A. (ovvero, primo incarico a decorrere dal 2012 successivamente prorogato a tutto il 2013) non risponde ai principi più volte ribaditi dalla Magistratura contabile (ex multis Sezione Centrale del controllo di legittimità sugli atti del Governo e delle Amministrazioni dello Stato, delibera 13.01.2012 n. SCCLEG/1/2012/PREV e la delibera 20.12.2011 n. SCCLEG/24/2011/PREV) secondo cui
la durata dei contratti di collaborazione (ex art. 7, c. 6, del d.lgs. n. 165/2001) devono avere “natura temporanea, in quanto conferiti allo scopo di sopperire ad esigenze di carattere temporaneo per le quali l’amministrazione non possa oggettivamente fare ricorso alle risorse umane e professionali presenti al suo interno. Al riguardo, infatti, l’indirizzo giurisprudenziale prevalente in materia considera l’incarico di collaborazione coordinata e continuativa non rinnovabile e non prorogabile, se non a fronte di un ben preciso interesse dell’Amministrazione committente, adeguatamente motivato ed al solo fine di completare le attività oggetto dell’incarico, limitatamente all’ipotesi di completamento di attività avviate contenute all’interno di uno specifico progetto”.
Infatti,
l’istituto giuridico della proroga deve essere collegato alla possibilità che il progetto, per il quale è stato conferito l’incarico, non venga portato a compimento. La “proroga si configura, essenzialmente, come spostamento in avanti del termine contrattuale, e, dunque, come una sorta di ultra-attività del contratto originario (delibera 13.01.2012 n. SCCLEG/1/2012/PREV cit.).
Nel caso di specie non è riscontrabile il presupposto di eccezionalità, in quanto la necessità di un dipendente con professionalità tecniche per l’ente locale rappresenta una esigenza organizzativa che si configura come permanente.
Ne consegue che
l’ente locale conferente non può fare ricorso all’affidamento di incarichi a soggetti estranei per lo svolgimento di funzioni ordinarie, attribuibili a personale che dovrebbe essere previsto in organico, altrimenti questa esternalizzazione si tradurrebbe in una forma atipica di assunzione, “con conseguente elusione delle disposizioni in materia di accesso all’impiego nelle Pubbliche amministrazioni, nonché di contenimento della spesa di personale (Sezione Centrale del controllo di legittimità sugli atti del Governo e delle Amministrazioni dello Stato, delibera 13.01.2012 n. SCCLEG/1/2012/PREV).
In conclusione, l’amministrazione comunale deve attenersi all’insegnamento delle Sezioni Riunite della Corte dei Conti (delibera n. 20 del 04.04.2011): “
fermo restando il limite della spesa storica riferito al 2004, gli enti non sottoposti alle regole del patto di stabilità possono procedere, ai sensi del combinato disposto dei commi 557, 557-bis e 562 dell’art. 1 della legge 27.12.2006 n. 296 (legge finanziaria per il 2007) e dell’art. 76, comma 7, del d.l. n. 112/2008, all’instaurazione in via temporanea ed occasionale di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa o per programma anche se non vi siano state corrispondenti cessazioni di rapporti di lavoro a tempo indeterminato, a condizione che:
- detti rapporti di collaborazione coordinata e continuativa o per programma abbiano carattere temporaneo nelle more di un’adeguata programmazione del personale e di una riorganizzazione degli uffici in forma associata;
- l’esercizio di funzioni pubbliche indefettibili venga assicurato, prioritariamente e a regime, mediante la previsione in organico di adeguato e qualificato personale;
- il ricorso a tali forme di collaborazione non costituisca occasione di elusione dei limiti di spesa previsti in tema di contenimento di spesa pubblica, ed in particolare di incarichi di consulenza
”.
Dunque, questa Sezione rileva che la criticità denunciata dall’amministrazione comunale (carenza di dipendente con una professionalità idonea a svolgere le attività legate al settore edilizia privata ed urbanistica) non può essere affrontata eludendo i vincoli di finanza pubblica in materia di spesa per il personale e violando le norme sull’affidamento all’esterno degli incarichi professionali (art. 7 TUPI).
P.Q.M.
La Corte dei conti Sezione regionale di controllo per la Lombardia
accerta che gli atti di affidamento di incarico esterno del comune di Pontevico sopra individuati, non sono conformi ai presupposti di legge come esposti in parte motiva.
Invita l’Amministrazione comunale ad adottare gli opportuni provvedimenti per conformare la propria attività ai presupposti normativi per l’affidamento dell’incarico nonché ai principi di buon andamento di cui all’art. 97 Cost..
Dispone che la presente deliberazione sia trasmessa al Presidente del Consiglio comunale e al Sindaco del comune di Pontevico per quanto di competenza.
Dispone che la presente deliberazione sia trasmessa alla Procura regionale della Corte dei conti per le determinazioni di competenza (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, delibera 20.02.2014 n. 84).


     Conseguentemente ed inevitabilmente, la Corte dei Conti -Sez. giurisdizionale- sanziona l'illegittimo modus operandi di cui sopra:
 

INCARICHI PROFESSIONALI: La colpevolezza degli Organi politici, che hanno posto in essere provvedimenti ritenuti forieri di danno, può non assurgere a gravità perseguibile, nel caso in cui gli stessi abbiano adottato le contestate decisioni sulla base del parere di un organo tecnico.
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Il Collegio rileva la sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della responsabilità amministrativa nei confronti degli odierni convenuti
giusti i profili di antigiuridicità delle condotte poste in essere dagli stessi laddove si è contravvenuto alle disposizioni del Regolamento del Comune il quale precisa che “
in caso di mancato rispetto del Patto di stabilità, sussistendone l’obbligo, non possono essere conferiti incarichi nell’anno successivo”.
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Il caso in esame risulta riconducibile al comma 1 dell’art. 110 dlgs n. 267/2000, riferendosi all’affidamento di un posto di funzioni già previsto in pianta organica.
Infatti, la riconducibilità del caso di specie all’ipotesi disciplinata al comma 1 dell’art. 110 del TUEL è peraltro affermata nella stessa iniziale delibera n. 167/2011 di conferimento dell’incarico alla Lo. ove si precisa che
“… si rende necessario provvedere all’individuazione ed al conferimento dell’incarico di responsabile dell’Area Tecnica”.
Pertanto,
rientrando la fattispecie in esame nell’ambito di applicazione del comma 1 dell’art. 110 TUEL, molteplici appaiono i profili di illegittimità che hanno caratterizzato la condotta dei convenuti.
Comunque, anche prescindendo dal fatto che si applichi al caso di specie il comma 1 e non il comma 2 dell’art. 110 del TUEL,
è indubbio che nell'individuazione dei soggetti cui conferire un incarico ai sensi di tale articolo di legge siano insuperabili i fondamentali canoni di legittimità, imparzialità e buon andamento, ai sensi dell'articolo 97 della Costituzione, in ragione dei quali, pur essendo insiti in tali procedure il carattere della discrezionalità ed un margine più o meno ampio di fiduciarietà, è indispensabile che le amministrazioni assumano la relativa determinazione con una trasparente ed oggettiva valutazione della professionalità del soggetto affidatario che non può basarsi su valutazioni meramente soggettive, ma deve essere ancorata quanto più possibile a circostanze oggettive.
L'esigenza di operare scelte discrezionali ancorate a parametri quanto più possibili oggettivi e riscontrabili evidenzia l'opportunità che le amministrazioni si dotino preventivamente di un sistema di criteri generali per l'affidamento, il mutamento e la revoca degli incarichi. Ciò al fine di consolidare anche in questo ambito la trasparenza e ridurre le possibilità di contenzioso.
Tale convincimento si fonda anche su costante giurisprudenza del
la Corte Costituzionale che
ha espresso un chiaro orientamento volto ad escludere l’esistenza di una “dirigenza di fiducia” e dunque la possibilità di un’interpretazione della normativa vigente nel senso di ammettere la scelta discrezionale, senza limiti, dei soggetti esterni all’ente cui conferire gli incarichi, nonché la necessità di forme di pubblicità che assicurino la trasparenza, procedure comparative anche non concorsuali, richiedendo quindi una procedimentalizzazione dell’iter da seguire.
Con riferimento al caso di specie
gli odierni convenuti, ciascuno secondo il ruolo ricoperto nell’adozione delle deliberazioni in argomento, hanno, invece, determinato il conferimento diretto dell’incarico ad personam alla Lo., senza avere preventivamente fissato i criteri per la selezione e valutazione dei curricula dei potenziali aspiranti né adottato misure di pubblicità ma effettuando tale scelta sulla base di una valutazione personale ampiamente discrezionale.
Appare dunque, in assenza di idonea motivazione, del tutto irragionevole, quasi al limite della contraddittorietà, la scelta operata dal Sindaco e dalla Giunta, con l’assistenza del Segretario comunale di affidare ad un soggetto estraneo all’Amministrazione le funzioni di Responsabile dell’Area Tecnica del Comune di Pontevico.

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L’ente locale conferente non può far ricorso all’affidamento di incarichi a soggetti estranei per lo svolgimento di funzioni ordinarie, attribuibili a personale che dovrebbe essere previsto in organico, altrimenti questa esternalizzazione si tradurrebbe in una forma atipica di assunzione, con conseguente elusione delle disposizioni in materia di accesso all’impiego nelle Pubbliche amministrazioni, nonché di contenimento della spesa di personale.
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Si ritiene che il comportamento tenuto da tutti i convenuti nell’odierno giudizio sia particolarmente inescusabile e connotato da colpa grave, alla luce dell’inequivoca normativa di riferimento e della costante giurisprudenza della Corte costituzionale e di questa Corte formatasi in materia di conferimento di incarichi a soggetti estranei all’Amministrazione.

Risulta di immediata percezione, infatti, che il carattere indubbiamente fiduciario delle nomine non può debordare nell’arbitrio ma deve comunque corrispondere a dei canoni (sindacabili in questa sede) di ragionevolezza e buona amministrazione.
Pertanto,
anche ammettendo l’impossibilità, indimostrata nell’odierno giudizio, di far fronte al fabbisogno con professionalità interne, ipotizzate non idonee, l’acquisizione dall’esterno di tali figure doveva avvenire previa verifica delle professionalità disponibili, condotta anche a seguito di idonea pubblicità.
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La rimanente quota del 10% di danno erariale addebitabile al Revisore dei conti per il parere favorevole fornito ai sensi del comma 42 dell’art. 1 della legge n. 311/2004 sulla delibera n. 35/2012, dovrà restare a carico della collettività, stante la mancata citazione nei confronti di questi ultimi.

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Passando ora al caso di specie va rilevato che il conflitto esistente fra la posizione degli amministratori (Bo., Gu. e Fr.) rispetto a quella del Responsabile pro tempore del Servizio Finanziario dell’Ente (Ma.), non è solo “virtuale”, ma concreto ed è rilevabile dagli atti del processo.
Infatti, ad esempio, nella delibera n. 5 del 10.01.2012, con cui veniva prorogato l’incarico di Responsabile di P.O. all’Arch. Lo. per il periodo gennaio-dicembre 2012, si premette che tale decisione è stata adottata dopo aver “visto, altresì, il parere favorevole espresso ai sensi dell’art. 49 del D.Lgs. 18.08.2000 n. 267, per quanto di competenza, dalla dott.ssa Ma.St., in qualità di Responsabile del Servizio Finanziario in ordine alla regolarità contabile sulla proposta di deliberazione di cui all’oggetto”.
Tanto precisato, secondo consolidata giurisprudenza di questa Corte,
la colpevolezza degli Organi politici, che hanno posto in essere provvedimenti ritenuti forieri di danno, può non assurgere a gravità perseguibile, nel caso in cui gli stessi abbiano adottato le contestate decisioni sulla base del parere di un organo tecnico.
Pertanto, tenuto conto che la Ma., Responsabile del Settore Finanziario, si è costituita congiuntamente ai Membri della Giunta Comunale (Bo., Fr. e Gu.), con unica memoria del medesimo difensore (Do.Be.), il conflitto di interessi tra i convenuti appare evidente e reale e ciò comporta –per pacifica e risalente giurisprudenza– la nullità della costituzione in giudizio e la conseguente contumacia dei convenuti (cfr. in proposito Cass. Sez. III n. 2779/68).
Nel merito il Collegio deve per prima cosa precisare che
con riguardo all’affidamento dell’incarico all’Architetto An.Lo. si rileva che:
-
tale incarico è stato affidato al menzionato Architetto con delibera n. 167/2011 della Giunta comunale di Pontevico, costituendo così per il periodo dal 29 agosto al 31.12.2011 … in applicazione dell’art. 110, comma 2, del D.Lgs. n. 267/2000, un rapporto lavorativo a tempo determinato, di diritto privato, al di fuori della dotazione organica, consistente nell’attribuzione della responsabilità dell’Area Tecnica …”, in conseguenza del fatto che l’Ingegnere Em.Ro. aveva “… presentato formale rinuncia a ricoprire …” tale area;
- il trattamento economico complessivo risulta pari ad “… euro 1.300,00, riferito a n. 8 ore di servizio settimanale”, oltre all’incremento “… nella misura del 4% a titolo di contributo previdenziale e del 20% quale imponibile IVA”;
-
tale delibera è stata emessa tenendo conto anche dei “… pareri favorevoli espressi ai sensi dell’art. 49 del D.Lgs. 18.08.2000 n. 267, per quanto di competenza, dal Segretario Comunale, in qualità di Responsabile dell’Area Amministrativa e di Responsabile dell’Area Finanziaria …” e dell’attestazione di copertura finanziaria rilasciata nel caso di specie sempre dal Segretario Comunale;
- il provvedimento in esame è stato deliberato nella riunione della Giunta Comunale del 16.08.2011 presieduta dal Bo. nella sua qualità di Sindaco con voti favorevoli ed unanimi espressi da quest’ultimo unitamente al Mi. ed al Gu. (cfr. all. n. 1 del fascicolo della Procura);
- con successiva delibera n. 5/2012
l’incarico affidato alla Lo. veniva prorogato per tutto l’anno 2012 stabilendo il medesimo importo e le stesse ore settimanali già individuati nella precedente delibera;
-
in tale provvedimento si è tenuto conto anche del “… parere favorevole espresso ai sensi dell’art. 49 del D.Lgs. 18.08.2000 n. 267, per quanto di competenza, dal Segretario Comunale, in qualità di Responsabile dell’Area Amministrativa in ordine alla regolarità tecnica sulla proposta di deliberazione di cui all’oggetto …” e “… della dott.ssa Ma.St., in qualità di Responsabile del Servizio Finanziario in ordine alla regolarità contabile sulla proposta di deliberazione di cui all’oggetto”;
- tale delibera è stata adottata nella riunione della Giunta Comunale del 10.01.2012 presieduta dal Gu. nella sua qualità di Vice Sindaco con voti favorevoli ed unanimi espressi da quest’ultimo unitamente al Fr., al Mi. ed al Re. (cfr. all. n. 2 del fascicolo della Procura);
- con delibera n. 64/2012 è stato deciso che
per il periodo intercorrente dal 1° aprile al 31.12.2012 l’orario di lavoro settimanale della Lo. fosse aumentato da 8 a 12 con conseguente aumento dell’importo mensile da corrispondere per euro 2.400,00 oltre al 4% a titolo di contributo previdenziale ed al 21% per IVA;
-
in tale provvedimento si è tenuto conto anche del “… parere favorevole espresso ai sensi dell’art. 49 del D.Lgs. 18.08.2000 n. 267, per quanto di competenza, dall’arch. Lo.An., Responsabile dell’Area Tecnica, in ordine alla regolarità tecnica sulla proposta di deliberazione di cui all’oggetto …” e “della dott.ssa Ma.St., in qualità di Responsabile del Servizio Finanziario in ordine alla regolarità contabile sulla proposta di deliberazione di cui all’oggetto”;
- tale delibera è stata adottata nella riunione della Giunta Comunale del 27.03.2012 presieduta dal Bo. nella sua qualità di Sindaco con voti favorevoli ed unanimi espressi da quest’ultimo unitamente al Fr., al Gu., al Re. ed al Pi. (cfr. all. n. 3 del fascicolo della Procura);
- infine, con delibera n. 165/2012
l’incarico della Loda veniva prorogato per tutto il 2013 con le medesime condizioni di tempo di impiego (12 ore settimanali) ed economiche (euro 2.400,00 oltre al 4% a titolo di contributo previdenziale ed al 21% per IVA), già individuate nella precedente delibera;
- anche in questo caso per la formazione di tale delibera
si è tenuto conto sempre del “… parere favorevole espresso ai sensi dell’art. 49 del D.Lgs. 18.08.2000 n. 267, per quanto di competenza, dall’arch. Lo.An., Responsabile dell’Area Tecnica, in ordine alla regolarità tecnica sulla proposta di deliberazione di cui all’oggetto …” e “della dott.ssa Ma.St., in qualità di Responsabile del Servizio Finanziario in ordine alla regolarità contabile sulla proposta di deliberazione di cui all’oggetto”;
- tale delibera è stata adottata nella riunione della Giunta Comunale del 18.12.2012 presieduta dal Bo. nella sua qualità di Sindaco con voti favorevoli ed unanimi espressi da quest’ultimo unitamente al Fr., al Mi., al Gu., al Re. ed al Pi. (cfr. all. n. 4 del fascicolo della Procura).
Per quanto poi riguarda la posizione della Geometra Ti.Az. si rileva invece che:
- con delibera n. 35/2012 la Giunta comunale di Pontevico ha affidato alla menzionata Geometra “… l’incarico di prestazione d’opera intellettuale al fine dell’espletamento delle attività legate al settore edilizia privata ed urbanistica …” in considerazione del fatto che “il dipendente Ing. Em.Ro. ha presentato domanda di mobilità in data 30/01/2012”;
- il trattamento economico risulta pari ad euro 28,00 all’ora incluso IVA ed oneri previdenziali per n. 8 ore settimanali;
-
tale delibera è stata emessa tenendo conto anche dei “… pareri favorevoli espressi ai sensi dell’art. 49 del D.Lgs. 18.08.2000 n. 267, per quanto di competenza, dal Responsabile dell’Area Tecnica, arch. Lo.An. e dal Responsabile dell’Ufficio Ragioneria, Ma. dott.ssa St., in ordine –rispettivamente– alla regolarità tecnica e contabile sulla proposta di deliberazione di cui all’oggetto";
- il provvedimento in esame è stato deliberato nella riunione della Giunta Comunale del 31.01.2012 presieduta dal Bo. nella sua qualità di Sindaco con voti favorevoli ed unanimi espressi da quest’ultimo unitamente al Fr., al Gu. ed al Re. (cfr. all. n. 5 del fascicolo della Procura);
- da ultimo, con delibera n. 166/2012 l’incarico della Az. veniva prorogato per tutto il 2013 con le medesime condizioni di tempo di impiego (8 ore settimanali) ed economiche (euro 28,00 all’ora incluso IVA ed oneri previdenziali), già individuate nella precedente delibera;
- anche in questo caso per la formazione di tale delibera
si è tenuto conto sempre dei “… pareri favorevoli espressi ai sensi dell’art. 49 del D.Lgs. 18.08.2000 n. 267, per quanto di competenza, dal Responsabile dell’Area Tecnica, arch. Lo.An. e dal Responsabile dell’Ufficio Ragioneria, Ma. dott.ssa St., in ordine –rispettivamente– alla regolarità tecnica e contabile sulla proposta di deliberazione di cui all’oggetto";
- tale delibera è stata adottata nella riunione della Giunta Comunale del 18.12.2012 presieduta dal Bo. nella sua qualità di Sindaco con voti favorevoli ed unanimi espressi da quest’ultimo unitamente al Fr., al Mi., al Gu., al Re. ed al Pi. (cfr. all. n. 5.1 del fascicolo della Procura).
Tanto premesso, per entrambe le posizioni sopra dettagliatamente descritte
il Collegio rileva la sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della responsabilità amministrativa nei confronti degli odierni convenuti.
Ora prima di esaminare distintamente per posizione (Lo. e Az.) i profili di antigiuridicità delle condotte poste in essere dagli odierni convenuti va rilevato a fattor comune che il Regolamento del Comune di Pontevico all’art. 2, punto 6) precisa che “
in caso di mancato rispetto del Patto di stabilità, sussistendone l’obbligo, non possono essere conferiti incarichi nell’anno successivo”.
Pertanto, considerato che l’incarico è stato affidato alla Lo. il 29.08.2011 e alla Az. il 31.01.2012, poi entrambi prorogati nelle successive annualità,
deve rilevarsi, come peraltro evidenziato nella delibera 20.02.2014 n. 83 e nella
delibera 20.02.2014 n. 84 della Sezione di Controllo per la Regione Lombardia … la mancanza del presupposto di legittimità per l’affidamento di incarichi per gli esercizi 2012 e 2013, in palese violazione del regolamento comunale” atteso che “… il comune di Pontevico, mediante elusione, non ha rispettato il Patto di stabilità per l’anno 2010 (così come accertato dalla deliberazione di questa Sezione n. 409/2012/PRSE depositata il 25/09/2012, con corredo sanzionatorio per l’anno 2013) ed ha violato il Patto di stabilità per l’anno 2011 (delibera n. 293/2013/PRSE depositata il 25/06/2013, con applicazione delle sanzioni per l’anno 2012, susseguente la violazione)”.
Tanto precisato, con riguardo all’incarico affidato all’Architetto Lo. deve evidenziarsi, ai fini del corretto inquadramento della vicenda in esame, che l’art. 110, commi 1, 2 e 3 del TUEL, D.lgs. n. 267/2000 –nel testo precedente le modifiche apportate dal D.L. 24.06.2014, n. 90– così disponeva: "1. Lo statuto può prevedere che la copertura dei posti di responsabili dei servizi o degli uffici, di qualifiche dirigenziali o di alta specializzazione, possa avvenire mediante contratto a tempo determinato di diritto pubblico o, eccezionalmente e con deliberazione motivata, di diritto privato, fermi restando i requisiti richiesti dalla qualifica da ricoprire;
2. Il regolamento sull'ordinamento degli uffici e dei servizi, negli enti in cui è prevista la dirigenza, stabilisce i limiti, i criteri e le modalità con cui possono essere stipulati, al di fuori della dotazione organica, contratti a tempo determinato per i dirigenti e le alte specializzazioni, fermi restando i requisiti richiesti per la qualifica da ricoprire. Tali contratti sono stipulati in misura complessivamente non superiore al 5 per cento del totale della dotazione organica della dirigenza e dell'area direttiva e comunque per almeno una unità. Negli altri enti, il regolamento sull'ordinamento degli uffici e dei servizi stabilisce i limiti, i criteri e le modalità con cui possono essere stipulati, al di fuori della dotazione organica, solo in assenza di professionalità analoghe presenti all'interno dell'ente, contratti a tempo determinato di dirigenti, alte specializzazioni o funzionari dell'area direttiva, fermi restando i requisiti richiesti per la qualifica da ricoprire. Tali contratti sono stipulati in misura complessivamente non superiore al 5 per cento della dotazione organica dell'ente arrotondando il prodotto all'unità superiore, o ad una unità negli enti con una dotazione organica inferiore alle 20 unità;
3. I contratti di cui ai precedenti commi non possono avere durata superiore al mandato elettivo del sindaco o del presidente della provincia in carica. Il trattamento economico, equivalente a quello previsto dai vigenti contratti collettivi nazionali e decentrati per il personale degli enti locali, può essere integrato, con provvedimento motivato della giunta, da una indennità ad personam, commisurata alla specifica qualificazione professionale e culturale, anche in considerazione della temporaneità del rapporto e delle condizioni di mercato relative alle specifiche competenze professionali. Il trattamento economico e l'eventuale indennità ad personam sono definiti in stretta correlazione con il bilancio
”.
Alla luce del riportato testo normativo, appare ora necessario esaminare le due distinte previsioni di cui al primo ed al secondo comma del citato art. 110.
Il diverso ambito di applicazione delle due ipotesi, oltre a risultare evidente dal dato letterale, riferendosi un caso alla copertura di posti di responsabile di area amministrativa “già in organico”, l’altro ai contratti a tempo determinato stipulati “al di fuori della dotazione organica”, è chiarito anche dal
le SS.RR. di questa Corte che in sede di controllo (Del. nn. 12 e 13 del 2011) si sono pronunciate in ordine alla diretta applicabilità agli enti territoriali, limitatamente al conferimento degli incarichi dirigenziali a contratto previsti dall’art. 110, comma 1, TUEL, delle disposizioni contenute nell’art. 19, commi 6 e 6-bis, del d.lgs. 165/2011 ed hanno avuto modo di definire quella al comma 2 come “una fattispecie del tutto diversa da quella disciplinata dal comma precedente, in quanto volta a sopperire, ad esigenze gestionali straordinarie che, sole, determinano l’opportunità di affidare funzioni, anche dirigenziali, extra ordinem e quindi al di là delle previsioni della pianta organica dell’Ente locale”.
Tanto precisato, il caso in esame risulta più correttamente riconducibile al comma 1 dell’art. 110, riferendosi all’affidamento di un posto di funzioni già previsto in pianta organica.
Infatti, la riconducibilità del caso di specie all’ipotesi disciplinata al comma 1 dell’art. 110 del TUEL è peraltro affermata –contraddittoriamente con le motivazioni delle delibere sopra richiamate e con le prospettazioni difensive opposte nell’odierno giudizio– nella stessa iniziale delibera n. 167/2011 di conferimento dell’incarico alla Lo. ove si precisa che
“… si rende necessario provvedere all’individuazione ed al conferimento dell’incarico di responsabile dell’Area Tecnica”.
Pertanto,
rientrando la fattispecie in esame nell’ambito di applicazione del comma 1 dell’art. 110 TUEL, molteplici appaiono i profili di illegittimità che hanno caratterizzato la condotta dei convenuti.
Comunque, anche prescindendo dal fatto che si applichi al caso di specie il comma 1 e non il comma 2 dell’art. 110 del TUEL,
è indubbio che nell'individuazione dei soggetti cui conferire un incarico ai sensi di tale articolo di legge siano insuperabili i fondamentali canoni di legittimità, imparzialità e buon andamento, ai sensi dell'articolo 97 della Costituzione, in ragione dei quali, pur essendo insiti in tali procedure il carattere della discrezionalità ed un margine più o meno ampio di fiduciarietà, è indispensabile che le amministrazioni assumano la relativa determinazione con una trasparente ed oggettiva valutazione della professionalità del soggetto affidatario che non può basarsi su valutazioni meramente soggettive, ma deve essere ancorata quanto più possibile a circostanze oggettive.
L'esigenza di operare scelte discrezionali ancorate a parametri quanto più possibili oggettivi e riscontrabili evidenzia l'opportunità che le amministrazioni si dotino preventivamente di un sistema di criteri generali per l'affidamento, il mutamento e la revoca degli incarichi. Ciò al fine di consolidare anche in questo ambito la trasparenza e ridurre le possibilità di contenzioso.
Tale convincimento si fonda anche su costante giurisprudenza del
la Corte Costituzionale (sentenze n. 103 e 104 del 2007 e sentenza n. 161 del 2008) che ha espresso un chiaro orientamento volto ad escludere l’esistenza di una “dirigenza di fiducia” e dunque la possibilità di un’interpretazione della normativa vigente nel senso di ammettere la scelta discrezionale, senza limiti, dei soggetti esterni all’ente cui conferire gli incarichi, nonché la necessità di forme di pubblicità che assicurino la trasparenza, procedure comparative anche non concorsuali, richiedendo quindi una procedimentalizzazione dell’iter da seguire.
Con riferimento al caso di specie
gli odierni convenuti, ciascuno secondo il ruolo ricoperto nell’adozione delle deliberazioni in argomento, hanno, invece, determinato il conferimento diretto dell’incarico ad personam alla Lo., senza avere preventivamente fissato i criteri per la selezione e valutazione dei curricula dei potenziali aspiranti né adottato misure di pubblicità ma effettuando tale scelta sulla base di una valutazione personale ampiamente discrezionale.
Appare dunque, in assenza di idonea motivazione, del tutto irragionevole, quasi al limite della contraddittorietà, la scelta operata dal Sindaco e dalla Giunta, con l’assistenza del Segretario comunale di affidare ad un soggetto estraneo all’Amministrazione le funzioni di Responsabile dell’Area Tecnica del Comune di Pontevico.

Passando ora all’incarico affidato alla Az. è sufficiente sul punto fare integrale richiamo agli innumerevoli profili di illegittimità individuati dalla delibera 20.02.2014 n. 84 della Sezione regionale di Controllo Lombardia e condivisibilmente rilevati anche per l’incarico alla Loda con la delibera 20.02.2014 n. 83 sempre della stessa Sezione regionale.
In particolare, in quella sede per entrambi gli incarichi è stata eccepita la violazione dell’art. 7 TUPI nella parte in cui “
… impone lo svolgimento di procedure comparative per l’affidamento di ogni incarico …” e relativamente “… alla durata dell’incarico e al contenuto delle mansioni affidate esternamente”.
Nello specifico per entrambe le posizioni è stato affermato che “
… non è riscontrabile il presupposto di eccezionalità, in quanto la necessità di un dipendente con professionalità tecniche per l’ente locale rappresenta una esigenza organizzativa che si configura come permanente. Ne consegue che l’ente locale conferente non può far ricorso all’affidamento di incarichi a soggetti estranei per lo svolgimento di funzioni ordinarie, attribuibili a personale che dovrebbe essere previsto in organico, altrimenti questa esternalizzazione si tradurrebbe in una forma atipica di assunzione, con conseguente elusione delle disposizioni in materia di accesso all’impiego nelle Pubbliche amministrazioni, nonché di contenimento della spesa di personale” (cfr. delibera 20.02.2014 n. 83 e delibera 20.02.2014 n. 84 Sez. Regionale Controllo Lombardia).
Occorre ora valutare se le condotte finora descritte siano frutto di comportamenti dolosi o gravemente colposi che hanno prodotto danno all’erario comunale.
In proposito,
si ritiene che il comportamento tenuto da tutti i convenuti nell’odierno giudizio sia particolarmente inescusabile e connotato da colpa grave, alla luce dell’inequivoca normativa di riferimento e della costante giurisprudenza della Corte costituzionale e di questa Corte formatasi in materia di conferimento di incarichi a soggetti estranei all’Amministrazione.
Risulta di immediata percezione, infatti, che il carattere indubbiamente fiduciario delle nomine non può debordare nell’arbitrio ma deve comunque corrispondere a dei canoni (sindacabili in questa sede) di ragionevolezza e buona amministrazione.
Pertanto,
anche ammettendo l’impossibilità, indimostrata nell’odierno giudizio, di far fronte al fabbisogno con professionalità interne, ipotizzate non idonee, l’acquisizione dall’esterno di tali figure doveva avvenire previa verifica delle professionalità disponibili, condotta anche a seguito di idonea pubblicità.
In relazione alla sussistenza del danno e alla sua quantificazione, secondo la Procura esso in fattispecie consiste nella retribuzione lorda, pari ad euro 99.870,77, che il Comune di Pontevico ha corrisposto complessivamente alla Lo. e alla Az. per effetto del conferimento e delle successive proroghe dei due incarichi.
Tale importo è stato addebitato agli odierni convenuti e per la ripartizione delle relative quote ne sono stati ipotizzati i criteri, come in fatto riportati.
Tutto ciò premesso, prima dell’individuazione della percentuale di responsabilità dei convenuti, il Collegio deve valutare la fondatezza dell’eccezione difensiva per cui dal danno erariale, come prospettato dalla Procura, dovrebbe essere detratta l’utilitas comunque conseguita dall’Amministrazione comunale, ipotizzata in via subordinata dai convenuti.
Nel caso specifico, considerato che nel loro complesso i due incarichi consentivano di svolgere in sostanza le medesime funzioni che l’Ing. Ro. svolgeva per dovere istituzionale alle dipendenze dell’Amministrazione comunale (prima della formale rinuncia di quest’ultimo a ricoprire la P.O. dell’Area Tecnica e del suo trasferimento per mobilità volontaria),
ne deriva la ricorrenza dei presupposti per riconoscere l’utilità delle attività comunque svolte in esecuzione degli incarichi in esame a vantaggio del Comune di Pontevico. Inoltre, poiché detta utilità è conseguenza immediata e diretta dello stesso fatto causativo dell'addebito contestato, la stessa deve considerarsi come un vantaggio economicamente valutabile (cfr. Sez. Emilia Romagna n. 874 del 19.03.2002 e n. 12 del 19.01.1998; Sez. III n. 126 dell’11.05.1998; Sez. Lombardia n. 1000 del 24.06.1998).
Tale utilità, si precisa tuttavia, non è idonea, come invece vorrebbero le difese dei convenuti, ad elidere integralmente il pregiudizio patrimoniale causato al Comune di Pontevico.
Di conseguenza, operando una valutazione equitativa delle prestazioni svolte dall’Architetto Lo. e dalla Geometra Az. per l’Amministrazione danneggiata e tenuto conto dei vantaggi da questa conseguiti in conseguenza degli incarichi illegittimi, si ritiene equo determinare il danno nell’importo complessivo di euro 30.000,00 comprensivo di rivalutazione monetaria. Detto importo tiene conto delle retribuzioni che in ogni caso il Comune avrebbe dovuto erogare in favore del funzionario destinato a svolgere quelle mansioni.
Pertanto, ferma restando la quantificazione generale del danno così rideterminata, la ricostruzione sin qui svolta induce a ritenere che, per quanto attiene al Sindaco Bo., il suo ruolo sia stato preminente rispetto agli altri componenti della Giunta, avendo sia per la Lo. che per l’Az. presieduto, votando in senso favorevole, le sedute che hanno deliberato l’affidamento dei rispettivi incarichi; ad esso, pertanto, deve essere imputato il 20% del danno anche in considerazione del fatto che ha presieduto, votando sempre in senso favorevole, anche le sedute di Giunta che hanno prorogato tali incarichi ad eccezione di quella tenutasi in data 10.01.2012 che ha visto la proroga dell’incarico affidato alla Lo. per tutto il 2012 e per la quale è risultato assente. Inoltre, si aggiunga anche il fatto che sempre il Bo. ha firmato in rappresentanza del Comune di Pontevico i disciplinari di incarico in esecuzione delle delibere in esame.
Per quanto poi riguarda il Vice Sindaco Gu. (presente a tutte le sedute che hanno dato luogo sia all’affidamento degli incarichi sia ai successivi rinnovi e votante in tutte, in senso favorevole) e l’Assessore Fr. (assente solo nella seduta di Giunta del 16.08.2011 che ha determinato con delibera n. 167/2011 il conferimento dell’incarico alla Lo. e presente, nonché votante in senso favorevole in tutte le altre sedute) il Collegio ritiene che l’acritica ratifica delle decisioni portate all’attenzione degli organi collegiali abbia contribuito al verificarsi del pregiudizio accertato e debba essere sanzionata con l’addebito rispettivamente del 10% al Gu. e del 5% al Fr. del danno erariale così come sopra complessivamente quantificato.
La rimanente quota del 15% addebitabile agli altri componenti della Giunta regionale (Mi., Re. e Pi.) presenti (in particolare solo Mi. per la delibera n. 167/2011; Mi. e Re. per la delibera n. 5/2012; Re. per la delibera n. 35/2012; Re. e Pi. per la delibera n. 64/2012; Mi., Re. e Pi. per la delibera 165/2012 e sempre Mi., Re. e Pi. per la delibera n. 166/2012) nelle sedute in esame e votanti sempre in senso favorevole, dovrà restare a carico della collettività, stante la mancata citazione nei confronti di questi ultimi.
Sussiste altresì la specifica responsabilità sempre per colpa grave del segretario comunale Lo. avendo questi vistato tutti i disciplinari di incarico in esecuzione delle delibere in trattazione e rilasciato:
- per la delibera n. 167/2011 (con cui è stato conferito per la prima volta l’incarico alla Lo.) il parere favorevole nella qualità sia di Responsabile dell’Area Amministrativa che di quella Finanziaria, nonché l’attestazione di copertura finanziaria;
- per la delibera n. 5/2012 il parere favorevole nella qualità di Responsabile dell’Area Amministrativa.
Al segretario Lo. deve, quindi, essere imputata, anche in considerazione della partecipazione attiva solo in due delibere, una quota pari al 20% del danno riconosciuto.
Per quanto poi riguarda la Dott.ssa Ma. il Collegio rileva che
quest’ultima deve altresì rispondere sempre per colpa grave avendo questi rilasciato:
- per la delibera n. 5/2012 il parere favorevole in qualità di Responsabile del Sevizio Finanziario;
- per la delibera n. 35/2012 il parere favorevole in qualità di Responsabile dell’Ufficio di Ragioneria;
- per la delibera n. 64/2012 il parere favorevole in qualità di Responsabile del Servizio Finanziario;
- per la delibera n. 165/2012 il parere favorevole in qualità di Responsabile del Servizio Finanziario;
- per la delibera n. 166/2012 il parere favorevole in qualità di Responsabile dell’ufficio di Ragioneria.
Pertanto, alla Dott.ssa Ma., considerato il diffuso apporto tecnico fornito, deve essere imputata una quota pari al 20% del danno riconosciuto.
La rimanente quota del 10% addebitabile al Revisore dei conti per il parere favorevole fornito ai sensi del comma 42 dell’art. 1 della legge n. 311/2004 sulla delibera n. 35/2012, dovrà altresì restare a carico della collettività, stante la mancata citazione nei confronti di questi ultimi.
Di conseguenza il complessivo danno erariale, quantificato in complessivi euro 30.000,00, deve così imputarsi:
- Bo. la somma di euro 6.000,00 (20% di euro 30.000,00);
- Gu. la somma di euro 3.000,00 (10% di euro 30.000,00);
- Fr. la somma di euro 1.500,00 (5% di euro 30.000,00);
- Lo. la somma di euro 6.000,00 (20% di euro 30.000,00);
- Ma. la somma di euro 6.000,00 (25% di euro 30.000,00).
La condanna alle spese segue la soccombenza anche per i convenuti dichiarati contumaci, sulla base del consolidato principio della Corte di Cassazione secondo cui “l’individuazione del soccombente si fa in base al principio di causalità, con la conseguenza che parte obbligata a rimborsare alle altre le spese che hanno anticipato nel processo, è quella che, col comportamento tenuto fuori del processo, ovvero col darvi inizio o resistervi in forme e con argomenti non rispondenti al diritto, ha dato causa al processo o al suo protrarsi” (cfr. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 7182 del 30/05/2000 e recentemente Cass. Civ. Sez. VI Ordinanza n. 373 del 13.01.2015) (Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Lombardia, sentenza 04.08.2015 n. 142).


21.08.2015
- LA SEGRETERIA PTPL

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATADeve darsi atto che in ordine alla vexata quaestio della sorte del parere reso dalla Soprintendenza oltre il termine di cui all’art. 146 d.lgs. n. 42/2004 (nella formulazione vigente, ratione temporis acti, prima delle recenti modifiche introdotte dall’articolo 25, comma 3 del decreto-legge 12.09.2014, n. 133 convertito con modificazioni dalla legge 11.11.2014, n. 164: ma si vedrà che, per quanto di interesse, le considerazioni che seguono valgono anche, con qualche integrazione e precisazione, in relazione allo jus superveniens) non sussiste, in dottrina ed anche in giurisprudenza, concordia di opinioni: onde sarà da stigmatizzare che, su questione di tale importanza non meno teorica che pratica, il Consiglio di Stato abbia, allo stato, omesso la devoluzione alla cognizione della adunanza plenaria, preferendo formalizzare il contrasto.
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Merita puntualizzare come nel vigente quadro normativo, che segnatamente attribuisce al previo parere della Soprintendenza natura vincolante (art. 146, comma 5), la Soprintendenza eserciti non più un sindacato di mera legittimità (come previsto nel regime previgente ed ancora, in prospettiva transitoria, dall'art. 159 D.Lgs. n. 42 del 2004) sull'atto autorizzatorio di base adottato dalla Regione o dall'ente subdelegato, con il correlativo potere di annullamento ad estrema difesa del vincolo, ma una valutazione di “merito amministrativo”, espressione dei nuovi poteri di cogestione del vincolo paesaggistico.
Per tal via, se ci si limita ad una prospettiva formalistica si può ancora soggiungere che il parere vincolante abbia un contenuto “sempre e soltanto valutativo e non volitivo e decisionale”, restando come tale manifestazione di attività propriamente consultiva e comportando un obbligo di conformarsi ma non di attuare l’altrui volontà (con il che –non potendo riguardarsi il provvedimento finale, costitutivo degli effetti, quale meramente esecutivo del parere– questo conserverebbe la sua autonomia, dovendo nettamente distinguersi dagli atti della fase decisoria).
E però –se si guarda, con maggiore plausibilità, alla sostanza e ci si muove, quindi, in prospettiva funzionale– dovrà riconoscersi che il parere vincolante incide, in generale, necessariamente e direttamente sul contenuto del provvedimento, onde, lungi dal collocarsi nella fase propriamente preparatoria, appartiene già al momento decisionale: ed euristicamente apprezzabile si rivela, a tal fine, l’evidenziazione di una (in certo senso autonoma) fase c.d. predecisionale, tecnicamente distinta sia dalla fase istruttoria che dal momento della giuridica e formale costituzione degli effetti (in tali sensi, sostanzialmente, Cons. Stato n. 2751/2015, che fa parola di funzione consultiva congiunta ad una valenza sostanzialmente codecisionale rispetto alla determinazione di autorizzazione paesaggistica emanata dal Comune).
Se ne trae ragione –in conformità ad una tradizionale, seppur non incontrastata, opinione dottrinaria– per bene intendere come i pareri in questione (che non solo sono obbligatori nell’an -e, dunque, tecnicamente vincolati- perché, in base alla legge regolativa del procedimento e nella prospettiva della doverosità dell’iniziativa procedimentale, il responsabile è giuridicamente tenuto a non ometterne la richiesta, ma sono parimenti obbligatori nel quomodo, ed in questo senso appunto vincolanti, perché, dal punto di vista degli effetti, l’autorità decidente è altresì tenuta, sempre in base a quella legge, a recepirne gli esiti nel formale provvedimento conclusivo) non possano rientrare nell’ambito applicativo dell’art. 16 della l. n. 241/1990.
La sottrazione al regime del c.d. silenzio-facoltativo, in definitiva, non discende, come talora si opina, dalla circostanza che, sul piano testuale, l’art. 16 richiami solo i pareri obbligatori e quelli facoltativi, senza appunto far cenno a quelli vincolanti: si tratta, invero, come ognun s’avvede, di rilievo di per sé destinato a provare troppo, una volta chiarito che la distinzione tra pareri facoltativi ed obbligatori si muove su una linea di demarcazione che guarda alla doverosità della richiesta di consulenza, disinteressandosi del consequenziale profilo effettuale: onde, in buona sostanza, il silenzio della previsione normativa è anodino, non legittimando l’argomentazione a contrariis.
I pareri in questione restano, insomma, fuori dell’art. 16 non già perché (negativamente) la norma non li richiami, ma perché (positivamente) richiama solo i pareri resi nell’esercizio di attività (tecnicamente) consultiva (come tale formalmente ausiliaria e funzionalmente neutra rispetto agli interessi in gioco).
Se ne trae persuasiva conferma dal rilievo per cui ricomprendere i pareri vincolati nella sfera di operatività dell’art. 16 condurrebbe ad una insanabile contraddizione logica, in quanto un parere definito per legge come vincolante finirebbe di fatto col perdere tale sua qualificazione se si riconoscesse all’amministrazione attiva la possibilità di prescinderne (con il che, per un verso, si finirebbe per annullare l’effetto dello spostamento, preteso dalla legge, del potere decisorio dall’amministrazione attiva a quella “consultiva” e, per altro verso, si eliderebbe, in fatto, la logica per la quale, se il legislatore ha previsto un determinato parere come vincolante, ha evidentemente ritenuto quegli apprezzamenti di cui l’atto “consultivo” è veicolo di emersione contenuto essenziale, e come tale non eludibile, della decisione).
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Allo stato, il Collegio ritiene preferibile l’orientamento secondo cui il decorso del termine di 45 giorni non solo non precluda alla Soprintentenza, fintantoché non sopravvenga la decisione surrogatoria del Comune, di provvedere, ma neppure sottragga al parere tardivo la sua ordinaria attitudine vincolante.

2.- Con un primo motivo di doglianza, la ricorrente criticamente assume che il gravato parere soprintendizio, reso oltre il termine di quarantacinque giorni scolpito all’art. 146 d.lgs. n. 42/2004, nella sua vigente formulazione, non avrebbe potuto essere acquisito quale vincolante l’Amministrazione comunale (che, su tale presupposto, vi si era acriticamente adeguata), ma –in quanto degradato a mera espressione di attività consultiva– avrebbe al più, in quanto comunque adottato prima della definitiva determinazione comunale, essere acquisito quale (ordinario) parere non vincolante, a fronte del quale sarebbe stato onere del Comune (specie a fronte delle puntuali controdeduzioni formalizzate dalla ricorrente all’esito del notificato preavviso di rigetto) di fornire puntuale riscontro motivazionale, se del caso auspicabilmente discostandosene ove avesse condiviso le argomentate ragioni di illegittimità.
2.1.- La censura non può essere condivisa.
In verità, deve darsi atto che in ordine alla vexata quaestio della sorte del parere reso dalla Soprintendenza oltre il termine di cui all’art. 146 d.lgs. n. 42/2004 (nella formulazione vigente, ratione temporis acti, prima delle recenti modifiche introdotte dall’articolo 25, comma 3 del decreto-legge 12.09.2014, n. 133 convertito con modificazioni dalla legge 11.11.2014, n. 164: ma si vedrà che, per quanto di interesse, le considerazioni che seguono valgono anche, con qualche integrazione e precisazione, in relazione allo jus superveniens) non sussiste, in dottrina ed anche in giurisprudenza, concordia di opinioni: onde sarà da stigmatizzare che, su questione di tale importanza non meno teorica che pratica, il Consiglio di Stato abbia, allo stato, omesso la devoluzione alla cognizione della adunanza plenaria, preferendo formalizzare il contrasto.
La norma in questione, nella formulazione previgente, prevedeva:
a) che il soprintendente rendesse il prescritto parere sulla compatibilità paesaggistica del progettato intervento entro il termine di quarantacinque giorni dalla ricezione degli atti;
b) che il parere negativo fosse, in ogni caso, preceduto dalla comunicazione agli interessati del preavviso di provvedimento negativo ai sensi dell'articolo 10-bis della legge 07.08.1990, n. 241;
c) che entro i venti giorni dalla ricezione, l'amministrazione procedente (nel caso in esame, il Comune) provvedesse “in conformità”.
Era, altresì, previsto che, decorso inutilmente il ridetto termine di quarantacinque giorni senza che il Soprintendente avesse reso il prescritto parere, l'Amministrazione competente avrebbe potuto indire una conferenza di servizi, che si pronunziasse entro il termine (dichiaratamente) perentorio di quindici giorni (possibilità, questa, allo stato preclusa dalle modifiche introdotte dal d.l. n. 133/2014, che hanno eliminato il richiamo al procedimento in conferenza).
In ogni caso, decorsi inutilmente sessanta giorni dalla ricezione degli atti da parte del soprintendente, l'amministrazione competente “provvede sulla domanda di autorizzazione”.
È, altresì, previsto che, ove l’Amministrazione procedente non provveda nel ridetto termine di venti giorni, l’interessato possa attivare la competenza surrogatoria della Regione.
2.2.- Ciò posto, merita, anzitutto, puntualizzare, ai fini di una puntuale risoluzione della lite, come, nel rammentato quadro normativo, che segnatamente attribuisce al previo parere della Soprintendenza natura vincolante (art. 146, comma 5), la Soprintendenza eserciti non più un sindacato di mera legittimità (come previsto nel regime previgente ed ancora, in prospettiva transitoria, dall'art. 159 D.Lgs. n. 42 del 2004) sull'atto autorizzatorio di base adottato dalla Regione o dall'ente subdelegato, con il correlativo potere di annullamento ad estrema difesa del vincolo (su cui v. Cons. Stato, ad. plen., 14.12.2001, n. 9), ma una valutazione di “merito amministrativo”, espressione dei nuovi poteri di cogestione del vincolo paesaggistico (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 25.02.2013, n. 1129).
Per tal via, se ci si limita ad una prospettiva formalistica (valorizzata, per esempio, da Cass., sez. I, 27.06.2005, n. 13749 e da ultimo, con maggior pertinenza, da Cons. Stato, sez. VI, 04.06.2015, n. 2721) si può ancora soggiungere che il parere vincolante abbia un contenuto “sempre e soltanto valutativo e non volitivo e decisionale”, restando come tale manifestazione di attività propriamente consultiva e comportando un obbligo di conformarsi ma non di attuare l’altrui volontà (con il che –non potendo riguardarsi il provvedimento finale, costitutivo degli effetti, quale meramente esecutivo del parere– questo conserverebbe la sua autonomia, dovendo nettamente distinguersi dagli atti della fase decisoria).
E però –se si guarda, con maggiore plausibilità, alla sostanza e ci si muove, quindi, in prospettiva funzionale– dovrà riconoscersi che il parere vincolante incide, in generale, necessariamente e direttamente sul contenuto del provvedimento, onde, lungi dal collocarsi nella fase propriamente preparatoria, appartiene già al momento decisionale: ed euristicamente apprezzabile si rivela, a tal fine, l’evidenziazione di una (in certo senso autonoma) fase c.d. predecisionale, tecnicamente distinta sia dalla fase istruttoria che dal momento della giuridica e formale costituzione degli effetti (in tali sensi, sostanzialmente, Cons. Stato n. 2751/2015, che fa parola di funzione consultiva congiunta ad una valenza sostanzialmente codecisionale rispetto alla determinazione di autorizzazione paesaggistica emanata dal Comune).
Se ne trae ragione –in conformità ad una tradizionale, seppur non incontrastata, opinione dottrinaria– per bene intendere come i pareri in questione (che non solo sono obbligatori nell’an -e, dunque, tecnicamente vincolati- perché, in base alla legge regolativa del procedimento e nella prospettiva della doverosità dell’iniziativa procedimentale, il responsabile è giuridicamente tenuto a non ometterne la richiesta, ma sono parimenti obbligatori nel quomodo, ed in questo senso appunto vincolanti, perché, dal punto di vista degli effetti, l’autorità decidente è altresì tenuta, sempre in base a quella legge, a recepirne gli esiti nel formale provvedimento conclusivo) non possano rientrare nell’ambito applicativo dell’art. 16 della l. n. 241/1990.
La sottrazione al regime del c.d. silenzio-facoltativo, in definitiva, non discende, come talora si opina, dalla circostanza che, sul piano testuale, l’art. 16 richiami solo i pareri obbligatori e quelli facoltativi, senza appunto far cenno a quelli vincolanti: si tratta, invero, come ognun s’avvede, di rilievo di per sé destinato a provare troppo, una volta chiarito che la distinzione tra pareri facoltativi ed obbligatori si muove su una linea di demarcazione che guarda alla doverosità della richiesta di consulenza, disinteressandosi del consequenziale profilo effettuale: onde, in buona sostanza, il silenzio della previsione normativa è anodino, non legittimando l’argomentazione a contrariis.
I pareri in questione restano, insomma, fuori dell’art. 16 non già perché (negativamente) la norma non li richiami, ma perché (positivamente) richiama solo i pareri resi nell’esercizio di attività (tecnicamente) consultiva (come tale formalmente ausiliaria e funzionalmente neutra rispetto agli interessi in gioco).
Se ne trae persuasiva conferma (e, circolarmente, forte argomento ex positivo jure a sostegno della argomentata opzione dogmatica per la collocazione nella fase predecisionale) dal rilievo per cui ricomprendere i pareri vincolati nella sfera di operatività dell’art. 16 condurrebbe ad una insanabile contraddizione logica, in quanto un parere definito per legge come vincolante finirebbe di fatto col perdere tale sua qualificazione se si riconoscesse all’amministrazione attiva la possibilità di prescinderne (con il che, per un verso, si finirebbe per annullare l’effetto dello spostamento, preteso dalla legge, del potere decisorio dall’amministrazione attiva a quella “consultiva” e, per altro verso, si eliderebbe, in fatto, la logica per la quale, se il legislatore ha previsto un determinato parere come vincolante, ha evidentemente ritenuto quegli apprezzamenti di cui l’atto “consultivo” è veicolo di emersione contenuto essenziale, e come tale non eludibile, della decisione).
2.3.- L’inapplicabilità del regime del silenzio-facoltativo, impone di porre su diverse basi la questione, oggetto di controversia, del parere (segnatamente negativo) reso dalla Soprintendenza successivamente al decorso del richiamato termine di quarantacinque giorni (e, fino alla entrata in vigore del d.l. n. 133/2014, successivamente all'indizione da parte dell'amministrazione procedente, della speciale conferenza di servizi di cui al previgente comma 8 dell’art. 146).
Sul tema sono astrattamente ipotizzabili tre opzioni (esaminate, da ultimo, con copia di argomentazioni da Cons. Stato, sez. VI, 27.04.2015, n. 2136, che nondimeno attinge –peraltro in piena conformità alla tesi valorizzata dalla odierna ricorrente– conclusioni non persuasive, dalle quali ci si dovrà, per tal via, discostare):
a) in base a una prima opzione (seguita da numerose pronunzie di prime cure, che muovono dalla ritenuta perentorietà del termine de quo) in siffatte ipotesi dovrebbe concludersi nel senso dell'intervenuta consumazione del potere per l'organo statale di rendere un qualunque parere (di carattere vincolante o meno): il parere tardivo sarebbe, per l’effetto, nullo e, come tale, improduttivo di effetti;
b) in base ad una seconda opzione (dovendosi, al contrario, riconoscere carattere meramente ordinatorio al richiamato termine, in assenza di una espressa e sicura comminatoria di preclusione nel paradigma legale: arg. a contrario ex art. 167 d.lgs. n. 42/2004) dovrebbe concludersi nel senso della (piena) permanenza in capo alla Soprintendenza del potere di emanare un parere di carattere comunque vincolante (con il che –per ovvie e consequenziali, ancorché di rado esplicitate ad anche solo bene intese, ragioni di coerenza sistematica– il potere di adottare comunque il provvedimento, intestato all’Amministrazione procedente, andrebbe riguardato, nella logica imposta dall’art. 97 Cost. e del sotteso principio di legalità organizzativa, quale manifestazione di apposita competenza surrogatoria);
c) in base a una terza opzione interpretativa (oggetto di autorevoli auspici dottrinari e, appunto, di recenti recepimenti pretori) nelle ridette ipotesi non potrebbe escludersi in radice la possibilità per l'organo statale di rendere comunque un parere in ordine alla compatibilità paesaggistica dell'intervento; tuttavia il parere in parola perderebbe il carattere di vincolatività (dovendo, per l’effetto, acquisirsi in termini di parere meramente obbligatorio, che, come tale, dovrebbe essere autonomamente valutato dall'amministrazione deputata all'adozione dell'atto autorizzatorio finale, non più in thesi assoggettava al vincolo di conformazione).
2.3.1.- L’opzione sub a) (peraltro seguita, ancora di recente ed ex aliis da TAR Lazio, Latina, sez. I, 29.06.2015, senza particolare motivazione e da TAR Napoli, sez. VII, 25.05.2015, n. 2879, che ha argomentato essenzialmente dal confronto con l’art. 167 d.lgs. cit.) va respinta.
A tal fine vale il richiamo alle conclusioni di Cons. Stato, sez. VI, 04.10.2013, n. 4914 (in termini simili, cfr. anche Cons. Stato, VI., 18.09.2013, n. 4656), che ha argomentato (aderendo, in sostanza, alle posizioni della tesi di cui supra sub b) nel senso che –nel caso di mancato rispetto del termine fissato dall’art. 146, comma 5 (così come, del resto, del termine fissato dall’art. 167, comma 5, quest’ultimo espressamente qualificato “perentorio”– il potere della Soprintendenza continua a sussistere (tanto che un suo parere tardivo resta comunque disciplinato dai richiamati commi 5 e mantiene la sua natura vincolante), ma l’interessato può proporre ricorso al giudice amministrativo, per contestare l’illegittimo silenzio-inadempimento dell’organo statale: la perentorietà del termine riguarderebbe, insomma, non la sussistenza del potere o la legittimità del parere, ma (solo) l’obbligo di concludere la fase del procedimento (obbligo che, se rimasto inadempiuto, può essere dichiarato sussistente dal giudice).
La decisione, pur senza esplicitamente evocandolo, sembra plausibilmente sottendere il (corretto) assunto della natura propriamente (pre- o, semmai, co-)decisoria (id est: provvedimentale e non consultiva) del parere vincolante in questione (onde non a caso, sembra di dover soggiungere, l’art. 146 cit. prefigura, nel contesto del relativo procedimento, l’obbligo del preavviso di “provvedimento negativo”, richiamando espressamente l’art. 10-bis della l. n. 241/1990): dal che si trae l’argomentato corollario che l’inerzia della Soprintendenza (qui, come –secondo deve ritenersi, in prospettiva sistematica– in ogni altro caso di parere legalmente vincolante) vada, per l’appunto, qualificata in termini di silenzio-inadempimento (bensì violativo dell’obbligo di concludere il procedimento ex art. 2 l. n. 241/1990): il quale –in assenza di una ipotesi di silenzio significativo– postula, per l’appunto, il perdurante obbligo di provvedere.
La tesi –che esclude, in realtà, la natura decadenziale del termine di quarantacinque giorni, tra l’altro interpretando la qualificazione di “perentorietà” di cui all’art. 167 nel senso “debole” della mera obbligatorietà– non appare smentita dalla circostanza che (in disparte il riferimento alla indizione della speciale conferenza di servizi di cui alla previgente normativa) l’Amministrazione comunale subdelegata debba, a termine vanamente elasso, provvedere “comunque”.
È chiaro, invero, l’intento del legislatore di legittimare, in prospettiva sostanzialmente devolutiva, il superamento del silenzio della Soprintendenza, dal cui parere si potrà, perciò, prescindere se non è reso nei termini. A dispetto delle apparenza, tuttavia, la regola non ripete, per la vicenda in esame, coerentemente alle esposte premesse di sistema, il principio generale di cui all’art. 16 della l. n. 241/1990: il c.d. silenzio-facoltativo (rectius, in realtà: la possibile pretermissione del parere obbligatoriamente richiesto ma non tempestivamente reso) si riferisce, invero, ad attività propriamente consultiva, a connotazione ausiliaria e servente. Nel caso di specie la possibilità che l’amministrazione procedente decida e concluda il procedimento “a prescindere” dal parere si correla, invero, come vale ribadire, alla attribuzione di apposita misura di competenza a connotazione surrogatoria, nel rispetto del ripetuto canone di legalità organizzativa di cui all’art. 97 Cost..
Deve, per l’effetto, ragionevolmente ritenersi, se si vuol tenere saldo il “sistema”, che il “comunque” debba leggersi:
a) nel senso, di base, che l’amministrazione ad quemdebba” provvedere, trattandosi, appunto, di attribuzione competenziale (idonea a scandire l’obbligo di definire il procedimento ai sensi dell’art. 2 della l. n. 241/1990);
b) nell’ulteriore senso che debba provvedere –anche qui a differenza di quanto accade in materia di pareri propriamente detti– senza possibilità (trattandosi di evidente aggravio procedimentale) di valorizzare l’opzione attendista in ordine al parere.
Di tal che, in buona e definitiva sostanza:
a) l’inadempimento dell’obbligo, gravante sulla Soprintendenza, di formalizzare il proprio parere legittimerà l’interessato a dolersene in sede giurisdizionale, nelle forme del rito avverso il silenzio di cui all’art. 117 c.p.a.;
b) l’inutile decorso del termine de quo, peraltro, legittimerà l’autorità procedente (nella specie, il Comune) a provvedere in via autonoma, senza essere tenuta ad attendere il parere in questione;
c) nondimeno, ove il parere, sia pur tardivamente, intervenga prima che la valutazione di compatibilità paesaggistica sia effettuata in via surrogatoria, lo stesso non solo non potrà ritenersi tanquam non esset (non avendo la Soprintendenza perduto, in conseguenza del ritardo e dell’inadempimento, il potere/dovere di provvedere), ma sarà ancora e pur sempre vincolate (restando, quanto alla sua natura ed ai suoi effetti, manifestazione di potere decisionale e provvedimentale);
d) che, peraltro, la circostanza che anche il Comune sia attributario della (sopravvenuta) competenza a provvedere (in via sostitutiva), renderà obbligatoria per quest’ultimo, anche in assenza del parere soprintendizio, l’assunzione di decisione conclusiva (legittimandosi, per tal via, ulteriore e distinto rimedio processuale, con il quale l’interessato possa dolersi della inezia nell’esercizio delle competenze surrogatorie).
2.3.2.- La terza opzione interpretativa (secondo la quale, decorso il termine di quarantacinque giorni, il parere da vincolante “degraderebbe” a meramente obbligatorio: onde, per un verso, non sarebbe precluso alla Soprintendenza di formularlo tardivamente, ma l’Amministrazione procedente dovrebbe acquisirlo criticamente e motivatamente, potendovisi anche concretamente discostare) ha ricevuto recenti ed argomentati consensi (cfr. ex multis TAR Campania Napoli, sez. III, 22.04.2015, n. 2267 e soprattutto Cons. Stato, sez. VI, 27.04.2015, n. 2136, in motivato dissenso rispetto alle opzioni alternative).
La tesi (che recepisce autorevoli opinioni espresse in dottrina in subiecta materia ed è stata talora anche accolta da questo Tribunale: cfr. per esempio TAR Salerno, sez. I, 03.03.2015, n. 474) non merita, tuttavia, nonostante il notevole sforzo argomentativo, di essere seguita.
Essa muove, anzitutto, dal richiamo del pregresso orientamento che riconosceva carattere perentorio al termine riconosciuto alla Soprintendenza per procedere all'annullamento dell'autorizzazione paesaggistica reso dall'amministrazione competente ai sensi dell'articolo 82 del d.P.R. 24.07.1977, n. 616 (in seguito: articolo 162 del decreto legislativo 29.10.1999, n. 490): e ciò nel senso che l'evoluzione normativa, la quale ha trasformato l'atto di controllo annullatorio in una forma di cogestione del vincolo, non avrebbe, in realtà, inciso sulla perentorietà del termine entro il quale l'atto di esercizio del relativo potere può e deve essere adottato.
A sostegno del richiamo, si osserva che, nell'ambito di entrambi i modelli normativi (quello pregresso basato su una relazione di controllo e quello attuale basato su un modello di sostanziale cogestione del vincolo), il legislatore avrebbe, di fatto, inteso individuare un adeguato punto di equilibrio fra:
a) l'esigenza di assicurare, da un lato, una tutela pregnante a un valore di rilievo costituzionale quale la tutela del paesaggio (e ciò attraverso il riconoscimento all'organo statale di poteri, quale quello di annullamento e in seguito quello di rendere un parere vincolante, di assoluto rilievo nell'ambito della fattispecie autorizzatoria;
b) l'esigenza -parimenti di rilievo costituzionale- di garantire, dall’altro, in massimo grado la certezza e la stabilità dei rapporti giuridici, imponendo che i richiamati poteri debbano essere esercitati in tutta la loro ampiezza entro un termine certamente congruo ma allo stesso tempo certo e non superabile.
L’assunto, per come valorizzato, prova troppo e pare implausibilmente ispirato alla soverchia valorizzazione di profili funzionali a dispetto di imprescindibili dati strutturali: non gioverà, invero, insistere sul rilievo che, nel nuovo regime normativo, i poteri attribuiti alla Soprintendenza sono stati significativamente innovati, sostituendo un meccanismo di mero controllo a posteriori di legittimità (per sua natura assoggettato a termine perentorio) con una attribuzione di un potere di valutazione di merito, a connotazione propriamente “decisionale”. Una assimilazione delle due distinte situazioni in termini di “perentorietà” appare, per tal via, addirittura arbitraria.
La sentenza, peraltro, rinviene nella (previgente) previsione della possibile indizione di una (speciale) conferenza di servizi un indice normativo secondo cui, a seguito del decorso del più volte richiamato termine per l'espressione del parere vincolante (rectius: conforme) da parte della Soprintendenza, l'organo statale non resterebbe in assoluto privato della possibilità di rendere un parere; tuttavia il parere in tal modo espresso perderà il proprio valore vincolante e dovrà essere autonomamente e motivatamente valutato dall'amministrazione preposta al rilascio del titolo.
Opererebbe, per tal via, in subiecta materia una sorta di climax inverso per ciò che riguarda la possibilità per l'organo statale di incidere attraverso l'espressione del proprio parere sugli esiti della vicenda autorizzato ria, e ciò nel gradato senso per cui:
a) nel corso di una prima fase (per così dire: fisiologica), che si esaurisce con il decorso del termine di quarantacinque giorni, l'organo statale può, nella pienezza dei suoi poteri di cogestione del vincolo, emanare un parere vincolante dal quale l'amministrazione deputata all'adozione dell'autorizzazione finale non potrà discostarsi (comma 8);
b) una volta decorso inutilmente il richiamato termine senza che la Soprintendenza abbia reso il prescritto parere (seconda fase), l'amministrazione procedente può (in realtà: poteva, considerando il nuovo regime) indire una conferenza di servizi, nel cui ambito l'organo statale poteva semplicemente esprimere, inter alia, la propria “opinione”;
c) laddove poi l'inerzia della Soprintendenza si protragga ulteriormente oltre il termine di sessanta giorni da quello della ricezione della documentazione completa (terza fase), l'amministrazione competente provvede (oggi: “comunque”) sulla domanda di autorizzazione.
In sostanza, il legislatore avrebbe reso chiaro che l'ulteriore, ingiustificabile decorso del tempo legittima l'amministrazione competente all'adozione dell'autorizzazione prescindendo in radice dal parere della Soprintendenza (il quale, evidentemente, viene così a perdere il proprio carattere di obbligatorietà e vincolatività).
La tesi è piuttosto speciosa, ma non per questo persuasiva.
Ciò che non appare plausibile è l’assunto, che vi è necessariamente sotteso, che il decorso del termine per provvedere finisca per mutare la stessa natura del potere attribuito alla Soprintendenza (che da decisionale e provvedimentale si trasformerebbe in meramente ausiliario e propriamente consultivo).
Non appare conferente il riferimento alla possibilità, tra l’altro allo stato abrogata, di procedere alla facoltativa indizione di una conferenza di servizi: e ciò se non altro perché anche in sede di conferenza il regime del “parere” soprintendizio non avrebbe potuto essere, a tutto voler concedere, diverso da quello, prefigurato in termini generali agli artt. 14-ter e quater della l. n. 241/1990, che sono ben lungi dal dequotare la volontà espressa dall’organo statale a mero “parere” suscettibile di pur acquisizione “istruttoria” (come, a tacer d’altro, dimostra proprio il meccanismo preordinato al superamento del “qualificato” dissenso).
L’argomento, insomma, può perfino essere ribaltato, essendo curioso immaginare che –non potendosi dubitare che nel contesto conferenziale la Soprintendenza agisse, per dir così, nel pieno dei suoi poteri– la natura, la forza ed il valore della valutazione di compatibilità paesaggistica mutasse secundum eventum (mera consulenza, superabile con adeguata motivazione, ove non fosse attivata la conferenza; formale dissenso, per giunta qualificato, nel contesto del facoltativo apprezzamento contestuale).
In ogni caso, resta la perplessità di fondo, che il decorso del termine –idoneo, semmai ed in tesi astratta, a giustificare una preclusione, in prospettiva decadenziale, all’esercizio del potere– non è idoneo (quanto meno, si può concedere, in mancanza di una espressa ed inequivoca previsione di legge, in presenza della quale stet pro ratione voluntas) a mutare la stessa natura del potere (legittimamente) esercitato.
Piuttosto, in conclusione, dovrà pur soggiungersi che, quanto meno con riferimento al regime attualmente vigente, qualche perplessità sussiste in relazione al “vuoto procedimentale” venutosi a creare tra il quarantacinquesimo giorno (entro il quale la Soprintendenza è abilitata ad esprimere il proprio rituale parere) ed il sessantesimo giorno (che abilità il Comune a provvedere in via sostitutiva): un “vuoto” per colmare il quale non sono, per l’appunto mancati, in un tentativo “razionalizzate”, opinioni intese, nella prospettiva di un “conferimento di senso”, ad argomentare la “dequotazione” del potere decisorio della Soprintendenza.
Nondimeno, è opinione del Collegio che, in difetto di men sommario dato positivo, l’interprete debba piuttosto prendere atto di un evidente difetto di coordinamento nelle normative succedutesi nel tempo.
2.4.- Si possono trarre le conclusioni.
Allo stato, il Collegio ritiene preferibile l’orientamento, sopra argomentato, secondo cui il decorso del termine di quarantacinque giorni non solo non precluda alla Soprintendenza, fintantoché non sopravvenga la decisione surrogatoria del Comune, di provvedere, ma neppure sottragga al parere tardivo la sua ordinaria attitudine vincolante.
Sotto questo rispetto, il contrario assunto di parte ricorrente deve essere disatteso e la correlativa ragione di doglianza respinta (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 09.07.2015 n. 1565 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' noto come l’Amministrazione non possa denegare l’autorizzazione paesaggistica limitando la sua valutazione al mero riferimento ad un pregiudizio ambientale, utilizzando espressioni vaghe o formule stereotipate, ma la motivazione deve contenere una sufficiente esternazione delle specifiche ragioni per le quali si ritiene che un’opera non sia idonea ad inserirsi nell’ambiente, attraverso l’individuazione degli elementi di contrasto; occorre quindi un concreto ed analitico accertamento del disvalore delle valenze paesaggistiche.
Il diniego deve essere assistito da una motivazione concreta sulla realtà dei fatti e sulle ragioni ambientali ed estetiche che sconsigliano alla Pubblica Amministrazione di ammettere un determinato intervento: affermare che un determinato intervento compromette gli equilibri ambientali della zona interessata per le incongruenze fra tipologia e materiali scelti e contesto paesaggistico senza nulla aggiungere, non spiega alcunché sul futuro danno alle bellezze ambientali che ne deriverebbe ed è un mero postulato apodittico.
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Quanto all’assunto secondo cui l’intervento progettato non presenterebbe le caratteristiche del fabbricato rurale, vale osservare come la Soprintendenza non possa limitarsi ad asserire che l’intervento non presenta le caratteristiche del fabbricato rurale, ma deve individuare concretamente per quale motivo esso non presenti queste caratteristiche.
Del resto, in tema di autorizzazione paesaggistica relativa ad un fabbricato rurale, la Soprintendenza deve appuntare la propria attenzione sulla possibilità di rendere compatibile il manufatto con il contesto ambientale, dettando a tal uopo tutte le prescrizioni tecniche volte a rendere l'intervento edilizio quanto più possibile coerente con la cornice paesaggistica in cui è inserito, attesa la strumentalità dell’intervento allo stesso paesaggio.
Nel parere impugnato, quindi, non solo non è dato comprendere per quale motivo l’intervento non risponda alle caratteristiche del fabbricato rurale, quanto poi questa indicazione era ancor più necessaria nell’ottica di una fattiva dialettica fra privato ed Amministrazione tenuto conto che l’intervento era strumentale al bene tutelato dalla stessa Amministrazione.
Peraltro, il rapporto fra le dimensioni del fabbricato rurale progettato e la superficie del terreno, proprio in ragione della strumentalità dell’intervento al paesaggio, imponeva alla Soprintendenza di ricorrere ad argomenti di carattere agroeconomico atti a dimostrare l’esiguità del fondo rispetto alle esigenze di coltivazione, profili, invece, del tutto assenti nel provvedimento impugnato.
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Parimenti non supportato da adeguata motivazione è il rilievo per cui l’intervento, incrementando la densità edilizia, determinerebbe un’alterazione del rapporto fra la superficie libera e quella edificata e l’asservimento altererebbe l’equilibrio tra aree coltivate e fabbricati elemento caratterizzante del paesaggio rurale.
Si tratta invero di formula apodittica, stereotipata oltre che generica, e quindi inidonea a spiegare effettivamente le ragioni del contrasto dell’intervento progettato con il bene tutelato.

3.- Il ricorso appare, tuttavia, fondato, sotto il dedotto profilo del difetto di motivazione.
Sotto un primo profilo, il parere negativo impugnato fa leva sulla valorizzata circostanza secondo cui la superficie reale del lotto sarebbe inferiore a quella catastale.
Si tratta, nondimeno, di assunto del tutto generico, in quanto non è dato comprendere a quale stralcio di particella si riferisca la Soprintendenza, atteso che l’intervento per cui è causa riguardava solo la particella 623 del foglio 26 rispetto alla quale, come si evince dalla planimetria catastale depositata in giudizio, non sussiste alcuno stralcio.
Peraltro, la ricorrente, in sede di presentazione dell’istanza, aveva riportato i dati circa la consistenza dell’area (particella 623 del foglio 26) di mq. 1.219,00, quale area libera sulla quale doveva eseguirsi l’intervento. Ora, l’Amministrazione pur assumendo esattamente il dato della superficie (nel punto in cui riporta l’esame della documentazione) afferma che sull’area identificata esistono altri fabbricati.
Tuttavia, nella rappresentazione grafica l’area risulta totalmente libera, sicché non si comprende la fonte del contrario assunto soprintendizio, e ciò tanto più che dalle fotografie allegate all’istanza prodotta risulta palese come sul terreno interessato non vi fossero ulteriori manufatti.
Peraltro, in ogni caso, va comunque soggiunto che, in via di principio, “l’estensione del fondo interessato dal progettato intervento non costituisce parametro normativamente definito e rilevante, né in virtù della legislazione in materia di tutela paesaggistico-ambientale, né in ragione della disciplina urbanistica" (TAR Campania, Salerno, sez. II, 01.08.2012, n. 1591).
Anche la ritenuta incompatibilità paesaggistica appare affermata senza idoneo supporto giustificativo (in tesi astratta correlato al puntuale apprezzamento delle concrete caratteristiche progettuali dell’intervento programmato, comparate al contesto di inserimento).
La Soprintendenza si è, invero, limitata ad addurre la circostanza secondo cui il fabbricato, per dimensioni e tipologia, non sarebbe paesaggisticamente compatibile.
Orbene è noto come l’Amministrazione non possa denegare l’autorizzazione paesaggistica limitando la sua valutazione al mero riferimento ad un pregiudizio ambientale, utilizzando espressioni vaghe o formule stereotipate, ma la motivazione deve contenere una sufficiente esternazione delle specifiche ragioni per le quali si ritiene che un’opera non sia idonea ad inserirsi nell’ambiente, attraverso l’individuazione degli elementi di contrasto; occorre quindi un concreto ed analitico accertamento del disvalore delle valenze paesaggistiche.
Il diniego deve essere assistito da una motivazione concreta sulla realtà dei fatti e sulle ragioni ambientali ed estetiche che sconsigliano alla Pubblica Amministrazione di ammettere un determinato intervento: affermare che un determinato intervento compromette gli equilibri ambientali della zona interessata per le incongruenze fra tipologia e materiali scelti e contesto paesaggistico senza nulla aggiungere, non spiega alcunché sul futuro danno alle bellezze ambientali che ne deriverebbe ed è un mero postulato apodittico (TAR Campania, Salerno, sez. II, 13.03.2014, n. 706; TAR Campania, Salerno, sez. I, 24.02.2014, n. 459; TAR Campania, Salerno, sez. II, 04.02.2014, n. 293; TAR Puglia, Lecce, sez. I, 24.07.2014, n. 1956; TAR Umbria, sez. I, 14.05.2014, n. 322; TAR Lazio, sez. II-bis, 06.11.2013, n. 9478; TAR Campania, Napoli, sez. VII, 28.10.2013, n. 4792; TAR Campania, Salerno, sez. II, 27.09.2012, n. 1783; TAR Piemonte, sez. I, 20.11.2011, n. 1153; TAR Liguria, sez. I, 22.12.2008, n. 2187).
In questi termini è evidente come la Soprintendenza non poteva denegare l’intervento attraverso il generico richiamo alle dimensioni ed alla tipologia ma avrebbe dovuto spiegare in termini concreti quali profili dei due aspetti rendevano l’intervento incompatibile con il vincolo.
Quanto all’assunto secondo cui l’intervento progettato non presenterebbe le caratteristiche del fabbricato rurale, vale osservare (cfr. TAR Salerno, sez. II, 23.11.2013, n. 2358) come, di nuovo, la Soprintendenza non possa limitarsi ad asserire che l’intervento non presenta le caratteristiche del fabbricato rurale, ma deve individuare concretamente per quale motivo esso non presenti queste caratteristiche.
Del resto, in tema di autorizzazione paesaggistica relativa ad un fabbricato rurale, la Soprintendenza deve appuntare la propria attenzione sulla possibilità di rendere compatibile il manufatto con il contesto ambientale, dettando a tal uopo tutte le prescrizioni tecniche volte a rendere l'intervento edilizio quanto più possibile coerente con la cornice paesaggistica in cui è inserito, attesa la strumentalità dell’intervento allo stesso paesaggio (C.d.S., sez. VI, 25.02.2013, n. 1117; TAR Campania, Salerno, sez. II, 23.11.2013, n. 2358).
Nel parere impugnato, quindi, non solo non è dato comprendere per quale motivo l’intervento non risponda alle caratteristiche del fabbricato rurale, quanto poi questa indicazione era ancor più necessaria nell’ottica di una fattiva dialettica fra privato ed Amministrazione tenuto conto che l’intervento era strumentale al bene tutelato dalla stessa Amministrazione.
Peraltro, il rapporto fra le dimensioni del fabbricato rurale progettato e la superficie del terreno, proprio in ragione della strumentalità dell’intervento al paesaggio, imponeva alla Soprintendenza di ricorrere ad argomenti di carattere agroeconomico atti a dimostrare l’esiguità del fondo rispetto alle esigenze di coltivazione, profili, invece, del tutto assenti nel provvedimento impugnato (TAR Campania, Salerno, sez. II, 23.11.2013, n. 2358).
Parimenti non supportato da adeguata motivazione è il rilievo per cui l’intervento, incrementando la densità edilizia, determinerebbe un’alterazione del rapporto fra la superficie libera e quella edificata e l’asservimento altererebbe l’equilibrio tra aree coltivate e fabbricati elemento caratterizzante del paesaggio rurale.
Si tratta invero (cfr. TAR Salerno, sez. I, 24.02.2014, n. 459; sez. II, 04.02.2014, n. 293; sez. I, 03.03.2015, n. 467) di formula apodittica, stereotipata oltre che generica, e quindi inidonea a spiegare effettivamente le ragioni del contrasto dell’intervento progettato con il bene tutelato.
4.- Sulle esposte considerazioni, i ricorsi epigrafati devono essere accolti, fatte salve le successive valutazioni da esprimersi in sede di rinnovazione, in prospettiva conformativa, del procedimento preordinato al rilascio della autorizzazione paesaggistica (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 09.07.2015 n. 1565 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 20.08.2015 n. 192, suppl. ord. n. 51, "Approvazione di norme tecniche di prevenzione incendi, ai sensi dell’articolo 15 del decreto legislativo 08.03.2006, n. 139" (Ministero dell'Interno, decreto 03.08.2015).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 34 del 19.08.2015, "Disposizioni in merito alla disciplina per l’efficienza energetica degli edifici e per il relativo attestato di prestazione energetica a seguito della d.g.r. 3868 del 17.07.2015" (decreto D.U.O. 30.07.2015 n. 6480).

AMBIENTE-ECOLOGIA - CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - TRIBUTI: G.U. 14.08.2015 n. 188, suppl. ord. n. 49/L, "Testo del decreto-legge 19.06.2015, n. 78, coordinato con la legge di conversione 06.08.2015, n. 125, recante: «Disposizioni urgenti in materia di enti territoriali. Disposizioni per garantire la continuità dei dispositivi di sicurezza e di controllo del territorio. Razionalizzazione delle spese del Servizio sanitario nazionale nonché norme in materia di rifiuti e di emissioni industriali»".
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Di particolare interesse si leggano:
Art. 1. - Rideterminazione degli obiettivi del patto di stabilità interno di Comuni, Province e Città metropolitane per gli anni 2015-2018 e ulteriori disposizioni concernenti il patto di stabilità interno
Art. 4. - Disposizioni in materia di personale
Art. 5. - Misure in materia di polizia provinciale
Art. 7. - Ulteriori disposizioni concernenti gli Enti locali
Art. 7-bis. - Assicurazione degli amministratori locali e rimborso delle spese legali

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: G.U. 13.08.2015 n. 187 "Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche" (Legge 07.08.2015 n. 124).
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Di particolare interesse si leggano:
Art. 1. - (Carta della cittadinanza digitale)
Art. 2. - (Conferenza di servizi)
Art. 3. - (Silenzio assenso tra amministrazioni pubbliche e tra amministrazioni pubbliche e gestori di beni o servizi pubblici)
Art. 4. - (Norme per la semplificazione e l’accelerazione dei procedimenti amministrativi)
Art. 5. - (Segnalazione certificata di inizio attività, silenzio assenso, autorizzazione espressa e comunicazione preventiva)
Art. 6. - (Autotutela amministrativa)
Art. 7. - (Revisione e semplificazione delle disposizioni in materia di prevenzione della corruzione, pubblicità e trasparenza)
Art. 8. - (Riorganizzazione dell’amministrazione dello Stato)
Art. 10. - (Riordino delle funzioni e del finanziamento delle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura)
Art. 11. - (Dirigenza pubblica)
Art. 14. - (Promozione della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro nelle amministrazioni pubbliche)
Art. 16. - (Procedure e criteri comuni per l’esercizio di deleghe legislative di semplificazione)
Art. 17. - (Riordino della disciplina del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche)
Art. 18. - (Riordino della disciplina delle partecipazioni societarie delle amministrazioni pubbliche)
Art. 19. - (Riordino della disciplina dei servizi pubblici locali di interesse economico generale)
Art. 20. - (Riordino della procedura dei giudizi innanzi la Corte dei conti)
Art. 21. - (Modifica e abrogazione di disposizioni di legge che prevedono l’adozione di provvedimenti attuativi)

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 33 del 13.08.2015, "Approvazione del formato per la fornitura dei dati per la mappatura acustica ai sensi della deliberazione di Giunta regionale 19.06.2015 n. X/3735 con la quale è stato approvato lo schema del protocollo d’intesa per l’adesione dei comuni al macroagglomerato di livello regionale per gli adempimenti di mappatura acustica" (decreto D.S. 06.08.2015 n. 6704).

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Interpellanze senza limiti. La prerogativa dei consiglieri è incomprimibile. I componenti dell'assemblea devono evitare comportamenti non corretti.
L'art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000 al comma 3 stabilisce il termine di 30 giorni per la risposta scritta alle interpellanze presentate dai consiglieri comunali. Tale termine può essere disatteso, a causa dell' elevato numero di richieste, al fine di non compromettere l'attività dell'ufficio? È possibile configurare un'ipotesi di finalità emulativa nel caso in cui un consigliere presenti numerose interpellanze a risposta scritta?

L'art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000 al comma 3 riconosce ai consiglieri comunali la facoltà di presentare «interrogazioni e ogni altra istanza di sindacato ispettivo», alle quali il sindaco o gli assessori da esso delegati, devono dare risposta entro 30 giorni.
Le modalità della presentazione di tali atti e delle relative risposte sono disciplinate dallo statuto e dal regolamento consiliare.
Nel caso di specie, lo statuto del comune, ribadendo il diritto in parola, rinvia al regolamento per il funzionamento del consiglio la disciplina delle modalità per la presentazione anche delle interpellanze.
Il citato regolamento conferma la facoltà dei consiglieri di presentare le interpellanze, disciplinando tre forme di risposta: a) in forma scritta, entro 30 giorni; b) verbalmente in consiglio comunale; c) verbalmente nella commissione consiliare permanente preposta. Secondo la norma regolamentare, le risposte verbali sono soggette a tempi limitati nell'ambito delle sedute di consiglio comunale e delle commissioni permanenti; per le risposte scritte vige il solo termine di 30 giorni come previsto dalla legge.
Né la legge né le disposizioni statutarie e regolamentari del comune, pertanto, pongono dei limiti all'iniziativa di interpellanza a risposta scritta da parte dei consiglieri.
In ogni caso, l'esercizio delle prerogative dei consiglieri comunali (diritto di accesso, e diritto di presentare interrogazioni, mozioni e ogni altra istanza di sindacato ispettivo) non potrebbe subire limitazioni a causa di difficoltà organizzative. Infatti, il Tribunale amministrativo regionale per la Calabria (sezione seconda) con sentenza n. 77 del 16/01/2014, ha osservato che «il limite di natura organizzativa non può essere eccepito dall'amministrazione a ragione del diniego dell'accesso, proprio perché la difficoltà organizzativa rientra tra quegli adempimenti a carico di ogni amministrazione pubblica e quindi, ogni singola struttura dovrà dotarsi di tutti i mezzi necessari all'assolvimento dei propri compiti (Cons. stato, sez. V, sentenza n. 2716/2004)».
Tuttavia, la Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, presso la presidenza del consiglio dei ministri, con parere 10.12.2002, ha affermato che è «generale dovere della pubblica amministrazione ispirare la propria attività al principio di economicità che incombe non solo sugli uffici tenuti a provvedere ma anche sui soggetti che richiedono prestazioni amministrative, i quali, specie se appartenenti alla stessa amministrazione, sono tenuti, in un clima di leale cooperazione, a modulare le proprie richieste».
Pertanto, nonostante la riconosciuta ampiezza del diritto in parola, il consigliere è comunque soggetto al rispetto di alcune forme e modalità dovendo contemperare le opposte esigenze, vale a dire, da un lato le pretese conoscitive dei consiglieri comunali e dall'altro le «evidenti esigenze di funzionalità dell'amministrazione locale». Quindi, anche alla luce della citata giurisprudenza, l'ente, in assenza di disposizioni limitative, non può esimersi dal fornire risposta alle interpellanze nei tempi previsti, ferma restando l'esigenza di leale collaborazione da parte dei consiglieri comunali, che con eventuali comportamenti non corretti possono provocare disservizi (articolo ItaliaOggi del 14.08.2015).

CORTE DEI CONTI

SEGRETARI COMUNALI: Danno erariale in capo al segretario comunale ed al responsabile del servizio finanziario.
Segretari comunali convenzionati: la scure sui rimborsi delle spese di viaggio.
Euro 31.565,10, è questo l'importo che il segretario convenzionato si era fatto rimborsare per le spese di viaggio sostenute per i trasferimenti dal luogo di propria residenza a quello della sede di lavoro dal gennaio 2010 ad aprile 2012.
Un danno erariale contestato dalla Procura ed accertato dalla Corte dei Conti, Sez. giurisdizionale per l'Emilia Romagna che, con sentenza 12.08.2015 n. 103, ha condannato il segretario comunale.
Ad avviso del Collegio,
l’articolo 45, secondo comma, C.C.N.L. 16/05/2001, che testualmente recita “al segretario titolare di segreteria convenzionate per l’accesso alle diverse sedi, spetta il rimborso delle spese di viaggio effettivamente sostenute e documentabili” va inserito nella complessiva disciplina relativa al rimborso delle spese di viaggio per i pubblici dipendenti.
Il rimborso delle spese di viaggio che può considerarsi legittimamente rimborsabile riguarda solo gli spostamenti da uno ad un altro dei comuni riuniti in convenzione, per l’esercizio delle relative funzioni da parte del segretario convenzionato.

Il Collegio chiarisce, sul punto, che
non depongono in senso diverso nessuno dei pareri resi dall’Agenzia autonoma per la gestione dell’albo dei segretari comunali e provinciali quale, ad esempio, il parere del 21.04.2006 che prevede il rimborso delle spese di viaggio sempre con riferimento a quelle relative agli spostamenti tra i comuni convenzionati e chiarisce in modo inequivocabile l’impossibilità di legittimi rimborsi per gli spostamenti dalla residenza del segretario al comune capofila e viceversa.
L’inciso che ammette il rimborso delle spese di viaggio nel citato parere -precisa la Corte dei Conti- fa riferimento alla possibilità del segretario comunale di recarsi partendo dalla propria residenza prima in un Comune non capofila della convenzione; in tale ipotesi saranno rimborsabili le spese di viaggio non dalla residenza al Comune non capofila, bensì solamente quelle relative alla tragitto dal comune capofila al Comune non capofila (commento tratto da www.ilquotidianodellapa.it).
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MASSIMA
Il Collegio reputa che sia rinvenibile in capo al segretario comunale, un’ipotesi di responsabilità amministrativa, sussistendone tutti gli elementi costitutivi.
E’ di tutta evidenza, la sussistenza del rapporto di servizio del medesimo con l’amministrazione.
Ad avviso della Sezione, sussistono, inoltre, il comportamento causativo di danno erariale nonché il nesso causale tra comportamento e danno.
In particolare, risulta accertato agli atti che i rimborsi a favore del segretario furono effettuati sulla base di espresse richieste in tal senso da parte del convenuto per tutto il periodo dal gennaio 2010 ad aprile 2012 e che la liquidazione fu effettuata sulla base di un prospetto riassuntivo sottoscritto congiuntamente dal segretario C. e dalla responsabile del servizio finanziario M..
Sussiste, pertanto, ad avviso del Collegio, il nesso di causalità tra l’esborso di denaro avvenuto da parte del comune e la condotta del convenuto di proposizione d’istanza di rimborso delle spese di viaggio per il tragitto abitazione-luogo di lavoro.
In relazione all’elemento soggettivo, poi, questa Sezione lo rinviene nella colpa grave in capo al dott. C..
Secondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza della Corte dei Conti,
il concetto di colpa grave va inquadrato nella nozione di colpa professionale di cui all’art. 1176, 2° comma, c.c. e va inteso come osservanza non già della normale diligenza del “bonus pater familias”, bensì di quella particolare diligenza occorrente con riguardo alla natura e alle caratteristiche di una specifica attività esercitata.
Perché si abbia colpa grave non è richiesto, perciò, che si sia tenuto un comportamento assolutamente abnorme, ma è sufficiente che l’agente abbia omesso di attivarsi come si attiverebbe, nelle stesse situazioni, anche il meno provveduto degli esercenti quella determinata attività. In altri termini, è ritenuto sufficiente, per la sussistenza del suindicato grado di colpa, che nella fattispecie l’agente abbia serbato comunque un comportamento contrario a regole deontologiche elementari.
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Con riferimento al parere dell’Agenzia autonoma per la gestione dell’albo dei segretari comunali e provinciali in data 21.04.2006, come correttamente riportato in citazione, si statuisce che “
ferma restando l’esclusione del rimborso nelle ipotesi dello spostamento dalla propria residenza al comune capofila e viceversa, al pari del rimborso del percorso effettuato per raggiungere dall’ultimo comune il proprio domicilio, si fa rilevare quanto segue. È necessario considerare l’ipotesi in cui il segretario organizzi la propria attività lavorativa in maniera tale da raggiungere, in via primaria, un Comune diverso da quello capofila della convenzione per motivi di convenienza e per esigenze personali, con la conseguenza che, in siffatto caso, si può giustificare la risoluzione che prevede il rimborso delle spese di viaggio”.
In buona sostanza, quindi,
tale parere prevede il rimborso delle spese di viaggio sempre con riferimento a quelle relative agli spostamenti tra i comuni convenzionati e chiarisce in modo inequivocabile l’impossibilità di legittimi rimborsi per gli spostamenti dalla residenza del segretario al comune capofila e viceversa. L’inciso che ammette il rimborso delle spese di viaggio nel citato parere fa riferimento alla possibilità del segretario comunale di recarsi partendo dalla propria residenza prima in un Comune non capofila della convenzione; in tale ipotesi saranno rimborsabili le spese di viaggio non dalla residenza al Comune non capofila, bensì solamente quelle relative alla tragitto dal comune capofila al Comune non capofila.
Proprio l’espresso riferimento al parere dell’Agenzia autonoma per la gestione dell’albo dei segretari comunali e provinciali del 21.04.2006 nei provvedimenti di rimborso delle spese di viaggio spettanti alla segretario comunale, anche se limitatamente all’affermazione relativa al rimborso delle spese di viaggio per raggiungere un Comune diverso da quello capofila della convenzione per motivi di convenienza e per esigenze personali, permette di concludere nel senso che
l’odierno convenuto Dott. C., non poteva non avere conoscenza, tenuto altresì conto della propria qualifica professionale, della parte immediatamente antecedente a quella riportata nella citata delibera la quale, come già riportato, testualmente sancisce che resta ferma “l’esclusione del rimborso dell’ipotesi dello spostamento dalla propria residenza al comune capofila e viceversa, al pari del rimborso del percorso effettuato per raggiungere dall’ultimo comune il proprio domicilio……”.
Se ne conclude che tutti gli elementi richiamati permettono di giudicare commessa con colpa grave la richiesta e l’ottenimento del rimborso da parte del segretario comunale delle spese di viaggio sostenute per il tragitto abitazione-luogo di lavoro nel periodo intercorrente dal gennaio 2010 al aprile 2012.
L’elemento soggettivo in relazione alla condotta del convenuto integra, dunque, un’ipotesi di colpa grave.
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Quanto sopra esposto non può non valere anche nei confronti della responsabile del servizio finanziario del comune.
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Con riguardo alla liquidazione del danno la Procura lo ha individuato nella somma di euro 31.565,10, somma corrispondente ai rimborsi asseritamente illeciti disposti a favore della segretario comunale C..
Relativamente all’imputazione dell’obbligazione di risarcimento del danno, il Pubblico Ministero ha ritenuto di individuare nella percentuale dell’80% l’importo addebitabile al dottor C., ravvisando nei suoi confronti la violazione, quantomeno gravemente colposa, dei doveri di comportamento nascenti dal rapporto di servizio con la pubblica amministrazione e posti a tutela della legalità, dell’economicità e del buon andamento dell’azione amministrativa.
Ai fini dell’imputazione della restante parte dell’obbligazione risarcitoria, pari al 20%, l’organo requirente ha indicato nella signora P.M. l’ulteriore responsabile del danno, poiché, nella sua qualità di responsabile del servizio finanziario del comune di Camugnano, avrebbe adottato i provvedimenti di liquidazione sopra richiamati con somma imperizia e comportamento gravemente negligente con riguardo all’esame dei loro presupposti.
La procura ha individuato una ulteriore fattispecie di responsabilità amministrativa, contestata alle convenute C. e M., per la somma di euro 3000, quale compenso corrisposto dal Comune di Castel di Casio a favore dell’avvocato OMISSIS per il parere sulla legittimità dei rimborsi delle spese di viaggio del segretario.
Tale incarico, secondo la ricostruzione di parte attrice, fu affidato con determinazione n. 87 del 14.12.2011, dalla dottoressa S.C., nella qualità di responsabile del I servizio del comune di Castel di Casio; ad avviso del Pubblico Ministero tale spesa risulterebbe inutile e superflua, nonché assunta senza il rispetto dei parametri di legittimità di cui all’articolo 7 del decreto legislativo 165 del 2001, in tema di incarichi esterni alla pubblica amministrazione.
Inoltre, si rappresenta che il provvedimento di affidamento intervenne successivamente al decreto del 17.05.2011 del Presidente della Unità di Missione ed al parere del 21.04.2011 del Ragioniere Generale dello Stato, atti con i quali, come sostiene parte attrice, sarebbe stato ribadito che “nessun rimborso spetti per i tragitti abitazione-luogo di lavoro e viceversa”.
Ancora, la Procura ha evidenziato che il provvedimento di affidamento all’avvocato OMISSIS non riporterebbe alcunché circa la preventiva verifica dell’impossibilità di poter far fronte alle medesime esigenze con risorse interne.
Relativamente a tale ulteriore voce di danno patrimoniale, il P.M. ha ritenuto che dovrebbe essere imputata alla dottoressa S.C., che ha affidato direttamente l’incarico all’avvocato OMISSIS, con la citata determinazione n. 87/2011 ed ha, poi, disposto la liquidazione del compenso, violazione che si afferma essere gravemente colposa dei limiti di legge sopra esposti.
...
I.- L’ ipotesi di danno erariale sottoposta al giudizio di questa Corte è collegata alle condotte del dott. C., il quale, in qualità di segretario convenzionato, avrebbe chiesto e ottenuto dal comune capofila rimborsi delle spese di viaggio sostenute per i trasferimenti dal luogo di propria residenza a quello della sede di lavoro, e della signora M., nella sua qualità di responsabile del servizio finanziario del comune di Camugnano, la quale, nell’esercizio della proprie funzioni, avrebbe adottato i provvedimenti di liquidazione dei predetti rimborsi, nonché della dottoressa C., la quale, nella qualità di responsabile del I servizio del comune di Castel di Casio, avrebbe affidato con determinazione n. 87 del 14/12/2011, un incarico a favore dell’avvocato OMISSIS, per redigere il parere sulla legittimità dei rimborsi delle spese di viaggio al segretario.
Il danno conseguente è stato quantificato, secondo la prospettazione della Procura Regionale presso questa Sezione, per i convenuti C. e M., nella somma complessiva di euro 31.565,10, oltre rivalutazione monetaria interessi legali dalla data di ciascun singolo esborso fino al soddisfo e spese del presente procedimento, ripartito nell’80% a carico del dottor C. e nel 20% a carico della signora M., pari alla somma dei rimborsi disposti a favore del C. dai provvedimenti elencati in citazione da gennaio 2010 ad aprile 2012; per la convenuta C. nella somma di euro 3000, oltre rivalutazione monetaria e interessi legali dalla data del 13.06.2012 fino al soddisfo e spese del presente procedimento, pari alla somma corrisposta dal comune di Castel di Casio a favore dell’avv. OMISSIS, per il parere formulato sulla legittimità dei rimborsi delle spese di viaggio al segretario.
II- Passando al merito della causa, il Collegio intende esaminare separatamente le posizioni dei convenuti.
Con riguardo al segretario comunale dottor C., la Sezione deve soffermarsi sulla valutazione della sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della responsabilità in relazione al giudizio instaurato nei confronti del convenuto.
Il Collegio reputa che sia rinvenibile in capo al segretario comunale, un’ipotesi di responsabilità amministrativa, sussistendone tutti gli elementi costitutivi.
E’ di tutta evidenza, la sussistenza del rapporto di servizio del medesimo con l’amministrazione.
Ad avviso della Sezione, sussistono, inoltre, per quanto esposto, il comportamento causativo di danno erariale nonché il nesso causale tra comportamento e danno.
In particolare, risulta accertato agli atti che i rimborsi a favore del segretario furono effettuati sulla base di espresse richieste in tal senso da parte del convenuto per tutto il periodo dal gennaio 2010 ad aprile 2012 e che la liquidazione fu effettuata sulla base di un prospetto riassuntivo sottoscritto congiuntamente dal segretario C. e dalla responsabile del servizio finanziario M..
Sussiste, pertanto, ad avviso del Collegio, il nesso di causalità tra l’esborso di denaro avvenuto da parte del comune di Camugnano e la condotta del convenuto di proposizione d’istanza di rimborso delle spese di viaggio per il tragitto abitazione-luogo di lavoro.
In relazione all’elemento soggettivo, poi, questa Sezione lo rinviene nella colpa grave in capo al dott. C..
Secondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza della Corte dei Conti, il concetto di colpa grave va inquadrato nella nozione di colpa professionale di cui all’art. 1176, 2° comma, c.c. e va inteso come osservanza non già della normale diligenza del “bonus pater familias”, bensì di quella particolare diligenza occorrente con riguardo alla natura e alle caratteristiche di una specifica attività esercitata.
Perché si abbia colpa grave non è richiesto, perciò, che si sia tenuto un comportamento assolutamente abnorme, ma è sufficiente che l’agente abbia omesso di attivarsi come si attiverebbe, nelle stesse situazioni, anche il meno provveduto degli esercenti quella determinata attività. In altri termini, è ritenuto sufficiente, per la sussistenza del suindicato grado di colpa, che nella fattispecie l’agente abbia serbato comunque un comportamento contrario a regole deontologiche elementari.
A tale proposito pare opportuno esaminare la posizione del convenuto.
Svolgendo una ricostruzione della disciplina applicabile al caso di specie, il Collegio intende chiarire, in primo luogo, l’interpretazione del significato da attribuire all’articolo 45 secondo comma C.C.N.L. 16/05/2001, che testualmente recita “al segretario titolare di segreteria convenzionate per l’accesso alle diverse sedi, spetta il rimborso delle spese di viaggio effettivamente sostenute e documentabili”.
Reputa la Sezione, che tale previsione debba essere necessariamente inserita nella complessiva disciplina relativa al rimborso delle spese di viaggio per i pubblici dipendenti. A prescindere, infatti, dalla applicabilità o meno, come sostenuto dal convenuto C., dell’articolo 10, terzo comma, del D.P.R. 04.12.1997, n. 465, norma, comunque, espressamente richiamata nelle premesse della convenzione del 05/11/2009 tra il comune di Camugnano e il comune di Castel di Casio, il rimborso delle spese di viaggio che può considerarsi legittimamente rimborsabile riguarda solo gli spostamenti da uno ad un altro dei comuni riuniti in convenzione, per l’esercizio delle relative funzione da parte del segretario convenzionato.
Il Collegio chiarisce, che non depongono in senso diverso nessuno dei pareri citati da parte convenuta dell’Agenzia autonoma per la gestione dell’albo dei segretari comunali e provinciali.
Con riferimento, in primo luogo, al parere in data 21.04.2006, come correttamente riportato in citazione, si statuisce che “
ferma restando l’esclusione del rimborso nelle ipotesi dello spostamento dalla propria residenza al comune capofila e viceversa, al pari del rimborso del percorso effettuato per raggiungere dall’ultimo comune il proprio domicilio, si fa rilevare quanto segue. È necessario considerare l’ipotesi in cui il segretario organizzi la propria attività lavorativa in maniera tale da raggiungere, in via primaria, un Comune diverso da quello capofila della convenzione per motivi di convenienza e per esigenze personali, con la conseguenza che, in siffatto caso, si può giustificare la risoluzione che prevede il rimborso delle spese di viaggio”.
In buona sostanza, quindi,
tale parere prevede il rimborso delle spese di viaggio sempre con riferimento a quelle relative agli spostamenti tra i comuni convenzionati e chiarisce in modo inequivocabile l’impossibilità di legittimi rimborsi per gli spostamenti dalla residenza del segretario al comune capofila e viceversa. L’inciso che ammette il rimborso delle spese di viaggio nel citato parere fa riferimento alla possibilità del segretario comunale di recarsi partendo dalla propria residenza prima in un Comune non capofila della convenzione; in tale ipotesi saranno rimborsabili le spese di viaggio non dalla residenza al Comune non capofila, bensì solamente quelle relative alla tragitto dal comune capofila al Comune non capofila.
Ancora, il parere in data 03.06.2008 dell’Agenzia dei segretari comunali, citato nella comparsa di costituzione del convenuto C., si riferisce al differente caso di un segretario in disponibilità incaricato di reggenza o supplenza, così come il successivo parere numero 284/2008.
Proprio l’espresso riferimento al parere dell’Agenzia autonoma per la gestione dell’albo dei segretari comunali e provinciali del 21.04.2006 nei provvedimenti di rimborso delle spese di viaggio spettanti alla segretario comunale, anche se limitatamente all’affermazione relativa al rimborso delle spese di viaggio per raggiungere un Comune diverso da quello capofila della convenzione per motivi di convenienza e per esigenze personali, permette di concludere nel senso che
l’odierno convenuto Dott. C., non poteva non avere conoscenza, tenuto altresì conto della propria qualifica professionale, della parte immediatamente antecedente a quella riportata nella citata delibera la quale, come già riportato, testualmente sancisce che resta ferma “l’esclusione del rimborso dell’ipotesi dello spostamento dalla propria residenza al comune capofila e viceversa, al pari del rimborso del percorso effettuato per raggiungere dall’ultimo comune il proprio domicilio……”.
Se ne conclude che tutti gli elementi richiamati permettono di giudicare commessa con colpa grave la richiesta e l’ottenimento del rimborso da parte del segretario comunale delle spese di viaggio sostenute per il tragitto abitazione-luogo di lavoro nel periodo intercorrente dal gennaio 2010 al aprile 2012.
L’elemento soggettivo in relazione alla condotta del convenuto integra, dunque, un’ipotesi di colpa grave.

In relazione all’elemento del danno, la Sezione reputa che nei confronti della convenuto vada, infine, determinato, come correttamente ritenuto in atto di citazione nell’80% dell’intero importo liquidato dal comune di Camugnano in favore del segretario comunale, pari complessivamente ad euro 31.565,10, senza esercizio del potere riduttivo, tenuto conto del fatto che la condotta del convenuto complessivamente pare finalizzato all’ottenimento di un rimborso che non poteva non risultare quantomeno incerto agli occhi di un operatore del diritto, senza tenere nel adeguato conto l’interesse dell’amministrazione comunale.
A nulla rileva il riferito deposito di una somma da parte del convenuto, in quanto l’effettivo incasso da parte del comune risulta sottoposto a condizione dell’ eventuale condanna del segretario e, quindi, allo stato degli atti, non concreto ed attuale.
Tale somma dovrà essere rivalutata dalla data dell’invito a dedurre, se in possesso dei requisiti per la messa in mora, fino al deposito della sentenza e andranno corrisposti interessi legali sulla somma rivalutata da tale data fino all’effettivo soddisfo.
L’ istanza della Procura va, pertanto, accolta nei confronti del convenuto Dott. G.C., nei termini sopra esposti.
Le spese di giustizia seguono la soccombenza.
III.- Passando all’analisi della posizione della signora P.M., la Sezione deve soffermarsi sulla valutazione della sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della responsabilità in relazione al giudizio instaurato nei confronti del convenuta.
Il Collegio reputa che sia rinvenibile in capo alla responsabile del servizio finanziario del comune di Camugnano, un’ipotesi di responsabilità amministrativa, sussistendone tutti gli elementi costitutivi.
E’ di tutta evidenza, la sussistenza del rapporto di servizio della medesima con l’amministrazione.
Ad avviso della Sezione, sussistono, inoltre, per quanto esposto, il comportamento causativo di danno erariale nonché il nesso causale tra comportamento e danno.
In particolare, risulta accertato agli atti che i rimborsi a favore del segretario furono effettuati sulla base di provvedimenti di liquidazione del responsabile del servizio finanziario del Comune di Camugnano, contenenti prospetti riassuntivi sottoscritti congiuntamente dal segretario comunale e dalla medesima signora M., e che i mandati di pagamento sono tutti sottoscritti dalla convenuta M.. Sussiste, pertanto, ad avviso del Collegio, il nesso di causalità tra l’esborso di denaro avvenuto da parte del comune di Camugnano e la condotta della convenuta.
In relazione all’elemento soggettivo, poi, questa Sezione lo rinviene nella colpa grave in capo alla sig.ra M..
Secondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza della Corte dei Conti,
il concetto di colpa grave va inquadrato nella nozione di colpa professionale di cui all’art. 1176, 2° comma, c.c. e va inteso come osservanza non già della normale diligenza del “bonus pater familias”, bensì di quella particolare diligenza occorrente con riguardo alla natura e alle caratteristiche di una specifica attività esercitata.
Perché si abbia colpa grave non é richiesto, perciò, che si sia tenuto un comportamento assolutamente abnorme, ma é sufficiente che l’agente abbia omesso di attivarsi come si attiverebbe, nelle stesse situazioni, anche il meno provveduto degli esercenti quella determinata attività. In altri termini, è ritenuto sufficiente, per la sussistenza del suindicato grado di colpa, che nella fattispecie l’agente abbia serbato comunque un comportamento contrario a regole deontologiche elementari.

A tale proposito pare opportuno esaminare la posizione della convenuta.
Si richiama la ricostruzione della disciplina applicabile al caso di specie effettuata dal Collegio nella trattazione relativa alla posizione del convenuto Dott. C..
Come per il segretario comunale, proprio l’espresso riferimento al parere dell’Agenzia autonoma per la gestione dell’albo dei segretari comunali e provinciali del 21.04.2006 nei provvedimenti di rimborso delle spese di viaggio sottoscritti dalla convenuta, anche se in tali atti viene riportata solo la parte relativa al rimborso delle spese di viaggio per raggiungere un Comune diverso da quello capofila della convenzione per motivi di convenienza e per esigenze personali, permette di concludere nel senso che
l’odierna convenuta sig.ra M. non poteva non avere conoscenza della parte immediatamente antecedente della citata delibera la quale, come già riportato, testualmente sancisce che resta ferma “l’esclusione del rimborso dell’ipotesi dello spostamento dalla propria residenza al comune capofila e viceversa, al pari del rimborso del percorso effettuato per raggiungere dall’ultimo comune il proprio domicilio……”.
Se ne conclude che tutti gli elementi richiamati permettono di giudicare commessa con colpa grave la sottoscrizione dei provvedimenti di rimborso delle spese di viaggio effettuate dalla segretario comunale da gennaio 2010 ad aprile 2012, la sottoscrizione dei prospetti riassuntivi delle spese sostenute e la sottoscrizione dei mandati di pagamento.
L’elemento soggettivo in relazione alla condotta della convenuta integra, dunque, un’ipotesi di colpa grave.

In relazione all’elemento del danno, la Sezione reputa che nei confronti della convenuta vada, infine, determinato, come correttamente ritenuto in atto di citazione nell’20% dell’intero importo liquidato dal comune di Camugnano in favore del segretario comunale, pari complessivamente ad euro 31.565,10, senza esercizio del potere riduttivo, tenuto conto della già ridotta percentuale di danno addebitata alla signora M..
Tale somma dovrà essere rivalutata dalla data dell’invito a dedurre, se in possesso dei requisiti per la messa in mora, fino al deposito della sentenza e andranno corrisposti interessi legali sulla somma rivalutata da tale data fino all’effettivo soddisfo.
L’istanza della Procura va, pertanto, accolta nei confronti della convenuta signora P.M., nei termini sopra esposti.
Le spese di giustizia seguono la soccombenza.
IV- Passando all’esame della posizione della dott.ssa S.C., il Collegio rileva come l’accertamento della sussistenza o meno della colpa grave nel comportamento contestato alla convenuta sia assorbente di tutte le altre questioni.
Si richiama il concetto di responsabilità per colpa, già riferito nei punti II e III che precedono. Essa, come già esposto, sussiste solo nei limiti in cui sia individuabile un comportamento non conforme al buon andamento, cioè non adeguato ai fini dell’attività ed ai criteri cui va uniformata. In sostanza, la colpa va valutata in riferimento all’attività di cooperazione richiesta, cioè come comportamento all’evidenza non adeguato a tali fini o a tali criteri.
Solo allorché l’attività del pubblico operatore si discosti ampiamente da tali indici di adeguatezza sussiste perciò la responsabilità amministrativa, che la legge 639/1996 ha collegato con carattere di generalità all’elemento della colpa grave, la quale secondo un’interpretazione giurisprudenziale ormai consolidata si concreta in una negligenza inescusabile, ovvero in una disattenzione macroscopica, in una marchiana imperizia o irrazionale imprudenza.
Nella valutazione del comportamento concreto tenuto dalla convenuta dott.ssa C. nella vicenda in esame, non ritiene il Collegio di individuare le caratteristiche della negligenza inescusabile ovvero della disattenzione macroscopica o della marchiana imperizia.
Esaminando la posizione della convenuta, il Collegio reputa, in proposito, che acquistino significato alcuni aspetti emersi dall’esame dei fatti e che portano a considerare non accoglibile la prospettazione di responsabilità fornita dalla Procura regionale.
Innanzitutto, questa Sezione ritiene rilevante il fatto, che la convenuta avrebbe disposto la contestata determinazione n. 87 del 14/12/2011 di affidamento di un parere all’avvocato OMISSIS con la plausibile intenzione di accertare quale fosse la corretta interpretazione da fornire alla materia del rimborso delle spese di viaggio al segretario comunale. Altresì non pare, ad avviso del Collegio che fossero mancanti i parametri legislativamente previsti per il conferimento dell’incarico.
Di conseguenza emerge che il comportamento della convenuta non è consistito in una negligenza inescusabile, ovvero in una disattenzione o imperizia macroscopica, che, come ricordato, integrano il concetto di colpa grave necessario, secondo la legislazione vigente, per ritenere la sussistenza di responsabilità.
L’istanza della Procura va pertanto rigettata rispetto alla convenuta Dottoressa S.C.
Attesa la particolare complessità della questione, sussistono i motivi per ritenere compensate le spese di giustizia e le spese legali rispetto alla convenuta C..
P.Q.M.
La Corte dei Conti, Sezione giurisdizionale regionale per l’Emilia-Romagna, definitivamente pronunciando assolve la convenuta dott.ssa S.C. dagli addebiti contestatile e
condanna i convenuti dott. G.C. e sig.ra P.M. come da richiesta in atto di citazione, con rivalutazione dalla data dell’invito a dedurre, se in possesso dei requisiti per la messa in mora, fino al deposito della sentenza e interessi legali sulle somme rivalutate da tale data l’effettivo soddisfo (Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Emilia Romagna, sentenza 12.08.2015 n. 103).

SEGRETARI COMUNALI - SICUREZZA LAVORO: Sulla possibilità, o meno, di individuare il Segretario Comunale quale "datore di lavoro".
Il datore di lavoro nelle pubbliche amministrazioni può essere un dirigente o un preposto ma, d’altro lato, non tutti i dirigenti e non tutti i preposti sono, per ciò stesso, datori di lavoro. Quest’ultima qualificazione, in definitiva, non accede necessariamente alla qualifica di “dirigente” e a quella di “preposto”.
Occorre che il “datore di lavoro” sia specificamente individuato dall’organo di vertice delle singole amministrazioni tra quei dirigenti o quei preposti dotati di autonomi poteri decisionali e di spesa, tenendo conto dell’ubicazione e dell’ambito funzionale degli uffici nei quali viene svolta l’attività. Ciascuna di queste figure è, del resto, destinataria di specifiche funzioni e obblighi, con conseguenti responsabilità.
Peraltro, a fronte della possibilità di delegare e sub-delegare alcune delle funzioni proprie del datore di lavoro (art. 16), nel rispetto di rigorosi presupposti e formalità, non è attività delegabile la valutazione di tutti i rischi con la conseguente elaborazione del documento previsto dall’articolo 28, nonché la designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione dai rischi.
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Se può essere designato “datore di lavoro” solo chi è dirigente o funzionario fornito di tutti i poteri gestionali e di spesa autonomi, in tanto si può porre il problema se è designabile il segretario comunale in quanto si dia per verificato e accertato, nel concreto, che al segretario comunale siano stati conferiti, se sono conferibili, quei poteri autonomi di gestione e di spesa che sono propri del dirigente.
In altre parole, la questione di fondo non è se il segretario comunale possa essere designato “datore di lavoro” ma, prima ancora, se e in che misura il segretario comunale possa assumere le funzioni proprie e piene del dirigente così da poter attrarre in questo ambito funzionale anche le attribuzioni del datore di lavoro.

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L’attribuzione della qualifica di “datore di lavoro” in capo al segretario comunale presuppone la mancanza di figure dirigenziali in seno all’Ente o di funzionari che, pur non avendo la qualifica dirigenziale, siano preposti ad un ufficio avente autonomia gestionale e di spesa.
In tali fattispecie, nei limiti e con le cautele che si impongono per la peculiarità della situazione, secondo le considerazioni che precedono, il segretario comunale al quale sia conferita con atto formale la titolarità effettiva del potere gestionale adeguato alle sue competenze, con attribuzione di poteri di spesa,
può essere anche espressamente designato “datore di lavoro”, ai fini e con le responsabilità di cui alla D.Lgs. n. 81/2008.
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Con la nota in epigrafe il Sindaco del Comune di Pomarico (MT) ha chiesto a questa Sezione di esprimere un parere circa la possibilità di individuare nel Segretario Comunale il “datore di lavoro”, ai sensi dell’art. 2 del D.Lgs.vo n. 81/2008, nell’ambito della normativa sulla tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, soprattutto laddove, in luogo delle figure dirigenziali mancanti, le posizioni apicali siano state assegnate a responsabili di area e di posizione organizzativa.
Chiede di sapere, inoltre, se tale attribuzione di funzioni determini una maggiorazione della retribuzione di posizione.
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6. L’art. 3 della Direttiva 12/6/1989, n. 89/391/CEE (prima di una serie di direttive riguardanti il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori durante il lavoro) definiva "datore di lavoro" qualsiasi persona, fisica o giuridica, che fosse titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore e avesse la responsabilità dell’impresa e/o dello stabilimento.
A sua volta, l’art. 2, lett. b), del D.Lgs. 626/1994, come sostituito dal D.Lgs. n. 242/1996, in attuazione delle direttive comunitarie, specificava le caratteristiche del
datore di lavoro: tale è il soggetto titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore o, comunque, il soggetto che, secondo il tipo e l’organizzazione dell'impresa, ha la responsabilità dell’impresa stessa ovvero dell’unità produttiva, in quanto titolare dei poteri decisionali e di spesa.
Dovendo, le norme di tutela, applicarsi anche alle amministrazioni pubbliche, con le eccezioni giustificate da specifiche funzioni, il legislatore nazionale aggiungeva il seguente periodo: “
Nelle pubbliche amministrazioni di cui all' art. 1, comma 2, del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, per datore di lavoro si intende il dirigente al quale spettano i poteri di gestione, ovvero il funzionario non avente qualifica dirigenziale, nei soli casi in cui quest'ultimo sia preposto ad un ufficio avente autonomia gestionale”.
L’art. 30 (Disposizioni transitorie e finali) stabiliva, ancora, che entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del decreto legislativo, gli organi di direzione politica o, comunque, di vertice delle amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 29/1993 (allora vigente, oggi n. 165/2001), avrebbero proceduto all’individuazione dei datori di lavoro, di cui all’art. 2, comma 1, lettera b), secondo periodo, tenendo conto dell’ubicazione e dell’ambito funzionale degli uffici nei quali viene svolta l’attività.
L’art. 2, lett. b), del d.lgs. n. 81/2008, fondendo le disposizioni precettive sopra riportate, ha individuato il «
datore di lavoro» nel contesto delle pubbliche amministrazioni, nel “dirigente al quale spettano i poteri di gestione, ovvero il funzionario non avente qualifica dirigenziale, nei soli casi in cui quest'ultimo sia preposto ad un ufficio avente autonomia gestionale, individuato dall'organo di vertice delle singole amministrazioni tenendo conto dell'ubicazione e dell'ambito funzionale degli uffici nei quali viene svolta l'attività, e dotato di autonomi poteri decisionali e di spesa. In caso di omessa individuazione, o di individuazione non conforme ai criteri sopra indicati, il datore di lavoro coincide con l'organo di vertice medesimo”.
È questa la fonte oggi vigente cui occorre prestare attenzione.
Le successive lettere d) ed e) del medesimo art. 2, aggiungono ulteriori definizioni.
È «dirigente» la persona che, in ragione delle competenze professionali e di poteri gerarchici e funzionali adeguati alla natura dell'incarico conferitogli, attua le direttive del datore di lavoro organizzando l’attività lavorativa e vigilando su di essa. È «preposto» la persona che, in ragione delle competenze professionali e nei limiti di poteri gerarchici e funzionali adeguati alla natura dell’incarico conferitogli, sovrintende alla attività lavorativa e garantisce l’attuazione delle direttive ricevute, controllandone la corretta esecuzione da parte dei lavoratori ed esercitando un funzionale potere di iniziativa.
Particolarmente significative sono, poi, le sanzioni, anche penali, che colpiscono le figure del datore di lavoro, del dirigente e del preposto (artt. 55 e 56).
A chiusura del sistema, vale la pena aggiungere che l’art. 299 del d.lgs. n. 81/2008, ha stabilito che le posizioni di garanzia relative ai soggetti di cui all’articolo 2, comma 1, lettere b), d) ed e), gravano altresì su colui il quale, pur sprovvisto di regolare investitura, eserciti in concreto i poteri giuridici riferiti a ciascuno dei soggetti ivi definiti.
7. Mentre il D.Lgs. n. 626/1994 nulla diceva circa l’individuazione del datore di lavoro, il D.Lgs. n. 242/1996, con riferimento alle amministrazioni pubbliche, ha onerato sia gli organi di direzione politica che gli organi comunque di vertice, di procedere a tale adempimento (art. 30). Con l’art. 2, lett. b), D.Lgs. n. 81/2008, che rappresenta la vigente norma, è venuta meno la competenza dell’organo di direzione politica mentre è rimasta quella dell’organo di vertice, onerato di individuare, conformemente ai criteri previsti, il “datore di lavoro”.
Non è compito di questa Sezione, per i limiti dell’attività consultiva intestata sopra richiamati, entrare nel dibattito, dottrinario e giurisprudenziale, se il datore di lavoro, indipendentemente da un atto espresso dell’organo di vertice politico dell’ente, si identifichi ex se nel dirigente “al quale spettano i poteri di gestione”, lasciando all’organo di vertice l’onere di identificare il datore di lavoro nei soli casi in cui tale figura dirigenziale non sia presente, come nel caso degli EE.LL. di minori dimensioni; ovvero, se tale designazione occorra che sia fatta in ogni caso, sicché, “in caso di omessa individuazione, o di individuazione non conforme ai criteri sopra indicati, il datore di lavoro coincide con l'organo di vertice medesimo”.
Quel che sembra indiscutibile, sia che si acceda all’una o all’altra soluzione, è che il “datore di lavoro” deve essere fornito di tutti quei poteri gestionali autonomi che lo contraddistinguono come tale e sui quali si radica la sua responsabilità. In questo senso la norma è chiara nel vincolare la idoneità e la “genuinità” della nomina alla effettiva autonomia gestionale e di spesa in capo al prescelto.
In altre parole, quale che sia la modalità e la fonte che lo individua,
deve escludersi che il datore di lavoro possa essere solo il soggetto, dirigente o preposto, da responsabilizzare senza, nel contempo, dotarlo di tutti quei poteri gestionali e di spesa sui quali si fondano, nella evidente intenzione del legislatore, le responsabilità che è chiamato ad assumersi.
Ancor più chiaramente, proprio il richiamato art. 299 del d.lgs. n. 81/2008, spiega che
l’organo di vertice dell’amministrazione pubblica non si libera delle responsabilità conseguenti dall’essere, sia pure in via residuale, il “datore di lavoro” se si limita ad attribuire tale qualifica ad altro soggetto, rimanendo ad un tempo egli il dominus effettivo dell’organizzazione gestionale e di spesa. È, in altre parole, il criterio dell’effettività sostanziale che prevale rispetto all’individuazione per indici formali del datore di lavoro (vds., Cass. pen. n. 34804/2010).
8. Così strutturato il sistema della responsabilità è coerente con l’attribuzione di effettivi poteri gestori. Da un lato, responsabilizza solo coloro che hanno la concreta possibilità di valutare i rischi e di assumere le decisioni idonee a ridurlo. Dall’altro, rispetta l’ordinamento degli EE.LL. che, pur rinvenendo negli Statuti e nei Regolamenti la disciplina delle funzioni dei dirigenti, subordina tali atti normativi secondari al principio per cui la gestione amministrativa, finanziaria e tecnica è attribuita ai dirigenti mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo.
Sono questi, dunque, i medesimi poteri richiamati dalla disposizione del D.Lgs. n. 81/2008 che rendono effettiva, e non formale, la individuazione del datore di lavoro.
Se poi, nella realtà del singolo Ente, i dirigenti, o quanti svolgono in loro mancanza le funzioni dirigenziali, sono privi del potere gestionale autonomo o di spesa, perché, ad esempio, non sono stati loro assegnati gli obiettivi e gli strumenti e le dotazioni per raggiungerli, è un problema che, prima di tutto, potrebbe mettere in discussione l’adeguatezza della individuazione del datore di lavoro rispetto al paradigma normativo e al criterio sostanzialistico sopra richiamato e, d’altro canto, potrebbe incidere, in concreto, sul riparto delle responsabilità connesse alla qualifica.
È da osservare, peraltro, che
la presenza del datore di lavoro non manleva di ogni responsabilità i soggetti obbligati, da altre fonti normative, a intervenire. Ai sensi dell’art. 18, commi 3 e 3-bis, gli “interventi strutturali e di manutenzione necessari per assicurare, ai sensi del presente decreto legislativo, la sicurezza dei locali e degli edifici assegnati in uso a pubbliche amministrazioni o a pubblici uffici, ivi comprese le istituzioni scolastiche ed educative, restano a carico dell'amministrazione tenuta, per effetto di norme o convenzioni, alla loro fornitura e manutenzione. In tale caso gli obblighi previsti dal presente decreto legislativo, relativamente ai predetti interventi, si intendono assolti, da parte dei dirigenti o funzionari preposti agli uffici interessati, con la richiesta del loro adempimento all'amministrazione competente o al soggetto che ne ha l'obbligo giuridico.
3-bis. Il datore di lavoro e i dirigenti sono tenuti altresì a vigilare in ordine all'adempimento degli obblighi di cui agli articoli 19, 20, 22, 23, 24 e 25, ferma restando l'esclusiva responsabilità dei soggetti obbligati ai sensi dei medesimi articoli qualora la mancata attuazione dei predetti obblighi sia addebitabile unicamente agli stessi e non sia riscontrabile un difetto di vigilanza del datore di lavoro e dei dirigenti
.”
9. Da quanto precede può trarsi una prima conclusione:
il datore di lavoro nelle pubbliche amministrazioni può essere un dirigente o un preposto ma, d’altro lato, non tutti i dirigenti e non tutti i preposti sono, per ciò stesso, datori di lavoro. Quest’ultima qualificazione, in definitiva, non accede necessariamente alla qualifica di “dirigente” e a quella di “preposto”. Occorre che il “datore di lavoro” sia specificamente individuato dall’organo di vertice delle singole amministrazioni tra quei dirigenti o quei preposti dotati di autonomi poteri decisionali e di spesa, tenendo conto dell’ubicazione e dell’ambito funzionale degli uffici nei quali viene svolta l’attività. Ciascuna di queste figure è, del resto, destinataria di specifiche funzioni e obblighi, con conseguenti responsabilità. Peraltro, a fronte della possibilità di delegare e sub-delegare alcune delle funzioni proprie del datore di lavoro (art. 16), nel rispetto di rigorosi presupposti e formalità, non è attività delegabile la valutazione di tutti i rischi con la conseguente elaborazione del documento previsto dall’articolo 28, nonché la designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione dai rischi (cfr. Cass. Penale, Sez. 4, 27.05.2015, n. 22415).
10. Dalla considerazione che precede può ulteriormente argomentarsi che,
se può essere designato “datore di lavoro” solo chi è dirigente o funzionario fornito di tutti i poteri gestionali e di spesa autonomi, in tanto si può porre il problema se è designabile il segretario comunale in quanto si dia per verificato e accertato, nel concreto, che al segretario comunale siano stati conferiti, se sono conferibili, quei poteri autonomi di gestione e di spesa che sono propri del dirigente.
In altre parole, la questione di fondo non è se il segretario comunale possa essere designato “datore di lavoro” ma, prima ancora, se e in che misura il segretario comunale possa assumere le funzioni proprie e piene del dirigente così da poter attrarre in questo ambito funzionale anche le attribuzioni del datore di lavoro.

11. Non rientra nel tema posto dal quesito in esame la questione se il segretario comunale possa assumere anche, e contemporaneamente, una funzione gestoria di livello dirigenziale e se questa funzione sia compatibile con le attribuzioni istituzionali che il segretario deve adempiere. In questa sede ci si può solo limitare a offrire alcuni spunti di riflessione sul tema.
11.1. In coerenza col principio già affermato dall’art. 3 del D.Lgs. n. 29/1993, poi trasfuso nell’art. 4 del D.Lgs. n. 165/2001,
è indiscusso che anche gli EE.LL. si uniformano al principio per cui i poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo spettano agli organi di governo, mentre la gestione amministrativa, finanziaria e tecnica è attribuita ai dirigenti mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo. In questo senso dispone l’art. 107 del TUEL che assegna ai dirigenti la direzione degli uffici e dei servizi secondo i criteri e le norme dettati dagli statuti e dai regolamenti. Nei comuni privi di personale di qualifica dirigenziale le funzioni di cui all'articolo 107, commi 2 e 3, possono essere attribuite, a seguito di provvedimento motivato del sindaco, ai responsabili degli uffici o dei servizi, indipendentemente dalla loro qualifica funzionale, anche in deroga a ogni diversa disposizione.
Secondo l’art. 97, comma 2, del TUEL, il segretario comunale svolge compiti di collaborazione e funzioni di assistenza giuridico-amministrativa nei confronti degli organi dell'ente in ordine alla conformità dell’azione amministrativa alle leggi, allo statuto ed ai regolamenti. Salvo il caso in cui sia stato nominato il Direttore Generale (per i comuni con popolazione superiore a 100.000 abitanti), è al segretario che spetta, negli altri casi, sovrintendere allo svolgimento delle funzioni dei dirigenti e coordinarne l’attività. Il segretario inoltre (…) “d) esercita ogni altra funzione attribuitagli dallo statuto o dai regolamenti, o conferitagli dal sindaco o dal presidente della provincia”.
11.2 Ora proprio la previsione dell’art. 97, comma 4, lettera d), ha costituito argomento per sostenere la possibilità di attribuire funzioni dirigenziali al segretario comunale.
Ad esempio, nel parere del 09.10.2009, reso dal Ministero dell’Interno, si legge che “
tale norma, come evidenziato anche nella circolare di questo Ministero del 15.07.1997 n. 1/1997, citata dall’esponente, ha valenza di clausola di salvaguardia ai fini del buon andamento della macchina organizzativa, amministrativa e gestionale dell’ente. Infatti, occorre rilevare che le assegnazioni di ulteriori funzioni al segretario può avvenire solo nel momento in cui l’ente locale risulti privo sia di personale di qualifica dirigenziale sia di responsabili dei servizi, ovvero qualora l’ente intenda fare una specifica scelta gestionale in tal senso. Bisogna, difatti, rammentare che i dirigenti -ovvero i dipendenti nominati responsabili degli uffici e dei servizi- sono titolari delle funzioni loro attribuite, risultando, quindi, residuale l’applicazione della citata disposizione di cui al comma 4 lett. d) dell’art. 97.
Ciò posto, poiché ai sensi dell’art. 89 del D.lgs. 267/2000 l’ordinamento generale degli uffici e dei servizi è coperto da riserva di tipo regolamentare, si deve ritenere che l’eventuale attribuzione di specifiche funzioni gestionali o di titolarità degli uffici o dei servizi al segretario sia necessariamente da prevedere attraverso una specifica disposizione regolamentare, previa un’attenta verifica dell’assenza all’interno dell’ente di adeguate figure professionali; mentre il conferimento delle funzioni, riservato al Sindaco o al presidente della Provincia, non può che essere temporaneo e limitato all’espletamento di una prestazione nell’ambito di una funzione (ad esempio la presidenza di una gara per temporanea assenza del dirigente)
”.
Rammenta, infine, il citato parere che le stesse disposizioni contrattuali, contenute nell’art. 1 del CCNL dei segretari comunali e provinciali del 22.12.2003, stabiliscono che,
relativamente agli incarichi per attività di carattere gestionale, occorre che gli stessi siano conferiti in via temporanea e dopo aver accertato l’inesistenza delle necessarie professionalità all’interno dell’Ente, anche in relazione al fatto che per l’esercizio delle funzioni aggiuntive affidate al segretario è prevista una maggiorazione della retribuzione di posizione in godimento.
Fermo che, nel parere in questione, le funzioni aggiuntive alle quali si collega la maggiorazione della retribuzione si riferiscono all’attività gestoria attribuita e non alla qualificazione di “datore di lavoro”, che neppure potrebbe attribuirsi scissa dalla funzione gestoria piena,
a venire in rilievo è la fonte normativa, che l’art. 97, comma 4, lettera d), individua nello Statuto o nel Regolamento dell’Ente, alla quale occorre fare esclusivo riferimento per verificare la possibilità di attribuire al Segretario comunale specifiche funzioni gestionali o la titolarità di uffici o servizi. Occorre cioè che sia lo Statuto o il Regolamento (sull’ordinamento degli uffici e dei servizi) a prevedere la conferibilità al Segretario di dette funzioni (sulla esclusione di una “incompatibilitàex lege all’assunzione di funzioni dirigenziali, vsd. Sezione controllo per la Sardegna, delibera n. 28/2013).
Tale previsione, tuttavia, a parere di questa Sezione, non potrebbe che essere residuale, per il caso in cui l’Ente non rinvenga al proprio interno figure professionali adeguate all’affidamento degli incarichi e delle funzioni. Si tratta, in effetti, di una soluzione di estremo compromesso, volta a mantenere ferma la funzionalità dell’Ente, soprattutto di minori dimensioni, senza sacrificare, oltre la misura minima consentita dalle circostanze, la distinzione che deve essere mantenuta tra gli ambiti propri dell’attività gestoria e quelli propri del sistema dei controlli interni all’ente medesimo, controlli che hanno visto il segretario comunale assumere, di recente, un ruolo sempre più centrale. In altre parole, la evoluzione della normativa in tema di controlli interni e di contrasto alla corruzione sembra esercitare una forza di attrazione delle funzioni del segretario comunale, già in origine prevalentemente di coordinamento e di assistenza, verso un’area caratterizzata da funzioni più spiccatamente di garanzia e di controllo interno, che finiscono per relegare al margine la possibilità di un coinvolgimento di tale figura professionale nell’attività gestoria piena.
In questo senso, se è vero che il citato art. 97 del TUEL non esclude che il segretario comunale possa esercitare ogni altra funzione attribuitagli dallo statuto o dai regolamenti, o conferitagli dal sindaco, è anche vero che è lo stesso articolo ad affermare, poco prima, l’esigenza di disciplinare i rapporti tra il segretario e il direttore generale, ove nominato, secondo l'ordinamento dell'ente e “nel rispetto dei loro distinti ed autonomi ruoli”.
Del resto, rispetto a una sorta di generica idoneità del segretario ad assumere funzioni dirigenziali giova osservare che
il nuovo articolo 49, comma 2, del TUEL, così come riscritto dal D.L. 174/2012, introduce il principio per cui la funzione eventualmente conferita al segretario deve essere adeguata alle sue competenze. Ed infatti, su ogni proposta di deliberazione sottoposta alla Giunta e al Consiglio che non sia mero atto di indirizzo, è richiesto il parere di regolarità tecnica al responsabile del servizio interessato, che se ne assume la responsabilità amministrativa e contabile.
In sostanza,
il segretario comunale è chiamato, in assenza del responsabile del servizio, a rendere il parere di regolarità tecnica solo se ha le competenze adeguate a quel servizio. Se ciò è vero per il rilascio del parere, vera è anche la conclusione che non ogni servizio potrebbe essere affidato alla direzione del segretario comunale, ma solo quel servizio adeguato alle sue competenze. Sembra infatti contraddittorio ammettere che possa affidarsi al segretario la responsabilità di un servizio per il quale lo stesso segretario, mancando di adeguata competenza, non potrebbe neppure rendere il parere di regolarità tecnica previsto dal citato art. 49 TUEL.
Ed ancora, secondo l’art. 147-bis, commi 2 e seg., anche esso introdotto dal citato D.L. n. 174/2012, il controllo di regolarità amministrativa è assicurato, nella fase successiva all’adozione dell’atto, per le determinazioni di impegno di spesa, i contratti e gli altri atti amministrativi, scelti secondo una selezione casuale effettuata con motivate tecniche di campionamento, “sotto la direzione del segretario”.
Le risultanze del controllo di cui al comma 2 sono, poi, trasmesse periodicamente, a cura del segretario, ai responsabili dei servizi, unitamente alle direttive cui conformarsi in caso di riscontrate irregolarità, nonché ai revisori dei conti e agli organi di valutazione dei risultati dei dipendenti, come documenti utili per la valutazione, e al consiglio comunale. Ora,
se anche non si può ritenere l’attività di controllo qui descritta senz’altro incompatibile con quella di responsabile delle medesime attività gestionali svolte, non di meno, sempre per i comuni di minori dimensioni e con minori risorse da destinare alle funzioni di controllo interno, è da ritenere una anomalia il fatto che l’ordinamento consenta di unificare in capo al medesimo soggetto le funzioni di controllo e di gestione.
12. Ora, tornando al tema del parere, si ritiene di poter affermare, in via conclusiva, che
l’attribuzione della qualifica di “datore di lavoro” in capo al segretario comunale presuppone la mancanza di figure dirigenziali in seno all’Ente o di funzionari che, pur non avendo la qualifica dirigenziale, siano preposti ad un ufficio avente autonomia gestionale e di spesa.
In tali fattispecie, nei limiti e con le cautele che si impongono per la peculiarità della situazione, secondo le considerazioni che precedono, il segretario comunale al quale sia conferita con atto formale la titolarità effettiva del potere gestionale adeguato alle sue competenze, con attribuzione di poteri di spesa (Cass. Pen. Sez. VI, 07.10.2004), può essere anche espressamente designato “datore di lavoro”, ai fini e con le responsabilità di cui alla D.Lgs. n. 81/2008 (Corte dei Conti, Sez. controllo Basilicata, parere 29.07.2015 n. 50).

PUBBLICO IMPIEGO: L’espletamento delle mansioni superiori, anche in costanza oggettiva di carenza di organico, sono fonte di danno erariale.
L’art. 52 del D.Lgs. 30.03.2001 n. 165 prevede che per obiettive esigenze di servizio il prestatore di lavoro può essere adibito a mansioni proprie della qualifica immediatamente superiore:
a) nel caso di vacanza di posto in organico, per non più di sei mesi, prorogabili fino a dodici qualora siano state avviate le procedure per la copertura dei posti vacanti come previsto al comma 4;
b) nel caso di sostituzione di altro dipendente assente con diritto alla conservazione del posto, con esclusione dell’assenza per ferie, per la durata dell’assenza.

Nell’ordinamento dei pubblici dipendenti contrattualizzati vige –ai sensi dell’art. 29 del D.Lgs. n. 29 del 1993 e successive modifiche, poi sostituto dall’art. 52 del D.Lgs. n. 165 del 2001– il divieto di assegnazione di mansioni superiori al di fuori delle ipotesi tassativamente previste dalla legge, con nullità degli atti di conferimento illegittimi.
Sicché il dott. R.G., assegnando alla sig.ra A.M.I. le mansioni superiori, ha violato disposizioni normative imperative.
La condotta posta in essere nella specie appare connotata da colpa grave, in quanto realizzata in violazione di norme chiare, espressione di regole consolidate da diversi anni e di principi costantemente applicati dalla giurisprudenza, che non potevano essere legittimamente ignorati o disapplicati dal dirigente senza la violazione dei canoni di minima diligenza che lo stesso era tenuto ad adottare nell’esercizio delle proprie funzioni.
Il menzionato comportamento si pone come antecedente causale ed immediato del danno subito dall’Amministrazione, consistente nelle differenze retributive pagate in conseguenza delle sentenze del giudice ordinario e delle spese corrisposte in sede giudiziale.
In conseguenza dell’illegittimo svolgimento di mansioni superiori la giurisprudenza considera come danno le relative differenze retributive, costituendo le stesse una spesa disutile per l’Amministrazione, ed esclude che possa essere corrisposto in compensazione l’arricchimento dell’Amministrazione.
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Osserva il Collegio che inizialmente va ribadito l’ambito normativo in cui ha operato l’odierno convenuto in giudizio.
L’art. 52 del D.Lgs. 30.03.2001 n. 165 -norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle Amministrazioni Pubbliche, e nello specifico, la disciplina delle mansioni- prevede che “
per obiettive esigenze di servizio il prestatore di lavoro può essere adibito a mansioni proprie della qualifica immediatamente superiore: a) nel caso di vacanza di posto in organico, per non più di sei mesi, prorogabili fino a dodici qualora siano state avviate le procedure per la copertura dei posti vacanti come previsto al comma 4; b) nel caso di sostituzione di altro dipendente assente con diritto alla conservazione del posto, con esclusione dell’assenza per ferie, per la durata dell’assenza" (comma 2).
Si considera svolgimento di mansioni superiori, ai fini del presente articolo, soltanto l’attribuzione in modo prevalente, sotto il profilo qualitativo, quantitativo e temporale, dei compiti propri di dette mansioni” (comma 3)….. “al di fuori delle ipotesi di cui al comma 2, è nulla l’assegnazione del lavoratore a mansioni proprie di una qualifica superiore, ma al lavoratore è corrisposta la differenza di trattamento economico con la qualifica superiore. Il dirigente che ha disposto l’assegnazione risponde personalmente del maggior onere conseguente, se ha agito con dolo o colpa grave” (comma 5).
Le prescrizioni normative costituiscono espressione di un principio del nostro ordinamento che vieta in linea generale l’assegnazione di mansioni superiori nel pubblico impiego, ad eccezione di tassative ipotesi.
In tal senso la Corte di Cassazione - Sez. Lavoro 24.10.2008 n. 25761 ha statuito che
nell’ordinamento dei pubblici dipendenti contrattualizzati vige –ai sensi dell’art. 29 del D.Lgs. n. 29 del 1993 e successive modifiche, poi sostituto dall’art. 52 del D.Lgs. n. 165 del 2001– il divieto di assegnazione di mansioni superiori al di fuori delle ipotesi tassativamente previste dalla legge, con nullità degli atti di conferimento illegittimi.
Sicché il dott. R.G., assegnando alla sig.ra A.M.I. le mansioni superiori, ha violato disposizioni normative imperative.
La condotta posta in essere nella specie appare connotata da colpa grave, in quanto realizzata in violazione di norme chiare, espressione di regole consolidate da diversi anni e di principi costantemente applicati dalla giurisprudenza, che non potevano essere legittimamente ignorati o disapplicati dal dirigente senza la violazione dei canoni di minima diligenza che lo stesso era tenuto ad adottare nell’esercizio delle proprie funzioni (cfr. Corte conti Sez. II Centr. 20.03.2006 n. 126 e Sezione giurisdizionale Regione Puglia 22.07.2010 n. 475).
Il menzionato comportamento si pone come antecedente causale ed immediato del danno subito dall’Amministrazione, consistente nelle differenze retributive pagate in conseguenza delle sentenze del giudice ordinario e delle spese corrisposte in sede giudiziale.
In conseguenza dell’illegittimo svolgimento di mansioni superiori la giurisprudenza considera come danno le relative differenze retributive, costituendo le stesse una spesa disutile per l’Amministrazione, ed esclude che possa essere corrisposto in compensazione l’arricchimento dell’Amministrazione (cfr. Sez. II Centr. 01.02.2010 n. 20 e 05.07.2002 n. 225).
Ne deriva che sussistono tutti i presupposti per affermare la responsabilità amministrativa.
In ordine alla quantificazione del danno questo magistrato contabile ha il potere–dovere di ridurre, secondo il proprio apprezzamento, il quantum di danno da porre a carico del pubblico funzionario autore di condotte illecite; cfr., ex plurimis, Sez. I centr. 05.10.2001 n. 291.
Nell’estrema complessità dell’organizzazione amministrativa pubblica sussistono corresponsabilità di altri soggetti non convenibili o non convenuti nel giudizio di responsabilità amministrativa, sicché è necessario operare una ripartizione del danno tra questi fattori estrinseci, al fine di stabilire quanta parte di esso debba restare a carico dell’Amministrazione e quanto debba essere addebitato al convenuto: cfr. Sezione giurisdizionale di Appello Sicilia 14.02.2013 n. 46.
La norme che disciplinano la situazione, artt. 82 e 83 del r.d. 18.11.1923 n. 2440, prevedono che del danno “ciascuno risponde per la parte che vi ha presa”, e che la condanna va pronunciata “valutate le singole responsabilità”. Per cui il potere riduttivo è mezzo di adeguamento della condanna alla parte di responsabilità che è imputabile al condannato, tenuto debito conto della complessità dell’organizzazione e del modo di operare della Pubblica Amministrazione.
Nel caso specifico le situazioni oggettive, ovvero il contesto ambientale in cui ha dovuto operare il convenuto –visto il relativo organico presente di fatto nell’apparato organizzatorio- a parere del Collegio, consentono una quantificazione dell’ammontare del danno pari al 50% della richiesta attorea, e quindi pari a € 4.100,00.
Sulle somme su cui si è pronunciata la sentenza di condanna è, altresì, dovuto, vertendosi nella specie di obbligazione originariamente pecuniaria -e quindi di debito di valuta– con decorrenza, dal 1° gennaio successivo all’esborso, il maggior importo tra interessi legali e rendimento medio netto dei titoli di Stato con scadenza non superiore a dodici mesi (cfr. Cass. SS.UU. n. 19499/2008 e Sez. II n. 12828 del 2009) fino alla pubblicazione della presente sentenza.
Dalla pubblicazione della sentenza spettano gli interessi legali sino al soddisfo
(Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Toscana, sentenza 03.03.2014 n. 34).

NEWS

APPALTI: Controlli antimafia sui familiari. Le verifiche in impresa estese ai conviventi dei manager. La legge 121/2015 amplia la portata degli accertamenti, anche a chi vive all'estero.
Estese le verifiche antimafia a tutti i familiari conviventi dei titolari di incarichi rilevanti nell'impresa, a prescindere dal dato della loro residenza in Italia. Dal 25 agosto 2015 la verifica antimafia è estesa a tutti i familiari conviventi anche se residenti all'estero. Con l'eliminazione del presupposto della residenza in Italia si è determinato un ampliamento delle categorie di soggetti sottoposti alla verifica.
Conseguentemente, anche se residenti all'estero, dovrà essere acquisita la documentazione antimafia anche dei familiari conviventi maggiorenni del titolare e del direttore tecnico dell'impresa individuale, del legale rappresentante e dei componenti del consiglio di amministrazione delle società di capitali e delle società cooperative, del socio di maggioranza di società di capitali con un numero di soci fino a 4, del socio, in caso di società di capitali con socio unico, di tutti i soci delle società semplici e in nome collettivo, dei soci accomandatari delle società in accomandita semplice.

Tutto questo lo ha previsto la legge 06.08.2015, n. 121 (pubblicata in Gazzetta Ufficiale 10.08.2015, n. 184) che modifica il comma 3, articolo 85, del codice antimafia, sopprimendo le parole «che risiedono nel territorio dello stato».
Dovrà essere acquisita la documentazione antimafia anche dei familiari conviventi maggiorenni dei rappresentanti in Italia delle società estere con sede secondaria nel territorio dello stato, dei rappresentanti delle imprese che costituiscono il raggruppamento temporaneo di imprese, dei membri del collegio sindacale o dei soggetti che svolgono compiti di vigilanza di qualsiasi associazione o società, dei soci persone fisiche che detengono una partecipazione alla società superiore al 2%, nonché dei direttori generali e dei soggetti responsabili delle sedi secondarie o delle stabili organizzazioni in Italia, di società concessionarie nel settore dei giochi pubblici.
Si osserva che la soppressione del requisito della residenza nel territorio nazionale lascia comunque inalterato il presupposto della convivenza. Le verifiche antimafia, dunque, andranno effettuate nei confronti dei familiari di tali soggetti che siano maggiorenni e conviventi con l'interessato. La certificazione antimafia serve a società imprese, per partecipare ad appalti pubblici, forniture e servizi pubblica amministrazione. La certificazione antimafia non va richiesta per i contratti di importo non superiore a 150.000 euro al contrario la comunicazione è obbligatoria per la stipula dei contratti di importo superiore a 150.000 euro e inferiore alla soglia comunitaria.
L'informazione è obbligatoria per la stipula di contratti di importo pari o superiore alla soglia comunitaria e per l'autorizzazione di subcontratti di importo superiore a 150.000 euro. La certificazione informazione antimafia ha una validità di 12 mesi dalla data dell'acquisizione, termine inteso non dalla data di rilascio del benestare da parte del prefetto, bensì dall'acquisizione da parte dell'amministrazione in base alla verifica dei requisiti inseriti nella banca dati.
La validità annuale dell'informazione, permane tale se non vi sono state variazioni nell'assetto societario o nella gestione, dei legali rappresentati. Qualora vi sia una delle suddette variazioni, entro 30 giorni dall'evento che ha modificato l'assetto societario, si ha l'obbligo di trasmettere al prefetto, che ha rilasciato l'informazione antimafia, copia degli atti dai quali risulta la variazione relativa ai soggetti destinatari di verifiche antimafia (articolo ItaliaOggi del 20.08.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti, obblighi per una platea più ampia.
Dal 15 agosto sono cambiate le definizioni di «produttore iniziale di rifiuti» e di «deposito temporaneo». La nozione di «produttore di rifiuti» (articolo 183, comma 1, lettera f, dlgs 152/2006) si amplia ricomprendendo anche il soggetto al quale sia giuridicamente riferibile la produzione dei rifiuti.

Le maggiori novità si registrano riguardo il «deposito temporaneo». Si estende la definizione ricomprendendo oltre al raggruppamento dei rifiuti, anche «il deposito preliminare alla raccolta ai fini del trasporto dei rifiuti in un impianto di trattamento».
Tutto questo è contenuto nella legge del 06.08.2015 125 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 14.08.2015 n. 188) di conversione al decreto-legge 19.06.2015, n. 78 (cosiddetto decreto enti territoriali).
La legge n. 125 del 2015 riproduce quanto già era stato stabilito dal dl n. 92/2015 in materia di rifiuti che non verrà più convertito in legge. La definizione di «produttore di rifiuti» ex art. 183, lett. f), viene ampliata tramite l'introduzione di un nuovo inciso: «Il soggetto la cui attività produce rifiuti (produttore iniziale) e il soggetto al quale sia giuridicamente riferibile detta produzione o chiunque effettui operazioni di pretrattamento, di miscelazione o altre operazioni che hanno modificato la natura o la composizione di detti rifiuti (nuovo produttore)».
L'ampliamento della nozione di «produttore di rifiuti» ha un nuovo impatto su un piano concreto comportando anche un possibile cambio di indirizzo interpretativo giurisprudenziale. Dal 15 agosto per produttore di rifiuti deve intendersi non soltanto il soggetto dalla cui attività materiale sia derivata la produzione dei rifiuti ma anche il soggetto al quale sia giuridicamente riferibile detta produzione.
Quindi nel caso dei rifiuti da costruzione e di demolizione il «produttore dei rifiuti» non è solo il demolitore edile che materialmente produce detti rifiuti ma anche il proprietario dell'edificio oggetto dei lavori di ristrutturazione pesante. Anche la definizione di «raccolta» ex art. 183, lett. o) è stata oggetto di modifica venendo ora identificata come «il prelievo dei rifiuti, compresi la cernita preliminare e il deposito preliminare alla raccolta, ivi compresa la gestione dei centri di raccolta di cui alla lettera “mm”, ai fini del loro trasporto in un impianto di trattamento».
Sono stati, dunque, aggiunti i termini «preliminare alla raccolta» dopo il termine «deposito». Tale modifica va letta in collegamento con quella apportata alla nozione di «deposito temporaneo».
Per «deposito temporaneo» ex art. 183, lett. b), ora si deve intendere: «Il raggruppamento dei rifiuti e il deposito preliminare alla raccolta ai fini del trasporto di detti rifiuti in un impianto di trattamento, effettuati, prima della raccolta, nel luogo in cui gli stessi sono prodotti, da intendersi quale l'intera area in cui si svolge l'attività che ha determinato la produzione dei rifiuti o, per gli imprenditori agricoli di cui all'articolo 2135 del codice civile, presso il sito che sia nella disponibilità giuridica della cooperativa agricola, ivi compresi i consorzi agrari, di cui gli stessi sono soci» (articolo ItaliaOggi del 19.08.2015).

ENTI LOCALIRetromarcia sul taglio delle società pubbliche. La norma ghigliottina è stata in parte sterilizzata con il dl 78.
Un passo avanti e due indietro sulla riduzione delle società pubbliche. Mentre la legge “Madia” rilancia il progetto, il decreto “enti locali” depotenzia ulteriormente l'obbligo di dimagrimento previsto da quasi otto anni e finora rimasto inattuato.
È dal 2007, infatti (con l'art. 3, commi 27-32, della legge 244), che alle p.a. è imposto il divieto di detenere e l'obbligo di alienare o comunque dismettere le partecipazioni non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali. A rigore, il loro mantenimento, così come l'assunzione di nuove partecipazioni, avrebbe dovuto essere autorizzato dall'organo competente, con delibera motivata in ordine alla sussistenza dei richiamati presupposti.
Tale disciplina è finita nel dimenticatoio fino al 2013, quando il comma 569 della legge 147 ha definito un nuovo termine per la sua attuazione (inizialmente 30 aprile, poi 31.12.2014), decorso il quale le partecipazioni non necessarie avrebbero dovuto cessare di produrre ogni effetto per essere liquidate in denaro entro i successivi 12 mesi Una norma “ghigliottina”, che avrebbe dovuto, da un lato, privare gli enti delle prerogative loro spettanti in qualità di soci, dall'altro imporre alle società un obbligo di liquidazione ad un valore determinato in base ai criteri stabiliti all'art. 2437-ter, comma 2, cc..
La vigenza di tale meccanismo era stata confermata anche dall'art. 23 del dl 66/2014, che allo stesso tempo lo aveva rafforzato affiancandogli un programma straordinario di razionalizzazione affidato direttamente al commissario alla spending review. Il cd piano Cottarelli non è mai decollato, ma è servito a fare luce sulle dimensioni del fenomeno (circa 10 mila società censite) e sul sostanziale fallimento di tutti i tentativi di ridurle.
La norma ghigliottina è sopravvissuta anche alla legge di stabilità 2015 (190/2014, commi 611-612), che ha aggiunto un ulteriore tassello, imponendo a ciascuna amministrazione di varare un proprio piano di razionalizzazione delle partecipazioni: anche tali norme, peraltro, hanno avuto scarsa attuazione, come recentemente rivelato dalla Corte dei conti, che ha misurato un tasso di adesione inferiore al 50%.
Da ultimo, è intervenuto il dl 78/2015, convertito in legge 125/2015, che all'art. 7, comma 8-bis, ha dettato una norma di interpretazione autentica del comma 569, che rischia di depotenziarlo ulteriormente: la ghigliottina non scatta per le partecipazioni di cui i piani razionalizzazione presentati in base alla legge 190/2014 abbiano confermato il mantenimento. Inoltre, è stata aggiunta una precisazione per cui “il provvedimento di cessazione della partecipazione societaria appartiene, in ogni caso, all'assemblea dei soci” di cui non è chiara la portata, ma che evidentemente rende meno automatica la cessazione delle partecipazioni fuori legge.
A questo punto, le residue speranze di riduzione a non più di mille delle società pubbliche sono riposte sulla legge 124/2015 di riforma della pa.. Per cui però occorrerà attendere i decreti attuativi (articolo ItaliaOggi del 18.08.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIARaccolta rifiuti senza Aia. In salvo l'attività delle ditte di smaltimento. Il decreto enti locali consente il recupero a chi è ancora senza il placet.
Salve molte imprese dedite all'attività di recupero e smaltimento dei rifiuti. Le aziende specializzate nello smaltimento dei rifiuti possono continuare a svolgere la proprie attività nonostante la mancata conclusione da parte della p.a. dell'iter di concessione dell'Autorizzazione integrata ambientale (Aia).

Tutto questo grazie alla legge 125 del 06.08.2015 (pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 14.08.2015 n. 188) di conversione al decreto legge 19.06.2015, n. 78 con cui il governo ha evitato il rischio (dal 7 luglio) blocco delle nuove installazioni per mancata conclusione da parte della p.a. dell'iter di approvazione dell'Autorizzazione unica integrata.
La legge n. 125 del 2015 riproduce quanto già era stato stabilito dal dl n. 92/2015 in materia di Aia (si veda ItaliaOggi del 07.07.2015).
L'allarme del possibile blocco per le imprese di rifiuti è stato lanciato dalle associazioni Fise Assoambiente (igiene ambientale, raccolta e smaltimento rifiuti) e Fise Unire (recupero dei rifiuti), che hanno più volte sollecitato il ministero dell'ambiente a porre rimedio alla situazione, che rischiava di avere conseguenze gravissime su tutto il sistema industriale italiano. Ricordiamo che con il dlgs del 04.03.2014 n. 46 è stata recepita nel nostro ordinamento la direttiva europea sulle emissioni industriali.
Con il provvedimento del 2014 veniva fissato al 07.07.2015 il termine entro cui la pubblica amministrazione è tenuta a rilasciare l'Autorizzazione integrata ambientale, richiesta entro il 7 settembre scorso dalle imprese incluse (in base alle nuove disposizioni) tra le attività soggette alla prevenzione e riduzione integrate dell'inquinamento. Oltre a ciò il legislatore nazionale ha previsto la sospensione dell'esercizio dell'impianto in attesa che si perfezioni il procedimento istruttorio, se questo non è concluso entro il 7 luglio.
Le imprese, quindi, pur avendo rispettato la scadenza del settembre 2014 per la presentazione della domanda di Autorizzazione integrata ambientale, si sarebbero trovate obbligate a bloccare la propria attività nel caso di ritardi nel rilascio del provvedimento da parte delle autorità competenti. Le imprese che rischiavano il blocco non erano quelle già sottoposte ad Aia ma quelle che dovevano ottenerla per la prima volta. L'autorità competente conclude i procedimenti avviati in esito alle istanze di Autorizzazione integrata ambientale, entro il 07.07.2015.
In ogni caso, nelle more della conclusione dei procedimenti le installazioni possono continuare l'esercizio in base alle autorizzazioni previgenti, se del caso opportunamente aggiornate a cura delle autorità che le hanno rilasciate (articolo ItaliaOggi del 18.08.2015).

CONSIGLIERI COMUNALI: Rimborsabili le spese legali all’amministratore prosciolto. Enti locali. Questione risolta con la conversione del Dl 78/2015.
La questione dei rimborsi delle spese legali per gli amministratori locali trova una soluzione legislativa nella legge di conversione del decreto legge n. 78 (“enti locali”) dando, da un lato, una risposta alle pressanti attese da parte degli amministratori e confermando, dall’altro, la tesi di quelle Sezioni della Corte dei conti (Sezione Giurisdizionale Basilicata con la sentenza n. 165/2012) che, pur con qualche voce dissonante, a più riprese ne avevano esclusa la rimborsabilità in via interpretativa, sulla scia della decisione della Corte costituzionale n. 197/2000 e delle sentenze della Corte di Cassazione, l’ultima delle quali la n. 5264 del 17.03.2015.
Secondo la giurisprudenza costituzionale e della Cassazione il diritto al rimborso delle spese legali relative ai giudizi di responsabilità civile, penale o amministrativa a carico di dipendenti di amministrazioni statali o di enti locali per fatti connessi all’espletamento del servizio o comunque all’assolvimento di obblighi istituzionali, conclusi con l’accertamento dell’esclusione della loro responsabilità, non compete all’assessore comunale, né al consigliere comunale o al sindaco, non essendo configurabile tra costoro (i quali operano nell’amministrazione pubblica ad altro titolo) e l’ente un rapporto di lavoro dipendente, non potendo estendersi nei loro confronti la tutela prevista per i dipendenti, né trovare applicazione la disciplina privatistica in tema di mandato.
La nuova norma, invece, prevede che il rimborso delle spese legali per gli amministratori locali sia ammissibile, nel caso di conclusione del procedimento con sentenza di assoluzione o di emanazione di un provvedimento di archiviazione nonché in presenza dei seguenti requisiti: a) assenza di conflitto di interessi con l’ente amministrato; b) presenza di nesso causale tra funzioni esercitate e fatti giuridicamente rilevanti; c) assenza di dolo o colpa grave.
Per la verità, con riferimento ai giudizi innanzi alla Corte dei conti, già l’articolo 3, comma 2-bis, del decreto legge 23.10.1996 n. 543, prevedeva «in caso di definitivo proscioglimento ai sensi di quanto previsto dal comma 1 dell’articolo 1 della legge 14.01.1994 n. 20, le spese legali sostenute dai soggetti sottoposti al giudizio della Corte dei conti sono rimborsate dall’amministrazione di appartenenza».
Successivamente, l’articolo 10-bis, comma 10, del decreto legge 30.09.2005 n. 203, ha statuito che: «le disposizioni dell’articolo 3, comma 2-bis, del decreto legge 23.10.1996, n. 543, si interpretano nel senso che il giudice contabile, in caso di proscioglimento nel merito, e con la sentenza che definisce il giudizio, ai sensi e con le modalità di cui all’articolo 91 del Codice di procedura civile, liquida l'ammontare degli onorari e dei diritti spettanti alla difesa del prosciolto, fermo restando il parere di congruità dell’Avvocatura dello Stato da esprimere sulle richieste di rimborso avanzate all’amministrazione di appartenenza».
Ora, con l’attuale intervento del legislatore è estesa la rimborsabilità delle spese legali per gli amministratori locali anche ai processi civili, amministrativi e penali, nel limite massimo dei parametri stabiliti dal decreto di cui all’articolo 13, comma 6, della legge n. 247/2012 e fatto salvo il divieto di nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica principio sul quale occorrerà meglio soffermarsi lasciando quanto meno intendere l’obbligo di prevedere specifiche poste di bilancio annuali. Resterà da vedere quale sarà lo spartiacque temporale.
A prima vista l’intervento legislativo pone al centro della decisione della Pa la «conclusione del procedimento con sentenza di assoluzione o di emanazione di un provvedimento di archiviazione» e probabilmente e a questo dato temporale che le amministrazioni dovranno cristallizzare le proprie decisioni.
Infine rimane ancora irrisolto il problema degli amministratori regionali, per i quali le singole leggi regionali non abbiano disposto in tal senso
(articolo Il Sole 24 Ore del 17.08.2015).

CONDOMINIO: Pianerottoli, cortili, terrazze e parcheggi a prova di privacy. Rassegna delle principali norme del dlgs n. 196/2003 in ambito condominiale.
Condominio a prova di privacy. Con la legge n. 220/2012 il legislatore ha dimostrato di avere a cuore il rispetto delle corrette modalità di trattamento dei dati personali della compagine condominiale.
Sono, infatti, numerose le disposizioni della legge di riforma che applicano i principi del dlgs n. 196/2003 in ambito condominiale, contribuendo a riaccendere i riflettori su un argomento che, a torto, viene molto spesso misconosciuto dagli amministratori condominiali.
In queste pagine, si mettono in evidenza i più importanti punti di ricaduta in ambito condominiale della normativa di cui al c.d. Codice privacy.
Il ruolo dell'amministratore nel trattamento dei dati personali dei condomini. Poiché, come è noto, il condominio non ha una propria personalità giuridica, come tale distinta da quella dei singoli condomini, risulta impossibile qualificarlo quale titolare del trattamento dei dati personali della compagine condominiale. I singoli condomini, di conseguenza, non possono che essere riconosciuti, reciprocamente, quali contitolari dei predetti dati personali. Questi ultimi, così come condividono tra loro l'utilizzo delle parti comuni dell'edificio, allo stesso modo risultano contitolari del trattamento dei dati che afferiscono al condominio.
Ogni condomino ha quindi il diritto di venire a conoscenza e trattare i dati personali degli altri comproprietari, ovviamente per finalità riconducibili alla disciplina dettata dagli artt. 1117 ss. c.c. e dalle relative disposizioni di attuazione. Da un punto di vista di fatto è però innegabile che sia l'amministratore a compiere la maggior parte delle operazioni di trattamento dei dati personali relativi alla gestione del condominio. È, infatti, quest'ultimo a redigere, a conservare e a tenere aggiornata l'anagrafe condominiale introdotta dalla legge n. 220/2012 e a utilizzarla per le convocazioni assembleari e per le altre comunicazioni ai condomini (ivi incluso l'importante aspetto del recupero degli oneri condominiali non pagati).
È sempre l'amministratore, in nome e per conto dei condomini, a gestire i rapporti con i terzi, dai fornitori ai dipendenti del condominio, fino alla pubblica amministrazione e all'autorità giudiziaria. Di conseguenza non si può non concludere che anche l'amministratore debba essere a sua volta qualificato come titolare del trattamento dei dati condominiali.
Tuttavia, poiché, come è evidente, sussiste una netta differenza di ruolo tra i singoli condomini (tra loro contitolari del trattamento) e l'amministratore (legato a questi ultimi da un rapporto contrattuale di mandato), lo stesso non può che essere qualificato come titolare autonomo e non come contitolare (assieme ai condomini) del trattamento, salva comunque la possibilità che l'assemblea lo designi quale responsabile (esterno), impartendogli le necessarie istruzioni alle quali lo stesso dovrà scrupolosamente attenersi.
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Videosorveglianza sì, ma condizionata.
Una delle novità contenute nella legge di riforma del condominio n. 220 del 2012 è stata quella che ha legittimato l'installazione di impianti di videosorveglianza sulle parti comuni e che ha specificato il procedimento necessario per adottare tale soluzione. In precedenza la videosorveglianza in ambito condominiale non aveva una normativa specifica e aveva addirittura condotto alcuni giudici a negare la possibilità delle videoriprese.
È stato quindi stabilito che le deliberazioni concernenti l'installazione di impianti volti a consentire la videosorveglianza possono essere approvate dall'assemblea con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell'edificio (art. 1136, comma 2, c.c.). L'assemblea quindi può certamente deliberare di introdurre nuovi impianti volti a garantire i beni (comuni e individuali), ma anche l'incolumità degli stessi condomini o loro familiari.
Nel votare la delibera l'assemblea deve comunque operare per il solo raggiungimento delle finalità di tutela delle persone e dei beni comuni e non avere di mira altri obiettivi che, viceversa, renderebbero il trattamento dei dati intrinsecamente illegittimo (si pensi alla concorrente normativa sui c.d. atti emulativi, ovvero su quelle attività poste in essere all'unico o prevalente scopo di arrecare fastidio a terzi). In casi del genere, come anche nel caso in cui l'assemblea decidesse di non porre in essere gli adempimenti previsti dalla legge, la delibera favorevole all'installazione dell'impianto, anche se approvata con la maggioranza di legge, potrebbe risultare invalida.
L'amministratore di condominio, munito della deliberazione assembleare, è quindi tenuto ad adottare le cautele previste dal provvedimento generale dell'Autorità garante in materia di videosorveglianza dell'08.04.2010. In particolare è tenuto ad affiggere un cartello informativo in un luogo visibile e aperto al pubblico (si tratta di un facsimile che rappresenta il disegno di una telecamera e che contiene un'informativa semplificata e che si può scaricare dal sito www.garanteprivacy.it). L'avviso deve comunque essere integrato con almeno un'altra informativa circostanziata che informi circa le finalità delle riprese e l'eventuale conservazione delle immagini, da collocarsi sempre in un luogo di pubblico accesso, per esempio all'ingresso della portineria.
Nel caso in cui si decida di conservare le immagini riprese dal sistema di videosorveglianza (scelta che richiede l'implementazione di un'organizzazione specifica da parte dell'amministratore) occorre stabilire i tempi minimi di conservazione delle immagini (consentita, in ogni caso, per un massimo di 24 ore) e individuare il personale abilitato a visionarle con atto di nomina di responsabile e incaricato del trattamento. In questo caso occorre inoltre anche chiedere al Garante la verifica preliminare dell'impianto qualora si ricada in uno dei casi particolari previsti dal provvedimento generale.
L'inosservanza degli adempimenti, oltre all'eventuale invalidità della delibera assembleare, può condurre a responsabilità amministrative e perfino penali in capo all'amministratore condominiale, oltre che esporre i condomini a richieste di risarcimento da parte di soggetti danneggiati. I singoli condomini possono liberamente installare telecamere a uso privato nell'ambito della proprietà esclusiva e delle relative pertinenze ma, in questo caso, il raggio visuale dell'impianto deve essere limitato al perimetro delle stesse. In caso contrario, come recentemente ribadito dalla Corte di giustizia europea (sent. 11/12/2014) il titolare del trattamento è tenuto a rispettare i medesimi adempimenti.
La sentenza ha confermato quanto previsto dal provvedimento generale dell'Autorità garante del 2010, chiarendo che le videoriprese del proprietario di casa possono considerarsi di utilizzo personale (e dunque esenti dagli obblighi di legge) soltanto ove l'angolo visuale delle riprese sia limitato agli spazi di pertinenza esclusiva, con esclusione delle parti comuni (e/o di proprietà altrui).
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Numeri di telefono e indirizzi e-mail da usare secondo proporzionalità.
I dati personali che l'amministratore può trattare indipendentemente dal consenso dei condomini interessati sono in primo luogo rappresentati dai rispettivi dati anagrafici, necessari per la gestione e l'amministrazione delle parti comuni, e quindi: nome e cognome; luogo e data di nascita; residenza e/o domicilio (città, via e numero civico); codice fiscale o partita Iva; qualità di proprietario o usufruttuario o titolare di altro diritto reale o personale di godimento (uso, abitazione, locazione, comodato ecc.); quote millesimali di comproprietà dei beni comuni ed eventuali ulteriori informazioni necessarie al calcolo delle spese condominiali; dati catastali delle unità immobiliari di proprietà esclusiva (si tratta, in ogni caso, di dati provenienti da pubblici registri).
Un discorso a parte va fatto per quanto riguarda l'utilizzo del numero di telefono e dell'indirizzo di posta elettronica dei condomini. Per quanto riguarda il primo, l'Autorità garante ha sempre negato che l'amministratore potesse disporne senza il consenso dell'interessato, qualora lo stesso non risultasse nemmeno dagli elenchi pubblici (circostanza da escludere in ogni caso per quanto riguarda le utenze mobili).
Si tratta, tuttavia, di un'informazione di indubbia utilità ai fini della gestione del condominio e nulla vieta di ottenere dai singoli condomini l'autorizzazione all'utilizzo del proprio numero telefonico, per esempio in occasione della compilazione dell'anagrafe condominiale. In ogni caso, come evidenziato dall'Autorità garante, occorre che l'amministratore, nel fare uso del recapito telefonico dei condomini, tenga sempre ben presente il principio di proporzionalità tra i rispettivi e a volte contrastanti interessi della gestione delle parti comuni e della riservatezza dei privati.
Così, se può apparire giustificato utilizzare il numero telefonico in casi di necessità e urgenza (per esempio per evitare una situazione di pericolo o di danno incombente), può viceversa risultare eccessivo contattare un condomino per il disbrigo di una pratica di amministrazione per così dire ordinaria. In tutti i casi l'utenza telefonica del condomino non può essere comunicata dall'amministratore a terzi estranei alla compagine condominiale (ivi inclusi i fornitori del condominio).
Discorso analogo si può fare per quanto riguarda l'indirizzo di posta elettronica per così dire semplice. La posta elettronica certificata, al contrario, risulta ora da elenchi pubblici e, quel che più rileva, è stata espressamente individuata dal legislatore quale mezzo per l'invio degli avvisi di convocazione delle assemblee condominiali, in alternativa alla raccomandata cartacea, al fax e alla consegna a mani. Per questo motivo si ritiene che l'amministratore, almeno per la finalità di cui alla disposizione or ora citata, sia in ogni caso autorizzato a utilizzare detto recapito anche senza il consenso del condomino interessato. Nei limiti dei principi di pertinenza e di non eccedenza rispetto alle finalità del trattamento, l'amministratore può inoltre trattare anche i dati sensibili e giudiziari dei condomini, qualora gli stessi siano necessari alla gestione del condominio.
Si pensi, per esempio, al caso in cui l'assemblea debba deliberare l'abbattimento delle c.d. barriere architettoniche, che rendono difficoltoso l'accesso a un condomino diversamente abile, o si debbano acquisire informazioni sui carichi pendenti di persone che potrebbero essere assunte alle dipendenze del condominio, oppure quando si debbano trattare i dati sanitari di terzi estranei alla compagine condominiale che abbiano subito danni nelle parti comuni.
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Dati, sicurezza su due vie.
L'amministratore generalmente non fa altro che adempiere a disposizioni di legge o assolvere a obblighi inerenti al mandato ricevuto dall'assemblea condominiale. In relazione a queste attività il più delle volte non occorre che questi raccolga il consenso dei condomini. Trattamenti di questo genere sono, infatti, sottratti all'obbligo di acquisizione preventiva del consenso, ai sensi dell'art. 24 del dlgs n. 196/2003 (salvo che si tratti di dati sensibili). Anche se il consenso dei condomini non è generalmente richiesto per lo svolgimento delle attribuzioni proprie dell'amministratore, l'adempimento principale e irrinunciabile nei confronti dei propri amministrati è comunque rappresentato dalla comunicazione dell'informativa di cui all'art. 13 del predetto decreto legislativo.
L'informativa può essere fornita ai condomini con comunicazione una tantum. Si pensi all'ipotesi di un'informativa inserita nella bacheca condominiale o inserita nel verbale assembleare. Nel nuovo condominio telematico, inoltre, la messa online di un sito internet condominiale può rappresentare un'altra efficace soluzione per portare a conoscenza dei propri amministrati le regole del trattamento dei propri dati personali. I medesimi doveri di rilascio dell'informativa e di acquisizione del consenso si pongono poi nei confronti di tutti gli altri soggetti con i quali l'amministratore deve interfacciarsi nella gestione del condominio (dipendenti del condominio e fornitori) e della propria organizzazione aziendale (si veda la tabella in pagina).
A detti obblighi si aggiungono quelli ulteriori relativi alla nomina quali responsabili o incaricati del trattamento dei soggetti che possono venire a conoscenza dei dati personali trattati dall'amministratore nello svolgimento del proprio incarico, al riscontro alle istanze di accesso degli interessati (che vogliano sapere se e come i propri dati siano trattati dall'amministratore condominiale o intendano modificarli o rettificarli) e all'adozione delle necessarie misure si sicurezza.
Più nello specifico, il sistema delle misure di sicurezza messo a punto dal Codice privacy si sviluppa su due piani concorrenti tra loro: quello delle misure minime e quello delle misure idonee. Innanzi tutto i dati personali oggetto di trattamento devono, infatti, essere custoditi e controllati, in modo da ridurre al minimo i rischi di distruzione o perdita, anche accidentale, degli stessi, di accesso non autorizzato o di trattamento non consentito o non conforme alle finalità della raccolta. Quanto sopra deve essere messo in pratica in relazione alle conoscenze acquisite in base al progresso tecnico nel momento in cui avvengono le operazioni di trattamento, nonché alla natura dei dati personali e alle specifiche caratteristiche del trattamento.
Per quanto riguarda i trattamenti effettuati con strumenti elettronici è necessario adottare le seguenti misure minime di sicurezza: autenticazione informatica, adozione di procedure di gestione delle credenziali di autenticazione e utilizzo di un sistema di autorizzazione, aggiornamento periodico dell'individuazione dell'ambito del trattamento consentito ai singoli incaricati e addetti alla gestione o alla manutenzione degli strumenti elettronici, protezione degli strumenti elettronici e dei dati rispetto a trattamenti illeciti di dati, ad accessi non consentiti e a determinati programmi informatici, adozione di procedure per la custodia di copie di sicurezza e il ripristino della disponibilità dei dati e dei sistemi (articolo ItaliaOggi Sette del 17.08.2015).

ENTI LOCALI - VARIZtl, mini-ingresso per affari non è previsto dalla legge.
Non è possibile attivare abbonamenti brevi per regolare l'accesso degli operatori economici nelle zone a traffico limitato delle città. L'unica alternativa praticabile nel rispetto della normativa consiste nell'individuare delle fasce orarie di libero transito per tutti.

Lo ha chiarito il Ministero dei trasporti con il parere 27.05.2015 n. 2531 di prot..
Il comune di Modena ha richiesto chiarimenti sulla possibilità di utilizzare i tradizionali varchi di controllo per l'accesso alla ztl al fine di gestire degli abbonamenti a tempo da distribuire agli interessati, previo corrispettivo. A parere del ministero questa pratica, pur se tecnicamente possibile, non è contemplata dalla normativa. Specifica infatti il parere centrale che il dpr 250/1999 che disciplina gli accessi alle zone a traffico limitato permette la gestione dei dati solo in caso di infrazione.
In buona sostanza secondo una interpretazione rigorosa i dati delle targhe dei veicoli non si possono usare a piacimento del comune. Meglio individuare delle fasce orarie per permettere agli operatori economici di entrare liberamente nel centro storico della città per coltivare i propri interessi (articolo ItaliaOggi Sette del 17.08.2015).

ENTI LOCALI - VARI:  Niente droni sugli assembramenti di persone. Regolamento dell'ente nazionale per l'aviazione civile.
L'uso dei droni in zone critiche è particolarmente regolamentato e in ogni caso richiede operatori istruiti e autorizzati. Ma è sempre vietato sorvolare cortei, manifestazioni sportive e gruppi di persone. Dal 01.07.2016 poi anche questi sistemi saranno dotati di una sorta di scatola nera.

Lo ha evidenziato l'Ente nazionale per l'aviazione civile con il regolamento 16.07.2015 edizione n. 2.
L'uso dei mezzi aerei a pilotaggio remoto è ormai una pratica comune e condivisa in ogni ambito operativo. Questi strumenti di volo però sono considerati dalle normative internazionali come aeromobili soggetti quindi alla regolamentazione aeronautica. L'impiego di questi strumenti, compresi gli aeromodelli, è stato quindi disciplinato dai singoli stati membri ed in Italia è stato adottato il regolamento del 16.12.2013, aggiornato il 16.07.2015.
Restano esclusi dalla disciplina i voli in spazi chiusi e quelli di stato, specifica innanzitutto il regolamento. I droni, meglio classificati con la sigla Sapr, si differenziano tra leggeri (fino a 25 kg) e pesanti (fino a 150 kg). Dal 01.07.2016 in aggiunta alla tradizionale targhetta di identificazione questi sistemi dovranno essere dotati di una scatola nera in grado di trasmettere in dati e registrare gli stessi. Per condurre i Sapr occorre un titolo di pilotaggio ad hoc, specifica l'Enac, ed indossare un giubbotto ad alta visibilità con l'identificativo del pilota.
Per l'effettuazione delle operazioni ritenute critiche occorre l'autorizzazione preventiva dell'Ente nazionale per l'aviazione civile. In ogni caso è sempre vietato il sorvolo di assembramenti di cittadini, cortei, manifestazioni sportive o musicali e delle aree dove di verifichino concentrazioni inusuali di persone.
Particolarmente semplificato l'uso dei droni più leggeri, anche in zone considerate normalmente critiche. Per i Sapr leggerissimi, fino a 0,3 kg, non è richiesto neppure l'attestato di pilota. Per l'uso di qualunque drone è però necessario aver stipulato una polizza di responsabilità civile, specifica l'Enac.
Per quanto riguarda gli aeromodelli le regole sono più semplici ed eventualmente differenziate luogo per luogo (articolo ItaliaOggi Sette del 17.08.2015).

EDILIZIA PRIVATA: Tempi certi per contestare la Scia. Verifica dei requisiti entro 60 giorni e autotutela non oltre 18 mesi.
Pubblica amministrazione. La legge 124/2015, in vigore dal 28 agosto, rende più semplice avviare un’attività.

Con la semplificazione delle procedure il legislatore ha eliminato del tutto (con la Scia) o ridotto (con il silenzio-assenso) il tempo di attesa per avviare un’attività economica ma, timoroso di lasciare troppa libertà ai privati, ha accresciuto le possibilità per gli enti pubblici competenti di reprimere, senza limiti di tempo, eventuali errori o abusi.
In particolare finora due sono le criticità insuperabili: l’imprenditore è obbligato a interpretare le disposizioni che fissano i requisiti per svolgere le attività economiche che sono spesso ambigue e complesse anche per i funzionari pubblici; gli enti destinatari della Scia possono controllare e intervenire per sospendere o vietare l’attività in qualsiasi tempo, qualora ritengano che non vi siano i requisiti specifici, anche se il segnalante è in buona fede.

L’articolo 6 della riforma della pubblica amministrazione (legge 124/2015 che entrerà in vigore il 28 agosto) introduce nella legge 241/1990 alcune modifiche, di immediata applicazione, che rendono meno rischioso, per chi deve utilizzare la Scia, l’inizio dell’attività perché limita i poteri di controllo dell’ente che la riceve.
La riforma, sostituendo anzitutto i commi 3 e 4 dell’articolo 19, elimina alcune ambiguità della procedura.
Dopo aver confermato che l’ente destinatario della Scia deve verificare l’esistenza dei requisiti previsti entro 60 giorni dalla sua ricezione, precisa che entro tale termine (considerato perentorio) l’ente ha due obblighi alternativi se verifica la carenza anche di un solo requisito:
- deve vietare la prosecuzione dell’attività e provvedere alla rimozione degli eventuali effetti dannosi, qualora sia impossibile mettersi in regola;
- qualora la regolarizzazione sia possibile, l’ente deve decidere solo la sospensione dell’attività invitando a prendere le misure correttive entro un termine non inferiore ai trenta giorni; in caso di mancato adempimento l’attività rimane vietata.
Questa procedura riguarda tutte le attività economiche, comprese quelle che potrebbero danneggiare l’ambiente, la salute, il patrimonio artistico.
Ma per il segnalante i rischi maggiori sorgono quando l’ente non effettua il controllo entro i 60 giorni. Con le precedenti normative l’ente poteva intervenire per bloccare l’attività in ogni tempo avvalendosi del potere di annullamento d’ufficio degli atti illegittimi (articolo 21-nonies della legge 241/1990).
L’articolo 6 innova questa disposizione. L’attività iniziata con la Scia, dopo i 60 giorni, potrà essere vietata con l’autotutela a due condizioni:
- vi sono ragioni di interesse pubblico che prevalgono sugli interessi del segnalante o dei controinteressati;
- se il divieto è adottato entro «un termine ragionevole» e comunque non superiore a 18 mesi dalla Scia.
La novità più rilevante sta nel fatto che dopo 18 mesi non è più possibile contestare la Scia, ma questo limite non vale se il segnalante ha rilasciato dichiarazioni false, accertate con sentenza passata in giudicato.
Una importante agevolazione è inoltre assicurata dall’abrogazione del comma 2 dell’articolo 21 della legge 241/1990. Finora chi inviava una Scia carente dei requisiti previsti dalle norme di settore veniva punito anche con le sanzioni (di solito pecuniarie) previste dalle norme speciali. Ora le sanzioni sono il divieto o la sospensione e, solo in caso di dichiarazioni false, anche le sanzioni penali.
Il rischio dell’autotutela, ora limitato nel tempo, sarà ridimensionato quando saranno emanati i decreti legislativi previsti dall’articolo 5 della riforma della Pa che dovranno individuare quattro categorie di procedimenti per iniziare una attività: la Scia, il silenzio-assenso, la comunicazione preventiva e l’autorizzazione preventiva.
Per ciascuno dei primi tre, i decreti dovranno precisare le regole generali, le modalità di presentazione, i contenuti standard, gli effetti legali. Alcune espressioni non sono chiare ma è evidente l’obiettivo: dare certezze a chi utilizza le nuove procedure di semplificazione.
Se si vuole sollevare l’imprenditore dai rischi connessi sia al controllo effettuato entro i sessanta giorni, sia a quello successivo in autotutela, occorre imporre l’attuazione effettiva dell’articolo 7 (diritto all’informazione) della direttiva 2006/123/Ce sui servizi che obbliga le autorità competenti degli Stati membri a garantire agli imprenditori, e ai cittadini destinatari delle loro attività, che ne facciano richiesta, informazioni sul modo in cui i requisiti, le procedure e le formalità per accedere a una attività «vengono generalmente interpretati e applicati» dai vari enti, con la raccomandazione che siano fornite in «un linguaggio semplice e comprensibile».
Questa disposizione europea è recepita all’articolo 26 della legge 50/2010, però è applicabile solo per le pratiche gestite dagli Sportelli unici attività produttive, che solo in casi rarissimi l’hanno applicata
(articolo Il Sole 24 Ore del 15.08.2015).

ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALIRiforma Madia, ora si parte. Entro 90 giorni dlgs per abrogare le leggi non più attuabili. Con la pubblicazione della delega in G.U. al via la tabella di marcia per l'attuazione.
La riforma Madia partirà dal taglio (o dalla modifica) delle leggi inutili o non ancora attuate. Entro fine novembre arriverà il primo provvedimento attuativo della legge delega che dovrà individuare le disposizioni che andranno incontro ad abrogazione espressa, non essendoci più le condizioni per l'emanazione dei relativi provvedimenti attuativi, e le norme non ancora attuate che verranno modificate proprio al fine di favorirne l'attuazione.

Con la pubblicazione della legge delega (legge 07.08.2015 n.124) sulla Gazzetta Ufficiale n. 187 di ieri, è ufficialmente partito il conto alla rovescia per l'emanazione dei decreti legislativi.
Dopo i tradizionali 15 giorni di vacatio legis, la legge entrerà in vigore il 28 agosto a quel punto si avvierà la fase attuativa. Primo appuntamento, il dlgs di riordino della normativa successiva al 31.12.2011 che dovrà essere emanato entro 90 giorni dall'entrata in vigore della legge 124, quindi entro fine novembre.
Sei mesi. Entro sei mesi dall'entrata in vigore della delega, e quindi entro fine febbraio 2016, dovrà essere emanato il provvedimento attuativo che taglia del 50% i tempi dei procedimenti relativi alle grandi opere (rilevanti insediamenti produttivi e opere di interesse generale). Non si tratterà però di un decreto legislativo, bensì di un regolamento da emanare ai sensi della legge 400/1988.
La stessa tempistica è prevista per il (o i) dlgs correttivi della legge 33/2013 sugli obblighi di pubblicità e trasparenza da parte delle pubbliche amministrazioni.
Otto mesi. Entro otto mesi dall'entrata in vigore dovrà arrivare il decreto attuativo sulla razionalizzazione delle spese da parte della p.a. che conterrà, tra le altre cose, anche il taglio del 50% dei costi delle intercettazioni da realizzare attraverso tariffari e costi standard.
Dodici mesi. La regola generale dei 12 mesi per l'approvazione dei decreti attuativi varrà per la maggior parte delle deleghe previste dalla legge. Dalle norme sulla cittadinanza digitale (wi-fi free negli uffici pubblici, banda ultralarga, software open source, Pin unico, sistema Spid ecc.) a quelle sullo snellimento delle procedure della conferenza di servizi, dalla Scia alle norme sulla riorganizzazione dello stato (con l'istituzione del numero unico europeo 112 per le emergenze), dal taglio delle prefetture a quello delle camere di commercio (che dovranno ridursi dalle attuali 105 a 60), fino alla tanto attesa riforma della dirigenza pubblica (con il ruolo unico, gli incarichi a termine, la licenziabilità e l'abolizione della figura dei segretari comunali).
Entro un anno dovranno essere emanati anche i decreti sul riordino delle partecipate (con i compensi degli amministratori legati ai risultati e l'obbligo di mettere in liquidazione la società dopo un certo numero di bilanci in perdita) e dei servizi pubblici locali di interesse generale. Senza dimenticare la riscrittura dei giudizi davanti alla Corte dei conti che si compirà sempre entro un anno dall'entrata in vigore della delega.
Diciotto mesi. Bisognerà attendere il 2017 perché vedano la luce i decreti di riforma del pubblico impiego con le nuove norme sui concorsi che prevedono l'accertamento della conoscenza dell'inglese, la soppressione del requisito del voto minimo di laurea, la riduzione dei termini di validità delle graduatorie, il ricambio generazionale ecc.
Non necessiteranno, invece, di alcuna attuazione, in quanto immediatamente in vigore, le modifiche alla legge 241/1990 che introducono il principio del silenzio-assenso (entro 30 giorni elevabili a 90 in materia ambientale) e dell'autotutela, esercitabile tramite revoca da parte della p.a., fino a un massimo di 18 mesi di tempo dall'adozione del provvedimento (anche se questo si è formato a seguito di silenzio-assenso) (articolo ItaliaOggi del 14.08.2015).

PUBBLICO IMPIEGOPolizia provinciale, congelata la mobilità verso i municipi.
Mobilità dei dipendenti dei corpi di polizia provinciale verso i comuni congelata, finché province e regioni non prendano l'iniziativa di attuare le previsioni della legge di conversione del decreto legge enti locali (dl n. 78/2015, la cui legge di conversione sarà pubblicata oggi in Gazzetta Ufficiale). Ma il sistema dell'avvalimento può superare l'impasse.

Perché i comuni possano assumere mediante mobilità i componenti dei corpi di polizia provinciale occorre che si verifichino due presupposti preliminari e si segua unicamente la strada della mobilità gestita attraverso l'applicativo online mobilita.gov.it.
Il primo presupposto è l'obbligo in capo alle province di determinare quali e quanti dipendenti dei corpi di polizia saranno da adibire alle funzioni fondamentali. Questo adempimento è fondamentale: infatti, i dipendenti dei corpi provinciali assegnati alle funzioni fondamentali, destinati a restare nelle competenze delle province, sostanzialmente saranno sottratti alla sovrannumerarietà e al trasferimento verso altri enti. Dunque, le province sono chiamate ad agire in fretta per impostare i criteri necessari a far scegliere quali dipendenti dei corpi saranno destinati a rimanere e quali altri saranno da trasferire.
Il secondo presupposto sono le leggi regionali di riordino delle funzioni provinciali. Le regioni sono chiamate entro il 31.10.2015 a dire la parola definitiva sulle funzioni non fondamentali delle province, per scegliere quali prendere per sé e quali altre destinare ai comuni. Le leggi regionali, allora, sono indispensabili per comprendere come ricollocare i componenti dei corpi di polizia provinciale non assegnati alle funzioni fondamentali. Essi potrebbero andare tutti, infatti, in regione, se le leggi regionali decidessero di acquisire le funzioni di vigilanza, per esempio, di natura ambientale.
In assenza dei provvedimenti provinciali e delle leggi regionali, dal primo novembre in avanti, tutti i dipendenti dei corpi provinciali sarebbero destinati a trasferirsi presso i comuni, per espletare le funzioni di polizia comunale.
I trasferimenti, come rilevato prima, potranno avvenire solo ed esclusivamente in applicazione del decreto di regolazione della mobilità del personale provinciale in sovrannumero, di recente approvato dal governo ma ancora senza l'approvazione della Conferenza stato-regioni.
Attualmente, dunque, mancano sia i presupposti, sia lo strumento applicativo per la mobilità dei vigili provinciali.
Né i comuni potrebbero legittimamente attivare avvisi di mobilità esclusivamente loro riservati. Non solo perché l'articolo 5 del dl 78/2015 come modificato dalla legge di conversione sul punto è molto chiaro nel considerare possibile solo la mobilità trame applicativo internet, ma soprattutto perché contiene una norma di diritto transitorio.
Il comma 4 dell'articolo 5 stabilisce espressamente che nelle more dell'emanazione del decreto di disciplina della mobilità del personale provinciale, province e comuni possono concordare con i comuni del territorio modalità di avvalimento immediato del personale provinciale da trasferire, in applicazione dell'articolo 1, comma 427, della legge 190/2014.
Dunque, in attesa dei presupposti richiesti dal decreto enti locali, i comuni potrebbero fare fronte ai propri fabbisogni stabili di agenti di polizia comunale, stipulando con le province o le città metropolitane convenzioni, con le quali concordare come selezionare i componenti dei corpi provinciali da adibire alle funzioni di polizia comunale dei quali avvalersi. Con la convenzione di avvalimento, i dipendenti provinciali o delle città metropolitane, pur mantenendo il rapporto di lavoro con gli enti di provenienza, passerebbero alle dipendenze funzionali dei comuni, che si accollerebbero gli oneri dei trattamenti economici.
L'avvalimento, dunque, anticiperebbe gli effetti della mobilità attualmente congelata e risulterebbe comunque utile anche agli enti di area vasta, perché consentirebbe loro di alleggerirsi del peso della spesa del personale dei corpi di polizia provinciale assegnati ai comuni, sulla base delle convenzioni (articolo ItaliaOggi del 14.08.2015).

GIURISPRUDENZA

AMBIENTE-ECOLOGIA: Il bar della movida anche se rumoroso non commette reato. Quiete pubblica. Sanzione per chi supera i limiti.
Escluso il reato di disturbo alla quiete pubblica per il bar della movida che supera i limiti imposti dalla legge. Se il gestore è autorizzato a fare musica fino a tarda notte la sola pena prevista è la sanzione amministrativa, perché la sua attività va considerata come esercizio di un mestiere rumoroso.
La Corte di Cassazione, Sez. III penale, con la sentenza 18.08.2015 n. 34920 distrugge il sogno di tanti cittadini di vedere duramente punito chi li costringe a stare svegli fino all’alba.
La Suprema corte precisa, infatti, che quando l’uso degli strumenti musicali è strettamente connesso e necessario all’attività che ha avuto il via libera delle autorità, lo sforamento dei limiti massimi o differenziali di emissione del rumore fa scattare il solo illecito amministrativo previsto dall’articolo 10, comma secondo, della legge 26.10.1995 n. 447.
Il Codice penale entra in gioco con l’articolo 659, comma primo, che prevede l’arresto fino a tre mesi o l’ammenda solo quando i rumori molesti provengono non dagli strumenti “sdoganati” ma sono il risultato di altre azioni non necessarie o non attinenti con il genere di lavoro che ha avuto il nulla osta amministrativo.
La norma penale è composta poi anche da un secondo comma che si applica, come precisa la Suprema corte, quando la violazione contestata riguarda specifiche disposizioni di legge o prescrizioni dell’Autorità che regolano l’esercizio del mestiere rumoroso, diverse da quelle relative ai valori limite di emissioni sonore stabilite con criteri dettati dalla legge 447 del 1995.
Nel caso esaminato nulla di tutto questo era accaduto. E la Cassazione dà partita vinta al gestore del bar che aveva fatto ricorso contro la condanna inflitta dalla Corte d’appello in sintonia con il Tribunale. A denunciare il superamento dei decibel consentiti dopo le 20, erano stati gli abitanti dell’appartamento posto proprio sopra il bar dove avvenivano le feste danzanti. Valori fissati in 5 decibel durante il giorno e in 3 decibel di notte.
Per la Cassazione si trattava però di una condanna ingiusta anche a prescindere dall’applicazione dell’”esimente” del mestiere rumoroso. I giudici di merito si erano, infatti, limitati –sottolinea la Suprema corte– ad affermare che le immissioni erano tali per entità e caratteristiche accertate da disturbare un numero indeterminato di persone, senza provare, al di là di ogni ragionevole dubbio, che i rumori potessero essere uditi, anche potenzialmente, da più abitanti del palazzo o della zona.
Al contrario dagli atti emergeva che le lagnanze provenivano solo dai condomini che occupavano la casa immediatamente sopra il bar, mentre gli altri non erano stati neppure sentiti
 (articolo Il Sole 24 Ore del 19.08.2015).
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MASSIMA
In ogni caso, deve anche evidenziarsi che dalle sentenze di merito non si riesce a comprendere bene quale sia l'ipotesi di reato per la quale l'imputato è stato condannato.
Con il capo di imputazione si richiamava, oltre all'art. 659 cod. pen., anche il DPCM 14.11.1997, e si contestava all'imputato di avere cagionato, mediante l'esercizio nel suo bar di attività di musica in tempo di notte proveniente dall'esecuzione di attività danzante all'interno del locale, emissioni rumorose superiori ai limiti consentiti dal DCMP 14.11.1997. Sostanzialmente, dunque, si contestava il superamento dei limiti indicati dal decreto presidenziale.
La sentenza dì primo grado, poi, ha indubbiamente basato l'affermazione dì responsabilità soprattutto sulla circostanza che —secondo gli accertamenti eseguiti dall'ARPA nell'aprile del 2010- l'attività del bar provocava (all'epoca) un rumore che superava il limite differenziale massimo stabilito dall'art. 6 del DPCM 01.03.1991 (5 db diurno e 3 db notturno) e comunque provocava nell'appartamento sito al primo piano dello stesso stabile in cui è ubicato il bar, il superamento dei limiti massimi assoluti di sera dopo le ore 20:00, arrivando con la musica fino a 68,5 dB con le finestre aperte ed a 46,5 dB con le finestre chiuse. La sentenza della corte d'appello di Milano si basa in sostanza sullo stesso fondamento, avendo affermato che la prova della responsabilità si desumerebbe, oltre ogni ragionevole dubbio, dal fatto che l'imputato non aveva dimostrato che «gli accorgimenti adottati fossero idonei a ricondurre le emissioni nei limiti di legge».
Se però così è, allora —al di là di quanto già osservato sulla palese inversione dell'onere della prova- l'ipotesi di reato accertata e ritenuta dai giudici del merito è indubitabilmente quella di cui al secondo comma dell'art. 659 cod. pen., il quale punisce con la sola ammenda «chi esercita una professione o un mestiere rumoroso contro le disposizioni della legge o le prescrizioni dell'Autorità».
Nella specie, appunto, l'imputato avrebbe esercitato il mestiere rumoroso di esercizio di un bar -autorizzato all'uso, anche di notte, di apparecchi acustici per la diffusione di musica- contro le disposizione di legge e le prescrizioni del DPCM 01.03.1991, superando sia i limiti differenziali sia i limiti assoluti ivi indicati. Dalle sentenze di merito, infatti, non emerge alcuna prova che i rumori molesti provenienti dal bar avessero altra e diversa origine se non quella, evidenziata dalle sentenze stesse, di una ritenuta illegittima utilizzazione degli strumenti di diffusione sonora, ai quali il bar era autorizzato anche di notte, oltre i limiti (differenziali ed assoluti) previsti dagli atti autorizzativi e dal DPCM del 1991.
Va invero ribadito il principio che
i rumori molesti provenienti da un bar integrano la fattispecie di cui all'art. 659, secondo comma, quando provengano da attività strettamente connesse e necessarie all'esercizio del bar stesso. In particolare, pertanto, l'attività di un bar regolarmente autorizzato dall'autorità amministrativa a rimanere aperto fino a tarda notte ed all'uso di strumenti musicali e di diffusione sonora, deve essere classificata come esercizio di un «mestiere rumoroso», proprio perché in tal caso l'utilizzazione degli strumenti musicali e di diffusione acustica deve considerarsi strettamente connesso ed indispensabile all'esercizio dell'attività autorizzata (cfr. Sez. I, 26.02.2008, n. 11310, Fresina, Rv 239165).
Deve ricordarsi, infatti, che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, l'art. 659 cod. pen. prevede due autonome fattispecie di reato configurate rispettivamente dal primo e dal secondo comma.
L'elemento che le differenzia è rappresentato dalla fonte del rumore prodotto, giacché
ove esso provenga dall'esercizio di una professione o di un mestiere rumorosi la condotta rientra nella previsione del secondo comma del citato articolo per il semplice fatto della esorbitanza rispetto alle disposizioni di legge o alle prescrizioni dell'autorità, presumendosi la turbativa della pubblica tranquillità.
Qualora, invece,
le vibrazioni sonore non siano causate dall'esercizio della attività lavorativa, ricorre l'ipotesi di cui al primo comma dell'art. 659 cod. pen., per la quale occorre che i rumori superino la normale tollerabilità ed investano un numero indeterminato di persone, disturbando le loro occupazioni o il riposo (Sez. I, 17.12.1998, n. 4820/1999, Marinelli, m. 213395, in un caso di emissioni rumorose provocate non dall'attività di una discoteca, bensì dall'impianto di condizionamento); «L'art. 659 cod. pen. prevede due distinte ipotesi di reato: quello contenuto nel primo comma ha ad oggetto il disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone e richiede l'accertamento in concreto dell'avvenuto disturbo; mentre quello previsto nel secondo comma riguardante l'esercizio di professione o mestiere rumoroso, prescinde dalla verificazione del disturbo, essendo tale evento presunto "iuris et de iure" ogni volta che l'esercizio del mestiere rumoroso si verifichi fuori dai limiti di tempo, di spazio e di modo imposti dalla legge, dai regolamenti o da altri provvedimenti adottati dalle competenti autorità» (Sez. I, 12.06.2012, n. 39852, Minetti, m. 253475).
Ciò rilevato, deve però anche ricordarsi che la giurisprudenza più recente ha peraltro precisato che «
L'inquinamento acustico conseguente all'esercizio di mestieri rumorosi, che si concretizza nel mero superamento dei limiti massimi o differenziali di rumore fissati dalle leggi e dai decreti presidenziali in materia, integra l'illecito amministrativo di cui all'art. 10, comma secondo, della legge 26.10.1995 n. 447 (legge quadro sull'inquinamento acustico) e non la contravvenzione di disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone (art. 659, comma secondo, cod. pen.)» (Sez. I, 13.11.2012, n. 48309, Carrozzo, Rv. 254088); e che «In tema di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone, la condotta costituita dal superamento dei limiti di accettabilità di emissioni sonore derivanti dall'esercizio di professioni o mestieri rumorosi non configura l'ipotesi di reato di cui all'art. 659, comma secondo, cod. peri., ma l'illecito amministrativo di cui all'art. 10, comma secondo, della legge 26.10.1995 n. 447 (legge quadro sull'inquinamento acustico), in applicazione del principio di specialità contenuto nell'art. 9 della legge 24.11.1981 n. 689» (Sez. III, 31.01.2014, n. 13015, Vazzana. Rv. 258702).
In conclusione, deve confermarsi il principio più recentemente affermato (cfr. Sez. III, 18.09.2014, n. 42026, Claudino, Rv. 260658; Sez. III, 21.01.2015, n. 5735, Giuffrè, Rv. 261885), precisandolo nel senso che
in tema di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone, l'esercizio di una attività o di un mestiere rumoroso, integra:
A) l'illecito amministrativo di cui all'art. 10, comma secondo, della legge 26.10.1995, n. 447, qualora si verifichi il superamento dei limiti, massimi o differenziali, di emissione del rumore fissati dalle leggi e dai provvedimenti amministrativi;
B) il reato di cui al comma primo dell'art. 659, cod. peni, qualora i rumori idonei a turbare la quiete pubblica provengano da condotte che eccedano le normali attività di esercizio, ossia non siano strettamente connessi o necessari all'esercizio dell'attività autorizzata;
C) il reato di cui al comma secondo dell'art. 659 cod. pen., qualora siano violate specifiche disposizioni di legge o prescrizioni della Autorità che regolano l'esercizio del mestiere o della attività, diverse da quella relativa ai valori limite di emissione sonora stabiliti in applicazione dei criteri di cui alla legge n. 447 del 1995
(cfr. Sez. III, 18.09.2014, n. 42026, Claudino, Rv. 260658; Sez. III, 21.01.2015, n. 5735, Giuffrè, Rv. 261885).
Più in particolare, va affermato il principio che
l'attività di un bar regolarmente autorizzato dall'autorità amministrativa a rimanere aperto fino a tarda notte ed all'uso di strumenti musicali e di diffusione sonora, va classificata come esercizio di un «mestiere rumoroso», in quanto l'uso di tali strumenti è strettamente connesso e necessario all'esercizio dell'attività autorizzata, con la conseguenza che il superamento, mediante gli strumenti stessi, dei limiti massimi o differenziali di emissione del rumore integra l'illecito amministrativo di cui all'art. 10, comma secondo, della legge 26.10.1995, n. 447.
Qualora invece, nel caso in esame, il giudice del merito avesse ritenuto che i rumori provenissero non dagli strumenti musicali o di diffusione sonora o comunque da altre condotte non necessarie e strettamente connesse all'esercizio dell'attività autorizzata e che, di conseguenza, fossero idonei ad integrare il reato di cui al primo comma dell'art. 659 cod. pen., va rilevato che nella sentenza impugnata non si rinviene alcuna motivazione (congrua ed adeguata) non solo su quale sarebbe la fonte diversa ed ulteriore di tali rumori, ma nemmeno sugli elementi costitutivi della fattispecie di cui all'art. 659, primo comma, cod. pen..
Secondo la giurisprudenza, invero,
per integrare il reato di cui all'art. 659, primo comma, è necessario che il fastidio non sia limitato agli appartamenti attigui alla sorgente rumorosa (Sez. III, 13.05.2014, n. 23529, Ioniez, Rv. 259194), o agli abitanti dell'appartamento sovrastante o sottostante alla fonte di propagazione (Sez. I, 14.10.2013, n. 45616, Virgillito, Rv. 257345), occorrendo invece la prova che la propagazione delle onde sonore sia estesa quanto meno ad una consistente parte degli occupanti l'edificio, in modo da avere una diffusa attitudine offensiva ed una idoneità a turbare la pubblica quiete.
Difatti, «l
a rilevanza penale della condotta produttiva di rumori, censurati come fonte di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone, richiede l'incidenza sulla tranquillità pubblica, in quanto l'interesse tutelato dal legislatore è la pubblica quiete, sicché i rumori devono avere una tale diffusività che l'evento di disturbo sia potenzialmente idoneo ad essere risentito da un numero indeterminato di persone, pur se poi concretamente solo taluna se ne possa lamentare» (ex plurimis, Sez. I, 29.11.2011, n. 47298, Tori, Rv. 251406; Sez. III, 27.01.2015, n. 7912, Contino).
La sentenza impugnata, invece, si è limitata soltanto a ritenere accertato il superamento dei limiti di immissione, peraltro in modo assolutamente incongruo perché l'accertamento al quale si riferisce riguardava il diverso reato giudicato con la sentenza emessa il 13.07.2011 e la cui permanenza era cessata in tale data. Dalla sentenza impugnata, invece, non risultano accertamenti di superamento dei limiti in riferimento alle emissioni sonore posteriori a detta data ed oggetto del presente giudizio.
La sentenza impugnata, inoltre, si limita ad affermare che «non può dubitarsi della idoneità delle immissioni, per l'entità e le caratteristiche accertate, a disturbare un numero indeterminato di persone». Si tratta però di una affermazione meramente apodittica e congetturale sia perché le caratteristiche accertate riguardavano immissioni diverse da quelle oggetto del presente procedimento e sia comunque perché non viene spiegato sulla base di quali concreti elementi si è ritenuto provato, al di là di ogni ragionevole dubbio, che i rumori avessero una tale diffusività che l'evento di disturbo fosse potenzialmente idoneo ad essere risentito da un numero indeterminato di persone.
Al contrario, dalle sentenze di merito sembrerebbe emergere solo la prova che i rumori abbiano recato disturbo unicamente agli abitanti dell'appartamento immediatamente sovrastante il bar, ossia che si fosse in presenza di una fattispecie avente carattere civilistico e non anche penale. Dalla sentenza impugnata invero non risulta alcuna prova che altri soggetti si siano lamentati o che i rumori (successivi al 14.07.2011) siano stati percepiti anche da abitanti in appartamenti diversi da quello immediatamente sovrastante, ed anzi nemmeno risulta che costoro siano stati sentiti.
La sentenza impugnata deve dunque essere annullata con rinvio ad altra sezione della corte d'appello di Milano, che si atterrà ai principi di diritto dianzi indicati.
Gli altri motivi restano assorbiti.

EDILIZIA PRIVATAL'ordine di demolizione conseguente all'accertamento della natura abusiva delle opere realizzate, come tutti i provvedimenti sanzionatori edilizi, è un atto dovuto: l'ordinanza va emanata senza indugio e, in quanto tale, non deve essere preceduta dalla comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi di una misura sanzionatoria per l'accertamento dell'inosservanza di disposizioni urbanistiche, secondo un procedimento di natura vincolata tipizzato dal legislatore e rigidamente disciplinato, che si ricollega ad un preciso presupposto di fatto, cioè l'abuso, di cui peraltro l'interessato non può non essere a conoscenza, rientrando direttamente nella sua sfera di controllo.
Il ricorso è infondato.
Per costante giurisprudenza l'ordine di demolizione conseguente all'accertamento della natura abusiva delle opere realizzate, come tutti i provvedimenti sanzionatori edilizi, è un atto dovuto: l'ordinanza va emanata senza indugio e, in quanto tale, non deve essere preceduta dalla comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi di una misura sanzionatoria per l'accertamento dell'inosservanza di disposizioni urbanistiche, secondo un procedimento di natura vincolata tipizzato dal legislatore e rigidamente disciplinato, che si ricollega ad un preciso presupposto di fatto, cioè l'abuso, di cui peraltro l'interessato non può non essere a conoscenza, rientrando direttamente nella sua sfera di controllo (cfr. da ultimo Cons. Stato III, 14/05/2015 n. 2411) (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 14.08.2015 n. 10831  - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAQualsiasi intervento edilizio implicante un incremento di superficie o un mutamento di sagoma o di destinazione d'uso devono essere, in ogni caso, preceduti dall'acquisizione del relativo titolo edilizio, ravvisabile nel cosiddetto permesso di costruire.
Difatti, gli interventi edilizi che alterano, anche sotto il profilo della distribuzione, l'originaria consistenza fisica di un immobile e comportano l'inserimento di nuovi impianti e la modifica e ridistribuzione dei volumi, non si configurano né come manutenzione straordinaria, né come restauro o risanamento conservativo, ma rientrano nell'ambito della ristrutturazione edilizia; il rinnovo degli elementi costituitivi dell'edificio ed una alterazione dell'originaria fisionomia e consistenza fisica dell'immobile sono infatti da considerarsi incompatibili con i concetti di manutenzione straordinaria e di risanamento conservativo, che presuppongono la realizzazione di opere che lascino inalterata la struttura dell'edificio e la distribuzione interna della sua superficie.
Nel caso di specie, l’intervento realizzato non si risolve nella mera distribuzione diversa degli ambienti interni, ma ha implicato modifiche della sagoma e del prospetto dell’edificio attraverso aperture e modifiche delle finestre preesistenti; cosicché l’intervento edilizio, considerato nella sua inevitabile complessità, non poteva ritenersi assentibile mediante d.i.a. ed il ricorrente avrebbe dovuto munirsi di permesso di costruire.
Legittimamente dunque l’amministrazione comunale ha adottato la sanzione prevista dall’art. 33 e non quella di cui all’art. 37 del d.p.r. 380/2001.

Il ricorso è infondato.
Inoltre va ricordato il costante insegnamento giurisprudenziale del giudice amministrativo, secondo cui qualsiasi intervento edilizio implicante un incremento di superficie o un mutamento di sagoma o di destinazione d'uso devono essere, in ogni caso, preceduti dall'acquisizione del relativo titolo edilizio, ravvisabile nel cosiddetto permesso di costruire. Difatti, gli interventi edilizi che alterano, anche sotto il profilo della distribuzione, l'originaria consistenza fisica di un immobile e comportano l'inserimento di nuovi impianti e la modifica e ridistribuzione dei volumi, non si configurano né come manutenzione straordinaria, né come restauro o risanamento conservativo, ma rientrano nell'ambito della ristrutturazione edilizia; il rinnovo degli elementi costituitivi dell'edificio ed una alterazione dell'originaria fisionomia e consistenza fisica dell'immobile sono infatti da considerarsi incompatibili con i concetti di manutenzione straordinaria e di risanamento conservativo, che presuppongono la realizzazione di opere che lascino inalterata la struttura dell'edificio e la distribuzione interna della sua superficie (ex multis, C. Stato Sez. V, 17.07.2014, n. 3796).
Nel caso di specie, l’intervento realizzato non si risolve nella mera distribuzione diversa degli ambienti interni, ma ha implicato modifiche della sagoma e del prospetto dell’edificio attraverso aperture e modifiche delle finestre preesistenti; cosicché l’intervento edilizio, considerato nella sua inevitabile complessità, non poteva ritenersi assentibile mediante d.i.a. ed il ricorrente avrebbe dovuto munirsi di permesso di costruire.
Legittimamente dunque l’amministrazione comunale ha adottato la sanzione prevista dall’art. 33 e non quella di cui all’art. 37 del d.p.r. 380/2001 (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 14.08.2015 n. 10831  - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIGli effetti giuridici, sostanziali e processuali, della domanda devoluta al giudice privo di giurisdizione si conservano nel giudizio proseguito davanti al giudice munito di giurisdizione, in forza degli art. 24, 111 e 113 cost., quando la domanda, proposta tempestivamente innanzi al giudice privo di competenza giurisdizionale, sia tempestivamente riassunta innanzi al giudice fornito di giurisdizione; ed invero, siccome chiarito anche dal giudice delle leggi, la funzione di rendere praticabile la "translatio iudicii" con la conservazione degli effetti della domanda proposta al giudice risultato privo di giurisdizione, non può ritenersi affidata ad un ricorso proponibile in ogni tempo e, quindi, anche anni dopo il manifestarsi del conflitto.
Di conseguenza il termine perentorio per la riassunzione, per le fattispecie antecedenti alla disciplina legislativa sulla "translatio iudicii" di cui all'art. 59, l. 18.06.2009 n. 69, deve individuarsi, facendo applicazione, in via analogica dell'art. 50 c.p.c. che, nella versione "ratione temporis" vigente, prevedeva un termine di sei mesi dalla comunicazione dell'ordinanza che dichiara l'incompetenza del giudice adito.

Con ricorso notificato in data 10.03.2009 i ricorrenti impugnano il provvedimento indicato in epigrafe con il quale è stata determinata in Euro 516,00 la sanzione amministrativa dovuta per l’istallazione di due condizionatori senza aver presentato la prescritta D.I.A.
L’impugnazione, già proposta davanti al Tribunale civile di Civitavecchia, è stata traslata davanti a questo Giudice a seguito della dichiarazione di difetto di giurisdizione in capo al giudice ordinario secondo la sentenza n. 168/2009 del Tribunale di Civitavecchia.
Con il ricorso si assume in primo luogo l’estraneità della società ricorrente e di A.M. rispetto al fatto contestato, che non sarebbe loro imputabile essendo l’installazione dei condizionatori riferibile ad epoca precedente l’acquisizione, da parte dei predetti, della disponibilità dell’immobile.
Si deduce poi difetto di motivazione, difetto dei presupposti, illogicità, sviamento, violazione della legge 689/1981, considerato il tempo trascorso dalla realizzazione dell’abuso, asseritamente in data precedente all’anno 1993, quindi addirittura in epoca precedente all’entrata in vigore del dpr 380/2001, dell’art. 22 TUE e della legge 662/1996.
Inoltre, secondo i ricorrenti, sarebbe maturata la prescrizione della sanzione ex art. 28 delle legge 689/1981.
Si è costituito in giudizio il Comune di Civitavecchia per resistere al gravame.
Alla pubblica udienza del giorno 21.05.2015 la causa è stata trattenuta dal Collegio per la decisione nel merito.
Preliminarmente il Tribunale osserva che gli effetti giuridici, sostanziali e processuali, della domanda devoluta al giudice privo di giurisdizione si conservano nel giudizio proseguito davanti al giudice munito di giurisdizione, in forza degli art. 24, 111 e 113 cost., quando la domanda, proposta tempestivamente innanzi al giudice privo di competenza giurisdizionale, sia tempestivamente riassunta innanzi al giudice fornito di giurisdizione; ed invero, siccome chiarito anche dal giudice delle leggi, la funzione di rendere praticabile la "translatio iudicii" con la conservazione degli effetti della domanda proposta al giudice risultato privo di giurisdizione, non può ritenersi affidata ad un ricorso proponibile in ogni tempo e, quindi, anche anni dopo il manifestarsi del conflitto; di conseguenza il termine perentorio per la riassunzione, per le fattispecie antecedenti alla disciplina legislativa sulla "translatio iudicii" di cui all'art. 59, l. 18.06.2009 n. 69, deve individuarsi, facendo applicazione, in via analogica dell'art. 50 c.p.c. che, nella versione "ratione temporis" vigente, prevedeva un termine di sei mesi dalla comunicazione dell'ordinanza che dichiara l'incompetenza del giudice adito.
Nel caso di specie il difetto di giurisdizione è stato dichiarato dal Tribunale di Civitavecchia con sentenza in data 05.02.2009, mentre il ricorso impugnatorio davanti a questo Giudice è stato notificato in data 10.03.2009, cosicché può essere ritenuto tempestivo rispetto al termine sopra menzionato (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 14.08.2015 n. 10826 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAE' indifferente ai fini della legittimità della misura sanzionatoria adottata l'individuazione dell'effettivo responsabile dell'abuso, perché le sanzioni pecuniarie di cui all'art. 10 della legge n. 47/1985 e norme successive, per il loro carattere ripristinatorio (e non punitivo), hanno natura reale e ben possono essere comminate nei confronti di coloro che, a vario titolo, hanno la disponibilità dell’immobile, ovvero a carico del proprietario, a prescindere da ogni verifica sull’imputabilità del fatto, già in ragione della omessa adozione di iniziative volte al ripristino della legalità violata.
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L'ordinamento non assoggetta ad un regime di prescrizione l'esercizio dei poteri di controllo e di sanzione da parte delle amministrazioni competenti in materia urbanistico-edilizia e paesistica: di modo che l'accertamento dell'illecito amministrativo urbanistico-edilizio e paesaggistico, nonché applicazione delle relative sanzioni, possono intervenire anche dopo il decorso di un rilevante lasso temporale dalla consumazione dell'abuso, al quale deve riconoscersi natura permanente, con la conseguenza che esso cessa soltanto dopo la materiale esecuzione della sanzione.

Con ricorso notificato in data 10.03.2009 i ricorrenti impugnano il provvedimento indicato in epigrafe con il quale è stata determinata in Euro 516,00 la sanzione amministrativa dovuta per l’istallazione di due condizionatori senza aver presentato la prescritta D.I.A.
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Nel merito il ricorso è infondato.
In primo luogo il Collegio osserva che è indifferente ai fini della legittimità della misura sanzionatoria adottata l'individuazione dell'effettivo responsabile dell'abuso, perché le sanzioni pecuniarie di cui all'art. 10 della legge n. 47/1985 e norme successive, per il loro carattere ripristinatorio (e non punitivo), hanno natura reale e ben possono essere comminate nei confronti di coloro che, a vario titolo, hanno la disponibilità dell’immobile, ovvero a carico del proprietario, a prescindere da ogni verifica sull’imputabilità del fatto, già in ragione della omessa adozione di iniziative volte al ripristino della legalità violata.
Va poi ricordato che l'ordinamento non assoggetta ad un regime di prescrizione l'esercizio dei poteri di controllo e di sanzione da parte delle amministrazioni competenti in materia urbanistico-edilizia e paesistica: di modo che l'accertamento dell'illecito amministrativo urbanistico-edilizio e paesaggistico, nonché applicazione delle relative sanzioni, possono intervenire anche dopo il decorso di un rilevante lasso temporale dalla consumazione dell'abuso, al quale deve riconoscersi natura permanente, con la conseguenza che esso cessa soltanto dopo la materiale esecuzione della sanzione (cfr. di recente Consiglio di Stato , sez. V, 08/04/2014 n. 1650) (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 14.08.2015 n. 10826 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Climatizzatori esterni con obbligo di «Scia». Edilizia. Il Tar Lazio conferma la sanzione comunale.
Con la stagione estiva spuntano condizionatori e problemi di compatibilità edilizia e ambientale.
Se ne è occupato il TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, con la sentenza 14.08.2015 n. 10826 relativa ad una galleria d’arte che aveva installato due apparecchiature esterne, subendo una sanzione dal Comune di Civitavecchia. La sanzione, di 516 euro, è stata confermata dal Tar con affermazioni utili anche al sopravvenire del decreto Sblocca Italia (Dl 133/2014).
I climatizzatori (Consiglio di Stato, 4744/2008), costituiscono impianti tecnologici e pertanto, se collocati all’esterno dei fabbricati, rientrano tra gli interventi edilizi soggetti a segnalazione certificata di inizio di attività (Scia: articoli 3, comma 1, lett. b, e 22 del Dpr 380/2001). Recenti agevolazioni, escludendo anche la Scia, si applicano nel caso di “edilizia libera”, e cioè per le pompe di calore aria-aria di potenza termica utile nominale inferiore a 12 kW (articolo 6, comma 1, lett. a del Dpr 380 citato, modificato dal Dl 133/2014).
Con o senza Scia, occorre tuttavia sempre (articolo 6, comma 1, del Dpr 380/2001) la conformità alle prescrizioni degli strumenti urbanistici e dei regolamenti edilizi, oltre che il rispetto delle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività costruttiva. Via libera ai condizionatori, quindi, ma con rispetto delle norme antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie, sull’efficienza energetica, nonché delle disposizioni contenute nel codice dei beni culturali e del paesaggio (Dlgs 42/2004).
Ne consegue che un intervento eseguito in zona con vincolo paesaggistico (o nei centri storici), esige comunque il nulla osta dell’autorità preposta alla tutela del vincolo, per fortuna ottenibile in sanatoria (articolo 167, comma 4, del Dlgs 42/2004).
Affrontando il problema dei condizionatori, la Cassazione penale (952/2015) ha infatti sottolineato che l’installazione di tali impianti da parte di un esercizio commerciale (sala giochi) in un’area sottoposta a vincolo paesaggistico genera responsabilità penale per violazione del Dlgs 42/2004 (per alterazione estetica) e del TU edilizia (articolo 44) qualora si violi un regolamento locale.
E non è tutto, perché vi sono anche i problemi relativi al rumore, che espone ad un diverso regime di sanzioni a seconda che (Cassazione penale 7912/2015) il condizionatore d’aria sia utile all’esercizio di un mestiere rumoroso o sia indipendente da tale specifica attività: nel primo caso vi sarà una sanzione amministrativa, nel secondo una sanzione penale se si eccede la normale tollerabilità e si disturbano quiete e riposo
(articolo Il Sole 24 Ore del 20.08.2015).

EDILIZIA PRIVATANon vi è dubbio che l’installazione di condizionatori, che incida sul prospetto dell’immobile, costituisca attività edilizia soggetta a d.i.a. (ora s.c.i.a.) dovendo risultare conforme alle prescrizioni degli strumenti urbanistici e dei regolamenti edilizi.
Legittimamente dunque l’amministrazione ha proceduto ad irrogare la sanzione ex art. 37 del dpr 380/2001 (e di cui alla corrispondente fattispecie della legge 47/1985) in relazione ad attività edilizia eseguita in assenza di alcun titolo abilitativo benché soggetta al regime della d.i.a..

Con ricorso notificato in data 10.03.2009 i ricorrenti impugnano il provvedimento indicato in epigrafe con il quale è stata determinata in Euro 516,00 la sanzione amministrativa dovuta per l’istallazione di due condizionatori senza aver presentato la prescritta D.I.A.
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Nel merito il ricorso è infondato.
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Del resto, l’asserita risalenza delle opere contestate all’anno 1993 costituisce affermazione di parte ricorrente non assistita da alcun principio di prova, a fronte delle risultanze del verbale redatto dalla Polizia Municipale in atti; mentre non vi è dubbio che l’installazione di condizionatori, che incida sul prospetto dell’immobile, costituisca attività edilizia soggetta a d.i.a. (ora s.c.i.a.) dovendo risultare conforme alle prescrizioni degli strumenti urbanistici e dei regolamenti edilizi.
Legittimamente dunque l’amministrazione ha proceduto ad irrogare la sanzione ex art. 37 del dpr 380/2001 (e di cui alla corrispondente fattispecie della legge 47/1985) in relazione ad attività edilizia eseguita in assenza di alcun titolo abilitativo benché soggetta al regime della d.i.a..
Il provvedimento impugnato appare quindi correttamente ed adeguatamente motivato, anche in considerazione della natura vincolata degli atti repressivi degli abusi edilizi (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 14.08.2015 n. 10826 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sull'attuale proprietario incolpevole del realizzato abuso edilizio compiuto 20 anni prima e sull'ingenerato affidamento rispetto al tempo trascorso..
Risulta fondato il motivo di ricorso con cui si lamenta il difetto di motivazione in relazione all’affidamento ingenerato rispetto al tempo trascorso dalla data di realizzazione delle opere abusive contestate, ancor più in considerazione del fatto che la società odierna appellante è certamente estranea alla realizzazione delle opere abusive, avendo acquistato in buona fede in epoca successiva l’area interessata dall’abuso.
In ordine alla necessità che in alcune situazioni eccezionali, l’Amministrazione abbia l’obbligo di motivare l’ordine di riduzione in pristino di opere abusivamente realizzate, per dare conto dell’affidamento ingeneratosi in capo al proprietario di buona fede in conseguenza del decorso del tempo, devono richiamarsi i principi recentemente affermati dalla Quarta Sezione di questo Consiglio di Stato.
Di regola, come è noto, la abusività dell’opera, in sé e per sé legittima il successivo, conseguente provvedimento di rimozione dell’abuso. Esso è, di regola, atto dovuto e prescinde dall’attuale possesso del bene e dalla coincidenza del proprietario con il realizzatore dell’abuso medesimo.
La abusività dell’opera è una connotazione di natura reale: “segue” l’immobile anche nei successivi trasferimenti del medesimo.
Diversamente opinando, sarebbe sufficiente l’alienazione dell’immobile abusivo, successivamente alla perpetrazione dell’abuso, per eludere le esigenze di tutela dell’ordinato sviluppo urbanistico, del “governo del territorio” e dell’ambiente che sono sottese all’ordine di rimozione.
Si rammenta in proposito il costante e condivisibile orientamento di questo Consiglio di Stato, dal quale non si ravvisa in via generale motivo per discostarsi, secondo il quale le sanzioni in materia edilizia sono legittimamente adottate nei confronti dei proprietari attuali degli immobili, a prescindere dalla modalità con cui l’abuso è stato consumato.
In casi-limite, però, può pervenirsi a considerazioni parzialmente difformi; ciò può avvenire in casi in cui sia pacifico: che l’acquirente ed attuale proprietario del manufatto, destinatario del provvedimento di rimozione non è responsabile dell’abuso; che l’alienazione non sia avvenuta al solo fine di eludere il successivo esercizio dei poteri repressivi; che tra la realizzazione dell’abuso, il successivo acquisto, e più ancora, l’esercizio da parte dell’autorità dei poteri repressivi sia intercorso un lasso temporale ampio.
In simile evenienza, nel palese stato di buona fede del privato, l’amministrazione deve motivare in ordine alla sussistenza di sì rilevanti esigenze pubblicistiche, tali da far ritenere recessivo lo stato di buona fede dell’attuale proprietario dell’abuso.

9. L’appello merita accoglimento.
10. Come già rilevato in sede cautelare, risulta fondato il motivo di ricorso con cui si lamenta il difetto di motivazione in relazione all’affidamento ingenerato rispetto al tempo trascorso dalla data di realizzazione delle opere abusive contestate, ancor più in considerazione del fatto che la società odierna appellante è certamente estranea alla realizzazione delle opere abusive, avendo acquistato in buona fede in epoca successiva l’area interessata dall’abuso.
11. In ordine alla necessità che in alcune situazioni eccezionali, l’Amministrazione abbia l’obbligo di motivare l’ordine di riduzione in pristino di opere abusivamente realizzate, per dare conto dell’affidamento ingeneratosi in capo al proprietario di buona fede in conseguenza del decorso del tempo, devono richiamarsi i principi recentemente affermati dalla Quarta Sezione di questo Consiglio di Stato (cfr., in particolare, Cons. Stato, sez. IV, 04.03.2014, n. 1016 e la giurisprudenza ivi richiamata).
12. Di regola, come è noto, la abusività dell’opera, in sé e per sé legittima il successivo, conseguente provvedimento di rimozione dell’abuso. Esso è, di regola, atto dovuto e prescinde dall’attuale possesso del bene e dalla coincidenza del proprietario con il realizzatore dell’abuso medesimo.
La abusività dell’opera è una connotazione di natura reale: “segue” l’immobile anche nei successivi trasferimenti del medesimo.
Diversamente opinando, sarebbe sufficiente l’alienazione dell’immobile abusivo, successivamente alla perpetrazione dell’abuso, per eludere le esigenze di tutela dell’ordinato sviluppo urbanistico, del “governo del territorio” e dell’ambiente che sono sottese all’ordine di rimozione.
Si rammenta in proposito il costante e condivisibile orientamento di questo Consiglio di Stato, dal quale non si ravvisa in via generale motivo per discostarsi, secondo il quale le sanzioni in materia edilizia sono legittimamente adottate nei confronti dei proprietari attuali degli immobili, a prescindere dalla modalità con cui l’abuso è stato consumato.
13. In casi-limite, però, può pervenirsi a considerazioni parzialmente difformi; ciò può avvenire in casi in cui sia pacifico: che l’acquirente ed attuale proprietario del manufatto, destinatario del provvedimento di rimozione non è responsabile dell’abuso; che l’alienazione non sia avvenuta al solo fine di eludere il successivo esercizio dei poteri repressivi; che tra la realizzazione dell’abuso, il successivo acquisto, e più ancora, l’esercizio da parte dell’autorità dei poteri repressivi sia intercorso un lasso temporale ampio.
In simile evenienza, nel palese stato di buona fede del privato, l’amministrazione deve motivare in ordine alla sussistenza di sì rilevanti esigenze pubblicistiche, tali da far ritenere recessivo lo stato di buona fede dell’attuale proprietario dell’abuso.
14. Tale situazione certamente ricorre nel caso di specie.
Possono, infatti, ritenersi documentate o, comunque, incontestate le seguenti circostanze:
- le coperture dei campi da tennis in esame sono state realizzate tra la fine del 1983 e il 1989;
- l’odierna appellante è proprietaria dell’area, destinataria del provvedimento di rimozione, non è responsabile dell’abuso, in quanto le opere contestate sono stare realizzate dal primo affittuario del Circolo Tennis Aeroporto;
- tra la realizzazione dell’abuso e l’esercizio da parte dell’autorità dei potere repressivi è intercorso un arco temporale di oltre vent’anni;
- l’odierna appellate versa rispetto alla realizzazione delle opere abusive in uno stato di buona fede.
Sussiste, quindi, il vizio di eccesso di potere per difetto di motivazione.
14. L’appello proposto dalla Società A.T. s.p.a. deve, in conclusione, essere accolto. Per l’effetto, in riforma della sentenza appellata, deve accogliersi il ricorso di primo grado, nei sensi specificati in motivazione (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 14.08.2015 n. 3933 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATADeve escludersi la possibilità che l’opera abusivamente realizzata possa essere sanata sulla base del solo riscontro della conformità agli strumenti urbanistici vigenti.
Ed invero, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza, al quale la Sezione pienamente aderisce, “è legittimo il doveroso diniego della concessione in sanatoria di opere eseguite senza titolo abilitante, qualora le stesse non risultino conformi tanto alla normativa urbanistica vigente al momento della loro realizzazione quanto a quella vigente al momento della domanda di sanatoria.
Infatti, solo il legislatore statale (con preclusione non solo per il potere giurisdizionale, ma anche per il legislatore regionale: Corte Cost., 29.05.2013, n. 101) può prevedere i casi in cui può essere rilasciato un titolo edilizio in sanatoria (avente anche una rilevanza estintiva del reato già commesso) e risulta del tutto ragionevole il divieto legale di rilasciare una concessione (o il permesso) in sanatoria, anche quando dopo la commissione dell’abuso vi sia una modifica favorevole dello strumento urbanistico”.
Secondo quanto rilevato dalla giurisprudenza, la ragionevolezza di tale divieto discende dall’esigenza, presa in considerazione dalla legge, di evitare che il potere di pianificazione possa essere strumentalizzato al fine di rendere lecito ex post (e non punibile) ciò che risulta illecito (e punibile) e, inoltre, di dissuadere dall’intenzione di commettere abusi, poiché chi costruisce sine titulo è consapevole di essere tenuto alla demolizione, anche in presenza di una sopraggiunta modificazione favorevole dello strumento urbanistico.
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Secondo quanto chiarito dalla giurisprudenza, anche della Sezione, con orientamento che il Collegio ritiene di dover fare proprio e ribadire, laddove un’istanza di sanatoria preveda la realizzazione di ulteriori interventi per rendere l’opera conforme alle norme vigenti, è palese l’insussistenza del requisito della conformità al momento della richiesta di rilascio del titolo in sanatoria.
Un provvedimento di sanatoria che prevedesse l’esecuzione di tali ulteriori lavori sarebbe quindi illegittimo, poiché l’articolo 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 non consente spazi interpretativi, nel senso che la concessione in sanatoria è ammessa soltanto entro i limiti delineati dal legislatore, senza alcuna possibilità di estensione discrezionale da parte della p.a..

11.1 Ora, a fronte di tali dati, non possono trovare accoglimento le censure formulate dalla parte, e con le quali essa invoca la possibilità di ottenere l’assenso al progetto, in quanto sostanzialmente “nuovo” e comportante solo una “sanatoria parziale”, che sarebbe giustificata dall’asserita conformità delle opere allo strumento urbanistico vigente.
Deve anzitutto rilevarsi che correttamente l’Amministrazione ha richiamato, nel provvedimento impugnato, il contenzioso che ha interessato l’immobile oggetto dell’intervento, ritenendo inammissibile l’istanza di Com. Univ., in quanto avente in parte ad oggetto le stesse opere già realizzate. La circostanza che tali opere siano già esistenti e abbiano carattere abusivo non può, infatti, essere ulteriormente messa in discussione.
11.2 Ciò posto, il provvedimento è pure correttamente motivato nella parte in cui esclude la possibilità di ottenere la parziale sanatoria del manufatto, attraverso la presentazione di un nuovo progetto, che però tende a conservare alcune delle opere abusivamente realizzate, in assenza del requisito della c.d. “doppia conformità”, prescritto dall’articolo 36 del d.P.R. n. 380 del 2001.
Contrariamente a quanto affermato dai ricorrenti, deve infatti escludersi la possibilità che l’opera abusivamente realizzata possa essere sanata sulla base del solo riscontro della conformità agli strumenti urbanistici vigenti.
E invero, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza, al quale la Sezione pienamente aderisce, “è legittimo il doveroso diniego della concessione in sanatoria di opere eseguite senza titolo abilitante, qualora le stesse non risultino conformi tanto alla normativa urbanistica vigente al momento della loro realizzazione quanto a quella vigente al momento della domanda di sanatoria (Cons. St., Sez. V, 17.03.2014, n. 1324; Sez. V, 11.06.2013, n. 3235; Sez. V, 17.09.2012, n. 4914; Sez. V, 25.02.2009, n. 1126; Sez. IV, 26.04.2006, n. 2306). Infatti, solo il legislatore statale (con preclusione non solo per il potere giurisdizionale, ma anche per il legislatore regionale: Corte Cost., 29.05.2013, n. 101) può prevedere i casi in cui può essere rilasciato un titolo edilizio in sanatoria (avente anche una rilevanza estintiva del reato già commesso) e risulta del tutto ragionevole il divieto legale di rilasciare una concessione (o il permesso) in sanatoria, anche quando dopo la commissione dell’abuso vi sia una modifica favorevole dello strumento urbanistico” (così Cons. Stato, Sez. V, 27.05.2014, n. 2755).
Secondo quanto rilevato dalla giurisprudenza, la ragionevolezza di tale divieto discende dall’esigenza, presa in considerazione dalla legge, di evitare che il potere di pianificazione possa essere strumentalizzato al fine di rendere lecito ex post (e non punibile) ciò che risulta illecito (e punibile) e, inoltre, di dissuadere dall’intenzione di commettere abusi, poiché chi costruisce sine titulo è consapevole di essere tenuto alla demolizione, anche in presenza di una sopraggiunta modificazione favorevole dello strumento urbanistico (Cons. Stato, Sez. V, 17.03.2014, n. 1324, e Id., n. 2755 del 2014, cit.).
11.3 Parimenti corretta è da ritenere l’affermazione, contenuta nel provvedimento impugnato, secondo la quale “la sanatoria di quanto realizzato è fattibile mediante una previsione di opere da eseguirsi e pertanto non sussiste il requisito della doppia conformità”. I ricorrenti osservano, al riguardo, che “Il Comune sembra (...) ritenere che la doppia conformità in effetti esista, sia pure con la realizzazione delle opere previste in progetto” (v. p. 17 del ricorso), e traggono da ciò argomento per affermare la contraddittorietà del giudizio di inammissibilità del progetto.
Al riguardo, occorre ricordare che, secondo quanto chiarito dalla giurisprudenza, anche della Sezione, con orientamento che il Collegio ritiene di dover fare proprio e ribadire, laddove un’istanza di sanatoria preveda la realizzazione di ulteriori interventi per rendere l’opera conforme alle norme vigenti, è palese l’insussistenza del requisito della conformità al momento della richiesta di rilascio del titolo in sanatoria. Un provvedimento di sanatoria che prevedesse l’esecuzione di tali ulteriori lavori sarebbe quindi illegittimo, poiché l’articolo 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 non consente spazi interpretativi, nel senso che la concessione in sanatoria è ammessa soltanto entro i limiti delineati dal legislatore, senza alcuna possibilità di estensione discrezionale da parte della p.a. (Cons. Giust. Amm. Regione Siciliana, 15.10.2009, n. 941; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 22.11.2010, n. 7311).
Queste considerazioni sono integralmente applicabili nel caso di specie, non potendovi ostare la circostanza che l’istanza della Società ricorrente sia stata formalmente presentata come avente ad oggetto un nuovo intervento, invece che come domanda di accertamento di conformità. Rileva, infatti, il dato sostanziale, correttamente evidenziato nel provvedimento impugnato, che il progetto presentato miri a conservare una parte delle opere già abusivamente realizzate.
11.4 In conclusione, deve quindi ribadirsi l’infondatezza del secondo motivo di ricorso
(TAR Lombardia-MIlano, Sez. II, sentenza 13.08.2015 n. 1900 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza, le garanzie partecipative hanno valore necessariamente sostanziale, per cui la relativa omissione rileva solo quando si verifica l’effettiva frustrazione della possibilità per l’interessato di sottoporre all’amministrazione dati di fatto o di diritto idonei ad incidere sulla determinazione finale.
In tale prospettiva, si è condivisibilmente ritenuto che la violazione dell'articolo 10-bis della legge n. 241 del 1990 non produca ex se l'illegittimità del provvedimento finale, dovendo la disposizione sul preavviso di rigetto essere interpretata comunque alla luce del successivo art. 21-octies, comma 2, il quale impone al giudice di valutare il contenuto sostanziale del provvedimento e di non annullare l'atto nel caso in cui le violazioni formali non abbiano inciso sulla legittimità sostanziale del medesimo.

13. Venendo, quindi, al primo motivo di ricorso deve parimenti rilevarsene l’infondatezza.
E invero, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza, le garanzie partecipative hanno valore necessariamente sostanziale, per cui la relativa omissione rileva solo quando si verifica l’effettiva frustrazione della possibilità per l’interessato di sottoporre all’amministrazione dati di fatto o di diritto idonei ad incidere sulla determinazione finale (cfr., tra le ultime, TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, 21.04.2015, n. 995).
In tale prospettiva, si è condivisibilmente ritenuto che la violazione dell'articolo 10-bis della legge n. 241 del 1990 non produca ex se l'illegittimità del provvedimento finale, dovendo la disposizione sul preavviso di rigetto essere interpretata comunque alla luce del successivo art. 21-octies, comma 2, il quale impone al giudice di valutare il contenuto sostanziale del provvedimento e di non annullare l'atto nel caso in cui le violazioni formali non abbiano inciso sulla legittimità sostanziale del medesimo (C.G.A. Regione Siciliana 16.04.2013, n. 409; Cons. Stato, Sez. VI, 07.05.2015, n. 2298).
Nel caso di specie, l’esito del procedimento era vincolato, poiché –alla luce di quanto sopra esposto– l’Amministrazione non avrebbe potuto assumere alcuna altra determinazione, una volta appurato che il progetto presentato da Com. Univ. consisteva in una parziale sanatoria di opere già realizzate, in assenza del requisito della “doppia conformità”.
Nessun utile contributo avrebbe, quindi, potuto apportare la Società al fine di orientare diversamente l’esito dell’iter avviato a seguito della sua istanza
(TAR Lombardia-MIlano, Sez. II, sentenza 13.08.2015 n. 1900 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTISi può dare per acquisito in giurisprudenza che le irregolarità, l’insufficienza e la stessa inesistenza della cauzione provvisoria non possono dar luogo ad esclusione dalla gara, ma solo ad un “soccorso istruttorio”.
11.3. Considerazioni analoghe possono essere fatte anche per il rinnovo tardivo della cauzione provvisoria.
Si può dare per acquisito in giurisprudenza che le irregolarità, l’insufficienza e la stessa inesistenza della cauzione provvisoria non possono dar luogo ad esclusione dalla gara, ma solo ad un “soccorso istruttorio”.
Peraltro, quando è stata pronunciata l’aggiudicazione definitiva, il rinnovo della cauzione era stato già effettuato – mentre quando è stata pronunciata l’aggiudicazione provvisoria la cauzione originaria non era ancora scaduta benché il r.u.p. ne avesse già sollecitato il rinnovo.
Pertanto l’Azienda committente non ha avuto bisogno di ricorrere al “soccorso istruttorio” in quanto la cauzione era stata già regolarizzata
(Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 11.08.2015 n. 3918 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' legittima l'ordinanza comunale di demolizione di un fabbricato in legno autorizzato a titolo precario nell'anno 1979/1980 per esigenze temporanee funzionali all’attività elicica (di allevamento delle lumache).
Invero, il mantenimento di tali opere oltre il termine assentito, peraltro destinandole ad attività estranee a quelle dell’allevamento delle lumache espressamente menzionate nel titolo edilizio, le ha private di un valido titolo abilitativo, con la conseguenza che ciò che è sanzionato con il provvedimento impugnato non è la mancanza originaria di un titolo edilizio, ma l’assenza della sua validità che deriva dalla mancata rimozione delle opere divenute ormai abusive alla scadenza del termine indicato.
Inoltre, l'ordinanza de qua menziona espressamente oltre all’assenza di un valido titolo edilizio, anche la mancanza dell’autorizzazione paesaggistica quale motivo che giustifica la demolizione del manufatto abusivamente mantenuto oltre al termine indicato nel titolo, dato che era la precarietà finalizzata all’attività colturale limitata nel tempo ad aver a suo tempo giustificato la non necessità dell’autorizzazione paesaggistica.

La Società ricorrente espone di svolgere attività agricola e di aver acquistato nel 2007 alcuni terreni nel Comune di Cortina d’Ampezzo, in località Brite de Val, e che su uno di questi vi è un fabbricato in legno la cui realizzazione è stata autorizzata con provvedimenti prot. n. 15049 del 18.12.1979, e n. 91 del 15.05.1980, senza il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, nonostante sulla zona sussista un vincolo paesaggistico, perché il Sindaco di allora, stante il carattere precario dell’opera, non l’ha ritenuta necessaria.
Il manufatto infatti, come risulta dal titolo edilizio rilasciato nel 1979 (cfr. doc. 2 allegato al ricorso), era stato realizzato per esigenze temporanee funzionali all’attività elicica (di allevamento delle lumache).
A seguito di un sopralluogo, rilevata la presenza di un edificio in legno, privo di un valido titolo edilizio e di autorizzazione paesaggistica, in area classificata di pericolosità idrogeologica “P4 - molto elevata”, il Comune con ordinanza n. 184 prot. 8854 dell’11.05.2015, ha ordinato la demolizione della costruzione ed il ripristino dello stato dei luoghi.
...
Il ricorso è infondato e deve essere respinto.
La censura di cui al primo motivo, con la quale il ricorrente lamenta che l’Amministrazione non avrebbe potuto disporre la demolizione delle opere senza prima rimuovere gli effetti dell’originario titolo edilizio è priva di fondamento.
Infatti l’originario titolo edilizio era stata rilasciato “in precario” e in quanto funzionale all’attività elicica, e consentiva pertanto solo la realizzazione delle opere per un periodo di tempo limitato.
Il mantenimento di tali opere oltre il termine assentito, peraltro destinandole ad attività estranee a quelle dell’allevamento delle lumache espressamente menzionate nel titolo edilizio, le ha private di un valido titolo abilitativo, con la conseguenza che ciò che è sanzionato con il provvedimento impugnato non è la mancanza originaria di un titolo edilizio, ma l’assenza della sua validità che deriva dalla mancata rimozione delle opere divenute ormai abusive alla scadenza del termine indicato (cfr. Tar Piemonte, Sez. I, 05.12.2012, n. 1289; Tar Piemonte, Sez. II, 15.04.2010 n. 1892; Consiglio di Stato, Sez. V, 03.10.1995, n. 1372).
Pertanto il Comune ha correttamente disposto la demolizione del manufatto.
Quanto esposto comporta la reiezione anche del secondo motivo, perché il provvedimento, contrariamente a quanto dedotto, non è privo di motivazione.
Infatti menziona espressamente oltre all’assenza di un valido titolo edilizio, anche la mancanza dell’autorizzazione paesaggistica quale motivo che giustifica la demolizione del manufatto abusivamente mantenuto oltre al termine indicato nel titolo, dato che era la precarietà finalizzata all’attività colturale limitata nel tempo ad aver a suo tempo giustificato la non necessità dell’autorizzazione paesaggistica.
In definitiva il ricorso e la domanda di risarcimento, per la quale difetta in primo luogo il requisito dell’ingiustizia del danno, devono essere respinti (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 10.08.2015 n. 917 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: In base a un consolidato orientamento, è ravvisabile l'ipotesi di lottizzazione abusiva soltanto quando sussistono elementi precisi ed univoci da cui possa ricavarsi oggettivamente l'intento di asservire all'edificazione un'area non urbanizzata; pertanto, ai fini dell'accertamento della sussistenza del presupposto di cui all’articolo 18 della l. 28.02.1985, n. 47 (in seguito: articolo 30 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380).
Pertanto, al fine di poter affermare l’esistenza di un’ipotesi di lottizzazione abusiva (nel caso in esame, di tipo c.d. ‘materiale’) è necessario acquisire un sufficiente quadro indiziario dal quale sia possibile desumere in maniera non equivoca la destinazione a scopo edificatorio degli atti posti in essere, con conseguente giustificazione del provvedimento repressivo a fronte della dimostrazione della sussistenza di elementi precisi e univoci.

1. Giunge alla decisione del Collegio l’appello proposto da una società attiva nel settore della riqualificazione ambientale avverso la sentenza del TAR della Lombardia con cui è stato respinto il ricorso avverso il provvedimento con cui il Comune di Luisago (CO):
- aveva contestato una lottizzazione abusiva (asseritamente consistita nella trasformazione di una discarica dismessa in campo da golf);
- aveva ingiunto la rimozione di alcuni manufatti realizzati sine titulo sull’area;
- aveva preavvisato l’appellante che, in caso di mancata rimozione, avrebbe proceduto ad acquisire i manufatti e l’area di sedime al patrimonio comunale.
...
3. Nel merito, l’appello in epigrafe è fondato.
3.1. In particolare il Collegio ritiene meritevoli di accoglimento il terzo e il quarto motivo di appello con cui –sia pure attraverso angoli visuali parzialmente differenziati– la società appellante ha contestato la sussistenza degli elementi e dei presupposti perché si potesse considerare concretata un’ipotesi di lottizzazione abusiva ai sensi dell’articolo 30 del d.P.R. 380 del 2001.
3.2. Si osserva al riguardo che, in base a un consolidato orientamento, è ravvisabile l'ipotesi di lottizzazione abusiva soltanto quando sussistono elementi precisi ed univoci da cui possa ricavarsi oggettivamente l'intento di asservire all'edificazione un'area non urbanizzata; pertanto, ai fini dell'accertamento della sussistenza del presupposto di cui all’articolo 18 della l. 28.02.1985, n. 47 (in seguito: articolo 30 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380).
Pertanto, al fine di poter affermare l’esistenza di un’ipotesi di lottizzazione abusiva (nel caso in esame, di tipo c.d. ‘materiale’) è necessario acquisire un sufficiente quadro indiziario dal quale sia possibile desumere in maniera non equivoca la destinazione a scopo edificatorio degli atti posti in essere, con conseguente giustificazione del provvedimento repressivo a fronte della dimostrazione della sussistenza di elementi precisi e univoci (in tal senso –ex multis-: Cons. Stato, V, 27.03.2013, n. 1809; in termini analoghi: Cons. Stato, V, 03.08.2012, n. 4429).
3.3. A loro volta, i primi Giudici hanno correttamente richiamato l’orientamento secondo cui, affinché si concretizzi l’illecito della lottizzazione abusiva in senso materiale, è sufficiente la realizzazione di qualsiasi tipo di opere in concreto idonee a stravolgere l’assetto del territorio preesistente e quindi, in ultima analisi, a determinare sia un concreto ostacolo alla futura attività di programmazione (che viene posta di fronte al fatto compiuto), sia un carico urbanistico aggiuntivo che necessità di adeguamento degli standard.
Tuttavia, nonostante i primi Giudici abbiano preso le mosse dall’enunciazione di consolidati principi di diritto, sono nondimeno pervenuti a conclusioni non condivisibili in relazione alle concrete vicende di causa
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 07.08.2015 n. 3911 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’installazione di una sbarra metallica, per la sua entità e tipologia, deve ricondursi negli interventi di «manutenzione ordinaria» per i quali non è richiesto alcun titolo abilitativo.
... per la riforma della sentenza 26.05.2014, n. 5554 del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, Roma, Sezione I-quater;
...
1.– La A.i. s.p.a., proprietaria di un immobile adibito ad ufficio sito in una strada privata, ha installato, con due paletti in ferro, una sbarra di metallo.
Il Comune di Roma, con determinazione 14.05.2009, n. 1067, ha contestato l’abusività dell’intervento perché realizzato senza che la società abbia presentato la dichiarazione di inizio attività e ha, conseguentemente, irrogato, previa richiesta di determinazione della somma dovuta all’Agenzia del territorio competente, la sanzione pecuniaria di euro 44.412,00.
La società ha impugnato la suddetta determinazione innanzi al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, deducendo la violazione:
i) degli articoli 2, 3 e 10-bis della legge 07.08.1990 n. 241, nonché eccesso di potere, per non avere l’amministrazione comunale tenuto conto della richiesta di autorizzazione che la società aveva presentato in data 09.06.2003;
ii) dell’art. 22 del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia) e dell’art. 19 della legge n. 241 del 1990, in quanto l’istallazione di una sbarra metallica rientrerebbe nell’ambito dell’attività edilizia libera;
iii) degli articoli 22 e 37 del d.p.r. n. 380 del 2001, per erroneità nella determinazione dell’entità della sanzione da corrispondere.
2.– Il Tribunale amministrativo, con sentenza 26.05.2014, n. 5554, ha rigettato il ricorso, ritenendo che, venendo in rilievo interventi consistenti nella «delimitazione dell’ultimo tratto di strada con sbarra in ferro bloccata con lucchetti di sicurezza e fissata al suolo a mezzo di pali murati, con lo scopo di realizzare un parcheggio privato», sarebbe necessario il titolo edilizio richiesto dal Comune.
3.– La ricorrente in primo grado ha proposto appello rilevando come lo scopo della sbarra fosse esclusivamente quello di «controllare l’accesso e la sosta di terzi» nella propria proprietà, come risulterebbe anche dalla richiesta di autorizzazione all’istallazione presentata dalla società stessa nel 2003. Si è, inoltre, fatta valere l’erroneità della sentenza per la mancata pronuncia in ordine agli altri motivi del ricorso introduttivo del giudizio che vengono riproposti in appello.
...
5.– L’appello è fondato.
6.– Il d.p.r. n. 380 del 2001, nell’individuare le forme di intervento pubblico richieste ai fini dell’effettuazione di interventi edilizi sul territorio, distingue tra: i) interventi per i quali non è necessario ottenere un titolo abilitativo venendo in rilievo una attività edilizia libera (art. 6); ii) interventi subordinati al rilascio di un permesso di costruire (art. 10); iii) interventi subordinati a denuncia di inizio attività (art. 22).
Nell’ambito dell’attività edilizia libera l’art. 6 indica «gli interventi di manutenzione ordinaria».
7.– Nel caso in esame risulta che l’appellante ha installato, nel terreno di propria proprietà, una sbarra metallica.
Tale tipologia di intervento, per la sua entità e tipologia, deve ricondursi in quelli di «manutenzione ordinaria» per i quali non è richiesto alcun titolo abilitativo (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 20.11.2013, n.5513). A ciò si aggiunga che la società aveva comunque chiesto, nel 2003, l’autorizzazione all’istallazione della predetta sbarra senza che il Comune avesse mai adottato alcun provvedimento.
Né ad una diversa conclusione può giungersi in ragione della finalità, valorizzata nella sentenza impugnata, di realizzare un parcheggio. Questo dato non è stato, infatti, oggetto di puntuale dimostrazione da parte delle autorità preposte alla vigilanza del territorio.
E’ bene aggiungere che qualora la società dovesse effettivamente provvedere a cambiare destinazione all’area il Comune rimane titolare dei poteri di controllo e sanzionatori previsti dalla legge di disciplina della materia (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 07.08.2015 n. 3898 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASale giochi, gli enti espropriano. Immobili confiscabili se i proprietari sono rimasti inerti. Cds: la mancata impugnazione dell'ordine di ripristino preclude il ricorso contro la confisca.
Il comune può espropriare l'immobile dato in locazione da un privato a una sala giochi se la presenza di slot machine e videolottery non è consentita dal regolamento comunale e i proprietari non hanno ottemperato all'ordinanza di ripristino dello stato dei luoghi. Questa inerzia, da parte dei proprietari, di fronte all'ordine comunale di demolizione delle opere abusive (atto presupposto rispetto all'acquisizione dell'immobile nel patrimonio dell'ente) rende inammissibile il successivo ricorso contro il provvedimento di «esproprio».

È quanto deciso dal Consiglio di Stato -Sez. VI- nella sentenza 07.08.2015 n. 3897.
I giudici di palazzo Spada hanno confermato la sentenza di primo grado del Tar Emilia-Romagna (sezione di Parma) che a sua volta aveva dichiarato inammissibile il ricorso per le stesse ragioni, ossia per la mancata impugnazione dell'ordinanza comunale di ripristino dei luoghi da parte dei proprietari. I quali, secondo il Tar, non potevano difendersi osservando che gli abusi erano stati commessi dalla società locataria dell'immobile. Infatti, hanno osservato i giudici del Tar, «l'estraneità del proprietario rispetto agli abusi del conduttore può ritenersi solo quando questi si sia attivato per impedire o eliminare l'abuso». E il principio è stato ribadito dal Consiglio di stato.
Il fatto. Nel caso di specie, l'immobile (158 mq al piano terra di un fabbricato di sei piani), destinato a pubblico esercizio, era stato locato per somministrazione di bevande e sala giochi, ma successivamente il comune di Reggio Emilia aveva espresso dubbi sulla compatibilità edilizia delle videolottery con la variante del regolamento edilizio che impediva di collocare le apparecchiature nelle vicinanze di residenze e istituti scolastici. Di qui l'ordinanza di ripristino dei luoghi che però veniva impugnata solo dalla società conduttrice ma non dai proprietari dell'immobile con la conseguente acquisizione del bene al patrimonio del comune.
La decisione. «Nella fattispecie», scrivono i giudici di palazzo Spada, «la comunicazione di avvio del procedimento è stata notificata sia alla società locataria che ai proprietari», i quali però non hanno ritenuto di depositare alcuna memoria difensiva con la conseguenza che per loro l'ordinanza di ripristino è divenuta inoppugnabile. Ne consegue, osserva il Cds, che i proprietari non possono ora eccepire eccezioni quali «la precedenza della locazione rispetto alla variante di regolamento edilizio, la sproporzione della sanzione comminata per l'abusività edilizia rispetto al caso dell'installazione di macchine da videogiochi, la illogicità della disposizione regolamentare», e così via perché la sede naturale per proporre tali doglianze sarebbe stata l'impugnativa dell'ordinanza comunale.
Né, ha proseguito il Supremo consesso amministrativo, i proprietari possono ora dichiararsi estranei agli abusi commessi dal locatario se non hanno dimostrato «un comportamento attivo, tale da estrinsecarsi in diffide o altre iniziative di carattere ultimativo, anche sul piano della risoluzione contrattuale, nei confronti del conduttore, autore dell'illecito edilizio».
«Al contrario», conclude il Cds, «un comportamento meramente passivo di adesione alle iniziative comunali, con mere dichiarazioni o affermazioni solo di dissociazione o manifestazioni di intenti, senza alcuna attività materiale o almeno giuridica di attivazione diretta ad eliminare l'abuso (per esempio, risoluzione giudiziaria per inadempimento, diffida ad eliminare l'abuso, attività di ripristino, a maggior ragione se l'ordine non viene contestato), non sono sufficienti a dimostrare l'estraneità del proprietario, in quanto, altrimenti, la tutela degli abusi rimarrebbe inefficace» (articolo ItaliaOggi del 13.08.2015).
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MASSIMA
A prescindere dall’esame dei rilievi di inammissibilità dell’appello, lo stesso è infondato, non essendo riuscito a sovvertire -in realtà neanche potendo contestare più di tanto, attesa l’evidenza della circostanza- la pronuncia del giudice di primo grado che, chiaramente, ha sottolineato come
la impugnativa dell’atto di acquisizione, in relazione alle proposte censure, sia inammissibile, in caso di mancata impugnazione dell’atto presupposto, consistente nell’ordine di ripristino e demolizione, comunicato sia al conduttore che al proprietario.
Nella fattispecie, in fatto, la comunicazione di avvio del procedimento è stata notificata sia alla società locataria che ai proprietari; i proprietari non hanno ritenuto di depositare alcuna memoria difensiva, a differenza di quanto fatto dalla locataria; l’ordinanza di ripristino è stata impugnata soltanto dalla società locataria e quindi è divenuta inoppugnabile per i proprietari; tali aspetti di fatto, ben evidenziati dalla difesa comunale, non sono contestati dalla parte appellante.
Le censure svolte avverso l’atto di acquisizione non censurano tale atto, in sé considerato, per vizi autonomi, ma contestano aspetti che avrebbero dovuto essere dedotti con impugnativa avverso gli atti presupposti, nella parte in cui viene contestata la precedenza della locazione rispetto alla variante di regolamento edilizio, la sproporzione della sanzione comminata per l’abusività edilizia rispetto al caso della installazione di macchine da videogiochi, la illogicità della disposizione regolamentare.
In sostanza, va confermata la sentenza, che ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso in quanto, in relazione alle censure proposte fin dal primo grado, non è stata impugnata l’ordinanza di demolizione, presupposta rispetto all’atto di acquisizione e qualificante le (qui in sostanza contestate) natura e configurabilità dell’illecito, in guisa tale da divenire incontestabili se non impugnato l’atto (ordinanza) che ne conteneva, appunto, l’accertamento.
Per completezza -pur rilevando ancora una volta come le doglianze di parte appellante si siano appuntate solo avverso l’acquisizione– si osserva che,
anche rispetto alla tesi della estraneità del proprietario incolpevole rispetto agli abusi commessi dal locatario, la giurisprudenza della Sezione ha chiarito come sia necessario che questi provi la intrapresa di iniziative che, oltre a rendere palese la sua estraneità all’abuso, dimostri anche un comportamento attivo, da estrinsecarsi in diffide o altre iniziative di carattere ultimativo, anche sul piano della risoluzione contrattuale, nei confronti del conduttore autore dell’illecito edilizio.
Al contrario, un comportamento meramente passivo di adesione alle iniziative comunali, con mere dichiarazioni o affermazioni solo di dissociazione o manifestazioni di intenti, senza alcuna attività materiale o almeno giuridica di attivazione diretta ad eliminare l’abuso (per esempio, risoluzione giudiziaria per inadempimento, diffida ad eliminare l’abuso, attività di ripristino, a maggior ragione se l’ordine non viene contestato), non sono sufficienti a dimostrare l’estraneità del proprietario, in quanto, altrimenti, la tutela degli abusi rimarrebbe inefficace (così, tra varie, Cons. Stato, VI, 04.05.2015, n. 2211).

EDILIZIA PRIVATALa impugnativa dell’atto di acquisizione al patrimonio comunale (di immobile a seguito di abuso edilizio) è inammissibile in caso di mancata impugnazione dell’atto presupposto, consistente nell’ordine di ripristino e demolizione, comunicato sia al conduttore che al proprietario.
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Anche rispetto alla tesi della estraneità del proprietario incolpevole rispetto agli abusi commessi dal locatario, la giurisprudenza della Sezione ha chiarito come sia necessario che questi provi la intrapresa di iniziative che, oltre a rendere palese la sua estraneità all’abuso, dimostri anche un comportamento attivo, da estrinsecarsi in diffide o altre iniziative di carattere ultimativo, anche sul piano della risoluzione contrattuale, nei confronti del conduttore autore dell’illecito edilizio.
Al contrario, un comportamento meramente passivo di adesione alle iniziative comunali, con mere dichiarazioni o affermazioni solo di dissociazione o manifestazioni di intenti, senza alcuna attività materiale o almeno giuridica di attivazione diretta ad eliminare l’abuso (per esempio, risoluzione giudiziaria per inadempimento, diffida ad eliminare l’abuso, attività di ripristino, a maggior ragione se l’ordine non viene contestato), non sono sufficienti a dimostrare l’estraneità del proprietario, in quanto, altrimenti, la tutela degli abusi rimarrebbe inefficace.

... per la riforma della sentenza breve del TAR EMILIA-ROMAGNA - SEZ. STACCATA DI PARMA: SEZIONE I n. 70/2014, resa tra le parti, concernente acquisizione al patrimonio comunale di un immobile a seguito di un abuso edilizio.
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A prescindere dall’esame dei rilievi di inammissibilità dell’appello, lo stesso è infondato, non essendo riuscito a sovvertire -in realtà neanche potendo contestare più di tanto, attesa l’evidenza della circostanza- la pronuncia del giudice di primo grado che, chiaramente, ha sottolineato come la impugnativa dell’atto di acquisizione, in relazione alle proposte censure, sia inammissibile, in caso di mancata impugnazione dell’atto presupposto, consistente nell’ordine di ripristino e demolizione, comunicato sia al conduttore che al proprietario.
Nella fattispecie, in fatto, la comunicazione di avvio del procedimento è stata notificata sia alla società locataria che ai proprietari; i proprietari non hanno ritenuto di depositare alcuna memoria difensiva, a differenza di quanto fatto dalla locataria; l’ordinanza di ripristino è stata impugnata soltanto dalla società locataria e quindi è divenuta inoppugnabile per i proprietari; tali aspetti di fatto, ben evidenziati dalla difesa comunale, non sono contestati dalla parte appellante.
Le censure svolte avverso l’atto di acquisizione non censurano tale atto, in sé considerato, per vizi autonomi, ma contestano aspetti che avrebbero dovuto essere dedotti con impugnativa avverso gli atti presupposti, nella parte in cui viene contestata la precedenza della locazione rispetto alla variante di regolamento edilizio, la sproporzione della sanzione comminata per l’abusività edilizia rispetto al caso della installazione di macchine da videogiochi, la illogicità della disposizione regolamentare.
In sostanza, va confermata la sentenza, che ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso in quanto, in relazione alle censure proposte fin dal primo grado, non è stata impugnata l’ordinanza di demolizione, presupposta rispetto all’atto di acquisizione e qualificante le (qui in sostanza contestate) natura e configurabilità dell’illecito, in guisa tale da divenire incontestabili se non impugnato l’atto (ordinanza) che ne conteneva, appunto, l’accertamento.
Per completezza -pur rilevando ancora una volta come le doglianze di parte appellante si siano appuntate solo avverso l’acquisizione– si osserva che, anche rispetto alla tesi della estraneità del proprietario incolpevole rispetto agli abusi commessi dal locatario, la giurisprudenza della Sezione ha chiarito come sia necessario che questi provi la intrapresa di iniziative che, oltre a rendere palese la sua estraneità all’abuso, dimostri anche un comportamento attivo, da estrinsecarsi in diffide o altre iniziative di carattere ultimativo, anche sul piano della risoluzione contrattuale, nei confronti del conduttore autore dell’illecito edilizio.
Al contrario, un comportamento meramente passivo di adesione alle iniziative comunali, con mere dichiarazioni o affermazioni solo di dissociazione o manifestazioni di intenti, senza alcuna attività materiale o almeno giuridica di attivazione diretta ad eliminare l’abuso (per esempio, risoluzione giudiziaria per inadempimento, diffida ad eliminare l’abuso, attività di ripristino, a maggior ragione se l’ordine non viene contestato), non sono sufficienti a dimostrare l’estraneità del proprietario, in quanto, altrimenti, la tutela degli abusi rimarrebbe inefficace (così, tra varie, Cons. Stato, VI, 04.05.2015, n.2211) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 07.08.2015 n. 3897 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L’esclusione da una gara d’appalto consegue ad ogni qualsivoglia dichiarazione non veritiera resa dall’operatore economico, a prescindere dal dolo o dalla colpa grave, non residuando margini di discrezionalità in capo alla stazione appaltante.
La necessità dell’esclusione si ricava, infatti, da una lettura comparata dell’art. 38 codice appalti con l’art. 75 d.P.R. 28.12.2000, n. 445, secondo cui «il dichiarante decade dai benefici eventualmente conseguenti al provvedimento emanato sulla base della dichiarazione non veritiera».
La norma menzionata pone in stretta correlazione la non veridicità del contenuto della dichiarazione con i benefici eventualmente conseguenti al provvedimento emanato sulla base della medesima dichiarazione.
Nel caso in esame, il beneficio derivante da una dichiarazione sostitutiva sui requisiti minimi richiesti nel bando, da parte di un concorrente, è connesso alla sua domanda di partecipazione alla gara: pertanto, la decadenza da tale beneficio comporta necessariamente l’esclusione dei concorrente.
Inoltre, l’art. 75 d.P.R. n. 445/2000 non richiede alcuna valutazione, da parte della stazione appaltante, circa il dolo o la colpa grave del dichiarante, poiché la non veridicità di quanto autodichiarato rileva sotto un profilo oggettivo e conduce alla decadenza dei benefici ottenuti con l’autodichiarazione non veritiera, indipendentemente da ogni indagine della pubblica amministrazione sull’elemento soggettivo del dichiarante.
Inoltre, deve esser ribadito il carattere di «ordine pubblico-economico» delle disposizioni di cui all’art. 38, con la conseguente impossibilità di integrazione postuma della mancata dichiarazione del pregiudizio penale e l’ulteriore conseguenza dell’esclusione dalla gara.
Ancora di recente, la Sezione ha ribadito che nelle gare pubbliche la completezza e la veridicità (sotto il profilo della puntuale indicazione di tutte le condanne riportate) della dichiarazione sostitutiva di notorietà ex art. 38, d.lgs. 12.04.2006, n. 163, rappresentano lo strumento indispensabile, adeguato e ragionevole, per contemperare i contrapposti interessi in conflitto, quello dei concorrenti alla semplificazione e all'economicità del procedimento di gara (a non essere, in particolare, assoggettati ad una serie di adempimenti gravosi, anche sotto il profilo strettamente economico, come la prova documentale di stati e di qualità personali, che potrebbero risultare inutili o ininfluenti) e quello pubblico, delle amministrazioni appaltanti, di poter verificare con immediatezza e tempestività se ricorrono ipotesi di condanne per reati gravi che incidono sulla moralità professionale, potendo così evitarsi ritardi e rallentamenti nello svolgimento della procedura ad evidenza pubblica di scelta del contraente, così realizzando quanto più celermente possibile l'interesse pubblico perseguito con la gara di appalto.
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Alla stregua dei consolidati principi in tema di dichiarazione dei requisiti per la partecipazione a gare d'appalto:
a) la valutazione della gravità delle condanne riportate dai concorrenti e la loro incidenza sulla moralità professionale spetta esclusivamente alla stazione appaltante e non già ai concorrenti, i quali sono tenuti ad indicare tutte le condanne riportate, non potendo essi operare alcun filtro, ciò implicando un giudizio meramente soggettivo inconciliabile con la ratio della norma;
b) la completezza e la veridicità (sotto il profilo della puntuale indicazione di tutte le condanne riportate) della dichiarazione sostitutiva di notorietà rappresentano lo strumento indispensabile, adeguato e ragionevole, per contemperare i contrapposti interessi in conflitto, quello dei concorrenti alla semplificazione e all'economicità del procedimento di gara (a non essere, in particolare, assoggettati ad una serie di adempimenti gravosi, anche sotto il profilo strettamente economico, come la prova documentale di stati e di qualità personali, che potrebbero risultare inutili o ininfluenti) e quello pubblico, delle amministrazioni appaltanti, di poter verificare con immediatezza e tempestività se ricorrono ipotesi di condanne per reati gravi che incidono sulla moralità professionale, potendo così evitarsi ritardi e rallentamenti nello svolgimento della procedura ad evidenza pubblica di scelta del contraente, così realizzando quanto più celermente possibile l'interesse pubblico perseguito con la gara di appalto, così che la sola mancata dichiarazione dei precedenti penali o di anche solo taluno di essi, indipendentemente da ogni giudizio sulla loro gravità, rende legittima l'esclusione dalla gara;
c) anche in assenza di un'espressa comminatoria nella lex specialis, stante la eterointegrazione con la norma di legge, l'inosservanza dell'obbligo di rendere al momento della presentazione della domanda di partecipazione le dovute dichiarazioni previste dall'art. 38 del D.lgs. n. 163 del 2006 comporta l'esclusione del concorrente, senza che sia consentito alla stazione appaltante disporne la regolarizzazione o l'integrazione, non trattandosi di irregolarità, vizio o dimenticanza di carattere puramente formale;
d) in caso di mancata dichiarazione di precedenti penali non può operare il principio del c.d. falso innocuo, laddove si tratti di assenza di dichiarazioni previste dalla legge e dal bando di gara a pena di esclusione, con la precisazione che solo se la dichiarazione sia resa sulla base di modelli predisposti dalla stazione appaltante ed il concorrente incorra in errore indotto dalla formulazione ambigua o equivoca del bando non può determinarsi l'esclusione dalla gara per l'incompletezza della dichiarazione resa;
e) quanto all'estinzione del reato (che consente di non dichiarare l'emanazione del relativo provvedimento di condanna), essa sotto il profilo giuridico non è automatica per il mero decorso del tempo, ma deve essere formalizzata in una pronuncia espressa del giudice dell'esecuzione penale, che è l'unico soggetto al quale l'ordinamento attribuisce il compito di verificare la sussistenza dei presupposti e delle condizioni per la relativa declaratoria, con la conseguenza che, fino a quando non intervenga tale provvedimento giurisdizionale, non può legittimamente parlarsi di «reato estinto».
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L'esclusione di un'impresa dalla procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico per la mancata allegazione della dichiarazione attestante l'assenza di procedimenti o condanne penali a carico del direttore tecnico, prevista dall'art. 38 d.lgs. n. 163-2006, cosiddetto codice dei contratti pubblici, è legittima e compatibile con la direttiva appalti n. 2004/18/CE (rilevante ratione temporis in questo giudizio), e l'esclusione non può nemmeno essere evitata con la produzione della documentazione in un momento successivo.
Il principio di parità di trattamento e l'obbligo di trasparenza, infatti, obbligano l'Amministrazione ad escludere dall'appalto un operatore che non abbia comunicato un documento o una informazione la cui produzione era prevista a pena di esclusione.

2. Ritiene il Collegio, nel merito, che l’appello sia infondato.
Occorre, infatti, osservare che l’esclusione da una gara d’appalto consegue ad ogni qualsivoglia dichiarazione non veritiera resa dall’operatore economico, a prescindere dal dolo o dalla colpa grave, non residuando margini di discrezionalità in capo alla stazione appaltante.
La necessità dell’esclusione si ricava, infatti, da una lettura comparata dell’art. 38 codice appalti con l’art. 75 d.P.R. 28.12.2000, n. 445, secondo cui «il dichiarante decade dai benefici eventualmente conseguenti al provvedimento emanato sulla base della dichiarazione non veritiera».
La norma menzionata pone in stretta correlazione la non veridicità del contenuto della dichiarazione con i benefici eventualmente conseguenti al provvedimento emanato sulla base della medesima dichiarazione.
Nel caso in esame, il beneficio derivante da una dichiarazione sostitutiva sui requisiti minimi richiesti nel bando, da parte di un concorrente, è connesso alla sua domanda di partecipazione alla gara: pertanto, la decadenza da tale beneficio comporta necessariamente l’esclusione dei concorrente.
Inoltre, l’art. 75 d.P.R. n. 445/2000 non richiede alcuna valutazione, da parte della stazione appaltante, circa il dolo o la colpa grave del dichiarante, poiché la non veridicità di quanto autodichiarato rileva sotto un profilo oggettivo e conduce alla decadenza dei benefici ottenuti con l’autodichiarazione non veritiera, indipendentemente da ogni indagine della pubblica amministrazione sull’elemento soggettivo del dichiarante (cfr., per tutte, Consiglio di Stato, sez. VI, 06.04.2010, n. 1909).
Inoltre, deve esser ribadito il carattere di «ordine pubblico-economico» delle disposizioni di cui all’art. 38, con la conseguente impossibilità di integrazione postuma della mancata dichiarazione del pregiudizio penale e l’ulteriore conseguenza dell’esclusione dalla gara (cfr., per tutte, Consiglio di Stato, sez. V, 10.05.2012, n. 2702).
Ancora di recente, la Sezione (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 03.12.2014, n. 5972) ha ribadito che nelle gare pubbliche la completezza e la veridicità (sotto il profilo della puntuale indicazione di tutte le condanne riportate) della dichiarazione sostitutiva di notorietà ex art. 38, d.lgs. 12.04.2006, n. 163, rappresentano lo strumento indispensabile, adeguato e ragionevole, per contemperare i contrapposti interessi in conflitto, quello dei concorrenti alla semplificazione e all'economicità del procedimento di gara (a non essere, in particolare, assoggettati ad una serie di adempimenti gravosi, anche sotto il profilo strettamente economico, come la prova documentale di stati e di qualità personali, che potrebbero risultare inutili o ininfluenti) e quello pubblico, delle amministrazioni appaltanti, di poter verificare con immediatezza e tempestività se ricorrono ipotesi di condanne per reati gravi che incidono sulla moralità professionale, potendo così evitarsi ritardi e rallentamenti nello svolgimento della procedura ad evidenza pubblica di scelta del contraente, così realizzando quanto più celermente possibile l'interesse pubblico perseguito con la gara di appalto.
3. Pertanto, alla stregua dei consolidati principi in tema di dichiarazione dei requisiti per la partecipazione a gare d'appalto (come da ultimo puntualizzati in Consiglio di Stato, sez. V, 05.09.2014, n. 4528):
a) la valutazione della gravità delle condanne riportate dai concorrenti e la loro incidenza sulla moralità professionale spetta esclusivamente alla stazione appaltante e non già ai concorrenti, i quali sono tenuti ad indicare tutte le condanne riportate, non potendo essi operare alcun filtro, ciò implicando un giudizio meramente soggettivo inconciliabile con la ratio della norma (ex pluribus, Cons. St., sez. V, 17.06.2014, n. 3092; 24.03.2014, n. 1428; 27.01.2014, n. 400; 06.03.2013, n. 1378; sez. IV, 22.03.2012, n. 1646; 19.02.2009, n. 740);
b) la completezza e la veridicità (sotto il profilo della puntuale indicazione di tutte le condanne riportate) della dichiarazione sostitutiva di notorietà rappresentano lo strumento indispensabile, adeguato e ragionevole, per contemperare i contrapposti interessi in conflitto, quello dei concorrenti alla semplificazione e all'economicità del procedimento di gara (a non essere, in particolare, assoggettati ad una serie di adempimenti gravosi, anche sotto il profilo strettamente economico, come la prova documentale di stati e di qualità personali, che potrebbero risultare inutili o ininfluenti) e quello pubblico, delle amministrazioni appaltanti, di poter verificare con immediatezza e tempestività se ricorrono ipotesi di condanne per reati gravi che incidono sulla moralità professionale, potendo così evitarsi ritardi e rallentamenti nello svolgimento della procedura ad evidenza pubblica di scelta del contraente, così realizzando quanto più celermente possibile l'interesse pubblico perseguito con la gara di appalto (Cons. St., sez. V, 1378 del 06.03.2013; sez. VI, 10.12.2012, n. 6291; sez. III, 17.08.2011, n. 4792), così che la sola mancata dichiarazione dei precedenti penali o di anche solo taluno di essi, indipendentemente da ogni giudizio sulla loro gravità, rende legittima l'esclusione dalla gara (Cons. St., sez. IV, 28.03.2012, n. 1646; sez. VI, 02.05.2012, n. 2597);
c) anche in assenza di un'espressa comminatoria nella lex specialis, stante la eterointegrazione con la norma di legge, l'inosservanza dell'obbligo di rendere al momento della presentazione della domanda di partecipazione le dovute dichiarazioni previste dall'art. 38 del D.lgs. n. 163 del 2006 comporta l'esclusione del concorrente, senza che sia consentito alla stazione appaltante disporne la regolarizzazione o l'integrazione, non trattandosi di irregolarità, vizio o dimenticanza di carattere puramente formale (Cons. St., sez. III, 02.07.2013, n. 3550; 14.12.2011, n. 6569);
d) in caso di mancata dichiarazione di precedenti penali non può operare il principio del c.d. falso innocuo, laddove si tratti di assenza di dichiarazioni previste dalla legge e dal bando di gara a pena di esclusione (Cons. St., sez. V, 27.12.2013, n. 6271), con la precisazione che solo se la dichiarazione sia resa sulla base di modelli predisposti dalla stazione appaltante ed il concorrente incorra in errore indotto dalla formulazione ambigua o equivoca del bando non può determinarsi l'esclusione dalla gara per l'incompletezza della dichiarazione resa (Cons. St., sez, III, 04.02.2014, n. 507);
e) quanto all'estinzione del reato (che consente di non dichiarare l'emanazione del relativo provvedimento di condanna), essa sotto il profilo giuridico non è automatica per il mero decorso del tempo, ma deve essere formalizzata in una pronuncia espressa del giudice dell'esecuzione penale, che è l'unico soggetto al quale l'ordinamento attribuisce il compito di verificare la sussistenza dei presupposti e delle condizioni per la relativa declaratoria, con la conseguenza che, fino a quando non intervenga tale provvedimento giurisdizionale, non può legittimamente parlarsi di «reato estinto» (ex multis, Cons. Stato, sez. V, 17.06.2014, n. 3092; 13.12.2012, n. 6393; 24.03.2011, n. 1800).
4. Infine, l'esclusione di un'impresa dalla procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico per la mancata allegazione della dichiarazione attestante l'assenza di procedimenti o condanne penali a carico del direttore tecnico, prevista dall'art. 38 d.lgs. n. 163/2006, cosiddetto codice dei contratti pubblici, è legittima e compatibile con la direttiva appalti n. 2004/18/CE (rilevante ratione temporis in questo giudizio), e l'esclusione non può nemmeno essere evitata con la produzione della documentazione in un momento successivo (cfr. Corte di Giustizia UE, sez. X, 06.11.2014, n. 42/2013).
Il principio di parità di trattamento e l'obbligo di trasparenza, infatti, obbligano l'Amministrazione ad escludere dall'appalto un operatore che non abbia comunicato un documento o una informazione la cui produzione era prevista a pena di esclusione.
Infine, non può ritenersi fondata la doglianza relativa alla circostanza che la stazione appaltante abbia aggiudicato altre gare alla ricorrente senza rilevare la condanna emersa a carico del direttore tecnico nella procedura, atteso che sono irrilevanti in questa sede le vicende che hanno riguardato la partecipazione ad altre gare: da esse non può certo dedursi un legittimo affidamento alla partecipazione alla gara qui in contestazione
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 07.08.2015 n. 3884 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: E' legittima la clausola, contenuta in atti di indizione di procedure di affidamento di appalti pubblici, che preveda l'escussione della cauzione provvisoria anche nei confronti di imprese non risultate aggiudicatarie, ma solo concorrenti, in caso di riscontrata assenza del possesso dei requisiti di carattere generale di cui all'art. 38 del codice dei contratti pubblici, approvato con d.lgs. 12.04.2006, n. 163.
- Considerato che, stante il rigetto dell’appello principale (e anche della correlata istanza risarcitoria, che non ha alcun fondamento), deve essere valutato quello incidentale proposto da Consip s.p.a. limitatamente all’annullamento della nota del 18.09.2014 di escussione della cauzione provvisoria.
- Considerato che la nota de qua, di escussione della cauzione provvisoria, appare del tutto coerente con il principio stabilito da Consiglio di Stato, ad. plen., 10.12.2014 n. 34, dove si è affermata la legittimità della clausola, contenuta in atti di indizione di procedure di affidamento di appalti pubblici, che preveda l'escussione della cauzione provvisoria anche nei confronti di imprese non risultate aggiudicatarie, ma solo concorrenti, in caso di riscontrata assenza del possesso dei requisiti di carattere generale di cui all'art. 38 del codice dei contratti pubblici, approvato con d.lgs. 12.04.2006, n. 163.
- Considerato che, pertanto, la pronuncia del TAR si è posta in contrasto con l’orientamento affermatosi, seppur successivamente, in giurisprudenza e deve quindi essere annullata, con accoglimento dell’appello incidentale (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 04.08.2015 n. 3857 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La scansione dei tempi verificatisi non appare irragionevole, quanto meno riguardo alla fase di espletamento della gara in senso stretto (dal 14.02.2013, giorno dell’insediamento della commissione di gara, al 14.05.2013, data dell’aggiudicazione provvisoria).
Peraltro, proprio questa è la fase che viene in considerazione quando si afferma che le garanzie di imparzialità, pubblicità, trasparenza e speditezza dell'azione amministrativa postulano che le sedute di una commissione di gara debbano ispirarsi al principio di concentrazione e continuità.
Discende da questa premessa la conclusione che, di regola, la valutazione delle offerte tecniche ed economiche debba avvenire in una sola seduta, senza soluzione di continuità, al fine di scongiurare possibili influenze esterne ed assicurare l'assoluta indipendenza di giudizio dell'organo incaricato della valutazione stessa.
Nel caso di specie, d’altronde, occorreva anche tenere conto dell’esigenza di procedere alla verifica dell’anomalia dell’offerta, cioè della necessità di svolgere un incombente che -anche per la mancanza di limitazioni prefissate al potere di verifica della stazione appaltante- può condurre ad una dilatazione della tempistica di espletamento delle operazioni di gara, senza che tale evento possa implicare illegittimità della procedura.
Una volta conclusa la fase della valutazione e dunque con l’aggiudicazione provvisoria, in ogni caso, quel principio cessa di avere rilievo.

1. Il primo motivo dell’appello censura la violazione del principio di concentrazione e continuità delle operazioni della gara, bandita il 18.12.2012 e conclusasi con l’aggiudicazione definitiva solo l’08.05.2014.
Sebbene tendenziale, tale principio potrebbe essere derogato solo per ragioni oggettive, insussistenti nella fattispecie. Inoltre, il decorso del tempo avrebbe reso parzialmente inutile il servizio aggiudicato, posto che -a seguito di una procedura indetta dall’Area Vasta Tarantina, di cui fa parte il Comune di Pulsano- il 02.05.2013 (cioè quasi alla vigilia dell’aggiudicazione provvisoria del successivo 14 maggio) sarebbe stato stipulato un contratto per l’affidamento del servizio di attuazione del progetto di sviluppo del sistema di e-government regionale, dal contenuto in buona parte comprensivo delle prestazioni dedotte nell’appalto controverso. Infine, all’interno del periodo indicato (il 28.06.2013), l’amministratore unico della C. sarebbe stato sottoposto a custodia cautelare perché imputato di reati commessi nell’espletamento della gara d’appalto per il servizio di riscossione dei tributi nel Comune di Marignanella.
1.2. Il motivo è infondato.
A parte il carattere eminentemente tendenziale del principio che viene evocato, la scansione dei tempi non appare irragionevole, quanto meno riguardo alla fase di espletamento della gara in senso stretto (dal 14.02.2013, giorno dell’insediamento della commissione di gara, al 14.05.2013, data dell’aggiudicazione provvisoria).
Peraltro, proprio questa è la fase che viene in considerazione quando si afferma che le garanzie di imparzialità, pubblicità, trasparenza e speditezza dell'azione amministrativa postulano che le sedute di una commissione di gara debbano ispirarsi al principio di concentrazione e continuità.
Discende da questa premessa la conclusione che, di regola, la valutazione delle offerte tecniche ed economiche debba avvenire in una sola seduta, senza soluzione di continuità, al fine di scongiurare possibili influenze esterne ed assicurare l'assoluta indipendenza di giudizio dell'organo incaricato della valutazione stessa (cfr. da ultimo Cons. Stato, sez. V, 22.01.2015, n. 257).
Nel caso di specie, d’altronde, occorreva anche tenere conto dell’esigenza di procedere alla verifica dell’anomalia dell’offerta della C., cioè della necessità di svolgere un incombente che -anche per la mancanza di limitazioni prefissate al potere di verifica della stazione appaltante (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 24.08.2011, n. 4801)- può condurre ad una dilatazione della tempistica di espletamento delle operazioni di gara, senza che tale evento possa implicare illegittimità della procedura (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 22.11.2013, n. 5542).
Una volta conclusa la fase della valutazione e dunque con l’aggiudicazione provvisoria, in ogni caso, quel principio cessa di avere rilievo.
Nessuno può negare che, nella vicenda controversa, la fase successiva (dall’aggiudicazione provvisoria a quella definitiva) si sia sicuramente dilatata per motivi che non è dato conoscere (il Comune è rimasto assente in appello e non sembra avere specificamente controdedotto sul punto in primo grado).
Tuttavia, se questa protrazione potrà essere un indice di amministrazione non particolarmente rapida ed efficiente, essa non ha alterato l’esito dell’aggiudicazione provvisoria. Il che dimostra che nessuna indebita influenza esterna si può essere esercitata sugli organi della gara e che il ritardo non ha comunque leso alcun interesse della società appellante.
Censurando poi una presunta interferenza con un diverso, ma analogo appalto, l’appellante fa valere un interesse pubblico e non proprio. Da ciò l’inammissibilità della doglianza.
Infine, la questione della restrizione in carcere dell’amministratore unico della società aggiudicataria è inconferente, poiché l’appellante non ha inteso far valere -come motivo di gravame- la perdita di un requisito soggettivo della società vincitrice, tale da precludere l’aggiudicazione definitiva
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 04.08.2015 n. 3851 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE PROGETTUALIPeriti agrari esclusi dalle competenze forestali.
Periti agrari esclusi dalle competenze in materia forestale. Gli interventi di miglioramento boschivo, infatti, non si inseriscono in una attività diretta alla produzione. Solo in questo specifico caso, infatti, può essere ammesso l'intervento dei periti agrari.

A stabilirlo, la sentenza 03.08.2015 n. 3816 del Consiglio di Stato -Sez. III- che ha dato vita a un tira e molla tra il Collegio nazionale degli agrotecnici e degli agrotecnici laureati e l'Ordine nazionale dei dottori agronomi e dottori forestali.
Diatriba che, nei giorni scorsi, ha portato a un botta e risposta tra le categorie tramite comunicati stampa. Ad avviso degli agronomi, infatti, gli interventi di natura boschiva spettano loro in via esclusiva insieme ai forestali mentre, ad avviso degli agrotecnici, la competenza non deve essere intesa in senso esclusivo essendo competenti per materia anche gli agrotecnici.
Ad avviso di questi ultimi, infatti, sono da ritenersi «prive di fondamento le rivendicazioni di esclusive professionali in materia di forestazione avanzate dall'Ordine degli agronomi, sulla scorta della sentenza del Consiglio di stato n. 3816/2015. Tale sentenza, infatti», si legge nella nota diffusa dal Collegio nazionale, «ha sancito l'incompetenza in materia di forestazione dei Periti agrari, arrivando ad una conclusione ovvia, posto che i Periti agrari non hanno specifiche competenze forestali declinate nel loro ordinamento professionale al contrario degli agrotecnici e agrotecnici laureati».
Di diverso avviso, invece, l'Ordine nazionale dei dottori agronomi e forestali secondo cui, in base a quanto espresso dal Consiglio di stato, la competenza debba essere intesa come esclusiva.
«Nel panorama delle professioni che hanno competenze in materia ambientale e paesaggistica o territoriale, unicamente i dottori agronomi e dottori forestali annoverano la competenza nel settore selvicolturale (ovvero in materia boschiva e forestale) la quale, pertanto», ha concluso il Conaf, «come confermato dal Cds è di natura esclusiva» (articolo ItaliaOggi del 15.08.2015).
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MASSIMA
6.- Pervenendo al merito, occorre premettere che l’iniziativa comunale di cui si controverte consiste nella “ricostruzione del potenziale forestale ed interventi preventivi”, si pone nel quadro della “Misura 226 Ricostituzione del potenziale forestale e interventi preventivi” del P.S.R. 2007/2013 e, più precisamente, della “Azione 226.1 - Interventi di gestione selvicolturale finalizzati alla prevenzione degli incendi”.
Nel definire le “motivazioni e logica dell’intervento”, la detta misura 226 precisa che “In un contesto internazionale che mette al centro dell’azione ambientale il contrasto ai cambiamenti climatici, la lotta all’avanzamento dei processi di desertificazione, la tutela della biodiversità, la difesa del suolo dai dissesti idrogeologici, assume carattere preminente la ‘conservazione’ del patrimonio forestale quale azione di sistema che nel suo complesso riunisce tutti gli obiettivi citati.
Conservare le risorse forestali significa soprattutto lavorare sul concetto di ‘prevenzione’, adottando le iniziative più efficaci affinché il rischio di danneggiamento diminuisca e contemporaneamente il sistema si presenti nelle migliori condizioni fisico-strutturali per affrontare l’evento negativo. Tuttavia conservare significa anche ‘recuperare’ e ‘ricostituire’ nel più breve tempo il potenziale danneggiato, favorendo e supportando i processi naturali di ripresa del sistema.
La conservazione delle risorse forestali passa attraverso la valutazione dell’interazione della copertura vegetale rispetto al sistema acqua-suolo, la mitigazione dei fattori di pressione antropica, la salvaguardia delle condizioni fitosanitarie. Per pianificare una buona prevenzione del patrimonio forestale occorre quindi adottare interventi mirati che, integrandosi fra loro, siano finalizzati a combattere gli incendi boschivi, il dissesto idrogeologico e le principali fitopatie
”.
7.- Va ancora premesso che,
secondo l’ordinamento della professione di perito agrario, competono a tale professionista, tra l’altro, “la progettazione, la direzione ed il collaudo di opere di miglioramento fondiario e di trasformazione di prodotti agrari e relative costruzioni, limitatamente alle medie aziende, il tutto in struttura ordinaria … (l’art. 2, co. 1, lett. b, della legge 28.03.1968 n. 434, come sostituito dall’art. 2, l. 21.02.1991 n. 54).
L’ordinamento della professione di dottore agronomo e di dottore forestale attribuisce ai medesimi “le attività volte a valorizzare e gestire i processi produttivi agricoli, zootecnici e forestali, a tutelare l'ambiente e, in generale, le attività riguardanti il mondo rurale”; in particolare “lo studio, la progettazione, la direzione … delle opere di trasformazione e di miglioramento fondiario, nonché delle opere di bonifica e delle opere di sistemazione idraulica e forestale, di utilizzazione e regimazione delle acque e di difesa e conservazione del suolo agrario …”, nonché “lo studio, la progettazione, la direzione … di opere inerenti ai rimboschimenti, alle utilizzazioni forestali, alle piste da sci ed attrezzature connesse, alla conservazione della natura, alla tutela del paesaggio ed all'assestamento forestale” (art. 2, co. 1, lett. b e c, della legge 07.01.1976 n. 3, come sostituito dall’art. 2, l. 10.02.1992 n. 152)
8.- Ciò posto, sia pure in tema di tariffa professionale del perito, la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, condivisa dal Collegio in assenza di ragioni di dissenso, ha affermato che,
alla stregua delle rispettive discipline professionali, ad entrambe le categorie dei periti agrari e dei dottori agronomi o forestali è affidabile la cura di boschi e/o foreste “allorché contenuti in aziende agrarie fino alla soglia di quelle medie”, onde la competenza in materia “rimane per i periti limitata … alla gestione, stima, consulenza … dei boschi, purché inseriti, da solo (se di superficie ristretta) o insieme ad altre colture, in un’azienda agraria di dimensioni piccole o anche medie … in funzione non ambientale, ma solo produttiva e nei limiti in cui la coltivazione … non presenti difficoltà insostenibili per la cultura astrattamente riconoscibile” ai periti agrari, precisandosi peraltro come “la conferma della medesima tariffa non equivale ad una sicura attribuzione di competenza per gli appartenenti ogni volta che si debba trattare della cura o della piantagione di un bosco (cfr. Cons. St., sez. IV, 30.07.1996 n. 915, richiamata da entrambi i contendenti).
In altri termini,
in materia di interventi boschivi il discrimine tra le competenze del perito agrario e quelle del dottore agronomo o forestale sta, oltre che nel dato quantitativo, in quello qualitativo determinato dalle finalità degli interventi stessi, potendo il primo professionista occuparsene solo se produttivi e spettando in via esclusiva al secondo se intesi “a tutelare l’ambiente” nei suoi vari aspetti, ivi compresa, in particolare, la “conservazione della natura”.

EDILIZIA PRIVATALa proposta di variazione della strumento urbanistico assunta dalla Conferenza dei servizi (nell'ambito di un procedimento SUAP) non è vincolante per il Consiglio comunale, il quale deve autonomamente valutare se aderire o meno ad essa, potendo motivatamente disattendere la proposta stessa.
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Come chiarito dalla Giurisprudenza, l'istituto del preavviso di rigetto, di cui all'art. 10-bis, l. 07.08.1990 n. 241, ha lo scopo di far conoscere alle P.A., in contraddittorio rispetto alle motivazioni da essa assunte in base agli esiti dell'istruttoria espletata, le ragioni fattuali e giuridiche dell'interessato che potrebbero contribuire a far assumere agli organi competenti una diversa determinazione finale derivante, appunto, dalla ponderazione di tutti gli interessi in campo; con la conseguente illegittimità del provvedimento di diniego la cui motivazione sia arricchita di ragioni giustificative diverse e ulteriori rispetto a quelle preventivamente sottoposte al contraddittorio procedimentale attraverso la comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza del privato.
Infatti, anche se non deve sussistere un rapporto di identità tra il preavviso di rigetto e la determinazione conclusiva del procedimento, né una corrispondenza puntuale e di dettaglio tra il contenuto dei due atti, ben potendo la pubblica amministrazione ritenere, nel provvedimento finale, di dover meglio precisare le proprie posizioni giuridiche, occorre però che il contenuto sostanziale del provvedimento conclusivo di diniego si inscriva nello schema delineato dalla comunicazione ex art. 10-bis, l. n. 241 del 1990, esclusa ogni possibilità di fondare il diniego definitivo su ragioni del tutto nuove, non enucleabili dalla motivazione dell'atto endoprocedimentale, dato che altrimenti l'interessato non potrebbe interloquire con l'amministrazione anche su detti profili differenziali né presentare le proprie controdeduzioni prima della determinazione conclusiva dell'ufficio.
E salvo che il provvedimento finale si discosti dalla motivazione contenuta nel preavviso solo in funzione dell'esigenza di replicare alle osservazioni presentate dal privato, ma non è questo il caso in esame, caratterizzato dal fatto che il Comune, a seguito del ricevimento delle controdeduzioni degli interessati, ha abbandonato i profili di cui al preavviso di rigetto (tranne uno, che verrà esaminato infra) e fondato il diniego su ragioni del tutto nuove e diverse.
Né può condividersi la prospettazione del Comune, secondo il quale ai sensi dell'art. 21-octies della stessa legge non potrebbe comunque pervenirsi all'annullamento del provvedimento, il contenuto del quale non sarebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
Contrariamente a quanto sostenuto dal Comune, l’elusione dell’art. 10-bis, l. n. 241 del 1990, nel caso in questione, incide sulla validità dell'atto conclusivo del procedimento, avendo determinato un deficit istruttorio e considerato che il contenuto del provvedimento in contestazione avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato, laddove le ricorrenti avessero potuto presentare osservazioni, come è risultato palese dall’esame sia dei motivi di ricorso che delle osservazioni contenute nella consulenza di parte depositata in esito alla verificazione disposta da questa Sezione, ove le Società ricorrenti hanno allegato circostanze idonee a confutare le eccezioni del Comune e che non hanno potuto incolpevolmente sottoporre all'Amministrazione a tempo debito.
L’art. 10-bis in esame mira, infatti, ad instaurare un contraddittorio a carattere necessario tra la P.A. e il cittadino ed assolve anche ad una finalità deflattiva del contenzioso, evitando che si sposti nel processo ciò che dovrebbe svolgersi nel procedimento, come di fatto accaduto nel caso in questione.
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L’art. 5 del D.P.R. 20.10.1998, n. 447 (sostituito dall’articolo 8 del d.p.r. n. 160 del 2010, nei termini di cui all’articolo 12 del medesimo d.p.r.) dispone che ove il progetto sia in contrasto (come nel caso di specie) con lo strumento urbanistico, ma sia conforme con la normativa ambientale, sanitaria e di sicurezza del lavoro, il responsabile del procedimento, in base al disposto degli artt. 1 e 5 del D.P.R. 20.10.1998 n. 447, recante il regolamento per la semplificazione dei procedimenti di localizzazione degli impianti produttivi, possa convocare una conferenza di servizi per le conseguenti decisioni, che costituiscono proposta di variante allo strumento urbanistico e sulle quali si pronuncia il Consiglio comunale.
La Giurisprudenza ha reiteratamente interpretato tale normativa nel senso che, nell’ipotesi di ampliamento di un insediamento produttivo preesistente, la necessità di variare lo strumento urbanistico deve essere valutata in relazione al progetto presentato, cioè tenendo conto della circostanza che trattasi di un progetto di ampliamento di un insediamento produttivo già operante, sicché l’area da destinare all’ampliamento della relativa attività non può essere ricercata altrove, ma deve evidentemente trovarsi in stabile e diretto collegamento con quella dell’insediamento principale e da ampliare.

I. Con il primo motivo di ricorso le società ricorrenti lamentano che, ai sensi dell’articolo 8, comma 1, del d.p.r. numero 160 del 2010, una volta che la conferenza dei servizi sia pervenuta alla deliberazione finale, con conseguente trasmissione della stessa al competente Consiglio Comunale, non è possibile riaprire la fase istruttoria, che, nella configurazione della disposizione richiamata (così come della norma preesistente di cui all’articolo 5 del d.p.r. numero 447 del 1998), finalizzata alla velocizzazione dell’iter procedimentale, deve svolgersi all’interno della conferenza dei servizi.
La censura (sebbene supportata in punto di fatto dalla considerazione che l’istruttoria è stata riaperta mediante l’emanazione di un ulteriore parere da parte del competente ufficio -che aveva già istruito il progetto e si era già espresso favorevolmente in sede di conferenza dei servizi- motivato dall’avvenuto avvicendamento delle persone fisiche titolari degli uffici dell’Ente: si veda il secondo capoverso del parere numero 1117 del 09.05.2013) non può essere esaminata, attesa la fondatezza dell’eccezione di tardività contenuta nelle difese del Comune.
Infatti, la decisione di riaprire l’istruttoria è stata assunta con la Delibera Commissariale n. 3 del 09.05.2013, il cui termine impugnatorio di giorni sessanta è scaduto (non il 30.07.2013, come sostenuto dal Comune, non potendosi fare decorrere il termine di decadenza dalla mera pubblicazione dell’atto, essendo l’Amministrazione tenuta alla notifica individuale, ma da quest’ultima data del 03.06.2013, nella quale la Delibera Commissariale n. 3 risulta pervenuta alle ricorrenti, secondo quanto da queste ultime affermato nelle controdeduzioni trasmesse il 02.07.2013 al Comune, allegate alla deliberazione numero 52/2013, documento numero 4 della produzione del Comune di Mascali) il 18.09.2013; sicché, avuto riguardo alla data di notificazione del ricorso (03-04.12.2013) quest’ultimo è effettivamente tardivo rispetto l’impugnazione della Delibera Commissariale n. 3/2013, con la conseguente inoppugnabilità della decisione di riaprire l’istruttoria.
Per completezza, deve comunque rilevarsi che la proposta di variazione della strumento urbanistico assunta dalla Conferenza dei servizi non è vincolante per il Consiglio comunale, il quale deve autonomamente valutare se aderire o meno ad essa (cfr. Consiglio di Stato, sentenza 19.10.2007 n. 5471), potendo motivatamente disattendere la proposta stessa.
II. Il Collegio prende in esame il secondo motivo di ricorso, con il quale si lamenta l’illegittima divergenza tra le motivazioni a corredo della deliberazione numero 52/2013 e quelle contenute nel preavviso di rigetto, e ne ravvisa la fondatezza.
I rilievi di cui al parere numero 1117 del 09.05.2013 erano i seguenti:
1- insussistenza dei presupposti di cui all’articolo 8, comma 1, del d.p.r. numero 160 del 2010, in quanto il programma di fabbricazione del comune di Mascali individuerebbe sufficienti aree destinate ad insediamenti produttivi;
2- insussistenza dei presupposti di cui all’articolo 8, comma 1, del d.p.r. numero 160 del 2010, in quanto lo stabilimento esistente sarebbe in contrasto con le previsioni dello strumento urbanistico perché oggetto di precedenti concessioni edilizie in sanatoria;
3- l’ampliamento richiesto non sarebbe di modeste dimensioni, raddoppiando la cubatura esistente;
4- l’intervento richiesto verrebbe realizzato in un centro abitato.
Su tali rilievi si è svolto il contraddittorio con le ditte istanti, le quali, a seguito della comunicazione del 30 maggio 2013 da parte del Comune, trasmettevano articolate controdeduzioni, poi allegate all’atto conclusivo del procedimento.
Quest’ultimo, tuttavia, costituito dalla deliberazione numero 52/2013, nella motivazione a supporto del diniego di approvazione del programma ha mantenuto solo la prima delle argomentazioni di cui al parere 1117/2013, abbandonando le altre ed introducendo per la prima volta nuove eccezioni:
- l’ampliamento richiesto comporterebbe l’avvio di un’attività pericolosa per la salute, trattandosi della produzione di lastre di vetro;
- tale attività non potrebbe essere ubicata in prossimità del centro abitato;
- le emissioni sonore non rispetterebbero i limiti imposti dalla normativa sull’inquinamento acustico;
- gli standards urbanistici di cui all’articolo 5 del decreto ministeriale numero 1444/1968 non sarebbero rispettati.
Risulta pertanto comprovata la divergenza tra le motivazioni comunicate alle ditte richiedenti con la nota del 30/05/2013, avente forma e sostanza di preavviso di rigetto, in quanto volta ad attivare il prescritto (dall’art. 10-bis L. n. 241/1990) contraddittorio con gli istanti, ed il provvedimento finale di diniego, che si regge su motivazioni in buona parte diverse ed introdotte solo nel provvedimento conclusivo stesso, quindi eludendo la ratio dell’art. 10-bis citato.
Infatti, come chiarito dalla Giurisprudenza, l'istituto del preavviso di rigetto, di cui all'art. 10-bis, l. 07.08.1990 n. 241, ha lo scopo di far conoscere alle P.A., in contraddittorio rispetto alle motivazioni da essa assunte in base agli esiti dell'istruttoria espletata, le ragioni fattuali e giuridiche dell'interessato che potrebbero contribuire a far assumere agli organi competenti una diversa determinazione finale derivante, appunto, dalla ponderazione di tutti gli interessi in campo (tra le più recenti TAR Campania, sez. VI Napoli, 10/04/2015 n. 2054); con la conseguente illegittimità del provvedimento di diniego la cui motivazione sia arricchita di ragioni giustificative diverse e ulteriori rispetto a quelle preventivamente sottoposte al contraddittorio procedimentale attraverso la comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza del privato.
Infatti, anche se non deve sussistere un rapporto di identità tra il preavviso di rigetto e la determinazione conclusiva del procedimento, né una corrispondenza puntuale e di dettaglio tra il contenuto dei due atti, ben potendo la pubblica amministrazione ritenere, nel provvedimento finale, di dover meglio precisare le proprie posizioni giuridiche, occorre però che il contenuto sostanziale del provvedimento conclusivo di diniego si inscriva nello schema delineato dalla comunicazione ex art. 10-bis, l. n. 241 del 1990, esclusa ogni possibilità di fondare il diniego definitivo su ragioni del tutto nuove, non enucleabili dalla motivazione dell'atto endoprocedimentale, dato che altrimenti l'interessato non potrebbe interloquire con l'amministrazione anche su detti profili differenziali né presentare le proprie controdeduzioni prima della determinazione conclusiva dell'ufficio (TAR Liguria, sez. I di Genova, 25/02/2015 n. 232).
E salvo che il provvedimento finale si discosti dalla motivazione contenuta nel preavviso solo in funzione dell'esigenza di replicare alle osservazioni presentate dal privato (TAR Lombardia, sez. IV di Milano, 30/10/2014 n. 2589), ma non è questo il caso in esame, caratterizzato dal fatto che il Comune, a seguito del ricevimento delle controdeduzioni degli interessati, ha abbandonato i profili di cui al preavviso di rigetto (tranne uno, che verrà esaminato infra) e fondato il diniego su ragioni del tutto nuove e diverse.
Né può condividersi la prospettazione del Comune, secondo il quale ai sensi dell'art. 21-octies della stessa legge non potrebbe comunque pervenirsi all'annullamento del provvedimento, il contenuto del quale non sarebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
Contrariamente a quanto sostenuto dal Comune, l’elusione dell’art. 10-bis, l. n. 241 del 1990, nel caso in questione, incide sulla validità dell'atto conclusivo del procedimento, avendo determinato un deficit istruttorio e considerato che il contenuto del provvedimento in contestazione avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato, laddove le ricorrenti avessero potuto presentare osservazioni, come è risultato palese dall’esame sia dei motivi di ricorso che delle osservazioni contenute nella consulenza di parte depositata in esito alla verificazione disposta da questa Sezione, ove le Società ricorrenti hanno allegato circostanze idonee a confutare le eccezioni del Comune e che non hanno potuto incolpevolmente sottoporre all'Amministrazione a tempo debito.
L’art. 10-bis in esame mira, infatti, ad instaurare un contraddittorio a carattere necessario tra la P.A. e il cittadino ed assolve anche ad una finalità deflattiva del contenzioso, evitando che si sposti nel processo ciò che dovrebbe svolgersi nel procedimento, come di fatto accaduto nel caso in questione.
Infatti, avuto riguardo sia agli esiti della verificazione che alle ulteriori circostanze addotte dalle Società ricorrenti in sede di consulenza di parte, va sottolineato che la contiguità tra il lotto di terreno e gli insediamenti residenziali previsti nel programma di fabbricazione e già edificati, rilevata dall’Organismo incaricato della verificazione, era già stata presa in esame in sede di conferenza dei servizi e ritenuta non ostativa; e d’altra parte, appare significativa la circostanza, evincibile dalla relazione di verificazione, secondo la quale lo stesso Comune aveva stabilito di destinare l’area interessata dall’insediamento delle ricorrenti a zona “D” nella proposta del nuovo piano regolatore generale adottata dal Consiglio Comunale nel 2007 (avendo, evidentemente, valutato compatibili insediamenti industriali di qualsiasi tipologia con la contiguità all’abitato), risultando, sotto tale profilo, irrilevante la circostanza che la Regione Siciliana non abbia approvato lo strumento urbanistico in questione.
D’altra parte, la questione circa la natura dell’attività destinata ad essere svolta nel capannone (se si tratti di produzione di lastre di vetro, come sostiene il Comune, ovvero semplicemente di lavorazione di lastre, con la conseguente ascrivibilità o meno dell’attività tra le industrie insalubri), addotta quale nuova motivazione (rispetto il preavviso di rigetto) nell’atto di diniego impugnato, avrebbe dovuto essere opportunamente approfondita in sede di contraddittorio con le Società istanti e non certo nel corso del presente giudizio.
Allo stesso modo, per quanto attiene il rilievo ostativo ricondotto dal Comune all’impatto acustico ambientale, che avrebbe violato la normativa di riferimento, la relazione di verificazione ha consentito di accertare che, al contrario, i valori indicati nella relazione prodotta dalle ricorrenti rientrano nei limiti previsti dal D.P.C.M. del 01.03.1991.
Non può, d’altra parte, tenersi conto del parere, espresso dall’Organismo incaricato della verificazione, circa l’inattendibilità dei risultati scaturiti dall’elaborazione dei dati nella relazione in questione: in primo luogo, perché non si tratta di questione introdotta nella motivazione dell’atto impugnato; in secondo luogo perché, a maggior ragione rispetto quanto già sopra precisato, si tratta di materia nella quale deve essere correttamente instaurato il contraddittorio con i richiedenti, i quali ben potrebbero integrare la relazione con gli elementi mancanti ed indicati dal Verificatore a pagina 15 (lettere a, b e c) della verificazione.
Al riguardo, infatti, occorre sottolineare che il verificatore ha espresso i propri dubbi circa l’attendibilità della relazione unicamente per profili di incompletezza nella descrizione dell’attività lavorativa (lett. a), nell’allegazione della mappa acustica elaborata dal software utilizzato dal tecnico (lett. b) e nell’indicazione del tipo di software utilizzato (lett. c), tutte carenze integrabili ed insuscettibili di condurre, senza previa instaurazione del contraddittorio, al rigetto dell’istanza.
Quanto, infine, alla questione relativa alla sufficienza delle aree per standard urbanistici, in esito alla verificazione è risultato che il progetto prevede aree in misura più che sufficiente a garantire gli standards di cui all’articolo 5 del decreto ministeriale numero 1444/1968 (pagina 18 della relazione di verificazione), sebbene l’Organismo incaricato della verificazione abbia ritenuto che la localizzazione delle aree non assicuri la possibilità di un uso pubblico, disconoscendosi, da parte del Verificatore, che il progetto in questione possa essere qualificato come un insediamento chiuso ad uso collettivo, disciplinato dall’articolo 15 della legge regionale numero 71/1978, nel qual caso le aree risulterebbero correttamente localizzate.
Anche in questo caso, sarebbe stato necessario instaurare il contraddittorio con gli interessati, consentendo agli stessi di far valere le argomentazioni trasfuse nella consulenza di parte, ove è stato dedotto che il progetto soddisfa i contenuti di un piano di lottizzazione, si compone degli elaborati necessari per un piano di lottizzazione secondo le prescrizioni del regolamento edilizio del Comune intimato, soddisfa quanto l’articolo 9 della legge regionale numero 71 del 1978 richiede quale contenuto necessario dei piani di lottizzazione, nonché quanto richiede la circolare dell’Assessorato Regionale Territorio e Ambiente numero 2 del 03.02.1979, ha previsto altresì la convenzione di cui all’articolo 14 della legge regionale numero 71 del 1978.
D’altra parte, gli istanti hanno altresì elencato gli atti adottati dalle Amm.ni coinvolte a vario titolo nell’esame della pratica, atti che hanno assolto alle prescrizioni relative all’istruttoria del piano di lottizzazione, e hanno prodotto alcuni precedenti provvedimenti emessi dall’ Assessorato Regionale Territorio e Ambiente su progetti di impianti produttivi, sia di nuova installazione che per ampliamenti, nei quali è stato applicato l’articolo 15 della legge regionale numero 71 del 1978 indipendentemente dal fatto che il progetto fosse stato presentato come piano di lottizzazione o meno.
Ora, la questione se il progetto presentato dalle ricorrenti costituisca o meno (per contenuti, elaborati progettuali, istruttoria) uno strumento attuativo al quale trovi applicazione l’articolo 15 della legge regionale numero 71 del 1978 è questione sulla quale sarebbe stato necessario instaurare il contraddittorio con le imprese richiedenti, non potendosi spostare tale dibattito nell’odierna sede giurisdizionale.
Ne consegue l’illegittimità in parte qua dell’atto impugnato.
III. La terza censura (relativa all’unico motivo a supporto del diniego impugnato esternato nel preavviso di rigetto e riprodotto nell’atto finale) è fondata.
Come si rileva dalla delibera impugnata n. 52 del 2013, la Commissione straordinaria con i poteri del Consiglio comunale ha ritenuto di non procedere alla variante perché il P. di F. prevede aree idonee ad allocare insediamenti produttivi, circostanza questa confermata in sede di verificazione; secondo le ricorrenti però non si è tenuto conto della circostanza che le ZTO “D” non consentirebbero (atteso la relativa ubicazione) l’ampliamento dell’impianto preesistente, sicché il Comune avrebbe dovuto istruire la pratica in relazione allo specifico progetto presentato, pena la vanificazione della ratio dell’articolo 8 del d.p.r. n. 160 del 2010, che è quella di favorire lo sviluppo degli investimenti anche mediante l’ampliamento degli impianti produttivi esistenti.
Il Collegio ritiene corretta la ricostruzione operata dalle ricorrenti.
L’art. 5 del D.P.R. 20.10.1998, n. 447 (sostituito dall’articolo 8 del d.p.r. n. 160 del 2010, nei termini di cui all’articolo 12 del medesimo d.p.r.) dispone che ove il progetto sia in contrasto (come nel caso di specie) con lo strumento urbanistico, ma sia conforme con la normativa ambientale, sanitaria e di sicurezza del lavoro, il responsabile del procedimento, in base al disposto degli artt. 1 e 5 del D.P.R. 20.10.1998 n. 447, recante il regolamento per la semplificazione dei procedimenti di localizzazione degli impianti produttivi, possa convocare una conferenza di servizi per le conseguenti decisioni, che costituiscono proposta di variante allo strumento urbanistico e sulle quali si pronuncia il Consiglio comunale.
La Giurisprudenza ha reiteratamente interpretato tale normativa nel senso che, nell’ipotesi di ampliamento di un insediamento produttivo preesistente, la necessità di variare lo strumento urbanistico deve essere valutata in relazione al progetto presentato, cioè tenendo conto della circostanza che trattasi di un progetto di ampliamento di un insediamento produttivo già operante, sicché l’area da destinare all’ampliamento della relativa attività non può essere ricercata altrove, ma deve evidentemente trovarsi in stabile e diretto collegamento con quella dell’insediamento principale e da ampliare (cfr. TAR Abruzzo, Sezione I di Pescara, sentenze 07.11.2013 n. 525 e 20.05.2004 n. 453; TAR Lazio, Sezione I di Latina, 04.11.2013, n. 824; TAR Lombardia, sez. II di Milano, 28.12.2009 n. 6222; TAR Veneto, sez. II di Venezia, 11.07.2008 n. 1993).
Ne consegue l’illegittimità (anche in tale parte) della deliberazione n. 52/2013 impugnata, che dev’essere pertanto annullata (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 30.07.2015 n. 2103 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

VARI: Punti patente, ricorsi antirevisione al Gdp.
Tutti i provvedimenti sanzionatori previsti dal codice stradale sono di competenza del giudice di pace. Anche la decurtazione di punteggio e la conseguente sospensione della licenza per azzeramento del credito disponibile.

Lo ha confermato la Corte di Cassazione, Sezz. unite civili, con la sentenza 24.07.2015 n. 15573.
La revisione della patente per esaurimento punti è un provvedimento vincolato che viene adottato dalla motorizzazione all'esito delle vicende stradali.
Nel caso esaminato dal collegio un utente stradale ha proposto ricorso contro questa severa determinazione punitiva ma il giudice di pace ha dichiarato il proprio difetto di giurisdizione e il tribunale ha confermato questa decisione. A parere dei giudici del palazzaccio però la competenza in caso di ricorso resta in capo al giudice ordinario.
A differenza della revisione per dubbi sui requisiti tecnici prevista dall'art. 128 Cds, infatti, la revisione prevista dall'art. 126-bis Cds è un atto dovuto. Per questo motivo il ricorso non è di competenza del tar ma del giudice di pace (articolo ItaliaOggi Sette del 17.08.2015).

VARI: Multe, la delazione non aspetta. Non basta il ricorso al giudice per tacere alla polizia. La Corte di cassazione ribadisce la procedura sulla decurtazione di punti dalla patente.
L'automobilista che riceve una multa per posta con decurtazione di punteggio e propone ricorso al giudice di pace deve comunque rispondere tempestivamente all'invito alla delazione della polizia. La sorte della prima infrazione non condiziona infatti il destino dell'intimazione e in caso di mancata comunicazione dei dati del conducente scatterà una seconda multa molto salata.

Lo ha ribadito la Corte di Cassazione, Sez. II civile, con la sentenza 23.07.2015 n. 15542.
Un utente stradale ha ricevuto la notifica di una violazione del codice stradale con conseguente intimazione alla comunicazione dei dati per la decurtazione di punti patente. Contro questo primo verbale l'interessato ha proposto ricorso al giudice di pace disinteressandosi di comunicare alla polizia i dati del conducente. Al ricevimento della seconda multa per mancata delazione l'automobilista si è rivolto nuovamente al magistrato onorario e al tribunale che hanno rigettato le censure.
La cassazione nonostante le diverse indicazioni del ministero dell'interno ha confermato questa interpretazione. La pendenza del ricorso sulla prima multa non deve interferire con l'indagine volta ad identificare l'effettivo trasgressore. Innanzitutto il termine assegnato al proprietario del veicolo per comunicare i dati del conducente decorre non dalla definizione del procedimento di opposizione avverso il verbale di accertamento dell'illecito presupposto, ma dalla richiesta rivolta al proprietario dall'organo di polizia.
Non convince neppure, prosegue la sentenza, il richiamo alle indicazioni fornite dalla Consulta nella sentenza n. 27/2005 circa il fatto che il proprietario non è tenuto a rilevare i dati dell'effettivo conducente prima della definizione dei ricorsi giurisdizionali o amministrativi contro il verbale.
Va infatti aggiunto, prosegue il collegio, che neppure l'eventuale annullamento del verbale di contestazione dell'infrazione presupposta comporta esclusione della sanzione prevista dall'art. 180 Cds, comma 8, attesa l'autonomia delle due infrazioni. Su questa linea si attesta anche la recente sentenza della Cassazione sez. VI- 2 n. 20974/2014, conclude il collegio (articolo ItaliaOggi Sette del 17.08.2015).

APPALTIL’affidamento dell’esame delle schede tecniche e dei campioni ai componenti (del seggio di gara) aventi una specifica competenza professionale è giustificato, purché la decisione finale, sulla base dell’esposizione e della valutazione delle risultanze dell’istruttoria, sia compiuta dal collegio nella sua interezza.
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Sebbene le garanzie di imparzialità, pubblicità, trasparenza e speditezza dell'azione amministrativa postulino che le sedute di una commissione di gara debbano ispirarsi al principio di concentrazione e continuità, tale principio è soltanto tendenziale ed è suscettibile di deroga, potendo verificarsi situazioni particolari che obiettivamente impediscono l’espletamento di tutte le operazioni in una sola seduta o in poche sedute ravvicinate.
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Quanto alle paventate conseguenze del notevole lasso di tempo intercorso tra l’apertura delle buste contenenti le offerte tecniche e la definitiva attribuzione dei punteggi, senza che siano state indicate le modalità di conservazione dei plichi e senza che sia stata giustificata la ragione del lungo periodo di tempo impiegato, il Collegio sottolinea che, in assenza di disposizioni espresse circa le modalità di conservazione dei plichi tra una seduta e l’altra, la mancata indicazione nei verbali di operazioni singolarmente svolte -quali tra l'altro l’identificazione del soggetto responsabile della custodia dei plichi, il luogo di custodia e le eventuali misure atte a garantire la integrale conservazione dei plichi stessi- non costituisce causa di illegittimità del procedimento, salvo che non sia provato -o siano quanto meno forniti adeguati e ragionevoli indizi- che la documentazione di gara sia stata effettivamente manipolata negli intervalli tra un'operazione e l'altra.

22. Nell’ambito del VI motivo, viene riproposta anche una censura che non ha attinenza specifica con la valutazione dell’offerta dell’appellante, ma che, se fondata, avrebbe comportato l’integrale annullamento delle operazioni di valutazione effettuate dalla Commissione.
L’appellante lamenta che la Commissione giudicatrice non abbia operato come un collegio perfetto, in quanto la valutazione delle offerte tecniche sarebbe stata demandata a quattro componenti (tra i commissari incaricati della valutazione, dalla lettura del verbale n. 3, non figura il presidente), non essendo peraltro possibile sapere chi abbia effettivamente esaminato le schede tecniche ed i campioni, e non essendo state menzionate nei verbali le concrete modalità adottate dai singoli componenti o dai gruppi di lavoro per espletare l’attività valutativa, né le valutazioni dei singoli campioni in concreto effettuate.
Inoltre, i commissari hanno impiegato dieci mesi per la valutazione, in violazione dei principi di continuità e concentrazione delle operazioni di gara, non sono state verbalizzate le cautele adottate per la conservazione e la custodia in sicurezza delle offerte nel corso del procedimento; detta omissione è ascrivibile, a dire dell’appellante, alla anomalia dell’esame demandato a soli quattro componenti, che verosimilmente vi hanno proceduto singolarmente; e spiegherebbe il mancato ritrovamento delle due mascherine per il lotto n. 2, e della scheda tecnica per il lotto n. 1, oltre che delle salviette dei camici.
22.1. Il Collegio osserva che nulla consente di affermare che la valutazione non sia stata condivisa dall’intera Commissione.
L’affidamento dell’esame delle schede tecniche e dei campioni ai componenti aventi una specifica competenza professionale è giustificato, purché la decisione finale, sulla base dell’esposizione e della valutazione delle risultanze dell’istruttoria, sia compiuta dal collegio nella sua interezza (cfr. Cons. Stato, III, n. 1368/2011).
E nulla nel caso in esame conduce a ritenere che tale momento collegiale sia mancato, risultando l’attribuzione dei punteggio e l’elaborazione dei relativi tabulati riferite alla intera Commissione (cfr. verbale n. 5, per il lotto n. 1, e verbale n. 10 per il lotto n. 2).
Inoltre, sebbene le garanzie di imparzialità, pubblicità, trasparenza e speditezza dell'azione amministrativa postulino che le sedute di una commissione di gara debbano ispirarsi al principio di concentrazione e continuità, tale principio è soltanto tendenziale ed è suscettibile di deroga, potendo verificarsi situazioni particolari che obiettivamente impediscono l’espletamento di tutte le operazioni in una sola seduta o in poche sedute ravvicinate.
Nel caso in esame, le operazioni di valutazione si sono protratte a lungo, per il lotto n. 2, dal 12.04.2012 (apertura buste offerte tecniche – verbale n. 3) al 17.12.2012 (attribuzione punteggi – verbale n. 10), ma va considerata la numerosità dei campioni e delle schede da valutare e la sosta estiva con correlata fruizione delle ferie da parte dei commissari (cfr. verbale n. 8, seduta di aggiornamento del 09.07.2012).
Quanto alle paventate conseguenze del notevole lasso di tempo intercorso tra l’apertura delle buste contenenti le offerte tecniche e la definitiva attribuzione dei punteggi, senza che siano state indicate le modalità di conservazione dei plichi e senza che sia stata giustificata la ragione del lungo periodo di tempo impiegato, il Collegio sottolinea che, in assenza di disposizioni espresse circa le modalità di conservazione dei plichi tra una seduta e l’altra, la mancata indicazione nei verbali di operazioni singolarmente svolte -quali tra l'altro l’identificazione del soggetto responsabile della custodia dei plichi, il luogo di custodia e le eventuali misure atte a garantire la integrale conservazione dei plichi stessi- non costituisce causa di illegittimità del procedimento, salvo che non sia provato -o siano quanto meno forniti adeguati e ragionevoli indizi- che la documentazione di gara sia stata effettivamente manipolata negli intervalli tra un'operazione e l'altra (cfr. Cons. Stato, V, n. 257/2015; n. 5060/2014; n. 2444/2014; n. 1668/2014). Tali elementi non si riscontrano nel caso in esame (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 23.07.2015 n. 3649 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Offerte, conta la convenienza. Tar Lombardia sulle aggiudicazioni.
È legittimo il diniego di aggiudicazione dell'appalto se l'offerta viene valutata non conveniente o non idonea dalla stazione appaltante.

Lo afferma il TAR Lombardia-Milano, Sez. I, con la sentenza 23.07.2015 n. 1802.
La questione riguardava un concorrente che era stato escluso dalla procedura ad evidenza pubblica, dopo essersela provvisoriamente aggiudicata, perché la stazione appaltante, nell'esercizio dei suoi poteri di controllo ai sensi degli articoli 12, comma 1, e 81, comma 3, del codice dei contratti pubblici, aveva ritenuto che l'offerta non avrebbe garantito la buona esecuzione del contratto nel suo complesso.
Riguardando l'appalto lavori di manutenzione ordinaria del verde pubblico comunale, l'amministrazione aveva ritenuto insufficiente, oltre che in contrasto con lo schema di contratto, il numero di giornate lavorative per operaio indicate dalla ricorrente al fine di adempiere agli obblighi contrattuali. Da qui il ricorso dell'escluso che lamentava l'illegittimità dell'esclusione.
I giudici danno ragione alla stazione appaltante fissando alcuni principi di interesse per quel che riguarda l'esercizio della discrezionalità amministrativa.
In particolare, la sentenza afferma che l'amministrazione ha il potere di non procedere all'aggiudicazione anche nel caso in cui l'offerta dell'aggiudicataria provvisoria risulti non conveniente o non idonea in relazione all'oggetto del contratto. Se è vero, infatti, che l'articolo 81 del codice attribuisce, letteralmente, tale potere soltanto per il caso in cui tutte le offerte non siano convenienti o idonee, «è altresì vero che i principi di buon andamento ed economicità dell'azione amministrativa devono consentire un'interpretazione della disposizione in esame che ne salvi l'applicabilità anche quando solo alcune delle offerte (nella specie, quella dell'aggiudicataria provvisoria) non sia idonea o conveniente».
Per i giudici questo potere resta immutato anche laddove non siano stati espressamente previsti negli atti di gara criteri specifici di valutazione della convenienza-idoneità dell'offerta; le norme attributive di facoltà o di obblighi contenute nella disciplina degli appalti pubblici integrano i singoli bandi di gara e sono da considerarsi, per questo, conoscibili a priori dai concorrenti alla procedura pubblica (articolo ItaliaOggi del 14.08.2015).
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MASSIMA
Nel merito, peraltro, i provvedimenti impugnati sono legittimi, nei sensi e termini già espressi in fase cautelare, cui occorre soggiungere le seguenti considerazioni, anche alla luce della disposta verificazione.
Invero,
la ricorrente è stata esclusa dalla procedura ad evidenza pubblica, dopo essersela provvisoriamente aggiudicata, perché la stazione appaltante, nell’esercizio dei suoi legittimi poteri di controllo ex art. 12, comma 1, e 81, comma 3, del d.lgs. n. 163/2006, ha ritenuto che l’offerta non avrebbe garantito la buona esecuzione del contratto nel suo complesso.
Nello specifico, trattandosi di prestazione di lavori di manutenzione ordinaria del verde pubblico comunale, l’amministrazione ha ritenuto insufficiente, oltre che in contrasto con l’art. 7 dello schema di contratto allegato alla lettera di invito, il numero di giornate lavorative per operaio indicate dalla ricorrente al fine di adempiere agli obblighi contrattuali.
In particolare, la stazione appaltante ha evidenziato come fortemente anomala la circostanza per cui la previsione d’impiego degli operai forniti da V. fosse rimasta immutata nonostante l’estensione contrattuale, avvenuta a seguito dei chiarimenti richiesti dalla stazione appaltante, dei singoli rapporti lavorativi dal 31 marzo al 31.12.2013.
Il Collegio ritiene che l’amministrazione abbia il potere di non procedere all'aggiudicazione anche nel caso in cui l’offerta dell’aggiudicataria provvisoria risulti non conveniente o non idonea in relazione all'oggetto del contratto, dovendosi valorizzare a tali fini il disposto di cui all’art. 81, comma 3, del codice dei contratti pubblici.
Se è vero infatti che detta norma attribuisce, letteralmente, tale potere soltanto per il caso in cui tutte le offerte non siano convenienti o idonee, è altresì vero che i principi di buon andamento ed economicità dell’azione amministrativa devono consentire un’interpretazione della disposizione in esame che ne salvi l’applicabilità anche quando solo alcune delle offerte (nella specie, quella dell’aggiudicataria provvisoria) non sia idonea o conveniente.
Tale potere, ritiene il Collegio, resta immutato anche laddove non siano stati espressamente previsti nella lex specialis di gara criteri specifici di valutazione della convenienza/idoneità dell’offerta, in quanto per consolidato orientamento giurisprudenziale le norme attributive di facoltà o di obblighi contenute nella disciplina degli appalti pubblici integrano i singoli bandi di gara e sono da considerarsi, per tale motivo, conoscibili a priori dai concorrenti alla procedura pubblica.
Nel caso di specie, d’altra parte, non ci si trova in presenza di un’esclusione in senso tecnico della ricorrente dalla gara –per violazione di una norma del bando o di legge da ritenersi essenziale–, bensì al cospetto di un annullamento dell’aggiudicazione parziale (che, vale la pena ricordarlo, ha per sua natura carattere di non stabilità), con successiva aggiudicazione definitiva ad altro concorrente, sul cui conto, per inciso, sono state svolte le medesime verifiche, in termini di convenienza/idoneità dell’offerta, già compiute sull’offerta della originaria aggiudicataria provvisoria.
Premesso ciò, e accertata la sussistenza in astratto del potere esercitato dall’amministrazione, occorre verificare se in concreto la valutazione nel merito operata dall’amministrazione sia esente da evidenti illogicità.
Il Collegio concorda, sul punto, con le conclusioni raggiunte dall’ing. E.R., tecnico incaricato dal Provveditorato interregionale alle opere pubbliche per la Lombardia e la Liguria per l’esecuzione della disposta verificazione, ritenendo tali conclusioni condivisibili sia sotto il profilo della coerenza e logicità del ragionamento effettuato, sia sotto il profilo della correttezza del metodo applicativo utilizzato.
Nello specifico,
il verificatore, nella sua relazione integrativa depositata in data 30.03.2015, ha precisato che, in relazione alla superficie complessiva su cui operare il taglio del manto erboso oggetto del singolo lotto di gara (lotto B), e applicando i valori dei rendimenti giornalieri in termini di mq tagliati per squadra tipo, sarebbero state necessarie 299,58 giornate/uomo per la corretta esecuzione dei lavori, a fronte delle 129,96 giornate/uomo che aveva offerto V. sulla base del personale in forza alla stessa e sulla base dei particolari contratti di prestazione stipulati con ciascuna unità di personale.
Il verificatore ha pertanto confermato l’assunto secondo cui la forza-lavoro offerta dalla ricorrente sarebbe stata largamente insufficiente a garantire una corretta esecuzione del contratto da stipulare, con conseguente non convenienza o comunque inidoneità, rispetto all’oggetto dell’appalto, dell’offerta stessa.
La valutazione dell’amministrazione, che peraltro risulta logicamente coerente con l’anomalia di un’estensione contrattuale dei rapporti lavorativi di nove mesi che non aveva comportato un corrispondente ampliamento della previsione d’impiego, è dunque da considerarsi corretta, o quanto meno non manifestamente illogica.
I tre motivi articolati nel ricorso introduttivo da V., tutti imperniati sulla contrarietà della disposta esclusione alla lex specialis o comunque ai principi di buon andamento, correttezza e non discriminazione dell’attività amministrativa, sono dunque da ritenersi infondati.
Analogamente,
sono da respingere anche le doglianze introdotte con i motivi aggiunti, in quanto le dedotte violazioni dell’art. 79, quinto comma, del d.lgs. n. 163 del 2006 e dell’art. 3 della L. n. 241/1990 afferiscono ad oneri di tempestiva ed esaustiva comunicazione della disposta aggiudicazione definitiva, il cui mancato rispetto non inficia, per giurisprudenza consolidata, la legittimità del provvedimento impugnato.

TRIBUTILa rendita catastale va motivata. Le Entrate non possono limitarsi a indicare nuovi valori. Ctr lombarda: con la modifica dei dati proposti dal contribuente va spiegato il perché.
L'attribuzione da parte dell'ufficio di una rendita catastale diversa da quella proposta dal contribuente va sempre e obbligatoriamente motivata. Anche se il fabbricato in oggetto è di categoria D che, come tale, è sottoposto alla proposta di attribuzione di rendita catastale avanzata dal contribuente con la procedura Docfa.
Per questa tipologia di immobili infatti, è prevista una motivazione meno specifica rispetto a quelli di categoria diversa, ma l'obbligo di motivazione dell'accertamento non può certamente ritenersi soddisfatto con la semplice indicazione dei dati catastali e della classe che, ritenuta adeguata, viene attribuita dall'ufficio impositore.

È questa la motivazione della sentenza 23.07.2015 n. 3460 con la quale la commissione tributaria regionale di Milano, sezione staccata di Brescia, ha accolto l'appello proposto dal contribuente dichiarando illegittimo l'avviso di accertamento emesso dall'Agenzia del territorio.
Il caso
Oggetto del contendere la modifica da parte dell'ufficio impositore del classamento catastale e della rendita rispetto a quanto proposto dal contribuente con la suddetta procedura telematica.
Contro l'accertamento il contribuente eccepiva il difetto di motivazione presso la commissione provinciale rilevando altresì l'erroneità del classamento operato dall'ufficio.
Per i giudici del primo grado l'accertamento doveva ritenersi comunque motivato. Gli elementi sui quali lo stesso era fondato erano infatti ben noti al contribuente perché basati sulla procedura Docfa che proprio quest'ultimo aveva attivato. Questa decisione non aveva affatto convinto il contribuente che contro la stessa proponeva appello presso la commissione regionale della Lombardia.
La decisione della Ctr
Nell'appello il contribuente ribadiva il difetto di motivazione dell'avviso di accertamento affermando, contrariamente a quanto sostenuto nella sentenza di primo grado, che dai dati dichiarati attraverso la procedura di classamento e attribuzione di rendita Docfa, non è possibile riuscire a comprendere per quali ragioni l'ufficio abbia riclassificato il bene immobile (da categoria E3 a D1).
Per i giudici della regionale lombarda l'assegnazione della classe catastale costituisce il parametro sulla base del quale viene identificato il grado di produttività o di redditività dell'unità immobiliare che come tale deve essere eseguita in base a elementi estrinseci o ubicazionali del fabbricato.
Rifacendosi al consolidato orientamento giurisprudenziale in materia la regionale ritiene che l'avviso di accertamento debba contenere, a pena di nullità, il requisito della motivazione la cui funzione è quella di indicare «i presupposti e le ragioni giuridiche che determinano la decisione dell'amministrazione».
La motivazione deve essere inoltre tale da poter consentire al contribuente l'esercizio del diritto di difesa e pertanto, in materia di classamento di immobili a destinazione ordinaria, non può limitarsi a contenere l'indicazione della consistenza, della categoria e della classe attribuita dall'ufficio, ma deve anche chiaramente specificare «a pena di nullità a quale presupposto la modifica debba essere associata» (articolo ItaliaOggi del 15.08.2015).

EDILIZIA PRIVATAAi fini del perfezionamento del condono edilizio di cui alla legge 724/1994, il limite volumetrico di 750 metri cubi previsto dall'art. 39, comma 1, è applicabile a tutte le opere, senza alcuna distinzione tra residenziali e non residenziali.
1. Il ricorso è infondato.
Il primo motivo di ricorso concerne l'applicabilità o meno del limite volumetrico di 750 metri cubi di cui alla legge 724/1994 anche agli immobili aventi destinazione non residenziale.
La Legge 23.12.1994, n. 724, recante «Misure di razionalizzazione delle finanza pubblica», nell'introdurre il secondo condono edilizio, prevedendo l'applicabilità delle disposizioni di cui ai capi IV e V della legge 28.02.1985, n. 47 come ulteriormente modificate dalla stessa legge, alle opere abusive ultimate entro il 31.12.1993, ha stabilito anche (art. 39, comma 1), quale ulteriore condizione rispetto al limite temporale, che la sanatoria poteva riguardare quegli immobili che non avessero comportato un ampliamento del manufatto superiore al 30 per cento della volumetria della costruzione originaria ovvero, indipendentemente dalla volumetria iniziale, un ampliamento superiore a 750 metri cubi, specificando ulteriormente che tali disposizioni trovavano applicazione anche per le opere abusive realizzate entro il termine predetto relative a nuove costruzioni non superiori ai 750 metri cubi per singola richiesta di concessione edilizia in sanatoria.
La Circolare del Ministero dei Lavori Pubblici n. 2241/UL del 17/06/1995, richiamata in ricorso, ha affermato che il limite volumetrico per l'ammissibilità  della sanatoria si applicherebbe alle costruzioni abusive a carattere residenziale e non a quelle destinate ad altri usi, in quanto l'art. 39 stabilisce, nel comma 16, che «all'oblazione calcolata ai sensi del presente articolo continuano ad applicarsi le riduzioni di cui all'articolo 34, terzo, quarto e settimo comma della legge 28.02.1985, n. 47, ovvero, anche in deroga ai limiti di cubatura di cui al comma 1 del presente articolo, le riduzioni di cui al settimo comma dello stesso articolo 34», il quale riguarda le modalità di calcolo dell'importo dell'oblazione per gli immobili non residenziale in rapporto alla loro superficie o alla loro destinazione.
Ad ulteriore sostegno di tale interpretazione, che la ricorrente condivide, viene richiamata in ricorso una decisione di questa Sezione (Sez. 3, n. 9598 del 09/02/2012, Buondonno, Rv. 252364), ove si è affermato, riproponendo la medesime argomentazioni riportate nella circolare e con specifico richiamo alla legge 724/1994, che dal dal combinato disposto dell'art. 39, comma 16, della legge medesima e dell'art. 34, comma 7, legge 47/1985 il limite volumetrico dei 750 mc. si applica solo alle costruzioni residenziali.
Una simile conclusione, tuttavia, non è condivisibile.
2. Per ciò che concerne la circolare, va preliminarmente ribadito quanto già affermato con riferimento ad analogo provvedimento del 2005, relativo al condono edilizio del 2003 (circolare ministeriale n. 2699 del 07.12.2005) e, cioè, che
la circolare interpretativa è atto interno alla P.A., che si risolve in un mero ausilio ermeneutico e non esplica alcun effetto vincolante non solo per il giudice penale, ma anche per gli stessi destinatari, poiché non può comunque porsi in contrasto con l'evidenza del dato normativo (Sez. 3, n. 25170 del 13/06/2012, La Mura, Rv. 252771; Sez. 3, n. 6619 del 07/02/2012, Zampano, Rv. 252541).
3. Per ciò che concerne, invece, il richiamo alla precedente pronuncia di questa Sezione, osserva il Collegio che le conclusioni cui la stessa è pervenuta non possono essere qui recepite, in quanto fondate su una lettura della legge 724/1994 che, sebbene condivisa, in alcuni casi, anche dalla giurisprudenza amministrativa, si fonda su un orientamento che gli stessi giudici amministrativi hanno ormai abbandonato e dal quale si è anche motivatamente discostata, con argomentazioni pienamente condivisibili, anche la giurisprudenza civile di questa Corte.
In particolare,
il Consiglio di Stato (Sez. V n. 3098 del 23/06/2008), oltre ad escludere ogni efficacia vincolante della circolare ministeriale, ha posto l'attenzione su un dato rilevante, rappresentato dal tenore letterale dell'art. 39, comma 1, legge 724/1994, il quale, nell'individuare gli immobili oggetto di sanatoria, non opera alcuna distinzione in relazione alla destinazione degli stessi, ammettendo il superamento del limite volumetrico solo nel caso di annullamento della concessione edilizia.
I giudici amministrativi, inoltre, hanno pure rilevato che la possibilità di pagare l'oblazione anche con riferimento a cubature maggiori, in relazione ad immobili con destinazione non residenziale, si giustifica esclusivamente per il fatto che, in tal modo, si può determinare l'estinzione di alcuni reati edilizi, secondo quanto stabilito dall'art. 38, comma 2, della legge 47/1985, contenuto nel capo IV della legge stessa, che l'art. 39, comma 1, legge 724/1994 richiama e che, pervenendo a diverse conclusioni, gli abusi relativi ad immobili non residenziali dovrebbero ritenersi sanabili indipendentemente dalla volumetria ed in contrasto con quanto stabilito, sempre in materia di condono, anche da provvedimenti legislativi successivi (art. 32, comma 25, del D.L. 30.9.2003).
In altra decisione,
sempre il Consiglio di Stato (Sez. V n. 4416 del 17/09/2008), ha rilevato come non possa ammettersi un condono privo di limiti quantitativi, ricordando come la Corte Costituzionale (28.07.1995, n. 416; 12.09.1995, n. 427; 23.07.1996, n. 302; 17.07.1996, n. 256) abbia posto in evidenza come le norme sul condono abbiano carattere del tutto eccezionale e siano, pertanto, particolarmente soggette al limite di ragionevolezza) e che la esclusione di ogni limite quantitativo alla condonabilità degli edifici industriali trasformerebbe l'art. 39 della legge 724/1994 da disposizione di eccezione a disposizione di rottura incondizionata del controllo edilizio passato.
4.
La lettura delle disposizioni richiamate offerta dal giudice amministrativo pare al Collegio pienamente condivisibile.
Sarebbe del tutto irragionevole, infatti, ritenere indiscriminatamente condonabili gli immobili a destinazione non residenziale, spesso di rilevante impatto sul territorio, sotto diversi profili, ponendo invece limiti rigorosi in termini di volumetria per quelli ad uso abitativo e non si spiegherebbe, inoltre, per quale motivo una simile distinzione non sia stata operata dal legislatore direttamente nel primo comma dell'art. 39, prevedendo, invece, tale distinguo attraverso un involuto riferimento nelle disposizioni riguardanti il calcolo dell'oblazione.
Invero, avuto riguardo al tenore letterale delle disposizioni richiamate,
è evidente che l'art. 39, comma 1, pone il limite volumetrico per tutte le opere abusive, indipendentemente dalla loro destinazione, mentre il comma 16 del medesimo articolo, il quale a sua volta richiama l'art. 34, comma 7, legge 47/1985, disciplina esclusivamente il calcolo dell'oblazione e la deroga alla volumetria è giustificata dai motivi indicati dalla giurisprudenza amministrativa e dei quali si è detto in precedenza.
A conclusioni analoghe è pervenuta, come si è già accennato, una decisione della Prima Sezione Civile di questa Corte (Sez. 1, Sentenza n. 4640 del 26/02/2009, Rv. 607037) nella quale si è osservato come «
la dizione adoperata dal primo comma del più volte menzionato art. 39, e la manifesta intenzione ivi espressa dal legislatore di porre un limite inderogabile, di carattere generale, alla sanabilità degli abusi edilizi, ricollegando detto limite all'oggettiva entità dell'abuso e, di conseguenza, all'entità della lesione da esso inferta ai valori espressi dalla normativa urbanistica a tutela di un interesse pubblico preminente, inducono senz'altro ad escludere un'interpretazione della norma che vada al di là di quanto in essa enunciato e sia tesa a circoscriverne la portata ai soli edifici a destinazione residenziale», rilevando, inoltre, che la deroga di cui all'art. 39, comma 16, concerne esclusivamente l'oblazione e la sua misura e non anche la sanatoria, richiamando, quindi e condividendo le menzionate pronunce del giudice amministrativo.
5. Ritiene pertanto il Collegio di affermare il principio secondo il quale
ai fini del perfezionamento del condono edilizio di cui alla legge 724/1994, il limite volumetrico di 750 metri cubi previsto dall'art. 39, comma 1, è applicabile a tutte le opere, senza alcuna distinzione tra residenziali e non residenziali.
Sulla base di quanto appena affermato, dunque, anche per le opere oggetto dell'ordinanza impugnata opera il limite di volumetria, a nulla rilevando la loro destinazione ad uso non residenziale.
6. Va aggiunto, poi, con riferimento al secondo motivo di ricorso, che il mancato rispetto del limite di cubatura è stato correttamente valutato dal giudice dell'esecuzione sulla base della volumetria complessiva del manufatto (che viene indicata in mc. 432 per ciascun piano) indipendentemente dal numero delle istanze di condono presentate (risultando, nel caso specifico, rilasciati 5 diversi titoli abilitativi in sanatoria in favore del medesimo soggetto)
avendo questa Corte ripetutamente escluso la possibilità di aggirare il limite volumetrico mediante il fittizio frazionamento dell'immobile (cfr. Sez. 3, n. 12353 del 2/10/2013 (dep. 2014), Cantiello, Rv. 259292Sez. 3, n. 9598 del 09/02/2012, Buondonno, Rv. 252364, cit.; Sez. 3, n. 33796 del 23/06/2005, Brigante, Rv. 232481; Sez. 3, n. 20161 del 19/04/2005, Merra, Rv. 231643; Sez. 3, n. 10500 del 02/07/1998, San Martino G, Rv. 211856) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 22.07.2015 n. 31955).

APPALTI: Interdittiva antimafia per «fatti attuali». Consiglio di Stato. Nullo l’atto basato su un episodio tra indizi già ritenuti inidonei.
Se la precedente interdittiva antimafia è stata annullata per l’assenza di validi indizi di condizionamento mafioso dell’impresa, la nuova misura prefettizia non può basarsi su un solo fatto isolato e non più attuale rispetto al quadro indiziario già esaminato.
L’ha stabilito il Consiglio di Stato, Sez. III, nella sentenza 22.07.2015 n. 3637, accogliendo il ricorso di un’impresa produttrice di calcestruzzi contro la quarta misura prefettizia emessa a proprio carico e giudicata legittima in primo grado anche se fondata su elementi istruttori «ripresi dalle precedenti informazioni» della prima, annullata in altro giudizio –soci assolti dall’accusa di reati di associazione di tipo mafioso ed estorsione e sequestro preventivo revocato– e ritenuti «non (...) idonei di per sé stessi a fondare una valutazione di esistenza di un pericolo di infiltrazione da parte della criminalità organizzata».
L’informativa era stata emessa per il presunto coinvolgimento del fratello dei soci dell’azienda ricorrente in un’inchiesta per turbativa d’asta (articolo 353 del Codice penale) aperta da una Direzione distrettuale antimafia: come ricostruito dal Prefetto, risultava indagato per il reato di frode in forniture pubbliche (articolo 356 del Codice penale) per aver fornito cemento ritenuto «impoverito» dell’azienda di famiglia a un’altra incaricata da un pubblico consorzio industriale al ripristino di canali idraulici lungo una ferrovia, poi in subappalto a una terza ditta considerata «mero schermo» di una cosca e in presunta «contiguità» a lui e ai fratelli soci.
Per la ricorrente, l’interdittiva violava il Codice antimafia (Dlgs 159/2011) che la giustifica per tentativi di infiltrazione anche per turbativa d’asta, ma solo su «provvedimenti che dispongono una misura cautelare o il giudizio, ovvero che recano una condanna anche non definitiva» assenti nel caso in esame (lettera a, comma 4, articolo 84).
Accogliendo il ricorso, i giudici hanno spiegato che «l’innalzamento della soglia di anticipata di tutela delle condizioni di sicurezza e ordine pubblico non esime, tuttavia, l’Autorità di pubblica sicurezza da una prudente, esatta ed esaustiva acquisizione e valutazione dei presupposti del provvedere, considerata anche l’incidenza della misura interdittiva sulla sfera di libertà e di iniziativa economica del destinatario».
Nel caso di specie, l’informativa «resta affidata a un solo fatto che si ascrive al fratello dei soci della ditta (...)» –risalente a tre anni prima– per cui è censurabile il «carattere isolato e non collegato all’attualità dell’elemento che ha dato ingresso alla misura interdittiva, che da solo –una volta escluso ogni valore indiziante dei fatti posti a sostegno del precedente provvedimento di interdittiva annullato (...)– non si configura idoneo a sostenere la misura di interdittiva».
Sulla base di tali fatti isolati si esclude «una situazione ambientale che, con carattere di attualità, metta in pericolo l’autonomia di indirizzo dell’attività sociale o che possa essere espressione di un’infiltrazione anche potenziale della criminalità organizzata», posto che la Pa può intervenire in caso di «nuovi e concreti elementi di indagine significativi del paventato periculum»
(articolo Il Sole 24 Ore del 20.08.2015).

EDILIZIA PRIVATA: L’articolo 30, comma 3, del decreto legge dispone che “Salva diversa disciplina regionale, previa comunicazione del soggetto interessato, sono prorogati di due anni i termini di inizio e di ultimazione dei lavori di cui all'articolo 15 del dpr 06.06.2001, n. 380, come indicati nei titoli abilitativi rilasciati o comunque formatisi antecedentemente all'entrata in vigore del presente decreto, purché i suddetti termini non siano già decorsi al momento della comunicazione dell'interessato e sempre che i titoli abilitativi non risultino in contrasto, al momento della comunicazione dell'interessato, con nuovi strumenti urbanistici approvati o adottati. (...)”.
L’istituto della proroga straordinaria, introdotto in via di eccezione dalla suddetta disposizione normativa, prevede alcune rilevanti peculiarità rispetto alla proroga ordinaria.
Il legislatore ha, invero, espressamente stabilito:
- che il prolungamento dell’efficacia del titolo edilizio non sia subordinato alla valutazione, da parte del Comune, della sussistenza dei rigorosi presupposti di cui all’articolo 15, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, ma operi a prescindere da ogni verifica in ordine alle circostanze che determinano il mancato rispetto del termine originariamente previsto;
- che, conseguentemente, il Comune sia chiamato unicamente a controllare, a seguito della comunicazione del privato, che quest’ultimo abbia dichiarato di avvalersi della proroga legittimamente, ossia in presenza di tutte le condizioni stabilite direttamente dalla norma primaria;
- che, in particolare, l’operatività della proroga sia subordinata alla circostanza che l’intervento non si ponga in contrasto con gli strumenti urbanistici approvati o anche solo adottati;
- che la proroga operi anche per gli interventi oggetto di denuncia di inizio di attività o di segnalazione certificata di inizio di attività, secondo quanto espressamente previsto dall’articolo 4 del medesimo articolo 30 del decreto legge n. 69 del 2013 (“La disposizione di cui al comma 3 si applica anche alle denunce di inizio attività e alle segnalazioni certificate di inizio attività presentate entro lo stesso termine”).
Si tratta, con ogni evidenza, di una previsione di carattere eccezionale e derogatorio rispetto al sistema, poiché la durata limitata nel tempo dei titoli edificatori risponde a esigenze di certezza e di tutela dell’interesse pubblico e della stessa potestà pianificatoria dei comuni; esigenze, queste, che sarebbero tutte frustrate dalla previsione della possibilità del protrarsi a tempo indeterminato delle attività comportanti la trasformazione del territorio. L’operatività del nuovo istituto è pertanto –coerentemente– circoscritta dallo stesso legislatore a un periodo determinato, e le relative previsioni sono valevoli una tantum.
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Ritiene il Collegio che plurime ragioni inducano a ritenere che la proroga straordinaria prevista dal decreto legge n. 69/2013 sia preclusa in ogni ipotesi di contrasto dell’intervento con gli strumenti urbanistici adottati o approvati, a prescindere dalla circostanza che i lavori siano iniziati o meno.
Tale tesi, invero:
- trova riscontro nel tenore letterale della disposizione, che non reca alcuna distinzione tra le diverse fattispecie astrattamente ipotizzabili;
- è coerente con la portata eccezionale della disposizione, che di per sé impone di riconoscere un’interpretazione restrittiva alla sua portata derogatoria rispetto al sistema;
- è ragionevole e coerente rispetto alla circostanza che la previsione opera indiscriminatamente su tutto il territorio nazionale e non consente alcun margine di valutazione ai Comuni; e invero, la totale preclusione di operatività della proroga in ogni caso di contrasto con strumenti urbanistici, anche solo adottati, trova adeguata giustificazione nella necessità di contemperare le eccezionali ragioni prese in considerazione dal legislatore con l’esigenza di salvaguardare l’autonomia degli Enti locali nell’esercizio delle proprie prerogative in materia di governo del territorio.
L’interpretazione letterale è, inoltre, l’unica che possa logicamente attribuirsi alla disposizione, al fine di riconoscere una portata applicativa ragionevole alle condizioni preclusive della proroga previste dal legislatore. E invero, in caso di incompatibilità dell’intervento con il piano approvato, la circostanza che i lavori non siano ancora avviati determina di per sé l’automatica decadenza del titolo edilizio (ai sensi dell’articolo 15, comma 4, del d.P.R. n. 380 del 2001). Conseguentemente, l’interpretazione proposta dalla parte ricorrente attribuirebbe un effettivo ambito di operatività alla condizione preclusiva della proroga stabilita dal legislatore nelle sole, limitate, ipotesi di contrasto dell’intervento, non ancora avviato, con un piano soltanto adottato, poiché unicamente in questo caso il titolo non decadrebbe (ai sensi del richiamato articolo 15, comma 4, del d.P.R. n. 380 del 2001) e sarebbe, tuttavia, non prorogabile (per effetto dell’articolo 30, comma 3, del decreto legge n. 69 del 2013).
In definitiva, per tutte le suesposte ragioni, il Collegio ritiene che la previsione normativa debba intendersi nel senso che la proroga una tantum sia esclusa in qualunque ipotesi di contrasto dell’intervento con strumenti urbanistici adottati o approvati.

1. Con il primo motivo la parte ricorrente allega l’illegittimità della nota del 20.01.2014, in quanto, a suo avviso, la possibilità di valersi –con riferimento alla denuncia di inizio di attività del 14.05.2010– della proroga del termine per l’ultimazione dei lavori prevista dall’articolo 30, comma 3, del decreto legge n. 69 del 2013, non sarebbe preclusa dal contrasto dell’intervento con lo strumento urbanistico sopravvenuto.
In particolare, il Fallimento ritiene che un’interpretazione della disposizione condotta alla luce della sua ratio e della volontà del legislatore dovrebbe indurre a concludere che la sopravvenienza di strumenti incompatibili precluderebbe solo la proroga del termine di inizio dei lavori, ma non anche del termine di conclusione dei lavori già avviati.
La tesi non può essere condivisa, per le ragioni che di seguito si espongono.
1.1 L’articolo 30, comma 3, del decreto legge dispone che “Salva diversa disciplina regionale, previa comunicazione del soggetto interessato, sono prorogati di due anni i termini di inizio e di ultimazione dei lavori di cui all'articolo 15 del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, come indicati nei titoli abilitativi rilasciati o comunque formatisi antecedentemente all'entrata in vigore del presente decreto, purché i suddetti termini non siano già decorsi al momento della comunicazione dell'interessato e sempre che i titoli abilitativi non risultino in contrasto, al momento della comunicazione dell'interessato, con nuovi strumenti urbanistici approvati o adottati. (...)”.
L’istituto della proroga straordinaria, introdotto in via di eccezione dalla suddetta disposizione normativa, prevede alcune rilevanti peculiarità rispetto alla proroga ordinaria.
Il legislatore ha, invero, espressamente stabilito:
- che il prolungamento dell’efficacia del titolo edilizio non sia subordinato alla valutazione, da parte del Comune, della sussistenza dei rigorosi presupposti di cui all’articolo 15, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, ma operi a prescindere da ogni verifica in ordine alle circostanze che determinano il mancato rispetto del termine originariamente previsto;
- che, conseguentemente, il Comune sia chiamato unicamente a controllare, a seguito della comunicazione del privato, che quest’ultimo abbia dichiarato di avvalersi della proroga legittimamente, ossia in presenza di tutte le condizioni stabilite direttamente dalla norma primaria;
- che, in particolare, l’operatività della proroga sia subordinata alla circostanza che l’intervento non si ponga in contrasto con gli strumenti urbanistici approvati o anche solo adottati;
- che la proroga operi anche per gli interventi oggetto di denuncia di inizio di attività o di segnalazione certificata di inizio di attività, secondo quanto espressamente previsto dall’articolo 4 del medesimo articolo 30 del decreto legge n. 69 del 2013 (“La disposizione di cui al comma 3 si applica anche alle denunce di inizio attività e alle segnalazioni certificate di inizio attività presentate entro lo stesso termine”).
Si tratta, con ogni evidenza, di una previsione di carattere eccezionale e derogatorio rispetto al sistema, poiché la durata limitata nel tempo dei titoli edificatori risponde a esigenze di certezza e di tutela dell’interesse pubblico e della stessa potestà pianificatoria dei comuni; esigenze, queste, che sarebbero tutte frustrate dalla previsione della possibilità del protrarsi a tempo indeterminato delle attività comportanti la trasformazione del territorio. L’operatività del nuovo istituto è pertanto –coerentemente– circoscritta dallo stesso legislatore a un periodo determinato, e le relative previsioni sono valevoli una tantum.
1.2 Ciò posto, ritiene il Collegio che plurime ragioni inducano a ritenere che la proroga straordinaria prevista dal decreto legge n. 69 del 2013 sia preclusa in ogni ipotesi di contrasto dell’intervento con gli strumenti urbanistici adottati o approvati, a prescindere dalla circostanza che i lavori siano iniziati o meno.
Tale tesi, invero:
- trova riscontro nel tenore letterale della disposizione, che non reca alcuna distinzione tra le diverse fattispecie astrattamente ipotizzabili;
- è coerente con la portata eccezionale della disposizione, che di per sé impone di riconoscere un’interpretazione restrittiva alla sua portata derogatoria rispetto al sistema;
- è ragionevole e coerente rispetto alla circostanza che la previsione opera indiscriminatamente su tutto il territorio nazionale e non consente alcun margine di valutazione ai Comuni; e invero, la totale preclusione di operatività della proroga in ogni caso di contrasto con strumenti urbanistici, anche solo adottati, trova adeguata giustificazione nella necessità di contemperare le eccezionali ragioni prese in considerazione dal legislatore con l’esigenza di salvaguardare l’autonomia degli Enti locali nell’esercizio delle proprie prerogative in materia di governo del territorio.
L’interpretazione letterale è, inoltre, l’unica che possa logicamente attribuirsi alla disposizione, al fine di riconoscere una portata applicativa ragionevole alle condizioni preclusive della proroga previste dal legislatore. E invero, in caso di incompatibilità dell’intervento con il piano approvato, la circostanza che i lavori non siano ancora avviati determina di per sé l’automatica decadenza del titolo edilizio (ai sensi dell’articolo 15, comma 4, del d.P.R. n. 380 del 2001). Conseguentemente, l’interpretazione proposta dalla parte ricorrente attribuirebbe un effettivo ambito di operatività alla condizione preclusiva della proroga stabilita dal legislatore nelle sole, limitate, ipotesi di contrasto dell’intervento, non ancora avviato, con un piano soltanto adottato, poiché unicamente in questo caso il titolo non decadrebbe (ai sensi del richiamato articolo 15, comma 4, del d.P.R. n. 380 del 2001) e sarebbe, tuttavia, non prorogabile (per effetto dell’articolo 30, comma 3, del decreto legge n. 69 del 2013).
1.3 In definitiva, per tutte le suesposte ragioni, il Collegio ritiene che la previsione normativa debba intendersi nel senso che la proroga una tantum sia esclusa in qualunque ipotesi di contrasto dell’intervento con strumenti urbanistici adottati o approvati.
Va, conseguentemente, respinto il primo motivo di ricorso (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 22.07.2015 n. 1764 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: L'articolo 13, comma 11, della legge regionale n. 12/2005 dispone espressamente che “Gli atti di PGT acquistano efficacia con la pubblicazione dell'avviso della loro approvazione definitiva sul Bollettino Ufficiale della Regione, da effettuarsi a cura del comune”. Da tale data, quindi, il piano determina la modificazione permanente della situazione giuridica dei suoli e, perciò, produce diretti effetti nella sfera giuridica dei proprietari dei terreni.
Di conseguenza, è da tale data che decorre anche il termine per l’impugnazione.
Conclusione, questa, che è in linea con quanto affermato dalla giurisprudenza, la quale ha ritenuto che è dal momento in cui sono espletate le modalità di pubblicazione previste dalla legge che decorre il termine per la proposizione del ricorso avverso lo strumento urbanistico.
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L’entrata in vigore di un nuovo strumento urbanistico determina di per sé una modificazione permanente della situazione giuridica dei suoli e, quindi, dispiega immediatamente un’efficacia lesiva nei confronti dei relativi proprietari.
Conseguentemente, laddove il piano abbia ridotto la capacità edificatoria del suolo, il proprietario è immediatamente leso da tale determinazione, e ha quindi l’onere di impugnarla entro l’ordinario termine di decadenza, decorrente dal termine di entrata in vigore dello strumento urbanistico.
La circostanza che il singolo proprietario possa, in quel momento storico, essere già in possesso di un titolo edificatorio che gli permette di realizzare quanto previsto dal precedente strumento urbanistico, non differisce da quella del proprietario che abbia già costruito o che, nel momento dell’entrata in vigore del piano, non abbia la possibilità o l’intenzione di costruire: si tratta, in tutti tali casi, di situazioni di mero fatto, che non incidono sulla oggettiva immediata lesività dello strumento urbanistico. Quest’ultimo è, invero, destinato a condizionare permanentemente le successive utilizzazioni dell’area e, quindi, incide in ogni caso sulle prerogative del proprietario, anche laddove un titolo edilizio sia già stato rilasciato o l’edificazione sia già stata completata in base al precedente strumento.
D’altro canto, ammettere che la parte in possesso di un titolo edificatorio possa impugnare il piano solo allorché, non essendo in grado di ultimare i lavori nel termine, si sia vista costretta ad avvalersi della proroga, equivale a differire i termini di decadenza per l’impugnazione dello strumento urbanistico da parte dei proprietari dei suoli –termini stabiliti per legge con fini di certezza giuridica– facendoli dipendere da una circostanza di mero fatto (la mancata ultimazione dei lavori nel termine), peraltro totalmente dipendente dal comportamento del soggetto interessato.
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La consolidata giurisprudenza della Sezione ha da tempo affermato, con orientamento che il Collegio pienamente condivide, che i termini per l’approvazione del PGT stabiliti dall’articolo 13, commi 7 e 7-bis, della legge regionale n. 12 del 2005 hanno carattere ordinatorio e non perentorio e, conseguentemente, il superamento di tali scadenze non determina il venir meno degli atti della procedura pianificatoria già compiuti (ndr: deliberazione di adozione).
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Secondo costante giurisprudenza, la semplice modifica in peius, rispetto al precedente strumento urbanistico, delle aspettative edificatorie di un fondo non determina, di per sé, l’onere per l’amministrazione di fornire alcuna particolare motivazione. E ciò salvo che ricorra una delle peculiari situazioni in relazione alle quali la giurisprudenza ha ritenuto che sussista un’aspettativa qualificata, tale da rendere necessaria una più intensa e specifica motivazione.
Nessuna di tali situazioni è, però ravvisabile nel caso di specie, posto che –anche laddove fosse comprovata la presenza di un lotto intercluso, che è un dato meramente affermato dalla parte– tale circostanza potrebbe rilevare, al più, unicamente laddove il nuovo strumento urbanistico avesse introdotto la modificazione in zona agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo.

2. Con il secondo motivo il Fallimento ricorrente allega una pluralità di censure contro il Piano di Governo del Territorio del Comune di Milano.
2.1 La parte afferma che il proprio interesse a ricorrere contro lo strumento urbanistico sarebbe sorto unicamente a seguito dell’esito negativo della comunicazione di proroga del titolo edilizio. Il piano sarebbe invero divenuto lesivo soltanto una volta che ha prodotto il concreto risultato di impedire il completamento dell’intervento già avviato.
Per questa ragione, il Fallimento chiede espressamente che –sulla base delle censure allegate nel ricorso– sia dichiarata in ogni caso l’inefficacia dell’intera procedura di pianificazione. E ciò al fine di ottenere, in esito alla riedizione del potere, la possibilità di fare salva la realizzazione dell’intervento oggetto della denuncia di inizio di attività del 14.05.2010, che era stato progettato sfruttando la capacità edificatoria attribuita all’area dal Piano Regolatore Generale previgente.
2.2 La difesa comunale eccepisce l’irricevibilità delle censure, in quanto proposte dopo la scadenza del termine per l’impugnazione del PGT, termine che dovrebbe decorrere necessariamente dalla data di pubblicazione dell’avviso di deposito sul Bollettino Ufficiale della Regione Lombardia, avvenuta il 22.11.2012.
2.3 L’eccezione comunale merita condivisione.
E invero, l’articolo 13, comma 11, della legge regionale n. 12 del 2005 dispone espressamente che “Gli atti di PGT acquistano efficacia con la pubblicazione dell'avviso della loro approvazione definitiva sul Bollettino Ufficiale della Regione, da effettuarsi a cura del comune”. Da tale data, quindi, il piano determina la modificazione permanente della situazione giuridica dei suoli e, perciò, produce diretti effetti nella sfera giuridica dei proprietari dei terreni.
Di conseguenza, è da tale data che decorre anche il termine per l’impugnazione.
Conclusione, questa, che è in linea con quanto affermato dalla giurisprudenza, la quale ha ritenuto che è dal momento in cui sono espletate le modalità di pubblicazione previste dalla legge che decorre il termine per la proposizione del ricorso avverso lo strumento urbanistico (Cons. Stato, Sez. IV, 19.07.2004, n. 5225; Id. 08.07.2003, n. 4040; Id., 23.11.2002, n. 6436).
Secondo la tesi della parte ricorrente, lo strumento urbanistico non sarebbe stato lesivo al momento dell’entrata in vigore, in quanto la Società, poi fallita, era in possesso a quella data di un titolo edificatorio efficace e non caducato dalla sopravvenienza del nuovo piano.
Al riguardo, deve tuttavia obiettarsi che la lesività del provvedimento amministrativo, e il conseguente interesse a invocare avverso di esso la tutela giurisdizionale, devono essere valutati in termini oggettivi, ossia tenendo conto dell’idoneità dell’atto a incidere sulla situazione giuridica del soggetto, e della correlata possibilità che l’intervento del giudice assicuri alla parte un risultato utile, in termini di eliminazione dell’effetto lesivo oggettivamente verificatosi.
Ora, l’entrata in vigore di un nuovo strumento urbanistico determina di per sé una modificazione permanente della situazione giuridica dei suoli e, quindi, dispiega immediatamente un’efficacia lesiva nei confronti dei relativi proprietari.
Conseguentemente, laddove il piano abbia ridotto la capacità edificatoria del suolo, il proprietario è immediatamente leso da tale determinazione, e ha quindi l’onere di impugnarla entro l’ordinario termine di decadenza, decorrente dal termine di entrata in vigore dello strumento urbanistico.
La circostanza che il singolo proprietario possa, in quel momento storico, essere già in possesso di un titolo edificatorio che gli permette di realizzare quanto previsto dal precedente strumento urbanistico, non differisce da quella del proprietario che abbia già costruito o che, nel momento dell’entrata in vigore del piano, non abbia la possibilità o l’intenzione di costruire: si tratta, in tutti tali casi, di situazioni di mero fatto, che non incidono sulla oggettiva immediata lesività dello strumento urbanistico. Quest’ultimo è, invero, destinato a condizionare permanentemente le successive utilizzazioni dell’area e, quindi, incide in ogni caso sulle prerogative del proprietario, anche laddove un titolo edilizio sia già stato rilasciato o l’edificazione sia già stata completata in base al precedente strumento.
D’altro canto, ammettere che la parte in possesso di un titolo edificatorio possa impugnare il piano solo allorché, non essendo in grado di ultimare i lavori nel termine, si sia vista costretta ad avvalersi della proroga, equivale a differire i termini di decadenza per l’impugnazione dello strumento urbanistico da parte dei proprietari dei suoli –termini stabiliti per legge con fini di certezza giuridica– facendoli dipendere da una circostanza di mero fatto (la mancata ultimazione dei lavori nel termine), peraltro totalmente dipendente dal comportamento del soggetto interessato.
Ciò che, ancora una volta, si pone in contrasto con i principi.
3. Pur tuttavia, anche a voler ammettere che –seguendo la tesi della parte ricorrente– l’interesse a impugnare il piano sia sorto solo e unicamente a seguito dell’impossibilità di ottenere la proroga del titolo edificatorio, le censure proposte non potrebbero ugualmente trovare accoglimento, per le ragioni che di seguito si espongono.
3.1 Quanto alla censura sopra indicata al punto II – (i), la consolidata giurisprudenza della Sezione ha da tempo affermato, con orientamento che il Collegio pienamente condivide, che i termini per l’approvazione del PGT stabiliti dall’articolo 13, commi 7 e 7-bis, della legge regionale n. 12 del 2005 hanno carattere ordinatorio e non perentorio e, conseguentemente, il superamento di tali scadenze non determina il venir meno degli atti della procedura pianificatoria già compiuti (TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 24.04.2015, n. 1032; Id., 19.11.2014, n. 2765; Id., 11.01.2013, n. 86; Id., 20.12.2010, n. 7614; Id., 10.12.2010, n. 7508).
3.2 Una volta escluso che la scadenza del termine per l’approvazione del PGT possa determinare il venir meno anche della precedente delibera di adozione, deve conseguentemente concludersi che l’eventuale accoglimento delle censure indicate al punto II – (ii), (iii) e (iv) non determinerebbe l’effetto ipotizzato dalla parte ricorrente, ossia la caducazione dell’intera procedura pianificatoria.
Si tratta, infatti, di censure dirette nei confronti degli atti dell’iter di formazione del PGT compiuti dopo la prima approvazione (cui, come sopra detto, è seguita la revoca della delibera di approvazione e la ripetizione dei passaggi procedimentali successivi alla presentazione delle osservazioni, fino a pervenire a una seconda approvazione). L’accoglimento delle doglianze articolate comporterebbe, quindi, la necessità di riportare la procedura pianificatoria allo stadio della prima approvazione o dell’adozione. Ciò, però, non consentirebbe alla parte di ottenere il risultato utile cui essa dichiara di aspirare e in relazione al quale prospetta il proprio interesse a ricorrere, ossia la caducazione dell’intero iter, al fine di fare salva la realizzazione dell’intervento oggetto della denuncia di attività del 2010, basata sulla capacità edificatoria attribuita all’area dal precedente Piano Regolatore Generale.
In questi termini, le censure sono, quindi, da ritenere in ogni caso inammissibili per difetto di interesse.
3.3 Analoga sorte riguarda la prima delle censure di cui al punto II – (v), con la quale si lamenta il difetto di specifica motivazione della scelta peggiorativa compiuta, con riferimento (anche) all’area della parte ricorrente, in occasione della seconda approvazione del PGT: pure in questo caso l’eventuale accoglimento della censura non determinerebbe il venir meno dell’intera procedura pianificatoria e, quindi, non potrebbe soddisfare l’interesse della parte ricorrente, come da essa stessa prospettato.
Quanto alla seconda censura prospettata nel motivo II – (v), la parte afferma che l’area di sua proprietà sarebbe un lotto intercluso e, quindi –sia in occasione della prima approvazione del PGT, che in occasione della seconda approvazione– sarebbe stata necessaria una particolare motivazione al fine di ridurre la relativa capacità edificatoria.
La doglianza è infondata.
Basta, al riguardo, tenere presente che, secondo costante giurisprudenza, la semplice modifica in peius, rispetto al precedente strumento urbanistico, delle aspettative edificatorie di un fondo non determina, di per sé, l’onere per l’amministrazione di fornire alcuna particolare motivazione (Cons. Stato, sez. IV, 23.06.2015 n. 3142; Id. 15.05.2012, n. 2759; Id., 13.07.2011, n. 4242; Id., 12.05.2011, n. 2683; Id., 24.02.2011, n. 1222; Id., 12.03.2009, n. 1477). E ciò salvo che ricorra una delle peculiari situazioni in relazione alle quali la giurisprudenza ha ritenuto che sussista un’aspettativa qualificata, tale da rendere necessaria una più intensa e specifica motivazione.
Nessuna di tali situazioni è, però ravvisabile nel caso di specie, posto che –anche laddove fosse comprovata la presenza di un lotto intercluso, che è un dato meramente affermato dalla parte– tale circostanza potrebbe rilevare, al più, unicamente laddove il nuovo strumento urbanistico avesse introdotto la modificazione in zona agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo (v. TAR Lombardia, Milano, 22.07.2014, n. 1972).
Nel caso di specie, non è però allegato che il PGT abbia introdotto alcuna previsione specifica per l’area della parte ricorrente, né che abbia azzerato la capacità edificatoria del fondo, risultando che sia stata unicamente prevista una riduzione della capacità edificatoria.
Scelta, questa, che evidentemente non richiedeva in sé alcuna specifica motivazione, oltre a quella evincibile dai criteri generali di impostazione del piano.
3.4 In definitiva, tutte le censure articolate dalla ricorrente contro il PGT sono irricevibili e, comunque, anche inammissibili o infondate nel merito (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 22.07.2015 n. 1764 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’improrogabilità dei termini per l’ultimazione dei lavori oggetto di d.i.a. –beninteso, ordinariamente, e al di fuori dell’ambito di applicazione dell’istituto introdotto una tantum dal decreto legge n. 69 del 2013, secondo quanto sopra detto– costituisce un tratto caratterizzante dell’istituto della denuncia di inizio di attività, chiaramente delineato dalla disciplina normativa di fonte statale e regionale, come del resto affermato dalla giurisprudenza.
Basti, al riguardo, tenere presente che:
- l’articolo 15, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, nel prevedere la proroga “ordinaria” dei termini dei lavori, si riferisce espressamente al solo permesso di costruire;
- l’articolo 23, comma 2, del medesimo d.P.R. n. 380 del 2001, dopo aver previsto che la denuncia di inizio attività sia “sottoposta al termine massimo di efficacia pari a tre anni” (così il primo periodo), stabilisce esplicitamente che “La realizzazione della parte non ultimata dell'intervento è subordinata a nuova denuncia” (così il secondo periodo);
- l’articolo 42, comma 6, della legge regionale n. 12 del 2005 parimenti dispone che “I lavori oggetto della denuncia di inizio attività devono essere iniziati entro un anno dalla data di efficacia della denuncia stessa ed ultimati entro tre anni dall'inizio dei lavori. La realizzazione della parte di intervento non ultimata nel predetto termine è subordinata a nuova denuncia (...)”.
Per altro verso, la non prorogabilità, ordinariamente, dei termini di ultimazione dei lavori oggetto di denuncia di inizio attività è suffragata anche da un ulteriore argomento a contrario, evincibile proprio dalla previsione dell’articolo 30, comma 4, del decreto legge n. 69 del 2013, che ha espressamente e appositamente previsto l’applicazione della proroga straordinaria ed eccezionale dei termini di ultimazione dei lavori anche con riferimento agli interventi oggetto di denuncia di inizio attività.
Il legislatore ha quindi evidentemente inteso stabilire, anche sotto questo profilo, una deroga al regime ordinario, che di per sé esclude espressamente la possibilità per l’Amministrazione di spostare in avanti i termini di ultimazione degli interventi oggetto di denuncia di inizio attività.
Il regime giuridico così delineato risulta, peraltro, non irragionevole –in considerazione della natura e dei caratteri della denuncia di inizio attività– né discriminante rispetto a quello, diverso, stabilito per il permesso di costruire, atteso altresì che costituisce pur sempre una facoltà dell’interessato scegliere di richiedere quest’ultimo titolo, in luogo di avvalersi dell’istituto della d.i.a..

4. Venendo ai motivi aggiunti, va respinto il mezzo indicato come terzo.
E invero, essendo allegata l’illegittimità derivata del secondo diniego di proroga rispetto al PGT, il rigetto delle censure dirette contro lo strumento urbanistico comporta che uguale sorte debbano seguire anche tali prospettate doglianze di illegittimità derivata.
5. Quanto alle ulteriori censure, deve rilevarsi che il secondo diniego di proroga della d.i.a. reca due distinte motivazioni, poiché in esso si legge:
- “Richiamato l’articolo 15.2 del D.P.R. n. 380/2001 il nuovo titolo abilitativo conseguito con Dia non può ritenersi pertanto idoneo al fine dell’ottenimento di una eventuale proroga della fine dei lavori”;
- “Si fa presente infine che le opere ancora da realizzare consistono nella completa realizzazione dei fabbricati in progetto, elemento significativo nel considerare le prescrizioni del nuovo strumento urbanistico prevalenti sulla volontà di portare a compimento un’opera ora in contrasto con la normativa attualmente in vigore”.
Ora, la parte ricorrente dirige le proprie censure –nel motivo rubricato come quinto nel ricorso per motivi aggiunti– unicamente contro questa seconda ragione posta alla base del provvedimento impugnato. Nessuna censura è invece espressamente articolata nel ricorso contro la prima delle motivazioni indicate dall’Amministrazione, ossia l’impossibilità di carattere generale di prorogare i termini per l’esecuzione degli interventi oggetto di denunce d’inizio attività.
D’altro canto, anche a voler tenere conto di quanto affermato dalla parte in memoria, laddove essa allega l’irragionevolezza e la disparità di trattamento, rispetto al regime del permesso di costruire, che deriverebbe dall’improrogabilità della d.i.a., prospettando l’illegittimità costituzionale della relativa disciplina (v. memoria del 02.04.2015, p. 5 e pp. 11 e s.), il Collegio ritiene che la motivazione addotta dal Comune sia insuperabile, per le ragioni che di seguito si espongono.
Deve, anzitutto, rilevarsi che l’improrogabilità dei termini per l’ultimazione dei lavori oggetto di d.i.a. –beninteso, ordinariamente, e al di fuori dell’ambito di applicazione dell’istituto introdotto una tantum dal decreto legge n. 69 del 2013, secondo quanto sopra detto– costituisce un tratto caratterizzante dell’istituto della denuncia di inizio di attività, chiaramente delineato dalla disciplina normativa di fonte statale e regionale, come del resto affermato dalla giurisprudenza (v. Cons. Stato, Sez. IV, 11.12.2013, n. 5969, che conferma la sentenza di questa Sezione, 08.03.2013, n. 619).
Basti, al riguardo, tenere presente che:
- l’articolo 15, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, nel prevedere la proroga “ordinaria” dei termini dei lavori, si riferisce espressamente al solo permesso di costruire;
- l’articolo 23, comma 2, del medesimo d.P.R. n. 380 del 2001, dopo aver previsto che la denuncia di inizio attività sia “sottoposta al termine massimo di efficacia pari a tre anni” (così il primo periodo), stabilisce esplicitamente che “La realizzazione della parte non ultimata dell'intervento è subordinata a nuova denuncia” (così il secondo periodo);
- l’articolo 42, comma 6, della legge regionale n. 12 del 2005 parimenti dispone che “I lavori oggetto della denuncia di inizio attività devono essere iniziati entro un anno dalla data di efficacia della denuncia stessa ed ultimati entro tre anni dall'inizio dei lavori. La realizzazione della parte di intervento non ultimata nel predetto termine è subordinata a nuova denuncia (...)”.
Per altro verso, la non prorogabilità, ordinariamente, dei termini di ultimazione dei lavori oggetto di denuncia di inizio attività è suffragata anche da un ulteriore argomento a contrario, evincibile proprio dalla previsione dell’articolo 30, comma 4, del decreto legge n. 69 del 2013, che ha espressamente e appositamente previsto l’applicazione della proroga straordinaria ed eccezionale dei termini di ultimazione dei lavori anche con riferimento agli interventi oggetto di denuncia di inizio attività.
Il legislatore ha quindi evidentemente inteso stabilire, anche sotto questo profilo, una deroga al regime ordinario, che di per sé esclude espressamente la possibilità per l’Amministrazione di spostare in avanti i termini di ultimazione degli interventi oggetto di denuncia di inizio attività.
Il regime giuridico così delineato risulta, peraltro, non irragionevole –in considerazione della natura e dei caratteri della denuncia di inizio attività– né discriminante rispetto a quello, diverso, stabilito per il permesso di costruire, atteso altresì che costituisce pur sempre una facoltà dell’interessato scegliere di richiedere quest’ultimo titolo, in luogo di avvalersi dell’istituto della d.i.a. (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 22.07.2015 n. 1764 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Accesso a tutti i dati delle cartelle esattoriali. Tar di Napoli. La Pa non può eccepire problemi tecnici per rifiutare la domanda o rilasciare documenti parziali.
Il principio di trasparenza della Pa impone di garantire ai contribuenti o alla stessa Pa il diritto di accesso alle cartelle esattoriali, ovvero di estrarre copia e prendere visione dell’intero atto e non di un suo estratto.
L’ha chiarito il TAR Campania-Napoli -Sez. VI- nella sentenza 17.07.2015 n. 3820, accogliendo il ricorso di un legale contro il no delle Entrate alla liquidazione di contributi unificati da lui versati in eccesso in due giudizi amministrativi, avendone disposto la compensazione con debiti erariali pendenti, secondo l’articolo 28-ter del Dpr 602/1973.
Essendo a lui sconosciuti e mai notificati, il professionista aveva chiesto l’accesso agli avvisi di accertamento e alle cartelle di pagamento (e atti collegati) in base alle norme sull’ «Accesso ai documenti amministrativi», (articoli 22-28 della legge 241/1990). L’Agenzia aveva fornito solo gli estratti di ruolo col totale dei debiti, sostenendo la non accessibilità degli atti d’esecuzione forzata e di non averne copia, poiché inviati in unico originale al contribuente.
I giudici hanno spiegato invece che la citata legge sulla riscossione all’articolo 26 «obbliga i concessionari della riscossione a conservare per cinque anni la matrice o la copia della cartella con la relazione dell’avvenuta notificazione o l’avviso del ricevimento e a farne esibizione su richiesta del contribuente o dell’amministrazione» e che tale norma «non si pone in contrasto con l’esclusione dell’accesso ai procedimenti tributari sancita dall’articolo 24 della legge 241/1990 (…) volta a preservare la fase temporale strettamente necessaria all’istruttoria ed all’accertamento dell’obbligazione».
Per il Tar, la Pa poi «non può eccepire la presenza di impedimenti tecnici che ostacolino l’accesso, o rilasciare un documento equipollente o incompleto, in quanto l’elemento fondante dell’actio ad exhibendum è proprio la conformità del documento esibito dal privato cittadino all’originale», posto che «il contribuente vanta un interesse concreto e attuale all’ostensione delle cartelle esattoriali dalla cui conoscenza possano emergere vizi sostanziali procedimentali tali da palesare l’illegittimità totale o parziale della pretesa».
Come affermato nella sentenza, per garantire tale interesse «non è sufficiente il mero deposito, in semplice copia, agli atti del fascicolo di causa degli estratti di ruolo», poiché «la cartella di pagamento e l’estratto di ruolo sono in realtà documenti diversi».
Secondo il collegio, mentre «la cartella esattoriale, prevista dall’articolo 25 del Dpr 602/1973 è un documento per la riscossione degli importi contenuti nei ruoli e deve essere predisposta secondo il modello (…) del ministero delle Finanze»; al contrario «gli estratti di ruolo depositati agli atti di causa sono solo un elaborato informatico formato dall’esattore che, sebbene sostanzialmente contenente gli stessi elementi della cartella originale sono, di fatto, un surrogato della medesima, e non possono ritenersi ad essa equipollente, mentre il diritto di estrarre copia e prendere visione di documenti amministrativi fa rifermento propriamente ad atti amministrativi e non a succedanei di questi»
(articolo Il Sole 24 Ore del 13.08.2015).

EDILIZIA PRIVATA: I dissuasori si installano con la Scia.
Per posizionare dissuasori davanti a casa, al fine di impedire la sosta delle auto, è sufficiente la Scia.

Lo ha chiarito il Consiglio di Stato, Sez. VI, con la sentenza 16.07.2015 n. 3554.
In sostanza, se non è stata eseguita nessuna opera muraria significativa ed i paletti, uniti al suolo mediante un basamento di calcestruzzo, avvitati con bulloni, non è necessario attendere l'autorizzazione dal Comune. Nel caso specifico, si era trattato di opere finalizzate a delimitare una proprietà e consentivano, comunque, l'accesso a tutti, salvo che alle autovetture.
Insomma, c'erano i presupposti, contrariamente a quanto aveva affermato il Tar, per ritenere che il posizionamento dei paletti posti davanti ai negozi ed al portone di accesso delle abitazioni, fosse inidoneo a incidere sull'assetto edilizio del territorio.
La realizzazione dei paletti, in pratica, va considerata elemento accessorio (art. 3, comma 1, lett. c) del T.u. 380/2001 del 2001) con la conseguenza che nessun ordine di demolizione può essere emesso, se non il pagamento di una sanzione (articolo ItaliaOggi Sette del 17.08.2015).

APPALTI FORNITURE E SERVIZILo scorporo omesso non invalida la gara. APPALTI/ Una decisione del Consiglio di stato.
Per gli appalti di forniture e di servizi, ove la lex specialis non commini espressamente la sanzione espulsiva, l'omessa indicazione nell'offerta dello scorporo matematico degli oneri per la sicurezza da rischio specifico non comporta di per sé l'esclusione dalla gara.

Lo hanno ribadito i giudici della III Sez. del Consiglio di Stato con la sentenza 14.07.2015 n. 3517.
In ossequio ad una indicazione giurisprudenziale, i giudici di palazzo Spada hanno altresì ribadito che per gli appalti pubblici diversi da quelli sui lavori pubblici, vige la norma dettata ad hoc dall'art. 131 del dlgs 163/2006, in virtù del quale la relativa quantificazione è rimessa al piano di sicurezza e coordinamento ex art. 100 del dlgs 09.04.2008 n. 81, predisposto dalla stazione appaltante, fermo sempre restando l'obbligo di verifica dell'adeguatezza degli oneri stessi per tutti i contratti pubblici in forza dell'art. 86, comma 3-bis, del medesimo decreto n. 163 (si veda, tra le altre: Cons. st., V, 03.02.2015 n. 512).
I supremi giudici amministrativi hanno, poi, sottolineato che l'indicazione, o meno, degli oneri certamente rileva, ma ai fini dell'eventuale anomalia del prezzo offerto, nel senso che il momento di valutazione dei suddetti oneri è non già eliso, bensì solo differito al sub-procedimento di verifica della congruità dell'offerta nel suo complesso (cfr. così Cons. st., V, 23.02.2015 n. 884; id., III, n. 2388/2015, cit.). La ragione va rinvenuta appunto nell'art. 87, comma 4, del dlgs 163/2006, laddove «nella valutazione dell'anomalia la stazione appaltante tiene conto dei costi relativi alla sicurezza, che devono essere specificamente indicati nell'offerta e risultare congrui rispetto all'entità e alle caratteristiche dei servizi o delle forniture».
Secondo il Consiglio di stato «il dato testuale non conclude nel senso dell'obbligo d'uno scorporo matematico specifico a pena di esclusione in sede d'offerta, ché, invece, detti oneri sono elementi dell'offerta stessa che vanno specificati e verificati ai soli fini del giudizio d'anomalia».
Pertanto, nelle procedure a evidenza pubblica la regola di specificazione (o di separata indicazione) dei costi di sicurezza, ai sensi di citati artt. 86 e 87, opera in via primaria nei confronti dei soggetti aggiudicatori nel predisporre le gare di appalto e nella valutazione dell'anomalia: però l'assenza di tale scorporo, fin dalla fase di presentazione dell'offerta, si risolve in una causa d'esclusione automatica dalla gara, né in sé, né con riguardo al principio di tassatività della cause espulsive previsti dal precedente art. 46, comma 1-bis (articolo ItaliaOggi Sette del 17.08.2015).
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MASSIMA
Lamenta anzitutto l’appellante il mancato scorporo matematico, da parte dell’aggiudicataria, degli oneri per la sicurezza da rischio specifico in offerta, per vero non avvenuto, ancorché non consti un obbligo specifico nella lex specialis di gara.
Ora, non sfugge al Collegio che,
per gli appalti pubblici diversi da quelli sui lavori pubblici, vige la norma dettata ad hoc dall'art. 131 del Dlgs 163/2006, in virtù del quale la relativa quantificazione è rimessa al piano di sicurezza e coordinamento ex art. 100 del Dlgs 09.04.2008 n. 81, predisposto dalla stazione appaltante, fermo sempre restando l'obbligo di verifica dell'adeguatezza degli oneri stessi per tutti i contratti pubblici in forza dell'art. 86, c. 3-bis, del medesimo decreto n. 163 (cfr., p. es., Cons. St., V, 03.02.2015 n. 512).
Ma per gli appalti di forniture e di servizi, nei cui riguardi vige una disciplina differente, il principio da questa desumibile è nel senso che, ove la lex specialis non commini espressamente la sanzione espulsiva, l'omessa indicazione nell'offerta dello scorporo matematico di detti oneri non comporta di per sé l'esclusione dalla gara (cfr., per tutti, Cons. St., V, 02.10.2014 n. 4907; id. III, 15.05.2015 n. 2388).
L’indicazione, o meno, degli oneri rileva sì, ma ai fini dell'eventuale anomalia del prezzo offerto, nel senso che il momento di valutazione dei suddetti oneri è non già eliso, bensì solo differito al sub-procedimento di verifica della congruità dell'offerta nel suo complesso (cfr. così Cons. St., V, 23.02.2015 n. 884; id., III, n. 2388/2015, cit.).
La ragione va rinvenuta appunto nell'art. 87, c. 4, del Dlgs 163/2006, laddove «… nella valutazione dell'anomalia la stazione appaltante tiene conto dei costi relativi alla sicurezza, che devono essere specificamente indicati nell'offerta e risultare congrui rispetto all'entità e alle caratteristiche dei servizi o delle forniture…». Il dato testuale non conclude nel senso dell’obbligo d’uno scorporo matematico specifico a pena di esclusione in sede d’offerta, ché, invece, detti oneri sono elementi dell’offerta stessa che vanno specificati e verificati ai soli fini del giudizio d’anomalia.
La ratio del puntuale richiamo, nell'art. 87, c. 4, II per., circa la specifica indicazione dei costi per la sicurezza per le offerte negli appalti di servizi e forniture si riferisce alla particolare tipologia delle prestazioni richieste per essi rispetto a quelli per lavori, non già come obbligo delle imprese che vi partecipano (se non in termini di congruità complessiva delle rispettive offerte) e men che mai a pena d’esclusione, neanche implicita o in via d’eterointegrazione della lex specialis (arg. ex Cons. St., III, 24.06.2014 n. 3195, con ampi riferimenti a precedenti conformi; id., VI, 05.01.2015 n. 18).
È appena da soggiungere che
l’eterointegrazione intanto trova una giustificazione, in quanto occorra conformare il contenuto del programma di obbligazioni dedotte in un contratto ad esigenze imperative non disponibili dalle parti. Ebbene, la Sezione (cfr. Cons. St., III, 18.10.2013 n. 5069) ha chiarito che l’eterointegrazione della lex specialis si ha solo con riguardo ed in presenza di norme imperative che già in sé rechino in modo rigoroso, evidente e predefinito l’elemento che si deve sostituire alla clausola difforme, e non quando alle parti spetti di definire in via autonoma il quantum del corrispettivo e dei relativi elementi.
Sicché,
è vero che nelle procedure a evidenza pubblica la regola di specificazione (o di separata indicazione) dei costi di sicurezza, ai sensi di citati artt. 86 e 87, opera in via primaria nei confronti dei soggetti aggiudicatori nel predisporre le gare di appalto e nella valutazione dell'anomalia. Non per ciò solo, tuttavia, l'assenza di tal scorporo, fin dalla fase di presentazione dell'offerta, si risolve in una causa d’esclusione automatica dalla gara, né in sé, né con riguardo al principio di tassatività della cause espulsive previsti dal precedente art. 46, c. 1-bis.
Di ciò il TAR ha dato buona e precisa contezza, nei termini fin qui visti e, di conseguenza, non vi sono ragioni per riformare l’appellata sentenza sul punto e, nonostante il diverso avviso di altra Sezione in ordine alla rimessione all’Adunanza plenaria di questione analoga.

ATTI AMMINISTRATIVIErrori scusabili, prova alla p.a.. Il privato può limitarsi a invocare l'illegittimità dell'atto. Il Tar Molise evidenzia in una sentenza anche la tipizzazione delle situazioni esimenti.
In sede di giudizio per il risarcimento del danno derivante da provvedimento amministrativo illegittimo, il privato danneggiato può limitarsi a invocare l'illegittimità dell'atto quale indice presuntivo della colpa, restando a carico dell'amministrazione pubblica l'onere di dimostrare che si è trattato di un errore scusabile.
È quanto è stato ribadito dai giudici del TAR Molise, con la sentenza 10.07.2015 n. 303.
I giudici amministrativi campobassani hanno altresì evidenziato che la giurisprudenza (si vedano: Cds, sez. III, n. 2452/2013; sez. V, n. 798/2013; sez. VI, n. 1114/2007) ha dato un rilevante contributo nel tipizzare talune situazioni, sulla base delle quali può ritenersi che l'emanazione dell'atto illegittimo sia stata determinata da un errore scusabile.
Va, pertanto, ad integrare «gli estremi dell'esimente da responsabilità l'esistenza di: a) contrasti giurisprudenziali sull'interpretazione di una norma; b) una formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore; c) una rilevante complessità del fatto; d) una illegittimità derivante da una successiva dichiarazione di incostituzionalità della norma applicata».
È stato, poi, nella medesima sentenza ribadito che il danno esistenziale non rappresenta una voce autonoma, poiché ad eccezione dei casi determinati dalla legge ordinaria, solo la lesione di un diritto inviolabile della persona concretamente individuato risulta essere fonte di responsabilità risarcitoria non patrimoniale; pertanto, conseguenzialmente, non potranno considerarsi meritevoli di tutela risarcitoria i pregiudizi consistenti in disagi, fastidi, disappunti, e in ogni altro tipo di insoddisfazione concernente gli aspetti più disparati della vita quotidiana che ciascuno conduce nel contesto sociale; nel contesto dell'art. 2059 c.c. trovano, infatti, tutela solo le violazioni gravi di diritti inviolabili della persona, non altrimenti rimediabili.
E in particolare tale tipologia di danno non può ritenersi in re ipsa, ma può essere ammessa a riparazione solo nel caso in cui consegua a violazioni gravi di diritti costituzionali della persona «che, sul piano ontologico, superino la soglia della tollerabilità e siano qualificate dalla serietà dell'offesa e dalla gravità delle conseguenze nella sfera personale» (TAR Napoli Campania sezione VI, 02.04.2014, n. 1902).
Non possono, invece, considerarsi meritevoli di tutela risarcitoria i pregiudizi consistenti in meri disagi, disappunti e in ogni altro tipo di insoddisfazione concernente gli aspetti più disparati della vita quotidiana che ciascuno conduce nel contesto sociale (articolo ItaliaOggi Sette del 17.08.2015).
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MASSIMA
Accertata quindi la spettanza del trasferimento anelato dal ricorrente, occorre verificare la sussistenza degli ulteriori elementi, sopra citati, costitutivi dell’illecito, ovvero la colpa dell’Amministrazione e il nesso di causalità.
Orbene, quanto al primo, la giurisprudenza amministrativa ha chiarito che,
in sede di giudizio per il risarcimento del danno derivante da provvedimento amministrativo illegittimo, il privato danneggiato può limitarsi a invocare l'illegittimità dell’atto quale indice presuntivo della colpa, restando a carico dell'Amministrazione l'onere di dimostrare che si è trattato di un errore scusabile (Cons. Stato, Sez. V, n. 4337/2012).
Sul punto, peraltro,
la giurisprudenza ha contribuito a tipizzare alcune situazioni, sulla base delle quali può ritenersi che l’emanazione dell’atto illegittimo sia stata determinata da un errore scusabile.
In particolare, si ritiene costantemente
(cfr. C.d.S., Sez. III, n. 2452/2013; Sez. V, n. 798/2013; Sez. VI, n. 1114/2007) che integri gli estremi dell’esimente da responsabilità l’esistenza di: a) contrasti giurisprudenziali sull’interpretazione di una norma; b) una formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore; c) una rilevante complessità del fatto; d) una illegittimità derivante da una successiva dichiarazione di incostituzionalità della norma applicata.
...
Con riguardo al danno non patrimoniale il ricorrente asserisce di aver subito un danno esistenziale consistente nel peggioramento della qualità della vita che dipenderebbe dall’aver dovuto percorrere centinaia di chilometri al giorno per spostarsi da una città all’altra, con la preoccupazione di dover lasciare la madre senza assistenza con nocumento all’armonia familiare in ragione della scarsità del tempo a disposizione a causa dei continui spostamenti.
Al riguardo ritiene il Collegio che tale danno non possa essere risarcito, dovendosi richiamare il condiviso precedente giurisprudenziale, secondo il quale
il danno esistenziale non costituisce una voce autonoma, in quanto al di fuori dei casi determinati dalla legge ordinaria, solo la lesione di un diritto inviolabile della persona concretamente individuato è fonte di responsabilità risarcitoria non patrimoniale; conseguentemente non sono meritevoli di tutela risarcitoria i pregiudizi consistenti, come quello addotto nella specie, in disagi, fastidi, disappunti, e in ogni altro tipo di insoddisfazione concernente gli aspetti più disparati della vita quotidiana che ciascuno conduce nel contesto sociale; nel contesto dell'art. 2059 c.c. trovano, infatti, tutela solo le violazioni gravi di diritti inviolabili della persona, non altrimenti rimediabili (in tal senso Cass. ss.uu., 11.11.2008, n. 26972; Cons. Stato, sez. VI, 23.03.2009, n. 1716; TAR Sicilia, sez. III, 27.01.2015, n. 245).
In particolare
tale tipologia di danno non può ritenersi in re ipsa, ma può essere ammessa a riparazione solo qualora consegua a violazioni gravi di diritti costituzionali della persona che, sul piano ontologico, superino la soglia della tollerabilità e siano qualificate dalla serietà dell'offesa e dalla gravità delle conseguenze nella sfera personale; non sono, invece, meritevoli di tutela risarcitoria i pregiudizi consistenti in meri disagi, disappunti e in ogni altro tipo di insoddisfazione concernente gli aspetti più disparati della vita quotidiana che ciascuno conduce nel contesto sociale (TAR Napoli Campania sez. VI, 02.04.2014, n. 1902).

AMBIENTE-ECOLOGIALa sezione condivide l'impostazione del TAR secondo cui le norme di cui agli artt. 242 e segg. del d.lgs. n. 152/2006 vanno interpretate nel senso che l'obbligo di adottare le misure dirette a fronteggiare la situazione di inquinamento incombe su colui che di tale situazione sia responsabile per avervi dato causa.
La fonte dell'obbligo di procedere alla messa in sicurezza e all'eventuale bonifica del sito inquinato si identifica, cioè, nella responsabilità dell'autore dell'inquinamento, sicché al proprietario non responsabile di quest’ultimo -e in questo senso «incolpevole»- non è addossabile alcun obbligo di bonificare o di mettere in sicurezza.
Invero, l'Adunanza plenaria di questo Consiglio ha enunciato i seguenti principi:
"Gli art. 244, 245 e 253 d.lgs. n. 152 del 2006 vanno interpretati nel senso che, in caso di accertata contaminazione di un sito, e di impossibilità di individuarne il soggetto responsabile o di ottenere da quest'ultimo interventi di riparazione, l’Amministrazione non può imporre al proprietario non responsabile, che ha solo una responsabilità patrimoniale limitata al valore del sito dopo il compimento degli interventi di bonifica, l'esecuzione delle misure di sicurezza d'emergenza e di bonifica.
Ai sensi dell'art. 242 del d.lgs. n. 152/2006, infatti, è il responsabile dell'inquinamento il soggetto sul quale gravano gli obblighi di messa in sicurezza, bonifica e ripristino ambientale in presenza di uno stato di contaminazione.
Il proprietario non responsabile è gravato di una specifica obbligazione di «facere», che riguarda l'adozione delle misure di prevenzione ex art. 242, comma 1 (che sono quelle da intraprendere «entro ventiquattro ore», al verificarsi di un evento potenzialmente in grado di contaminare il sito). A carico del proprietario dell'area che non sia altresì qualificabile come responsabile dell'inquinamento, non incombe alcun ulteriore obbligo di «facere»; in particolare, egli non è tenuto a porre in essere gli interventi di messa in sicurezza d'emergenza e di bonifica, ma ha solo la facoltà di eseguirli, per mantenere l'area libera da pesi (art. 245).
Pertanto, nell'ipotesi di mancata individuazione del responsabile, o di mancata esecuzione degli interventi in esame da parte sua –e sempreché non provvedano spontaneamente né il proprietario del sito, né altri soggetti interessati–, le opere di recupero ambientale devono essere eseguite dall'Amministrazione competente (art. 250), che potrà poi rivalersi sul proprietario del sito, nei limiti del valore dell'area bonificata, anche esercitando, ove la rivalsa non vada a buon fine, le garanzie gravanti sul terreno oggetto dei medesimi interventi (art. 253).
L’Adunanza plenaria, infine, con la stessa pronuncia ha rimesso alla Corte di giustizia dell'Unione europea la questione pregiudiziale tesa a stabilire se ostassero alla normativa nazionale così delineata i principi dell'Unione europea in materia ambientale sanciti dall'art. 191, par. 2, del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea e dalla direttiva 2004/35/Ce del 21.04.2004 (in particolare, il principio «chi inquina paga», il principio di precauzione, il principio dell'azione preventiva, il principio, della correzione, in via prioritaria, alla fonte, dei danni causati all'ambiente)".

6a Il primo Giudice ha rilevato che le norme di cui agli artt. 242 e segg. del d.lgs. n. 152/2006 vanno interpretate nel senso che l'obbligo di adottare le misure dirette a fronteggiare la situazione di inquinamento incombe su colui che di tale situazione sia responsabile per avervi dato causa.
La fonte dell'obbligo di procedere alla messa in sicurezza e all'eventuale bonifica del sito inquinato si identifica, cioè, nella responsabilità dell'autore dell'inquinamento, sicché al proprietario non responsabile di quest’ultimo -e in questo senso «incolpevole»- non è addossabile alcun obbligo di bonificare o di mettere in sicurezza.
6b La Sezione condivide questa impostazione, attesa la sua conformità agli orientamenti della Adunanza plenaria di questo Consiglio, che con la decisione del 25.09.2013, n. 21, ha enunciato, invero, i seguenti principi.
Gli art. 244, 245 e 253 d.lgs. n. 152 del 2006 vanno interpretati nel senso che, in caso di accertata contaminazione di un sito, e di impossibilità di individuarne il soggetto responsabile o di ottenere da quest'ultimo interventi di riparazione, l’Amministrazione non può imporre al proprietario non responsabile, che ha solo una responsabilità patrimoniale limitata al valore del sito dopo il compimento degli interventi di bonifica, l'esecuzione delle misure di sicurezza d'emergenza e di bonifica.
Ai sensi dell'art. 242 del d.lgs. n. 152/2006, infatti, è il responsabile dell'inquinamento il soggetto sul quale gravano gli obblighi di messa in sicurezza, bonifica e ripristino ambientale in presenza di uno stato di contaminazione.
Il proprietario non responsabile è gravato di una specifica obbligazione di «facere», che riguarda l'adozione delle misure di prevenzione ex art. 242, comma 1 (che sono quelle da intraprendere «entro ventiquattro ore», al verificarsi di un evento potenzialmente in grado di contaminare il sito). A carico del proprietario dell'area che non sia altresì qualificabile come responsabile dell'inquinamento, non incombe alcun ulteriore obbligo di «facere»; in particolare, egli non è tenuto a porre in essere gli interventi di messa in sicurezza d'emergenza e di bonifica, ma ha solo la facoltà di eseguirli, per mantenere l'area libera da pesi (art. 245).
Pertanto, nell'ipotesi di mancata individuazione del responsabile, o di mancata esecuzione degli interventi in esame da parte sua –e sempreché non provvedano spontaneamente né il proprietario del sito, né altri soggetti interessati–, le opere di recupero ambientale devono essere eseguite dall'Amministrazione competente (art. 250), che potrà poi rivalersi sul proprietario del sito, nei limiti del valore dell'area bonificata, anche esercitando, ove la rivalsa non vada a buon fine, le garanzie gravanti sul terreno oggetto dei medesimi interventi (art. 253).
L’Adunanza plenaria, infine, con la stessa pronuncia ha rimesso alla Corte di giustizia dell'Unione europea la questione pregiudiziale tesa a stabilire se ostassero alla normativa nazionale così delineata i principi dell'Unione europea in materia ambientale sanciti dall'art. 191, par. 2, del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea e dalla direttiva 2004/35/Ce del 21.04.2004 (in particolare, il principio «chi inquina paga», il principio di precauzione, il principio dell'azione preventiva, il principio, della correzione, in via prioritaria, alla fonte, dei danni causati all'ambiente).
La Corte di Giustizia, con la sentenza della Sez. III 04.03.2015, n. 534, si è pronunciata in senso negativo, rilevando che la disciplina comunitaria non osta ad una normativa nazionale dai contenuti sopra sintetizzati.
6c La Corte di Giustizia nell’occasione ha puntualizzato che il principio «chi inquina paga», con il corollario dell’immunità del proprietario incolpevole, varrebbe solo a partire dall’aprile del 2007, dovendo farsi riferimento per il periodo anteriore ai contenuti del diritto nazionale.
Da ciò le Amministrazioni parti in causa hanno tratto allora l’illazione che la soc. M. potrebbe ben essere reputata responsabile per i fatti anteriori al 2007.
A tanto l’originaria ricorrente ha però stato esattamente obiettato che:
- il rilievo avrebbe richiesto la proposizione di un rituale motivo d’appello avverso la sentenza in epigrafe, condizione che non è stata soddisfatta;
- il provvedimento amministrativo impugnato (e, di riflesso, la presente controversia) riguarda, in ogni caso, solo la determinazione dell’aggravamento del cd «inquinamento storico», che è stato accertato solo in epoca posteriore (a partire dal 2010).
E’ pertanto irrilevante verificare se il diritto nazionale, anche prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 152/2006, abbia richiesto per l’imposizione degli interventi di messa in sicurezza, bonifica e ripristino ambientale l’esistenza di un nesso causale con la condotta del destinatario
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 09.07.2015 n. 3449 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In base all’art. 64 c.p.a., l’onere della prova dell’epoca dell’abuso incombe sull’interessato, potendo tale accertamento rilevare ai fini della ricognizione della normativa ratione temporis applicabile.
L’assunto trova riscontro in recenti pronunce, essendosi condivisibilmente sancito che “In materia edilizia, l'onere della prova in ordine all'epoca di realizzazione di un abuso edilizio grava sull'interessato che intende dimostrare la legittimità del proprio operato, e non sul Comune che, in presenza di un'opera edilizia non assistita da un titolo che la legittimi, ha solo il potere-dovere di sanzionarla a norma di legge”.

... Per l'annullamento del provvedimento n. prot. 21736, notificato il 07/08/2014 di abbattimento della canna fumaria a servizio del ristorante-pizzeria emesso dal Comune di Portici.
...
4.1. Con il secondo mezzo il deducente rubricando genericamente eccesso di potere per difetto dei presupposti e di motivazione ed indeterminatezza, si duole che il Comune non abbia indicato con certezza l’epoca di realizzazione del manufatto, in particolare assumendo che essendo stata la canna fumaria realizzata nel 1700, alcun permesso di costruire era richiesto.
4.2. Siffatta doglianza è all’evidenza infondata, urtando con la stessa descrizione materiale del manufatto contenuta nel provvedimento e non contestata dall’esponente. Gli accertatori hanno infatti rilevato che la canna fumaria de qua, oltre ad avere rilevanti dimensioni (essendo alta mt. 19,20 e avendo un diametro di 50 cm.) è in acciaio inox.
Di talché è chiaro che non può essere stata costruita nel ‘700, poiché è notorio che l’acciaio inox è materiale di epoca contemporanea.
Quanto, poi alla censura in ordine all’omessa indicazione con certezza dell’epoca dell’abuso, tale profilo di doglianza è infondato al lume della costante giurisprudenza che precisa che, in base all’art. 64 c.p.a., l’onere della prova dell’epoca dell’abuso incombe sull’interessato, potendo tale accertamento rilevare ai fini della ricognizione della normativa ratione temporis applicabile.
L’assunto trova riscontro in recenti pronunce, essendosi condivisibilmente sancito che “In materia edilizia, l'onere della prova in ordine all'epoca di realizzazione di un abuso edilizio grava sull'interessato che intende dimostrare la legittimità del proprio operato, e non sul Comune che, in presenza di un'opera edilizia non assistita da un titolo che la legittimi, ha solo il potere-dovere di sanzionarla a norma di legge” (TAR Marche, Sez. I ,12.12.2014 n. 1020; in terminis anche TAR Campania-Napoli, Sez. II, 27.11.2014 n. 6118).
Peraltro, la doglianza in disamina potrebbe rinvenire aspetti di rilevanza e radicare l’interesse del ricorrente solo ove questi fosse riuscito a dimostrare che la canna fumaria è stata costruita antecedentemente all’entrata in vigore della legge urbanistica n. 1450/1942, che sancì la necessità del permesso di costruire per creare volume urbanisticamente rilevante e trasformazione del territorio nei centri urbani, laddove la L. n. 765/1967 (c.d. Legge Ponte) estese siffatta necessità anche agli edifici e ai manufatti realizzati al di fuori del centro urbano.
Ma il deducente non ha affatto fornito la prova in discorso, essendosi limitato all’apodittica ed infondata asserzione secondo cui la canna fumaria de qua sarebbe stata costruita nel ‘700 (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 03.07.2015 n. 3612 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il ricorrente sostiene che il manufatto in disamina (canna fumaria del diametro di 50 cm. e un’altezza di ben 19,20 mt.) costituirebbe volume tecnico, come tale privo di rilevanza urbanistica ed oltretutto non sarebbe particolarmente pregiudizievole per il territorio e che pertanto non occorrerebbe per la sua realizzazione premunirsi del permesso di costruire.
Tale doglianza è infondata alla luce della giurisprudenza pacifica, specie del Tribunale, che predica il principio secondo cui una canna fumaria di non trascurabili dimensioni necessita di permesso di costruire.
Il Tribunale ha infatti chiarito che “Per le canne fumarie sussiste la necessità del previo rilascio del permesso di costruire, qualora esse non presentino piccole dimensioni, siano di palese evidenza rispetto alla costruzione e alla sagoma dell'immobile e non possano considerarsi un elemento meramente accessorio ovvero di ridotta e aggiuntiva destinazione pertinenziale, come tale assorbito o occultato dalla preesistente struttura dell'immobile”.
Si era già, del resto, affermato in termini che “La canna fumaria, di palese evidenza rispetto alla costruzione e alla sua sagoma, non può considerarsi un elemento meramente accessorio ovvero di ridotta e aggiuntiva destinazione pertinenziale, come tale assorbito o occultato dalla preesistente struttura dell'immobile, occorrendo, pertanto, per la stessa, la concessione edilizia”.
Ebbene, l'intervento in esame, ad avviso del Collegio, è riconducibile ai lavori di ristrutturazione edilizia di cui all'articolo 3, comma 1°, lettera d), del D.P.R. n. 380/2001, realizzati tramite inserimento di nuovi elementi ed impianti, ed è quindi subordinata al regime del permesso di costruire, ai sensi dell'articolo 10, comma primo, lettera c), dello stesso D.P.R. laddove comporti, come nel caso di specie, una modifica del prospetto del fabbricato cui inerisce, come del resto chiaramente evincibile dalle riproduzioni fotografiche in atti.
Peraltro la necessità del previo rilascio del permesso di costruire può configurarsi anche in presenza di opere che attuino una trasformazione del tessuto urbanistico ed edilizio, anche se esse non consistano in opere murarie, essendo realizzate in metallo, in laminati di plastica, in legno od altro materiale, in presenza di trasformazioni preordinate a soddisfare esigenze non precarie del costruttore.

... Per l'annullamento del provvedimento n. prot. 21736, notificato il 07/08/2014 di abbattimento della canna fumaria a servizio del ristorante-pizzeria emesso dal Comune di Portici.
...
5.1. Con il terzo mezzo il ricorrente sostiene che il manufatto in disamina costituirebbe volume tecnico, come tale privo di rilevanza urbanistica ed oltretutto non sarebbe particolarmente pregiudizievole per il territorio e che pertanto non occorrerebbe per la sua realizzazione premunirsi del permesso di costruire.
5.2. Anche questa doglianza è infondata alla luce della giurisprudenza pacifica, specie del Tribunale, che predica il principio secondo cui una canna fumaria di non trascurabili dimensioni necessita di permesso di costruire.
Il Tribunale ha infatti chiarito che “Per le canne fumarie sussiste la necessità del previo rilascio del permesso di costruire, qualora esse non presentino piccole dimensioni, siano di palese evidenza rispetto alla costruzione e alla sagoma dell'immobile e non possano considerarsi un elemento meramente accessorio ovvero di ridotta e aggiuntiva destinazione pertinenziale, come tale assorbito o occultato dalla preesistente struttura dell'immobile” (TAR Campania–Napoli, Sez. VIII , 01.10.2012 n. 4005).
Si era già, del resto, affermato in termini che “La canna fumaria, di palese evidenza rispetto alla costruzione e alla sua sagoma, non può considerarsi un elemento meramente accessorio ovvero di ridotta e aggiuntiva destinazione pertinenziale, come tale assorbito o occultato dalla preesistente struttura dell'immobile, occorrendo, pertanto, per la stessa, la concessione edilizia” (TAR Campania–Napoli, Sez. VI , 03.06.2009 n. 3039).
Ebbene, l'intervento in esame, ad avviso del Collegio, è riconducibile ai lavori di ristrutturazione edilizia di cui all'articolo 3, comma 1°, lettera d), del D.P.R. n. 380/2001, realizzati tramite inserimento di nuovi elementi ed impianti, ed è quindi subordinata al regime del permesso di costruire, ai sensi dell'articolo 10, comma primo, lettera c), dello stesso D.P.R. laddove comporti, come nel caso di specie, una modifica del prospetto del fabbricato cui inerisce, come del resto chiaramente evincibile dalle riproduzioni fotografiche in atti.
Peraltro la necessità del previo rilascio del permesso di costruire può configurarsi anche in presenza di opere che attuino una trasformazione del tessuto urbanistico ed edilizio, anche se esse non consistano in opere murarie, essendo realizzate in metallo, in laminati di plastica, in legno od altro materiale, in presenza di trasformazioni preordinate a soddisfare esigenze non precarie del costruttore.
Come più sopra avvertito, invero, la canna fumaria la cui abusiva realizzazione è stata sanzionata con il provvedimento al vaglio del Tribunale, è posta all’esterno de fabbricato, come ha chiarito la relazione n. 7121 del 17.11.2014 a firma del competente Responsabile comunale, prodotta dalla difesa civica il 19.11.2014.
Di talché risulta contraddetta l’affermazione di cui alla narrativa in fato del ricorso a stare alla quale il manufatto sarebbe posizionato al’interno dell’immobile.
Inoltre le sue caratteristiche inducono ad affermarne la natura impattante sia l’ambiente che il territorio, avendo esso un diametro di 50 cm. e un’altezza di ben 19,20 mt..
Di conseguenza, alla luce dell’orientamento testé passato in rassegna, per la sua realizzazione occorreva il previo rilascio del permesso di costruire, non potendo esso annoverarsi tra gli interventi di mera manutenzione ordinaria.
Da ciò discende la legittimità dell’irrogata sanzione demolitoria (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 03.07.2015 n. 3612 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'interesse artistico su base discrezionale. IMMOBILI/ Tribunale amministrativo Marche.
Le valutazioni in ordine all'esistenza di un interesse storico-artistico su un immobile, tali da giustificare l'apposizione del relativo vincolo, costituiscono espressione di un potere nel quale sono presenti sia momenti di discrezionalità tecnica, sia momenti di propria discrezionalità amministrativa.

Lo hanno ribadito i giudici del TAR Marche con la sentenza 03.07.2015 n. 568.
I giudici amministrativi marchigiani hanno altresì osservato, in ossequio anche con un consolidato orientamento giurisprudenziale (Cons. stato, VI, 30.06.2011, n. 3894), che tale valutazione è «espressione di una prerogativa esclusiva dell'amministrazione e può essere sindacata in sede giurisdizionale solo in presenza di profili di incongruità ed illogicità di evidenza tale da far emergere inattendibilità della valutazione tecnico-discrezionale compiuta da valutarsi nella sua portata complessiva», pertanto, nel caso di previsioni di interesse storico-artistico fondate su una molteplicità di indici rivelatori, non può considerarsi sufficiente «che alcuni soltanto di essi palesino aspetti di particolare opinabilità per infirmare nel complesso la validità delle conclusioni raggiunte, ma è necessario che la sommatoria delle lacune individuate risulti di tale pregnanza da compromettere nel suo complesso l'attendibilità del giudizio espresso dall'organo competente».
Nel caso posto all'attenzione dei giudici di Ancona, i motivi posti a base del vincolo erano stati, poi, dettagliatamente esplicitati nella relazione storico artistica architettonica della Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici, inviata alla Direzione regionale per i beni culturali e paesaggistici. Nello specifico, in detta relazione si sottolineava che l'immobile in questione conservava i caratteri architettonici costruttivi e gli elementi strutturali originali legati all'edilizia rurale tipica delle case coloniche della regione monofamiliari e possedeva una significativa valenza antropologica che caratterizza lo scenario rurale, che oggi si tende il più possibile a preservare.
Secondo i giudici amministrativi, già tali argomentazioni apparivano sufficienti a giustificare la valutazione tecnico-discezionale dell'Amministrazione, a prescindere da qualsiasi ulteriore specificazione o istruttoria, atteso che gli elementi di interesse storico-architettonico evidenziati nella relazione fossero ben riconoscibili ad un occhio esperto anche dalla sola consultazione della documentazione grafica e fotografica a corredo della pratica (articolo ItaliaOggi Sette del 17.08.2015).
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MASSIMA
II.1. Il primo motivo di ricorso è infondato.
La disposizione di cui all’art. 12 del d.lgs. 42/2004 ha introdotto un vincolo culturale in forza di una presunzione di legge, superabile soltanto a seguito di una verifica negativa finalizzata all’esclusione dell’interesse culturale e -conseguentemente- al definitivo esonero dall’applicazione delle disposizioni di tutela dei beni culturali (art. 12, comma 4), anche in vista di una loro eventuale sdemanializzazione (art. 12, commi 5 e 6).
Diversamente, in caso di conferma dell’interesse culturale presunto, le cose di cui all’art. 10 del medesimo d.lgs. 42/2004 restano definitivamente sottoposte alle disposizioni di tutela del codice dei beni culturali, ai sensi dell’art. 12, comma 7
(TAR Liguria, Genova, sez. I, 19.05.2014, n. 787).
Ciò posto, la norma invocata dall’Ente ricorrente (art. 27, comma 10, del d.l. n. 269/2003) a sostegno della tesi secondo cui la mancata conclusione del procedimento nel termine di 120 giorni equivale a verifica negativa, è stata definitivamente abrogata dall’art. 6, comma 1, lettera c), del d.lgs. 24.03.2006, n. 156.
Conseguentemente,
in mancanza di una espressa disposizione volta ad attribuire valenza significativa al silenzio, vale il principio in base al quale il superamento del termine legale di 120 giorni per la conclusione del procedimento, ai sensi dell’art. 12, comma 10, del d.lgs. n. 42/2004, non comporta la consumazione del potere di vincolo, in tal modo non determinando alcun effetto viziante su provvedimento comunque adottato in ritardo (Cons. Stato, sez. VI, 30.06.2011, n. 3894).
II.2. Neppure sussiste il lamentato difetto istruttorio e di motivazione, atteso che i motivi posti a base del vincolo sono dettagliatamente esplicitati nella relazione storico artistica architettonica della Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici delle Marche datata 12.09.2014, inviata alla Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici delle Marche con nota prot. 14019 del 17.9.2014, ricevuta in data 19.09.2014 con protocollo n. 4951, espressamente richiamata nel decreto impugnato, da intendersi, per tale ragione, motivato per relationem.
In particolare, in detta relazione si evidenzia che l’immobile in questione conserva i caratteri architettonici costruttivi e gli elementi strutturali originali legati all’edilizia rurale tipica delle case coloniche marchigiane monofamiliari e possiede una significativa valenza antropologica che caratterizza lo scenario rurale delle Marche, che oggi si tende il più possibile a preservare.
Già tali argomentazioni appaiono sufficienti a giustificare la valutazione tecnico-discezionale dell’Amministrazione, a prescindere da qualsiasi ulteriore specificazione o istruttoria, atteso che gli elementi di interesse storico-architettonico evidenziati nella relazione sono ben riconoscibili ad un occhio esperto anche dalla sola consultazione della documentazione grafica e fotografica a corredo della pratica.
Ad ogni modo, a conferma delle verifiche effettuate, la soprintendenza cita espressamente, in documenti pubblici, un sopralluogo del 12.09.2014, rispetto al quale la ricorrente lamenta l’inesistenza di un verbale o di qualsiasi altra prova, senza tuttavia fornire elementi di prova contraria idonei a smentire che dette verifiche in loco siano state effettivamente condotte.
In ogni caso, la giurisprudenza ha chiarito che “
Le valutazioni in ordine all'esistenza di un interesse storico-artistico su un immobile, tali da giustificare l'apposizione del relativo vincolo, costituiscono espressione di un potere nel quale sono presenti sia momenti di discrezionalità tecnica, sia momenti di propria discrezionalità amministrativa. Tale valutazione è espressione di una prerogativa esclusiva dell'amministrazione e può essere sindacata in sede giurisdizionale solo in presenza di profili di incongruità ed illogicità di evidenza tale da far emergere inattendibilità della valutazione tecnico-discrezionale compiuta da valutarsi nella sua portata complessiva, sicché, in presenza di valutazioni di interesse storico-artistico fondate su una pluralità di indici rivelatori, non è sufficiente che alcuni soltanto di essi palesino aspetti di particolare opinabilità per infirmare nel complesso la validità delle conclusioni raggiunte, ma è necessario che la sommatoria delle lacune individuate risulti di tale pregnanza da compromettere nel suo complesso l'attendibilità del giudizio espresso dall'organo competente” (Cons. Stato, VI, 30.06.2011, n. 3894).
Nel caso in esame, il Collegio non ravvisa elementi di contraddittorietà o illogicità evidenti da dubitare della validità e attendibilità della complessiva valutazione posta in essere dall’Amministrazione, sicché, anche sotto tale profilo, l’atto impugnato si rivela immune dai vizi dedotti.
II.3. Quanto
all’asserita violazione delle garanzie partecipative, essa non sussiste, dal momento che trattasi di un procedimento avviato su iniziativa di parte, della cui esistenza la ricorrente era perfettamente a conoscenza per poter partecipare; trattasi, peraltro, di un procedimento volto alla verifica dell’interesse culturale di un immobile conclusosi con un accertamento positivo, rispetto al quale non si intravvede alcun obbligo di preavviso, quest’ultimo necessario nell’ipotesi in cui debba provvedersi al rigetto di una istanza, nella fattispecie non sussistente.
Occorre infine precisare che l’omessa indicazione nel provvedimento del nominativo del responsabile del procedimento non costituisce motivo d'invalidità del provvedimento medesimo, posto che supplisce il criterio legale d'imputazione del ruolo al dirigente preposto all'Unità organizzativa competente
(Cons. Stato, III, 24.09.2013, n. 4694).
II.4. Parimenti destituita di fondamento è la censura con cui si lamenta la violazione dell’art. 14 del d.lgs. n. 42/2004, atteso che
la comunicazione al proprietario possessore o detentore a qualsiasi titolo del bene, contente gli elementi di identificazione e di valutazione della cosa risultanti dalle prime indagini, l’indicazione degli effetti previsti dal comma 4, nonché l’indicazione del termine, comunque non inferiore a trenta giorni, per la presentazione di eventuali osservazioni, è prescritta dalla norma per la sola ipotesi in cui il procedimento per la dichiarazione dell'interesse culturale del bene medesimo è avviata dall’Amministrazione; nel caso di specie, come sopra precisato, il procedimento è stato avviato su iniziativa di parte.

AMBIENTE-ECOLOGIA: Lo scarico dei reflui provenienti da attività di lavanderia industriale, eseguito in assenza di autorizzazione, integra il reato di cui all'art. 137, comma primo, del D.Lgs. n. 152 del 2006, non potendo tali acque essere assimiliate a quelle domestiche.
3. Il ricorso è manifestamente infondato.
4. Ed invero, emerge dalla lettura dell'impugnata sentenza che a seguito di un sopralluogo eseguito congiuntamente in data 23/11/2010 da personale ARPA Lazio e polizia locale presso la lavanderia della ricorrente, era stato appurata la presenza all'interno di quattro lavatrici di tipo industriale, i cui scarichi -come emerso dagli accertamenti disposti in sede dibattimentale presso gli Enti competenti e riportati in sentenza- non potevano essere considerati come assimilabili agli urbani; risulta, peraltro, che al momento del sopralluogo non solo nessuna autorizzazione allo scarico era stata rilasciata, ma che la stessa non poteva nemmeno essere ottenuta, come chiarito dalle note ACEA ed ARPA del 21/03/2014 richiamate in sentenza; infine, stante la mancanza di pozzetti di ispezione, il personale non aveva avuto la possibilità di verificare la concreta qualità delle acque.
A fronte di tali elementi di indubbia valenza indiziaria, dai quali il giudice ha, con motivazione logica, desunto gli elementi necessari per poter ritenere configurabile il contestato reato di scarico abusivo, la ricorrente si limita a svolgere censure di tipo puramente contestativo, evocando un inesistente vizio di "illogicità manifesta" della sentenza, in sostanza offrendo a questa Corte una sua persona lettura degli elementi di fatto, in una manifestando il proprio dissenso circa la ricostruzione dei fatti e la valutazione degli elementi operata dal giudice di merito, chiedendo quindi a questa Corte di sostituirsi al giudice di merito e svolgere un sindacato che comporterebbe necessariamente un apprezzamento di fatto che, peraltro, contrasta con i dati di cui alla sentenza (ci si riferisce, in particolare, all'affermazione secondo cui le lavatrici non fossero in uso ed erano disattivate al momento del sopralluogo; od, ancora, alla critica avverso la sentenza per non aver verificato quale fosse la licenza di cui la ditta della ricorrente era titolare, avendo peraltro ammesso in ricorso che la stessa non fosse munita di autorizzazione allo scarico industriale; analogamente, quanto alla impossibilità di procedere alla verifica degli scarichi delle acque reflue, la stessa sentenza ben spiega che tale accertamento non fosse stato possibile proprio per la mancanza di pozzetti ispezionabili, circostanza del tutto logica in quanto mancava l'autorizzazione allo scarico).
Diversamente, del tutto "illogica", ove non utilizzate, sarebbe -trovando invece all'evidenza una spiegazione nel fatto che l'attività di lavanderia industriale venisse svolta abusivamente- la presenza all'interno dei locali della ditta della ricorrente di ben quattro macchine per lavanderia industriale i cui scarichi, come chiarito, non erano assimilabili a quelli civili. Affermazione, questa, peraltro, corretta anche in diritto, avendo, anche di recente, affermato questa Corte che
lo scarico dei reflui provenienti da attività di lavanderia industriale, eseguito in assenza di autorizzazione, integra il reato di cui all'art. 137, comma primo, del D.Lgs. n. 152 del 2006, non potendo tali acque essere assimiliate a quelle domestiche (Sez. 3, n. 24330 del 13/05/2014 - dep. 10/06/2014, Marano, Rv. 259304).
E', quindi, evidente come inesistente sia non solo il vizio di mancanza di motivazione (il quale sussiste allorché il provvedimento giurisdizionale manca del tutto della parte motivata ovvero la medesima, pur esistendo graficamente, è tale da non evidenziare l'"iter" argomentativo seguito dal giudice per pervenire alla decisione adottata, cosiddetta motivazione apparente: Sez. 1, n. 3262 del 25/05/1995 - dep. 06/07/1995, Di Martino, Rv. 202133), ma anche il vizio di illogicità della motivazione, rilevabile solo ove si accerti una frattura logica evidente tra una premessa, o più premesse nel caso di sillogismo, e le conseguenze che se ne traggono, circostanza da escludersi nel caso in esame (v., tra le tante: Sez. 1, n. 9539 del 12/05/1999 - dep. 23/07/1999, Commisso ed altri, Rv. 215132)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 02.07.2015 n. 27887).

AMBIENTE-ECOLOGIA: E' equiparato allo scarico di acque reflue industriali anche quello proveniente da un esercizio commerciale che sia adibito a bar, posto che lo stesso -tenuto conto della attività, sia pure artigianalmente condotta, di preparazione di prodotti per la alimentazione e di piccola ristorazione connaturata alla indicata destinazione commerciale- non è equiparabile per caratteristiche qualitative e quantitative con lo scarico delle acque reflue domestiche.
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Non vi è alcun automatismo nella trasmissione della autorizzazione allo scarico dei reflui industriali in caso di cessione di attività che comporti il mutamento del soggetto che tale attività gestisca.

Il ricorso proposto dal M. è inammissibile, stante la evidente infondatezza dei motivi posto a suo sostegno.
Quanto al primo di essi, premesso che, secondo la giurisprudenza di questa Corte,
è equiparato allo scarico di acque reflue industriali anche quello proveniente da un esercizio commerciale che, come quello gestito dall'attuale ricorrente, sia adibito a bar, posto che lo stesso -tenuto conto della attività, sia pure artigianalmente condotta, di preparazione di prodotti per la alimentazione e di piccola ristorazione connaturata alla indicata destinazione commerciale- non è equiparabile per caratteristiche qualitative e quantitative con lo scarico delle acque reflue domestiche (Corte di cassazione, Sezione III penale, 24.05.2013, n. 22436; idem, Sezione III penale, 13.10.2011, n. 36982), va rilevato che non vi è alcun automatismo nella trasmissione della autorizzazione allo scarico dei reflui industriali in caso di cessione di attività che comporti il mutamento del soggetto che tale attività gestisca.
Di ciò ne dà conto lo stesso ricorrente nel momento in cui precisa che, una volta intervenuti gli accertatori presso il suo esercizio commerciale egli, in quanto privo della predetta autorizzazione, si recava immediatamente presso la autorità competente, la quale, verificata, fra l'altro, la autodichiarazione da lui redatta in ordine al possesso del requisito morale di cui all'allora vigente art. 2 legge n. 287 del 1991, nonché la restante documentazione relativa al possesso degli altri requisiti, anche morali e professionali oltre che tecnici, rilasciava la prescritta autorizzazione.
E', pertanto, di tutta evidenza che non vi è alcuna contraddizione o illogicità nella sentenza impugnata, dovendosi, invece ritenere che la necessità di documentare il possesso di specifici requisiti personali in capo al nuovo gestore, rende impossibile il transito della autorizzazione allo scarico dei reflui industriali, nel caso di trasferimento della gestione dell'impianto produttivo dei reflui dal soggetto cedente al cessionario contestualmente alla cessione dell'impianto; ciò proprio perché, come riconosciuto dallo stesso ricorrente, il godimento di tale autorizzazione è subordinato alla titolarità di taluni requisiti personali che deve essere accertata di volta in volta (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 01.07.2015 n. 27552).

LAVORI PUBBLICI: Si può anche dire dopo a chi si subappalterà.
L'impresa partecipa alla gara ma non è in possesso delle qualificazioni necessarie per i lavori scorporabili previsti dal bando. Che succede? All'atto dell'offerta può limitarsi ad annunciare che li subappalterà senza indicare da subito l'azienda designata. In base alla normativa vigente, infatti, non c'è alcun obbligo in tal senso: si può ben provvedere poi in sede di esecuzione a verificare se il subappaltatore ha le carte in regola per ottenere i lavori pubblici. Aderire all'orientamento più restrittivo finirebbe per sovrapporre il subappalto al distinto istituto dell'avvalimento.

È quanto emerge dalla sentenza 05.06.2015 n. 3055 pubblicata dalla I Sez. TAR Campania-Napoli.
Non trovano ingresso le censure dell'impresa seconda classificata alla gara d'appalto, che pure si rifanno alle modifiche in tema di edilizia introdotte dal decreto legge 47/2014.
Secondo l'indirizzo interpretativo più formale che si è fatto largo fra i giudici amministrativi nella dichiarazione di subappalto l'impresa potrebbe evitare di indicare in sede di offerta l'impresa designata solo se la concorrente ha essa stessa la qualificazione richiesta per realizzare i lavori scorporabili: diversamente bisognerebbe indicare subito il subappaltatore che in tal caso diventa necessario per partecipare alla gara.
In realtà, osservano i giudici, l'applicazione rigorosa dell'articolo 118 del codice dei contratti pubblici consente di per sé all'amministrazione di stabilire prima dell'esecuzione del subappalto che l'impresa designata sia in possesso dei requisiti indicati dalla legge. Un conto è il subappalto, ricordano i magistrati, un altro l'avvalimento.
Il primo rappresenta una modalità di esecuzione dei lavori, il secondo consente al concorrente di integrare i propri requisiti in sede di gara. Nel subappalto il soggetto responsabile verso la stazione appaltante è la sola impresa appaltatrice, mentre l'azienda designata rimane estranea alla procedura di gara e compare solo nella fase esecutiva.
È nell'avvalimento che la società ausiliaria deve essere preventivamente indicata in sede di offerta, mentre nell'altro caso la verifica dei requisiti risulta rimandata alla costituzione del rapporto contrattuale. Non resta che pagare le spese di giudizio (articolo ItaliaOggi del 20.08.2015).
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MASSIMA
Il Collegio ritiene di dissentire.
Come già rilevato nella fase cautelare, con sentenza del 25.02.2015 n. 1236
questa Sezione ha affrontato la questione circa la necessità di indicare, già in sede di partecipazione, il nominativo dell’impresa designata, in caso di dichiarazione di subappalto avente ad oggetto l’esecuzione delle lavorazioni relative a categorie scorporabili per le quali l’impresa concorrente sia priva di qualificazione.
In quella sede si è preso atto che,
alla luce del vigente quadro normativo non è dato ricavare una prescrizione che imponga tale obbligo in sede di offerta, essendo invece sufficiente rendere la dichiarazione di voler subappaltare, rinviando alla successiva fase di esecuzione la individuazione e la verifica dei requisiti dell’impresa subappaltatrice.
L’art. 118 del D.Lgs. 163/2006 fissa la disciplina generale del subappalto nell’ambito dei contratti pubblici e dispone che “tutte le prestazioni nonché lavorazioni, a qualsiasi categoria appartengano, sono subappaltabili…”, stabilendo, tra l’altro, quale condizione di legittimità del subappalto medesimo “che i concorrenti all’atto dell’offerta o l’affidatario…all’atto dell’affidamento, abbiano indicato i lavori o le parti di opere… che intendono subappaltare…”.
Tale disposizione, nel disciplinare appunto il subappalto, prevede i seguenti adempimenti:
1) i concorrenti all'atto dell'offerta devono indicare i lavori o le parti di opere ovvero i servizi e le forniture o parti di servizi e forniture che intendono subappaltare o concedere in cottimo;
2) almeno 20 giorni prima della data di effettivo inizio dell'esecuzione delle relative prestazioni, l’affidatario provvede al deposito del contratto di subappalto presso la stazione appaltante;
3) al momento del deposito del contratto di subappalto presso la stazione appaltante l'affidatario deve altresì trasmettere la certificazione attestante il possesso da parte del subappaltatore dei requisiti di qualificazione prescritti dal presente codice in relazione alla prestazione subappaltata e la dichiarazione del subappaltatore attestante il possesso dei requisiti generali di cui all'articolo 38;
4) non devono sussistere nei confronti dell'affidatario del subappalto alcuno dei divieti previsti dall'articolo 10 della L. 31.05.1965 n. 575 e successive modificazioni.
Ai sensi della richiamata disposizione,
l’indicazione del subappaltatore designato e la dimostrazione circa il possesso dei relativi requisiti di qualificazione si collocano quindi nella fase di costituzione del rapporto contrattuale e non in quella di presentazione della domanda di partecipazione alla gara e di formulazione dell’offerta.
Ritiene la Sezione che
la rigorosa applicazione di tali prescrizioni consenta all’amministrazione appaltante di conoscere, prima che il subappalto abbia esecuzione, i soggetti che entrano in contatto, anche in qualità di subappaltatori, e di verificare che questi ultimi siano in possesso di tutti i requisiti soggettivi e oggettivi richiesti dalla legge per l’esecuzione dei lavori pubblici.
Di contro, l’adesione all’indirizzo più restrittivo rischia di sovrapporre l’istituto del subappalto a quello dell’avvalimento di cui all’art. 49 del D.Lgs. n. 163/2006.
Si è visto che le norme vigenti in materia di subappalto, a differenza dal caso di avvalimento (dove la società ausiliaria deve essere preventivamente indicata in sede di offerta), non richiedono che le società subappaltatrici debbano essere preventivamente individuate in sede di offerta ma rimandano alla successiva costituzione del rapporto contrattuale la concreta individuazione dei soggetti appaltatori e la verifica in capo ai medesimi dei prescritti requisiti di qualificazione secondo i termini e le modalità specificamente disciplinati dall’art. 118 del D.Lgs. n. 163/2006.
La diversa disciplina si spiega per la differente natura dei due istituti: difatti, l’avvalimento consente al concorrente di integrare i propri requisiti in sede di gara, mentre il subappalto, rappresenta una modalità di esecuzione dei lavori.
La società ausiliaria non è un soggetto terzo rispetto alla gara, dovendosi essa impegnare sia verso l’impresa concorrente sia solidalmente verso la stazione appaltante. Nel subappalto, invece, il soggetto responsabile verso la stazione appaltante è la sola impresa appaltatrice, mentre il subappaltatore rimane estraneo alla procedura di gara e compare solo nella fase esecutiva (cfr. TAR Puglia, Bari, 27.03.2014 n. 393).
In conclusione,
l’art. 118 del codice dei contratti pubblici consente ai concorrenti che siano sprovvisti della relativa qualificazione di subappaltare i lavori rientranti nelle categorie non prevalenti e scorporabili a qualificazione obbligatoria, fermo restando l’obbligo di riservarne l’esecuzione a soggetti in possesso delle relative qualificazioni.
Le vigenti disposizioni non prescrivono viceversa l’obbligo di indicare, in fase di presentazione della domanda di partecipazione alla gara, il nominativo dei subappaltatori né di comprovare i relativi requisiti di qualificazione e tale conclusione va estesa anche al caso di subappalto di lavori scorporabili e subappaltabili a qualificazione obbligatoria da parte di impresa priva della relativa qualificazione, poiché il legislatore non introduce, sotto tale profilo, alcuna distinzione tra diverse tipologie di subappalto.
Inoltre, l’art. 92 del D.P.R. 207/2010 rubricato “Requisiti del concorrente singolo e di quelli riuniti” indica i requisiti necessari per la partecipazione alle gare e al primo comma dispone che “Il concorrente singolo può partecipare alla gara qualora sia in possesso dei requisiti economico-finanziari e tecnico-organizzativi relativi alla categoria prevalente per l’importo totale dei lavori ovvero sia in possesso dei requisiti relativi alla categoria prevalente e alle categorie scorporabili per i singoli importi. I requisiti relativi alle categorie scorporabili non posseduti dall’impresa devono da questa essere posseduti con riferimento alla categoria prevalente”.
La norma richiamata, pertanto, consente a un’impresa che non sia in possesso dei requisiti relativi alle categorie scorporabili di partecipare comunque alla gara a condizione che possegga i requisiti economico-finanziari e tecnico-organizzativi relativi alla categoria prevalente per l’importo totale dei lavori.
Nello specifico, la società aggiudicataria possiede la qualificazione nella categoria prevalente OG3 con una classifica adeguata (IV - importo fino a euro 2.582.000,00), superiore rispetto a quella indicata nel bando (classifica III) nonché idonea a coprire l’intero importo dell’appalto. Quindi, per la società aggiudicataria la fase della qualificazione appare soddisfatta in quanto essa copre con il surplus di requisiti di qualificazione nella categoria prevalente il deficit circa la qualificazione per la categoria scorporabile.
Riassumendo, le deduzioni svolte possono essere compendiate con il richiamo all’indirizzo espresso dalla giurisprudenza amministrativa che il Collegio ritiene di fare proprio (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 25.02.2015 n. 944; 21.11.2014 n. 2014; 25.07.2013 n. 3963; 19.06.2012 n. 3563), secondo cui:
 
 I) l’esistenza della totale copertura della categoria prevalente legittima la partecipazione alla gara, pur in carenza dei requisiti nelle categorie scorporabili, purché accompagnata dalla dichiarazione di voler subappaltare le scorporabili;
 
 II) la qualificazione mancante deve essere posseduta in relazione alla categoria prevalente, dal momento che ciò tutela la stazione appaltante circa la sussistenza della capacità economico–finanziaria da parte dell’impresa;
  
III) quanto alla identificazione del subappaltatore ed alla verifica del possesso da parte di questi di tutti i requisiti richiesti dalla legge e dal bando, essa attiene solo al momento dell’esecuzione (nello stesso senso, anche TAR Abruzzo, Pescara, 06.11.2014 n. 444; TAR Sardegna, 03.03.2014 n. 196; TAR Puglia, Bari, 27.03.2014 n. 393).
A identico approdo è pervenuta l’Autorità di Vigilanza sui contratti pubblici che, nello stilare le norme che le stazioni appaltanti devono tenere in considerazione nella fase di stesura dei bandi di gara, rammenta che “
La normativa citata non comporta l’obbligo di indicare i nominativi dei subappaltatori in sede in offerta (cfr. Cons. St., sez. V, 19.06.2012, n. 3563), ma solamente l’obbligo di indicare le quote che il concorrente intende subappaltare, qualora non in possesso della qualificazione per la categoria scorporabile, fermo restando che la qualificazione ‘mancante’ deve essere comunque posseduta in relazione alla categoria prevalente, dal momento che ciò tutela la stazione appaltante circa la sussistenza della capacità economico-finanziaria da parte dell’impresa” (cfr. determinazione del 10.10.2012 n. 4).
Infine,
tale orientamento si lascia preferire in quanto più aderente, oltre che al dato normativo per le ragioni illustrate, anche ai principi della tassatività delle cause di esclusione, del favor partecipationis, dell’affidamento e della buona fede nell’interpretazione delle clausole dei bandi di gara.
Nello specifico, giova evidenziare che, oltre a non essere prevista in alcuna disposizione del codice dei contratti pubblici e del relativo regolamento di esecuzione ed attuazione, l’obbligo di indicazione dell’impresa subappaltatrice nella domanda di partecipazione non è neppure contemplato dal bando e dal disciplinare della gara di cui si controverte.
Infatti, il modello A “Istanza di partecipazione alla gara e dichiarazione unica” consentiva alle società partecipanti di optare per il subappalto (punto 14: “ai sensi dell’articolo 118 del D.Lgs. 163/2006, intende subappaltare o concedere a cottimo le seguenti lavorazioni”) ma non imponeva ai concorrenti di indicare la ditta subappaltatrice.
La circostanza che la società ricorrente, nel confezionare la propria domanda di partecipazione, si sia puntualmente attenuta al modulo predisposto dalla stazione appaltante non può andare in danno della medesima: deve quindi prevalere il principio del favor partecipationis, oltre quello della tutela del legittimo affidamento (TAR Puglia, Bari, 08.06.2011 n. 842; TAR Sardegna, 25.11.2010 n. 2626; TAR Toscana, 21.06.2010 n. 2006) che, come noto, costituisce corollario del generale principio di certezza del diritto nonché espressione del generale obbligo di comportarsi lealmente e secondo buona fede all’interno del rapporto giuridico.
Sul piano costituzionale, tale principio si fonda sugli artt. 2, 3 e 97 della Costituzione, quale sintesi rispettivamente del dovere di solidarietà, uguaglianza, ragionevolezza ed imparzialità e si traduce in un limite all’adozione di provvedimenti negativi o sfavorevoli, in presenza di un contegno tenuto dall’amministrazione che sia idoneo a suscitare giuridici affidamenti.

URBANISTICA: Se il lottizzante non cede le aree/opere di urbanizzazione al comune quest'ultimo deve adire il TAR, anche per l'eventuale e correlato risarcimento del danno.
Pregiudizialmente, il Collegio ritiene sussistente la giurisdizione del Giudice Amministrativo, posta in dubbio dalla resistente nelle ultime memorie e all’odierna udienza di discussione.
La controversia in esame, difatti, attiene all'accertamento ed esecuzione, ex art. 2932 c.c., degli obblighi di trasferimento di aree derivanti da una convenzione urbanistica.
La materia in oggetto rientra quindi pacificamente nella giurisdizione esclusiva del Giudice Amministrativo, trattandosi di questione relativa all'urbanistica e, comunque, vertendosi in tema di controversia relativa all'esecuzione di accordi ex art. 11, comma 5, L. 241/1990, per i quali, sotto diverso profilo, sussiste del pari la giurisdizione amministrativa.
Ciò comporta che il giudice amministrativo è investito del potere di decidere non soltanto sulle azioni promosse dai soggetti privati coinvolti nell'accordo contro la Pubblica Amministrazione, ma anche su quelle promosse dalla stessa P.A. nei confronti dei privati che hanno aderito all'accordo, per ottenere il rispetto degli obblighi dai medesimi assunti con la sottoscrizione della relativa convenzione e non adempiuti spontaneamente

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La giurisprudenza ha di recente ribadito che il rimedio previsto dall’art. 2932 c.c. deve ritenersi applicabile non solo alle ipotesi di contratto preliminare non seguito dal definitivo, ma anche in qualsiasi altra ipotesi dalla quale sorga l’obbligazione di prestare il consenso per il trasferimento o la costituzione di un diritto.
Ed essendo pure pacifico come l’azione ex art. 2932 c.c. sia compatibile con la struttura del processo amministrativo, vertendosi in una ipotesi di giurisdizione esclusiva, la quale, venendo in discussione questioni su diritti, non può che garantire agli interessati la medesima tutela e, dunque, le medesime specie di azioni riconosciute dinanzi al giudice ordinario, e ciò anche quando l’interessato è il Comune, che ben può scegliere la via giudiziale, in luogo di esperire poteri autoritativi, quali, ad esempio, quello espropriativo.

... per l'accertamento e la declaratoria dell’inadempimento agli obblighi previsti dalla convenzione urbanistica in data 11/03/2005 n. 91606 di rep. Notaio T.P. e conseguentemente affinché sia disposto ai sensi e per gli effetti dell'art. 2932 c.c. il trasferimento a favore del Comune di Padova della proprietà di:
- n. 3 alloggi:
alloggio 1) Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 49;
alloggio 2) Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 55;
alloggio 3) Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 58;
- relativi garages, così identificati:
a) Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 16;
b) Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 35;
c) Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 36;
d) Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 38;
- parcheggio privato:
Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 5;
- centro civico:
Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 58;
e la costituzione di vincolo ad uso pubblico di
- parcheggio privato mq. 332:
Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 4;
- verde pubblico mq 548 (circa):
Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 1;
- parcheggio pubblico mq. 135:
Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 6;
così come specificamente identificati nel certificato di collaudo a firma dell'Ing. M., su richiesta del Comune e della Società R. S.r.l., approvato dal Comune di Padova giusta determinazione 26/05/2009 n. 2009/69/0019 nonché, per l'accertamento e la declaratoria del risarcimento del danno.
...
Pregiudizialmente, il Collegio ritiene sussistente la giurisdizione del Giudice Amministrativo, posta in dubbio dalla resistente nelle ultime memorie e all’odierna udienza di discussione.
La controversia in esame, difatti, attiene all'accertamento ed esecuzione, ex art. 2932 c.c., degli obblighi di trasferimento di aree derivanti da una convenzione urbanistica.
La materia in oggetto rientra quindi pacificamente nella giurisdizione esclusiva del Giudice Amministrativo, trattandosi di questione relativa all'urbanistica e, comunque, vertendosi in tema di controversia relativa all'esecuzione di accordi ex art. 11, comma 5, L. 241/1990, per i quali, sotto diverso profilo, sussiste del pari la giurisdizione amministrativa.
Ciò comporta che il giudice amministrativo è investito del potere di decidere non soltanto sulle azioni promosse dai soggetti privati coinvolti nell'accordo contro la Pubblica Amministrazione, ma anche su quelle promosse dalla stessa P.A. nei confronti dei privati che hanno aderito all'accordo, per ottenere il rispetto degli obblighi dai medesimi assunti con la sottoscrizione della relativa convenzione e non adempiuti spontaneamente (si veda tra le tante, Cassazione civile, Sez. Un., ordinanza 17.04.2009, n. 9151).
Nel merito il ricorso è fondato.
Va in primo luogo evidenziato come sia pacifico che la società resistente non abbia adempiuto agli obblighi di cui alla convenzione dell’11.03.2005, per la cui esecuzione in forma specifica agisce il Comune di Padova.
La resistente invece eccepisce che l’amministrazione, anziché intentare il presente giudizio, avrebbe dovuto escutere la polizza fideiussoria a prima richiesta rilasciata in suo favore a garanzia degli obblighi previsti nella convenzione urbanistica, evitando così il danno ora lamentato.
Tale tesi appare destituita di fondamento.
Ed infatti, la stipula della polizza fideiussoria non è stata accompagnata da alcuna dichiarazione abdicativa di tutti gli altri diritti spettanti all’amministrazione sulla base della convenzione dell’11.03.2005.
Piuttosto, con la polizza fideiussoria in esame il terzo assicuratore si è obbligato, a titolo di garanzia, ad eseguire, a semplice richiesta del Comune, una prestazione indennitaria succedanea e diversa rispetto a quella principale posta nella convenzione a carico della R.. Obbligazione, quest’ultima, avente natura infungibile, consistendo, in particolare, nella promessa di vincolare all’uso pubblico determinate aree destinate alle opere di urbanizzazione primaria, e di cedere al Comune alcuni appartamenti e relativi garage.
E’ quindi evidente che la polizza in esame è accessoria alla convenzione urbanistica e determina la costituzione di un’obbligazione a scopo di garanzia, del terzo assicuratore, aggiuntiva ed autonoma rispetto a quella principale gravante sulla società, secondo il modello della delegazione di pagamento di cui agli artt. 1268 e ss. cc..
Ne consegue che il Comune di Padova, non essendo peraltro previsto alcun beneficio di escussione, non ha incontrato alcun onere o vincolo nel decidere se escutere la polizza fideiussoria, accontentandosi di veder soddisfatto, sia pure nell’immediato, un proprio interesse meramente patrimoniale attraverso una prestazione indennitaria, peraltro limitata da un massimale di polizza, oppure perseguire la soddisfazione del proprio interesse primario all’esecuzione in forma specifica della convenzione nei termini convenuti.
Il Comune, dunque, ha liberamente optato per quest’ultimo rimedio chiedendo l’esecuzione della convenzione.
E, d’altra parte, la prima via appariva a prima vista molto meno vantaggiosa per il Comune. Considerato infatti che il massimale di polizza (fissato in € 343.619,22) è stato determinato in misura pari al 70% del presunto costo delle opere oggetto della presente domanda di sentenza costitutiva, se ne può agevolmente dedurre la funzione meramente indennitaria e cauzionale della polizza; e ciò ad ulteriore testimonianza di come rimanesse impregiudicata la possibilità per il Comune di ottenere la specifica esatta prestazione oggetto della propria aspettativa, ovvero il trasferimento della proprietà degli immobili e la costituzione dei vincoli ad uso pubblico.
Pertanto, la scelta dell’amministrazione di richiedere l’adempimento in natura dell’obbligazione principale appare pienamente legittima, non contestabile, né in contrasto con gli obblighi contrattuali di buona fede e correttezza.
Di fronte a tale richiesta la società R. era tenuta ad adempiere, trasferendo senza ritardo la proprietà degli immobili in discussione. Essendo quest’ultima rimasta inerte pur a fronte delle plurime diffide inviate dall’amministrazione, ed avendo costretto il Comune di Padova ad agire in giudizio per l’esecuzione specifica di tale obbligo ai sensi dell’art. 2932 c.c., essa -oltre a soggiacere agli effetti della sentenza costitutiva del trasferimento- essendosi resa responsabile dell’inadempimento alla convenzione, è tenuta al risarcimento del danno derivante al Comune dal mancato godimento di tali tre alloggi e quattro garage nel periodo che va dal 13.08.2009 (tre mesi dal collaudo ex convenzione) ad oggi.
Quanto al primo profilo, giova ricordare che la giurisprudenza ha di recente ribadito che il rimedio previsto dall’art. 2932 c.c. deve ritenersi applicabile non solo alle ipotesi di contratto preliminare non seguito dal definitivo, ma anche in qualsiasi altra ipotesi dalla quale sorga l’obbligazione di prestare il consenso per il trasferimento o la costituzione di un diritto (cfr. Cass. civ. sez. II, 30.03.2012, n. 5160; TAR Lombardia, Brescia, 28.11.2011, n. 1126).
Ed essendo pure pacifico come l’azione ex art. 2932 c.c. sia compatibile con la struttura del processo amministrativo, vertendosi in una ipotesi di giurisdizione esclusiva, la quale, venendo in discussione questioni su diritti, non può che garantire agli interessati la medesima tutela e, dunque, le medesime specie di azioni riconosciute dinanzi al giudice ordinario, e ciò anche quando l’interessato è il Comune, che ben può scegliere la via giudiziale, in luogo di esperire poteri autoritativi, quali, ad esempio, quello espropriativo.
Quanto invece alla quantificazione del danno, si ritiene che questa possa essere determinata sulla base del valore del canone di locazione di tali immobili nel periodo di riferimento.
Nel caso di specie tale accertamento -per il quale il Comune aveva chiesto l’esperimento di una CTU- risulta nel caso di specie agevolato, essendo stati, gli immobili in questione, effettivamente concessi in locazione da parte della R. s.r.l..
A tal fine, su sollecitazione del Tribunale, il Comune di Padova ha depositato in giudizio copia delle visure da cui risulta l’effettivo ammontare del canone di locazione annuale di ciascuno dei tre appartamenti con relativi garage.
Successivamente, il Comune ha anche prodotto copia dei tre contratti di locazione, e ciò anche al di là del termine assegnato: termine, tuttavia, non perentorio, venendo qui in questione l’esercizio del potere acquisitivo del giudice, ed essendo contraria a principi di economia processuale l’inibita acquisizione di dati conoscitivi –in parte, peraltro, nel caso di specie, già risultanti dagli atti– ove ritenuti utili per la decisione, ferme restando le esigenze di difesa, nella fattispecie soddisfatte con la possibilità di discutere di tali dati all’udienza odierna (cfr., per il principio, Cons. St., sez. VI, 06.04.2007, n. 1560 e 10.03.2011, n. 1538).
Peraltro, i dati così acquisiti corrispondono per la gran parte (eccetto il box sub 35 non locato) a quelli posti a base della stima del danno effettuata dal capo settore patrimonio del Comune, sin dall’inizio versata in atti (doc. 13); stima che, dunque, nella parte che qui interessa, viene confermata nella sua attendibilità e può essere posta a fondamento della presente liquidazione del danno, senza necessità di conferire incarico ad un CTU.
Ne consegue che, sulla base dei dati acquisiti in esito all’istruttoria e della stima del settore patrimonio del Comune (aggiornata all’attualità sulla base del 75% dell’indice Istat), il danno da mancato godimento degli appartamenti e dei garage, nel periodo gennaio 2010–maggio 2014, può essere determinato come segue:
canone anno 2010, € 21.702,24
canone anno 2011, € 22.060,33
canone anno 2012, € 22.473,96
canone anno 2013, € 22.844,78
canone anno 2014 (fino a maggio compreso), € 9.561,49;
per un totale di € 98.642,80.
A tale somma, al fine di determinare il mancato utile netto, devono essere sottratte le spese (solo quelle documentate) affrontate, nel periodo in questione, dalla società Relax per IMU, ICI e condominio, come da quest’ultima richiesto. Tali spese, anche sulla base dello schema riepilogativo della società (doc. 3), non oggetto di specifiche contestazioni da parte del Comune, possono essere determinate in: € 9.665,08 per ICI/IMU, ed € 10.573,91 (€ 9.201,65 + € 1.372,26 in relazione al sub 35) per spese condominiali. Per un totale di € 20.239,00.
Per cui dalla differenza ne risulta un utile netto mancato di € 78.403,80.
Somma che può essere arrotondata in € 80.000,00 considerando, in via equitativa, il valore degli interessi legali maturati anno per anno sulle somme non tempestivamente percepite.
Su tale importo andranno poi corrisposti gli interessi legali a partire dalla data della presente decisione al saldo.
In conclusione il ricorso deve essere accolto e, per l'effetto, questo TAR deve adottare una sentenza costitutiva che disponga l'esecuzione in forma specifica della convenzione di riferimento ai sensi dell'art. 2932 c.c. e, quindi, il trasferimento al Comune resistente della proprietà dei beni immobili identificati nel ricorso introduttivo:
alloggio 1) Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 49;
alloggio 2) Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 55;
alloggio 3) Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 58;
- relativi garages, così identificati:
a) Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 16;
b) Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 35;
c) Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 36;
d) Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 38;
- parcheggio privato:
Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 5;
- centro civico:
Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 58;
e la costituzione di vincolo ad uso pubblico di:
- parcheggio privato mq. 332: Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 4;
- verde pubblico mq 548 (circa): Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 1;
- parcheggio pubblico mq. 135: Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 6;
così come specificamente identificati nel certificato di collaudo a firma dell'Ing. M., approvato dal Comune di Padova giusta determinazione 26/05/2009 n. 2009/69/0019.
Inoltre, la società R. deve essere condannata a risarcire il danno subito dal Comune di Padova per la ritardata disponibilità dei tre appartamenti e dei quattro garage, danno che si liquida in € 80.000,00 al valore attuale, oltre interessi legali dalla data della presente decisione al saldo (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 05.06.2014 n. 759 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALa convenzione urbanistica diretta a disciplinare il rilascio di concessioni edilizie e la realizzazione di opere di urbanizzazione costituisce una convenzione di lottizzazione, rientrante tra gli accordi sostitutivi del provvedimento rispetto a cui la L. n. 241 del 1990, art. 11, comma 5, prevede la giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo per le controversie relative alla formazione, conclusione ed esecuzione di detti accordi.
La giurisdizione esclusiva non viene meno nell'ipotesi in cui, insorti alcuni contenziosi e concluso tra la parte privata ed il Comune un accordo transattivo con modifica della convenzione originaria, venga giudizialmente richiesta l'esecuzione di una determinata opera da parte dell'Ente comunale e la condanna della società al risarcimento del danno per la ritardata esecuzione dell'opera stessa.
L'accordo transattivo e la successiva variante alla convenzione originaria sono infatti comunque collegati a detta convenzione, per cui si tratta di atti -con contenuto riconducibile alle problematiche relative agli oneri di urbanizzazione- endoprocedimentali all'interno di un procedimento amministrativo complesso, finalizzato a consentire al privato di edificare su terreni di sua proprietà e la controversia non attiene ad aspetti meramente patrimoniali del rapporto concessorio, involgendo invece valutazioni strettamente inerenti a detto rapporto nel momento funzionale.
Tali conclusioni sono sostenute da un ormai consolidato e condiviso, completamente e con assoluta convinzione, avviso che attinge alla radici stesse della tematica e si atteggia pertanto a principio generale nella subiecta materia, che non può pertanto risultare scalfito da considerazioni di specie relativa alla domanda di risarcimento del danno, che non valgono a svilire la analisi intrinseca del rapporto, che mantiene la sua connotazione proprio in ragione dell'inevitabile collegamento alla convenzione originaria.

PREMESSO IN FATTO
- che la Immobiliare La Stazione srl ha proposto ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione nella causa introdotta nei suoi confronti dal comune di Castelnuovo di Sotto, con ricorso al TAR per l'Emilia Romagna di Parma;
- che la società premetteva che con atto notarile del 24.02.1997, tra le parti era stata stipulata una convenzione urbanistica attuati va di un programma integrato di intervento;
- che, insorta controversia tra le parti, le stesse avevano transatto la lite con atto del 25.02.2002 alle condizioni ivi previste;
- che successivamente era insorta altra controversia tra le parti, che, malgrado tentativi di bonaria composizione, aveva indotto il Comune ad adire il TAR, chiedendo l'accertamento dell'obbligo della società a realizzare un Centro culturale polivalente e la condanna della società medesima al pagamento del danno derivato dalla mancata esecuzione dell'opera, con richiesta di provvedimento cautelare contenente l'ordine di inizio della realizzazione dell'opera suddetta;
- che la ricorrente sostiene che la giurisdizione spetti al Giudice ordinario, in quanto la controversia ha ad oggetto l'esecuzione non di un accordo integrativo o sostitutivo di provvedimento amministrativo (L. n. 241 del 1990, art. 11), ma un atto di transazione, venendo quindi in evidenza l'adempimento di obbligazioni di natura privatistica, e ciò in riferimento a tutte le domande del Comune; che il Comune sostiene, nel proposto controricorso, che i rapporti tra le parti resterebbero pur sempre regolati da una convenzione urbanistica, per cui la causa resterebbe attratta nella giurisdizione esclusiva prevista per tali controversie, non operando nella specie la L. n. 1034 del 1971, art. 5, comma 2, invocato dal ricorrente;
- che entrambe le parti hanno presentato memoria;
- che il P.G. ha rassegnato conclusioni scritte, instando per la declaratoria della giurisdizione del Giudice amministrativo.
CONSIDERATO IN DIRITTO
che:
- la convenzione urbanistica diretta a disciplinare il rilascio di concessioni edilizie e la realizzazione di opere di urbanizzazione costituisce una convenzione di lottizzazione, rientrante tra gli accordi sostitutivi del provvedimento rispetto a cui la L. n. 241 del 1990, art. 11, comma 5, prevede la giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo per le controversie relative alla formazione, conclusione ed esecuzione di detti accordi;
- la giurisdizione esclusiva non viene meno nell'ipotesi in cui, insorti alcuni contenziosi e concluso tra la parte privata ed il Comune un accordo transattivo con modifica della convenzione originaria, venga giudizialmente richiesta l'esecuzione di una determinata opera da parte dell'Ente comunale e la condanna della società al risarcimento del danno per la ritardata esecuzione dell'opera stessa. L'accordo transattivo e la successiva variante alla convenzione originaria sono infatti comunque collegati a detta convenzione, per cui si tratta di atti -con contenuto riconducibile alle problematiche relative agli oneri di urbanizzazione- endoprocedimentali all'interno di un procedimento amministrativo complesso, finalizzato a consentire al privato di edificare su terreni di sua proprietà e la controversia non attiene ad aspetti meramente patrimoniali del rapporto concessorio, involgendo invece valutazioni strettamente inerenti a detto rapporto nel momento funzionale (v. Cass. 20.11.2007, n. 24009);
- tali conclusioni sono sostenute da un ormai consolidato e condiviso, completamente e con assoluta convinzione, avviso che attinge alla radici stesse della tematica e si atteggia pertanto a principio generale nella subiecta materia (cfr. Cass. nn 19494, 18630 del 2008 e 2029 (ordza) dello stesso anno), che non può pertanto risultare scalfito da considerazioni di specie relativa alla domanda di risarcimento del danno, che non valgono a svilire la analisi intrinseca del rapporto, che mantiene la sua connotazione proprio in ragione dell'inevitabile collegamento alla convenzione originaria;
- il ricorso non può pertanto trovare accoglimento e va conseguentemente dichiarata la giurisdizione del giudice amministrativo (Corte di Cassazione, Sezz. unite civili, ordinanza
17.04.2009 n. 9151).

AGGIORNAMENTO AL 13.08.2015

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Abuso edilizio, vincolo paesaggistico sopravvenuto e richiesta di sanatoria (ordinaria, ex art. 36 oppure 37 DPR n. 380/2001):
occorre, o meno, presentare la richiesta di accertamento della compatibilità paesaggistica ex art. 167 d.lgs. 42/2004??

     La questione che vogliamo affrontare oggi origina dal lontano 1985, all'indomani del varo del 1° condono edilizio (Legge 28.02.1985 n. 47 - Norme in materia di controllo dell'attività urbanistico-edilizia - Sanzioni amministrative e penali).
     Nello specifico, si tratta dell'art. 32, comma 1, 1° periodo, che nel testo oggi vigente (così come nell'anno 1985) così dispone: "art. 32. Opere costruite su aree sottoposte a vincolo
1. Fatte salve le fattispecie previste dall'articolo 33,
il rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria per opere eseguite su immobili sottoposti a vincolo, è subordinato al parere favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela del vincolo stesso. Qualora tale parere non venga formulato dalle suddette amministrazioni entro centottanta giorni dalla data di ricevimento della richiesta di parere, il richiedente può impugnare il silenzio-rifiuto. Il rilascio del titolo abilitativo edilizio estingue anche il reato per la violazione del vincolo. Il parere non è richiesto quando si tratti di violazioni riguardanti l'altezza, i distacchi, la cubatura o la superficie coperta che non eccedano il 2 per cento delle misure prescritte.".
     Ebbene, sulla ratio di tale norma (1° periodo) è sorto quasi subito un contrasto giurisprudenziale in questi termini:
se il rilascio del condono edilizio fosse subordinato al parere favorevole dell'autorità preposta alla tutela del vincolo, di cui all’art. 32 della legge 28 febbraio 1985 n. 47, non solo per le opere ricadenti in zona che risulti già vincolata al momento della loro esecuzione ma anche per quelle laddove il vincolo fosse sopravvenuto.
     A dirimere la controversia è dovuta intervenire l'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato che, con la sentenza 22.07.1999 n. 20, ha così statuito:
 

EDILIZIA PRIVATA: La disposizione di portata generale di cui all’art. 32, primo comma, relativa ai vincoli che appongono limiti all’edificazione, non reca alcuna deroga a questi principi, cosicché essa deve interpretarsi “nel senso che l'obbligo di pronuncia da parte dell'autorità preposta alla tutela del vincolo sussiste in relazione alla esistenza del vincolo al momento in cui deve essere valutata la domanda di sanatoria, a prescindere dall'epoca d'introduzione del vincolo. E appare altresì evidente che tale valutazione corrisponde alla esigenza di vagliare l'attuale compatibilità, con il vincolo, dei manufatti realizzati abusivamente".
2. Con il primo motivo d’impugnazione si sostiene che erroneamente il giudice di primo grado ha ritenuto il rilascio del condono edilizio subordinato al parere favorevole dell'autorità preposta alla tutela del vincolo, di cui all’art. 32 della legge 28.02.1985 n. 47, richiedendosi detto parere, al contrario, solo per le opere ricadenti in zona che risulti già vincolata al momento della loro esecuzione.
Nel caso in esame, si osserva, il vincolo ambientale gravante sulla zona è stato imposto in epoca successiva non solo all’esecuzione delle opere, ma anche alla stessa L. n. 47 del 1985 e, per altro, i manufatti oggetto delle prime due istanze di condono risalgono ad epoca anteriore al 1967 e ricadono in zona agricola, cosicché al momento della loro esecuzione non erano soggetti a licenza edilizia, né per essi avrebbe dovuto essere avanzata domanda di condono.
2.1. Sulla questione, avverte la Sezione VI nella sua ordinanza di rimessione, si sono manifestati indirizzi di segno diverso.
Un primo orientamento ritiene obbligatoria l’acquisizione del parere anche se le opere sono state realizzate in data anteriore all'apposizione del vincolo (C.S., V, 23.03.1991 n. 326; id., 22.12.1994 n. 1574; id., 04.05.1995 n. 696; id., 13.02.1997 n. 158; Sez. VI, 09.10.1997 n. 1461).
Alla base di tale linea interpretativa vengono addotte non solo ragioni desunte dalla formulazione letterale del citato art. 32, primo comma, L. n. 47/1985, nel quale non è precisato che il vincolo imposto debba essere anteriore all'esecuzione delle opere abusive, ma anche rilievi di carattere sostanziale, quali: la funzione correttiva dell'automatismo del condono edilizio da riconoscersi al parere in questione; la presenza di interessi pubblici di valore primario (culturali, ambientali o paesaggistici e altri), che non possono essere compromessi in via definitiva; la natura oggettiva del vincolo, la gestione del quale non richiede altro che la sua esistenza.
Nel senso che, invece, il parere di cui si tratta non sia necessario ove il vincolo sia posteriore all'esecuzione dell'opera, sono le decisioni della Sesta Sezione 30.09.1995 n. 1030 e 05.03.1997 n. 356.
Questo secondo orientamento valorizza l'espressione “aree sottoposte a vincolo" di cui all'art. 32, osservando che essa si riferisce ad un fatto accaduto, vale a dire alla già avvenuta sottoposizione a vincolo, e sottolinea come il legislatore abbia inteso significare che solo a partire da questo momento la qualità dell'area espressa dal vincolo assume rilevanza ai fini della sanatoria delle opere che su di essa siano state realizzate.
Rafforzano questa conclusione ragioni di ordine sistematico desumibili sia dal quarto comma del medesimo art. 32, il quale dimostrerebbe che quando il legislatore ha inteso considerare anche il vincolo sopravvenuto al compimento dell'opera, lo ha fatto esplicitamente; sia dal primo comma del successivo art. 33 che, ammettendo per implicito la sanabilità delle opere in contrasto con vincoli di inedificabilità assoluta sopravvenuti, evidenzierebbe l’incongruità di una disciplina meno favorevole per l'ipotesi, meno grave, di opera su area successivamente colpita da vincolo che comporti soltanto un’edificabilità limitata.
Un ulteriore orientamento, espresso in sede consultiva (C.S., Sez. II, par. 20.05.1998 n. 403/1998), attribuisce rilevanza alla data ultima concessa dalla legge per la presentazione della domanda di sanatoria, di tal che il parere dell'Amministrazione preposta alla tutela del vincolo è obbligatorio ogni volta che questo, a prescindere dall'ultimazione dell'abuso e dall'entrata in vigore delle leggi di condono, sia stato imposto prima della indicata data.
Si riconosce alla sanatoria straordinaria di cui agli artt. 31 e seguenti della L. n. 47 del 1985 il carattere eccezionale di atto assimilabile a quelli di clemenza generale, tale da giustificare la deroga al principio “tempus regit actum”, secondo il quale la legittimità degli atti amministrativi si valuta con riguardo unicamente alle norme vigenti ed alla situazione esistente al momento del loro venire in essere.
Dalla considerazione di tale particolare natura dell’istituto del condono edilizio si deduce, quale criterio fondamentale, che “le valutazioni giuridiche debbono essere compiute soltanto in riferimento ai parametri presenti al tempo dell'operatività dell'atto generale di clemenza, e che non può farsi eccezione alla misura di clemenza stessa se non a tutela di interessi pubblici reputati prioritari e superiori a quello suo stesso, ma che comunque debbono, per ragioni di intrinseca coerenza e di razionalità delle scelte, essere effettivi ed attuali”.
Si individua, infine, nel termine per la presentazione della domanda, “la data di riferimento per la operatività della fattispecie di sanatoria straordinaria, che postula, con la presentazione della domanda, il concorso del privato interessato in utilizzazione del beneficio offertogli dalla legge”.
2.2. Così ricostruiti i termini cui è pervenuta la questione, ritiene l’Adunanza plenaria che, in mancanza di indicazioni univoche desumibili dal dato normativo, ad essa debba darsi soluzione alla stregua dei principi generali in materia di azione amministrativa, tenuto conto della valenza attribuita dall’ordinamento agli interessi coinvolti nell’applicazione della disposizione legislativa di cui si tratta.
Il legislatore, in realtà, è intervenuto più volte sull’art. 32 della legge 28.02.1985 n. 47 (con l'art. 4 del D.L. 23.04.1985 n. 146; con l'art. 12 del D.L. 12.01.1988, n. 2, peraltro, dichiarato costituzionalmente illegittimo da Corte Cost., 10.03.1988 n. 302; con l'art. 2, comma 43, della legge 23.12.1996 n. 662), perfino con una disposizione interpretativa (art. 1 L. 27.12.1997 n. 449), senza mai provvedere, tuttavia, in ordine al dubbio che qui s’intende sciogliere. Il che non può essere del tutto privo di significato.
D’altra parte, non sembrano condivisibili gli argomenti addotti a sostegno delle linee interpretative sopra riferite che o negano del tutto la rilevanza del vincolo successivo o la fermano entro il termine per la presentazione della domanda di sanatoria. Così non appare persuasivo quello tratto dalla formulazione letterale della norma.
In particolare, l'impiego dei participi passati “eseguite” e “sottoposte”, nell'espressione “opere eseguite su aree sottoposte a vincolo” utilizzata dal legislatore nel primo comma dell’articolo, non rappresenta sicuro riferimento alla sola ipotesi di opera abusivamente costruita su area già gravata da vincolo nel momento della sua realizzazione. Non è infrequente, nella lingua italiana, l’uso del participio passato con funzione semplicemente oggettivante; uso che, nella specie, non necessariamente esprime l’esistenza di una relazione temporale tra le due qualità, rispettivamente, dell’opera e dell’area.
La circostanza, poi, che, quando ha inteso considerare anche il vincolo sopravvenuto al compimento dell'opera, il legislatore lo ha fatto esplicitamente, come nell'art. 32, quarto comma, non depone per una lettura in senso opposto della norma che di tale specificazione sia priva. Il silenzio mantenuto in proposito, invece, ben può essere significativo proprio dell’intento di non attribuire alcuna rilevanza al momento in cui il vincolo risulti imposto.

Neppure decisive appaiono le argomentazioni di carattere sistematico fondate sul raffronto con l'art. 33, primo comma, L. n. 47/1985, che prevede l’insanabilità degli abusi commessi in spregio di un vincolo di inedificabilità assoluta già vigente al momento dell’attività edificatoria.
La disposizione non può essere caricata di un significato che non ha: è difficile, infatti, considerare del tutto inesistente un vincolo d’inedificabilità totale per il solo fatto che sia sopravvenuto all’edificazione e ritenere, pertanto, che l'abuso commesso sia senz’altro sanabile. Un giusto raccordo tra gli articoli in esame comporta che la fattispecie, siccome non specificamente disciplinata dall’art. 33, ricada nella previsione di carattere generale contenuta nel primo comma dell’art. 32. Viene meno, quindi, l’ipotizzata incongruenza nella disciplina delle due situazioni, per altro tra loro sostanzialmente diverse, sulla quale l’argomento considerato si fonda.
Dell’orientamento più recente, espresso nel citato parere della Sezione II, richiede qualche riflessione la conclusione alla quale perviene, di individuare nel termine massimo stabilito per la presentazione della domanda di condono il limite temporale della rilevanza del vincolo e, quindi, dell’obbligatorietà del parere di cui all’art. 32, primo comma.
Tale soluzione viene giustificata assumendo quel termine come il momento di riferimento per la “operatività della fattispecie di sanatoria straordinaria”, al quale “attualizzare” la salvaguardia di quei valori che la stessa scelta politica di clemenza generale ha reputati prioritari e superiori.
Di primo acchito, per altro, al concetto di “operatività”, piuttosto oscuro sul piano delle categorie giuridiche, pare preferibile quello di perfezionamento della fattispecie nei suoi elementi costitutivi, oggettivi e soggettivi, uno dei quali è senza dubbio l’esistenza della volontà di avvalersi del beneficio, espressa dall’interessato con la domanda; onde sembrerebbe più corretto riferirsi alla data di questa, lasciando alla diligenza del singolo di evitare il rischio della sopravvenienza del vincolo.
Ma, ad una valutazione più attenta, è proprio riguardo alla determinazione dell’ambito in cui devono ritenersi fatti salvi taluni valori che la tesi perde pregio.
I limiti e le modalità di tale salvezza, invero, non possono avere altra fonte che la norma positiva la quale, come s’è visto sopra, almeno nella disposizione generale relativa ai vincoli, dettata con il primo comma del ripetuto art. 32, non offre alcun elemento di definizione.
Confortano l’assunto quanto meno due considerazioni: la prima, con la quale va messa in evidenza la specialità della normativa sul condono edilizio, attesa la sua natura derogatoria ed eccezionale, che ne impone una lettura di stretta interpretazione; la seconda, che fa perno sull’esistenza, nello stesso art. 32 (si veda il comma quarto), di una più dettagliata disciplina della tutela che, a fronte della generale sanatoria, il legislatore ha inteso riservare a taluni specifici vincoli (si potrebbe dire, “minori” rispetto a quelli paesaggistico-ambientali, storico-artistici, ecc.).
2.3. Il vero è che la cura del pubblico interesse, in che si concreta la pubblica funzione, ha come sua qualità essenziale la legalità: è la legge che attribuisce la funzione e ne definisce le modalità di esercizio, anche attraverso la definizione dei limiti entro i quali possono ricevere attenzione gli altri interessi, pubblici e privati, con i quali l’esercizio della funzione interferisce. Compito, questo, peraltro, che nessun’altra norma può svolgere se non quella vigente al tempo in cui la funzione si esplica (“tempus regit actum”).
Ne consegue che la pubblica Amministrazione, sulla quale a norma dell’art. 97 Cost. incombe più pressante l’obbligo di osservare la legge, deve necessariamente tener conto, nel momento in cui provvede, della norma vigente e delle qualificazioni giuridiche che essa impone.
La disposizione di portata generale di cui all’art. 32, primo comma, relativa ai vincoli che appongono limiti all’edificazione, non reca alcuna deroga a questi principi, cosicché essa deve interpretarsi “nel senso che l'obbligo di pronuncia da parte dell'autorità preposta alla tutela del vincolo sussiste in relazione alla esistenza del vincolo al momento in cui deve essere valutata la domanda di sanatoria, a prescindere dall'epoca d'introduzione del vincolo. E appare altresì evidente che tale valutazione corrisponde alla esigenza di vagliare l'attuale compatibilità, con il vincolo, dei manufatti realizzati abusivamente" (C.S., V, 22.12.1994 n. 1574).
Quanto alla preoccupazione che siffatta soluzione esporrebbe il singolo caso, in violazione del principio di certezza del diritto e di non disparità di trattamento, alla variabile alea dei tempi di decisione sull’istanza, si osserva, per un verso, che addurre inconvenienti non è un buon argomento ermeneutico e, per altro verso, che, ad ogni modo, l’ordinamento appresta idonei strumenti di sollecitazione e, se del caso, di sostituzione dell’Amministrazione inerte.
2.4. Alla stregua delle considerazioni fin qui esposte, la doglianza relativa all’irrilevanza del vincolo sopravvenuto, dedotta con il primo motivo d’appello, si rivela infondata.
Non rileva, inoltre, la circostanza che per alcuni dei manufatti in questione non fosse neppure richiesta la licenza edilizia all’epoca della loro costruzione, cosicché per essi non sussisteva l’obbligo della domanda di condono. Sta di fatto che con la presentazione dell’istanza il ricorrente ha operato una scelta all’evidente fine di acquisire il titolo domandato e, attraverso questo, il beneficio della certezza giuridica nei rapporti relativi al manufatto. L’Amministrazione non poteva provvedere in modo diverso su di una tale domanda, che, del resto, sarebbe stata ugualmente respinta anche ove si fosse ritenuta non necessaria la sanatoria invocata.
Il primo motivo d’impugnazione va, pertanto, respinto (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 22.07.1999 n. 20).


     Fatta chiarezza che in materia di condono edilizio (il 1°, il 2° oppure il 3° che dir si voglia) "l'obbligo di pronuncia da parte dell'autorità preposta alla tutela del vincolo sussiste in relazione alla esistenza del vincolo al momento in cui deve essere valutata la domanda di sanatoria, a prescindere dall'epoca d'introduzione del vincolo", ad oggi tutte le numerosissime sentenze di nostra conoscenza che hanno affermato tale principio vertevano, appunto, in materia di condono edilizio.
    
Ma cosa succede se siamo in presenza di una sanatoria ordinaria (ex art. 36 oppure 37 del DPR n. 380/2001)?? Vale -o meno- il medesimo principio??
     Per quanto ci consti, tre Regioni si sono pronunciate -in risposta a quesiti specifici- ed hanno sostenuto la tesi per cui la richiesta di verifica della compatibilità paesaggistica (ex art. 167 d.lgs. 42/2004) opera solamente se il vincolo esisteva già prima della realizzazione dell'abuso edilizio e non anche se il vincolo sia sopraggiunto.
     Di seguito i tre pareri della Regione Lombardia, Piemonte ed Emilia Romagna:
 

EDILIZIA PRIVATARichiesta parere in merito applicazione artt. 167 - 181 del D.Lgs. n. 42/2004 (Regione Lombardia, Direzione Generale Territorio e Urbanistica, nota 18.12.2008 n. 24534 di prot.).
Un parere in merito alla questione se un abuso edilizio commesso su area non paesaggisticamente vincolata debba, invero, essere assoggettato alla procedura di compatibilità ex artt. 167 e 181 poiché nel frattempo e successivamente è stata vincolata l'area de qua.

EDILIZIA PRIVATA: Viene posto il problema di un’opera edilizia abusiva realizzata nel 1971 (anteriormente, dunque, alla cosiddetta “legge Galasso”) a distanza inferiore a 150 metri da un corso d’acqua, in assenza di titolo abilitativo edilizio; per tale opera viene ora richiesto il titolo edilizio predetto in sanatoria, sussistendo la conformità dell’opera alla “disciplina urbanistica ed edilizia vigente” (art. 36 T.U. ed.), in presenza del fatto che non è peraltro praticabile nel caso una “sanatoria paesaggistica”, in virtù dei disposti del “codice dei beni culturali”.
Il caso concreto proposto dal Comune presenta i seguenti connotati.
Nel 1971, e dunque vari anni prima dell’emanazione della cosiddetta “legge Galasso”, a distanza inferiore a 150 metri da un torrente è stata costruita -senza licenza edilizia (così era denominato all’epoca il titolo abilitativo edilizio, non ancora chiamato “concessione”)- un’autorimessa.
La stessa, per quanto emerge dal quesito posto (quesito che altrimenti non avrebbe neppure ragion d’essere), non dava luogo a contrasti con la disciplina urbanistica ed edilizia vigente all’epoca della realizzazione né con quella in vigore attualmente.
Sussistono quindi le condizioni di cui all’art. 36 del D.P.R. 380/2001 recante Testo Unico dell’edilizia: l’autorimessa in questione è sanabile -sotto il profilo urbanistico/edilizio- ai sensi della disposizione di legge dianzi citata.
Peraltro, come è noto, nel 1985 è intervenuto dapprima il d.l. 312 e poi la legge n. 431 (cosiddetta “legge Galasso”), che ha istituito la categoria delle “aree tutelate per legge” (per usare il linguaggio dell’art. 142 del “codice dei beni culturali”, d.lgs. 42/2004 e succ. mod. attualmente in vigore).
E’ parimenti noto il fatto che la legislazione di cui dianzi (la “legge Galasso” è ora travasata nel codice anzidetto) ha stabilito che “sono comunque di interesse paesaggistico e sono sottoposti alle disposizioni” del Titolo I della Parte Terza del codice “i fiumi, i torrenti, i corsi d’acqua (…) e le relative sponde o piedi degli argini per una fascia di 150 metri ciascuna”.
L’autorimessa in questione è stata dunque edificata quando l’area interessata non era gravata di vincolo paesaggistico alcuno; l’irregolarità è consistita solo nel realizzare la costruzione senza munirsi della licenza edilizia comunale, licenza che tuttavia sarebbe stata rilasciata (per quanto è dato di intendere dal quesito) ove richiesta, stante l’assenza di contrasti con la disciplina urbanistica ed edilizia, contrasti che non sussistono neppure oggi.
La regolarizzazione edilizia dell’intervento non porrebbe dunque alcun problema: sarebbe infatti applicabile l’istituto anzidetto dell’accertamento di conformità di cui all’art. 36 del D.P.R. 380/2001: il proprietario del fabbricato potrebbe sanare l’intervento, previo pagamento di una somma pari al doppio del contributo di costruzione oggi dovuto.
Peraltro, correttamente il Comune si chiede se sia rilasciabile il permesso di costruire in sanatoria ex art. 36 citato, in presenza del fatto che oggi (art. 146, comma 4, d.lgs. 42/2004) non è più rilasciabile l’autorizzazione paesaggistica in sanatoria che parrebbe dover precedere il titolo abilitativo edilizio e può essere solo accertata la “compatibilità paesaggistica” nei limitati casi di cui agli artt. 167, co. 4 e 181, co. 1-ter del d.lgs. 42/2004, casi ai quali sfugge l’intervento in questione, poiché l’autorimessa dà luogo ad una nuova superficie utile: è quindi esclusa dalla possibilità di verificarne la compatibilità paesaggistica dagli articoli dinanzi citati.
In effetti più problematica appare la questione inerente alla eventuale regolarizzazione paesaggistica dell’intervento.
Al riguardo, va detto quanto segue. (... continua) (Regione Piemonte, parere n. 18/2009 - tratto da www.regione.piemonte.it).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Applicazione dell’art. 17-bis della L.R. n. 23 del 2004, relativamente agli aspetti paesaggistici – Risposta a richiesta di parere (Regione Emilia Romagna, parere 04.08.2015 n. 558474 di prot.).
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Con nota inviata il 16.06.2015, prot. n. 128924, (acquisita agli atti del Servizio in data 16.06.2015, prot. n. PG.2015.421736) il Comune di XXX pone un quesito in merito all'applicazione dell’art. 17-bis della L.R. n. 23 del 2004, chiedendo se tale forma di sanatoria si debba coordinare con l’istituto dell’accertamento di compatibilità di cui all’art. 167 del D.Lgs. n. 42 del 2004, Codice dei beni culturali e del paesaggio (da qui in avanti Codice).
In particolare, si chiede come procedere per la regolarizzazione di opere, eseguite in parziale difformità durante i lavori in attuazione di titoli abilitativi rilasciati prima dell'entrata in vigore della legge 28.01.1977, n. 10, in caso di vincolo paesaggistico sopravvenuto.
Nella nota si fa riferimento al parere espresso da questi Servizi regionali del 17.04.2012, prot. n. PG/2012/95795, che qui si intende parzialmente rivisto. (... continua).
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ATTENZIONE:
- col suddetto parere la Regione Emilia Romagna si ravvede per quanto espresso con un precedente pronunciamento e si allinea alla Regione Lombardia ed alla Regione Piemonte:
EDILIZIA PRIVATAOggetto: Sanatoria di interventi edilizio-urbanistici abusivi realizzati prima dell’imposizione del vincolo paesaggistico - Risposta a richiesta di parere (Regione Emilia Romagna, parere 17.04.2012 n. 95795 di prot.).


     Tuttavia, di recente siamo a venuti a conoscenza di due pronunciamenti del TAR (uno dei quali confermato dal CdS) che, in caso di sanatoria ordinaria e non di condono edilizio, sposano la tesi dell'Adunanza Plenaria sopra riportata. Di seguito le sentenze:
 

EDILIZIA PRIVATASecondo il prevalente orientamento giurisprudenziale, per potere ottenere la sanatoria di immobili abusivi situati in zona assoggettata a vincolo paesaggistico, è sempre necessario acquisire il parere favorevole delle amministrazioni preposte alla sua tutela; e ciò a prescindere dal requisito della anteriorità dell'opera rispetto al vincolo stesso.
A sostegno di questa conclusione vi sono due elementi. Il primo, di carattere sostanziale, fa leva sul fatto che è necessario vagliare l'attuale compatibilità dell’opera abusiva con il vincolo sopravvenuto. Il secondo, di carattere formale ma strettamente connesso al primo, si basa sul principio tempus regit actum, principio che obbliga l'autorità competente a tenere conto del regime giuridico vigente al momento di valutazione della la domanda di sanatoria, a prescindere dall'epoca d'introduzione del vincolo paesaggistico.
Pertanto, in linea di massima, chi presenta una domanda di sanatoria di un’opera abusivamente realizzata in zona assoggettata a vincolo paesaggistico non può pretendere di sottrarsi dalla valutazione di compatibilità invocando l’anteriore realizzazione dell’opera medesima rispetto al suddetto vincolo.
Questa conclusione, però, si fonda sul presupposto che l’opera sia abusiva.
Se l’opera è stata invece legittimamente realizzata, la successiva introduzione del vincolo non può ovviamente avere alcuna ripercussione sul regime giuridico ad essa applicabile. Vale anche in questa ipotesi il principio tempus regit actum.

19. Si deve ora passare all’esame dei primi motivi aggiunti con i quali sono stati impugnati il parere negativo sull’accertamento di compatibilità paesaggistica, rilasciato dal Comune di Abbiategrasso, ed il provvedimento del Soprintendente per i Beni Architettonici e Paesaggistici di Milano, il quale ha dichiarato l’improcedibilità della relativa istanza.
20. Il Collegio può omettere lo scrutinio delle eccezioni di rito sollevate dall’Amministrazione resistente stante l’infondatezza nel merito delle censure dedotte.
21. Con il primo motivo dei primi motivi aggiunti, il ricorrente sostiene che, in realtà, le opere oggetto del presente giudizio non necessiterebbero di autorizzazione paesaggistica in quanto realizzate prima dell’introduzione del vincolo. La domanda di accertamento di compatibilità paesaggistica sarebbe stata, quindi, presentata a scopo meramente cautelativo; per questa ragione, le Autorità interessate, invece che pronunciarsi nel merito per respingerla, avrebbero dovuto limitarsi a rilevare l’inutilità della domanda stessa.
22. Ritiene il Collegio che il motivo sia infondato.
23. Secondo il prevalente orientamento giurisprudenziale, per potere ottenere la sanatoria di immobili abusivi situati in zona assoggettata a vincolo paesaggistico, è sempre necessario acquisire il parere favorevole delle amministrazioni preposte alla sua tutela; e ciò a prescindere dal requisito della anteriorità dell'opera rispetto al vincolo stesso (cfr. Consiglio di Stato, ad. plen., 22.07.1999 n. 20; id., sez. VI, 07.05.2015, n. 2297; id., 17.01.2014, n. 231).
24. A sostegno di questa conclusione vi sono due elementi. Il primo, di carattere sostanziale, fa leva sul fatto che è necessario vagliare l'attuale compatibilità dell’opera abusiva con il vincolo sopravvenuto. Il secondo, di carattere formale ma strettamente connesso al primo, si basa sul principio tempus regit actum, principio che obbliga l'autorità competente a tenere conto del regime giuridico vigente al momento di valutazione della la domanda di sanatoria, a prescindere dall'epoca d'introduzione del vincolo paesaggistico.
25. Pertanto, in linea di massima, chi presenta una domanda di sanatoria di un’opera abusivamente realizzata in zona assoggettata a vincolo paesaggistico non può pretendere di sottrarsi dalla valutazione di compatibilità invocando l’anteriore realizzazione dell’opera medesima rispetto al suddetto vincolo.
26. Questa conclusione, però, si fonda sul presupposto che l’opera sia abusiva.
27. Se l’opera è stata invece legittimamente realizzata, la successiva introduzione del vincolo non può ovviamente avere alcuna ripercussione sul regime giuridico ad essa applicabile. Vale anche in questa ipotesi il principio tempus regit actum (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 05.08.2015 n. 1891 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La diversa oggettiva localizzazione del fabbricato su una porzione dell’area di sedime diversa da quella individuata in occasione del rilascio del titolo autorizzatorio, non può, come auspicato da parte ricorrente, essere semplicemente ricondotta ad una difformità parziale, bensì deve essere qualificata come variazione essenziale, così come definita dall’art. 8, lett. c), della legge n. 47/1985 e dall’art. 92, comma 3, lett. c), della legge regionale 61/1985.
Per cui
la modifica della localizzazione dell’edificio, tale da comportare lo spostamento del fabbricato in un’area –come nel caso in esame– pressoché diversa da quella prevista all’atto del rilascio del titolo edilizio, costituisce una variante essenziale, in quanto profilo che può condizionare la compatibilità dell’intervento con i parametri urbanistici e le connotazioni dell’area.
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Al momento della realizzazione del fabbricato l’area di sedime realmente interessata dall’intervento era compresa nell’ambito della fascia di rispetto cimiteriale.
Sulla base di questo dato oggettivo, il quale conferma che al momento della realizzazione dell’opera questa risultava illegittimamente posizionata in una area non edificabile, non è possibile il conseguimento della sanatoria ex art. 36 del D.P.R. 380/2001 per mancanza della cd. “doppia conformità”, ossia la conformità alle prescrizioni urbanistico-edilizie vigenti al momento della realizzazione dell’opera e quelle vigenti al momento in cui è stata richiesta la sanatoria.

Il dato così rilevato assume rilevanza dirimente rispetto ad ogni altra considerazione circa la pretesa illegittimità del provvedimento che ha denegato la sanatoria, in quanto, come correttamente ritenuto nel provvedimento di diniego,
le variazioni apportate all’originaria licenza costituiscono variazione essenziale rispetto all’originaria licenza e mancano del requisito della doppia conformità sia al momento della realizzazione che al momento dell’istanza.
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Va ricordato che dal 1999 tutto il territorio comunale è soggetto a vincolo paesaggistico, per cui, in base alla normativa oggi vigente in materia di rilascio delle autorizzazioni per interventi da eseguirsi in ambiti protetti, comunque non sarebbe consentito ottenere un’autorizzazione a sanatoria.
A tale riguardo è costante l’orientamento giurisprudenziale in base al quale in sede di sanatoria o di condono di un manufatto abusivo risulta ininfluente l'epoca in cui è sorto il vincolo, purché questo sia ancora in essere alla data in cui deve essere valutata la domanda di sanatoria, sicché detta regola vale anche per le opere eseguite anteriormente all'apposizione del vincolo stesso.
Invero, ai fini del rilascio delle concessioni edilizie in sanatoria, la valutazione della compatibilità dell’intervento con il vincolo deve essere effettuata in relazione all'esistenza del vincolo al momento in cui deve essere valutata la domanda di sanatoria, a prescindere dall'epoca in cui il vincolo medesimo sia stato introdotto, atteso che tale valutazione corrisponde all'esigenza di vagliare l'attuale compatibilità con il vincolo dei manufatti realizzati abusivamente.
Atteso che la richiesta di sanatoria (ndr: di un abuso realizzato nel 1984) è stata presentata nel 2006 e quindi in un’epoca in cui il vincolo già era esistente, trattandosi di opera implicante incremento di superficie e di volume e quindi non rientrante nell’ambito delle ipotesi in cui è eccezionalmente consentito, in base ai commi 4 e 5 dell’art. 167 D.lgs. 42/2004, il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria, l’inciso contenuto nel provvedimento impugnato risulta corretto.

FATTO
Con il ricorso introduttivo il signor T.O., proprietario in Comune di Monfumo di un compendio immobiliare così catastalmente censito: N.C.T. – Comune di Monfumo – Foglio II- mappali nn. 25, 27, 32, 300, 494, 507, ha impugnato l’ordinanza n. 16 del 24.07.1997, con la quale l’amministrazione comunale, dopo aver precedentemente ordinato la sospensione di una serie di lavori presenti nell’ambito delle aree di proprietà del ricorrente, attesa la documentazione successivamente fornita dal medesimo e rilevato che, per quanto specificamente riguardava i fabbricati individuati ai punti 4) costruzione di un capannone in difformità dalla concessione edilizia n. 783/84, 5) realizzazione di annesso a sud del suddetto capannone e 6) realizzazione di annessi a nord-est dell’abitazione, così come evidenziati in giallo nella planimetria allegata, questi risultavano ricadere in zona di vincolo cimiteriale, già preesistente alla data del 01.09.1967, così da rendere ininfluente la dichiarata realizzazione anteriore a tale data almeno per due di essi, ordinava al ricorrente di provvedere alla loro demolizione nel termine di 90 giorni.
A sostegno della richiesta di annullamento del provvedimento impugnato parte istante ha dedotto una serie articolata di motivi, evidenziando in primo luogo e con specifico riferimento al fabbricato individuato con il n. 4 (capannone realizzato in difformità rispetto alla concessione edilizia n. 783/84) che le difformità rilevate non potevano essere ricondotte alle ipotesi di variazioni essenziali o di completa difformità rispetto al titolo assentito, per cui risultava del tutto sproporzionata l’applicazione della più grave sanzione della demolizione, anziché quella pecuniaria, applicabile agli interventi eseguiti solo in parziale difformità.
Per altro verso e con specifico riferimento alla rilevata insistenza dei fabbricati da demolire in ambito soggetto a vincolo cimiteriale e quindi di inedificabilità, la difesa istante rilevava come l’amministrazione comunale avesse modificato l’estensione della fascia di rispetto cimiteriale con deliberazione antecedente la data di adozione del provvedimento impugnato, così finendo per ordinare la demolizione dei fabbricati sulla base dell’erroneo presupposto della loro insistenza in ambito soggetto al vincolo cimiteriale.
Infine, per quanto riguarda gli altri manufatti, in particolare per il ricovero attrezzi agricoli e fieno, parte istante evidenziava che, sebbene non ne fosse stata contestata la realizzazione successivamente al 1967, trattavasi di manufatti del tutto precari e funzionali all’edificio principale, come tali non assoggettabili a concessione edilizia o ad autorizzazione e quindi neppure a provvedimenti sanzionatori.
Con ordinanza n. 1875/97 il Tribunale, valutato il danno, accoglieva la richiesta di sospensione dell’ordinanza impugnata.
Nelle more il ricorrente veniva affiancato nell’attività aziendale dalla figlia T.S., la quale ha quindi presentato in data 22.05.2006 una domanda per il rilascio del permesso di costruire in “variante a concessione edilizia n. 783 del 28.03.1984”, riguardante nello specifico il solo fabbricato individuato nelle planimetrie come edificio “G”, corrispondente al punto n. 4 dell’ordinanza n. 16/97.
Nonostante la domanda non fosse stata formalmente formulata come istanza di sanatoria, l’amministrazione, intendendo comunque determinarsi come se tale fosse stata la volontà della richiedente, si pronunciava, previa comunicazione dei motivi ostativi ex art. 10-bis L. 241/1990, con il provvedimento finale di rigetto dell’istanza, datato 26.09.2006.
Avverso il diniego di sanatoria insorgeva nuovamente il ricorrente congiuntamente alla figlia S. con la proposizione di motivi aggiunti, con i quali venivano rinnovate le doglianze già dedotte in occasione del ricorso introduttivo, soprattutto per quanto riguarda la classificazione come variazione essenziale delle modifiche apportate all’originario progetto concessionato nel 1984 relativamente alla costruzione nell’area pertinenziale dell’edificio “G”, rilevando come detta erronea classificazione avrebbe illegittimamente impedito anche la sanabilità dell’intervento, laddove fosse stato correttamente qualificato come difformità parziale.
Inoltre, con specifico riguardo al diniego di sanatoria ed alla motivazione posta a fondamento dello stesso, la difesa istante ha sottolineato l’insufficienza e la contraddittorietà delle ragioni addotte dall’amministrazione, difettando ogni indicazione delle normative di riferimento e soprattutto mancando di rilevare come il richiamato vincolo ambientale fosse stato imposto soltanto in epoca successiva alla esecuzione degli interventi.
Per altro verso, parte istante ha denunciato la difformità dei contenuti della nota con la quale sono stati comunicati i motivi ostativi e la successiva determinazione finale dell’amministrazione, soprattutto per quanto riguarda il parere reso dalla commissione edilizia, denotando ancora una volta la contraddittorietà del comportamento dell’amministrazione comunale. Senza contare, altresì, l’inutile ed inconferente aggravio procedimentale derivante dalle ulteriori allegazioni richieste per quanto riguarda le caratteristiche aziendali.
L’amministrazione intimata, già costituitasi in giudizio con un primo collegio difensivo, con la nomina dei nuovi difensori provvedeva a depositare le proprie controdeduzioni, evidenziando la legittimità dei provvedimenti impugnati, in modo particolare per quanto riguarda l’ordine di demolizione dei fabbricati realizzati in assenza di titolo e, per quanto riguarda l’edificio “G”, l’avvenuta esecuzione degli interventi in palese variazione essenziale rispetto all’assentito, tenuto conto dell’avvenuta traslazione dell’edificio in una posizione diversa nell’ambito dell’area di pertinenza (spostata di 60ml verso nord) e con dimensioni diverse e maggiori rispetto a quanto indicato nel progetto iniziale.
Inoltre, veniva ribadita l’insistenza dell’immobile in un ambito ricadente nella fascia di rispetto cimiteriale e quindi l’assenza del requisito della doppia conformità per quanto riguarda la sanatoria edilizia, indipendentemente dalle sopravvenute modifiche dell’estensione della fascia di rispetto, senza contare l’esistenza del vincolo ex lege 431/1985, esteso a tutto il territorio comunale di Monfumo, che impedisce in ogni caso il rilascio a posteriori dell’autorizzazione paesaggistica.
Con successive memorie di replica ciascuna parte precisava le proprie conclusioni: in particolare veniva dato atto dell’intervenuta spontanea demolizione dei manufatti oggetto dell’ordinanza n. 16/97, fatta eccezione per quel che riguarda l’edificio “G” e quello individuato con la lettera “F” nelle planimetrie, in quanto strettamente funzionale al primo.
Inoltre, entrambe le difese hanno dato atto dei tentativi effettuati per una soluzione extragiudiziale della controversia, anche al fine di non compromettere la prosecuzione dell’attività aziendale, tentativi che tuttavia non sono giunti a buon fine.
All’udienza del 13.11.2013, uditi i procuratori delle parti, il ricorso è stato trattenuto in decisione.
DIRITTO
Preliminarmente è necessario dare atto che, con riferimento ai fabbricati oggetto dell’ordine di demolizione impartito con l’ordinanza n. 16/97, parte ricorrente ha provveduto a demolire spontaneamente parte di essi (oltre ad altri fabbricati non contemplati in tale provvedimento), residuando, per quanto interessa il presente gravame, i soli fabbricati che nella richiamata ordinanza erano identificati ai punti 4 e 5 e che corrispondono agli edifici contraddistinti con le lettere “G” ed “F” nelle planimetrie allegate da parte ricorrente.
Di tale modifica della situazione di fatto danno conferma parte ricorrente e la stessa difesa del Comune nella memoria del 22.10.2013.
Va peraltro osservato che, almeno per quanto riguarda l’edificio “F” (sulla cui epoca di realizzazione, denunciata dal signor T. come antecedente il 1967, l’amministrazione ha depositato documentazione –accatastamento del 1989– dalla quale non risulta la presenza prima di tale anno), non è stata comunque presentata da parte ricorrente alcuna istanza di sanatoria, per cui per tale edificio persiste l’ordine di demolizione impartito con l’ordinanza n. 16/97.
Sempre in punto di fatto, al fine di chiarire i presupposti dei provvedimenti impugnati, va dato atto delle progressive modifiche del perimetro dell’area individuata dal Comune quale fascia di rispetto cimiteriale, che da ultimo, per quanto rileva nella presente controversia, con deliberazione del 24.07.1997 è stata oggetto di riduzione, positivamente riscontrata dalla C.T.R. il 18.02.1998 e quindi formalmente recepita con decreto sindacale del 23.06.1998, risultando attualmente –nell’ambito de quo– pari a 50 metri.
Per quanto riguarda poi l’esistenza del vincolo ambientale, va ancora dato atto –come documentato dall’amministrazione– che a seguito della delibera della Commissione provinciale per l’apposizione e la revisione dei vincoli paesaggistici del 30.09.1999, l’intero territorio comunale risulta assoggettato vincolo paesaggistico con decorrenza dall’avvenuta pubblicazione della suddetta delibera all’albo pretorio (15.11.1999).
Ciò premesso, benché la stessa parte ricorrente abbia manifestato l’interesse per quanto riguarda il fabbricato “F” soltanto in rapporto alla persistenza e quindi al mantenimento dell’edificio “G”, ove è svolta l’attività del’azienda agricola, va osservato che, come risulta dalla produzione documentale agli atti, detto manufatto risulta abusivamente realizzato, in assenza di titolo, nonostante l’epoca della sua realizzazione non fosse antecedente al 1967, come sostenuto dall’istante, bensì successiva, come attestato dall’amministrazione.
Per tale manufatto, non interessato da alcuna istanza di sanatoria, è quindi legittimo l’ordine di demolizione impartito con l’ordinanza impugnata.
Resta quindi da esaminare la posizione dell’edifico “G”, per il quale l’ordine di demolizione inizialmente impartito risulta superato dalla nuova determinazione assunta dal Comune
per effetto dell’istanza di sanatoria presentata da T.S., determinazione che ha respinto la richiesta e che quindi darà seguito ad una nuova ordinanza di demolizione (allo stato peraltro non ancora adottata dal Comune).
Riguardo all’istanza così presentata dalla ricorrente, va indubbiamente dato atto della inesatta formulazione della stessa, in quanto redatta come istanza di permesso di costruire in variante, quando in realtà l’obiettivo era quello di regolarizzare le difformità rilevate dal Comune: tuttavia, come peraltro inteso dalla stessa amministrazione, la richiesta è stata valutata e definita come istanza di sanatoria per quanto riguarda la variazioni apportate al progetto inizialmente assentito con la concessione edilizia n. 783/84.
Esaminati quindi i motivi aggiunti proposti avverso il diniego di sanatoria opposto dall’amministrazione con provvedimento del 26.09.2006, ritiene il Collegio che per quanto attiene alla qualificazione dell’abuso riscontrato e la conseguente irrogazione della sanzione pecuniaria –sebbene si tratti di profili che esulano dai contenuti del diniego di sanatoria, ma che parte istante nuovamente ripropone in occasione dei motivi aggiunti in quanto il provvedimento di diniego non ne avrebbe tenuto conto– le doglianze siano infondate e che correttamente l’abuso rilevato per quanto riguarda la realizzazione del fabbricato “G” sia riconducibile ad un’ipotesi di variazione essenziale, come tale sanzionabile con l’ordine di demolizione.
Invero, come è dato rilevare dai riscontri effettuati dall’amministrazione e soprattutto dalla visione delle planimetrie, l’edificio realizzato sulla base della concessione n. 783/84 doveva essere localizzato in una posizione più arretrata rispetto a quella rilevata, mentre risulta sopravanzato in direzione nord di ben 60 ml.
In tal modo, benché, come riportato testualmente nella concessione edilizia 783/84 (cfr. doc. 6 del Comune), la costruzione avrebbe dovuto interessare unicamente il mappale n. 27, nella realtà il suddetto mappale è stato coinvolto nell’intervento in minima parte, risultando la quasi totalità del fabbricato posizionata sui diversi mappali 300 e 25, entrambi proiettati in direzione nord verso il cimitero (cfr. doc. 5 Comune).
Ne consegue che, anche tenendo conto delle diverse e maggiori dimensioni del fabbricato in termini di superficie e volumetria rispetto a quanto autorizzato (in tal senso le stesse misurazioni contenute nella domanda di sanatoria dimostrano tali incrementi),
la diversa oggettiva localizzazione del fabbricato su una porzione dell’area di sedime diversa da quella individuata in occasione del rilascio del titolo autorizzatorio, non può, come auspicato da parte ricorrente, essere semplicemente ricondotta ad una difformità parziale, bensì deve essere qualificata come variazione essenziale, così come definita dall’art. 8, lett. c), della legge n. 47/1985 e dall’art. 92, comma 3, lett. c), della legge regionale 61/1985.
Va, quindi, condiviso e confermato l’orientamento interpretativo richiamato dalla difesa del Comune, già manifestato da questo Tribunale, per cui
la modifica della localizzazione dell’edificio, tale da comportare lo spostamento del fabbricato in un’area –come nel caso in esame– pressoché diversa da quella prevista all’atto del rilascio del titolo edilizio, costituisce una variante essenziale, in quanto profilo che può condizionare la compatibilità dell’intervento con i parametri urbanistici e le connotazioni dell’area: ed il caso in esame è la prova della rilevanza del rispetto di tali parametri, proprio in considerazione della necessità di rispettare il vincolo cimiteriale, di modo che lo spostamento in avanti e verso nord, in direzione del cimitero, avrebbe evidentemente costituito, laddove correttamente rappresentato, una causa di impedimento al conseguimento della concessione edilizia..
Invero,
nonostante che nella planimetria allegata al permesso di costruire il fabbricato venisse posizionato al di fuori del limite della fascia di rispetto cimiteriale, in realtà questo è stato poi localizzato in un’area che all’epoca della sua realizzazione era pacificamente considerata rientrante nella fascia di inedificabilità per la presenza nelle vicinanze del cimitero.
Sul punto –passando così ad affrontare la questione relativa alla sanabilità dell’abuso- è agevole desumere dall’esame del documento n. 7 del Comune i diversi momenti storici nei quali è stata prevista la diversa estensione del vincolo cimiteriale.
Orbene, sicuramente sino al 1998 (anche fosse il 1997 la questione non muterebbe, dovendosi fare riferimento all’epoca di costruzione del capannone ed in base all’accatastamento del 1989 l’edificio “G” risulta già esistente) il fabbricato insisteva in area coperta dal vincolo di rispetto cimiteriale, solo successivamente eliminato.
Ne consegue che
al momento della realizzazione del fabbricato “G” l’area di sedime realmente interessata dall’intervento era compresa nell’ambito della fascia di rispetto cimiteriale.
Sulla base di questo dato oggettivo, il quale conferma che al momento della realizzazione dell’opera questa risultava illegittimamente posizionata in una area non edificabile, non è possibile il conseguimento della sanatoria ex art. 36 del D.P.R. 380/2001 per mancanza della cd. “doppia conformità”, ossia la conformità alle prescrizioni urbanistico-edilizie vigenti al momento della realizzazione dell’opera e quelle vigenti al momento in cui è stata richiesta la sanatoria.

Il dato così rilevato assume rilevanza dirimente rispetto ad ogni altra considerazione circa la pretesa illegittimità del provvedimento che ha denegato la sanatoria, in quanto, come correttamente ritenuto nel provvedimento di diniego,
le variazioni apportate all’originaria licenza costituiscono variazione essenziale rispetto all’originaria licenza e mancano del requisito della doppia conformità sia al momento della realizzazione che al momento dell’istanza.
A tale, si ripete, dirimente profilo, che è sufficiente a sorreggere il provvedimento di diniego, si aggiunge l’ulteriore aspetto evidenziato nel provvedimento impugnato e cioè l’impossibilità del rilascio dell’autorizzazione paesaggistica.
Sul punto va ricordato che
dal 1999 tutto il territorio di Monfumo è soggetto a vincolo paesaggistico, per cui, in base alla normativa oggi vigente in materia di rilascio delle autorizzazioni per interventi da eseguirsi in ambiti protetti, comunque non sarebbe consentito ottenere un’autorizzazione a sanatoria.
A tale riguardo è costante l’orientamento giurisprudenziale in base al quale in sede di sanatoria o di condono di un manufatto abusivo risulta ininfluente l'epoca in cui è sorto il vincolo, purché questo sia ancora in essere alla data in cui deve essere valutata la domanda di sanatoria, sicché detta regola vale anche per le opere eseguite anteriormente all'apposizione del vincolo stesso (Cons. Stato, sez. IV, 18.09.2012, n. 4945; sez. VI, 27.11.2012, n. 5984).
Invero, ai fini del rilascio delle concessioni edilizie in sanatoria, la valutazione della compatibilità dell’intervento con il vincolo deve essere effettuata in relazione all'esistenza del vincolo al momento in cui deve essere valutata la domanda di sanatoria, a prescindere dall'epoca in cui il vincolo medesimo sia stato introdotto, atteso che tale valutazione corrisponde all'esigenza di vagliare l'attuale compatibilità con il vincolo dei manufatti realizzati abusivamente.
Atteso che la richiesta di sanatoria è stata presentata nel 2006 e quindi in un’epoca in cui il vincolo già era esistente, trattandosi di opera implicante incremento di superficie e di volume e quindi non rientrante nell’ambito delle ipotesi in cui è eccezionalmente consentito, in base ai commi 4 e 5 dell’art. 167 D.lgs. 42/2004, il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria, l’inciso contenuto nel provvedimento impugnato risulta corretto.
Né sussistono gli ulteriori profili di illegittimità denunciati per quanto riguarda il preteso contrasto fra quanto anticipato in sede di comunicazione dei motivi ostativi e quanto poi concluso nel provvedimento finale.
Invero, anche alla luce delle osservazioni rese dalla ricorrente a seguito della comunicazione ex art. 10-bis, si evince che la stessa è stata posta nelle condizioni di comprendere appieno i motivi ostativi al rilascio del tiolo a sanatoria, in ordine alla doppia conformità ed alla sussistenza del vincolo, essendo le problematiche relative all’intervento argomento ben conosciuto e ampiamente dibattuto fra privato ed amministrazione.
In conclusione, attese le considerazioni sin qui espresse, ritenuta l’infondatezza dei motivi dedotti, il ricorso va respinto (TAR Veneto, Sez. II, sentenza II, sentenza 10.12.2013 n. 1383 - link a www.giustizia-amministrativa.it).


... confermata dal Consiglio di Stato:
 

EDILIZIA PRIVATAE' sufficiente per il rigetto della sanatoria edilizia l’esistenza del solo vincolo paesaggistico alla data di valutazione della stessa.
... per la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Veneto, sezione II, n. 1383/2013, resa tra le parti, concernente demolizione opere abusive.
...
DIRITTO
7. La sentenza impugnata ha rigettato il ricorso per la sussistenza di due vincoli: cimiteriale e paesaggistico.
8. Con il secondo motivo del ricorso in appello i ricorrenti, per quel che è dato intendere, sostengono che il vincolo paesaggistico sarebbe divenuto inefficace per il decorso del tempo, ossia per il decorso quinquennio dalla data di adozione (novembre 1999).
Ma i ricorrenti non indicano alcuna norma, o principio, in base alla quale i vincoli di natura paesaggistica dovrebbero essere equiparati ai vincoli urbanistici.
Ove, al contrario, con la censura in esame i ricorrenti abbiano inteso sostenere l’inefficacia del vincolo, per mancato completamento dell’iter procedimentale, è sufficiente a confutare l’assunto il richiamo alla decisione di questa Sezione, 21.03.2005, n. 121 (richiamata anche dalla difesa del Comune di Monfumo), che il Collegio condivide.
Richiamando anche la sentenza n. 262/1997 della Corte costituzionale, la Sezione, infatti, ha affermato che:
<<- l’efficacia del vincolo paesaggistico su bellezze di insieme, nei confronti dei proprietari, possessori o detentori, ha inizio dal momento in cui, ai sensi dell’art. 2, ultimo comma, della legge n. 1497/1939, l’elenco delle località, predisposto dalla commissione ivi prevista e nel quale è compresa la bellezza di insieme, viene pubblicato nell’albo dei Comuni interessati;
- i beni immobili soggetti a vincoli paesistici per il loro intrinseco valore “in virtù della loro localizzazione o della loro inserzione in un complesso che ha in modo essenziale le qualità indicate dalla legge costituiscono una “categoria originalmente di interesse pubblico”; il che non consente l’assimilabilità dei vincoli paesistici a quelli urbanistici e determina la inconferenza di qualsiasi richiamo o raffronto rispetto all’art. 2 della legge n. 1187 del 1968";
- nemmeno sul piano costituzionale si profila una esigenza di inefficacia dei vincoli paesistici oltre un certo tempo né si pone un problema di durata della misura cautelativa o anticipatoria, né un profilo di indennizzabilità anch’esso collegato alla durata, in quanto il legislatore ha attribuito un effetto immediatamente vincolante per i soggetti contemplati dall’art. 7 della legge n. 1497 del 1939 fin dal momento della ricognizione delle “qualità connaturali secondo il regime proprio del bene”, cioè dalla compilazione e pubblicazione dell’elenco con valore costitutivo del regime giuridico dell’immobile da parte delle commissioni al termine del primo sub procedimento (ciò al fine di impedire che il lasso di tempo necessario per l’approvazione definitiva degli elenchi possa rendere possibili manomissioni incontrollate dei beni immobili compresi nell’elenco delle bellezza di insieme e quindi compromettere il paesaggio);
- pur non essendo previsto nella legge n. 1497 del 1939 un termine di durata del vincolo o entro cui doveva concludersi il procedimento, vi erano, peraltro, già nel sistema amministrativo allora vigente, strumenti giuridici di tutela delle posizioni dei soggetti interessati, quali, in primo luogo, la diffida a provvedere e, di seguito, l’istituto processuale del silenzio-rifiuto, con i conseguenti rimedi della giustizia amministrativa fino al giudizio di ottemperanza; tali rimedi risultano rafforzati con la legge 07.08.1990, n. 241 con cui è stato codificato il dovere per la pubblica amministrazione di concludere i procedimenti iniziati d’ufficio, come quello in esame, mediante l’adozione di un provvedimento espresso
>>.
9. Alla luce delle predette argomentazioni, il secondo motivo di ricorso è pertanto infondato.
10. È principio giurisprudenziale recepito quello secondo cui “ove l’atto impugnato (provvedimento o sentenza) sia legittimamente fondato su una ragione di per sé sufficiente a sorreggerlo, diventano irrilevanti, per difetto di interesse, le ulteriori censure dedotte dal ricorrente avverso le altre ragioni opposte dall’autorità emanante a rigetto della sua istanza” (Cons. Stato, sez. VI, 14.10.2010, n. 7498; idem 31.03.2011, n. 1981).
11.
Alla luce del predetto principio il ricorso in esame deve essere respinto essendo sufficiente per il rigetto della sanatoria l’esistenza del solo vincolo paesaggistico (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 27.07.2015 n. 3663 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

QUINDI??

     E' sen'altro un bel dilemma ... e non ci resta che interpellare l'Ufficio Legislativo del MIBACT perché approfondisca l'interrogativo de quo dandoci appuntamento su questi schermi quanto prima per l'aggiornamento del caso.
13.08.2015 - LA SEGRETERIA PTPL

13.08.2013-13.08.2015
     Ti penso sempre ... mi manchi.
T.

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Sentenza del Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 3652, depositata il 23.07.2015 (MIBACT, Direzione Generale Archeologica, circolare 30.07.2015 n. 19 con i relativi: allegato 1 - allegato 2 - allegato 3).
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MASSIMA:
Alla funzione di tutela del paesaggio è estranea ogni forma di attenuazione della tutela paesaggistica determinata dal bilanciamento o dalla comparazione con altri interessi, ancorché pubblici, che di volta in volta possono venire in considerazione: tale attenuazione, nella traduzione provvedimentale, condurrebbe illegittimamente a dare minor tutela, malgrado l’intensità del valore paesaggistico del bene, quanto più intenso e forte sia o possa essere l’interesse pubblico alla trasformazione del territorio.
Invero, il parere in ordine alla compatibilità paesaggistica non può che essere un atto strettamente espressivo di discrezionalità tecnica, dove l’intervento progettato va messo in relazione con i valori protetti ai fini della valutazione tecnica della compatibilità fra l’intervento medesimo e il tutelato interesse pubblico paesaggistico: valutazione che è istituzionalmente finalizzata a evitare che sopravvengano alterazioni inaccettabili del preesistente valore protetto.
Questa caratterizzazione tecnica del giudizio di compatibilità da parte degli organi del MIBAC (che concerne tutti gli elementi di impatto dell’intervento sul paesaggio: non solo localizzazione, densità e volumi ma anche e soprattutto linee, forme, materiali, ingombro, disposizione e così via) non viene meno –a pena di disattendere il contenuto e il particolare rilievo dell’art. 9 Cost.– in procedimenti semplificatori per opere considerate dalla legge di particolare significato, come quello dell’art. 1-sexies (Semplificazione dei procedimenti di autorizzazione per le reti nazionali di trasporto dell’energia e per gli impianti di energia elettrica di potenza superiore a 300 MW termici) d.l. 29.08.2003, n. 239 d.l. 29.08.2003, n. 239 (Disposizioni urgenti per la sicurezza [e lo sviluppo] del sistema elettrico nazionale e per il recupero di potenza di energia elettrica) come convertito con modificazioni dalla l. 27.10.2003, n. 290 (nella specie, il MIBAC, dopo aver dato parere negativo alla realizzazione di un elettrodotto, aveva rivisto il suo orientamento compiendo una non consentita attività di comparazione e di bilanciamento dell’interesse affidato alla sua cura -la tutela del paesaggio– con interessi pubblici di altra natura e spettanza –essenzialmente quelli sottesi alla realizzazione dell’elettrodotto e al trasporto dell’energia elettrica)
Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 23.07.2015 n. 3652 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

ENTI LOCALI: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 33 del 10.08.2015, "Assestamento al bilancio 2015/2017 - I provvedimento di variazione con modifiche di leggi regionali" (L.R. 05.08.2015 n. 22).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 33 del 10.08.2015, "Disposizioni per l’esercizio, il controllo, la manutenzione e l’ispezione degli impianti termici" (deliberazione G.R. 31.07.2015 n. 3965).

URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie serie ordinaria n. 32 del 07.08.2015, "Commissari ad acta per il completamento della procedura di approvazione dei PGT di cui all’art. 25-bis, comma 3, della l.r. 11.03.2005, n. 12 «Legge per il governo del territorio» - differimento dei termini assegnati con d.g.r. 26.02.2015 n. X/3195" (deliberazione G.R. 31.07.2015 n. 3973).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 32 del 07.08.2015, "Criteri per la definizione e determinazione dei servizi ambientali erogati dai consorzi forestali, in applicazione dell’articolo 56 della l.r. 31/2008" (deliberazione G.R. 31.07.2015 n. 3948).

PATRIMONIO: B.U.R. Lombardia, serie n. 32 del 07.08.2015, "Approvazione del bando per la riqualificazione energetica degli edifici pubblici di proprietà di piccoli comuni, unioni di comuni, comuni derivanti da fusione e comunità montane in attuazione della d.g.r. 3904/2015 (POR FESR 2014-20: asse IV, azione IV.4.c.1.1)" (decreto D.U.O. 30.07.2015 n. 6484).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: A) Concordato preventivo omologato con previsione di soddisfazione parziale o di retrocessione a chirografo dei crediti privilegiati di Inail e Inps: modalità di rilascio del Documento Unico di Regolarità Contributiva. Chiarimenti - B) Obbligo di esprimere il voto contrario in presenza di proposta concordataria che preveda la soddisfazione parziale dei crediti contributivi (INPS, messaggio 06.08.2015 n. 5223 - link a www.inps.it).

ENTI LOCALI - VARI: Oggetto: Linee guida per l'applicazione dell'art. 3, comma 8-bis, del decreto-legge 30.12.2009, n. 194, convertito, con modificazioni, dalla legge 26.02.2010, n. 25, successivamente modificato dall'art. 43, comma 1, del decreto-legge 21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 09.08.2013, n. 98, riguardanti la possibilità che la carta d'identità possa contenere il consenso o il diniego alla donazione di organi e tessuti in caso di morte (Ministero dell'Interno, nota 29.07.2015 n. 2128 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: atti dirigenziali - potere di annullamento (MIBACT, Ufficio Legislativo, nota 23.04.2015 n. 9444 di prot.).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

PUBBLICO IMPIEGO: R. Schiavone, Riforma Pubblica amministrazione: in arrivo il ruolo unico dei dirigenti (05.08.2015 - tratto da www.ipsoa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La servitù di parcheggio - Validità ed invalidità dell’atto di costituzione (Consiglio Nazionale del Notariato, studio 06-08.05.2015 n. 1094-2014/C).
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Sommario: 1. Premessa. - 2. La servitù come diritto reale a contenuto liberamente determinabile. - 3. La struttura legale tipica del diritto di servitù: I caratteri generici della realità. - 4. (Segue) I caratteri particolari: specificità del godimento, duplicità dell’inerenza (o dell’oggetto), accessorietà. - 5. (Segue) L’inerenza dell’utilitas. - 6. Le figure limitrofe: le “servitù personali”; le servitù irregolari. - 7. I Caratteri specifici della servitù di parcheggio. In particolare, la localizzazione. - 8. Le sentenze negative della Corte di Cassazione. La sentenza 23708/14. - 9. Altri esempi di sentenze in materia di servitù di parcheggio. - 10. Esempio di atto costitutivo di servitù di parcheggio.

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Ai sensi dell’art. 167, quarto comma, lett. a), del dlgs 22.01.2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'articolo 10 della legge 06.07.2002, n. 137), l’accertamento di compatibilità paesaggistica può riguardare esclusivamente <<… lavori (…) che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati…>>.
Pertanto, in presenza di opere che abbiano determinato creazione o aumento di volumi, il rigetto dell’istanza di accertamento della compatibilità paesaggistica costituisce esito vincolato del procedimento.
Ritiene pertanto il Collegio che il riferimento a tale elemento contenuto negli atti impugnati sia di per sé sufficiente a fornire adeguato supporto motivazionale alle decisioni assunte e che, a fronte di tale elemento assolutamente ostativo all’accoglimento dell’istanza, del tutto inutile sarebbe stato l’esame analitico delle argomentazioni dedotte dalla parte in sede procedimentale non riguardanti questo specifico aspetto decisivo.
In proposito va richiamato il pacifico orientamento giurisprudenziale secondo il quale l'onere motivazionale derivante dalla presentazione di osservazioni da parte dell'interessato a seguito dell'invio del preavviso di rigetto, può ritenersi assolto anche in assenza di una analitica confutazione in merito ad ogni argomento ivi esposto, essendo sufficientemente adeguata un'esternazione motivazionale che renda, nella sostanza, percepibile la ragione del mancato adeguamento dell'azione amministrativa alle loro deduzioni partecipative.
Il Collegio, a questo proposito, tiene a precisare che le opere di cui è causa, in ragione delle loro notevoli dimensioni, sono senz’altro rilevanti sotto il profilo paesaggistico, essendo del tutto ininfluente il fatto (allegato ma non provato dal ricorrente) che esse non sarebbero percepibili al di fuori dell’area privata in cui sorgono.
 Si deve invero ritenere che i principi espressi dal Ministero per i beni e le attività culturali con nota prot. 16721 del 13.09.2010, (nella quale si esclude la necessità di procedere ad accertamento di compatibilità paesaggistica per quegli interventi del tutto impercettibili) non possano che riguardare gli interventi di minima entità diversi dalla realizzazione di nuovi fabbricati.
Anche questa argomentazione, dedotta dal ricorrente in sede procedimentale, è pertanto del tutto inidonea a scalfire l’ostacolo all’accoglimento della domanda costituito dalla realizzazione di nuova volumetria; è quindi ininfluente la mancata esplicita confutazione della stessa da parte dell’Autorità amministrativa.
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Circa la paventata denuncia di violazione dell’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990, non avendo l’Amministrazione provveduto a comunicargli il preavviso di rigetto, si deve osservare che il ricorrente, prima del momento di adozione del provvedimento finale, era a conoscenza del parere negativo vincolante reso dal Soprintendente e, dunque, del fatto che, in mancanza di nuovi elementi, con il provvedimento finale si sarebbe disposto il rigetto della sua domanda.
Si può pertanto ritenere che, in sostanza, l’obbligo di comunicazione del preavviso di rigetto di cui all’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990 sia stato, nel concreto, assolto.
In ogni caso si deve rilevare che, l’impossibilità di concludere positivamente il procedimento di compatibilità paesaggistica, rende indefettibile il rigetto della domanda di accertamento conformità. Può quindi applicarsi alla fattispecie l’art. 21-octies, secondo comma, della legge n. 241 del 1990 il quale impone al giudice di non annullare l'atto nel caso in cui le violazioni formali non abbiano inciso sulla legittimità sostanziale del medesimo.
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Il mancato accoglimento delle domanda di accertamento di conformità (paesaggistica) e, dunque, il permanere del carattere abusivo delle opere di cui è causa, ha obbligato l’Amministrazione ad esercitare il potere sanzionatorio di cui all’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001.
Si può quindi richiamare ancora il citato art. 21-octies, comma secondo, della legge n. 241 del 1990 che, come visto, impedisce l’annullamento di atti sostanzialmente legittimi per violazioni di carattere meramente formale.
46. Con il secondo motivo ed il terzo motivo dei motivi aggiunti, l’interessato sostiene che sia la Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici di Milano che il Comune di Abbiategrasso avrebbero omesso di valutare le memorie da egli prodotte in sede procedimentale. Deduce pertanto la violazione degli artt. 10 e 10-bis della legge n. 241 del 1990 ed il vizio di eccesso di potere per difetto di motivazione.
47. In proposito si osserva che, ai sensi dell’art. 167, quarto comma, lett. a), del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'articolo 10 della legge 06.07.2002, n. 137), l’accertamento di compatibilità paesaggistica può riguardare esclusivamente <<… lavori (…) che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati…>>.
48. Pertanto, in presenza di opere che abbiano determinato creazione o aumento di volumi, il rigetto dell’istanza di accertamento della compatibilità paesaggistica costituisce esito vincolato del procedimento.
49. Ritiene pertanto il Collegio che il riferimento a tale elemento contenuto negli atti impugnati sia di per sé sufficiente a fornire adeguato supporto motivazionale alle decisioni assunte e che, a fronte di tale elemento assolutamente ostativo all’accoglimento dell’istanza, del tutto inutile sarebbe stato l’esame analitico delle argomentazioni dedotte dalla parte in sede procedimentale non riguardanti questo specifico aspetto decisivo.
50. In proposito va richiamato il pacifico orientamento giurisprudenziale secondo il quale l'onere motivazionale derivante dalla presentazione di osservazioni da parte dell'interessato a seguito dell'invio del preavviso di rigetto, può ritenersi assolto anche in assenza di una analitica confutazione in merito ad ogni argomento ivi esposto, essendo sufficientemente adeguata un'esternazione motivazionale che renda, nella sostanza, percepibile la ragione del mancato adeguamento dell'azione amministrativa alle loro deduzioni partecipative (cfr. fra le tante, TAR Campania Salerno, sez. I, 09.01.2015, n. 53).
51. Il Collegio, a questo proposito, tiene a precisare che le opere di cui è causa, in ragione delle loro notevoli dimensioni, sono senz’altro rilevanti sotto il profilo paesaggistico, essendo del tutto ininfluente il fatto (allegato ma non provato dal ricorrente) che esse non sarebbero percepibili al di fuori dell’area privata in cui sorgono. Si deve invero ritenere che i principi espressi dal Ministero per i beni e le attività culturali con nota prot. 16721 del 13.09.2010, (nella quale si esclude la necessità di procedere ad accertamento di compatibilità paesaggistica per quegli interventi del tutto impercettibili) non possano che riguardare gli interventi di minima entità diversi dalla realizzazione di nuovi fabbricati.
52. Anche questa argomentazione, dedotta dal ricorrente in sede procedimentale, è pertanto del tutto inidonea a scalfire l’ostacolo all’accoglimento della domanda costituito dalla realizzazione di nuova volumetria; è quindi ininfluente la mancata esplicita confutazione della stessa da parte dell’Autorità amministrativa.
53. Per queste ragioni i motivi in esame sono infondati.
54. Si può passare ora all’esame dei secondi motivi aggiunti, con cui vengono impugnati il provvedimento di rigetto dell’istanza di accertamento di conformità e la conseguente ordinanza di demolizione.
55. Per ciò che concerne il primo atto viene dedotta l’invalidità derivata, giacché a dire del ricorrente, i vizi che inficerebbero il parere vincolante reso dalla Soprintendenza inficerebbero, in vi derivata appunto, anche il provvedimento di rigetto della domanda di sanatoria.
56. Il motivo è infondato in quanto, come visto, le censure dedotte avverso l’atto della Soprintendenza sono state tutte respinte; non vi può essere, quindi, invalidità derivata.
57. Con il secondo motivo dei secondi motivi aggiunti il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990 non avendo l’Amministrazione provveduto a comunicargli il preavviso di rigetto.
58. In proposito si deve osservare che il ricorrente, prima del momento di adozione del provvedimento finale, era a conoscenza del parere negativo vincolante reso dal Soprintendente e, dunque, del fatto che, in mancanza di nuovi elementi, con il provvedimento finale si sarebbe disposto il rigetto della sua domanda. Si può pertanto ritenere che, in sostanza, l’obbligo di comunicazione del preavviso di rigetto di cui all’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990 sia stato, nel concreto, assolto.
59. In ogni caso si deve rilevare che, l’impossibilità di concludere positivamente il procedimento di compatibilità paesaggistica, rende indefettibile il rigetto della domanda di accertamento conformità. Può quindi applicarsi alla fattispecie l’art. 21-octies, secondo comma, della legge n. 241 del 1990 il quale impone al giudice di non annullare l'atto nel caso in cui le violazioni formali non abbiano inciso sulla legittimità sostanziale del medesimo (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 04.09.2013, n. 4448 TAR Sardegna, sez. II, 13.01.2014, n. 18; TAR Campania Napoli, sez. VII, 07.01.2014, n. 1).
60. Per queste ragioni il motivo in esame è infondato.
...
63. Si può ora passare all’esame delle censure rivolte contro l’ordinanza di demolizione n. 39 del 16.12.2012.
64. Anche con riferimento a tale atto si deduce innanzitutto il vizio di invalidità derivata.
65. Si è visto però che tutte le doglianze dedotte contro i provvedimenti presupposti sono infondate, sicché il vizio di invalidità derivata non può essere, nel concreto, configurabile.
66. Con altra censura, la parte lamenta la mancata comunicazione del preavviso di rigetto.
67. In proposito è sufficiente rilevare che, il mancato accoglimento delle domanda di accertamento di conformità e, dunque, il permanere del carattere abusivo delle opere di cui è causa, ha obbligato l’Amministrazione ad esercitare il potere sanzionatorio di cui all’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001. Si può quindi richiamare ancora il citato art. 21-octies, comma secondo, della legge n. 241 del 1990 che, come visto, impedisce l’annullamento di atti sostanzialmente legittimi per violazioni di carattere meramente formale.
68. Anche questa censura non può pertanto essere condivisa (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 05.08.2015 n. 1891 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAQuesta Sezione ha già avuto modo di osservare che l’art. 167, comma 4, d.lgs. 22.01.2004, n. 42, non consente il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica a sanatoria quando il manufatto realizzato in assenza di valutazione di compatibilità abbia determinato la creazione o l’aumento di superfici utili o di volumi e che la lettera di tale norma non consente ulteriori interpretazioni.
Il Supremo Consesso di G.A. a sua volta ritenuto che “gli interventi indicati nell'art. 167 del d.lgs. 22.01.2004, n. 42 (ovverosia gli interventi che non abbiano determinato creazione di superfici utili o di volumi e quelli configurabili in termini di manutenzione ordinaria o straordinaria) sono gli unici per i quali è possibile l'accertamento postumo di conformità paesaggistica, a sua volta presupposto del rilascio della sanatoria edilizia. Ai fini della compatibilità paesaggistica di opere realizzate in zone vincolate nessun rilievo assume la definizione degli interventi edilizi in termini di volume tecnico, qualificazione rilevante sotto il profilo urbanistico ed edilizio, ma non sotto quello paesaggistico”.
Del resto, lo stesso massimo organo giurisdizionale di G.A. accede ad una nozione restrittiva di volume tecnico ritenendo che “in tale nozione rientrano solo i volumi destinati agli impianti tecnici strettamente necessari per consentire i servizi indispensabili all'abitazione (riscaldamento, impianti elettrici ed idraulici, ecc.), con conseguente ingiustificato superamento dell'indice di fabbricabilità previsto dalla legge”.
Le opere realizzate dalle ricorrente, secondo quanto risulta dagli atti di causa e segnatamente dalla documentazione fotografica ritraente lo stato dei luoghi, non assumono tali caratteristiche in modo da risultare perfino estranee alla nozione, urbanisticamente intesa, di volume tecnico.
Le deduzioni di parte ricorrente non possono condividersi nemmeno quando valorizzano la natura completamente interrata delle opere, in quanto, come si afferma da condivisibile giurisprudenza, avuto riguardo alla formula dell’art. 167, comma 4, lett. a), D.Lgs. n. 42/2004, “non può quindi assentirsi la sanatoria postuma di opere comportanti aumenti di superfici e volumi ancorché minimali e non percepibili dall'esterno, interpretazione che aprirebbe il varco alle percezioni soggettive e quindi alla possibilità che casi identici siano soggetti a trattamenti differenti”.
In effetti, si osserva, “La realizzazione di un volume interrato determina inevitabilmente una alterazione dello stato dei luoghi”.
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E' sufficiente rilevare il carattere consequenziale del provvedimento sanzionatorio rispetto al previo diniego dell’istanza di sanatoria, trovando in questo il suo presupposto.

Con ricorso, notificato il 06.02.2014 e ritualmente depositato il 04.03 successivo, le Sig.re F.A. e L.C., rappresentate e difese come in atti, impugnano il provvedimento, meglio distinto in epigrafe, con il quale la Soprintendenza per i Beni architettonici e paesaggistici di Salerno e Avellino ha espresso parere contrario sull’accertamento di compatibilità paesaggistica di due locali tecnologici interrati, nel giardino pertinenziale dell’immobile, regolarmente assentito, al foglio 25, part.lle 233 e 272 nel Comune di Pollica, fraz. di Pioppi.
Avverso tale atto, le ricorrenti –dopo aver evidenziato, in punto di fatto, che trattasi di due locali tecnologici di modestissime dimensioni ed interrati dove alloggiare gli impianti idro-elettrici e materiali di sgombero– sollevano, sotto distinti e concorrenti profili, i vizi della violazione di legge e dell’eccesso di potere, assumendo che l’intervento sarebbe del tutto impercettibile all’esterno oltre che irrilevante sul piano urbanistico per la sua natura di volume tecnico; inoltre il provvedimento sarebbe sfornito di adeguata motivazione nonché tardivo. Conclude per l’annullamento, previa sospensiva, degli atti impugnati.
Si costituisce la difesa erariale al fine di resistere, concludendo per il rigetto del gravame.
Alla camera di consiglio del 20.03.2014, la domanda di sospensiva è accolta limitatamente all’ordinanza di rimessione in pristino.
Alla pubblica udienza del 16.07.2015, sulle reiterate conclusioni delle parti costituite, il ricorso è trattenuto in decisione.
I. Il ricorso è infondato.
I.1. Con il primo e secondo mezzo, suscettibili per il loro tenore di trattazione congiunta, parte ricorrente assume che l’intervento in parola sarebbe irrilevante sia sul piano paesaggistico che urbanistico, trattandosi della realizzazione di volumi tecnici completamente interrati e pertanto invisibili all’esterno.
La inidoneità in astratto di arrecare un qualsiasi vulnus al paesaggio, deriverebbe sia dalla non percepibilità delle opere, sia dalla loro natura, sul piano urbanistico, di volume tecnico, in quanto, si assume in ricorso “gli artt. 167 e 181 D.Lgs. 42/2004 contengono un rinvio ricettizio alla normativa urbanistico-edilizia anche locale, in tal modo sancendo la sostanziale coincidenza tra le nozioni di volumi e superfici utili nei due diversi ambiti” (cfr. pag. 6 del ricorso).
I rilievi non colgono nel segno.
La vicenda in esame va collocata in una precisa normativa, quella di cui all’art. 167, comma 4, del d.lgs. n. 42/2004, (Codice dei beni culturali), secondo cui “L'autorità amministrativa competente accerta la compatibilità paesaggistica, secondo le procedure di cui al comma 5, nei seguenti casi: a) per i lavori, realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati; b) per l'impiego di materiali in difformità dall'autorizzazione paesaggistica; c) per i lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell'articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380”.
Le ricorrenti hanno avanzato richiesta di accertamento di compatibilità e di conformità urbanistica relativa alla realizzazione di “locali tecnologici interrati di pertinenza ad un fabbricato bifamiliare alla via ... della frazione Pioppi”, così come descritti nella relazione paesaggistica versata in atti.
Questa Sezione (03.03.2015, n. 468) ha già avuto modo di osservare che l’art. 167, comma 4, d.lgs. 22.01.2004, n. 42, non consente il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica a sanatoria quando il manufatto realizzato in assenza di valutazione di compatibilità abbia determinato la creazione o l’aumento di superfici utili o di volumi e che la lettera di tale norma non consente ulteriori interpretazioni.
Il Supremo Consesso di G.A. (Cons. Stato Sez. VI, 05.01.2015, n. 12) a sua volta ritenuto che “gli interventi indicati nell'art. 167 del d.lgs. 22.01.2004, n. 42 (ovverosia gli interventi che non abbiano determinato creazione di superfici utili o di volumi e quelli configurabili in termini di manutenzione ordinaria o straordinaria) sono gli unici per i quali è possibile l'accertamento postumo di conformità paesaggistica, a sua volta presupposto del rilascio della sanatoria edilizia. Ai fini della compatibilità paesaggistica di opere realizzate in zone vincolate nessun rilievo assume la definizione degli interventi edilizi in termini di volume tecnico, qualificazione rilevante sotto il profilo urbanistico ed edilizio, ma non sotto quello paesaggistico”.
Del resto, lo stesso massimo organo giurisdizionale di G.A. accede ad una nozione restrittiva di volume tecnico ritenendo che “in tale nozione rientrano solo i volumi destinati agli impianti tecnici strettamente necessari per consentire i servizi indispensabili all'abitazione (riscaldamento, impianti elettrici ed idraulici, ecc.), con conseguente ingiustificato superamento dell'indice di fabbricabilità previsto dalla legge” (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 27.01.2015, n. 357; v. anche questo Tribunale, sez. II, 08.07.2014, n. 1215).
Le opere realizzate dalle ricorrente, secondo quanto risulta dagli atti di causa e segnatamente dalla documentazione fotografica ritraente lo stato dei luoghi, non assumono tali caratteristiche in modo da risultare perfino estranee alla nozione, urbanisticamente intesa, di volume tecnico. Le deduzioni di parte ricorrente non possono condividersi nemmeno quando valorizzano la natura completamente interrata delle opere, in quanto, come si afferma da condivisibile giurisprudenza (TAR Toscana Firenze, Sez. III, 09.07.2014, n. 1216), avuto riguardo alla formula dell’art. 167, comma 4, lett. a), D.Lgs. n. 42/2004, “non può quindi assentirsi la sanatoria postuma di opere comportanti aumenti di superfici e volumi ancorché minimali e non percepibili dall'esterno, interpretazione che aprirebbe il varco alle percezioni soggettive e quindi alla possibilità che casi identici siano soggetti a trattamenti differenti”.
In effetti, si osserva, “La realizzazione di un volume interrato determina inevitabilmente una alterazione dello stato dei luoghi” (TAR Genova Liguria, sez. I, 21.10.2014, n. 1458).
I motivi in esame sono quindi da respingere.
...
I.4. Col sesto ed ultimo mezzo, parte ricorrente rivolge le proprie censure all’ordine demolitorio, ritenendolo sproporzionato ed immotivato, avuto riguardo alla modesta consistenza delle opere realizzate.
In senso contrario, è sufficiente rilevare il carattere consequenziale del provvedimento sanzionatorio rispetto al previo diniego dell’istanza di sanatoria, trovando in questo il suo presupposto
(TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 28.07.2015 n. 1756 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non vi è nell'articolo 146 del Codice dei beni culturali e del paesaggio alcuna espressa comminatoria di decadenza della Soprintendenza dall'esercizio del relativo potere, decorso il termine ivi previsto.
In tal senso si è espresso anche il Consiglio di Stato: "nel caso di mancato rispetto del termine fissato dall'art. 146, comma 5,...il potere della Soprintendenza continua a sussistere", "la perentorietà del termine riguarda non la sussistenza del potere o la legittimità del parere, ma l'obbligo di concludere la fase del procedimento".
Anche a voler opinare diversamente, valorizzando la espressa qualificazione del termine come perentorio, la tardività comporterebbe la regressione del contributo consultivo a parere non vincolante, con conseguente dovere dell’Amministrazione di tenerne comunque conto.
Non va ad ogni modo trascurato che le ragioni poste a base del contestato parere attengono non ad apprezzamenti discrezionali sul piano paesaggistico bensì nella presa d’atto di trancianti disposizioni normative che escludono la stessa ammissibilità dell’istanza e alle quali la stessa amministrazione comunale non può sottrarsi.

I.3 Con il quarto e quinto mezzo, suscettibili per il loro tenore di trattazione congiunta, parte ricorrente assume la tardività dell’impugnato parere, per la violazione del termine di 25 giorni previsto dal regime dell’autorizzazione semplificata di cui al d.P.R. 139/2010 o quello più ampio, di 45 giorni dalla ricezione degli atti, secondo la disciplina di cui all’art. 146 d.Lgs. n. 42/2004.
Non persuade il primo profilo censoreo, in quanto è rimasta indimostrata la sussistenza dei presupposti per l’applicazione del regime semplificato, come stabiliti dal punto 1 dell’allegato 1 al d.P.R. n. 139/2010.
Per quanto riguarda la denunciata violazione del termine più ampio, questa non è tale da produrre le conseguenze divisate in ricorso, in quanto, come già più volte ribadito da questo Tribunale (sentenza, sez. I, n. 1195 del 04/07/2014), non vi è nell'invocato articolo 146 del Codice dei beni culturali e del paesaggio alcuna espressa comminatoria di decadenza della Soprintendenza dall'esercizio del relativo potere, decorso il termine ivi previsto.
In tal senso si è espresso anche il Consiglio di Stato: "nel caso di mancato rispetto del termine fissato dall'art. 146, comma 5,...il potere della Soprintendenza continua a sussistere", "la perentorietà del termine riguarda non la sussistenza del potere o la legittimità del parere, ma l'obbligo di concludere la fase del procedimento" (sezione VI, sentenza n. 4914/2013).
Anche a voler opinare diversamente, valorizzando la espressa qualificazione del termine come perentorio, la tardività comporterebbe la regressione del contributo consultivo a parere non vincolante, con conseguente dovere dell’Amministrazione di tenerne comunque conto (TAR Venezia Veneto, sez. II, 22.05.2014, n. 698).
Non va ad ogni modo trascurato che le ragioni poste a base del contestato parere attengono non ad apprezzamenti discrezionali sul piano paesaggistico bensì nella presa d’atto di trancianti disposizioni normative che escludono la stessa ammissibilità dell’istanza e alle quali la stessa amministrazione comunale non può sottrarsi.
Anche i motivi in esame sono quindi da disattendere (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 28.07.2015 n. 1756 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAÈ pacifico, alla luce dell’art. 167 d.lgs. n. 42/2004, che l’accertamento di compatibilità paesaggistica preordinato alla sanatoria di opere realizzate abusivamente è subordinato, per quanto di interesse ai fini della lite, dalla mancata creazione di superfici o volumi utili o all’aumento di quelli legittimamente realizzati.
Sul punto, l’intero impianto critico di parte ricorrente si fonda sull’assunto, in fatto, che la modifica del perimetro del locale realizzato nella parte interrata retrostante (inglobando una preesistente intercapedine) non concreterebbe un aumento della superficie utile.
L’assunto, tuttavia, non appare plausibile, essendo evidente che, per quanto modesta, interrata e preesistente, la ridetta intercapedine costituisce di per sé una superficie utile, idonea a determinare un obiettivo incremento volumetrico del locale garage, di per sé ostativo, alla luce del rigoroso parametro normativo di riferimento, all’auspicato accertamento di conformità in sanatoria.
In diversa direzione, non può assumere rilievo la circostanza che le opere siano interamente interrate, posto che anche in tal caso risultano compromessi, dall’aumento volumetrico, i valori ambientali e paesaggistici.

FATTO
1.- Con ricorso notificato nei tempi e nelle forme di rito, C.D’U., nella allegata qualità di legale rappresentante della società Bon Bon di D'Urso Carlo & C. s.n.c., esponeva che la società era proprietaria, nel Comune di Positano, di un garage interralo sito alla Via G. Marconi n. 396/bis, realizzato in virtù di permesso di costruire n. 8/05 del 21.04.2005, asservito all'immobile adiacente di proprietà dei coniugi C.D'U. e G.F..
Precisava che i lavori di realizzazione del locale adibito a parcheggio, di ca. 40 mq, erano iniziati il 31.10.2005 e si erano conclusi nei primi mesi del 2006. Tanto risultava dal verbale di sopralluogo, con allegati fotografici, del novembre 2006, a firma del Tecnico comunale, sopralluogo nel corso de quale il Comune aveva riscontrato alcune piccole difformità nella realizzazione del locale rispetto a quello assentito con permesso di costruire 8/2005, e, pertanto, con ordinanza del 28.03.2011, prot. n. 3812 –peraltro, a distanza di quasi sei anni-, aveva ingiunto di procedere al ripristino dello stato dei luoghi.
Sulla scorta di ciò, in data 04.05.2011, prot. n. 5292, il ricorrente aveva presentato istanza di accertamento di compatibilità paesaggistica ex artt. 146 e 167, D.lgs. 42/2004 e di conformità urbanistica ex artt. 36 e 37, D.P.R. 380/2011 in relazione agli interventi contestati, consistenti in: un aumento di 13 cm di larghezza della porta di accesso al garage; la creazione di un collegamento tra il garage e l'immobile, attraverso una preesistente apertura che conduceva ad una preesistente intercapedine; quest'ultima intercapedine, dunque, veniva incluso nel locale garage, la cui superficie risultava perciò aumentata da 36mq a 48mq.
In data 13.10.2011, l'accertamento riceveva il parere favorevole della Commissione per il Paesaggio, che -conformemente alla relazione istruttoria del Responsabile per il paesaggio- sottolineava la compatibilità delle opere cori la tutela del vincolo paesaggistico e trasmetteva la pratica alla Soprintendenza ai 13.P.A per l'espressione del parere vincolante.
Con nota prot. n. 378 del 05.01.2012, la Soprintendenza comunicava i motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza ex art. 10-bis legge 241/1990, "in quanto le opere abusivamente eseguite non rientrano nei limiti fissati dal D.lgs. 42/2004, art. 167, comma 4, perché hanno determinato una di superficie utile e volumi".
Il ricorrente riscontrava la comunicazione con note prot. n. 914, del 23.1.2012 e dell'08.02.2012; tuttavia, il Ministero adottava il definitivo parere di diniego, che veniva portato a conoscenza del ricorrente dal Comune di Positano in data 16.04.2012 (prot. n. 4858/2012 del 30.03.2012), attraverso la comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza dì sanatoria paesaggistica ed edilizia consistenti nell'impossibilità di superare il ridetto parere negativo.
Infine, con provvedimento prot. n. 5596 del 09.05.2012, il Comune di Positano aveva adottato il provvedimento definitivo di diniego.
2.- Avverso le ridette determinazioni insorgeva il ricorrente, che ne lamentava l’illegittimità per plurima violazione di legge ed eccesso di potere.
Nella resistenza dell’intimato Ministero, alla pubblica udienza del 14.01.2015, sulle reiterate conclusioni dei difensori delle parti costituite, la causa veniva riservata per la decisione.
DIRITTO
1.- Il ricorso non è fondato e merita di essere respinto.
È pacifico, alla luce dell’art. 167 d.lgs. n. 42/2004, che l’accertamento di compatibilità paesaggistica preordinato alla sanatoria di opere realizzate abusivamente è subordinato, per quanto di interesse ai fini della lite, dalla mancata creazione di superfici o volumi utili o all’aumento di quelli legittimamente realizzati.
Sul punto, l’intero impianto critico di parte ricorrente si fonda sull’assunto, in fatto, che la modifica del perimetro del locale realizzato nella parte interrata retrostante (inglobando una preesistente intercapedine) non concreterebbe un aumento della superficie utile.
L’assunto, tuttavia, non appare plausibile, essendo evidente che, per quanto modesta, interrata e preesistente, la ridetta intercapedine costituisce di per sé una superficie utile, idonea a determinare un obiettivo incremento volumetrico del locale garage, di per sé ostativo, alla luce del rigoroso parametro normativo di riferimento, all’auspicato accertamento di conformità in sanatoria.
In diversa direzione, non può assumere rilievo la circostanza che le opere siano interamente interrate, posto che anche in tal caso risultano compromessi, dall’aumento volumetrico, i valori ambientali e paesaggistici (cfr. Cons. Stato, 07.01.2014, n. 18).
Alla luce delle esposte considerazioni, non può assumere rilievo la ventilata violazione dell’art. 10-bis l. n. 241/1990, sul presupposto che (giusta il canone antiformalistico di cui all’art. 21-octies l. cit.) il provvedimento impugnato non avrebbe potuto assumere, in ogni caso, diverso contenuto.
2.- Il ricorso deve, in definitiva, essere respinto (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 27.07.2015 n. 1719 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CORTE DEI CONTI

PUBBLICO IMPIEGO: Il legale pubblico fa storia a sé. Compensi professionali non dovuti ad altri dipendenti. La Corte dei conti lega alla qualifica di avvocato gli emolumenti di cui al dl 90/2014.
I compensi professionali di cui all'art. 9 del dl 24.06.2014 n. 90 non sono dovuti a dipendenti di avvocature pubbliche che non rivestono la qualifica di avvocati.
Lo ha affermato la Corte dei Conti sezione di controllo della regione Abruzzo con il parere 17.07.2015 n. 187.
I giudici contabili erano stati sollecitati dalla richiesta di delucidazioni di un sindaco circa la portata operativa dell'art. 9 del dl 24.06.2014 n. 90, convertito nella legge 11.08.2014 n. 114, e in particolare se fosse stato possibile attribuire questa parte di compensi professionali disciplinati da tale legge ai dipendenti del settore avvocatura che non rivestono la qualifica di avvocati dal legislatore.
Dalle espressioni utilizzate la Corte dei conti desume che la novella normativa intende operare un chiaro riferimento ai soli dipendenti degli enti pubblici che posseggono lo status professionale di avvocato.
«Del resto», prosegue il collegio, «la novella ha inteso disciplinare in modo uniforme e al contempo innovativo l'annosa questione dei compensi professionali riconosciuti agli avvocati dipendenti degli enti pubblici in ragione della loro natura sostanzialmente “ibrida”, vale a dire “sospesa tra l'autonomia e la subordinazione”, che coniuga in sé la qualità di professionista con quella di impiegato, relazionandosi costantemente con quello che è, al contempo, il proprio cliente, ma anche il suo datore di lavoro».
«Questa duplicità di status (la cosiddetta doppia identità dell'avvocato dipendente: da un lato professionista, dall'altro pubblico impiegato)», si legge nella sentenza, «si riflette anche sulla struttura del trattamento economico a lui spettante, normalmente composto, pur nella varietà delle situazioni, per una quota, dallo stipendio tabellare e dalle relative voci integrative e accessorie e, per altra quota, da compensi aggiuntivi correlati all'esito favorevole delle lite, di importo tendenzialmente variabile, ancorché erogati con continuità (cosiddetti propine) (in tal senso e da ultimo Tar Puglia, sez. II, 16.10.2014, n. 2543)».
«Esula evidentemente dall'intento del legislatore, invece», sottolinea la Corte, «l'obiettivo di fornire alle amministrazioni un crivello per eludere il principio di onnicomprensività della retribuzione del pubblico dipendente, che importa che “nulla è dovuto, oltre al trattamento economico fondamentale e accessorio stabilito dai contratti collettivi, al dipendente che ha svolto una prestazione che rientra nei suoi doveri d'ufficio, anche se di particolare complessità” (sez. controllo Lombardia, 06.03.2013, n. 73)».
«Presupposto per l'erogazione dei compensi professionali ai dipendenti delle avvocature erariali», concludono i giudici abruzzesi, «è allora il dato formale dell'iscrizione all'albo (comma 2), oltre che quello sostanziale della stabile costituzione di un ufficio legale con specifica attribuzione della trattazione degli affari legali dell'ente stesso e l'appartenenza a tale ufficio del professionista incaricato in forma esclusiva di tali funzioni» (articolo ItaliaOggi Sette del 03.08.2015).

ENTI LOCALI: Nessuna deroga al taglio dei compensi del cda.
A decorrere dal 1° gennaio scorso, i compensi degli amministratori delle società controllate dalle pubbliche amministrazioni devono essere limati nella misura massima dell'80% del costo complessivo sostenuto per tali oneri nel 2013. Tale soglia non può essere oggetto di alcuna deroga, né può esserne invocata una con particolare riferimento alle competenze professionali richieste per la gestione di tali incarichi.

È quanto emerge dalla lettura del parere 10.07.2015 n. 119 con cui la sezione regionale di controllo della Corte dei conti per l'Emilia Romagna, rispondendo a un preciso quesito formulato dal sindaco di Parma, ha sgomberato il campo dai dubbi interpretativi in merito alle previsioni contenute all'articolo 4, comma 4, del dl n. 95/2012, nel testo introdotto dall'articolo 16, comma 1, del dl n. 90/2014.
Come si ricorderà, tale disposizione prevede che il costo dei consigli di amministrazione delle società controllate direttamente o indirettamente dalle p.a., che abbiano conseguito nel 2011 un fatturato da prestazione di servizi a favore delle stesse superiore al 90% dell'intero fatturato, non può superare l'ottanta per cento del consto sostenuto nel 2013.
Su questa disposizione, il primo cittadino parmense chiedeva se fosse possibile derogare a tale limite-soglia, nella considerazione che la situazione delle sistema delle partecipate della sua città presentasse «situazioni di particolare complessità che richiedono agli amministratori nominati, l'esercizio di competenze professionali di alto livello in relazione all'impegno e alle responsabilità richieste per lo svolgimento dell'incarico».
La Corte, nel dirimere il quesito, ha sottolineato preliminarmente che è consapevole che le disposizioni che prevedono tagli lineari, operando in modo non selettivo su una determinata tipologia di spese, finiscano per penalizzare anche gli enti che hanno avuto una precedente gestione virtuosa. Ma precisa, altresì, che il vincolo imposto dal legislatore è da intendersi tassativo, tale da non consentire eccezioni che possano derivare da situazioni particolari.
A ben vedere, la ratio della norma in esame è quella di essere preordinata a garantire il coordinamento della finanza pubblica e, essendo di tale natura, non può ammettere eccezioni a meno che non siano stabilite da specifiche disposizioni di legge (si veda anche sul punto la decisione della Corte dei conti Lombardia nel parere n. 88/2015).
Pertanto, i predetti compensi devono essere parametrati, al massimo, all'80% del costo complessivamente sostenuto nel 2013, essendo irrilevanti, sotto questo profilo, le competenze professionali concretamente richieste per la gestione dell'incarico (articolo ItaliaOggi del 04.08.2015).

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALI: Modalità di presentazione delle dimissioni dei consiglieri comunali.
Sebbene il legislatore, all'art. 38 TUEL, abbia previsto la sottoposizione della presentazione delle dimissioni da parte dei consiglieri comunali a requisiti formali particolarmente stringenti in considerazione delle potenziali rilevanti conseguenze delle stesse in relazione alla continuità degli organi elettivi, il Consiglio di Stato ha ritenuto valide le dimissioni presentate al protocollo personalmente dai consiglieri, ancorché indirizzate al segretario comunale.
Il Comune chiede un parere in merito alla validità delle dimissioni presentate personalmente al protocollo da un consigliere comunale ed indirizzate al segretario comunale, anziché all'organo consiliare.
Sentito il Servizio elettorale, si esprimono le seguenti considerazioni.
L'articolo 38, comma 8
[1], del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 (TUEL), dispone che 'Le dimissioni dalla carica di consigliere, indirizzate al rispettivo consiglio, devono essere presentate personalmente ed assunte immediatamente al protocollo dell'ente nell'ordine temporale di presentazione. Le dimissioni non presentate personalmente devono essere autenticate ed inoltrate al protocollo per il tramite di persona delegata con atto autenticato in data non anteriore a cinque giorni. Esse sono irrevocabili, non necessitano di presa d'atto e sono immediatamente efficaci. (...)'.
Sebbene il legislatore abbia previsto la sottoposizione della presentazione delle dimissioni da parte dei consiglieri comunali a requisiti formali particolarmente stringenti in considerazione delle potenziali rilevanti conseguenze delle stesse in relazione alla continuità degli organi elettivi, il Consiglio di Stato
[2] ha ritenuto valide le dimissioni presentate al protocollo personalmente dai consiglieri, ancorché indirizzate al segretario comunale, in relazione ad un'ipotesi di dimissioni contestuali ultra dimidium, ai sensi dell'art. 141, comma 1, lett. b), n. 3; del D.Lgs. 267/2000.
Il Supremo giudice amministrativo ha infatti affermato che deve essere tenuto in debito conto 'l'inscindibile nesso funzionale che lega l'attività del segretario comunale a quella dell'Organo consiliare, individuando il primo quale soggetto istituzionalmente deputato a partecipare con funzioni consultive, referenti e di assistenza, alle riunioni dell'Organo elettivo, curandone altresì la verbalizzazione (in tal senso: comma 4, lettera d) dell'art. 97 del T.U.E.L.).
È noto al riguardo che la riforma del 2000 abbia enfatizzato il richiamato nesso funzionale, superando il previgente modello delineato dalla legge n. 142 del 1990 (in cui il ruolo del segretario era limitato alla sola verbalizzazione degli atti consiliari) ed istituendo un nuovo modello nel cui ambito il segretario si atteggia quale garante della legittimità e della correttezza dell'azione amministrativa dell'Ente locale.
Nell'ambito del modello da ultimo delineato non solo appare indubitabile la conferma del ruolo istituzionale del segretario comunale inteso anche quale segretario ex lege dell'Assemblea elettiva, ma appare altresì evidente che il medesimo soggetto rivesta un innegabile ruolo di interfaccia istituzionale dell'intera attività dell'Organo, con un'ampiezza di funzioni che non appare passibile di interpretazioni restrittive.
Già sotto tale aspetto, quindi, appare innegabile che la presentazione degli atti di dimissioni al segretario ex lege dell'assemblea elettiva concreti adeguatamente il requisito formale imposto dal comma 8 dell'art. 38 del T.U.E.L., il quale impone che le dimissioni debbano essere indirizzate al rispettivo consiglio
'.
Grava in tal caso sul segretario comunale l'obbligo di comunicare al consiglio comunale le dimissioni a lui indirizzate, in modo da assicurare la conoscenza delle stesse da parte dell'organo consiliare.
Il medesimo orientamento è stato successivamente espresso dal Giudice amministrativo di primo grado, che ha riconosciuto la validità delle dimissioni consegnate direttamente nelle mani del segretario (sia pure non indirizzate al consiglio comunale), con contestuale assunzione al protocollo dell'ente
[3].
---------------
[1] Come modificato dall'articolo 3 del D.L. 29.03.2004, n. 80, convertito in legge 28.05.2004, n. 140.
[2] Cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 19.08.2009, n. 4982, che ha riformato la sentenza del TAR Puglia-Bari, sez. II, 16.07.2004, n. 3051.
[3] TAR Piemonte-Torino, sez. II, 12.12.2013, n. 1336. Peraltro, corre l'obbligo di segnalare che più di recente il Consiglio di Stato (sezione III, sentenza 01.04.2015, n. 1721) si è espresso sulla modalità di presentazione delle dimissioni dei consiglieri comunali, affermando che nel caso di dimissioni collettive ultra dimidium l'art. 141, comma 1 (che contemplerebbe una forma di dimissioni autonoma rispetto a quella regolamentata dall'art. 38), non prevede alcun altro requisito di efficacia oltre alla presentazione contestuale al protocollo dell'ente, e precisando che 'solo le dimissioni individuali ex art. 38, comma 8, devono essere indirizzate al consiglio comunale'.
Seguendo tale orientamento, risulterebbero pertanto superflue le argomentazioni utilizzate dalla sezione VI nella sentenza n. 4982/2009 a sostegno dell'efficacia, ai fini dell'art. 141 TUEL, delle dimissioni indirizzate al segretario comunale, in quanto detta disposizione non richiederebbe proprio che le dimissioni contestuali siano indirizzate ad alcun organo comunale, a differenza di quanto previsto dall'art. 38, comma 8, per le dimissioni individuali.
Ad ogni buon conto, a parere dello scrivente, le considerazioni svolte dal Consiglio di Stato nella sentenza del 2009 in ordine al ruolo del segretario comunale risultano pertinenti anche nel caso delle dimissioni individuali, con conseguente validità delle dimissioni indirizzate al segretario e assunte al protocollo dell'ente
(07.08.2015 -
link a www.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Vietato ostacolare i consiglieri. Insindacabilità delle richieste, accesso agli atti senza limiti. Le prerogative dei componenti dell'assemblea nella giurisprudenza dei giudici amministrativi.
Quali sono i diritti e le garanzie del consigliere comunale?

In merito al diritto della minoranza consiliare, tutelato dall'art. 39, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000, la giurisprudenza prevalente in materia ha da tempo affermato che, in caso di richiesta di convocazione del consiglio da parte di un quinto dei consiglieri, «al presidente del consiglio comunale spetta soltanto la verifica formale che la richiesta provenga dal prescritto numero di soggetti legittimati, mentre non può sindacarne l'oggetto, poiché spetta allo stesso consiglio nella sua totalità la verifica circa la legalità della convocazione e l'ammissibilità delle questioni da trattare, salvo che non si tratti di oggetto che, in quanto illecito, impossibile o per legge manifestamente estraneo alle competenze dell'assemblea in nessun caso potrebbe essere posto all'ordine del giorno» (vd. in particolare Tar Piemonte, sez. II, 24.04.1996, n. 268).
Il Tar Puglia-Lecce (sentenza n. 528/2014) ha recentemente ribadito che la figura del presidente è posta a garanzia del corretto funzionamento dell'organo rappresentativo e della corretta dialettica tra maggioranza e minoranza. Alla luce del richiamato orientamento giurisprudenziale, pertanto, la convocazione del consiglio comunale con un ordine del giorno diverso da quello richiesto appare elusiva dell'obbligo di cui al comma 2 dell'art. 39 citato.
In tema di diritto di accesso dei consiglieri, come affermato dal Consiglio di stato con la recente sentenza n. 4525 del 05.09.2014 e secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale (Cons. stato, sez. V, 17.09.2010, n. 6963; 09.10.2007, n. 5264), «i consiglieri comunali hanno un non condizionato diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere d'utilità all'espletamento delle loro funzioni, ciò anche al fine di permettere di valutare, con piena cognizione, la correttezza e l'efficacia dell'operato dell'amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio, e per promuovere, anche nell'ambito del Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale. Il diritto di accesso loro riconosciuto ha una ratio diversa da quella che contraddistingue il diritto di accesso ai documenti amministrativi riconosciuto alla generalità dei cittadini in quanto esso è strettamente funzionale all'esercizio del loro mandato, alla verifica e al controllo dell'operato degli organi istituzionali dell'ente locale (Cons. stato, sez. IV, 21.08.2006, n. 4855) ai fini della tutela degli interessi pubblici.
Gli unici limiti all'esercizio del diritto di accesso ex art. 43, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000 possono rinvenirsi nella esigenza di comportare il minor aggravio possibile per gli uffici comunali, attraverso modalità fissate dal regolamento dell'ente; l'esercizio di tale diritto, inoltre, non deve sostanziarsi in richieste assolutamente generiche, ovvero meramente emulative, fermo restando, tuttavia, che la sussistenza di tali caratteri deve essere attentamente verificata in concreto al fine di non introdurre surrettiziamente inammissibili limitazioni a tale diritto
» (cfr. Consiglio di stato, sez. V n. 6993/2010).
La commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, con parere Dica n. 18368 P-2.4.5.2.4 del 05.10.2010, ha osservato che il diritto si esercita con l'unico limite di potere esaudire la richiesta (qualora essa sia di una certa gravosità) secondo i tempi necessari per non determinare interruzione delle altre attività di tipo corrente e ciò in ragione del fatto che il consigliere comunale non può abusare del diritto all'informazione riconosciutogli dall'ordinamento, pregiudicando la corretta funzionalità amministrativa dell'ente civico con richieste non contenute entro i limiti della proporzionalità e della ragionevolezza.
Al fine di evitare pregiudizi all'ordinaria attività amministrativa dell'ente locale, la citata Commissione ha riconosciuto la possibilità per il consigliere comunale di avere accesso diretto al sistema informatico interno (anche contabile) dell'ente attraverso l'uso della password di servizio (cfr. parere del 29/11/2009). Qualora si tratti di esibire documentazione complessa e voluminosa, è legittimo il rilascio di supporti informatici (cd o dvd) al consigliere, o la trasmissione mediante posta elettronica, in luogo delle copie cartacee.
Tale modalità di riscontro, appare in linea con la decisione del Consiglio di stato, sez. V (sent. n. 6742/2007) -il quale ha richiamato il parere del ministero dell'interno in merito alla possibile riproduzione di planimetrie su cd-rom nei casi in cui in cui il consigliere chieda l'estrazione di copie di atti la cui fotoriproduzione comporti costi elevati- ed è conforme alla vigente normativa in materia di digitalizzazione della pubblica amministrazione (decreto legislativo n. 82 del 07.03.2005), che all'articolo 2, prevede che anche «le autonomie locali assicurano la disponibilità, la gestione, l'accesso, la trasmissione, la conservazione e la fruibilità dell'informazione in modalità digitale e si organizzano ed agiscono a tale fine utilizzando con le modalità più appropriate le tecnologie dell'informazione e della comunicazione».
Circa il termine per il rilascio della documentazione richiesta, il Tar Calabria, con sentenza n. 221 del 2011, ha considerato legittima una norma regolamentare con la quale era stato indicato il termine di trenta giorni quale arco temporale entro il quale l'amministrazione avrebbe dovuto dare seguito alla richiesta di accesso da parte dei consiglieri qualora la stessa fosse riferita ad una pluralità di documenti. Ciò in quanto il suddetto termine è stato considerato ragionevole e comunque coerente con l'art. 25 della legge 241 del 1990 «che prevede l'accesso ai documenti amministrativi entro 30 giorni dalla richiesta, salvi i casi di differimento» (articolo ItaliaOggi del 07.08.2015).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Applicazione dell’art. 17-bis della L.R. n. 23 del 2004, relativamente agli aspetti paesaggistici – Risposta a richiesta di parere (Regione Emilia Romagna, parere 04.08.2015 n. 558474 di prot.).
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Con nota inviata il 16.06.2015, prot. n. 128924, (acquisita agli atti del Servizio in data 16.06.2015, prot. n. PG.2015.421736) il Comune di XXX pone un quesito in merito all'applicazione dell’art. 17-bis della L.R. n. 23 del 2004, chiedendo se tale forma di sanatoria si debba coordinare con l’istituto dell’accertamento di compatibilità di cui all’art. 167 del D.Lgs. n. 42 del 2004, Codice dei beni culturali e del paesaggio (da qui in avanti Codice).
In particolare, si chiede come procedere per la regolarizzazione di opere, eseguite in parziale difformità durante i lavori in attuazione di titoli abilitativi rilasciati prima dell'entrata in vigore della legge 28.01.1977, n. 10, in caso di vincolo paesaggistico sopravvenuto.
Nella nota si fa riferimento al parere espresso da questi Servizi regionali del 17.04.2012, prot. n. PG/2012/95795, che qui si intende parzialmente rivisto. (... continua).
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ATTENZIONE:
- col suddetto parere la Regione Emilia Romagna si ravvede per quanto espresso con un precedente pronunciamento e si allinea alla Regione Lombardia ed alla Regione Piemonte:
EDILIZIA PRIVATAOggetto: Sanatoria di interventi edilizio-urbanistici abusivi realizzati prima dell’imposizione del vincolo paesaggistico - Risposta a richiesta di parere (Regione Emilia Romagna, parere 17.04.2012 n. 95795 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Utilizzabilità del permesso di costruire convenzionato per l’attuazione di insediamenti commerciali riconducibili alla tipologia medio grandi strutture alimentari (superficie di vendita oltre i 1500 mq e fino a 2500 mq) il cui insediamento in ambiti urbanizzati sia considerato ammissibile dal RUE (Regione Emilia Romagna, parere 04.08.2015 n. 557122 di prot.).

CONSIGLIERI COMUNALI: Richieste di password e accessi a sistemi informatici da parte della minoranza consiliare.
Si fa riferimento alle note sopradistinte con le quali codesta Prefettura, nel trasmettere le note di un consigliere del comune di cui in oggetto, ha chiesto un parere circa la liceità delle registrazioni foniche sia negli ambienti comunali, che durante lo svolgimento delle sedute dei consigli comunali.
Al riguardo, occorre osservare che la problematica relativa alla registrazione dei colloqui tra il consigliere di minoranza e gli amministratori e dipendenti del comune, implica temi che attengono alla tutela dei dati personali e, per quel che concerne in particolare i dipendenti, problematiche che hanno una diretta incidenza sulla tutela dei lavoratori.
In primo luogo, si osserva che il Garante per la Protezione dei dati personali nella Relazione 2007 –del 16.07.2008 - Parte II- ha segnalato di avere ricevuto richiesta di verificare eventuali violazioni della disciplina in materia di protezione dei dati personali in tema di ammissione di mezzi di prova nell'ambito dei procedimenti giudiziari, con particolare riferimento all'assunzione di prove testimoniali e alla produzione di documenti ad opera delle parti.
Lo stesso Garante ha precisato di non avere diretta competenza in ordine alla valutazione processuale dell'ammissibilità e rilevanza delle prove in giudizio e alla determinazione all'interno del procedimento giudiziario delle modalità più opportune per procedere alla loro assunzione; anche nell'ipotesi di un trattamento di dati personali ad opera delle parti non conforme a disposizioni di legge o di regolamento, ciò compete al giudice, secondo le pertinenti disposizioni processuali nella materia civile e penale (art. 160, comma 6, del Codice in materia di protezione dei dati personali – d.lgs. n. 196 del 30.06.2003).
Avendo il Garante declinato la propria competenza in materia, si reputa comunque opportuno ricordare che la giurisprudenza è tendenzialmente orientata a riconoscere che “la registrazione fonografica di un colloquio svoltosi tra presenti o mediante strumenti di trasmissione, ad opera di un soggetto che ne sia partecipe, o comunque sia ammesso ad assistervi, non è riconducibile, quantunque eseguita clandestinamente, alla nozione di intercettazione, ma costituisce forma di memorizzazione fonica di un fatto storico, della quale l'autore può disporre legittimamente, anche a fini di prova nel processo secondo la disposizione dell'art. 234 c.p.p., salvo gli eventuali divieti di divulgazione del contenuto della comunicazione che si fondino sul suo specifico oggetto o sulla qualità rivestita dalla persona che vi partecipa" (Cass. pen., Sez. VI, 09/02/2005, n. 12189).
Ciò anche alla luce della sentenza della Corte costituzionale 30.03.1992, n. 142, che, nel fornire un'interpretazione estensiva dell'art. 234 c.p.p., ha enunciato il principio secondo cui nel processo penale sono acquisibili come prove anche i documenti rappresentativi di dichiarazioni e non solo quelli rappresentativi di fatti, dal momento che non è dato rinvenire nella citata disposizione di legge una discriminazione tra i diversi mezzi di rappresentazione e le differenti realtà rappresentate. (Corte di Appello Milano, Sez. I, 02/07/2005 - conforme Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 06.11.2012–06.03.2013, n. 10277).
In senso contrario si è pronunciata la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con la sentenza 02.10.-21.11.2013 n. 26143 secondo la quale la registrazione delle conversazioni da parte di un dipendente di una pubblica amministrazione nei confronti di alcuni colleghi, senza che questi ne fossero a conoscenza, viola il diritto alla riservatezza.
Premesso il quadro giurisprudenziale sopra descritto, che comunque non appare chiarificatore della questione che interessa, visto peraltro che le registrazioni verrebbero effettuate previo avviso agli interessati, si osserva, conformemente a quanto previsto dall’art. 78 del d.lgs. n. 267/2000, che il comportamento degli amministratori, nell'esercizio delle proprie funzioni, deve essere improntato al principio di buona amministrazione e ciò non potrebbe prescindere dall’instaurazione di rapporti di collaborazione e reciproca fiducia specie nei confronti dei dipendenti.
Sotto tale ultimo aspetto, peraltro, l’utilizzo di strumenti di registrazione da parte del consigliere comunale (che astrattamente rappresenta l’Amministrazione) dei dialoghi con i dipendenti, seppur previamente avvertiti, potrebbe configurare la violazione dell’articolo 4, comma 1, della legge n. 300/1970, confermato dall’art. 114 della legge n. 196/2003, il quale fa divieto d’uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo dell'attività dei lavoratori.
Riguardo alla possibilità di effettuare registrazioni foniche da parte del consigliere nell’ambito delle sedute consiliari, occorre preliminarmente ricordare che il consiglio, ai sensi del comma 3, dell’articolo 38 del decreto legislativo n. 267/2000, ha potestà di disciplinare, con apposite norme regolamentari, ogni aspetto attinente al funzionamento dell’assemblea.
E’, pertanto, nell’ambito delle norme interne all’ente locale, che dovrebbero rinvenirsi disposizioni sulla possibilità di registrazione del dibattito e delle votazioni con mezzi audiovisivi, sia da parte degli uffici di supporto all’attività di verbalizzazione del segretario comunale (art. 97, comma 4, lett. a, del T.U.O.E.L.), che da parte dei consiglieri comunali, nonché dei cittadini ammessi ad assistere alla seduta e degli organi di informazione radiotelevisiva.
A margine del potere regolamentare del Consiglio, l’Amministrazione può legittimamente riservarsi il compito di registrazione con mezzi audiovisivi, anche escludendo che altri soggetti e il pubblico in aula possano procedervi. In questo senso, la pubblicità della seduta non implica la facoltà di registrazione ma la libera presenza di chi abbia interesse ad assistere alle sedute.
Occorre precisare, comunque, che le eventuali restrizioni in materia di registrazione audiovisiva delle sedute sono dettate dalla necessità del rispetto della normativa sulla tutela dei dati personali o per impedire la diffusione dei dati sensibili che riguardano le persone.
Nel caso di semplice registrazione fonica, anche se non prevista dai regolamenti comunali, la giurisprudenza tende a riconoscere il diritto dei singoli consiglieri ad averne accesso, non rilevando alcuna ragione per cui i consiglieri non possano prenderne conoscenza, “se non altro per potere verificare la correttezza della verbalizzazione ufficiale, prima di approvarla; ma anche, e più in generale, per poter disporre nell’espletamento del proprio mandato di una documentazione più completa ed accurata” (conforme TAR Piemonte – Sez. I - n. 563 del 27/05/2011).
Considerato, inoltre, che la normativa tende ormai ad evolvere verso la più totale trasparenza della pubblica amministrazione (decreto legislativo 14.03.2013, n. 33), l’ammissione alla registrazione anche da parte dei singoli consiglieri potrebbe essere regolata, caso per caso, dal presidente del consiglio proprio nell’esercizio dei poteri di direzione dei lavori dell’assemblea previsti dall’art. 39 del d.lgs. n. 267/2000, in stretta correlazione alle esigenze di ordinato svolgimento dell’attività consiliare.
Tuttavia, tale possibilità è sempre subordinata all’adozione di apposita disciplina regolamentare in virtù anche dell’assunto di cui alla decisione del TAR Veneto n. 826/2010, che ha negato la possibilità di assensi estemporanei da parte del Presidente del Consiglio
(Ministero dell'Interno, parere 16.06.2015 - link a http://incomune.interno.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Diritto di accesso agli atti del Comune.
Con la nota allegata in copia, il Responsabile del Settore Tributi ed Entrate proprie del Comune di …. ha chiesto un parere in ordine alla legittimità della richiesta di accesso agli atti del Comune presentata da un cittadino, finalizzata ad estrarre copia di “eventuali denunce per la tassa di smaltimento dei rifiuti” e “della voltura riferita al contatore dell’acqua”.
Al riguardo, si osserva che l’articolo 10 del decreto legislativo n. 267/2000 -che disciplina il diritto di accesso e informazione- dispone che tutti gli atti dell’amministrazione comunale sono pubblici, rafforzando il diritto alla trasparenza dell’azione amministrativa locale per il cittadino-elettore.
La Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi, ha precisato, che ai sensi del richiamato disposto normativo è consentito al cittadino residente di accedere agli atti amministrativi dell’ente locale di appartenenza senza alcun condizionamento e senza necessità della previa indicazione delle ragioni della richiesta, dovendosi cautelare la sola segretezza degli atti la cui esibizione è vietata dalla legge o da esigenze di tutela della riservatezza dei terzi.
Tale specialità comporta (sempre secondo l’orientamento espresso dalla citata Commissione nelle sedute dell’11 ottobre e dell’08.11.2011) che le norme contenute nella legge n. 241/1990 si applicano solo in via suppletiva, ove necessario, e nei limiti in cui non siano compatibili col T.U.O.E.L., mentre l'art. 22, comma 1, lett. b), della citata legge n. 241/1990 prevede che la legittimazione all'accesso spetti soltanto ai soggetti titolari di un "interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso".
L'art. 10 del T.U.O.E.L. non stabilisce invece alcuna restrizione e si limita a prevedere l'esistenza di un'area di atti (non precisata) il cui accesso o è assolutamente precluso per legge o è differibile nei casi previsti da apposito regolamento, a tutela della riservatezza.
Secondo la Commissione, i diversi contenuti delle due disposizioni citate caratterizzano la specificità del diritto di accesso dei cittadini configurandolo alla stregua di un'azione popolare che non deve essere accompagnata né dalla titolarità di una situazione giuridicamente rilevante né da un'adeguata motivazione.
Il predetto parere, inoltre, in presenza di una richiesta presentata anche per tutelare il diritto alla difesa in un procedimento civile in corso, appare idoneo a risolvere la questione, nella parte in cui si afferma che “l'accesso, nella specie, motivato dalla eventualità di una difesa giudiziale, non può essere certamente negato e ad esso non può opporsi il controinteressato (al quale va comunicata l'esistenza dell'istanza, ex art. 3, del d.P.R. n. 184/2006) nemmeno ricorrendo all'esigenza di tutela della privacy che risulta comunque recessiva rispetto a quella giudiziaria”.
Ciò trova conferma, peraltro, nel disposto di cui all’art. 24, comma 7, della più volte richiamata legge n. 241/1990, il quale prevede che “deve comunque essere garantito ai richiedenti l'accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici” (conforme, tra le tante, Consiglio di Stato - Sezione Quarta n. 2402 del 12/05/2014 ), venendo meno il divieto previsto dalla citata norma al comma 1, lett. b), in ordine all’accesso ai “procedimenti tributari…”.
Considerato, pertanto, che l’interessato ha dichiarato che intende “tutelare il suo diritto alla difesa nel procedimento civile in corso”, si ritiene che la richiesta di accesso non possa non essere accolta.
Su quanto precede si prega di fare analoga comunicazione all’ente interessato
(Ministero dell'Interno, parere 16.06.2015 - link a http://incomune.interno.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Art. 43 del d.lgs. n. 267/2000 - Prerogative dei consiglieri comunali. Quesito.
Con la nota allegata in copia, il Presidente del Consiglio comunale di …ha chiesto se, a fronte di numerose interpellanze a risposta scritta presentate da un consigliere comunale, sia possibile configurare un’ipotesi di finalità emulativa e se il termine di trenta giorni per la risposta, previsto dalla norma di legge citata in oggetto, possa essere disatteso, a causa dell’ elevato numero di richieste, al fine di non compromettere l’attività dell’ufficio.
Al riguardo, si osserva che l’art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000 al comma 3 riconosce ai consiglieri comunali la facoltà di presentare “interrogazioni e ogni altra istanza di sindacato ispettivo”, alle quali il sindaco o gli assessori da esso delegati, devono dare risposta entro 30 giorni. Le modalità della presentazione di tali atti e delle relative risposte sono disciplinate dallo statuto e dal regolamento consiliare.
Lo statuto del comune di…, all’art. 24, comma 2, ribadendo il diritto in parola, rinvia al regolamento per il funzionamento del consiglio, la disciplina delle modalità per la presentazione anche delle interpellanze.
Il citato regolamento all’articolo 13 conferma la facoltà dei consiglieri di presentare, tra l’altro, interpellanze con le modalità di cui agli articoli 42 e seguenti.
In particolare, per quel che riguarda le interpellanze, l’articolo 49 del regolamento, al comma 3, disciplina tre forme di risposta: a) in forma scritta, entro trenta giorni; b) verbalmente in consiglio comunale; c) verbalmente nella commissione consiliare permanente preposta.
Le risposte verbali sono soggette, ai sensi degli articoli successivi, a tempi limitati nell’ambito delle sedute di consiglio comunale e delle commissioni permanenti; per le risposte scritte vige il solo termine di trenta giorni come previsto dalla legge e ribadito dal regolamento consiliare.
Ciò posto, si osserva che né la legge, né le disposizioni statutarie e regolamentari del Comune pongono dei limiti all’iniziativa di interpellanza a risposta scritta da parte dei consiglieri.
In ogni caso, l’esercizio delle prerogative dei consiglieri comunali (diritto di accesso, e diritto di presentare interrogazioni, mozioni ed ogni altra istanza di sindacato ispettivo) non potrebbe subire limitazioni a causa di difficoltà organizzative. Infatti, il Tribunale Amministrativo Regionale per la Calabria (Sezione Seconda) con sentenza n. 77 del 16/01/2014, ha osservato che “il limite di natura organizzativa non può essere eccepito dall’Amministrazione a ragione del diniego dell’accesso, proprio perché la “difficoltà organizzativa” rientra tra quegli adempimenti a carico di ogni Amministrazione pubblica e quindi, ogni singola struttura dovrà dotarsi di tutti i mezzi necessari all’assolvimento dei loro compiti (Cons. Stato, sez. V, sentenza n. 2716/2004)”.
Con la citata sentenza n. 2716 del 04.05.2004, il Consiglio di Stato –seppur in relazione ad una richiesta di accesso di un consigliere comunale- ha osservato infatti, che “la rilevata circostanza della rilevante quantità di atti richiesti è inidonea a giustificare il diniego opposto”.
Tuttavia, occorre richiamare il parere 10.12.2002 reso dalla Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi istituita presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, che esprime l’avviso che sia “… generale dovere della Pubblica Amministrazione ... ispirare la propria attività al principio di economicità … che incombe non solo sugli uffici tenuti a provvedere ma anche sui soggetti che richiedono prestazioni amministrative, i quali, specie se appartenenti alla stessa amministrazione, sono tenuti, in un clima di leale cooperazione, a modulare le proprie richieste”.
Pertanto, nonostante la riconosciuta ampiezza del diritto in parola, il consigliere è comunque soggetto al rispetto di alcune forme e modalità dovendo contemperare le opposte esigenze, vale a dire, da un lato le pretese conoscitive dei consiglieri comunali e dall’altro le “... evidenti esigenze di funzionalità dell'amministrazione locale".
Ciò posto, si ritiene, alla luce anche della segnalata giurisprudenza, che l’ente, in assenza di disposizioni limitative, non possa esimersi dal fornire risposta alle interpellanze nei tempi previsti, ferma restando l’esigenza di leale collaborazione da parte dei consiglieri comunali, che con eventuali comportamenti non corretti possono provocare disservizi.
Su quanto precede si prega di fare analoga comunicazione all’ente interessato
(Ministero dell'Interno, parere 16.06.2015 - link a http://incomune.interno.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Esercizio del diritto di accesso da parte di un consigliere comunale. Quesito.
Si fa riferimento alla nota sopradistinta con la quale codesta Prefettura ha chiesto un parere in ordine al quesito posto dal sindaco del Comune di …, circa il corretto esercizio del diritto di accesso agli atti riservato ai consiglieri comunali.
In particolare, è stato chiesto se sia legittimo accogliere la richiesta di un consigliere finalizzata a conoscere le posizioni tributarie di alcuni ex amministratori, alla luce del fatto che a seguito dell’analisi delle posizioni già comunicate ai consiglieri, “sono scaturiti dei post sul sito ufficiale della lista civica ritenuti lesivi dell’onorabilità e della privacy di taluni ex amministratori”.
Al riguardo, si osserva che l’art. 43, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000 riconosce al consigliere comunale un diritto dai confini più ampi sia del diritto di accesso ai documenti amministrativi attribuito al cittadino nei confronti del comune di residenza (art. 10, T.U.O.E.L.) sia, più in generale, nei confronti della pubblica amministrazione, genericamente intesa, come disciplinato dalla legge n. 241/1990.
Tale maggiore ampiezza di legittimazione è riconosciuta in ragione del particolare munus espletato dal consigliere comunale, affinché questi possa valutare con piena cognizione di causa la correttezza e l’efficacia dell’operato dell’Amministrazione, al fine di poter esprimere un giudizio consapevole sulle questioni di competenza della P.A., opportunamente considerando il ruolo di garanzia democratica e la funzione pubblicistica da questi esercitata.
La giurisprudenza del Consiglio di Stato, come anche rilevato da codesta Prefettura, si è orientata nel senso di ritenere che l’ampia prerogativa a ottenere informazioni è riconosciuta ai consiglieri comunali senza che possano essere opposti profili di riservatezza, restando fermi, tuttavia, gli obblighi di tutela del segreto e i divieti di divulgazione di dati personali, nei casi specificamente determinati dalla legge, come previsto dal sopra richiamato art. 43.
Anche il TAR Lombardia–Milano – con sentenza n. 2363 del 23.09.2014 ha riconosciuto un ampio diritto dei consiglieri comunali ad accedere agli atti del Comune in quanto “non è in dubbio che possa essere ostensibile anche documentazione che, per ragioni di riservatezza, non sarebbe ordinariamente ostensibile ad altri richiedenti, essendo il consigliere tenuto al segreto d’ufficio (Cons. Stato, Sez. V, 05.09.2014, n. 4525)”.
In ogni caso, ad avviso di questa Direzione Centrale, qualora non sia stata adottata, appare necessaria una regolamentazione della materia da parte del Consiglio comunale nell’ambito degli strumenti di autorganizzazione.
In merito alla specifica fattispecie segnalata, appare utile richiamare il parere in data 14.12.2010 con cui la Commissione per l’Accesso ai documenti amministrativi, ribadendo che “gli Uffici comunali non hanno il potere di sindacare il nesso intercorrente tra l'oggetto delle richieste di informazioni avanzate da un Consigliere comunale e le modalità di esercizio del munus da questi espletato”, ha riconosciuto il diritto ad accedere agli atti relativi al pagamento dei tributi (per le concessioni cimiteriali) in quanto le informazioni richieste attengono formalmente all’esercizio del mandato consiliare, essendo esse preordinate a verificare l’efficacia e l’imparzialità dell’azione amministrativa in un settore particolarmente nevralgico come quello dell'effettiva riscossione delle imposte comunali da parte dell'amministrazione competente e pertanto sono da ritenere accessibili dal consigliere comunale.
Premesso, pertanto, alla luce anche del parere in data 11.01.2011 della citata Commissione, richiamato da codesta Prefettura, che “indipendentemente dall'inclusione della divulgazione dei contribuenti morosi fra i casi soggetti al segreto, gli Uffici comunali non possano limitare in alcun caso il diritto di accesso del consigliere comunale, ancorché possa sussistere il pericolo della divulgazione di dati di cui il medesimo entri in possesso”, si osserva che ai sensi dell’art. 66 del d.lgs. n. 196/2003 la materia tributaria è considerata di rilevante interesse pubblico ai sensi degli artt. 20 e 21 dello stesso decreto legislativo, e dunque soggetta a pubblicità nelle forme e nei limiti previsti dalle medesime disposizioni (Ministero dell'Interno, parere 16.06.2015 - link a http://incomune.interno.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Deleghe sindacali conferite a consiglieri comunali.
Si fa riferimento alla nota suindicata, con la quale codesta prefettura ha chiesto l’avviso di questo Ministero in ordine all’istituto della delega ai consiglieri comunali di compiti di collaborazione per l’esercizio di funzioni sindacali.
In particolare, è stato segnalato che gli atti con i quali il sindaco dell’ente in oggetto ha conferito ad alcuni consiglieri comunali incarichi di collaborazione sarebbero, per il loro contenuto, inficiati da vizi di legittimità.
Tali deleghe, infatti, determinerebbero un’impropria commistione tra funzioni di governo e funzioni di controllo politico, nonché un’ingiustificata disparità di ruoli e funzioni rispetto agli altri consiglieri componenti del consiglio.
Al riguardo si rappresenta che nell'ambito dell'autonomia statutaria dell'ente locale, sancita dall'art. 6 del decreto legislativo n. 267/2000, è ammissibile la disciplina di deleghe interorganiche, purché il contenuto delle stesse sia coerente con la funzione istituzionale dell'organo cui si riferisce. Tale istituto è disciplinato, altresì, dall’art. 23, comma 6, dello statuto del comune di ….
Occorre considerare, quale criterio generale, che il consigliere può essere incaricato di studi su determinate materie, di compiti di collaborazione circoscritti all'esame e alla cura di situazioni particolari, che non implichino la possibilità di assumere atti a rilevanza esterna, né di adottare atti di gestione spettanti agli organi burocratici. Il consigliere, infatti, svolge la sua attività istituzionale, in qualità di componente di un organo collegiale quale il consiglio, che è destinatario dei compiti individuati e prescritti dalle leggi e dallo statuto.
Atteso che il consiglio svolge attività di indirizzo e controllo politico-amministrativo, ne scaturisce l'esigenza di evitare una incongrua commistione nell'ambito dell'attività di controllo. Tale criterio generale può ritenersi derogabile solo in taluni casi previsti dalla legge.
In proposito, va osservato che il TAR Toscana, con decisione n. 1284/2004, ha respinto il ricorso avverso una norma statutaria concernente la delega ai consiglieri di funzioni sindacali in quanto la stessa escludeva implicitamente che potessero essere delegati compiti di amministrazione attiva, tali da comportare “…l’inammissibile confusione in capo al medesimo soggetto del ruolo di controllore e di controllato…”.
Si soggiunge che il Consiglio di Stato, con parere n. 4883/11 reso in data 17.10.2012, ha ritenuto fondato un ricorso straordinario al Presidente della Repubblica in quanto l’atto sindacale impugnato, nel prevedere la delega ai consiglieri comunali di funzioni di amministrazione attiva, determinava “…una situazione, perlomeno potenziale, di conflitto di interesse.”.
Nel ricordare che, come noto, l’ordinamento vigente non prevede poteri ordinari di controllo di legittimità sugli atti degli enti locali in capo a questa amministrazione, si ritiene, dall’esame delle deleghe in questione, che le stesse siano coerenti con la ratio ed il perimetro dell’istituto, come delineato nelle considerazioni che precedono (Ministero dell'Interno, parere 28.04.2015 - link a http://incomune.interno.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Data della seduta di seconda convocazione del consiglio.
Si fa riferimento alla nota sopradistinta con la quale è stato formulato un quesito riguardante la data entro la quale deve essere tenuta la seduta di seconda convocazione del consiglio.
In particolare il regolamento sul funzionamento del consiglio comunale prevede all’art. 28 che “la seduta di seconda convocazione deve seguire, in giorno diverso, la seduta di prima convocazione andata deserta”, mentre l’art. 21 della medesima fonte normativa prevede, in conformità con quanto disposto dall’art. 39, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000, che il sindaco è tenuto a riunire il consiglio in un termine non superiore a venti giorni, quando lo richieda almeno un quinto dei consiglieri in carica.
Alla luce del suindicato quadro normativo, è stato chiesto se sia corretta la posizione assunta dal sindaco dell’ente che, non rinvenendo in alcuna norma un vincolo temporale in ordine alle sedute di seconda convocazione, avrebbe ritenuto non sussistente l’obbligo di convocare nuovamente l’assemblea entro i termini previsti dall’art. 21 citato, qualora la seduta consiliare, convocata una prima volta entro venti giorni dalla richiesta formulata da un quinto dei consiglieri, fosse andata deserta per mancanza del quorum strutturale.
Ciò posto si ritiene, conformemente a quanto ritenuto da codesto Ufficio, ed attesa la formulazione letterale del citato art. 39, comma 2, che nell’arco temporale di venti giorni, decorrenti dalla presentazione della richiesta, debbano svolgersi tanto la convocazione che la materiale seduta consiliare finalizzata alla discussione degli argomenti proposti dal quinto dei consiglieri.
Con riferimento all’ulteriore quesito relativo alla individuazione del quorum necessario per la validità della seduta in seconda convocazione, atteso che il regolamento richiede la presenza di almeno un terzo dei consiglieri, escluso il sindaco, si ritiene che debba operarsi l’arrotondamento aritmetico.
Pertanto nel caso in cui la cifra decimale sia pari o inferiore a 5 si procede con l’arrotondamento per difetto; in caso che la stessa sia superiore a 5 si procede con l’arrotondamento per eccesso (Ministero dell'Interno, parere 28.04.2015 - link a http://incomune.interno.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000. Accesso agli atti da parte dei consiglieri comunali.
Con nota in data 10.04.2015, ad ogni buon fine allegata in copia, il Segretario generale del comune di … ha posto un quesito in ordine al diritto di accesso dei consiglieri comunali.
In particolare, premesso che in base al regolamento i consiglieri possono prendere visione della posta in entrata ed in uscita che transita nel protocollo, ed avendo posto delle restrizioni in ordine ai documenti riservati o soggetti a privacy, il Comune ha chiesto se sia legittimo porre limitazioni anche in merito al rilascio in copia cartacea di tali documenti, ritenuti “ipersensibili” e non strettamente connessi all’espletamento del mandato amministrativo.
Al riguardo, si osserva che il “diritto di accesso” ed il “diritto di informazione” dei consiglieri comunali nei confronti della P.A., trovano la loro disciplina specifica nell’art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000, il quale riconosce il “diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente, del comune e della provincia, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del proprio mandato”.
La materia è soggetta a normazione statutaria e regolamentare da parte dell’ente, nel quadro dei principi della citata norma di legge dalla quale si evince il riconoscimento in capo al consigliere comunale di un diritto dai confini più ampi sia del diritto di accesso ai documenti amministrativi attribuito al cittadino nei confronti del Comune di residenza (art. 10, T.U.O.E.L.) che, più in generale, nei confronti della P.A. quale disciplinato dalla legge n. 241/1990.
Tale maggiore ampiezza di legittimazione è riconosciuta in ragione del particolare munus espletato dal consigliere comunale, affinché questi possa valutare, con piena cognizione di causa, la correttezza e l'efficacia dell'operato dell'Amministrazione, onde poter esprimere un giudizio consapevole sulle questioni di competenza della P.A., opportunamente considerando il ruolo di garanzia democratica e la funzione pubblicistica da questi esercitata (cfr. Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, pareri del 23.06.2011 e del 07.07.2011).
Per quanto concerne il rilascio periodico del riepilogo del protocollo generale dell'ente, comprensivo sia della posta in arrivo che di quella in uscita, si segnala che la giurisprudenza, con orientamento costante, ha ritenuto non conforme a legge il diniego opposto dall'amministrazione di prendere visione del protocollo generale e di quello riservato del sindaco (cfr. TAR Sardegna n. 29/2007 e n. 1782/2004; TAR Lombardia, Brescia, n. 173/2004 e n. 362/2005, TAR Campania, Salerno, n. 26/2005).
In particolare, il TAR Sardegna ha affermato, tra l'altro, che è consentito prendere visione del protocollo generale senza alcuna esclusione, di oggetti e notizie riservate e di materie coperte da segreto, posto che i consiglieri comunali sono comunque tenuti al segreto ai sensi dell'art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000.
Sempre il medesimo TAR, con sentenza n. 1363, del 28.05.2010, ha specificato che “il registro di protocollo generale del comune è pienamente riconducibile alle categorie di documenti suscettibili di accesso, in quanto idoneo a fornire notizie e informazioni utili all’espletamento del mandato dei consiglieri comunali. Sotto il profilo organizzativo l'accesso al protocollo comunale deve essere effettuato in modo da non creare intralcio all'attività degli uffici”.
Anche il TAR Lombardia-Milano – con sentenza n. 2363 del 23.09.2014 ha riconosciuto un ampio diritto dei consiglieri comunali ad accedere agli atti del Comune in quanto “non è in dubbio che possa essere ostensibile anche documentazione che, per ragioni di riservatezza, non sarebbe ordinariamente ostensibile ad altri richiedenti, essendo il consigliere tenuto al segreto d’ufficio (Cons. Stato, Sez. V, 05.09.2014, n. 4525)”.
Tuttavia proprio in ordine alla fattispecie di richiesta di atti relativi al registro di minori in affido, lo stesso Tribunale Amministrativo della Lombardia, con la medesima sentenza n. 2363/2014 ha specificato che “fermo il limite esterno di perseguire interessi personali o di tenere condotte emulative, i limiti interni all’esercizio dell’accesso consiliare possono rinvenirsi, per un verso, nel fatto che esso non deve sostanziarsi in richieste di documentazione inutile all’espletamento del mandato, ovvero assolutamente generiche, e, per altro verso, nel fatto che esso deve avvenire in modo da non aggravare eccessivamente la corretta funzionalità degli uffici amministrativi, fermo restando tuttavia che la sussistenza di tali caratteri deve essere attentamente e approfonditamente vagliata in concreto al fine di non introdurre surrettiziamente inammissibili limitazioni al diritto stesso”.
Il TAR, pertanto, rilevando che il consigliere richiedente aveva ribadito l’indispensabilità delle informazioni cui aveva richiesto accesso senza tuttavia allegare specificamente il motivo per cui ciascuna di esse risultasse indispensabile, ai fini dell’espletamento del proprio mandato (essendo tale l’interesse), ha ritenuto che “l’attività che il ricorrente intende effettuare una volta presa conoscenza delle informazioni –per come indicata in ricorso– non ha necessità di avere contezza dei dati personali dei singoli soggetti (né minori, né genitori, né operatori), che quindi non risultano utili, ai sensi del citato art. 43 del T.U.E.O.L.".
Fermo restando, dunque che “deve sussistere un collegamento tra gli atti richiesti e l’attività consiliare, così da consentire al consigliere di valutare -con piena cognizione- la correttezza e l’efficacia dell’operato dell’Amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio, e per promuovere, anche nell’ambito del Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale” (Cons. Stato, Sez. V, 05.09.2014, n. 4525 richiamata da TAR Lombardia 2363/2014), si ritiene che l’Amministrazione possa escludere i dati personali di dettaglio relativi ai singoli la cui conoscenza sia ininfluente ai fini precostituiti dal richiedente.
Su quanto precede si prega di fare analoga comunicazione all’ente interessato (Ministero dell'Interno, parere 28.04.2015 - link a http://incomune.interno.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Art. 43 del d.lgs. n. 267/2000. Diritto di accesso dei consiglieri comunali.
Si fa riferimento alla nota, ad ogni buon fine allegata in copia con la quale il comune di … ha posto un quesito in materia di diritto di accesso esercitabile dai consiglieri comunali.
Al riguardo, si rappresenta che il “diritto di accesso” ed il “diritto di informazione” dei consiglieri comunali in ordine agli atti in possesso dell’Amministrazione comunale, trovano la loro disciplina specifica nell’art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000 il quale riconosce il diritto di ottenere dagli uffici del comune, nonché dalle proprie aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del proprio mandato.
Tale assunto è recepito dall’art. 16 dello statuto comunale, mentre l’art. 65 del regolamento stabilisce che i consiglieri comunali hanno diritto di ottenere dagli uffici copie di atti preparatori dei provvedimenti, nonché informazioni e notizie riguardanti provvedimenti amministrativi.
Il diritto dei consiglieri ha una ratio diversa da quella che contraddistingue il diritto di accesso ai documenti amministrativi riconosciuto alla generalità dei cittadini (ex articolo 10 del richiamato decreto legislativo n. 267/2000) ovvero a chiunque sia portatore di un "interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso" (ex art. 22 e ss. della legge 07.08.1990, n. 241).
Il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 4525 del 05.09.2014, ha affermato che, secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, (Cons. Stato, sez. V, 17.09.2010, n. 6963; 09.10.2007, n. 5264), i consiglieri comunali hanno un non condizionato diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere d'utilità all'espletamento delle loro funzioni, ciò anche al fine di permettere di valutare -con piena cognizione- la correttezza e l'efficacia dell'operato dell'Amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio, e per promuovere, anche nell'ambito del Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale.
Gli unici limiti all’esercizio del diritto di accesso dei consiglieri comunali possono rinvenirsi nel fatto che esso deve avvenire in modo da comportare il minor aggravio possibile per gli uffici comunali, attraverso modalità che ragionevolmente sono fissate nel regolamento dell’ente ed inoltre non deve sostanziarsi in richieste assolutamente generiche, ovvero meramente emulative, fermo restando, tuttavia, che la sussistenza di tali caratteri deve essere attentamente e approfonditamente vagliata in concreto al fine di non introdurre surrettiziamente inammissibili limitazioni al diritto stesso (C.d.S. Sez. V n. 6993/2010).
In merito alle segnalate fattispecie di rilascio di copie di tutti gli atti protocollati in un determinato periodo o di un ingente numero di pratiche edilizie o dell’elenco di tutto il contenzioso dell’Ente che si concretizzerebbero in richieste esplorative, si richiama il parere D.I.C.A. n. 18368 P-2.4.5.2.4 del 05.10.2010 con il quale la Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi ha osservato che il diritto si esercita con l'unico limite di potere esaudire la richiesta (qualora essa sia di una certa gravosità) secondo i tempi necessari per non determinare interruzione delle altre attività di tipo corrente e ciò in ragione del fatto che il consigliere comunale non può abusare del diritto all'informazione riconosciutogli dall'ordinamento, pregiudicando la corretta funzionalità amministrativa dell'ente civico con richieste non contenute entro i limiti della proporzionalità e della ragionevolezza.
Il Consiglio di Stato ha riconosciuto la necessità di contemperare l’esigenza dei consiglieri ad espletare il proprio mandato con quella dell’amministrazione al regolare svolgimento della propria attività, dettando precise indicazioni in merito all’esercizio del diritto.
Infatti, è stata segnalata la necessità che la formulazione di richieste da parte dei consiglieri sia il più possibile precisa, riportando l’indicazione degli oggetti di interesse ed evitando adempimenti gravosi o intralci all’attività ed al regolare funzionamento degli uffici (C.d.S. sent. n. 4471/2005; n. 5109/2000; n. 6293/2002).
Il Supremo Consesso ha costantemente richiamato l’attenzione sulla necessità che le istanze di accesso agli atti non siano “…generiche ed indeterminate ma tali da consentire una sia pur minima identificazione dei supporti documentali che si intende consultare” non essendo configurabile il diritto di accesso del consigliere come generalizzato ed indiscriminato ad ottenere qualsiasi tipo di atto dall’ente.
La Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi ha più volte precisato che, per non impedire od ostacolare lo svolgimento dell’azione amministrativa, fermo restando che il diritto di accesso non può essere garantito nell’immediatezza in tutti i casi, o con mezzi estranei all’organizzazione attuale dell’ente, “…rientrerà nelle facoltà del responsabile del procedimento dilazionare opportunamente nel tempo il rilascio delle copie richieste, al fine di contemperare tale adempimento straordinario con l’esigenza di assicurare l’adempimento dell’attività ordinaria, mentre il consigliere avrà facoltà di prendere visione, nel frattempo, di quanto richiesto negli orari stabiliti presso gli uffici comunali competenti”.
Proprio al fine di evitare che le continue richieste di accesso si trasformino in un aggravio dell’ordinaria attività amministrativa dell'ente locale, la citata Commissione ha riconosciuto la possibilità per il consigliere comunale di avere accesso diretto al sistema informatico interno (anche contabile) del Comune attraverso l'uso della password di servizio (cfr. parere del 29.11.2009).
Inoltre, appare utile segnalare che il Tribunale Amministrativo Regionale della Sardegna con la sentenza n. 29/2007 ha ritenuto ammissibile la presa visione del protocollo generale senza alcuna esclusione “di oggetti e notizie riservate e di materie coperte da segreto”, posto che i consiglieri comunali sono comunque tenuti al segreto ai sensi del più volte citato articolo 43.
La previa visione del registro di protocollo da parte del consigliere comunale, avrebbe, pertanto, la funzione di individuare gli atti di interesse, evitando una indiscriminata estrazione di copie.
Qualora si tratti di esibire documentazione complessa e voluminosa, appare, altresì, legittimo il rilascio di supporti informatici al consigliere, o la trasmissione mediante posta elettronica, in luogo delle copie cartacee.
Tale modalità è conforme alla vigente normativa in materia di digitalizzazione della pubblica amministrazione (decreto legislativo n. 82 del 07.03.2005), che all’articolo 2, prevede che anche “le autonomie locali assicurano la disponibilità, la gestione, l'accesso, la trasmissione, la conservazione e la fruibilità dell'informazione in modalità digitale e si organizzano ed agiscono a tale fine utilizzando con le modalità più appropriate le tecnologie dell'informazione e della comunicazione”.
Su quanto precede si prega di fare analoga comunicazione all’ente interessato (Ministero dell'Interno, parere 28.04.2015 - link a http://incomune.interno.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Consiglio comunale. Quesito concernente il computo degli astenuti.
Si fa riferimento alla nota sopradistinta con la quale codesta Prefettura ha trasmesso il quesito del Comune di … relativo alla questione segnalata in oggetto.
Al riguardo, si osserva preliminarmente che l’art. 38, c. 2, del decreto legislativo n. 267/2000, demanda al regolamento comunale, "... nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto", la determinazione del numero dei consiglieri necessario per la validità delle sedute.
Unico limite indicato dal legislatore è che detto numero non può, in ogni caso, scendere sotto la soglia del "terzo dei consiglieri assegnati per legge all'ente, senza computare a tale fine il sindaco e il presidente della provincia".
Il legislatore statale si è, quindi, limitato a stabilire una soglia minima, inderogabile, di presenze nel consiglio comunale, rimettendo all’autonomia normativa dell’ente la determinazione del numero legale per la validità delle sedute, implicante anche la possibilità di stabilire maggioranze qualificate per l’adozione di determinati atti deliberativi sui quali si reputi che debba convergere un più elevato numero di consensi.
In merito alla specifica fattispecie, codesta Prefettura ha segnalato che alla seduta erano presenti 14 consiglieri su 17 assegnati e la deliberazione ha ottenuto 4 voti favorevoli e 1 voto contrario, mentre 9 consiglieri si sono astenuti dal voto.
La questione prospettata concerne l’eventuale computabilità degli astenuti tra i votanti e dunque se, nel caso specifico, ferma restando la necessità dell’approvazione da parte della maggioranza dei presenti, la deliberazione debba intendersi non approvata.
Al riguardo, si ritiene che gli astenuti, anche in assenza di una specifica previsione regolamentare, concorrono alla formazione del c.d. “quorum strutturale”, cioè alla formazione del numero minimo di consiglieri necessario per la validità della seduta. Del resto, anche il richiamato T.U.O.E.L. n. 267/2000, all’articolo 78, c. 2, impone agli amministratori l’astensione dal prendere parte alla discussione ed alla votazione di delibere riguardanti interessi propri o di loro parenti ed affini fino al quarto grado.
In presenza di una situazione diffusa di astensioni, se non si ammettesse la formazione del quorum strutturale, il funzionamento del consiglio comunale potrebbe risultare compromesso.
Proprio per l’esigenza di garantire la funzionalità dell’assemblea deliberante, in carenza di apposite disposizioni regolamentari, si ritiene, invece, che gli astenuti debbano essere esclusi dal calcolo del quorum funzionale e le deliberazioni vengono approvate in presenza di una maggioranza di voti favorevoli.
Tale assunto è dettato in analogia alla previsione contenuta nell’art. 48 del regolamento della Camera dei Deputati, per cui per l’approvazione delle deliberazioni dovranno essere conteggiati i soli votanti, compresi coloro che hanno votato scheda bianca, nulla o non leggibile, ed esclusi gli astenuti.
Una interpretazione diversa, nel senso di considerare l’astensione equivalente nei fatti a un voto contrario, non sarebbe giustificata laddove è previsto il voto favorevole, il voto contrario e l’astensione.
Pertanto, ribadendo l’opportunità dell’adozione di norme regolamentari che definiscano inequivocabilmente il quorum funzionale, si ritiene che riguardo alla fattispecie segnalata, la deliberazione, che ha ricevuto un numero superiore di voti favorevoli rispetto ai voti contrari, dovrebbe intendersi approvata (V. sentenza C.d.S. n. 3372/2012 del 07.06.2012) (Ministero dell'Interno, parere 28.04.2015 - link a http://incomune.interno.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Diritti e garanzie del consigliere comunale.
Si fa riferimento alla nota sopradistinta, con la quale è stato richiesto l’avviso di questo Ministero, in ordine ad alcune problematiche attinenti alla tutela dei diritti e delle prerogative della minoranza consiliare del comune di cui in oggetto.
Al riguardo per quanto concerne il diritto della minoranza consiliare tutelato dall’art. 39, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000, la giurisprudenza prevalente in materia ha da tempo affermato che, in caso di richiesta di convocazione del consiglio da parte di un quinto dei consiglieri, “al presidente del consiglio comunale spetta soltanto la verifica formale che la richiesta provenga dal prescritto numero di soggetti legittimati, mentre non può sindacarne l'oggetto, poiché spetta allo stesso consiglio nella sua totalità la verifica circa la legalità della convocazione e l'ammissibilità delle questioni da trattare, salvo che non si tratti di oggetto che, in quanto illecito, impossibile o per legge manifestamente estraneo alle competenze dell'assemblea in nessun caso potrebbe essere posto all'ordine del giorno” (vd. in particolare TAR Piemonte, Sez. II, 24.04.1996, n. 268).
Il TAR Puglia-Lecce (sentenza n. 528/2014) ha recentemente ribadito che la figura del Presidente è posta a garanzia del corretto funzionamento dell’organo rappresentativo e della corretta dialettica tra maggioranza e minoranza.
Pertanto, alla luce del richiamato orientamento giurisprudenziale, appare che la convocazione del consiglio comunale con un ordine del giorno diverso da quello richiesto appare elusiva dell’obbligo di cui al comma 2 dell’art. 39 citato, nonché dell’art. 25, comma 1, del regolamento sul funzionamento del consiglio del Comune di …, ai sensi del quale il sindaco è tenuto a convocare l’assemblea quando lo richieda un quinto dei consiglieri, “inserendo all’ordine del giorno gli argomenti dagli stessi richiesti”.
In ordine agli atti di sindacato ispettivo, l’art. 23 della citata fonte regolamentare dispone che le interrogazioni e le interpellanze siano trattate in apertura di seduta e, pertanto, la gestione degli argomenti da trattare dovrebbe essere conformata alla suddetta previsione normativa.
In tema di diritto di accesso dei consiglieri, così come affermato dal Consiglio di Stato con la recente sentenza n. 4525 del 05.09.2014 si ricorda che secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, (Cons. Stato, sez. V, 17.09.2010, n. 6963; 09.10.2007, n. 5264), “…i consiglieri comunali hanno un non condizionato diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere d'utilità all'espletamento delle loro funzioni, ciò anche al fine di permettere di valutare -con piena cognizione- la correttezza e l'efficacia dell'operato dell'Amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio, e per promuovere, anche nell'ambito del Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale. Il diritto di accesso loro riconosciuto ha, in realtà, una ratio diversa da quella che contraddistingue il diritto di accesso ai documenti amministrativi riconosciuto alla generalità dei cittadini…” in quanto esso è strettamente funzionale all’esercizio del loro mandato, alla verifica e al controllo dell’operato degli organi istituzionali dell’ente locale (Cons. Stato, sez. IV, 21.08.2006, n. 4855) ai fini della tutela degli interessi pubblici.
Gli unici limiti all’esercizio del diritto di accesso ex art. 43, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000 possono rinvenirsi nella esigenza di comportare il minor aggravio possibile per gli uffici comunali, attraverso modalità fissate dal regolamento dell’ente ed inoltre non deve sostanziarsi in richieste assolutamente generiche, ovvero meramente emulative, fermo restando, tuttavia, che la sussistenza di tali caratteri deve essere attentamente verificata in concreto al fine di non introdurre surrettiziamente inammissibili limitazioni a tale diritto (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V n. 6993/2010).
La Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi, con parere D.I.C.A. n. 18368 P-2.4.5.2.4 del 05.10.2010, ha osservato che il diritto si esercita con l'unico limite di potere esaudire la richiesta (qualora essa sia di una certa gravosità) secondo i tempi necessari per non determinare interruzione delle altre attività di tipo corrente e ciò in ragione del fatto che il consigliere comunale non può abusare del diritto all'informazione riconosciutogli dall'ordinamento, pregiudicando la corretta funzionalità amministrativa dell'ente civico con richieste non contenute entro i limiti della proporzionalità e della ragionevolezza.
Proprio al fine di evitare che le continue richieste di accesso si trasformino in un aggravio dell’ordinaria attività amministrativa dell'ente locale, la citata Commissione ha riconosciuto la possibilità per il consigliere comunale di avere accesso diretto al sistema informatico interno (anche contabile) dell'ente attraverso l'uso della password di servizio (cfr. parere del 29.11.2009).
Premesso quanto sopra si ritiene che, qualora si tratti di esibire documentazione complessa e voluminosa, sia legittimo il rilascio di supporti informatici (CD o DVD) al consigliere, o la trasmissione mediante posta elettronica, in luogo delle copie cartacee. Tale modalità di riscontro, appare in linea con la decisione del Consiglio di Stato, Sez. V, (sent. n. 6742/2007) -il quale ha richiamato il parere di questo Ministero in merito alla possibile riproduzione di planimetrie su CD-rom, in quelle fattispecie, in cui il consigliere chieda l’estrazione di copie di atti la cui fotoriproduzione comporti costi elevati– ed è conforme alla vigente normativa in materia di digitalizzazione della pubblica amministrazione (decreto legislativo n. 82 del 07.03.2005), che all’articolo 2, prevede che anche “le autonomie locali assicurano la disponibilità, la gestione, l'accesso, la trasmissione, la conservazione e la fruibilità dell'informazione in modalità digitale e si organizzano ed agiscono a tale fine utilizzando con le modalità più appropriate le tecnologie dell'informazione e della comunicazione”.
Quanto alla modifica del regolamento sul diritto di accesso dei consiglieri con la quale è stato dilatato da cinque a trenta giorni il termine per il rilascio della documentazione richiesta, giova richiamare quanto affermato dal TAR Calabria che, con sentenza n. 221 del 2011, ha considerato legittima una norma regolamentare con la quale era stato indicato il termine di trenta giorni quale arco temporale entro il quale la amministrazione avrebbe dovuto dare seguito alla richiesta di accesso da parte dei consiglieri qualora la stessa fosse riferita ad una pluralità di documenti.
Ciò in quanto il suddetto termine è stato considerato ragionevole e comunque coerente con l’art. 25 della legge 241 del 1990 “che prevede l’accesso ai documenti amministrativi entro 30 giorni dalla richiesta, salvi i casi di differimento” (Ministero dell'Interno, parere 16.04.2015 - link a http://incomune.interno.it).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Ruderi del Castello di Arnad — artt. 55 e 59 del d.lgs. 42 del 2004 (MIBACT, Ufficio Legislativo, nota 07.04.2015 n. 7916 di prot.).
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Si riscontra la nota del 12.02.2015, prot. n. 3344 con la quale codesta Direzione generale chiede il parere di questo Ufficio circa la possibilità di concentrare in un unico procedimento sia l'autorizzazione all'alienazione del bene culturale che l'esercizio del diritto di prelazione. (... continua).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Istanza di autorizzazione paesaggistica per mantenimento e riconfigurazione estetica, funzionale ed ambientale di manufatto posto in Scandicci, presentata ai sensi dell'art. 146 del decreto legislativo 42/2004 e s.m.i. (MIBACT, Ufficio Legislativo, nota 20.03.2015 n. 6392 di prot.).

CONSIGLIERI COMUNALI: Richiesta parere su mozione avente ad oggetto atti di competenza dirigenziale.
Si fa riferimento alla nota sopradistinta con la quale è stato posto un quesito in ordine alle materie sulle quali possa essere esercitato il diritto dei consiglieri di svolgere atti di sindacato ispettivo.
In particolare, è stato chiesto se sia ammissibile lo svolgimento di mozioni aventi ad oggetto specifiche attività di carattere strettamente gestionale che, in quanto tali, sono sottratte alla competenza dell’organo consiliare.
Al riguardo si osserva che il predetto diritto è previsto dall’art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000, che al comma 3, demanda allo statuto ed al regolamento la disciplina concernente le modalità di presentazione degli atti di sindacato ispettivo e le relative risposte.
La dottrina definisce “mozioni” gli atti approvati dal consiglio per esercitare un’azione di indirizzo, esprimere posizioni e giudizi su determinate questioni, organizzare la propria attività, disciplinare procedure e stabilire adempimenti dell’amministrazione nei confronti del Consiglio.
Il TAR Puglia–Sezione di Lecce – I Sez., sentenza n. 1022/2004, individua la mozione quale “istituto a contenuto non specificato … , trattandosi di un potere a tutela della minoranza per situazioni non predefinibili, a differenza di altri strumenti più a valenza di mera conoscenza (quali l’interrogazione o la interpellanza), essendo strumento di “introduzione ad un dibattito” che si conclude con un voto che è ragione ed effetto proprio della mozione”.
L’art. 57 del regolamento sul funzionamento del consiglio del comune di … definisce la mozione “…una proposta concreta tendente a provocare l’indirizzo di una condotta o azione del Sindaco, o della Giunta o di un singolo assessore, oppure a fissare criteri da seguire nella contrattazione di un determinato affare, oppure a far pronunciare il Consiglio Comunale circa importanti fatti politici od amministrativi”.
Pertanto, la normativa regolamentare in esame non sembrerebbe porre limiti di materia al diritto dei consiglieri di presentare mozioni che, in quanto atti preordinati a promuovere una deliberazione del consiglio, costituiscono una delle modalità attraverso cui quest’ultimo esercita la funzione di indirizzo e di controllo politico - amministrativo prevista, ai sensi dell’art. 42, comma 1, del decreto legislativo n. 267/2000 tra le attribuzioni dell’organo rappresentativo dell’ente (Ministero dell'Interno, parere 04.03.2015 - link a http://incomune.interno.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Art. 39, commi 2 e 5 ,del TUEL n. 267/2000. Richiesta di parere.
Si fa riferimento alla nota sopra citata con la quale codesta Prefettura in relazione alla richiesta di convocazione del Consiglio comunale di … da parte di un quinto dei consiglieri comunali, ha inoltrato la nota con cui il sindaco, contestando la legittimità di tale richiesta e ponendo appositi quesiti a questo Ministero, ha chiesto di revocare o sospendere i termini della diffida ad adempiere, nelle more del richiesto approfondimento.
Codesta Prefettura, approfondendo la richiesta nei termini sostenuti dal sindaco, facendo presente che l’Ente non è dotato di regolamento sul funzionamento del consiglio, condividerebbe le perplessità dell’Amministrazione comunale che tende a non riconoscere la legittimità della richiesta.
Al riguardo, si premette che il regolamento sul funzionamento del consiglio, proprio per l’ampia serie di istituti da disciplinare e per il superamento della disciplina transitoria di cui all’art. 273, comma 6, del citato decreto legislativo, deve essere adottato in virtù dell’esplicito rinvio operato dall’articolo 38, comma 2, del d.lgs. n. 267/2000, nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto, in quanto strumento necessario per il corretto funzionamento di tale organo.
Pur nella grave carenza costituita dalla mancata adozione di regolamento, occorre evidenziare che l’art. 43, comma 1, del T.U.E.L. n. 267 del 2000 riconosce, comunque, a ciascun consigliere comunale il “diritto di iniziativa” su ogni questione sottoposta alla deliberazione del consiglio oltre al diritto di chiedere la convocazione del consiglio secondo le modalità dettate dall’art. 39, comma 2, e di presentare interrogazioni e mozioni.
L’art. 39, comma 2, del T.U.E.L. 267/2000 prescrive che il presidente del consiglio comunale è tenuto a riunire il consiglio, in un termine non superiore ai venti giorni, quando lo richiedano un quinto dei consiglieri o il sindaco, inserendo all’ordine del giorno le questioni richieste.
La norma sembra configurare un obbligo del Presidente del consiglio comunale di procedere alla convocazione dell’organo assembleare, -come si evince dalla previsione del termine di adempimento (20 giorni)- per la trattazione da parte del Consiglio, delle questioni richieste, senza alcun riferimento alla necessaria adozione di determinazioni, da parte del consiglio stesso.
Tuttavia, ciò non significa che le richieste di convocazione possano essere generiche, ed in proposito si richiama quanto affermato dal Giudice Amministrativo (TAR Liguria, Sez I, 11.01.1994, n. 1121), il quale ha affermato che l’ordine del giorno deve essere formulato “in maniera chiara ed in termini non ambigui, ma senza che ciò implichi l’esibizione di uno schema di provvedimento o l’impossibilità di apportare variazioni o modifiche dipendenti da valutazioni di merito che il Consiglio ha il potere di effettuare”.
La dibattuta questione sulla sindacabilità, da parte del Presidente del Consiglio (o del Sindaco), dei motivi che determinano i consiglieri a chiedere la convocazione straordinaria dell’assemblea, si è orientata, per giurisprudenza consolidata, nel senso che "allo stesso spetti solo la verifica formale della richiesta (prescritto numero di consiglieri), mentre non si ritiene che possa sindacarne l’oggetto, salvo che non si tratti di oggetto che, in quanto illecito, impossibile o per legge manifestamente estraneo alle competenze dell’assemblea in nessun caso potrebbe essere posto all’ordine del giorno” (TAR Piemonte, Sez. II, 24.04.1996, n. 268).
Alla luce del richiamato orientamento giurisprudenziale e dottrinario, si deduce che le uniche ipotesi per le quali l’organo che presiede il consiglio comunale può omettere la convocazione dell’assemblea sono la carenza del prescritto numero di consiglieri oppure la verificata illiceità, impossibilità o manifesta estraneità dell’oggetto alle competenze del Consiglio.
Passando ora dall’esame generale della questione a quello della fattispecie rappresentata, l’attenzione va trasferita alla natura degli argomenti richiesti di inserimento all’ordine del giorno da parte dei consiglieri al fine di verificarne l’eventuale estraneità alle competenze del collegio.
Nello stabilire se una determinata questione sia o meno di competenza del Consiglio comunale occorre aver riguardo non solo agli atti fondamentali espressamente elencati dal comma 2 dell’art. 42 del citato testo unico, ma anche alle funzioni di indirizzo e di controllo politico-ammministrativo di cui al comma 1 del medesimo art. 42, con la possibilità, quindi, che la trattazione da parte del collegio non debba necessariamente sfociare nell’adozione di un provvedimento finale.
Nel caso di specie, ai consiglieri non è stato consentito di porre all’ordine del giorno il punto 2 della richiesta ove si prevede la “valutazione ed eventuale approvazione progettuale dell’intervento di consolidamento sistemazione del movimento franoso”.. interessante alcune aree comunali, in quanto tra le competenze del consiglio “non rientrano la valutazione e l’approvazione di progetti già inseriti in Piani Triennali”.
In merito, dal contenuto della nota di chiarimenti del sindaco, si rileva che la procedura in parola era stata avviata con deliberazione di Giunta municipale n. 11 del 18.09.2010 con l’affidamento di un progetto preliminare; gli atti successivi relativi alla complessa procedura, secondo quanto riferito dal Sindaco, hanno interessato anche il Consiglio comunale, che con deliberazione n. 24 del 10.12.2012 ha approvato il programma triennale 2012/2014 delle opere pubbliche, ove era inserito tale intervento.
La citata procedura è culminata, infine, con la determinazione n. 95 del 24.12.2014 (a distanza di oltre quattro anni dall’affidamento della progettazione preliminare) di affidamento dei lavori a mezzo di procedura aperta, con il criterio del massimo ribasso per un importo totale di 300 mila euro.
Ciò posto, considerato che proprio il citato art. 42, comma 2, del d.lgs. n. 267/2000 alla lett. b) affida alla competenza del consiglio comunale, tra l’altro, i “programmi triennali e elenco annuale dei lavori pubblici,… piani territoriali ed urbanistici, programmi annuali e pluriennali per la loro attuazione, eventuali deroghe ad essi, pareri da rendere per dette materie”, la condizione della partecipazione del Consiglio comunale alla procedura sembrerebbe soddisfatta.
Tuttavia, considerato che i consiglieri richiedenti, sostenendo che l’importo iniziale programmato per l’attuazione dei lavori non coinciderebbe con l’importo programmato in origine, questa Direzione Centrale ritiene opportuna una riconsiderazione della richiesta dei consiglieri comunali alla luce della deliberazione n. 28 del 09/05/2006 con cui l’Autorità Nazionale Anticorruzione ha puntualizzato che “la modifica dei parametri economici del progetto deve costituire oggetto di aggiornamento e riapprovazione degli strumenti di programmazione da parte degli organi competenti, nonché di eventuale ripubblicazione nei casi più rilevanti che determinano una variazione “di carattere sostanziale” della programmazione economica" (cfr. determinazione n. 2/2002).
Si segnala, inoltre che il TAR Lombardia, Sezione di Brescia con sentenza 10/03/2005, n. 150 ha puntualizzato che “che le successive fasi progettuali potranno essere avviate solo dopo l’approvazione del programma e della lista annuale, quale decisione di realizzabilità politico-amministrativa dell’organo competente che, nell’ordinamento degli enti locali, è il Consiglio comunale”.
Riguardo alla necessità di sottoporre ad approvazione i verbali di sedute precedenti si osserva preliminarmente che, pur non sussistendo un obbligo giuridico di procedere alla lettura ed approvazione dei verbali delle sedute consiliari –obbligo che può essere contenuto nel prescritto regolamento sul funzionamento del consiglio comunale- può ritenersi sempre ammissibile procedere ad inserire tale adempimento tra quelli da trattare all’ordine del giorno di una seduta successiva.
Tale orientamento deriva dalla considerazione che la lettura ed approvazione del verbale da parte del collegio deliberante non hanno lo scopo di rinnovare la manifestazione di volontà dell’organo collegiale, a suo tempo validamente espressa, ma solo quello di verificarne e controllarne la rispondenza con la trascrizione e documentazione fattane dal segretario, cioè da un organo estraneo al consiglio nel verbale.
Infatti, la manifestazione di volontà del Consiglio comunale necessita, ab substantiam, di una esternazione costituita dal processo verbale, redatto dal Segretario dell’ente, il quale pone in essere, mediante la verbalizzazione, un’attività strumentale di documentazione dell’atto (TAR Friuli Venezia Giulia, 26.09.1984, n. 278).
La consuetudine secondo la quale, nonostante la abrogata legislazione (art. 300 del T.U. del 1915), i verbali devono essere letti, approvati e sottoscritti, trova applicazione nei confronti di tutti gli organi collegiali.
Il verbale, in definitiva, non attiene al procedimento deliberativo, che si esaurisce e si perfeziona con la proclamazione del risultato della votazione, ma assolve ad una funzione di mera certificazione dell’attività dell’organo deliberante (TAR Lazio, I, 10.10.1991, n. 1703).
Inoltre, “l’eventuale omissione di tale adempimento non è impeditiva dell’efficacia ovvero della stessa esistenza della delibera consiliare” che, conseguentemente, dovrebbe poter sempre essere sanabile sottoponendola all’approvazione del Consiglio.
Tuttavia, ad avviso di questa Direzione Centrale, qualora, come nel caso di specie, emergano difficoltà nell’interpretazione dei brogliacci dei verbali, proprio per quella funzione di controllo demandata al consiglio, non sembra potersi negare il diritto dei consiglieri a chiedere la convocazione per la loro approvazione definitiva.
Riguardo alla richiesta di riscontro delle interpellanze, si osserva che anche tale materia dovrebbe essere disciplinata dal regolamento sul funzionamento del consiglio comunale.
In ogni caso, il diritto in parola scaturisce direttamente dall’articolo 43 del d.lgs. n. 267/2000 il quale al comma 1 prevede tra l’altro la possibilità di presentare interrogazioni e mozioni, mentre al comma 3 stabilisce che “il sindaco o gli assessori delegati rispondono, entro 30 giorni, alle interrogazioni e ad ogni altra istanza di sindacato ispettivo (ivi comprese le interpellanze) presentata dai consiglieri. Le modalità della presentazione di tali atti e delle relative risposte sono disciplinate dallo statuto e dal regolamento consiliare" (Ministero dell'Interno, parere 04.03.2015 - link a http://incomune.interno.it).

CONSIGLIERI COMUNALI - SEGRETARI COMUNALI: Quesito in ordine alla verbalizzazione delle sedute del consiglio comunale.
Si fa riferimento alla nota sopradistinta con la quale codesta Prefettura a seguito di richiesta del Segretario generale del Comune di… ha posto un quesito in ordine alle corrette modalità di verbalizzazione delle sedute di consiglio comunale.
In particolare, atteso che l’ente non è dotato di regolamento per il funzionamento del consiglio comunale e considerato che lo statuto non reca indicazioni sulle modalità di verbalizzazione, il Segretario, supplendo a tale carenza, ha chiesto se sia corretta la procedura adottata dallo stesso che consiste nella registrazione e trascrizione integrale della discussione e la conseguente pubblicazione all’albo pretorio on-line e sul sito web istituzionale.
Al riguardo, occorre premettere che l’adozione del regolamento per il funzionamento del consiglio comunale è riservata, ai sensi dell’art. 38, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000, all’autonomia dell’ente.
Tale strumento, da adottare nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto, è necessario per il corretto funzionamento del consiglio, proprio per l’ampia serie di istituti da regolamentare, e per il superamento della disciplina transitoria di cui all’art. 273, comma 6, del citato decreto legislativo.
Nelle more di una disciplina autonoma, si evidenzia, così come stabilito dal TAR Lazio, I Sez. con sentenza 10.10.1991, n. 1703, che “il verbale, …, non attiene al procedimento deliberativo, che si esaurisce e si perfeziona con la proclamazione del risultato della votazione, ma assolve ad una funzione di mera certificazione dell’attività dell’organo deliberante”.
Tale strumento “… ha l'onere di attestare il compimento dei fatti svoltisi al fine di verificare il corretto "iter" di formazione della volontà collegiale e di permettere il controllo delle attività svolte, non avendo al riguardo alcuna rilevanza l'eventuale difetto di una minuziosa descrizione delle singole attività compiute o delle singole opinioni espresse. D'altra parte deve aggiungersi che il verbale della seduta di un organo collegiale, quale il Consiglio comunale, costituisce atto pubblico che fa fede fino a querela di falso dei fatti in esso attestati” (Conforme Consiglio di Stato, Sez. IV, 25/07/2001, n. 4074).
Atteso che il Presidente del Consiglio comunale in base all’articolo 39 del richiamato T.U.O.E.L. ha poteri di convocazione e di direzione dei lavori e delle attività del consiglio che potrebbero comportare la possibilità di fornire istruzioni in merito opportunamente condivise dal consiglio comunale, occorre considerare, tuttavia, che la “cura delle verbalizzazioni” delle sedute del consiglio e della giunta sono riservate, ai sensi dell’art. 97, comma 4, del citato decreto legislativo n. 267/00, direttamente al Segretario comunale (Ministero dell'Interno, parere 20.01.2015 - link a http://incomune.interno.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Quorum strutturale per la seduta di seconda convocazione del consiglio.
Si fa riferimento alla nota sopradistinta con la quale è stato formulato un quesito riguardante il quorum strutturale necessario per la validità delle sedute del consiglio comunale in seconda convocazione, con particolare riferimento ad un ente al quale siano stati assegnati dieci consiglieri, escluso il sindaco, che non abbia ancora provveduto ad adottare un’apposita disciplina regolamentare in materia di quorum strutturale.
Com’è noto, l’art. 38, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000 demanda al regolamento comunale, “...nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto” la determinazione del “numero dei consiglieri necessario per la validità delle sedute”, con il limite che detto numero non può, in ogni caso, scendere sotto la soglia del “terzo dei consiglieri assegnati per legge all’ente, senza computare a tale fine il sindaco e il presidente della provincia”.
Tale disposizione va letta in combinato disposto con l’art. 273, comma 6, del citato T.U.O.E.L. il quale detta una disciplina transitoria che legittima l’applicazione, tra gli altri, dell’art. 127 del T.U. n. 148/1915 fino all’adeguamento statutario e regolamentare ai nuovi canoni previsti dal richiamato decreto legislativo n. 267/2000 nella materia considerata.
L’art. 127, comma 1, prevede che: “i consigli comunali non possono deliberare se non interviene la metà del numero dei consiglieri assegnati al comune; però alla seconda convocazione, che avrà luogo in altro giorno, le deliberazioni sono valide, purché intervengano almeno quattro membri.”
Ciò posto, si rappresenta, comunque, l’opportunità che le disposizioni statutarie e regolamentari in materia vengano aggiornate alle richiamate norme di legge, al fine di evitare ogni ulteriore dubbio interpretativo (Ministero dell'Interno, parere 20.01.2015 - link a http://incomune.interno.it).

NEWS

INCARICHI PROFESSIONALI: La privacy blinda le consulenze. Gli enti non possono pubblicare i dati dei collaboratori. Il garante risponde al comune di Milano: vietato introdurre nuovi obblighi di trasparenza.
Non si possono pubblicare sul sito ufficiale dei comuni i dati patrimoniali dei consulenti e dei collaboratori dell'ente. Non lo prevede la legge e, in mancanza, della norma di rango superiore, un tale obbligo non può essere introdotto neanche con un regolamento dell'amministrazione locale. Al massimo si possono pubblicare solo informazioni anonimizzate.

Lo ha chiarito il garante della privacy con il provvedimento 25.06.2015 n. 377, con il quale ha dato risposta al comune di Milano.
Il capoluogo lombardo ha chiesto al garante condizioni e modalità di pubblicazione dei dati relativi allo stato patrimoniale del personale dirigenziale con contratto a tempo determinato, in relazione all'intendimento di introdurre per via regolamentare l'obbligo di pubblicare via web ulteriori informazioni relative ai dirigenti assunti con incarico a tempo determinato, ai consulenti e collaboratori, come per esempio i dati patrimoniali.
Il garante della privacy (provvedimento n. 377 del 25.06.2015, solo ora reso noto) ha risposto negativamente per le seguenti ragioni.
La pubblicazione sul sito internet istituzionale costituisce, ai sensi del codice della privacy, una diffusione, la quale è possibile solo se l'operazione è prevista da una norma di legge o di regolamento (articolo 19 del dlgs 196/2003).
E qui si pone il problema di verificare che cosa dice la legge che disciplina la trasparenza amministrativa.
L'articolo 15 del dlgs n. 33/2013, nel disciplinare gli obblighi di pubblicazione dei dati relativi ai titolari di incarichi amministrativi di vertice, dirigenziali e di collaborazione o consulenza, prevede la pubblicazione dei soli redditi da lavoro a essi riferiti, in particolare, dei compensi, comunque denominati, relativi al rapporto di lavoro con specifica evidenza delle eventuali componenti variabili o legate alla valutazione di risultato. Tale disposizione non prevede la diffusione online dei dati patrimoniali della dirigenza pubblica.
Secondo il garante se la legge non ha previsto nulla, vuol dire che ha voluto vietare la pubblicazione, senza che si possa sostenere, invece, che c'è un vuoto, che può essere colmato dalla potestà normativa regolamentare.
Anzi disporre per via regolamentare un'ulteriore ipotesi di diffusione di dati personali comporta la violazione del citato articolo 19, comma 3, del codice, avendo appunto il legislatore delegato, nell'esercizio della propria competenza legislativa esclusiva, direttamente ed esplicitamente delimitato le categorie dei soggetti con riguardo ai quali devono essere pubblicate online le informazioni relative allo stato patrimoniale.
Alla luce di ciò l'estensione, con norma regolamentare, non può costituire idonea base normativa per la lecita diffusione mediante pubblicazione dei dati relativi allo stato patrimoniale riferiti ai dirigenti non di ruolo, consulenti e collaboratori.
Gli enti locali e le pubbliche amministrazioni non possono, quindi, introdurre nuovi obblighi di pubblicazione per finalità di trasparenza con propri atti regolamentari rispetto a quanto già disciplinato dal legislatore sui dati patrimoniali con il decreto legislativo n. 33/2013. In caso contrario si avrebbe una conseguenza illogica e cioè che la privacy sarebbe tutelata in maniera diversa a seconda che un ente pubblico abbia o meno stabilito diversamente con propri regolamenti: si avrebbe quella che il garante definisce differenziazione non solo del livello di trasparenza ma anche, per l'effetto, di quello di protezione dei dati personali sul territorio nazionale a seconda dell'area geografica su cui insistono le competenze istituzionali dell'amministrazione presso cui opera l'interessato ovvero, più in generale, in base al criterio di residenza del cittadino-utente.
Resta in ogni caso salvo, però, il principio in base al quale l'eventuale pubblicazione di dati, informazioni e documenti, che non si ha l'obbligo di pubblicare è legittima solo procedendo alla anonimizzazione dei dati personali eventualmente presenti (articolo ItaliaOggi del 12.08.2015).

CONSIGLIERI COMUNALI: Relazione di inizio mandato per i nuovi sindaci.
Ai comuni che sono andati al voto in primavera rimangono pochi giorni per perfezionare la relazione di inizio mandato. Tale documento, infatti, deve essere sottoscritto dal sindaco entro 90 giorni dall'insediamento. Per cui, la dead-line è fissata al 29 agosto o al 13 settembre per le amministrazioni elette dopo il ballottaggio.

La relazione di inizio mandato è stata prevista dall'art. 1-bis del dl 174/2012, attraverso l'introduzione dell'art. 4-bis del dlgs 149/2011.
In base a tale disciplina, la relazione (che deve essere predisposta dal responsabile del servizio finanziario o dal segretario generale) è volta a verificare la situazione finanziaria e patrimoniale e la misura dell'indebitamento. Essa, evidentemente, si collega alla relazione di fine mandato presentata dall'amministrazione precedente.
Come quest'ultima, quindi, anche la prima mira a garantire la trasparenza della spesa e l'accountability dei poteri pubblici, oltre che a consentire la tempestiva attivazione dei meccanismi di correzione dei conti. Sulla base delle relative risultanze, infatti, i nuovi vertici, ove ne sussistano i presupposti, possono decidere di ricorrere alle procedura di riequilibrio finanziario (cosiddetto pre-dissesto).
A differenza di quanto accaduto per la relazione di fine mandato, per quella di inizio mandato non è stato approvato uno schema di riferimento, per cui ogni ente è libero di decidere quali dati e informazioni riportare e con quali schemi. Al contrario di quanto accade per quella di fine mandato, inoltre, la relazione di inizio mandato non deve essere trasmessa alla sezione regionale di controllo della Corte dei conti e per la sua mancata predisposizione non sono previste sanzioni. Tuttavia, la magistratura contabile vigila sul corretto adempimento dell'obbligo, anche attraverso i suoi questionari.
La relazione di inizio mandato, invero, non è prevista dal nuovo principio contabile applicato sulla programmazione (allegato 4/1 del dlgs 118/2011), ma essa è evidentemente collegata all'obbligo di cui all'art. 46, comma 3, del Tuel (secondo cui «entro il termine fissato dallo statuto, il sindaco o il presidente della provincia, sentita la giunta, presenta al consiglio le linee programmatiche relative alle azioni e ai progetti da realizzare nel corso del mandato») oltre che al Dup (che deve essere approvato entro il 31 ottobre).
Ricordiamo che, alla luce di quanto chiarito dalla sentenza n. 219/2013 della Corte costituzionale, gli enti locali dei territori a statuto speciale non sono soggetti all'obbligo di redigere la relazione, a meno che ciò non sia previsto dalla normativa regionale (articolo ItaliaOggi del 12.08.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Riforma Pa, addio alle piante organiche. Apre il cantiere del testo unico del pubblico impiego: assunzioni in base a fabbisogni e budget.
Dopo un quinquennio di blocco dei contratti e svariate reiterazioni degli stop al turn-over, il sistema del lavoro pubblico nel 2016 dovrebbe varcare la soglia di una nuova programmazione. La legge delega di riforma della Pa rilancia infatti il tema delle assunzioni future sulla base dei fabbisogni delle amministrazioni e non più partendo dai “vuoti” che si sono determinati nelle dotazioni organiche.
Non si tratta di una questione nominalistica bensì di un criterio di programmazione che dovrebbe correre in parallelo con le nuove regole di coordinamento di bilancio introdotte dalla legge 196/2009 (anch’essa una delega) in piena fase di attuazione. I fabbisogni, calcolati sulla base delle funzioni e soprattutto dei budget, sono già stati introdotti in diverse amministrazioni centrali e ministeri dopo la stagione dei tagli lineari e dovrebbero estendersi progressivamente ad altri comparti, mentre nei criteri di delega si parla ancora di «rideterminazione delle dotazioni organiche» laddove il riferimento è alla revisione dei ruoli e delle regole di reclutamento nelle Forze di polizia.
Con i fabbisogni calcolati dai dirigenti responsabili del personale su base triennale, la programmazione delle assunzioni dovrebbe assumere una dinamica più prevedibile e dovrebbe, soprattutto, coniugarsi meglio con la mobilità tra diverse amministrazioni, altro strumento su cui la delega punta molto. Nella legge Madia si prevede anche l’introduzione di un sistema informativo nazionale per l’orientamento delle assunzioni, che dovrebbe “girare” insieme con il “portale della mobilità” attivato da qualche mese dal Dipartimento Funzione pubblica.
Fabbisogni e mobilità, naturalmente, non esauriscono gli strumenti di gestione del personale. Il futuro testo unico dovrebbe limitare «a tassative fattispecie» il ricorso a forme di assunzione con contratti flessibili, tra cui i contratti di collaborazione coordinata e continuativa sui quali già dall’anno scorso sono scattati vincoli di spesa , e lo stesso varrà per i contratti a termine.
La regulation futura sulle assunzioni dovrà passare per i cantieri già aperti (Province e città metropolitane) e in fase di avvio (riduzione delle Prefetture e delle Camere di commercio) che inevitabilmente produrranno nuovo personale in soprannumero. Per non parlare, ma qui saremmo fuori dal perimetro della Pa, del previsto taglio da 8mila a mille delle società partecipate.
Si tratta di un sistema di società controllate in oltre il 90% dei casi da enti locali e in cui lavorano oltre 260mila addetti (il costo di questo personale ha superato i 10,7 miliardi l’anno scorso, secondo la Corte dei conti). Qui gli esuberi che si determineranno in virtù delle razionalizzazioni andranno gestiti con ammortizzatori sociali in deroga
(articolo Il Sole 24 Ore dell'11.08.2015).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Più efficienza nel recupero del danno erariale.
L’attuazione. Spetta ai decreti definire il confine tra «indirizzo politico» e «attività gestionale»: solo per questa i vertici amministrativi potranno essere chiamati a rispondere davanti alla Corte dei conti.

Uno dei nodi più intricati che dovranno essere sciolti dai decreti attuativi della riforma Madia riguarda la separazione fra «indirizzo politico-amministrativo», compito di sindaci, presidenti, ministri e così via, e «attività gestionale», che è il compito dei dirigenti. Dal modo in cui si traccerà il confine fra i due ambiti dipende una bella fetta del destino della dirigenza pubblica nella Pubblica amministrazione riformata, soprattutto per il fatto che la stessa delega prevede che solo i dirigenti potranno finire davanti alla Corte dei conti quando saranno in discussione eventuali danni erariali causati dall’«attività gestionale».
Sull’«esclusiva imputabilità ai dirigenti» per l’attività gestionale si era scaldata la polemica in primavera; Governo e maggioranza avevano anche studiato correttivi che poi hanno deciso di accantonare, sostenendo che la norma ha ricadute favorevoli nel senso di evitare ai dirigenti il rischio di dover rispondere della mera esecuzione di scelte politiche.
Opposta la lettura dei critici, secondo i quali «l’esclusiva imputabilità ai dirigenti» finirebbe per mettere al riparo i politici dalle responsabilità per fatti gestionali su cui spesso incidono direttamente. Il tema è delicato anche perché, a seconda delle scelte che saranno compiute in autunno con i decreti attuativi, potrebbe cadere anche una serie di procedimenti contabili avviati con le regole attuali.
Il problema nasce dal fatto che le sovrapposizioni fra la sfera di azione dei vertici amministrativi e quella dei politici sono molte, e tendono a crescere man mano che si scende nella scala dei livelli di governo. Eventuali nomine illegittime negli uffici di staff di persone che non hanno in curriculum i titoli necessari, per esempio, sono una scelta del politico, ma rientrano in pieno anche nella gestione.
In molte città, da Roma a Milano per citare solo le maggiori, negli anni scorsi è esploso il problema dei contratti integrativi fuori norma, che hanno prodotto indennità illegittime a favore dei dipendenti. La firma dei contratti integrativi è uno dei grandi classici nella “gestione” delle amministrazioni, ma i politici siedono al vertice della delegazione di parte pubblica che tratta con i sindacati per la definizione delle intese.
Dove finisce, in questo caso, l’indirizzo politico, e dove comincia l’attività gestionale? Poco più di un mese fa la Corte dei conti del Veneto -spiegando che la “sanatoria” tentata lo scorso anno non cancella la responsabilità erariale a carico di chi ha danneggiato i conti pubblici firmando contratti decentrati troppo generosi- ha negato la possibilità di applicare in questo caso l’«esimente politica», cioè la norma che già esiste e che evita a sindaci e assessori il rischio di dover rispondere di scelte dirigenziali.
In fatto di Corte dei conti, comunque, la delega non si occupa solo di ridefinire la geografia delle responsabilità, ma prova anche a risolvere uno dei problemi più gravi del processo contabile, legato al fatto che le condanne, anche se pronunciate in via definitiva, spesso non vengono eseguite. Le relazioni annuali dei Procuratori generali presso la Corte ricordano spesso che il tasso di esecuzione, cioè la quota dei danni erariali “restituiti” dai colpevoli, oscilla fra il 15 e il 20%, e spiegano anche il motivo: l’azione della Corte si ferma al momento della condanna, dopo di che tocca all’amministrazione danneggiata recuperare la somma prevista nella sentenza. Gli enti, però, spesso non si rivelano troppo attenti a recuperare le somme dai loro amministratori, e quindi la
condanna si perde: per provare a superare questo problema, la delega chiede che questi crediti rientrino fra i «privilegiati», e assegna al Pm contabile la titolarità dell’azione davanti al giudice civile per l’esecuzione.
Sempre con l’obiettivo di aumentare un po’ gli incassi, inoltre, i decreti attuativi dovranno disciplinare il «rito abbreviato»: gli imputati che lo chiederanno in primo grado non potranno subire condanne superiori al 50% del danno contestato, mentre se la richiesta arriva in appello il tetto sale al 70% (si veda anche Il Sole-24 Ore del 6 agosto) (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.08.2015).

SICUREZZA LAVORO: Lavori brevi, torna il coordinatore. Andrà verificata anche l’idoneità tecnica professionale dell’appaltatore.
Prevenzione. Con il via libera alla legge comunitaria eliminate le semplificazioni previste dal Dl 69/2013.
Ritorna ad essere più ampio il campo di applicazione del Testo unico sulla salute e sicurezza nei luoghi di lavoro (Dlgs 81/2008). Dal 18 agosto prossimo, infatti, ai cantieri temporanei o mobili si applicheranno le disposizioni di cui al Titolo IV secondo il testo precedente all’articolo 32 del “decreto del fare” e saranno quindi esclusi solo i «lavori relativi a impianti elettrici, reti informatiche, gas, acqua, condizionamento e riscaldamento che non comportino lavori edili o di ingegneria civile di cui all’allegato X», senza che possa essere applicata alcuna deroga per i lavori di breve durata (non superiori a 10 uomini-giorno).
Per il committente di lavori di breve durata tornano dunque alcuni obblighi previsti dall’articolo 90 del Testo unico, come la nomina del coordinatore per l’esecuzione del relativo piano, la verifica della idoneità tecnica professionale dell’appaltatore e del possesso del Durc da parte di quest'ultimo.
La semplificazione introdotta dal Dl 69/2013 è stata abrogata dall’articolo 16 della “comunitaria” per il 2014, approvata con legge del 29.07.2015 che entrerà in vigore il 18 agosto. L’iniziativa è stata assunta dal Consiglio dei ministri del 3 marzo scorso il quale ha approvato un disegno di legge per chiudere 11 procedure di infrazione e 7 Casi Eu Pilot. Tra questi ultimi figurava l’Eu Pilot 6155/14/Empl, che aveva censurato le disposizioni introdotte da “Decreto del fare” 69/2013, il quale prevedeva la semplificazione delle procedure di sicurezza sul lavoro nei cantieri temporanei e mobili di cui al Titolo IV del Testo unico.
Va premesso che è l’articolo 88 del Testo unico a individuare il campo di applicazione delle disposizioni per la tutela della salute e per la sicurezza dei lavoratori nei cantieri temporanei o mobili. In particolare, il comma 2 definisce le attività a cui le disposizioni del citato Titolo IV non si applicano.
Nel frattempo, già l’articolo 57 del Dlgs 106/2009 era intervenuto sull’argomento, inserendo al comma 2, le lettere g-bis) e g-ter). In particolare, la lettera g-bis) prevedeva l’esclusione dal campo di applicazione del Titolo IV, i «lavori relativi ad impianti elettrici, reti informatiche, gas, acqua, condizionamento e riscaldamento che non comportino lavori edili o di ingegneria civile di cui all’allegato X» (in cui sono elencati i lavori edili o di ingegneria civile che definiscono il cantiere temporaneo o mobile).
Successivamente l’articolo 32, comma 1, lettera g), del Dl 69/2013, ampliando la deroga, ha però escluso dall’applicazione delle norme di sicurezza per i cantieri temporanei e mobili tutti i «lavori relativi a impianti elettrici, reti informatiche, gas, acqua, condizionamento e riscaldamento, nonché i piccoli lavori la cui durata presunta non è superiore a dieci uomini-giorno, finalizzati alla realizzazione o alla manutenzione delle infrastrutture per servizi, che non espongano i lavoratori ai rischi di cui all’allegato XI», il quale si riferisce ad attività meno frequenti riguardanti lavori comportanti rischi particolari.
L’iniziativa adottata dal “decreto del fare”, seppure meritevole di attenzione in quanto sollevava il committente di lavori edili di breve durata dai vari adempimenti, anche burocratici, previsti sempre dal Titolo IV del Testo unico, contrastava tuttavia con la definizione data dall’articolo 2, lettera a), della Direttiva base 92/57/CEE (cosiddetta Direttiva cantieri) in ottemperanza alla quale è stato emanato il Dlgs 494/1996, poi trasfuso nel Titolo IV del Testo unico.
Questa direttiva, nel richiamare l’allegato I, faceva riferimento ad un elenco non esauriente, lasciando quindi intendere che il campo di applicazione avrebbe potuto subire un ampliamento e non una restrizione o limitazione, come invece ha fatto l’articolo 32 del “Decreto del fare”, prevedendo un’ipotesi di esclusione riferita alla durata (dieci uomini-giorno), non prevista dalla direttiva sopra richiamata, la quale avrebbe dovuto trovare applicazione invece in tutti i tipi di “cantiere temporaneo o mobile”, prescindendo da una qualsiasi durata e qualsivoglia tipologia di rischio
(articolo Il Sole 24 Ore dell'11.08.2015).

ENTI LOCALI - VARI: Autovelox a raggio più ampio Rilevati i veicoli dopo il passaggio.
Meglio non accelerare repentinamente subito dopo aver superato una pattuglia dei vigili muniti di un sistema a puntamento laser per il controllo della velocità dei veicoli. Con lo sviluppo della tecnologia infatti questi autovelox necessariamente presidiati sono in grado di documentare l'infrazione anche in fase di allontanamento.
E la multa può essere regolarmente spedita per posta al domicilio del trasgressore.

Lo ha chiarito il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti con il parere 27.07.2015 n. 3786.
Un comune friulano ha richiesto chiarimenti sull'impiego di sistemi per il controllo della velocità con rilevamento laser, ovvero, se questi strumenti regolarmente omologati e tarati possono essere utilizzati dalla polizia locale sia in fase di avvicinamento che di allontanamento del veicolo che supera i limiti di velocità.
A parere dell'organo tecnico nulla osta all'utilizzo dei sistemi a puntamento laser da parte della polizia stradale sia in fase avvicinamento dei veicoli che in fase di allontanamento del trasgressore. In ogni caso i nuovi modelli di misuratori laser in commercio forniscono immagini chiare della violazione e documentano l'infrazione accertata.
Questa documentazione può quindi essere utilizzata per la contestazione immediata della violazione oppure per la notifica successiva del verbale al domicilio del trasgressore, purché i dispositivi siano impiegati sempre con la presenza costante degli organi di vigilanza.
In buona sostanza, tali sistemi elettronici rientrano tra quelli individuati dall'art. 201, comma 1-bis, lettera e), del codice stradale «per i quali non è imposta la contestazione immediata purché ricorrano le condizioni previste dalla stessa lettera e), ovvero consentono la determinazione dell'illecito in tempo successivo perché il veicolo oggetto del rilievo è a distanza dal posto di accertamento o comunque nell'impossibilità di essere fermato in tempo utile e nei modi regolamentari».
Le multe valgono anche se il fotogramma riprende solo il veicolo che si allontana a tutto gas (articolo ItaliaOggi dell'11.08.2015).

ATTI AMMINISTRATIVI: Albo pretorio al canto del cigno. Obblighi di trasparenza, vanno eliminate le duplicazioni. La riforma della p.a. razionalizza gli adempimenti previsti dalla legge anticorruzione.
Albo pretorio da eliminare, sostituito dalle regole di pubblicazione dei provvedimenti stabiliti dalla normativa sulla trasparenza.

La legge delega di riforma della pubblica amministrazione approvata nei giorni scorsi tra i suoi elementi di maggior rilievo contiene anche una serie di criteri per rivedere e aggiornare i contenuti del dlgs 33/2013, la norma che regola la trasparenza in applicazione della legge anticorruzione.
Non c'è alcun dubbio che, come ha avuto modo di rilevare più volte anche la stessa Anac, il dlgs 33/2013 abbia introdotto una quantità eccessiva di obblighi di pubblicazione, dando vita a una serie di adempimenti che hanno trasformato la trasparenza, spesso, in mero adempimento burocratico, per altro con ridondanza e ripetitività delle informazioni da pubblicare.
Non è un caso che tra i criteri di riforma indicati dalla legge Madia vi sia quello della «razionalizzazione e precisazione degli obblighi di pubblicazione nel sito istituzionale, ai fini di eliminare le duplicazioni e di consentire che tali obblighi siano assolti attraverso la pubblicità totale o parziale di banche dati detenute da pubbliche amministrazioni»: un modo per dire che gli adempimenti sono da ridurre e da rendere più semplici.
Tra le duplicazioni che appesantiscono le attività amministrative e rendono piuttosto confusa l'operatività, è clamorosa quella relativa agli obblighi di pubblicazione dei provvedimenti e degli atti amministrativi all'albo pretorio.
L'articolo 32 della legge 69/2009 ha introdotto l'albo pretorio «online» (la cui effettiva attivazione ha incontrato enormi problemi tecnici e operativi), allo scopo di obbligare le amministrazioni a utilizzare questo strumento di pubblicità telematica per adempiere a tutti gli obblighi di pubblicazione di atti e provvedimenti aventi effetto di pubblicità legale.
Il dlgs 33/2013 contiene, tuttavia, una serie di adempimenti in tutto simili: all'articolo 15 impone di pubblicare gli estremi degli incarichi professionali e dirigenziali; all'articolo 19 i bandi di concorso; all'articolo 23 si impone l'obbligo di pubblicare un elenco contenente alcuni estremi dei provvedimenti amministrativi relativi a concessioni e autorizzazioni, appalti, concorsi e accordi stipulati con soggetti pubblici o privati; gli articoli 26 e 27 dettagliano le pubblicazioni dei provvedimenti di assegnazione di contributi e vantaggi economici; l'articolo 37 richiama le già ridondanti norme di pubblicità contenute dalla legge 190/2012 in tema di appalti; gli articoli 38 e 39 regolano la pubblicità della pianificazione delle opere pubbliche e del governo del territorio; l'articolo 42 prevede la pubblicazione dei provvedimenti adottati per interventi straordinari e di emergenza che comportano deroghe alla legislazione vigente.
La gran parte dei provvedimenti da pubblicare per solo estratto o integralmente indicati dalle norme viste prima debbono anche trovare spazio nell'albo pretorio. Chiedersi che senso abbia la duplicazione della procedura è ovvio e doveroso. Duplicazione che, per altro, molte volte crea confusione, anche ai fini dell'accesso. Nell'albo pretorio si pubblicano i testi dei provvedimenti ai fini della loro pubblicità legale, ma per una durata di 10 giorni; ai fini del dlgs 33/2013 i provvedimenti in alcuni casi si pubblicano integralmente, in altri per elenco e alcuni estremi e la loro durata di pubblicazione è normalmente di cinque anni.
Appare inevitabile, ai fini della razionalizzazione richiesta dalla legge delega, concentrare e ridurre le tante pubblicazioni indicate sopra. La cosa sarebbe di una semplicità estrema: basterebbe abbandonare per sempre l'albo pretorio, e prevedere la pubblicazione dell'intero contenuto dei provvedimenti amministrativi in una specifica voce della sezione «amministrazione trasparente» di ciascun portale, creando un indice della tipologia dei provvedimenti da pubblicare.
Con l'attribuzione a tali pubblicazioni del valore di pubblicità legale, l'albo pretorio potrebbe andare definitivamente in naftalina e, con esso, la confusione delle operazioni tecniche e della gestione (articolo ItaliaOggi dell'11.08.2015).

ENTI LOCALI: Province, i bilanci annuali sono solo una facoltà.
La previsione del decreto enti locali che consente agli enti di area vasta di approvare per il 2015 un bilancio solo annuale, anziché triennale come previsto dalla normativa ordinaria, è da intendersi come facoltizzante e non vincolante. Rimangono validi, quindi, gli atti già adottati in applicazione dell'ordinamento contabile.

È in questa l'interpretazione dell'art. 1-ter del dl 78/2015 fornita nelle note di lettura diffuse sia dall'Upi che da Anci-Ifel per illustrare le novità del provvedimento.
Tale norma, rubricata «Predisposizione del bilancio di previsione annuale 2015», al comma 1, dispone che: «Per il solo esercizio 2015, le province e le città metropolitane predispongono il bilancio per la sola annualità 2015». Il dubbio nasceva dal fatto che, nel linguaggio legislativo, un simile utilizzo del modo indicativo («predispongono») di solito denota la presenza di un obbligo e non di una mera facoltà. In tal caso, tale lettura parrebbe confermata a contrario dal comma 2, laddove si prevede che gli enti di area vasta «possono» applicare in sede di approvazione del bilancio l'avanzo destinato.
Nel comma 3 si torna di nuovo all'indicativo-imperativo («le province e le città metropolitane deliberano i provvedimenti di riequilibrio entro e non oltre il termine di approvazione del bilancio di previsione. Nel caso di esercizio provvisorio o gestione provvisoria per l'anno 2016 applicano l'articolo 163 del Tuel con riferimento al bilancio di previsione definitivo approvato per l'anno 2015»).
La lettura di Upi e Anci-Ifel, tuttavia, valorizza il fine perseguito dal legislatore, che è quello di attribuire una facoltà agli enti in ragione delle eccezionali difficoltà connesse alla transizione ordinamentale in corso, assicurando comunque la validità degli atti di bilancio già adottati con riferimento al triennio 2015-2017 in base alla normativa ordinaria.
In altri termini, le amministrazioni che hanno già varato il previsionale triennale non devono tornare sui propri passi. Un altro chiarimento utile riguarda l'art. 4, comma 4, del dl 78/2015, che ha introdotto un correttivo alle modalità di computo dei tempi medi di pagamento escludendo i pagamenti effettuati mediante l'utilizzo delle anticipazioni di cassa o degli spazi finanziari previsti dal dl 35/2013.
Tale criterio si intende applicabile anche ai pagamenti che interverranno dal 2015 attraverso il ricorso alla liquidità aggiuntiva disposta dall'art. 8 dello stesso dl 78 (articolo ItaliaOggi dell'11.08.2015).

EDILIZIA PRIVATA: Pagella verde con regole uniche. Dal 1° ottobre il rilascio dell’Ape avverrà secondo criteri fissati su base nazionale.
Efficienza. I Dm del 26 giugno considerano anche il raffrescamento, la ventilazione e, nel non abitativo, l’illuminazione e gli ascensori.

Dal 1° ottobre cambia la modalità per il rilascio dell’attestato di prestazione energetica (Ape) di un edificio o di un’unità immobiliare.
La novità discende da tre decreti ministeriali del 26.06.2015, firmati dal ministro allo Sviluppo Economico, Federica Guidi, e dai colleghi di altri quattro ministeri coinvolti (Infrastrutture, Ambiente, Difesa e Semplificazione): gli atti sono pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale 162 del 15.07.2015 e riguardano, rispettivamente, l’attuazione della direttiva europea 2010/31/Ue (e della legge 90/2013 in Italia) per ciò che riguarda i requisiti minimi e le modalità di calcolo del rendimento energetico degli edifici, il rilascio del relativo attestato di certificazione e la compilazione della relazione tecnica di progetto che attesta la rispondenza dello stesso alle prescrizioni per il contenimento dei consumi.
Parametri e metodologia
Oggi l’Ape (ancora compilato nella pratica come un vecchio Ace o attestato di certificazione) tiene conto del solo fabbisogno richiesto per garantire il riscaldamento e la produzione di acqua calda sanitaria. Dal 1° ottobre saranno, invece, considerati tutti i servizi energetici presenti nell’edificio: riscaldamento, acqua calda sanitaria, raffrescamento, ventilazione, e, per il non residenziale, illuminazione e sistemi di trasporto (ascensori e scale mobili).
Per illustrare la prestazione in modo immediato agli utenti, saranno impiegate icone ed emoticon.
Per ciò che riguarda la determinazione dei requisiti di rendimento energetico, la principale novità è l’introduzione del cosiddetto fabbricato di riferimento. Dal 1° ottobre la performance di una casa o un alloggio sarà ricavata confrontando l’unità con una sorta di fabbricato “ombra”, in tutto e per tutto analogo al progetto reale, ma composto in condizioni ottimali tenendo conto anche della forma e della ubicazione climatica. A seconda delle differenze che emergeranno dal paragone sarà assegnata la classe di merito.
I contenuti e le 10 classi
L’Ape sarà suddiviso in cinque pagine e, oltre alla fotografia e ai dati dell’edificio, conterrà obbligatoriamente -pena l’invalidità- la prestazione energetica globale (espressa sia in termini di energia primaria totale che di energia primaria non rinnovabile), la classe energetica, la qualità energetica del fabbricato per il riscaldamento e raffrescamento, i valori di riferimento a norma di legge, le emissioni di anidride carbonica, l’energia esportata e le raccomandazioni su come sia possibile migliorare la situazione di partenza e su quali siano le proposte di intervento più convenienti da eseguire.
Come già in passato, la performance complessiva dell’immobile (oppure della singola unità) sarà indicata mediante l’uso di lettere, che vanno dalla A (massimo livello prestazionale) alla G (il livello meno virtuoso). I livelli complessivi saranno 10: i primi quattro faranno tutti riferimento alla lettera A, con quattro gradazioni: da A4 (il più efficiente) ad A1.
Le norme regionali
Grande novità introdotta dal Decreto e dalle linee guida è la decisione di riportare su tutto il territorio nazionale a un’applicazione omogenea del sistema di attestazione energetica, dopo le fughe in avanti degli anni passati da parte di alcune Regioni. Ciò significa che dal 1° ottobre gli edifici saranno classificati sulla base di uno stesso metro di valutazione. Solo le Regioni che hanno recepito interamente la direttiva Ue (pur invitate a conformarsi entro due anni) potranno mantenere un proprio sistema: è il caso della Provincia di Bolzano, che non intende rinunciare a CasaClima, e di quella di Trento, che sta verificando la possibilità di seguire una propria direzione.
Il sistema informativo
Dal gennaio 2016 l’Enea dovrà realizzare e attivare una banca dati nazionale, denominata Siape, per raggruppare in un solo database tutti gli attestati rilasciati sul territorio nazionale. Il sistema sarà studiato in modo da dialogare con i vari elenchi regionali: non solo quelli degli Ape, ma anche i catasti degli impianti termici.
Controlli e verifiche
Se fino ad oggi i controlli, pur previsti, sono partiti nelle Regioni solo in via sperimentale e in genere a campione, ora le verifiche scatteranno d’obbligo su almeno sul 2% degli attestati rilasciati e a partire dalle targhe energetiche che dichiarano classi più efficienti. I certificati falsi saranno invalidati, e per il progettista scatteranno severe sanzioni sia amministrative che disciplinari (fissate dall’articolo 15 del Dlgs 192/2005).
  
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I vecchi attestati restano validi per dieci anni. La transizione. Passaggio graduale.
La buona notizia è che, se dal 1° ottobre scatterà la nuova legislazione per la compilazione dell’attestato di prestazione energetica, chi ha già in suo possesso un Ape in corso di validità (anche rilasciato secondo uno dei sistemi in vigore oggi sui vari territori regionali) non dovrà chiederne il rifacimento. Almeno fino alla naturale scadenza. Così come in passato, la targa energetica continuerà a valere fino a un massimo di dieci anni, a partire dalla data di rilascio.
Naturalmente tutto questo a precise condizioni. Se, infatti, dopo il rilascio dell’Ape da parte di un professionista, il fabbricato o l’appartamento oggetto dello screening viene coinvolto in un intervento di ristrutturazione o di riqualificazione che riguardi «elementi edilizi o impianti tecnici in maniera tale da modificare la classe energetica dell’edificio o dell’unità immobiliare», allora concluso il cantiere l’attestato non ha più validità. In caso di affitto o di compravendita sarà, dunque, da rifare.
Novità, inoltre, dei Dm del 26.06.2015 (già introdotta in passato, ma ora fissata in modo incontrovertibile) è che l’Ape cessa il suo corso anche quando il proprietario o l’inquilino di un immobile non sottopone alle manutenzioni periodiche gli impianti tecnici e in particolare di quelli termici. Ispezioni che –quelle di efficienza energetica– sono obbligatorie a livello nazionale secondo quanto prescritto dal Dpr 74/2013 ogni quattro anni per gli impianti “domestici”, dai 10 kW ai 100 kW e ogni due per le potenze immediatamente superiori. Anche se, a seconda della Regione in cui è ubicato l’appartamento, è necessario fare riferimento a ciò che prescrive la disciplina regionale, visto che sulla tempistica quasi tutti i territori (anche quelli che hanno recepito con atto esplicito il decreto statale) seguono propri termini, in genere biennali.
Quale che si sia la norma locale di riferimento, in caso di inadempienza, «l’Ape decade il 31 dicembre dell’anno successivo a quello in cui è prevista la prima scadenza non rispettata». I libretti di impianto vanno allegati all’Ape (in formato cartaceo o elettronico), così come in Lombardia, Emilia Romagna o Veneto, l’Ape deve essere allegato, quando c’è, al libretto.
Per chi dovrà rifare la targa energetica per naturale scadenza o mancata manutenzione degli impianti, uno dei risvolti possibili sarà che nel passaggio dal sistema regionale a quello unico nazionale potrebbero verificarsi dei “salti” di classe: ad esempio, da classe F a G, o magari al contrario, in senso migliorativo. Infine, il raffronto con l’edificio di riferimento potrebbe comportare, in uno stesso palazzo -ma a fronte di caratteristiche differenti, anche per la disposizione degli spazi– ad avere due appartamenti con gradi di “merito” diversi
(articolo Il Sole 24 Ore del 10.08.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA: Scia, stop all’attività entro 60 giorni. Ma l’intervento in autotutela è sempre possibile se ci sono le condizioni per l’annullamento.
Riforma Pa. Le regole subito operative della legge Madia modificano limiti e scadenze per l’esercizio dei poteri di controllo sulle autorizzazioni.

La legge delega per la riorganizzazione della Pa contiene anche norme ad efficacia immediata. L’articolo 6 (rubricato «Autotutela amministrativa») contiene modifiche in tema di Scia e una serie di riscritture degli articoli 21, 21-quater e 21-nonies della legge 241/1990.
Sulla Scia, si prevede che l’amministrazione debba procedere, in caso di accertata carenza di requisiti, con l’adozione del provvedimento che vieta la prosecuzione dell’attività segnalata ordinando l’eventuale rimozione degli effetti dannosi. Il provvedimento deve essere adottato «nel termine di 60 giorni dal ricevimento della segnalazione».
A questo, si aggiunge l’obbligo della Pa «qualora sia possibile conformare l’attività intrapresa e i suoi effetti alla normativa vigente» di invitare il privato con atto motivato a provvedere, disponendo la sospensione dell’attività avviata. Con questo provvedimento, l’amministrazione deve indicare «le misure necessarie» fissando «un termine non inferiore a 30 giorni» per l’adozione. In caso di inadempimento del privato «decorso il termine, l’attività si intende vietata». Rispetto alla vecchia norma viene meno anche il richiamo stereotipato alle conseguenze per il privato in caso di dichiarazioni mendaci.
Viene riscritto inoltre l’articolo 19, comma 4, sulle condizioni legittimanti l’intervento in autotutela dell’amministrazione una volta scaduto il termine dei 60 giorni.
La norma contingentava le possibilità di intervento, sostanzialmente, alle situazioni di pericolo di «danno per il patrimonio artistico e culturale, per l’ambiente, per la salute, per la sicurezza pubblica o la difesa nazionale e previo motivato accertamento dell’impossibilità di tutelare comunque tali interessi mediante conformazione dell’attività dei privati alla normativa vigente».
Con la riscrittura si prevede che in caso di decorso del termine di 60 giorni dalla segnalazione (o di 30 giorni per la Scia in edilizia) «l’amministrazione competente adotta comunque i provvedimenti» di divieto e ripristino «in presenza delle condizioni previste dall’articolo 21-nonies» per l’annullamento d’ufficio.
Un altro intervento (articolo 6, comma 1, lettera b) adegua il riferimento alla «denuncia» contenuto all’articolo 21, comma 1, della legge 241/1990 sulle sanzioni amministrative, sostituendolo con l’espressione più adeguata di «segnalazione» e abroga il comma 2 in cui si disponeva l’applicazione delle sanzioni a chi diano inizio all’attività «in mancanza dei requisiti richiesti o, comunque, in contrasto con la normativa vigente».
Importanti sono le novità su efficacia ed esecutività del provvedimento. Il legislatore contingenta il potere di sospensione della Pa disponendo che il la sospensione non possa essere disposta o perdurare «oltre i termini per l’esercizio del potere di annullamento», quindi non oltre i termini per poter agire con l’annullamento d’ufficio.
Ma nuove regole intervengono anche sulla prerogativa di annullare i provvedimenti amministrativi illegittimi. Con le vecchie regole l’annullamento doveva avvenire «entro un termine ragionevole» mentre ora, in relazione alla tipologia di provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, deve comunque avvenire –secondo il nuovo inciso- in un periodo «non superiore a 18 mesi dal momento dell’adozione dei provvedimenti (…), inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato» grazie al silenzio assenso (articolo 20 della legge 241/1990).
Viene innestato un comma 2-bis nell’articolo 21–nonies che ammette la possibilità di annullare il provvedimento illegittimo anche oltre i 18 mesi nel caso di «provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato, (…) fatta salva l’applicazione delle sanzioni penali nonché delle sanzioni previste dal capo VI del Dpr 445/2000».
Viene, inoltre abrogato il comma 136 dell’articolo 1 della legge 311/2004, che contemplava la possibilità di annullare sine die (purché ancora in corso di esecuzione) i provvedimenti amministrativi illegittimi per risparmi o minori oneri finanziari
(articolo Il Sole 24 Ore del 10.08.2015).

ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI: Trasparenza, obblighi tagliati per i Comuni più piccoli. Anticorruzione. Gli obiettivi fissati per i decreti legislativi.
Una delle deleghe rilevanti previste dalla riforma Madia riguarda la «semplificazione» delle norme su anti-corruzione e trasparenza (articolo 7).
Nel mirino è in particolare il Dlgs 33/2013, che ha cercato di cambiare l’approccio della Pa rispetto a precise esigenze di trasparenza imponendo la pubblicazione di una serie di atti e dati, introducendo anche forme di accesso civico azionabile senza nessuna formalità, senza motivazione e, soprattutto, senza alcun onere.
In primo luogo, gli interventi correttivi dovranno essere realizzati attraverso una precisazione dell’ambito soggettivo degli obblighi sulla trasparenza, questione spesso sottoposta all’Anac.
Nel percorso delineato dalla legge delega sulla valutazione si ritiene debbano essere oggetto di considerazione «le fasi dei procedimenti di aggiudicazione ed esecuzione degli appalti pubblici; il tempo medio di attesa per le prestazioni sanitarie di ciascuna struttura del Servizio sanitario nazionale; il tempo medio dei pagamenti relativi agli acquisti di beni, servizi, prestazioni professionali e forniture, l’ammontare complessivo dei debiti e il numero delle imprese creditrici, aggiornati regolarmente; le determinazioni dell’organismo di valutazione».
Piuttosto rilevante è la richiesta di un intervento specifico per la riduzione degli oneri sulla Pa. La previsione di obblighi indistinti per ogni Pubblica amministrazione a prescindere dalle dimensioni e dalla popolazione interessata (nei casi dei Comuni) –al netto di qualche eccezione– rende gli adempimenti problematici soprattutto nelle piccole realtà e oggettivamente sproporzionati rispetto alle esigenze, pur rilevantissime, sottese al decreto trasparenza ed alla legge anticorruzione (legge 190/2012).
In questo senso, la lettera e) dell’articolo prevede espressamente la riduzione degli obblighi di pubblicazione eliminando le duplicazioni imponendo inoltre al Governo una chiara «individuazione dei soggetti competenti all’irrogazione delle sanzioni per la violazione degli obblighi di trasparenza». Incombenza oggi rimessa all’Anac azionata dalla segnalazione del responsabile per la trasparenza (in certi casi dall’Oiv) che deve essere nominato in ogni ente.
Nell’ambito della delega si ritorna anche su una questione attualissima relativa al piano anticorruzione, cioè la necessità di precisare meglio i contenuti e il procedimento di adozione, non solo del piano nazionale ma –soprattutto– dei piani dei singoli enti e dei compiti del responsabile della prevenzione della corruzione che oggi coincide con il segretario comunale.
Anche in questo caso si ribadisce l’esigenza di una semplificazione e differenziazione delle misure da adottare –e degli adempimenti– a seconda dei settori e delle dimensioni.
Si richiede inoltre, e ciò appare effettivamente di rilievo, un maggiore e concreto coordinamento con gli strumenti di misurazione e valutazione della performance dei dirigente/responsabili di servizio e pertanto dell’intera struttura dell’ente con revisione e precisazione di ruoli e responsabilità
(articolo Il Sole 24 Ore del 10.08.2015).

PUBBLICO IMPIEGO: Sanzioni disciplinari con tempi più certi. Personale. Per il reclutamento concorsi su base nazionale.
L'articolo 17 della riforma della Pa individua la disciplina che i decreti legislativi dovranno adottare in materia di lavoro. È previsto un termine di 18 mesi e la mole di interventi è davvero ampia, visto che si passa dalla revisione delle procedure di accesso, dal procedimento disciplinare e dal riordino del controllo sulle assenze dei dipendenti, per giungere a una riscrittura delle norme su valutazione e merito.
I concorsi non saranno più quelli di una volta. Vengono riscritte le procedure, prevedendo concorsi centralizzati con prove territoriali; cambiano le modalità di espletamento delle prove, valorizzando anche le capacità operative dei concorrenti, per i quali è stato abolito il requisito del voto minimo di laurea; viene creato un sistema informativo nazionale per orientare la programmazione delle assunzioni.
Con una serie di successivi interventi, si presterà attenzione al ricambio generazionale, ipotizzando la possibilità di riduzione su base volontaria dell'orario di lavoro del personale vicino alla pensione, e arriveranno regole per il progressivo superamento della dotazione organica come limite alle assunzioni, anche per facilitare la mobilità. Per prevenire il precariato verrà riscritta la revisione delle forme di lavoro flessibile.
La riforma si occupa anche di chi è già nella Pa, con le semplificazioni previste in materia di valutazione, merito e premialità. Ancora una volta, come già nella riforma Brunetta, si pone l'accento su due valutazioni, quella individuale e quella di ente. Per quest'ultima si creeranno standard di riferimento e confronto per valutare i servizi erogati ai cittadini. Si fa riferimento a una generica riduzione degli adempimenti, anche attraverso una maggiore integrazione con il ciclo di bilancio, peraltro già avviata per gli enti locali all'interno del Dlgs 267/2000. È alle porte, inoltre, una riscrittura dei sistemi di valutazione e di controllo interno.
Punti cardine della riforma sono anche alcune revisioni già fortemente volute anche dalla legge 15/2009 e dal successivo Dlgs 150/2009. A dare compimento alle modalità di controllo sulle assenze per malattia, le verifiche sono affidate all'Inps e non si esclude che ci saranno diverse novità anche nel procedimento disciplinare. Infatti un punto della delega insiste sull'introduzione di nuove norme per renderlo concreto e certo nei tempi. Effettivamente oggi, tra Dlgs 165/2001 e norme contrattuali che sopravvivono alla riforma Brunetta, le cose non sempre hanno funzionato
(articolo Il Sole 24 Ore del 10.08.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Profili «infungibili», assunzioni non solo per il personale scolastico. Risorse umane. Tra Dl enti locali e circolare della Funzione pubblica.
I Comuni possono dare corso, tramite concorsi e utilizzazione di graduatorie esistenti, alle assunzioni a tempo indeterminato di personale in possesso di specifici titoli abilitanti per le scuole e per i servizi educativi, quali gli asili nido. Nella loro effettuazione devono rispettare i vincoli dettati per le assunzioni e non devono ricorrere al personale collocato in sovrannumero degli enti di area vasta, una volta dimostrata l’assenza di queste professionalità nei relativi elenchi: una verifica, quest’ultima, che secondo le indicazioni del ministro della Pa Madia dovrebbe essere su base regionale, e non nazionale.
Le novità si incontrano all’articolo 4, comma 2-bis, del Dl 78/2015. La previsione si aggiunge alle indicazioni dettate dai ministri di Pa e Affari Regionali con la circolare 1/2015 e ai principi dettati dalla sezione Autonomie della Corte dei Conti con la delibera 19/2015.
Sulla base di questi documenti si deve considerare possibile per i Comuni dare corso, con le procedure ordinarie, ad assunzioni di personale in possesso di un profilo che non è compreso tra quello in sovrannumero degli enti di area vasta, come ad esempio i farmacisti.
L’applicazione delle nuove regole solleva comunque un problema applicativo di non poco conto per i Comuni che hanno bisogno di selezionare personale per il prossimo anno scolastico, quindi avere dei dipendenti in servizio già dai primi giorni del mese di settembre. Gli elenchi del personale in sovrannumero sono stati elaborati solo da un numero assai ridotto di enti di area vasta e per il decreto sulla mobilità del personale in sovrannumero si è ancora in attesa del parere della Conferenza Unificata.
Il testo proposto, poi, prevede che gli enti di area vasta abbiano 20 giorni dalla data di pubblicazione in «Gazzetta Ufficiale» del decreto per rendere noto l’elenco del personale in sovrannumero. Per cui al momento attuale, e almeno per un paio di mesi, la verifica dell’esistenza tra il personale degli enti di area vasta in sovrannumero di professionalità in possesso di titoli abilitanti utilizzato per la scuola ed i servizi educativi è impossibile.
Questo ostacolo può essere superata in due modi. La prima soluzione è quella di dare corso ad assunzioni a tempo determinato di questo personale, nelle more della verifica dell’inesistenza delle professionalità tra il personale collocato in sovrannumero. Al riguardo, sulla base del Dl 101/2013, le amministrazioni utilizzano le graduatorie per le assunzioni a tempo indeterminato dello stesso ente o di altro Comune (si ricorda la necessità restare entro il tetto di spesa 2009; articolo 9, comma 28, del Dl 78/2010).
L’altra soluzione passa dall’applicazione delle indicazioni portate dalla circolare 1/2015, in base alla quale occorre dare comunicazione di questo tipo di assunzioni alla Funzione pubblica e all’osservatorio nazionale per l’applicazione della legge 56/2014, inserendo questa scelta nella specifica piattaforma telematica.
Si deve considerare possibile dar corso alle assunzioni di personale «infungibile» per attività che non siano quelle scolastiche sulla base dei principi generali dettati dalla circolare e dalla Corte dei Conti. Queste indicazioni non sono superate dalla legge di conversione del Dl 78/2015 perché la formula utilizzata, «è fatta salva», va intesa come una specificazione e non come una formula esaustiva.
Se tra il personale in sovrannumero delle Province non vi sono specifici profili professionali, non vi è peraltro alcuna ragione per impedire le assunzioni, tanto più se si dimostra –come richiede la Corte dei Conti- che sono necessarie «per garantire l’espletamento di un servizio essenziale»
(articolo Il Sole 24 Ore del 10.08.2015).

CONSIGLIERI COMUNALIDalle perdite della società responsabilità ai sindaci. Partecipate.
La natura del rapporto fra ente e società controllata implica, come evidenziato in più occasioni dalle sezioni Unite della Cassazione, un obbligo degli amministratori dell’ente pubblico di adoperarsi per preservare il valore patrimoniale della partecipazione (sentenze 26806/2009; 26823/2013).
Ne esce rafforzato, quindi, l’orientamento incline ad affermare la responsabilità degli amministratori dell’ente socio, e non solo di quelli della società partecipata, in caso di perdite registrate da quest’ultima.
Il danno al valore del patrimonio sociale di titolarità pubblica, ancor più in caso di fallimento, rappresenta un pregiudizio per la finanza pubblica, in quanto implica la diminuzione del patrimonio dell’ente detentore della partecipazione, quantomeno in relazione al capitale investito all’atto di costituzione della società e dei successivi finanziamenti (Corte conti, Friuli Venezia Giulia, 98/2009).
Sugli amministratori degli enti grava, quindi, uno specifico dovere di gestione (secondo canoni di buona e razionale amministrazione) delle partecipazioni, da considerarsi beni del patrimonio dell’ente; e, correlativamente, la responsabilità per i danni subiti dal patrimonio della società, che è, in ultima istanza, patrimonio della collettività.
Né tale responsabilità può venire, a priori, esclusa per il fatto che i danni siano riconducibili a errate scelte autonome degli amministratori societari: l’ente socio e, per esso, gli amministratori pubblici sono chiamati a fornire indirizzi e direttive, oltre che a vigilare sull’attuazione, per preservare le risorse investite dall’ente; se gli amministratori della società non rispettano le indicazioni ricevute o mettono a repentaglio il patrimonio societario, i titolari della partecipazione sono tenuti ad assumere tempestivamente le iniziative a salvaguardia.
Per evitare di incorrere in responsabilità personale, insomma, gli amministratori dell’ente socio devono fare in modo che questo esplichi un’effettiva vigilanza sulla società partecipata: non è sufficiente una verifica successiva della gestione, attraverso l’approvazione del bilancio o il mero esercizio dei poteri di nomina nel cda, ma occorre una effettiva pianificazione, mediante «un controllo attuale, puntuale e concomitante all’attività gestionale della società, da effettuarsi anche con l’ausilio di specifici poteri ispettivi» (Corte dei conti, Toscana, n. 267/2009).
Ciò in quanto le perdite di esercizio o del capitale sociale non possono considerarsi episodi fisiologici; se si verificano, l’ente socio e, quindi, i suoi amministratori, deve evitarne la reiterazione, modificando contratti di servizio e/o intervenendo sull’organizzazione, fino a rimuovere, se del caso, gli amministratori.
Di qui l’affermazione della responsabilità degli amministratori dell’ente socio per omesso esercizio dell’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori della partecipata (Corte dei conti Lazio, n. 1015/1999); o per mancato esercizio del potere di revoca degli amministratori della partecipata che abbia registrato continue perdite sintomatiche di inadeguata capacità gestionale (Corte dei conti, Valle d’Aosta, n. 2/2009); o per la nomina di amministratori privi delle necessarie competenze (Corte dei conti, Toscana, n. 267/2009).
In queste ipotesi gli amministratori dell’ente socio rispondono del danno al patrimonio della società che sia conseguenza immediata e diretta del loro colpevole operato. Non solo: è la stessa costituzione o ricapitalizzazione di una società a poter essere sindacata e, se si rivela inutile (per essersi tradotta in uno sperpero di risorse pubbliche) a configurarsi quale fonte di responsabilità a carico degli amministratori dell’ente socio (Corte dei conti, Trento, n. 19/2008; Corte dei conti, Friuli Venezia Giulia, n. 98/2009)
(articolo Il Sole 24 Ore del 10.08.2015).

VARICondizionatori, bonus a scelta. Tra le opzioni, detrazioni fiscali del 65 o 50%. Le diverse agevolazioni per privati o imprese che acquistano impianti a pompa di calore.
Diverse le agevolazioni fiscali per chi acquista un condizionatore a pompa di calore. L'impresa collettiva o individuale o il privato possono beneficiare di diverse agevolazioni, tra loro alternative.
Parliamo delle detrazioni del 65% per gli interventi di efficienza energetica, delle detrazioni fiscali del 50% per le ristrutturazioni edilizie e il bonus mobili con la detrazione del 50%. Ma andiamo con ordine e illustriamo le diverse possibilità accordate alle imprese e alle persone fisiche.
Detrazione del 65% per interventi di efficienza energetica. Può essere ammesso alla detrazione del 65% l'acquisto dei climatizzatori con pompa di calore che forniscono sia riscaldamento che raffrescamento. A condizione che siano ad alta efficienza e siano installati in sostituzione dell'impianto di riscaldamento esistente. Sono, infatti, detraibili le spese per gli interventi impiantistici concernenti la climatizzazione invernale e/o la produzione di acqua calda, attraverso la fornitura e la posa in opera di tutte le apparecchiature termiche, meccaniche, elettriche ed elettroniche, nonché delle opere idrauliche e murarie necessarie per la realizzazione a regola d'arte di impianti solari termici organicamente collegati alle utenze, anche in integrazione con impianti di riscaldamento.
Possono usufruire della detrazione tutti i contribuenti residenti e non residenti, anche se titolari di reddito d'impresa, che possiedono, a qualsiasi titolo, l'immobile oggetto di intervento. In particolare, sono ammessi all'agevolazione: le persone fisiche, compresi gli esercenti arti e professioni, i contribuenti che conseguono reddito d'impresa (persone fisiche, società di persone, società di capitali), le associazioni tra professionisti e gli enti pubblici e privati che non svolgono attività commerciale. I titolari di reddito d'impresa possono fruire della detrazione solo con riferimento ai fabbricati strumentali da essi utilizzati nell'esercizio della loro attività imprenditoriale (risoluzione dell'agenzia delle entrate n. 340/2008).
Sono detraibili tutte le spese concernenti i lavori, anche quelle di progetto e amministrative, per questo intervento il limite di spesa detraibile è di 30 mila euro (cioè il 65% di una spesa di 46.154 euro). È confermata fino al 31.12.2015 e poi, salvo proroghe, dal 2016 scenderà al 36%. L'agevolazione fiscale consiste in detrazioni dall'Irpef (Imposta sul reddito delle persone fisiche) o dall'Ires (Imposta sul reddito delle società) ed è concessa quando si eseguono interventi che aumentano il livello di efficienza energetica degli edifici esistenti.
Detrazione del 50% per ristrutturazione edilizia. Possono essere detratte le spese per l'acquisto di climatizzatori con pompa di calore anche non ad alta efficienza, purché il condizionatore possa essere usato anche per il riscaldamento nella stagione invernale, a integrare o a sostituire l'impianto di riscaldamento già esistente.
L'agevolazione spetta non solo ai proprietari degli immobili ma anche ai titolari di diritti reali/personali di godimento sugli immobili oggetto degli interventi e che ne sostengono le relative spese: proprietari o nudi proprietari, titolari di un diritto reale di godimento (usufrutto, uso, abitazione o superficie), locatari o comodatari, soci di cooperative divise e indivise, imprenditori individuali, per gli immobili non rientranti fra i beni strumentali o merce e società di persone. La detrazione per gli interventi di recupero edilizio non è cumulabile con l'agevolazione fiscale (detrazione del 65%) prevista per i medesimi interventi dalle disposizioni finalizzate al risparmio energetico.
Pertanto, nel caso in cui gli interventi realizzati rientrino sia nelle agevolazioni previste per il risparmio energetico che in quelle previste per le ristrutturazioni edilizie, il contribuente potrà fruire, per le medesime spese, soltanto dell'uno o dell'altro beneficio fiscale, rispettando gli adempimenti specificamente previsti in relazione a ciascuna di esse. È possibile detrarre dall'Irpef (l'imposta sul reddito delle persone fisiche) una parte degli oneri sostenuti per ristrutturare le abitazioni e le parti comuni degli edifici residenziali situati nel territorio dello Stato.
In particolare, i contribuenti possono usufruire delle seguenti detrazioni: 50% delle spese sostenute (bonifici effettuati) dal 26.06.2012 al 31.12.2015, con un limite massimo di 96.000 euro per ciascuna unità immobiliare e 36%, con il limite massimo di 48.000 euro per unità immobiliare, delle somme che saranno spese dal 01.01.2016.
Bonus mobili con la detrazione del 50%. Possono essere portate in detrazione le spese per l'acquisto di condizionatori con etichetta energetica A+ o superiore. La detrazione spetta per le spese sostenute dal 06.06.2013 al 31.12.2015 per l'acquisto di mobili nuovi (tra questi, letti, armadi, cassettiere, librerie, scrivanie, tavoli, sedie, comodini, divani, poltrone, credenze, nonché i materassi e gli apparecchi di illuminazione).
Per gli elettrodomestici che ne sono sprovvisti, l'acquisto è agevolato solo se per essi non è ancora previsto l'obbligo di etichetta energetica. Rientrano nei grandi elettrodomestici, per esempio: frigoriferi, congelatori, lavatrici, asciugatrici, lavastoviglie, apparecchi di cottura, stufe elettriche, piastre riscaldanti elettriche, forni a microonde, apparecchi elettrici di riscaldamento, radiatori elettrici, ventilatori elettrici, apparecchi per il condizionamento.
È escluso l'acquisto di porte, pavimentazioni (per esempio, il parquet), tende e tendaggi, nonché di altri complementi di arredo grandi elettrodomestici nuovi di classe energetica non inferiore alla A+ (A per i forni), per le apparecchiature per le quali sia prevista l'etichetta energetica. Tra le spese da portare in detrazione si possono includere quelle di trasporto e di montaggio dei beni acquistati. A differenza delle altre due tipologie di detrazione non è necessario che l'edificio abbia già un impianto di riscaldamento.
È però necessario effettuare una ristrutturazione contestuale dell'edificio in cui si installa il condizionatore e la data di inizio lavori deve essere anteriore a quella in cui sono sostenute le spese da detrarre.
Conto termico. Rientrano nelle agevolazioni per il conto termico l'acquisto di climatizzatori a pompa di calore con determinate prestazioni energetiche che devono essere installati in sostituzione di un impianto di riscaldamento preesistente.
Gli interventi incentivabili si riferiscono sia all'efficientamento dell'involucro di edifici esistenti (coibentazione pareti e coperture, sostituzione serramenti e installazione schermature solari) sia alla sostituzione di impianti esistenti per la climatizzazione invernale con impianti a più alta efficienza (caldaie a condensazione) sia alla sostituzione o, in alcuni casi, alla nuova installazione di impianti alimentati a fonti rinnovabili (pompe di calore, caldaie, stufe e camini a biomassa, impianti solari termici anche abbinati a tecnologia solar cooling per la produzione di freddo).
Il meccanismo di incentivazione è rivolto sia alle amministrazioni pubbliche che ai soggetti privati, intesi come persone fisiche, condomini e soggetti titolari di reddito di impresa o di reddito agrario. Il contributo dipende da taglia del climatizzatore, prestazioni e zona climatica di installazione. Indicativamente la somma erogata arriva a coprire il 15-20% della spesa (articolo ItaliaOggi Sette del 10.08.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIAGestione rifiuti, istruzioni estive. Estese le nozioni di produttore e deposito temporaneo. Nella legge di conversione del dl 78/2015 sugli enti locali, le ultime regole ambientali.
Confermate il 04.08.2015 dal parlamento le nuove definizioni allargate di produttore iniziale di rifiuti e di deposito temporaneo introdotte direttamente nel dlgs 152/2006 (c.d. Codice ambientale) dalla decretazione d'urgenza del precedente 4 luglio.
A consolidare le disposizioni recate dall'articolo 1 del dl 92/2015 è (in luogo del rituale relativo provvedimento di conversione, abbandonato plausibilmente per questioni di economia procedurale) la (diversa) legge di conversione del dl 78/2015 in materia di enti territoriali, legge nella quale queste disposizioni sono state pedissequamente trasposte salvandone ogni effetto fin dalla loro originaria entrata in vigore.
Oltre alla convalida delle suddette definizioni, la nuova legge detta anche i criteri per l'attribuzione ai rifiuti delle nuove caratteristiche di pericolosità di matrice Ue in vigore dallo scorso 01.06.2015.
Il produttore di rifiuti. In base alla rinnovata formulazione della prima parte della lettera f), comma 1, articolo 183 del dlgs 152/2006, ora confermata dal parlamento, è produttore di rifiuti «il soggetto la cui attività produce rifiuti e il soggetto al quale sia giuridicamente riferibile detta produzione (produttore iniziale) o chiunque effettui operazioni di pretrattamento, di miscelazione o altre operazioni che hanno modificato la natura o la composizione di detti rifiuti (nuovo produttore)».
A chiarire la portata della nuova nozione di «produttore giuridico» appaiono ora concorrere sia gli atti parlamentari sottesi al naturale disegno di legge di conferma del dl 92/2015, sia i successivi atti di accompagnamento della legge di conversione del dl 78/2015. In detti atti il contenuto delle novità normative è testualmente ritenuto «in adesione agli indirizzi giurisprudenziali da ultimo ribaditi nella sentenza della suprema Corte di cassazione n. 5916 del 2015».
Tale sentenza era stata pronunciata in relazione a una costruzione di navi poggiata su contratti di appalto (di secondo livello) in base ai quali un'impresa aveva commissionato ad altre aziende la materiale realizzazione dei natanti, attività nella cui esecuzione esse ditte producevano anche dei rifiuti, ma in assenza delle prescritte autorizzazioni ambientali.
Con la sentenza la Corte ha avallato la tesi della pubblica accusa che riteneva integrato da tali affidatarie ditte il reato di gestione illecita di rifiuti, essendo state le stesse a generarli materialmente, di conseguenza annullando il provvedimento con il quale il precedente giudice aveva invece ritenuto che qualificando l'impresa affidante come produttore «in senso giuridico» dei rifiuti (ed, evidentemente, sussistendo in capo alla stessa un'autorizzazione alla gestione dei rifiuti) si sarebbe potuto esonerare le altre ditte da responsabilità.
Sul punto la sentenza ha sottolineato come seppur la giurisprudenza «è inequivoca nell'affermare che, dovendosi ritenere produttore di rifiuti “non solo il soggetto dalla cui attività deriva la produzione dei rifiuti, ma anche il soggetto al quale sia giuridicamente riferibile detta produzione” (Corte di cassazione, sezione III penale 21.01.2000 n. 4957), siffatta qualificazione non vale a privare della medesima qualifica anche il soggetto che materialmente determina la produzione di rifiuti».
Sicché, ha concluso la stessa Corte, «gli obblighi connessi alla gestione dei rifiuti stessi non gravano certamente solo sul produttore in senso giuridico ( ) ma anche, e si direbbe soprattutto, sul produttore in senso materiale».
Nella richiamata pronuncia 4957/2000, anch'essa vertente su una fattispecie di lavori in appalto, la Corte ha ritenuto in via di principio produttore di rifiuti non solo il soggetto che materialmente li genera, ma anche la persona nel cui interesse tale attività di generazione avviene, ricollegandovi una precisa (e non delegabile) posizione di garanzia coincidente con l'obbligo di impedire la commissione dell'illecita gestione di rifiuti attraverso una attività di controllo sul soggetto affidatario; diversamente ritenendo l'affidante/produttore giuridico di rifiuti responsabile, in caso d'illecito commesso dall'affidatario, dello stesso reato a titolo concorso mediante omissione (impropria, ex articolo 40 del codice penale).
Se nel richiamo giurisprudenziale effettuato dai predetti atti deve dunque rintracciarsi, ai sensi dell'articolo 12 delle c.d. «Preleggi», l'intenzione del legislatore necessaria alla corretta applicazione delle nuove disposizioni, i punti fermi della neo definizione di produttore di rifiuti (che tuttavia non trova riscontro nell'articolo 3 della direttiva 2008/98/Ce, dalla quale il Codice ambientale deriva) appaiono quindi essere due: il produttore «materiale» deve, ove dalla legge previsto, essere titolare di un valido titolo autorizzativo per la gestione dei rifiuti generati; sul produttore «giuridico» gravano sempre i doveri di vigilanza e controllo sulla sussistenza di detti titoli abilitativi e sulla correttezza dell'attività gestoria del primo soggetto.
La secca conversione in legge delle nuove disposizioni adottate d'urgenza lascia tuttavia diverse questioni nell'ombra, come quelle legate al tracciamento dei rifiuti prodotti e connessi adempimenti prodromici e conseguenti, essendo difficilmente ipotizzabile allo stato dell'arte una duplicazione dei relativi oneri (che dal punto di vista documentale potrebbe comportare anche una moltiplicazione virtuale dei residui effettivamente generati).
Sarebbe dunque stato opportuno in sede parlamentare un intervento volto a chiarire, ad esempio, la possibilità di individuare in sede contrattuale tra i due soggetti titolari della (perentoria) posizione di garanzia per la corretta gestione dei rifiuti quello cui spetta l'effettiva tenuta delle scritture ambientali e l'adempimento degli obblighi sottesi.
Il deposito temporaneo. Pedissequa conferma trovano con la legge in parola anche le disposizioni originariamente recate dal dl 92/2015 sul particolare istituto del deposito temporaneo che, nel riformulato articolo 183 del dlgs 152/2006 (anch'esso in vigore dallo scorso 04.07.2015) comprende dal punto di vista funzionale (oltre al «raggruppamento») pure il «deposito dei rifiuti preliminare alla raccolta» e dal punto di vista spaziale quello effettuato sul luogo di produzione degli stessi da intendersi ora quale «intera area in cui si svolge l'attività che ha determinato la produzione dei rifiuti».
Sotto quest'ultimo profilo appare essere stata formalizzata la lettura estensiva del concetto di luogo di produzione già operata dalla stessa Corte di cassazione, la quale (da ultimo con sentenza 38676/2014) ha ritenuto come il luogo del deposito temporaneo non sia solo quello in cui i rifiuti sono prodotti ma anche quello che si trova nella disponibilità dell'impresa produttrice e nel quale gli stessi sono depositati, purché esso luogo sia funzionalmente collegato a quello di generazione.
Il deposito temporaneo, lo ricordiamo, è conducibile ai sensi dell'articolo 208 del Codice ambientale senza la necessità di preventiva autorizzazione a patto che sia effettuato dal «produttore di rifiuti» (nella sua rinnovata definizione, che ne allarga ulteriormente i confini) e sia conforme a tutti requisiti dettati dal Codice ambientale, tra cui (oltre a quelli citati e rinnovati) i limiti di quantità e qualità dei rifiuti ammissibili, il tempo di giacenza, l'organizzazione tipologica dei materiali.
Le caratteristiche di pericolo dei rifiuti. Stabilisce, infine, la legge di conversione del dl 78/2015 che nelle more dell'adozione da parte dell'Ue di specifici criteri per l'attribuzione ai rifiuti della caratteristica di pericolo HP14 («eco tossico»), la stessa deve essere attribuita secondo le modalità sancite dall'Accordo europeo sul trasporto internazionale delle merci su strada (c.d. disciplina «Adr») per le classi «9 – M6 e M7».
L'istruzione dettata dalla legge è finalizzata all'applicazione delle nuove norme Ue in materia di classificazione dei rifiuti introdotte con regolamento Ue 1357/2014 (mediante la modifica della direttiva madre 2008/98/Ce) e direttamente operative sul piano nazionale dallo scorso 01.06.2015 (articolo ItaliaOggi Sette del 10.08.2015).

EDILIZIA PRIVATA - VARIServitù, via libera condizionato. Requisito indispensabile è la localizzazione dell'area. Il Notariato spiega meglio il contenuto di una sentenza della Cassazione sui parcheggi.
Servitù di parcheggio: si può fare. Oltre ai requisiti classici di questo particolare diritto reale occorre però prestare adeguata attenzione alla localizzazione dell'area in cui lo stesso dovrà esercitarsi, trattandosi di un requisito indispensabile per la piena validità dell'atto di disposizione.

Dopo le numerose reazioni negative suscitate dalla sentenza 06.11.2014 n. 23708 della Corte di Cassazione, Sez. II civile, che ha sancito la nullità di un contratto relativo a una servitù di parcheggio, il Consiglio nazionale del notariato è sceso in campo con uno specifico studio 06-08.05.2015 n. 1094-2014/C, ma reso noto soltanto nei giorni scorsi) volto a chiarire il contenuto della predetta decisione di legittimità e a confermare che la servitù di parcheggio, a determinate condizioni, può essere legittimamente ed efficacemente disposta dai privati con un contratto.
La servitù di parcheggio. Le servitù prediali sono diritti reali su bene altrui che si distinguono per la tipicità del diritto e la libera determinabilità del contenuto. In altri termini, dato lo schema normativo fissato dal codice civile agli artt. 1027 ss., l'utilità che il proprietario del fondo c.d. dominante può trarre dal fondo c.d. servente può essere la più varia, a condizione che la stessa sia però oggettivamente inerente al bene e non risponda a un semplice interesse soggettivo del proprietario.
Accanto alle c.d. servitù coattive, il cui contenuto è anch'esso predeterminato dalla legge (si pensi, ad esempio, alle servitù di passaggio, di scarico ecc.), vi sono infatti quelle volontarie, costituite per testamento o più spesso per contratto, il cui oggetto è appunto liberamente determinabile dalle parti. Da questo punto di vista, quindi, non vi è alcuna difficoltà a riconoscere come contenuto di una servitù un diritto di parcheggio. Tuttavia, come da sempre ritenuto dalla giurisprudenza, anche in questo caso, per la validità dell'atto dispositivo, devono ricorrere tutte le caratteristiche tipiche delle servitù reali.
La sentenza n. 23708/2014 della Suprema corte. Nel caso preso in esame dalla Cassazione nella sentenza n. 23708/2014, che tante polemiche ha suscitato, forse per via della stringata motivazione e della perentorietà della decisione, l'erede del titolare di una servitù di parcheggio costituita dal de cuius nell'ambito del contratto di vendita di un appezzamento di terreno aveva citato in giudizio una società che gestiva un'attività alberghiera per l'accertamento del proprio diritto. Nel relativo contratto, in particolare, era stato scritto che il terreno risultava «gravato da una servitù di parcheggio limitatamente a due auto a favore della proprietà». La domanda veniva accolta in primo grado e la decisione veniva confermata nel successivo grado di giudizio.
Tuttavia la predetta società ricorreva in Cassazione contro tale sentenza, evidenziando come la costante giurisprudenza di legittimità non ritenesse configurabile la tipologia di servitù viceversa accertata dai giudici di merito. La Suprema corte, nel sovvertire completamente l'esito del giudizio, ha quindi in primo luogo ricordato come nelle servitù prediali l'utilità debba essere inerente al fondo dominante e non debba invece risolversi in una mera maggiore comodità personale del proprietario.
Quindi i giudici, ritenendo che nel caso concreto il parcheggio dell'auto costituisse un vantaggio personale del dominus e non un'utilità oggettiva del fondo, hanno ritenuto la clausola addirittura nulla, per impossibilità dell'oggetto.
Le conclusioni alle quali è giunto il Notariato. La sentenza in questione, nella sua stringatezza, sembrerebbe in effetti aver chiuso definitivamente le porte all'ammissibilità della servitù di parcheggio, vista la netta equiparazione a un mero vantaggio soggettivo della «commoditas di parcheggiare l'auto per specifiche persone che accedano al fondo».
L'interessante studio del Consiglio nazionale del notariato ha tuttavia cercato di fornirne un'interpretazione maggiormente equilibrata, inserendo detta decisione nell'alveo del risalente dibattito dottrinale e giurisprudenziale sviluppatosi sull'argomento.
Dopo aver dimostrato che, stante l'indeterminatezza di contenuto delle servitù volontarie, anche il diritto di parcheggio può rientrare nello schema tipico di cui agli artt. 1027 ss. c.c., il menzionato studio si preoccupa infatti di evidenziare come detto diritto debba possedere le caratteristiche proprie delle servitù reali, ovvero l'immediatezza (diretta soggezione del bene al potere del titolare, che non necessita della collaborazione di terzi), l'assolutezza (ovvero la tutelabilità nei confronti dei terzi in generale), l'opponibilità a chiunque vanti diritti sul bene o lo possieda, l'inerenza al fondo dell'utilità, la materialità, l'altruità e, soprattutto, la specificità e la determinatezza del bene (o della parte di esso) sul quale il diritto di servitù deve essere esercitato.
Da quest'ultimo punto di vista è quindi chiaro che il diritto di parcheggio non può genericamente riguardare il fondo servente, con tutte le utilità che questo può offrire e con la possibilità di farne qualsiasi uso. È infatti necessario procedere alla localizzazione dell'area sulla quale la servitù può esercitarsi. Questa indicazione è indispensabile, perché altrimenti il diritto risulterebbe generico e indeterminato. Di conseguenza l'atto dispositivo, a pena di invalidità, deve indicare in modo specifico in quale luogo possa sostare il veicolo del proprietario del fondo dominante.
Nel caso portato all'attenzione della Cassazione, secondo il Notariato, è stata proprio la mancanza di specificità e determinatezza della clausola sulla servitù di parcheggio a portare i giudici a ritenere la stessa nulla. Nel contratto, infatti, come anticipato, si faceva generico riferimento al numero delle auto, ma non si identificava minimamente in quale area fosse localizzata la servitù. Nello studio in questione si fa quindi l'esempio di un fondo servente ampio quanto Piazza San Pietro a Roma e di un atto che costituisca il diritto del vicino di parcheggiare una vettura «dove che sia».
Così facendo ne conseguirebbe che nessuna zona sarebbe specificamente destinata al parcheggio. Di conseguenza, in un caso siffatto, dovrebbe ritenersi o che tutta l'area sia vincolata al parcheggio esclusivo di una sola autovettura (con effetti irragionevoli e paradossali) o che il rapporto tra le parti sia di tipo meramente obbligatorio (necessitando che ogni volta il proprietario del fondo servente si attivi per garantire l'esercizio del diritto di parcheggio del vicino).
Il Notariato insiste quindi sulla piena ammissibilità della costituzione di diritti reali di servitù di parcheggio e, a tal fine, nel medesimo studio viene proposto un esempio di atto di disposizione, riportato in tabella (articolo ItaliaOggi Sette del 10.08.2015).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: Sì al Durc anche all'impresa in concordato preventivo.
Sì al Durc all'impresa in concordato preventivo omologato e parziale soddisfazione dei crediti previdenziali.

Lo precisa l'Inps nel messaggio 06.08.2015 n. 5223 illustrando il cambio di rotta del ministero del lavoro in materia. Finora, infatti, per il rilascio della regolarità contributiva, era richiesta l'integrale soddisfazione dei crediti di Inps e Inail.
La questione è sorta con l'entrata in vigore della nuova disciplina del Durc online, la quale stabilisce che in caso di concordato con continuità aziendale (ex art. 186-bis del rd n. 267/1942, la c.d. legge fallimentare), «l'impresa si considera regolare nel periodo intercorrente tra la pubblicazione del ricorso nel registro delle imprese e il decreto di omologazione, a condizione che nel piano ( ) sia prevista l'integrale soddisfazione dei crediti dell'Inps, dell'Inail e delle casse edili e dei relativi accessori di legge».
Il ministero del lavoro, con nota 21.04.2015, nel riconsiderare quanto in precedenza disposto con l'interpello n. 41/2012, ha specificato che la pubblicazione della domanda di concordato nel registro delle imprese integra la fattispecie del decreto 24.10.2007 nella parte in cui concede la regolarità contributiva in caso di sospensioni di pagamenti a seguito di disposizioni legislative. Nel dettaglio, il ministero ha precisato che la condizione per il rilascio del Durc è correlata alla circostanza che il piano preveda l'integrale soddisfazione dei crediti di Inps, Inail e casse edili, nonché dei relativi accessori di legge.
Successivamente, con circolare n. 19/2015, il ministero ha ulteriormente precisato che, ove il piano concordatario preveda la parziale soddisfazione dei crediti previdenziali con privilegio e dei relativi accessori di legge ovvero la retrocessione degli stessi anche al rango di crediti chirografari, gli istituti (Inps, Inail e casse edili) devono attestare l'irregolarità perché, in tale ipotesi, non ricorre la condizione dell'integrale soddisfazione prevista dall'art. 5, comma 1, del decreto 30.01.2015.
Con nota 21.07.2015, sulla base del parere espresso dall'ufficio legislativo, il ministero del lavoro ha riconsiderato la questione e fornito nuovi chiarimenti per risolvere l'evidente contrasto tra quanto affermato nella nota 21.04.2015 e quanto affermato nella circolare n. 19/2015. In via definitiva ha deciso per l'obbligo di rilascio del Durc all'impresa che abbia conseguito l'omologazione del concordato preventivo anche se il relativo piano non contempli l'integrale soddisfazione dei crediti di Inps e Inail muniti di privilegio.
Pertanto, dopo il decreto di omologazione e pur in presenza di una parziale soddisfazione dei crediti previdenziali muniti di privilegio, e fino a quando non sia adempiuto il concordato, a parere del ministero si verifica la situazione di «sospensione dei pagamenti in forza di disposizioni legislative» contemplata all'art. 5, comma 2, lett. b), del decreto 24.10.2007 con la conseguenza che dev'essere dichiarata la regolarità contributiva. Il ministero ha inoltre precisato che, ai fini della verifica della regolarità contributiva, non può avere rilevanza l'eventuale proposizione del reclamo alla corte di appello avverso il decreto di omologazione del Tribunale da parte degli istituti previdenziali (articolo ItaliaOggi dell'08.08.2015).

ENTI LOCALI: Scambio dati tra p.a., serve una convenzione. I paletti del Garante privacy per garantire la riservatezza.
Per lo scambio di dati tra p.a., a prova di privacy, ci vuole una convenzione. La disciplina sulla riservatezza non blocca certo l'interscambio delle informazioni necessarie per ragioni di ufficio, ma si devono rispettare alcuni paletti. In particolare bisogna mettere «nero su bianco» modalità e condizioni dello scambio.

È quanto prevede il provvedimento 02.07.2015 n. 393 del Garante della privacy, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 179 del 04.08.2015, dedicato alle misure di sicurezza e modalità di scambio dei dati personali tra amministrazioni pubbliche.
Il provvedimento, da un lato, dispone misure dirette a far emergere le notizie di attacchi ai dati personali detenuti dagli enti pubblici (notifica al garante delle violazioni, secondo le regole note come data breaches), dall'altro individua alcune precauzioni di carattere procedimentale. In particolare, tra i presupposti, per la comunicazione dei dati il provvedimento in esame menziona una convenzione o qualunque atto bilaterale da stipulare tra ente erogatore ed ente fruitore, al fine di stabilire le condizioni e le modalità di accesso ai dati.
Tradotto, chi chiede dati e chi fornisce atti devono stabilire in un documento contrattuale le garanzie a tutela del trattamento dei dati personali e dell'utilizzo dei sistemi informativi. Il garante ricorda che le garanzie devono essere previste anche nei confronti dello stesso erogatore: questo può importare l'inserimento di clausole, nelle quali l'ente che chiede le informazioni assicura che i dati sono utilizzati nell'ambito dell'esercizio delle attività istituzionali e con il rispetto degli standard di sicurezza interna.
Nella parte iniziale della convenzione gli enti indicheranno le finalità di interesse pubblico perseguite e elencheranno, anche per categorie, i tipi di dati e le operazioni eseguibili. È opportuno esporre le norme di legge rilevanti e cioè quelle che assegnano il compito istituzionale ed eventuali altre disposizioni settoriali sui singoli trattamenti e procedimenti.
Il provvedimento del Garante, anzi, assegna alcuni compiti preliminari alla stipulazione della convenzione. Uno dei questi è proprio la verifica della base normativa che legittima il fruitore ad accedere alle proprie banche dati.
L'esplicitazione delle finalità serve anche a selezionare i dati personali contenuti nelle banche dati a cui dare accesso. Si deve poi specificare la modalità telematica di accesso alle banche dati più idonea, scegliendo tra le varie opzioni (e-mail, scambio con protocolli Ftp, web, cooperazione applicativa). Nella convenzione l'ente pubblico che fornisce i dati deve comunque riservarsi di valutare l'introduzione di ulteriori strumenti volti a gestire i profili di autorizzazione, verificare accessi anomali, tracciare le operazioni di accesso, oppure individuare tassative modalità di accesso alle banche dati.
Le modalità di accesso alle banche dati devono essere configurate offrendo un livello minimo di accesso ai dati, mentre livelli di accesso gradualmente più ampi possono essere autorizzati soltanto a fronte di documentate esigenze del fruitore da indicare in convenzione. Inoltre il fornitore dei dati deve tenere un elenco, costantemente aggiornato, delle banche dati accessibili, descrivendo per ogni fruitore le modalità di accesso. Una volta l'anno chi fornisce i dati deve controllare se le esigenze di collegamento sono ancora attuali, bloccando gli accessi (autorizzazioni o singole utenze) non conformi alla convenzione (articolo ItaliaOggi del 07.08.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Province, da rivedere il dimezzamento degli organici.
Da rivedere il taglio lineare della spesa di personale di province e città metropolitane, imposto dalla legge 190/2014.

La legge di conversione del dl 79/2015 e l'accordo stipulato sulle politiche del lavoro da stato e regioni il 20 luglio scorso mettono necessariamente in discussione la previsione contenuta nell'articolo 1, comma 421, della legge 190/2014, per effetto del quale la dotazione organica degli enti di area vasta è stata ridotta ex lege del 50% e del 30% della spesa del personale di ruolo alla data di entrata in vigore della legge 56/2015 rispettivamente per province, nonché città metropolitane e province con territorio interamente montano e confinanti con paesi stranieri.
Il taglio lineare al costo del personale va necessariamente rivisto, in primo luogo in conseguenza delle modifiche all'articolo 5 del dl 78/2015. Esso, infatti, consente alle province di stabilire quale parte del personale appartenente ai corpi di polizia provinciale dovrà considerarsi estraneo al processo di mobilità verso i comuni, in quanto addetto a funzioni accessorie a quelle fondamentali: in particolare, per esempio, il controllo del rispetto del codice della strada sulle vie di comunicazione provinciali.
Gli appartenenti ai corpi di polizia provinciale individuati come addetti a tali funzioni accessorie dovranno essere sottratti al novero dei dipendenti soprannumerari, perché destinati a restare presso le province. E potrebbe trattarsi di centinaia di dipendenti, forse fino a un migliaio.
Lo stesso vale per i circa 7.500 addetti ai servizi per il lavoro. L'intesa stato-regioni obbliga questi enti a coprire interamente le spese connesse ai rapporti di lavoro a tempo indeterminato dei dipendenti (un terzo a carico delle regioni, due terzi a carico dello stato), ancora oggi gravanti sui bilanci di province e città metropolitane.
Se, però, i costi del personale provinciale adibito al mercato del lavoro saranno coperti da Stato e regioni, non ha senso considerare tale personale soprannumerario, almeno finché le regioni non avranno stabilito di acquisirlo direttamente nella propria dotazione organica, e, soprattutto, non ha senso comprendere il costo annuo, pari a circa 250 milioni, tra le spese da tagliare della dotazione organica di province e città metropolitane. Infatti, anche nelle more del definitivo riordino dei servizi del lavoro e della loro eventuale confluenza nelle regioni, le province possono contare a questo punto su un vero e proprio diritto di ricevere da stato e regioni le risorse per pagare i dipendenti addetti, finché restino ancora alle loro dipendenze.
La disposizione dell'articolo 1, comma 421, della legge 190/2014 andrebbe urgentemente rivista, per riproporzionare il taglio della spesa di personale e renderlo meno forfettario e più analitico, eliminando la spesa connessa al personale dei servizi per il lavoro e il personale di vigilanza destinato a restare presso le province.
D'altra parte, se non si rivede la portata del taglio lineare, il rischio è che conservandolo vengano coinvolti nel processo di messa in sovrannumero e possibile successivo licenziamento anche dipendenti che fin qui ne sono rimasti fuori, quelli, cioè, adibiti alle funzioni fondamentali (pianificazione, ambiente, viabilità, trasporti, scuola e edilizia scolastica, controlli sul rispetto delle pari opportunità), aprendosi una nuova stagione di caos e tensioni sindacali, quelle che fin qui hanno indotto la gran parte delle province a rifiutarsi di individuare il personale da dichiarare in sovrannumero (articolo ItaliaOggi del 07.08.2015).

SEGRETARI COMUNALISegretari aboliti, ma con calma. Tre anni di tempo per acquisire incarichi dirigenziali. Perché si passi al nuovo status di dirigente apicale bisognerà attendere i dlgs attuativi.
I segretari comunali non sono immediatamente aboliti dalla legge delega di riforma della pubblica amministrazione targata Marianna Madia. Perché negli enti locali si passi dal segretario al nuovo soggetto «dirigente apicale» occorrerà attendere il decreto legislativo attuativo della disciplina della dirigenza pubblica, al quale è demandato il compito di costituire i tre albi della dirigenza statale, regionale e locale, quest'ultimo destinato a ricomprendere i segretari comunali.

L'abolizione dei segretari comunali è certamente una delle disposizioni di maggiore impatto della riforma, oltre a quelle di minore comprensibilità.
Infatti, mentre molte disposizioni normative generali intendono puntare sull'incremento dei presidi di legalità e anticorruzione, si elimina negli enti locali proprio la figura del segretario comunale, indicata direttamente dalla legge 190/2012 come responsabile della prevenzione della corruzione e, inoltre, titolare del sistema dei controlli interni di tipo amministrativo.
Nell'immediato, tuttavia, i segretari manterranno il loro status e le loro funzioni. Infatti, l'abolizione della figura e la sua confluenza nel ruolo della dirigenza locale sarà frutto, come rilevato sopra, dell'attuazione della delega.
Peraltro, la legge delega prevede, a partire dall'attivazione del ruolo unico della dirigenza con conseguente abolizione della figura del segretario, un periodo transitorio di tre anni, nel corso del quale vi sarà per i comuni e le province (se nel frattempo non saranno state definitivamente abolite) di conferire l'incarico di direzione apicale agli (a quel punto) ex segretari comunali, non solo equiparati alla dirigenza (quelli inseriti nelle fasce A e B), ma anche ai soggetti già iscritti all'albo, nella fascia professionale C, e ai vincitori del corso di accesso in carriera, già bandito alla data di entrata in vigore della legge delega.
C'è, tuttavia, da precisare che tale obbligo di assegnare agli ex segretari la «direzione apicale» non varrà per gli enti locali che abbiano incaricato un direttore generale, in applicazione dell'articolo 108 del dlgs 267/2000, cioè i comuni con popolazione superiore ai 100 mila abitanti. Del resto, questi comuni di grandi dimensioni e le città metropolitane (ma non le province) una volta entrata a regime la riforma e quindi superato il triennio di diritto transitorio, potranno comunque incaricare il direttore generale in alternativa al «dirigente apicale».
Resta, allora, da comprendere quale sarà il ruolo del dirigente apicale, destinato a sostituire i segretari. A regime, potrà essere selezionato dai sindaci da qualsiasi dirigente appartenente non solo al ruolo dei dirigenti locali, ma anche di quello statale e regionale. Il «dirigente apicale» avrà il compito di attuare l'indirizzo politico, coordinare l'attività amministrativa, controllare la legalità dell'azione amministrativa e rogare i contratti. Per tale ultimo compito, il dirigente apicale dovrà possedere i «prescritti requisiti» che, non essendo attualmente prescritti, verosimilmente saranno indicati dal decreto legislativo attuativo.
In prima approssimazione, in attesa dei decreti delegati, si può ritenere che non potranno svolgere il ruolo di «dirigente apicale» dirigenti appartenenti all'area tecnica e, comunque, quelli privi di una specifica competenza di carattere giuridico amministrativa, fondamentali sia per la funzione rogante sia, soprattutto, per il controllo di legalità dell'azione amministrativa.
Occorre chiedersi, allora, se tali requisiti dovranno essere posseduti anche dai direttori generali esterni, dal momento che nei comuni con popolazione superiore ai 100 mila abitanti e nelle città metropolitane potranno essere incaricati in alternativa. La risposta appare negativa: infatti, negli enti nei quali opereranno i direttori generali la funzione rogante e di controllo della legalità amministrativa saranno affidate a un altro dirigente di ruolo (articolo ItaliaOggi del 07.08.2015).

PUBBLICO IMPIEGO: Dirigenti, la retrocessione salva. Niente licenziamento col demansionamento a funzionario. Toccherà ai decreti attuativi della riforma Madia definire i casi di decadenza dal ruolo.
Il demansionamento salva i dirigenti responsabili di cattiva gestione dal licenziamento. La legge delega di riforma della pubblica amministrazione
(Atto Senato n. 1577-B), approvata in via definitiva martedì dal Senato, prevede una regolazione della decadenza e conseguente licenziamento dei dirigenti dai ruoli unici che desta molte perplessità.
Il legislatore delegante rimette ai successivi decreti legislativi attuativi il compito di elaborare una «disciplina della decadenza dal ruolo unico a seguito di un determinato periodo di collocamento in disponibilità successivo a valutazione negativa».
Ciò significa che spetta al legislatore delegato stabilire per quanto tempo un dirigente di ruolo potrà permanere senza incarico dirigenziale a disposizione del ruolo, a causa di una sua valutazione negativa, prima di decadere e vedersi risolvere il rapporto di lavoro.
Compito del legislatore delegato sarà quanto meno chiarire cosa si intenda per «valutazione negativa» (una soglia assoluta o relativa di punteggio minimo? Un danno grave?), e la durata della disponibilità. In più, il legislatore delegato dovrà anche attuare l'ulteriore criterio di delega secondo il quale i decreti legislativi dovranno contenere la «previsione della possibilità, per i dirigenti collocati in disponibilità, di formulare istanza di ricollocazione in qualità di funzionario, in deroga all'articolo 2103 del codice civile, nei ruoli delle pubbliche amministrazioni». Il demansionamento, dunque, può salvare il dirigente collocato a disposizione nel ruolo dal licenziamento.
Se per un verso la disposizione può essere valutata positivamente perché costituisce una tutela nel lavoro, gli aspetti controversi sono, tuttavia, moltissimi.
Si tratta di un demansionamento molto diverso da quello previsto nell'ambito privato dall'articolo 3 del dlgs 81/2015, attuativo del Jobs act. In questo caso, l'assegnazione del lavoratore a mansioni inferiori deve dipendere dal «caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore», dunque da giustificazioni di tipo oggettivo, legate all'organizzazione del lavoro: come ad esempio la soppressione di una fase operativa della produzione. In questo caso, dunque, il lavoratore subisce il demansionamento non per proprie responsabilità nell'esecuzione della prestazione lavorativa, ma per esigenze di carattere aziendale.
La legge delega, invece, consente il demansionamento da dirigente a funzionario come tutela in favore di dirigenti che abbiano, come visto, ricevuto una valutazione negativa. Significa, quindi, che tali dirigenti hanno visto interrompere lo svolgimento dell'incarico dirigenziale per non aver saputo conseguire i risultati previsti dalla pianificazione gestionale ad un livello minimamente accettabile, sì da ricevere una valutazione insoddisfacente. In questo caso, allora, il demansionamento deriverebbe non da esigenze aziendali, ma sarebbe causato da un inadempimento evidentemente grave nell'esecuzione della prestazione lavorativa e, dunque, da una causa soggettiva.
Se il demansionamento come misura di tutela nel posto di lavoro per il lavoratore che subisca una riorganizzazione aziendale, senza essere incorso in manchevolezze nella propria attività, può anche avere una sua giustificazione, meno persuasiva appare la soluzione per la dirigenza indicata dalla legge delega. Infatti, il demansionamento finirebbe per conservare, sia pure ad un livello di carriera più basso, non un lavoratore involontariamente coinvolto da modifiche dell'assetto organizzativo, ma chi si sia reso autore di un'azione gestionale incapace di conseguire risultati determinati. Insomma, il demansionamento salverebbe dal licenziamento per giustificato motivo soggettivo.
La legge delega finisce, così, addirittura per affievolire il sistema della responsabilità dirigenziali attualmente disciplinato dall'articolo 21 del dlgs 165/2001, che a seconda della gravità del mancato conseguimento degli obiettivi gestionali o della violazione di direttive imputabile ai dirigenti, prevede la mancata conferma dell'incarico, o la revoca anticipata o perfino la risoluzione dal rapporto di lavoro. A meno che il legislatore delegato non introduca un sistema di graduazione delle responsabilità connesse alla «valutazione negativa», dunque, il demansionamento previsto finisce per essere un'ancora di salvezza dal licenziamento per giustificato motivo oggettivo davvero difficilmente giustificabile (articolo ItaliaOggi del 06.08.2015).

ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Un colpo di frusta alla p.a.. Licenziamenti più facili. Dirigenti, incarichi a tempo. Il Senato ha approvato definitivamente il disegno di legge Madia con la riforma.
Licenziamenti più facili grazie alla riduzione dei tempi dei procedimenti disciplinari. Ricambio generazionale grazie alla riduzione, su base volontaria, dell'orario di lavoro e degli stipendi degli statali in procinto di andare in pensione per favorire l'assunzione di nuovo personale.
Ruolo unico per i dirigenti statali. Per i manager pubblici sono previsti incarichi a termine (4 anni+2) trascorsi i quali dovranno necessariamente partecipare alle procedure di avviso pubblico. I manager che restano senza incarico potranno chiedere di essere «retrocessi» al ruolo di funzionari. Oppure rimanere in disponibilità. Uno status che però non costituirà più l'anticamera del licenziamento, visto che per essere cancellati dal ruolo, oltre al prolungato periodo di inattività, sarà necessario aver riportato una valutazione negativa. Dovranno invece lasciare l'incarico i dirigenti condannati, anche in via non definitiva, dalla Corte conti per danno erariale.
Con 145 voti a favore, 97 contrari e nessun astenuto la riforma della pubblica amministrazione targata Marianna Madia diventa legge.
Il ddl delega
(Atto Senato n. 1577-B) è stato approvato in terza lettura dal senato, grazie anche all'atteggiamento responsabile delle opposizioni che non sono uscite dall'aula garantendo il numero legale. Per il governo si tratta di un tassello fondamentale per il riammodernamento della p.a.. Secondo le opposizioni, invece, gli effetti concreti a favore di cittadini e imprese sarebbero limitati, mentre il leit motiv del ddl sarebbe il rafforzamento dei poteri di palazzo Chigi a discapito delle altre articolazioni della p.a. centrale.
Ora la palla passa ai decreti attuativi (se ne contano una quindicina) molti dei quali, assicurano alla Funzione pubblica, sono già in avanzata fase di elaborazione. E' il caso per esempio delle norme su silenzio assenso e conferenze dei servizi che dovrebbero velocizzare i tempi della burocrazia. Le p.a. avranno 30 giorni (elevabili a 90 se si tratta di amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistica, della salute e dei beni culturali) per dare il proprio assenso, nulla osta o concerto a un provvedimento. In mancanza, il via libera si intenderà per acquisito.
Tempi ridotti del 50% anche per i procedimenti relativi alle grandi opere. Entro 18 mesi però la p.a. potrà tornare sui propri passi revocando i provvedimenti, anche quelli frutto di silenzio-assenso. Tra le altre novità per i cittadini si segnala l'istituzione del numero unico europeo 112 per le emergenze, la cancellazione del Pubblico registro automobilistico (le cui funzioni passeranno alla Motorizzazione civile) e la possibilità di effettuare pagamenti alla p.a. in via digitale e elettronica, anche attraverso il telefonino.
Il secondo step per l'attuazione della delega riguarderà le norme che puntano a snellire l'elefantiaco apparato della p.a. soprattutto nelle sue articolazioni territoriali. Dal taglio delle prefetture a quello delle camere di commercio (che si ridurranno da 105 a 60), dalla soppressione del Corpo Forestale dello stato (che dovrebbe confluire nei Carabinieri), alla razionalizzazione degli uffici pubblici (da realizzare accorpando in immobili comuni le diverse amministrazioni dello stato sul territorio).
Dulcis (si fa per dire) in fundo: riforma della dirigenza e del pubblico impiego. I dlgs sulle materie a più alto tasso di conflittualità con i sindacati saranno emanati per ultimi (articolo ItaliaOggi del 05.08.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Niente più direttori generali nelle province. Senza attendere i dlgs attuativi.
Niente più direttori generali nelle province. Tra i criteri di delega contenuti nell'articolo 11, comma 1, lettera b), n. 4), del disegno di legge delega di riforma della p.a. vi è la «previsione della possibilità, per le città metropolitane e i comuni con popolazione superiore a 100.000 abitanti di nominare, in alternativa al dirigente apicale, un direttore generale ai sensi dell'articolo 108 del citato testo unico di cui al decreto legislativo, 267 del 2000 e previsione, in tale ipotesi, dell'affidamento della funzione di controllo della legalità dell'azione amministrativa e della funzione rogante a un dirigente di ruolo».

La legge delega
(Atto Senato n. 1577-B), dunque, innova il vigente ordinamento ed elimina dall'elenco degli enti aventi la facoltà di incaricare un direttore generale le province. Infatti, la previsione citata sopra elenca espressamente gli enti che dispongono di tale facoltà, indicandoli nei soli comuni con popolazione superiore ai 100.000 abitanti e nelle città metropolitane.
Si deve necessariamente concludere, perciò, che le province non potranno più incaricare un direttore generale, ai sensi dell'articolo 108 del dlgs 267/2000.
Occorre capire se l'esclusione per le province della facoltà di avvalersi del direttore generale operi da subito, oppure se sia connessa all'approvazione del decreto legislativo attuativo della legge delega.
Milita in favore della seconda ipotesi, cioè del rinvio della norma alla successiva attuazione, la circostanza che occorra attenere la formazione del ruolo unico dei dirigenti locali, perché l'intera fattispecie possa dirsi completa e, dunque, si possa attivare il periodo transitorio triennale nel quale attribuire al «dirigente apicale» tratto dagli ex segretari comunali, le funzioni di attuazione dell'indirizzo politico, roganti, coordinamento amministrativo e controllo della legalità.
In favore della prima tesi, quella secondo la quale per le province cessa ogni possibilità di avvalersi del direttore generale sin dalla vigenza della legge delega hanno pregio altre considerazioni di sostanza. La principale è che la figura del direttore generale, a differenza –ancora oggi– di quella del segretario comunale è solo facoltativa e non obbligatoria. Nulla, dunque, impone alle province di avvalersi del direttore generale.
Il criterio di delega come quello in argomento ha certamente l'effetto di novare, indirettamente, l'ordinamento giuridico, attraverso una modifica implicita del citato articolo 2, comma 186, lettera d), della legge 191/2009, che viene sostanzialmente integrato di una nuova e diversa identificazione degli enti abilitati ad avvalersi del direttore generale, tra i quali le province sono assenti.
Dunque, l'effetto di innovazione della legge delega deve considerarsi immediato e non rimesso all'entrata in vigore dei decreti legislativi attuativi. Sicché le province debbono considerarsi private della facoltà di incaricare un direttore generale dalla data di entrata in vigore della legge delega.
Quale che sia la tesi considerata più corretta, si apre l'altro problema: cosa ne è degli incarichi di direttore generale attribuiti dalle province prima dell'entrata in vigore della legge delega?
I principi generali di diritto comune portano a ritenere che i rapporti contrattuali in corso non possano essere incisi negativamente dalla legge, posto per altro che essa in termini generali opera solo per il futuro. Si potrebbe, dunque, concludere per la conservazione degli effetti degli incarichi di direzione generale già attribuiti dalle province, sino alla loro scadenza.
Tale tesi, tuttavia, pone da subito un problema di legittimità della spesa connessa, per incarichi retribuiti, una volta venuto a mancare il titolo giuridico per incaricare il direttore generale.
In ogni caso, una volta entrati in vigore i decreti legislativi attuativi della delega, non vi sarà più alcun dubbio che la funzione di «dirigente apicale» nelle province non potrà essere «scissa» tra direttore generale e dirigenti amministrativi, per la semplice ragione che le province non potranno avvalersi del direttore generale.
Dunque, è da ritenere che sicuramente dalla data di entrata in vigore dei decreti legislativi attuativi, gli incarichi ai direttori generali delle province si dovranno considerare decaduti automaticamente, ex lege. Ma probabilmente tale conseguenza è da far discendere direttamente dalla legge delega, che, come rilevato sopra, modifica da subito l'ordinamento, escludendo in capo alle province la possibilità di incaricare i direttori generali (articolo ItaliaOggi del 05.08.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Province, stop al boicottaggio. Sanzioni alle regioni che non riallocano le funzioni. Convertito il dl enti locali. Un minitagliando alla legge Delrio divenuto un omnibus.
È diventato un minitagliando alla legge Delrio il decreto «enti locali» (dl 78/2015), che ieri ha ottenuto il disco verde definitivo da parte della camera. Anche grazie alla blindatura decisa dal governo che ha chiesto la fiducia all'aula di Montecitorio (i sì sono stati 364, i no 185).

Molti fra i correttivi introdotti dal parlamento mirano proprio a far ripartire la riforma di province e città metropolitane, che ad oltre un anno dall'approvazione della legge 56/2014 ha fatto registrare pochi passi avanti.
La novità principale è l'introduzione di un meccanismo di tipo sostanzialmente sanzionatorio a carico delle regioni che continueranno a boicottare il percorso di riallocazione delle funzioni sulla carta non più di competenza degli enti di area vasta, ma che attendono di trovare un nuovo padrone. I governatori dovranno provvedere entro il prossimo 31 ottobre, se non vorranno vedersi costretti a mettere mano al portafogli per finanziare le funzioni non trasferite.
Sarà un dm a calcolare quanto dovrà essere versato dalle amministrazioni regionali inadempienti entro il 30 novembre per il 2015 ed entro il 30 aprile negli anni successivi. In questo modo il governo spera di mettere un toppa al buco che si è aperto nei conti delle ex province, mentre queste ultime, in base a un altro correttivo al dl 78 approvato durante l'iter parlamentare, per quest'anno predisporranno un bilancio di previsione solo annuale. Per il futuro, si vedrà, visto che gli ulteriori tagli previsti dall'ultima legge di stabilità mettono a rischio anche le funzioni rimaste a tali enti.
Diverse modifiche mirano a sciogliere l'altro nodo delicato della riforma, strettamente connesso a quello delle funzioni, ossia la ricollocazione del personale, nel tentativo anche in questo caso, di accelerare il percorso. Anche per i comuni non mancano le novità, come la destinazione delle somme residue (pari a 29 milioni) sul fondo di solidarietà 2014 agli enti che hanno subito più forti riduzioni di assegnazioni a seguito dell'applicazione del riparto perequativo del 20% del fondo 2015, basato sulle capacità fiscali ed i fabbisogni standard.
Infine, il dl ha imbarcato anche misure che nulla hanno a che fare con gli enti locali, a partire da quelle che puntano a risolvere il caos organizzativo delle agenzie fiscali causato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 37/2015 (articolo ItaliaOggi del 05.08.2015).

ENTI LOCALI - VARICarta d'identità del donatore. Le disposizioni sugli organi indicate all'ufficio comunale. La direttiva del ministero dell'interno spinge i cittadini a manifestare la propria volontà.
I cittadini maggiorenni, all'atto del rilascio o del rinnovo della carta d'identità, potranno fornire all'ufficio comunale il proprio assenso o diniego alla donazione di organi e tessuti a scopo di trapianto. A tal fine, i comuni, nelle more del definitivo decollo di questa possibilità, potranno avviare campagne informative ad hoc dirette ai cittadini.

È quanto si prefigge la
nota 29.07.2015 n. 2128 di prot. del Ministero dell'Interno, emanata in ossequio alle disposizioni contenute, da ultimo, all'articolo 3, comma 8-bis, del dl n. 194/2009, ove si dispone che la carta d'identità può altresì contenere l'indicazione del consenso o del diniego a donare gli organi in caso di morte.
Con la novella legislativa indicata, il legislatore ha inteso fornire un ulteriore strumento ai cittadini per registrare la dichiarazione di volontà, ovvero al momento del rilascio o del rinnovo del documento d'identità.
Ciò consentirà di raggiungere in modo progressivo e costante tutti i cittadini maggiorenni che saranno invitati dall'operatore dell'ufficio anagrafe a manifestare il proprio consenso o diniego alla donazione di organi.
Al centro della procedura, pertanto, vi è l'interfaccia tra le amministrazioni comunali e il Sistema informativo dei trapianti (Sit). Un passo che, ammette lo stesso Viminale, non sarà immediato, in considerazione della ingente mole di dati che affluirà al predetto Sit da parte dei comuni.
Tuttavia, nelle more, il documento in esame precisa che la dichiarazione al consenso o al diniego sia resa in duplice copia; di queste, una resterà presso gli archivi comunali e l'altra al dichiarante come ricevuta. Solo se il cittadino lo consentirà, il consenso o diniego potrà essere riportato sulla quarta facciata del documento di riconoscimento con una formula che recita: «Assenso alla donazione di organi», ovvero «Diniego alla donazione di organi e tessuti». La decisione del cittadino, così acquisita, verrà trasmessa telematicamente al Sit per l'implementazione della relativa banca dati.
Viene precisato, infine, che la manifestazione di volontà non è certo definitiva, potendo ben essere cambiata in qualsiasi momento. In tali casi, il cittadino dovrà recarsi all'Asl di appartenenza o, limitatamente in caso di rinnovo della carta d'identità, anche presso l'ufficio anagrafe del comune e ricompilare il modulo con cui si sceglie la nuova volontà (articolo ItaliaOggi del 05.08.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti pericolosi, più alti i limiti per l’ecotossicità. Ambiente. Con la conversione del decreto legge 78/2015.
L’attribuzione ai rifiuti pericolosi della caratteristica di pericolo HP 14 (ecotossico) sta per ricollocarsi provvisoriamente all’interno dei criteri Adr, criteri già introdotti dalla legge 28/2012.
Lo stabilisce il comma 9-ter dell’articolo 7 del Ddl di conversione in legge del Dl 78/2015 in materia di enti territoriali che oggi verrà approvato alla Camera con il voto di fiducia.
L’emendamento, in attesa di specifici criteri europei europei, prevede l’attribuzione della caratteristica di pericolo «ecotossico» ai criteri Adr già voluti dalla legge 28/2012 anche se, dallo scorso 1° giugno, sono entrati in vigore il regolamento Ue 1357/2014 e la decisione 2014/955/Ue: il primo con le nuove indicazioni europee per attribuire le caratteristiche di pericolo ai rifiuti; la seconda con il nuovo elenco europeo dei rifiuti.
Il problema si è posto perché sulla caratteristica di pericolo HP 14 il regolamento 1357/2014 contiene una nota sulla sua attribuzione. La nota rinvia in modo statico ai criteri della direttiva 67/548, allegato VI. Pertanto, anche se la direttiva è abrogata dal 01.06.2015, l’allegato VI (fino al 28° adeguamento) mantiene la sua vigenza. Fermo restando che anche quello europeo è un criterio provvisorio, in attesa dei nuovi canoni che la Commissione Ue darà. Il richiamo all’allegato VI è presente anche nel preambolo della decisione 2014/955/Ue.
Tuttavia, i resoconti ufficiali delle riunioni preparatorie del regolamento 1357/2014 effettuate sul tema attestano che la Commissione Ue avrebbe voluto lasciare gli Stati membri liberi di utilizzare i propri criteri di valutazione dell’ecotossicità. Lo stesso è scritto nella bozza di linea guida Ue sulla classificazione dei rifiuti in corso di elaborazione presso la Commissione.
Per questi motivi molte letture militano a favore dell’utilizzo dei criteri Adr per la classe 9-M6 e M7, già vigenti a seguito della legge 28/2012. A differenza del regolamento 1357/2014 e della decisione 2014/955, però, né i resoconti né la bozza di linea guida sono norme.
Ora tali criteri Adr stanno per essere rivalidati a livello nazionale dalla conversione del Dl 78/2015 che ristabilisce lo “status quo ante” per l’attribuzione della caratteristica di pericolo HP14 ai rifiuti; infatti, nella norma si legge che tale metodica dovrà essere seguita, «nelle more dell’adozione da parte della Commissione europea» di criteri specifici per favorire la «corretta gestione» dei centri di raccolta comunale e per «l’idonea classificazione dei rifiuti».
Con parere 14.05.2015 il Consiglio di Stato si esprimeva su uno schema di decreto, mai emanato, che avrebbe favorito la lettura integrata delle nuove norme Ue con il Codice ambientale. In quel decreto figurava il richiamo all’Adr per l’HP 14 ma il Consiglio di Stato non si pronunciava favorevolmente in ordine a tale richiamo. Del resto l’articolo 288 del Trattato Ue attribuisce ai regolamenti natura di atto normativo prevalente sulle disposizioni nazionali di segno contrario
 (articolo Il Sole 24 Ore del 04.08.2015).

EDILIZIA PRIVATA - VARIServitù di parcheggio con contratti a regola d’arte. Diritti reali. Studio del Notariato dopo la «stretta» della Cassazione.
Sono validi il contratto o la clausola contrattuale con cui si costituisca una servitù di parcheggiare a favore di un fondo (dominante) e a carico di un altro fondo (servente). Quando dunque la Cassazione ha sancito con la sentenza 23708/2014 la nullità della servitù di parcheggio non ha dichiarato l’inconfigurabilità in assoluto della servitù di parcheggio, ma ha ritenuto che le servitù esaminate nel caso specifico non avessero i requisiti per ritenere valido il diritto di servitù; in questo senso andrebbe quindi intesa l’affermazione della sentenza n. 23708 secondo cui la servitù di parcheggio sarebbe nulla per «impossibilità dell'oggetto».
È quanto affermato dal Consiglio nazionale del Notariato nello studio 06-08.05.2015 n. 1094-2014/C e recentemente divulgato. Secondo i notai, non è in discussione se la servitù di parcheggio si possa costituire, ma come lo si faccia.
E' uno di quei casi in cui la pronuncia non può essere letta solo per i principi che reca, ma anche per il fatto concreto osservato nel corso della controversia. Per questo parrebbe opportuno che i giudici di legittimità ponessero maggiore attenzione alle espressioni utilizzate, segnalando, ad esempio, che il principio enunciato non è generalizzabile perché legato al caso specifico: se invece, come accaduto per la sentenza 06.11.2014 n. 23708 della Corte di Cassazione, Sez. II civile, la motivazione sia limitata in pochissime righe, nelle quali concetti assai “pesanti” come quello di “impossibilità dell'oggetto” sono branditi senza adeguate precisazioni, le sentenze corrono il rischio di essere ricordate come inappropriate, poiché da esse non è desumibile alcun principio utilizzabile in altre situazioni.
Nello Studio del Notariato si rammentano anzitutto gli elementi indispensabili per costituire validamente anche la servitù di parcheggio, dopo aver ricordato che il contenuto delle servitù può essere liberamente determinato, poiché quante sono le utilità che un fondo può conferire ad altro fondo (transito, veduta eccetera), tante sono le corrispondenti servitù che possono essere istituite. In particolare:
a) la servitù deve avere il requisito dell’immediatezza, vale a dire che il titolare del fondo dominante deve potersi avvalere dell’utilità che deriva dalla servitù, senza l’altrui collaborazione (e, in particolare, la collaborazione del titolare del fondo servente);
b) la servitù deve essere costituita per un utilità specifica (i diritti di usufrutto, uso e abitazione consentono, invece, al loro titolare un utilizzo generico del bene, nei limiti della definizione data dal legislatore) mentre non può consistere in un godimento generale o generico del fondo asservito;
c) la servitù deve essere inerente sia al fondo servente (come gravame di detto fondo) sia al fondo dominante (deve dare utilità a tale fondo), con la conseguenza che l’atto traslativo che abbia a oggetto i fondi trascina con sé la servitù impressa su di essi;
d) la servitù deve apportare una utilità al fondo dominante (e non essere un vantaggio personale del proprietario).
E' quest’ultimo l’aspetto più critico in quanto non è concepibile l’utilità di un bene indipendente da quella delle persone che ne godono, il che rende assai complesso discriminare il vantaggio puramente personale da quello conseguito come titolare di un bene.
Questo problema dunque andrebbe risolto –secondo lo Studio del Notariato– nel senso di ritenere che l’utilità giunge al titolare del fondo dominante attraverso il godimento di tale fondo; in altre parole, la servitù deve dare incremento alla utilizzazione del fondo dominante e deve essere strumentale all’utilizzazione del fondo dominante. Insomma, il passeggiare sul fondo altrui (o il pranzare sul fondo altrui) possono anche essere l’oggetto di un diritto di servitù, se ad esempio il fondo servente sia un albergo e il gravame del fondo altrui sia funzionale all’esercizio dell’attività che si svolge sul fondo dominante.
Anche la servitù di parcheggio dunque, se presenta, in particolare, i caratteri della immediatezza, della “doppia” inerenza (al fondo dominante e a quello servente), della vicinanza e della specificità (ovvero della sua localizzazione sul fondo servente) è validamente impostabile come il diritto di far stazionare uno o più veicoli, di un determinato tipo, sul fondo altrui, per dotare di detta utilità un altro immobile, cui sia connaturata una presenza umana per periodi continuativi, ad esempio, per esigenze abitative, professionali o imprenditoriali
(articolo Il Sole 24 Ore del 04.08.2015).

EDILIZIA PRIVATA - VARI: Parcheggi, servitù viva. Ma la piazzola va individuata chiaramente. Studio del Notariato sugli effetti di una sentenza della Cassazione.
La servitù di parcheggio sopravvive. Ma bisogna essere chiari nell'individuare esattamente la piazzola di posteggio, destinata alla fruizione esclusiva dell'interessato.

Questo vale anche dopo la sentenza 06.11.2014 n. 23708 della Corte di Cassazione, Sez. II civile, che solo apparentemente ne ha dichiarato la nullità. La Corte ha, infatti, cassato solo alcune clausole.
È quanto sostenuto dallo
studio 06-08.05.2015 n. 1094-2014/C
del Consiglio nazionale del notariato, che propone un modello standard di contratto costitutivo.
Lo studio chiarisce, quindi, che anche il parcheggio possa esser il contenuto di una servitù volontaria, diritto reale e quindi tipico ma a contenuto atipico o più esattamente libero.
Per la sua validità, sono necessari alcuni requisiti.
Tra questi lo studio evidenzia che la localizzazione e cioè la determinazione del luogo in cui si eserciterà la servitù sia un requisito imprescindibile.
L'utilizzo del parcheggio deve essere, spiega lo studio, godimento della proprietà dell'immobile dominante, perché si tratta del parcheggio dell'abitazione (o dell'ufficio, dell'albergo, o di una fabbrica). In effetti, prosegue il documento, parcheggiare significa esercitare il diritto di accedere con la propria vettura (o dei propri clienti, ospiti, dirigenti, impiegati, operai, trasportatori) all'abitazione (o all'ufficio, all'albergo, azienda) oppure di allontanarsene con lo stesso mezzo.
Nel contratto di costituzione della servitù bisogna stabilire dove esattamente si debba sostare e, quindi, dove sia il posteggio.
La mancata indicazione del fondo servente in senso proprio rende indeterminato il diritto ed insussistente il possesso. L'oggetto della convenzione potrebbe rivelarsi indeterminato e la servitù è nulla.
Se in un'area non è individuata la porzione di fondo adibita a parcheggio non è un diritto reale di servitù (la piazzola la uso io e io solo), ma solo un rapporto di tipo obbligatorio: il proprietario è obbligato a far trovare di volta in volta un posto di parcheggio alla sua controparte contrattuale.
Per spiegare il concetto i notai fanno l'esempio di un'area per dieci auto, in cui rimangano in genere dei posti vuoti, su cui si voglia costituire un diritto di sosta a favore del vicino, ma non venga definito il posteggio specifico. Il vicino non avrà alcuna situazione di possesso di questa o quella piazzola, dovendo di volta in volta trovare un posto non occupato da altri: non è una servitù, ma è un rapporto di tipo obbligatorio e le parti conteranno sul fatto che, in un posto o nell'altro, il vicino potrà sempre parcheggiare.
Il requisito si chiama «inerenza dell'utilità al fondo dominante» e cioè l'utilità che ne trae chi ha la necessità di parcheggiare. È questo è un punto giuridicamente molto delicato, perché bisogna distinguere l'utilità personale dall'utilità tipica del diritto reale (che riguarda i beni).
La via di uscita, individuata dai notai, si basa sulla definizione dell'utilità al fondo come «incremento all'utilizzazione del fondo dominante», intesa nel senso che l'esercizio della servitù dev'essere strumentale alla fruizione del fondo dominante stesso. La conseguenza è che godere della servitù di parcheggio significa contemporaneamente godere di esso. I notai richiamano il concetto di «fruizione contemporanea» dei due fondi.
L'atto di esercizio del diritto di servitù di parcheggio, spiegano i notai, costituisce una fruizione contemporanea del parcheggio e dell'abitazione o dell'edificio che ne fa uso; e ha, da questo punto di vista, una duplicità di oggetto.
In sostanza la servitù di parcheggio somiglia alla servitù industriale, cioè quella costituita per ospitare nel fondo un'industria o un'attività commerciale.
In conclusione non si può dire che la servitù di parcheggio non esista. Il problema è scrivere bene le clausole contrattuali: se si vuole stabilire un diritto reale non si può trascurare di identificare esattamente i fondi, con dati catastali, confini e dimensioni dell'area di esercizio della servitù di parcheggio (articolo ItaliaOggi del 04.08.2015).

PUBBLICO IMPIEGO: Non tutti i vigili provinciali saranno in sovrannumero.
Per i comuni si apre la possibilità di assumere vigili stagionali ed educatori e docenti nelle scuole materne e asili nido.

Le modifiche introdotte dal senato al decreto enti locali (dl 78/2015), su cui oggi, come annunciato dal ministro per le riforme, Maria Elena Boschi, il governo chiederà la fiducia alla camera, recuperano alcune delle previsioni inizialmente inserite nei testi in bozza del decreto, poi sparite dalla redazione finale, consentendo ai comuni di fare finalmente fronte nei settori più delicati della loro attività.
Vigili stagionali. Le modifiche introdotte al senato riscrivono in modo radicale l'articolo 5 del dl 78/2015. La più rilevante novellazione è quella che riguarda i vigili stagionali. La norma prevede che «sono fatte salve le assunzioni di personale a tempo determinato effettuate dopo l'entrata in vigore del presente decreto, anche se anteriormente alla data di entrata in vigore della relativa legge di conversione, per lo svolgimento di funzioni di polizia locale, esclusivamente per esigenze di carattere strettamente stagionale e comunque per periodi non superiori a cinque mesi nell'anno solare, non prorogabili».
Come si nota, non si tratta propriamente di una disposizione che autorizza gli enti ad assumere vigili stagionali, bensì di un'inusitata sanatoria: il maxiemendamento sana la nullità assoluta delle assunzioni effettuate dai comuni in violazione delle disposizioni dell'articolo 5 del dl 78/2015, ammettendo indirettamente l'irrazionalità di tale testo, ma introducendo un pericoloso precedente. Tuttavia, il maxiemendamento votato dal senato lascia ancora fermo il divieto per i comuni di assumere personale di polizia municipale al di fuori di quello da acquisire in mobilità dalle province.
Sicché, si assiste al paradossale effetto di considerare espressamente legittime assunzioni effettuate in violazione del divieto imposto dal dl 78/2015, «premiando» i comuni che avevano infranto la norma; contestualmente, restano penalizzati i comuni che hanno rispettato il divieto contenuto nell'articolo 5 del dl 78/2015 e non hanno assunto gli stagionali, per i quali non c'è la norma che ne autorizza espressamente l'assunzione.
Mobilità dei vigili provinciali. Il maxiemendamento conferma che i componenti dei corpi di polizia provinciale andranno in mobilità verso i comuni, per svolgere funzioni di polizia municipale, ma corregge parzialmente il tiro, in modo per altro piuttosto confuso.
Si demanda a province e città metropolitane il compito di individuare chi, all'interno del personale di polizia locale, sia da considerare necessario per le funzioni fondamentali: si presume quelle connesse alla tutela dell'ambiente e regolazione della circolazione stradale. Sicché, non tutta la polizia provinciale sarà in sovrannumero. Questo comporterà scompensi nelle province, perché per rispettare l'obbligo di tagliare il costo delle dotazioni organiche del 50%, altro personale dovrebbe essere messo in sovrannumero, al posto dei vigili considerati indispensabili per le funzioni fondamentali.
In secondo luogo, il maxiemendamento prevede che le regioni con leggi da emanare entro il 31 ottobre riallochino il rimanente personale della polizia provinciale nell'ambito delle funzioni non fondamentali acquisite dalle regioni stesse o trasferite da esse ad altri enti. I componenti dei corpi di polizia provinciale dovranno, comunque, passare in mobilità ai comuni, qualora entro il 31 ottobre le province e le città metropolitane non abbia individuato quello destinato alle funzioni fondamentali, oppure, sempre entro la stessa data, le regioni non abbiano legiferato in merito.
Personale della scuola. Sì ad assunzioni a tempo indeterminato di educatori e docenti. Il maxiemendamento introduce un nuovo secondo periodo nel corpo dell'articolo 1, comma 424, della legge 190/2014, consentendo ai comuni di attivare concorsi ed assumere a tempo indeterminato «personale in possesso di titoli di studio specifici abilitanti o in possesso di abilitazioni necessarie per lo svolgimento delle funzioni fondamentali relative all'organizzazione e gestione dei servizi educativi e scolastici» (articolo ItaliaOggi del 04.08.2015).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: Via libera al Durc online con rate e mini-debiti. Regolarità contributiva anche con pendenze fino a 150 euro.
Semplificazioni. La procedura telematica avviata il 1° luglio e i requisiti per il certificato.
Possono ottenere il documento di regolarità contributiva con la nuova procedura telematica partita il 1° luglio (Durc online) anche le aziende che hanno in corso una rateizzazione dei versamenti e quelle che hanno uno «scostamento» non superiore a 150 euro tra le somme dovute e quelle effettivamente versate.
Sono questi due elementi di flessibilità della procedura di semplificazione del Durc prevista dal Dl 34/2014 (articolo 4) e avviata con il decreto ministeriale del 30.01.2015.
Il Durc online può portare a indubbi vantaggi in termini di velocità nell’acquisizione del documento unico di regolarità contributiva ma è bene conoscere nel dettaglio tutti i risvolti di maggior rilievo, soprattutto con riferimento alle situazioni che possono generare criticità nel rilascio del documento.
Intanto, va detto che l’ambito oggettivo della verifica comprende i pagamenti nei confronti di Inps, Inail e Casse edili scaduti sino all’ultimo giorno del secondo mese antecedente a quello in cui è effettuata. La disposizione presuppone che sia scaduto anche il termine di presentazione delle correlate denunce retributive.
Lo stesso decreto fa salvo il rilascio della regolarità in particolari condizioni, come quelle di crisi dell’impresa:
- in pendenza di rateizzazioni concesse dagli enti coinvolti nel processo di verifica o dagli agenti della riscossione;
- nei casi di sospensione dei pagamenti in forza di disposizioni legislative;
- quando sussistono crediti (verificati) in fase amministrativa oggetto di compensazione;
- in presenza di crediti, sempre in fase amministrativa in pendenza di contenzioso amministrativo o giudiziario, ricorrendo particolari presupposti;
- qualora vi siano crediti affidati per il recupero agli agenti della riscossione, nei confronti dei quali sia stata operata la sospensione della cartella di pagamento.
Sulle rateizzazioni, è importante ricordare che -con riferimento alle dilazioni concesse dall’agente della riscossione– il debitore può conservarne il beneficio anche omettendo il versamento di otto rate (non necessariamente consecutive). Questo può avvenire nell’ambito di un piano di ammortamento di 72 o di 120 rate (articolo 19 del Dpr 602/1973, salvo modifiche che potrebbero arrivare con l’attuazione della delega fiscale).
Un’altra facilitazione risiede nell’ipotesi dello scostamento «non grave» che non fa scattare l’irregolarità se la differenza tra le somme dovute e quelle versate si attesta su importi pari o inferiori a 150 euro. Il valore deve essere considerato con riferimento ai singoli enti: nel caso dell’Inps, si applica a ciascuna gestione (dipendenti, Co.co.co, datori di lavoro agricoli con dipendenti, lavoratori autonomi artigiani e commercianti, lavoratori autonomi agricoli, lavoratori dello spettacolo e dello sport professionistico) nella quale si è originata la scopertura, considerando sia i contributi che le sanzioni civili.
Per l’Inail l’importo dei 150 euro deve essere invece considerato distintamente, secondo il seguente criterio: come sommatoria delle diverse scoperture, con riferimento alle tariffe industria, artigianato, terziario, altre attività e premi speciali; come totale insoluto della gestione navigazione; come totale insoluto delle polizze per apparecchi radiologici e sostanze radioattive.
Una particolare attenzione deve essere posta nei casi di irregolarità, emersa dal controllo nelle singole gestioni degli enti coinvolti: qui il sistema non sarà in grado di emettere il Durc in tempo reale e informerà il richiedente che sono in corso verifiche. L’esito finale dell’interrogazione sarà successivamente comunicato all’indirizzo Pec (dell’interessato o dell’intermediario) indicato nell’applicativo in fase di accesso.
L’articolo 4, comma 1, del Dm prevede che –in questa ipotesi– sia inviato al richiedente o all’intermediario delegato l’invito a regolarizzare la posizione, nel termine di 15 giorni. In realtà, come ha precisato il ministero del Lavoro con la circolare 19/2015, l’ente coinvolto non potrà dichiarare l’irregolarità prima che siano trascorsi 30 giorni dall’iniziale interrogazione del Durc online, consentendo così di ritenere validi anche i versamenti effettuati successivamente alla scadenza dei termini del preavviso ma comunque avvenuti nell’arco dei 30 giorni.
Infine, una particolarità riguarda la verifica dei lavoratori iscritti alle gestioni dei lavoratori autonomi artigiani e commercianti. Per questi soggetti bisogna effettuare una doppia verifica: all’Inail per quanto concerne gli aspetti assicurativi e all’Inps per il controllo della regolarità della posizione Inps dei soci (si pensi a una Snc con diversi soci artigiani).
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LA RICHIESTA DEL DOCUMENTO
L’utente che ha le credenziali accede al portale Inps o a quello dell’Inail e seleziona il servizio Durc online.
Sceglie la funzione «Consultazione Regolarità», inserisce il codice fiscale del soggetto di cui si richiede la verifica e clicca su «Consulta regolarità»: se è già presente un documento di regolarità in corso di validità, questo può essere visualizzato e scaricato in formato Pdf.
In caso contrario, bisogna utilizzare la funzione «Richiesta regolarità».
A quel punto, se altri hanno già richiesto la verifica, il portale avvisa l’utente e fornisce il numero di protocollo già attribuito alla prima richiesta; viceversa, prende in carico la nuova richiesta e assegna un protocollo.
Si può rimanere in attesa dell’esito oppure tornare sull’applicativo in un secondo momento attraverso la funzione «Lista richieste» (dove è previsto il controllo dello stato di avanzamento dell’interrogazione).
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L’ATTESTAZIONE DI REGOLARITÀ

IL RILASCIO IMMEDIATO
Se è possibile attestare subito la regolarità.
Il sistema emette in tempo reale il Durc, in formato Pdf, con le seguenti indicazioni: denominazione, sede legale, codice fiscale del soggetto interessato; iscrizione all'Inps, all'Inail e –se previsto– alle Casse Edili; dichiarazione di regolarità; numero identificativo, data di effettuazione della verifica e data di scadenza di validità (120 giorni).
LA VERIFICA SUPPLEMENTARE
Se non è possibile attestare subito la regolarità
Il sistema comunica con un messaggio che è stata attivata la procedura di verifica; esaurita questa fase, con una successiva Pec al richiedente, viene quindi data comunicazione che l’esito può essere visualizzato a sistema (attraverso la funzione «Lista Richieste»); se questo è positivo, il Durc può essere visualizzato e scaricato.
   
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LA SITUAZIONE DI IRREGOLARITÀ
Se gli enti rilevano situazioni di irregolarità, entro 72 ore emettono l’invito a regolarizzare, tramite Pec all’interessato o al soggetto delegato, assegnando il termine di 15 giorni.
Se la regolarizzazione non avviene prima della scadenza dei 30 giorni dalla data della richiesta, è emessa l’attestazione di irregolarità. Nel nuovo sistema non è più prevista la regola del silenzio-assenso che invece era disciplinata dalle disposizioni precedenti.
Se la richiesta è stata effettuata da una Pa e ne ricorrono i presupposti, l’irregolarità farà scattare l’intervento sostitutivo (articolo 4, Dpr 20/2010, come modificato dall’articolo 31 del Dl 69/2013).
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Vecchio sportello in via residuale. La transizione. Fino al 01.01.2017.
La complessità del sistema che ruota intorno alla verifica della regolarità contributiva crea alcune situazioni particolari che devono essere gestite con accorgimenti ad hoc: non sempre è sufficiente, infatti, effettuare una sola interrogazione della piattaforma del Durc online. In alcuni casi è necessario servirsi ancora del “vecchio” portale, o rivolgersi a entrambi gli applicativi di Inps e Inail.
Cerchiamo quindi di capire come vanno gestiti questi casi particolari. L’impianto dello Sportello unico previdenziale (www.sportellounicoprevidenziale.it) a cui si accedeva nel sistema previgente rimane attivo per alcune casistiche residuali.
Il metodo tradizionale
Fatta salva la regola generale di accedere -tramite i siti di Inps e Inail- alla sezione dedicata al Durc online, l’uso del vecchio sportello (che resterà operativo, per una fase transitoria, non oltre il 01.01.2017) rimane obbligatorio per richiedere la verifica in queste ipotesi:
per la certificazione dei crediti tramite la piattaforma istituita dal ministero dell’Economia;
per i Durc correlati al pagamento di fatture di debiti scaduti al 31.12.2012, rientranti nel perimetro applicativo dell’articolo 6, comma 11-ter, del Dl 35/2013;
per la regolarizzazione di lavoratori extracomunitari, da parte degli Sportelli unici;
per la ricostruzione privata nell’ambito del terremoto in Abruzzo.
Peraltro, l’Inail (nota del 02.07.2015, n. 4605) fornendo le istruzioni per le richieste di Durc sopra elencate, ha precisato anche che l’unica verifica effettuabile attraverso il portale è quella riferita alla causale «Altra tipologia» per «Altri usi consentiti dalla legge», che viene preimpostata automaticamente dal sistema.
È sulla stessa linea l’Inps: con il messaggio 4521 del 2 luglio, l’Istituto ha comunicato che eventuali richieste di Durc presentate allo Sportello unico, al di fuori delle ipotesi previste, dovranno essere riproposte tramite la nuova procedura.
Tra i casi di utilizzo residuale dello Sportello, vanno annoverate tutte quelle situazioni –evidenziate dalla circolare del Lavoro 19/2015– nelle quali non sia possibile il rilascio del Durc online, per l’assenza delle informazioni necessarie all’interno degli archivi dell’Inps, dell’Inail e delle Casse edili: comunque, la verifica seguirà le regole disposte dal decreto ministeriale del 30.01.2015 (ad esempio, in caso di scostamento non grave, previsto dall’articolo 4, comma 3, del Dl 34/2014).
Quando il canale è obbligato
Le aziende e gli operatori devono poi prestare attenzione alle ipotesi per le quali è obbligatorio servirsi del canale dedicato dell’Inps piuttosto che di quello dell’Inail, seguendo le indicazioni fornite dai due Istituti con le circolari del 26.06.2015 (rispettivamente la n. 126 e la n. 61).
Ad esempio, si deve esclusivamente accedere al portale dell’Inps per verificare la regolarità delle aziende agricole che occupano alle loro dipendenze operai. Lo stesso iter va seguito con riferimento alle posizioni dei titolari di impresa agricola, a prescindere dalla qualifica.
In linea generale, non è più necessario indicare la motivazione per la quale è richiesto il Durc online: nel dettaglio, nei confronti dell’Inail, non viene più effettuata alcuna verifica sul rischio assicurato in relazione all’oggetto del contratto pubblico o al procedimento amministrativo in cui il Durc stesso è utilizzato
(articolo Il Sole 24 Ore del 03.08.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Semplificazione anche per l’Aua. Operativo dal 30 giugno il documento standard per l’autorizzazione unica ambientale.
Stabilimenti. Con un solo passaggio si possono chiedere fino a sette diversi nullaosta per l’insediamento di nuove attività.

Dopo due anni di sperimentazione dell’autorizzazione unica ambientale (Aua) arriva ora anche l’autorizzazione unica semplificata.
È operativo dal 30 giugno, infatti, il modello unico di autorizzazione ambientale semplificata.
Il Dpr 59/2013 ha introdotto l’autorizzazione unica ambientale quale strumento di semplificazione delle autorizzazioni e comunicazioni ambientali e, quindi, degli adempimenti amministrativi in materia ambientale gravanti sulle piccole e medie imprese e sugli impianti non soggetti ad Aia (autorizzazione integrata ambientale).
L’Aua è un provvedimento unico che sostituisce le precedenti autorizzazioni e comunicazioni di natura ambientale che tipicamente sono richieste per svolgere attività produttive. In particolare, questo nullaosta sostituisce sette procedimenti:
- l’autorizzazione agli scarichi;
- l’utilizzazione agronomica degli effluenti;
- l’autorizzazione all’emissione in atmosfera;
- l’autorizzazione generale ex articolo 272 del Codice dell’ambiente (Dlgs 152/2006);
- la valutazione impatto acustico;
- l’autorizzazione utilizzo fanghi;
- le comunicazioni in materia di rifiuti di cui agli articoli 215 e 216 del Codice dell’ambiente.
L’Aua andrebbe richiesta prima dell’avvio di nuove attività produttive, o alla scadenza-rinnovo del primo titolo autorizzativo incluso nell’autorizzazione unica.
Secondo l’articolo 3 del Dpr 59/2013, è comunque fatta salva la facoltà per gli operatori di non avvalersi dell’autorizzazione unica ambientale nel caso in cui si tratti di attività soggette solo a comunicazione (ad esempio il recupero rifiuti), ovvero ad autorizzazione di carattere generale. Alle Regioni era riservata la possibilità di incrementare il numero di autorizzazioni sostituite.
L’articolo 4 del Dpr 59/2013, poi, indica le modalità di presentazione della domanda presso il Suap. La semplificazione introdotta da questo titolo autorizzativo, da un lato, consiste nella durata dell’autorizzazione fissata in 15 anni, ben più lunga rispetto alla durata di alcune autorizzazioni singole sostituite (ad esempio per gli scarichi, la cui autorizzazione ha una durata di quattro anni), dall’altro, dovrebbe consistere nella presentazione di un’unica domanda allo sportello unico per le attività produttive.
Tuttavia, in molti casi, l’utilizzo del Suap si è rilevato più complesso del previsto, con conseguente aggravio delle procedure. Non a caso, alcune Regioni sono dovute intervenire con linee guida applicative. Ad esempio, la Lombardia ha già previsto l’utilizzo di un modello unico regionale (approvato con Ddg 512/2014) da presentarsi in via telematica. È quindi con interesse che enti e operatori attendevano il modello semplificato previsto dall’articolo 10, comma 3, del Dpr 59/2013, varato con decreto dell’08.05.2015 emanato dal ministero per la Semplificazione e dal ministero dell’Ambiente (si veda l’altro articolo in pagina).
Il decreto contiene uno specifico modello di istanza di autorizzazione unica, che dovrà essere utilizzato dalle regioni. Invero, questo modello deve immediatamente essere applicato dalle Regioni atteso che il termine di “recepimento” previsto nel decreto di fatto è coinciso con la data di pubblicazione del decreto stesso, ossia il 30.06.2015.
Alle Regioni, poi, spetta il compito di pubblicizzare e promuovere il ricorso a questo strumento di semplificazione. Occorrerà, dunque, verificare se con tale decreto attuativo, le semplificazioni prospettate dal Dpr 59/2013 divengano effettivamente tali.
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Un nuovo modello con 55 pagine (più gli allegati). Il decreto. Necessaria la compilazione assistita.
La norma che ha introdotto l’autorizzazione unica ambientale (articolo 10, comma 3, del Dpr 59/2013) aveva espressamente previsto un modello semplificato e unificato per la richiesta di Aua da varare con decreto del ministero dell’Ambiente di concerto con quello per la pubblica amministrazione.
Con il decreto dell’8 maggio scorso (pubblicato il 30.06.2015 sulla «Gazzetta Ufficiale») ha trovato attuazione questa previsione legislativa.
Il modello semplificato di istanza è un documento di quasi 55 pagine che, attraverso la sua compilazione, dovrebbe aiutare i gestori degli impianti a fornire alle pubbliche amministrazioni tutte le informazioni necessarie relative ai permessi ambientali sostituiti dall’Aua.
La prima parte del documento richiede le informazioni generali relative al gestore, impianto e autorizzazioni da sostituire, rinnovare o modificare.
La seconda parte del documento, invece, si compone di otto schede relative alle autorizzazioni e comunicazioni sostituite, rispettivamente per gli scarichi di acque reflue, utilizzazione agronomica, emissioni in atmosfera per gli stabilimenti, emissioni in atmosfere per impianti e attività in deroga, impatto acustico, utilizzo dei fanghi derivanti dal processo di depurazione in agricoltura, operazioni di recupero di rifiuti non pericolosi e operazioni di recupero di rifiuti pericolosi (si veda la scheda a lato).
Attraverso la compilazione delle schede, il gestore fornisce alle autorità le informazioni sostanziali relative alle autorizzazioni di interesse (ovviamente, andranno compilate solo le schede che riguardano le attività effettivamente esercitate).
Il modello ministeriale, tuttavia, oltre alla compilazione delle schede richiede anche la presentazione di ulteriori allegati che dovranno essere predisposti dal gestore per ogni autorizzazione o comunicazione sostituita dall’Autorizzazione unica.
In particolare, è previsto che siano predisposte specifiche relazioni tecniche per le attività di utilizzazione agronomica delle acque di vegetazione e degli scarichi dei frantoi oleari, dei fanghi di depurazione e delle operazioni di recupero dei rifiuti pericolosi e non pericolosi.
Il modello, dunque, rappresenta sicuramente un ausilio per gli operatori e per le autorità in quanto definisce e illustra tutte le informazioni e i documenti che devono essere contenuti e allegati alla domanda di autorizzazione unica ambientale.
Tuttavia, resta il fatto che le informazioni da fornire e i documenti da allegare (soprattutto nel caso in cui l’operatore sia interessato alla sostituzione di più provvedimenti autorizzativi) restano molti e richiedono comunque, verosimilmente, un supporto tecnico importante
(articolo Il Sole 24 Ore del 03.08.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Regole verdi, l'Italia si adegua. Stretta sulle sostanze pericolose e adempimenti più snelli. LEGGE EUROPEA 2014/Definitive le norme nazionali di allineamento agli atti comunitari.
Stretta sulla presenza di sostanze pericolose in batterie, acque destinate al consumo umano e luoghi di lavoro, ma anche semplificazioni burocratiche per autorizzazioni ambientali e allineamento delle regole su imballaggi e relativi rifiuti alla disciplina Ue. Arrivano con le leggi nazionali di adeguamento all'Ordinamento comunitario licenziate definitivamente nel corso dello scorso luglio le ultime novità ambientali di matrice estiva.

Con la «Legge europea 2014» approvata dal Parlamento il 23.07.2015 vengono infatti direttamente riscritte le norme del dlgs 152/2006 (cd. «Codice ambientale») sulla disciplina di imballaggi e rifiuti di imballaggio, mentre con la parallela «Legge di delegazione europea 2014» licenziata dalla stessa Assemblea il precedente 2 luglio viene ufficialmente aperta la strada per il recepimento delle ultime direttive comunitarie in materia di batterie e relativi rifiuti, valutazione di impatto ambientale, tutela delle acque e controllo delle sostanze chimiche.
Imballaggi. La Legge europea 2014 interviene sulla disciplina recata dall'articolo 217 e seguenti del dlgs 152/2006 al fine di superare alcuni rilievi della Commissione Ue sul non corretto recepimento della direttiva 94/62/Ue. In particolare, viene innanzitutto ampliato l'ambito di applicazione della disciplina sugli imballaggi e loro rifiuti, precisando come essa riguardi, da un lato, la gestione di tutti i beni immessi nel mercato dell'Ue (e dunque, a cascata, in quello nazionale) e, dall'altro, che la platea dei soggetti coinvolti sia costituita da qualsiasi produttore o utilizzatore degli stessi e di quelli giunti a fine vita.
Ancora, viene assicurata l'immissione sul mercato nazionale degli imballaggi conformi, oltre alle disposizioni del dlgs 152/2006, ad ogni altra disciplina adottata nel rispetto della citata direttiva madre 94/62/Ce. Parallelamente, viene sancita la presunzione di conformità ai requisiti della direttiva in parola degli imballaggi in linea con le pertinenti norme tecniche armonizzate.
Allargata infine la nozione di «riciclaggio organico», comprendente ora anche processi di biodegradazione senza recupero energetico (laddove tale operazione viene considerata soddisfatta anche con la semplice produzione di metano). A titolo di mera correzione formale è invece modificato l'allegato E alla suddetta Parte Quarta del dlgs 152/2006, laddove viene testualmente precisato che gli obiettivi di riciclaggio relativi ai singoli materiali contenuti nei rifiuti di imballaggio (vetro, carta, cartone, metalli, plastica, legno) erano da conseguire entro la fine del 2008.
Pile e relativi rifiuti. Con il recepimento della 2013/56/Ue (il cui termine è già scaduto lo scorso 01.07.2015) arriverà una stretta sull'immissione sul mercato dei piccoli accumulatori contenenti sostanze pericolose e la pronta rimovibilità di tutte le pile dagli apparecchi che li utilizzano.
La nuova direttiva allarga infatti il divieto di utilizzo di mercurio e cadmio nella produzione dei nuovi beni già previsto dal provvedimento madre in materia (la direttiva 2006/66/Ue, tradotta sul piano nazionale dal dlgs 188/2008) ed impone migliorie tecniche per agevolarne a valle il trattamento una volta a fine vita.
Sotto il primo profilo, detta direttiva vieta dal 02.10.2015 la commercializzazione di tutte le «pile a bottone» contenenti più dello 0,0005% di mercurio in peso (laddove l'attuale soglia è del 2%) e dal 01.01.2017 quella di accumulatori portatili per utensili elettrici senza fili contenenti più dello 0,002% di cadmio in peso (ad oggi non oggetto di limitazioni). Sotto il secondo profilo la stessa direttiva 2013/56/Ue impone ai fabbricanti delle apparecchiature che utilizzano pile un upgrade tecnico che assicuri la loro semplice estrazione una volta diventate rifiuti.
Valutazione di impatto ambientale. Il recepimento della direttiva 2014/52/Ue sulla valutazione dell'impatto ambientale (da effettuarsi entro il 16.05.2017) promette invece una semplificazione delle procedure burocratiche per gli impianti interessati.
Dai criteri direttivi dettati dalla Legge di delegazione europea 2014 si evince infatti che con l'attuazione della nuova direttiva (plausibilmente tramite la revisione del dlgs 152/2006, cd. «Codice ambientale») si eviterà l'instaurazione di plurimi procedimenti autorizzativi a carico dei soggetti richiedenti la Via, alleggerendone (dunque) anche gli oneri economici.
La direttiva 2014/52/Ue, lo ricordiamo, modifica altresì direttiva madre 2011/92/Ue introducendo anche nuovi aspetti da considerare nella valutazione di impatto ambientale, come la sensibilità di determinate aree, gravi incidenti e calamità naturali provocati da cambiamenti climatici, l'impatto delle demolizioni, i rischi per il patrimonio culturale dovuti alla realizzazione di nuovi progetti.
Standard acque. Una stretta su standard da rispettare e relativi controlli arriverà in relazione alla qualità delle acque destinate al consumo umano (diverse da quelle minerali e medicinali). Con il recepimento della direttiva 2013/51/Euratom (da effettuare entro il 28.11.2015) saranno infatti riscritte le attuali regole previste dal dlgs 31/2001 (ereditate dalla pregressa direttiva 98/83/Ce) introducendo nuovi parametri per le sostanze radioattive eventualmente presenti e i nuovi punti ove i relativi valori dovranno essere rispettati.
Sostanze chimiche. Con l'attuazione della direttiva 2014/27/Ue saranno allineate alle nuove regole per la classificazione delle sostanze chimiche previste dal regolamento Ce n. 1272/2008 (in vigore dallo scorso 01.06.2015) anche alcune norme preventive della sicurezza nei luoghi di lavoro.
Il recepimento della direttiva (il cui termine è scaduto lo scorso 1° giugno) comporterà la riscrittura delle forme di segnalazione della presenza di sostanze o miscele pericolose e delle misure precauzionali per agenti chimici, biologici, cancerogeni o mutageni.
Le nuove regole ex regolamento Ce n. 1272/2008, lo ricordiamo, hanno già inciso sulla riformulazione della cd. disciplina «Seveso» sulla prevenzione degli incidenti industriali connessi alla presenza di determinate sostanze pericolose, disciplina ora rappresentata dal dlgs 105/2015 in vigore dallo scorso 29.07.2015 (articolo ItaliaOggi Sette del 03.08.2015).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Nell’agriturismo l’attività agricola prevale sull’ospitalità. Imprese. L’attività principale.
Chi fa agriturismo deve essere principalmente un imprenditore agricolo e l’attività di ricezione e di ospitalità non può prevalere sul suo “core business”.
In base a questo principio la Corte di Cassazione - Sez. lavoro (sentenza 11.08.2015 n. 16685) respinge un ricorso contro la sentenza della Corte d’appello che aveva dato partita vinta all’Inps che reclamava da un imprenditore agricolo i contributi previsti per i commercianti.
La decisione era fondata su diverse considerazioni: il quantitativo di merce acquistata da terzi era superiore a quella prodotta dall’azienda, il lavoro svolto dalla ricorrente nell’azienda agricola era minore rispetto a quello prestato dai familiari e da terzi, il reddito dell’attività di ristorazione era maggiore di quello ricavato con il fondo e anche il tempo dedicato agli ospiti era superava quello riservato alla campagna.
Un’organizzazione non in linea né con la legge 730 del 1985 né con il Dlgs 228 del 2001, norme in base alle quali l’imprenditore agricolo può utilizzare l’azienda per fare agriturismo a patto che si tratti di un uso connesso. Via libera dunque all’ospitalità stagionale anche in spazi aperti e destinati alla sosta dei campeggiatori, alla fornitura per la consumazione sul posto di pasti e bevande, alcolici e superalcolici compresi, purché prevalentemente di propria produzione.
La Cassazione ricorda che sono considerate “fatti in casa” cibi e bibite prodotti e lavorati nell’azienda agricola, oltre a quelli ricavati da materie prime anche attraverso lavorazioni esterne. E siccome non di solo pane vive l’uomo l’imprenditore agricolo può anche organizzare attività ricreative o culturali. Il tutto è in armonia con la legge e «non costituisce distrazione della destinazione agricola dei fondi e degli edifici interessati», se il terreno viene utilizzato soprattutto per l’allevamento del bestiame e la coltivazione.
Le cose cambiano quando accogliere ospiti e “sfamarli” diventa la maggiore fonte di reddito e, come nel caso esaminato, si assume personale anche esterno alla famiglia e si fa una sostanziosa spesa al supermercato anziché scendere in campo.
Inutile per la ricorrente invocare leggi regionali più favorevoli.
Le singole leggi regionali si devono muovere all’interno della cornice fornita dalle norme statali e dal codice civile che, con l’articolo 2135, detta la nozione di imprenditore agricolo, status necessario per “aprire” il proprio fondo ai turisti.
Se così non fosse -conclude la Suprema corte- la definizione di rapporto di connessione tra le due attività potrebbe cambiare secondo la latitudine, generando una disparità di trattamenti partendo da identici dati aziendali, riguardo ad esempio alla percentuale dei prodotti propri utilizzati o alla proporzione fra alimenti locali ed esterni
(articolo Il Sole 24 Ore del 12.08.2015).
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MASSIMA
Va al riguardo rilevato, per un ordinato iter motivazionale, che già ai sensi della L. n. 730 del 1985 cit., art. 2, "
per attività agrituristiche si intendono esclusivamente le attività di ricezione ed ospitalità esercitate dagli imprenditori agricoli di cui all'articolo 2135 c.c., singoli od associati, e da loro familiari di cui all'articolo 230-bis c.c., attraverso l'utilizzazione della propria azienda, in rapporto di connessione e complementarità rispetto alle attività di coltivazione del fondo, silvi-coltura, allevamento del bestiame, che devono comunque rimanere principali. Lo svolgimento di attività agrituristiche, nel rispetto delle norme di cui alla presente legge, non costituisce distrazione della destinazione agricola dei fondi e degli edifici interessati.
Rientrano fra tali attività:
a) dare stagionalmente ospitalità, anche in spazi aperti destinati alla sosta di campeggiatori;
b) somministrare per la consumazione sul posto pasti e bevande costituiti prevalentemente da prodotti propri, ivi compresi quelli a carattere alcolico e superalcolico;
c) organizzare attività ricreative o culturali nell'ambito dell'azienda. Sono considerati di propria produzione le bevande e i cibi prodotti e lavorati nell'azienda agricola nonché quelli ricavati da materie prime dell'azienda agricola anche attraverso lavorazioni esterne
".
Il relazione a tale quadro normativo di riferimento si pronunciata la giurisprudenza di questa Corte (vedi Cass. 13.04.2007 n. 8851), affermando che
anche nella disciplina anteriore all'entrata in vigore del D.Lgs. 18.05.2001, n. 228 -il cui art. 1, aggiungendo un comma 3 all'art. 2135 cod. civ., ha espressamente compreso fra le attività proprie dell'imprenditore agricolo la "ricezione ed ospitalità come definite dalla legge"- l'attività agrituristica rientrava, in linea generale, fra le attività agricole "per connessione", dovendo l'originaria previsione dell'art. 2135 cod. civ. venir integrata con quella della L. 05.12.1985, n. 730, art. 2, che al comma secondo affermava il principio per cui "lo svolgimento di attività agrituristiche, nel rispetto delle norme di cui alla presente legge, non costituisce distrazione della destinazione agricola dei fondi e degli edifici interessasti" e, perciò, ne permetteva l'attrazione alla sola condizione che l'utilizzazione dell'azienda a tali fini fosse caratterizzata da un rapporto di complementarità rispetto all'attività di coltivazione del fondo, silvicoltura e allevamento del bestiame, che doveva comunque rimanere principale (Cass. 12.05.2006 n. 11076; in senso conf. Cass. n. 8849/05, n. 10280/04 e n. 12142/02).
Alla stregua degli esposti precedenti normativi e giurisprudenziali, va, quindi, ribadito che
l'inquadramento dell'attività agrituristica in quella agricola è subordinato alla condizione che l'utilizzazione dell'azienda agricola a fine di agriturismo sia caratterizzata da un rapporto di complementarietà rispetto all'attività di coltivazione del fondo, di silvicoltura e di allevamento del bestiame, che deve comunque rimanere principale.
Nell'ottica descritta, il pronunciato oggetto di impugnazione, si pone in linea con la giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. 18.05.2011 n. 10905, Cass. 02.10.2008 n. 24430) secondo cui "
il riconoscimento della qualità agrituristica dell'attività di "ricezione ed ospitalità" richiede la contemporanea sussistenza della qualifica di imprenditore agricolo da parte del soggetto che la esercita, dell'esistenza di un "rapporto di connessione e complementarietà" con l'attività propriamente agricola e della permanenza della principalità di quest'ultima rispetto all'altra; con la conseguenza che non potrà essere considerata "agrituristica" un'attività di "ricezione" e di "ospitalità" svolta da un imprenditore che non possa qualificarsi "agricolo" ovvero che non sia o non sia più nel detto rapporto di "connessione e complementarietà" con l'attività agricola o, comunque, che releghi quest'ultima in posizione del tutto secondaria".
Come riportato nello storico di lite, la Corte distrettuale ha infatti rimarcato gli elementi qualificativi di tale vincolo di connessione e complementarietà, facendo leva sull'accertamento della notevole consistenza dei redditi ricavati dalla attività di ristorazione, per il cui svolgimento si era resa necessaria l'assunzione di tre dipendenti; dell'impiego temporale per l'esercizio di attività di ristorazione di gran lunga superiore a quello necessario per l'espletamento di attività agricola; dall'utilizzo di prodotti provenienti dalla attività agricola, in misura inferiore rispetto a quelli acquistati sul mercato.
E tale apprezzamento, coerente con i principi dianzi esposti, neanche si pone in dissonanza con le disposizioni di rango costituzionale invocate in tema di ripartizione delle competenze legislative Stato-Regioni, demandando a queste ultime la competenza esclusiva in tema di individuazione della natura della attività svolta da un imprenditore.
Invero, secondo il principio affermato da questa Corte (sia pur con riferimento alla impresa artigiana), e che va qui ribadito,
la nozione di impresa quando rileva ai fini della disciplina dei rapporti previdenziali, di esclusiva competenza statale, trova applicazione su tutto il territorio nazionale, comprese le regioni a statuto speciale e le province autonome aventi competenza primaria in materia di artigianato, poiché le disposizioni che danno esclusivo rilievo alla normativa di tali regioni in materia, vanno interpretate in maniera compatibile con la ripartizione di competenze fra lo Stato e detti enti, come statuito dalla sentenza interpretativa di rigetto della Corte Costituzionale 28.05.1999 n. 196 (vedi Cass. S.U. 05.06.2000 n. 401).
E, sulla stessa, linea, si pongono gli ulteriori approdi ai quali è pervenuta questa Corte che, (con riferimento all'indagine relativa alla natura, commerciale o agricola, di un'impresa agrituristica ai fini della assoggettabilità a fallimento), ha rimarcato come "
la natura commerciale od agricola di un'impresa, deve essere accertata sulla scorta di criteri generali ed uniformi, valevoli per l'intero territorio nazionale, sicché l'apprezzamento in concreto della ricorrenza dei requisiti di connessione fra attività agrituristiche ed attività propriamente agricole e della prevalenza di queste ultime rispetto alle prime, in presenza dei quali deve essere esclusa l'assoggettabilità a fallimento dell'imprenditore che le eserciti, va principalmente condotto alla luce del disposto dell'art. 2135 c.c., comma 3, integrato dalle discipline di legge dell'agriturismo", che hanno fissato i principi fondamentali cui le regioni devono uniformarsi nell'emanare le proprie normative in materia.
Entro tale cornice,
gli specifici criteri valutativi previsti dalle singole leggi regionali possono sicuramente fungere da supporto interpretativo, ma non possono rivestire carattere decisivo, posto che la loro assunzione a parametri vincolanti per la definizione del rapporto di connessione potrebbe condurre a risultati diversi da regione a regione pur partendo dall'analisi di identici dati aziendali quanto, ad esempio, a percentuali di prodotti propri utilizzati od alle proporzioni fra prodotti locali ed esterni (vedi Cass. 10.04.2013 n.8690 cui adde Cass. 14.01.2015 n. 490).

TRIBUTI: Esenzioni Imu, occhio al catasto.
Le agevolazioni Ici e Imu sono condizionate anche dal rispetto dei requisiti formali. Infatti, per avere diritto all'esenzione Ici i fabbricati utilizzati da un ente ecclesiastico devono avere un inquadramento catastale idoneo al tipo di attività svolta. Se un immobile è inquadrato catastalmente come scuola non può essere utilizzato per un'attività assistenziale o di religione e di culto. Allo stesso modo non può essere destinato a un'attività religiosa o di culto un locale censito come deposito. Naturalmente, la stessa regola vale per l'Imu.

È quanto ha stabilito la Commissione tributaria provinciale di Catania, II Sez., con la sentenza n. 5703/2015.
Per i giudici siciliani, «appare inverosimile che fabbricati classificati in Ctg. B/5 e C/2 possano godere della richiesta esenzione». Gli immobili inquadrati catastalmente come scuole non possono essere destinati «ad attività assistenziale o previdenziale o, addirittura, religiosa o di culto». Così come un locale deposito, censito in categoria C/2, «è impensabile che possa avere una destinazione con fini religiosi o di culto».
Nel caso in esame, il giudice tributario ha riconosciuto l'esenzione Ici solo all'unità immobiliare classificata come convento (B/1) perché le attività svolte (formazione del clero e dei religiosi, catechesi, educazione cristiana e via dicendo) dai «Frati minori cappuccini» rientrano nella casistica di quelle elencate dall'articolo 16, lettera a), della legge 222/1985.
Di recente, al di là dell'aspetto formale legato alle categorie catastali degli immobili, la questione dell'esenzione Ici per gli enti ecclesiastici ha formato oggetto di esame da parte della Cassazione a proposito delle scuole paritarie.
La Suprema corte con le sentenze 14225/2015 e 14226/2015, che hanno fatto molto discutere, ha sostenuto che l'attività didattica svolta da un ente religioso rientra tra quelle esenti solo se viene svolta in forma non commerciale. Se l'attività didattica è esercitata da una scuola paritaria e gli utenti pagano un corrispettivo si perde il diritto all'agevolazione fiscale, nonostante la gestione operi in perdita. Per il fine di lucro è sufficiente che i ricavi abbiano come obiettivo quello di raggiungere il pareggio di bilancio.
Per la Cassazione manca il carattere imprenditoriale dell'attività degli enti non profit nel caso in cui sia svolta a titolo gratuito. L'esenzione Ici prevista dall'articolo 7, comma 1, lettera i), del decreto legislativo 504/1992 era limitata all'ipotesi in cui gli immobili fossero destinati totalmente allo svolgimento di una delle attività elencate dalla norma (sanitarie, didattiche, ricettive, ricreative, sportive) in forma non commerciale. In realtà, però, per l'imposta comunale il legislatore non è mai intervenuto al fine di chiarire quando un'attività possa essere definita commerciale. È stato sempre demandato ai giudici il compito di prendere posizione, senza avere dei parametri ai quali fare riferimento.
Mentre per l'Imu l'articolo 4 del decreto ministeriale 200/2012 ha enunciato per le varie tipologie di attività quali criteri devono essere osservati (articolo ItaliaOggi dell'11.08.2015).

SICUREZZA LAVORO: Il committente responsabile del muratore.
Cassazione. Chi richiede la prestazione risponde della morte del lavoratore autonomo incaricato dalla ditta fornitrice di materiali edili.
Il committente che si affida a un lavoratore autonomo per una ristrutturazione risponde per la sua morte se non verifica l’esistenza di protezioni. La condanna per omicidio colposo scatta anche se l’operaio faceva parte di una squadra inviata dall’azienda fornitrice di materiali edili.
La Corte di Cassazione, Sez. IV penale, con la sentenza 10.08.2015 n. 34701, ricorda che in tema di sicurezza lavoro non si può giocare allo scaricabarile.
Era quanto, su più fronti, aveva tentato di fare il ricorrente amministratore unico di una società in nome collettivo, condannato per la morte di un muratore caduto dal tetto del capannone che aveva ceduto sotto il peso della malta che doveva servire ad evitare le infiltrazioni di umidità.
Un tragico incidente nel quale il ricorrente riteneva di non aver alcuna responsabilità per una serie di ragioni: il muratore morto era un lavoratore autonomo che faceva parte di un piccolo gruppo di “padroncini”, ed era stato inviato dalla ditta che aveva fornito il materiale di rinforzo, motivo per cui lui non poteva essere considerato il committente.
Inoltre l’amministratore aveva dichiarato di non avere mai interferito con lo svolgimento dei lavori né autorizzato un comportamento tanto imprudente come quello di salire su un tetto fragile. Ma per la Suprema corte nessuna delle giustificazioni è valida.
Per i giudici della quarta sezione penale, il fatto che a prendere contatto con i lavoratori autonomi e ad incaricarli era stata la ditta fornitrice non faceva venire meno il ruolo di committente svolto dall’amministratore unico della Snc: va, infatti, considerato committente, e come tale investito della posizione di garanzia, chi concepisce, progetta e finanzia un’opera.
Ferma restando dunque la corresponsabilità dell’impresa che aveva inviato i lavoratori indicandoli come idonei perché proprietari dei mezzi necessari a svolgere l’attività, la “colpa” del ricorrente sta nell’aver consentito agli operai di iniziare il restauro senza prima verificare l’adozione delle misure di sicurezza.
L’amministratore non aveva considerato le gravi lesioni sulla copertura del tetto del capannone già per sua natura non calpestabile. Un onere che doveva adempiere in prima persona non avendo provveduto a designare un responsabile dei lavori.
Per l’imputato non era possibile ipotizzare l’esonero che scatta per il committente nel caso in cui per percepire il rischio e approntare le relative precauzioni è necessaria una specifica competenza tecnica. Non passa neppure la tesi del comportamento abnorme da parte dell’operaio. L’essere salito sul tetto era un gesto, per quanto imprudente, decisamente collegato alla mansione svolta e che non poteva essere considerato imprevedibile.
La Cassazione considera ininfluente anche la circostanza dell’assenza del ricorrente dal luogo dell’incidente il giorno in cui questo era avvenuto.
E, per finire, i giudici bollano come sterile retorica il tentativo di essere liberati dalla responsabilità nel caso, come quello esaminato, in cui siano gli stessi lavoratori che dovrebbero essere garantiti ad affermare di non aver bisogno di garanzie o a non pretenderle
(articolo Il Sole 24 Ore dell'11.08.2015).
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MASSIMA
Né la prospettazione difensiva fa venir meno la colpa grave e certa dell'imputato nell'avere avviato lavori intrinsecamente pericolosi (la natura della copertura non poteva tollerare l'appesantimento di materiale ulteriore), senza, peraltro la garanzia di alcun presidio di sicurezza.
In definitiva,
non si rinviene ragione alcuna per potersi escludere la posizione di garanzia del committente, pacificamente sussistente, in quanto soggetto che normalmente concepisce, programma, progetta e finanzia un'opera, è titolare "ex lege" di una posizione di garanzia che integra ed interagisce con quella di altre figure di garanti legali (datori di lavoro, dirigenti, preposti etc.) e può designare un responsabile dei lavori, con un incarico formalmente rilasciato accompagnato dal conferimento di poteri decisori, gestionali e di spesa, che gli consenta di essere esonerato dalle responsabilità, sia pure entro i limiti dell'incarico medesimo e fermo restando la sua piena responsabilità per la redazione del piano di sicurezza, del fascicolo di protezione dai rischi e per la vigilanza sul coordinatore in ordine allo svolgimento del suo incarico e sul controllo delle disposizioni contenute nel piano di sicurezza (Cass., Sez. 4, n. 37738 del 28/05/2013, dep. 13/09/2013, Rv. 256635).
Peraltro,
l'evidenza delle precauzioni mancate e del grave rischio fatto assumere fanno sì che qui non possa assumere rilievo l'esonero ritenuto nei soli casi in cui le predette precauzioni richiedano una specifica competenza tecnica nelle procedure da adottare in determinate lavorazioni, nell'utilizzazione di speciali tecniche o nell'uso di determinate macchine (Cass., Sez. 3, n. 1228 del 25/02/2015, dep. 24/03/2015, Rv. 262757; Sez. 4, n. n. 1511 del 28/11/2013, dep. 15/01/2014, Rv. 259086).
Infine,
deve senz'altro affermarsi che nel caso in esame risulta palese che l'evento debba ritenersi causalmente collegato a plurime omissioni colpose, specificamente determinate, imputabili alla sfera di controllo dello stesso committente, col che pienamente si giustifica l'estensione della responsabilità dell'eventuale appaltante (la cui esistenza è rimasta peraltro non accertata) (si veda per una ben diversa situazione nella quale l'estensione non ricorre, Cass., Sez. 4, n. 6784 del 23/01/2014, dep. 12/2/2014, Rv. 259286), assumendo solo il senso di un mero esercizio di retorica sterile pretendere di essere liberato perché coloro che lui avrebbe dovuto garantire, non avevano preteso l'applicazione delle garanzie.
3.2. Quanto alla denunciata natura abnorme della condotta della vittima va osservato che la Corte di merito non cade nel denunziato vizio.
La ratio del discrimine è la stessa:
poiché il garante deve assicurare il bene dell'integrità fisica e della vita del garantito, il quale da solo, per una pluralità di ragioni non sarebbe in grado di pienamente tutelarsi, il concorso (invero frequente) della colpa di quest'ultima o di altro soggetto, la cui attività o anche sola presenza risulta legittimamente inserita nel processo lavorativo, non elide affatto la penale responsabilità dei primi. Salvo l'emergere di condotte che per la loro anomalia, bizzarria o abnormità non erano tali da indurre il garante ad una precipua preventiva percezione del rischio.
La razionale ricostruzione del fatto operata dal giudice dell'appello rende evidente la macroscopica infondatezza della pretesa dei ricorrenti.
Non è dato in alcun modo cogliere in cosa sia consistita la bizzarria comportamentale, l'anomala ed imprevedibile condotta del lavoratore, il quale, dovendo manovrare con un comando a distanza la pompa, onde consentire soddisfacente distribuzione del materiale fluido, gli si fosse reso necessario, o anche solo utile, o apparentemente tale, condurre tale operazione dalla copertura.
Anche se può assumersi come possibile che all'evento possa aver concorso una manovra erronea del predetto lavoratore autonomo deve escludersi, secondo la logica comune, che nel caso in esame una tale manovra possa considerarsi avulsa dalle mansioni svolte, abnorme e, pertanto, imprevedibile da parte del soggetto tenuto alla garanzia. Esattamente al contrario dell'assunto trattasi, invece, di un tragico evento occorso nell'esercizio e a causa dello svolgimento dell'attività lavorativa, come tale del tutto prevedibile e prevenibile dai garanti.
Può sul punto richiamarsi, fra le ultime, la sentenza di questa Sezione del 28/04/2011, n. 23292, in linea con la consolidata giurisprudenza di legittimità (tra le tante, v. Sez. IV, 12/05/2011, n. 35204; Sez. IV, 10.11.2009, n. 7267; Sez. IV, 17.02.2009, n. 15009; Sez. IV, 23.05.2007, n. 25532; Sez. IV, 19.04.2007, n. 25502; Sez. IV, 23.03.2007, n. 21587; Sez. IV, 29.09.2005, n. 47146; Sez. IV, 23.06.2005, n. 38850; Sez. IV, 03.06.2004), la quale ha precisato che
la colpa del lavoratore, eventualmente concorrente con la violazione della normativa antinfortunistica addebitata ai soggetti tenuti a osservarne le disposizioni, non esime questi ultimi dalle proprie responsabilità, poiché l'esistenza del rapporto di causalità tra la violazione e l'evento morte o lesioni del lavoratore che ne sia conseguito può essere esclusa unicamente nei casi in cui sia provato che il comportamento del lavoratore fu abnorme, e che proprio questa abnormità abbia dato causa all'evento; abnormità che, per la sua stranezza e imprevedibilità si ponga al di fuori delle possibilità di controllo dei garanti.
Più in generale, è bene ribadire che la Cassazione ha già avuto condivisamente modo di affermare che «i
n materia di normativa antinfortunistica, l'obbligo del datore di lavoro [ma, qui, per che prima si è detto, anche del committente] di garantire la sicurezza nel luogo di lavoro si estende anche ai soggetti che, nell'impresa, hanno prestato la loro opera in via autonoma (v. di recente, Sezione 4^, 25.05.2007-03.10.2007, Sfoggia).
Se è indiscutibile, infatti, che il lavoratore autonomo ha l'obbligo di munirsi dei presidi antinfortunistici connessi all'attività autonomamente prestata, è altrettanto indiscutibile che sono a carico del datore di lavoro, che si avvale di un lavoratore della prestazione autonoma, da un lato, l'obbligo di garantire le condizioni di sicurezza dell'ambiente di lavoro ove detta opera viene prestata, e, dall'altro, quello di fornire attrezzature adeguate e rispondenti alla vigente normativa di sicurezza nonché di informare il prestatore d'opera dei rischi specifici esistenti sul luogo di lavoro (v. D.P.R. 27.04.1955, n. 547, artt. 4 e ss.; D.Lgs. 19.09.1994, n.626; art. 2087 c.c.).
È di decisivo rilievo, in particolare, il disposto dell'art. 2087 c.c., in forza del quale,
il datore di lavoro, anche al di là delle disposizioni specifiche, è comunque costituito garante dell'incolumità fisica e della salvaguardia della personalità morale di quanti prestano la loro opera nell'impresa, con l'ovvia conseguenza che, ove egli non ottemperi all'obbligo di tutela, l'evento lesivo correttamente gli viene imputato in forza del meccanismo previsto dall'art. 40 c.p.,comma 2. Tale obbligo è di così ampia portata che non può distinguersi, al riguardo, che si tratti di un lavoratore subordinato, di un soggetto a questi equiparato (cfr. D.P.R. n. 547 del 1955, art. 3, comma 2) o, anche, di persona estranea all'ambito imprenditoriale, purché sia ravvisabile il nesso causale tra l'infortunio e la violazione della disciplina sugli obblighi di sicurezza.
Infatti, secondo assunto pacifico e condivisibile,
le norme antinfortunistiche non sono dettate soltanto per la tutela de/lavoratori, ossia per eliminare il rischio che i lavoratori possano subire danni nell'esercizio della loro attività, ma sono dettate anche a tutela dei terzi, cioè di tutti coloro che, per una qualsiasi legittima ragione, accedono là dove vi sono macchine che, se non munite dei presidi antinfortunistici voluti dalla legge, possono essere causa di eventi dannosi.
Ciò, tra l'altro, dovendolo desumere dal D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 4, comma 5, lett. n), che,
ponendo la regola di condotta in forza della quale il datore di lavoro "prende appropriati provvedimenti per evitare che le misure tecniche adottate possano causare rischi per la salute della popolazione o deteriorare l'ambiente esterno", dimostra che le disposizioni prevenzionali sono da considerare emanate nell'interesse di tutti, anche degli estranei al rapporto di lavoro, occasionalmente presenti nel medesimo ambiente lavorativo, a prescindere, quindi, da un rapporto di dipendenza diretta con il titolare dell'impresa (cfr. Sezione 4, 20.04.2005, Stasi ed altro)
» (Cass., Sez. IV, n. 13917 del 17/01/2008, Rv. 239590).

ATTI AMMINISTRATIVILa circolare interpretativa di una legge è atto a rilevanza meramente interna, finalizzato ad indirizzare uniformemente l'azione di organi amministrativi, per cui non è configurabile quale atto presupposto del provvedimento lesivo che ne abbia fatto puntuale applicazione, con conseguente insussistenza di alcun onere di sua impugnativa, neppure in connessione con gli atti applicativi della norma di legge alla cui esplicazione ed interpretazione la circolare risulta diretta.
Com’è noto, la circolare, in linea generale, non ha carattere normativo, né tanto meno di provvedimento, ma rappresenta lo strumento mediante il quale l’Amministrazione fornisce indicazioni in via generale e astratta in ordine alle modalità con cui dovranno comportarsi in futuro i propri dipendenti e i propri uffici.
Ne consegue che la circolare rientra nel genus degli atti interni all’amministrazione.
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Deve essere riconosciuto che non tutte le circolari sono accomunate da identica natura. Occorre distinguere, infatti, le circolari interpretative dalle cosiddette circolari-regolamento.
Le prime
, al fine di favorire un’interpretazione uniforme di leggi e regolamenti, forniscono agli uffici subordinati una indicazione interpretativa, limitandosi a riproporre il contenuto precettivo degli atti normativi cui fanno riferimento; esse, di conseguenza, non sono dotate di forza innovativa.
Le seconde
, invece, costituiscono particolari figure di circolari, eccezionalmente idonee a produrre effetti giuridici esterni alla pubblica amministrazione; esse, sostanzialmente, hanno natura regolamentare, essendo caratterizzate dai requisiti della generalità, dell’astrattezza e della innovatività propri degli atti normativi; pertanto, la legittimità di tali circolari deve essere valutata assumendo come parametro la legittimità dei regolamenti con cui esse sostanzialmente coincidono.

In via preliminare deve essere ritenuto, sulla scorta di un consolidato orientamento della giurisprudenza (cfr. ex multis TAR Molise, 15.01.2007 n. 12) che la circolare interpretativa di una legge è atto a rilevanza meramente interna, finalizzato ad indirizzare uniformemente l'azione di organi amministrativi, per cui non è configurabile quale atto presupposto del provvedimento lesivo che ne abbia fatto puntuale applicazione, con conseguente insussistenza di alcun onere di sua impugnativa, neppure in connessione con gli atti applicativi della norma di legge alla cui esplicazione ed interpretazione la circolare risulta diretta.
Com’è noto, la circolare, in linea generale, non ha carattere normativo, né tanto meno di provvedimento, ma rappresenta lo strumento mediante il quale l’Amministrazione fornisce indicazioni in via generale e astratta in ordine alle modalità con cui dovranno comportarsi in futuro i propri dipendenti e i propri uffici. Ne consegue che la circolare rientra nel genus degli atti interni all’amministrazione.
D’altra parte, deve essere riconosciuto che non tutte le circolari sono accomunate da identica natura. Occorre distinguere, infatti, le circolari interpretative dalle cosiddette circolari-regolamento.
Le prime
, al fine di favorire un’interpretazione uniforme di leggi e regolamenti, forniscono agli uffici subordinati una indicazione interpretativa, limitandosi a riproporre il contenuto precettivo degli atti normativi cui fanno riferimento; esse, di conseguenza, non sono dotate di forza innovativa.
Le seconde
, invece, costituiscono particolari figure di circolari, eccezionalmente idonee a produrre effetti giuridici esterni alla pubblica amministrazione; esse, sostanzialmente, hanno natura regolamentare, essendo caratterizzate dai requisiti della generalità, dell’astrattezza e della innovatività propri degli atti normativi; pertanto, la legittimità di tali circolari deve essere valutata assumendo come parametro la legittimità dei regolamenti con cui esse sostanzialmente coincidono (TAR Valle d'Aosta, sentenza 08.08.2015 n. 60 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Disabili, la scala si può ridurre. Condominio. Per installare un ascensore il disagio non è un’innovazione e va tollerato.
La Corte di Cassazione (Sez. II civile, sentenza 05.08.2015 n. 16486) si trova a decidere sulla validità e sulle maggioranze necessarie di una delibera assembleare che aveva disposto «la costruzione di un ascensore nel vano scale, mediante taglio e riduzione della larghezza della scala condominiale» per agevolare un condòmino disabile.
La delibera veniva adottata con il voto favorevole di tanti condòmini rappresentanti 608,33 millesimi, mentre secondo chi ha ricorso in Cassazione la costruzione dell'ascensore sarebbe consistita in una innovazione delle parti comuni, e quindici voleva la maggioranza qualificata di 666,6 millesimi. Inoltre la porzione di scala rimanente dopo l'istallazione dell'ascensore (larga , sarebbe stata (72 centimetri) inservibile o comunque molto pericolosa, non permettendo in caso di evacuazione il transito contemporaneo di due persone.
La Cassazione, nel respingere il ricorso, ha osservato come il concetto di inservibilità della cosa comune, che renderebbe nulla la delibera assembleare, non è paragonabile (come in questo caso) al semplice disagio causato ad alcuni condòmini dal fatto di avere una scala di dimensione più ridotte a causa della installazione dell'ascensore.
La Corte ha poi ricordato il principio della solidarietà condominiale, secondo il quale «a coesistenza di più unità immobiliari in un unico fabbricato implica di per sé il contemperamento di vari interessi, tra i quali deve includersi anche quello delle persone disabili all'eliminazione delle barriere architettoniche».
Proprio in applicazione di tale principio, pertanto, osserva la Corte, il condominio resistente (ove era stata deliberata la posa dell'ascensore) era caratterizzato (come risultante dalla istruttoria esperita in corso di causa) dalla presenza di diversi condòmini che, o poiché in età molto avanzata o in quanto disabili, non avrebbero di fatto potuto uscire dallo stabile se non utilizzando appunto un ascensore
(articolo Il Sole 24 Ore del 06.08.2015).

EDILIZIA PRIVATASecondo un orientamento giurisprudenziale seguito anche dalla Sezione, la presentazione dell'istanza di accertamento di conformità ex art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, in epoca successiva all'adozione dell'ordinanza di demolizione, ha automatico effetto caducante sull'ordinanza stessa, rendendola inefficace.
La presentazione della domanda di sanatoria obbliga difatti l’Amministrazione ad effettuare il riesame dell'abusività dell'opera, sia pure al fine di verificarne l'eventuale sanabilità; e ciò comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, esplicito o implicito (di accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa.

1. Il sig. L. Dell’A., odierno ricorrente, è proprietario di due manufatti ubicati nel territorio del Comune di Abbiategrasso, insistenti sul Foglio n. 10, pertinenziali ai mappali nn. 82 e 83.
2. Tali manufatti consistono in un fabbricato adibito a box, avente superficie pari a mq. 42,75, e in una tettoia in lamiera, chiusa su due lati, collocata in aderenza al suddetto box, avente superficie pari a mq. 14,75.
3. Con ordinanza n. 23 del 22.04.2013, il Comune di Abbiategrasso ha ordinato la demolizione dei due fabbricati, rilevandone la realizzazione in assenza di titolo edilizio.
4. Contro questo provvedimento è diretto il ricorso introduttivo.
5. Si è sono costituiti in giudizio, per resistere al gravame, il Comune di Abbiategrasso e la controinteressata 3EMME Evolution s.r.l., proprietaria di un immobile confinante con l’area in cui si trovano i fabbricati oggetto del provvedimento impugnato.
6. Dopo la proposizione del ricorso, e precisamente in data 24.07.2013, il sig. Dell’A. ha presentato al Comune di Abbiategrasso domanda di accertamento di conformità ex art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, nonché domanda di compatibilità paesaggistica ex art. 167 del d.lgs. n. 42 del 2004, entrambe relative alle opere di cui è causa.
7. Con atto del 06.09.2013, la Commissione per il paesaggio del Comune di Abbiategrasso ha espresso parere negativo all’accoglimento dell’istanza rilevando che i manufatti in questione sono, a suo giudizio, incompatibili con l’edificio rurale ad essi adiacente sia per morfologia che per i materiali di cui si compongono. La stessa Commissione ha anche rilevato l’impossibilità di procedere ad accertamento di compatibilità paesaggistica, atteso che i due interventi hanno determinato la creazione di nuova superficie e volume.
8. Quest’ultimo aspetto è stato valorizzato anche dal Soprintendente per i Beni Architettonici e Paesaggistici di Milano il quale, con provvedimento del 09.04.2014, ha dichiarato, proprio in ragione del fatto che i due fabbricati hanno creato nuova superficie e nuovo volume, l’improcedibilità dell’istanza di accertamento di compatibilità paesaggistica.
9. I due atti sono stati impugnati con motivi aggiunti depositati in giudizio in data 28.11.2014.
10. Successivamente, il Comune di Abbiategrasso, con provvedimento del 02.12.2014, ha respinto l’istanza di accertamento di conformità e, con ordinanza del 16.12.2014, ha ordinato la demolizione dei due manufatti.
11. L’interessato ha impugnato anche questi provvedimenti mediante la proposizione di ulteriori motivi aggiunti, depositati in giudizio in data 11.03.2015.
12. La Sezione, con ordinanza n. 463 del 13.04.2015, ha accolto l’istanza cautelare.
13. In prossimità dell’udienza di discussione del merito, le parti hanno depositato memorie, insistendo nelle loro conclusioni.
14. Tenutasi la pubblica udienza in data 17.06.2015, la causa è stata trattenuta in decisione.
15. Come anticipato, il ricorso in esame riguarda una serie di provvedimenti che hanno per oggetto due manufatti (un box ed una tettoia) di proprietà del ricorrente, ritenuti dal Comune di Abbiategrasso abusivi e non suscettibili di regolarizzazione.
16. Il Collegio deve innanzitutto rilevare l’improcedibilità del ricorso introduttivo con il quale è stata impugnata l’ordinanza di demolizione del 22.04.2013. Va invero osservato che, secondo un orientamento giurisprudenziale seguito anche dalla Sezione, la presentazione dell'istanza di accertamento di conformità ex art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, in epoca successiva all'adozione dell'ordinanza di demolizione, ha automatico effetto caducante sull'ordinanza stessa, rendendola inefficace. La presentazione della domanda di sanatoria obbliga difatti l’Amministrazione ad effettuare il riesame dell'abusività dell'opera, sia pure al fine di verificarne l'eventuale sanabilità; e ciò comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, esplicito o implicito (di accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa (cfr. TAR Campania Napoli, sez. VIII, 19.05.2015, n. 2763; TAR Lombardia Milano, sez. II, 23.10.2010, n. 2653; TAR Sicilia Palermo, sez. I, 02.04.2015, n. 813; TAR Liguria, sez. I, 26.02.2015, n. 235).
17. Nel caso concreto, il ricorrente, dopo l’adozione del provvedimento sanzionatorio impugnato con il ricorso introduttivo, ha presentato domanda di accertamento di conformità. Il procedimento si è peraltro concluso con l’emanazione di una nuova ordinanza di demolizione (conseguente al provvedimento di rigetto della sanatoria) che ha completamente sostituito la precedente.
18. Ne consegue che non sussiste più alcun interesse all’annullamento della prima ordinanza (ormai priva di effetti e sostituita dalla nuova) e che quindi, come anticipato, il ricorso introduttivo deve essere dichiarato improcedibile (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 05.08.2015 n. 1891 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Quando un provvedimento si basa su diverse ragioni, ciascuna delle quali di per sé sufficiente a giustificarne il contenuto dispositivo, l’infondatezza delle censure rivolte contro una di tali ragioni rende superfluo l’esame delle altre doglianze rivolte contro le restanti parti motivazionali, giacché l’eventuale accoglimento di queste ultime non potrebbe comunque determinare l’annullamento dell’atto.
61. Con i motivi rubricati sub A3 e A4, l’interessato censura le parti del provvedimento impugnato con cui vengono addotte ulteriori ragioni ostative all’accoglimento della domanda di sanatoria diverse da quelle attinenti al profilo paesaggistico.
62. L’esame di queste doglianze può essere omesso, potendosi applicare il noto principio giurisprudenziale secondo cui, quando un provvedimento si basa su diverse ragioni, ciascuna delle quali di per sé sufficiente a giustificarne il contenuto dispositivo, l’infondatezza delle censure rivolte contro una di tali ragioni rende superfluo l’esame delle altre doglianze rivolte contro le restanti parti motivazionali, giacché l’eventuale accoglimento di queste ultime non potrebbe comunque determinare l’annullamento dell’atto (cfr. Consiglio di Stato, ad. plen. 27.04.2015, n. 5) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 05.08.2015 n. 1891 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La natura abusiva delle opere di cui è causa costituisce presupposto sufficiente per l’emissione dell’ordinanza di demolizione. Non può quindi condividersi la censura che lamenta l’insussistenza dei presupposti.
Così come non può condividersi la prospettata carenza motivazionale del provvedimento, posto che l’Amministrazione, nel corpo motivazionale dello stesso, ha dato conto del carattere abusivo dell’intervento e delle ragioni poste a suffragio di tale conclusione.
Per quanto concerne il profilo dell’indeterminatezza -dovuta, secondo il ricorrente, alla mancata indicazione dei manufatti da demolire- si deve osservare che l’ordinanza, oltre a specificare che oggetto di demolizione sono il manufatto accessorio ad uso autorimessa e la tettoria, richiama le istanze di sanatoria e di accertamento di compatibilità paesaggistica presentate dal ricorrente, nonché i provvedimenti che ne hanno disposto il rigetto.
E’ del tutto ovvio, quindi, che oggetto di demolizione sono i manufatti di cui al presente ricorso.

69. Con il motivo rubricato sub. B3, l’interessato deduce la carenza di presupposti, l’indeterminatezza dell’atto impugnato ed il difetto di motivazione.
70. La censura è del tutto infondata in quanto la natura abusiva delle opere di cui è causa costituisce presupposto sufficiente per l’emissione dell’ordinanza di demolizione. Non può quindi condividersi la censura che lamenta l’insussistenza dei presupposti.
71. Così come non può condividersi la prospettata carenza motivazionale del provvedimento, posto che l’Amministrazione, nel corpo motivazionale dello stesso, ha dato conto del carattere abusivo dell’intervento e delle ragioni poste a suffragio di tale conclusione.
72. Per quanto concerne il profilo dell’indeterminatezza -dovuta, secondo il ricorrente, alla mancata indicazione dei manufatti da demolire- si deve osservare che l’ordinanza, oltre a specificare che oggetto di demolizione sono il manufatto accessorio ad uso autorimessa e la tettoria, richiama le istanze di sanatoria e di accertamento di compatibilità paesaggistica presentate dal ricorrente, nonché i provvedimenti che ne hanno disposto il rigetto. E’ del tutto ovvio, quindi, che oggetto di demolizione sono i manufatti di cui al presente ricorso.
73. La censura in esame è, per questa ragione, del tutto pretestuosa; essa non può essere pertanto condivisa (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 05.08.2015 n. 1891 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'obbligo di richiedere il titolo abilitativo per realizzare nuove edificazioni è stato introdotto per la prima volta nel nostro ordinamento dal regio decreto-legge 25.03.1935, n. 640. L’obbligo, poi ribadito dall’art. 31 della legge 17.08.1042, n. 1150, non riguardava tuttavia tutto il territorio comunale ma solo il centro abitato.
Il Comune, con regolamento vigente dal 25.09.1936, approvato ai sensi della legge n. 2248 del 1865 All. A e del relativo regolamento di attuazione approvato con regio decreto n. 2321 del 1865, nella versione modificata nell’anno 1939, aveva a sua volta ribadito siffatto obbligo, stabilendo che chi intendeva effettuare interventi edilizi avrebbe dovuto farne preventivamente denuncia al podestà. Anche per il regolamento comunale, l’obbligo riguardava però solo le costruzioni realizzate nel centro abitato, mentre rimaneva libera l’attività edilizia esterna al suo perimetro.
Solo con la legge 06.08.1967, n. 765, l’obbligo è stato esteso a tutto territorio comunale.
Ciò premesso, si deve ora osservare che, secondo la giurisprudenza, il soggetto che contesta il carattere abusivo di un’opera deducendone la realizzazione in epoca antecedente all’entrata in vigore delle disposizioni che hanno introdotto l’obbligo di munirsi di titolo abilitativo, non può limitarsi ad allegare tale circostanza ma deve fornire, perlomeno, un principio di prova in ordine al tempo di ultimazione dell’opera stessa.

28. Nel caso concreto, il ricorrente sostiene proprio che i manufatti oggetto dei provvedimenti impugnati sarebbero stati eretti prima dell’anno 1942 in area agricola/rurale all’epoca non soggetta ad alcun vincolo e non soggetta al rilascio di titoli abilitativi. Pertanto, a suo giudizio, le opere sarebbero state legittimamente realizzate.
29. In proposito si osserva quanto segue.
30. L'obbligo di richiedere il titolo abilitativo per realizzare nuove edificazioni è stato introdotto per la prima volta nel nostro ordinamento dal regio decreto-legge 25.03.1935, n. 640. L’obbligo, poi ribadito dall’art. 31 della legge 17.08.1042, n. 1150, non riguardava tuttavia tutto il territorio comunale ma solo il centro abitato.
31. Il Comune di Abbiategrasso, con regolamento vigente dal 25.09.1936, approvato ai sensi della legge n. 2248 del 1865 All. A e del relativo regolamento di attuazione approvato con regio decreto n. 2321 del 1865, nella versione modificata nell’anno 1939, aveva a sua volta ribadito siffatto obbligo, stabilendo che chi intendeva effettuare interventi edilizi avrebbe dovuto farne preventivamente denuncia al podestà. Anche per il regolamento comunale, l’obbligo riguardava però solo le costruzioni realizzate nel centro abitato, mentre rimaneva libera l’attività edilizia esterna al suo perimetro.
32. Solo con la legge 06.08.1967, n. 765, l’obbligo è stato esteso a tutto territorio comunale.
33. Ciò premesso, si deve ora osservare che, secondo la giurisprudenza, il soggetto che contesta il carattere abusivo di un’opera deducendone la realizzazione in epoca antecedente all’entrata in vigore delle disposizioni che hanno introdotto l’obbligo di munirsi di titolo abilitativo, non può limitarsi ad allegare tale circostanza ma deve fornire, perlomeno, un principio di prova in ordine al tempo di ultimazione dell’opera stessa (cfr. TAR Campania Napoli, sez. VI, 03.12.2014, n. 6321; TAR Piemonte, sez. I, 18.10.2012, n. 1112).
34. Come anticipato, il ricorrente sostiene che i due manufatti di cui è causa sarebbero stati realizzati prima del 1942 in area esterna al centro abitato.
35. Tale allegazione però non è stata suffragata da alcun elemento di prova.
36. Per quanto concerne il profilo spaziale, va osservato che il Comune di Abbiategrasso ha depositato in giudizio la planimetria allegata al regolamento edilizio del 1936, dalla quale si desume che l’area di proprietà del sig. Dell’A. ricadeva già all’epoca all’interno dell’aggregato urbano (cfr. doc. 21 del Comune di Abbiategrasso). Questa circostanza non può pertanto essere messa in discussione; con la conseguenza che, per sostenere la regolarità degli immobili di cui è causa, si dovrebbe provare che essi sono stati costruiti prima dell’anno 1939.
37. A questo proposito, il ricorrente tenta di dimostrare l’anteriorità della realizzazione richiamando la relazione del tecnico allegata alla domanda di accertamento di conformità (doc. 61 di parte ricorrente, depositato in data 22.05.2014) ed una polizia assicurativa stipulata da un precedente proprietario, risalente all’anno 1954 (doc. 3 di parte ricorrente, depositato in data 03.04.2015).
38. Con riferimento alla relazione del tecnico, si deve osservare che questi, per stabilire la data di realizzazione, si limita a richiamare imprecisate “notizie”, nonché le dichiarazioni rese dalla proprietà (cfr. pag. 3 della relazione). Si tratta, all’evidenza, di elementi che non possono costituire prova delle allegazioni di parte.
39. Per quando riguarda la polizza assicurativa, va osservato che in essa si fa riferimento ad un portichetto piccolo addossato al muro di cinta e aperto sugli altri lati, posto a circa tre metri dal fabbricato, e ad un piccolo portichetto addossato al muro di cinta posto a cinque metri dal fabbricato. Risulta dall’atto prodotto che entrambi i manufatti erano adibiti a ripostiglio di legna da ardere, e che quello più lontano dal corpo di fabbrica principale era adibito anche a ricovero di ruotabili e gabinetto.
40. Si tratta, con tutta evidenza, di manufatti completamente diversi da quelli oggetto dei provvedimenti impugnati (anche se probabilmente posti in posizione analoga), i quali, si ricorda, consistono in un box di ben 42 mq., chiuso su tutti i lati e munito di porte basculanti, ed in una tettoria avente superficie di 14,75 mq.
41. In ogni caso la polizza assicurativa risale all’anno 1954; essa pertanto non dimostra che gli immobili siano stati realizzati prima del 1939.
42. Il ricorrente fa, infine, riferimento ad alcune fotografie aree scattate nell’anno 1982, che dimostrerebbero la preesistenza rispetto, a quell’anno, dei due manufatti.
43. Anche tale elemento, per le medesime ragioni sopra illustrate, è però del tutto ininfluente.
44. Si deve pertanto ritenere che, come anticipato, il ricorrente non abbia fornito alcun elemento atto a dimostrare che la costruzione delle opere di cui è causa sia avvenuta in epoca antecedente all’introduzione dell’obbligo di munirsi di titolo abilitativo. Ne consegue che dette opere vanno considerate senz’altro abusive e che, quindi, correttamente l’Amministrazione ha accertato la loro compatibilità con il vincolo esistente al momento di valutazione della domanda di sanatoria.
45. Va, pertanto, ribadita l’infondatezza del motivo in esame.
...
74. Altrettanto può dirsi con riferimento alla censura che lamenta il fatto che, con la nuova ordinanza -diversamente dalla precedente che ingiungeva solo la demolizione- è stato per la prima volta disposto anche il ripristino dello stato dei luoghi. Va invero osservato, al di là di ogni altra considerazione, che le due misure sono del tutto equivalenti.
75. Con il motivo rubricato sub. B4 il ricorrente ripropone le censure dedotte avverso l’ordinanza di demolizione n. 23 del 22.04.2013 che, a suo dire, varrebbero anche per la nuova ordinanza. La parte rileva innanzitutto che il Comune non avrebbe dimostrato che gli immobili di cui è causa fossero ricompresi, dalla planimetria allegata al regolamento edilizio del 1936, nel perimetro del centro abitato.
76. La censura non può essere condivisa, in quanto, come detto,
l’Amministrazione ha depositato in giudizio una copia dalla suddetta planimetria (cfr. doc. 21 del Comune di Abbiategrasso) da cui si evince chiaramente che gli immobili ricadevano all’interno dell’aggregato urbano.
77.
Parte ricorrente sostiene che tale atto sarebbe inattendibile in quanto privo di data e di firma e, comunque, illeggibile.
78. In proposito si deve osservare che
la mancanza di data e di firma sulla planimetria non denotano l’inattendibilità della stessa, a meno che non si voglia sostenere che il Comune abbia deliberatamente prodotto in giudizio un documento falso, diverso da quello allegato al regolamento edilizio del 1936 (ma neppure parte ricorrente allega tale circostanza, limitandosi la stessa ad affermazioni generiche).
79.
Si deve poi aggiungere che la planimetria prodotta traccia con chiarezza il perimetro del centro abitato e che il Comune ha individuato sulla stessa gli immobili di proprietà del ricorrente. L’individuazione non è stata smentita da quest’ultimo, il quale anche per questo profilo si è limitato ad affermazioni generiche. Non può essere pertanto condivisa la tesi che sostiene illeggibilità dell’atto prodotto.
80.
Si deve quindi ribadire che, dalla documentazione depositata in giudizio, emerge che l’area su cui sorgono i fabbricati oggetto degli atti impugnati ricadeva, all’epoca di vigenza del regolamento edilizio del 1936, all’interno del centro abitato.
81. La censura in esame è dunque infondata (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 05.08.2015 n. 1891 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - VARI: La tolleranza esclude l’usucapione. Diritti reali. Ma se l’utilizzo del bene si prolunga nel tempo apre la strada al «possesso» e al passaggio di titolarità.
Se un bene è utilizzato da un soggetto diverso dal proprietario per tolleranza di costui, l’utilizzatore non si trova in una situazione di «possesso» ma di mera «detenzione», cosicchè non può maturare l’usucapione (che presuppone appunto una situazione di «possesso»). La tolleranza, e cioè la condiscendenza, è una situazione che si verifica specialmente in ragione dei rapporti tra il proprietario e l’utilizzatore: amicizia, parentela, vicinato. Se però, nel caso dei rapporti di amicizia e di buon vicinato, l’utilizzazione del bene altrui dura per un lungo periodo, la situazione evolve in vero e proprio «possesso», il che legittima la formazione dell’usucapione.
È quanto la Corte di Cassazione -Sez. II civile- ha deciso nella sentenza 04.08.2015 n. 16371.
Il «possesso» è una situazione di fatto che si ha quando un soggetto si comporta verso un dato bene altrui come se ne fosse il proprietario, senza però esserlo; la «detenzione» è invece la situazione in cui si trova chi utilizza il bene altrui, riconoscendo l’altrui diritto.
Possessore è il ladro (perché si comporta verso il bene rubato come se ne fosse il proprietario, ma non ne matura l’usucapione perché si tratta di un possesso acquistato violentemente); detentore è l’inquilino, perché, pagando (o dovendo pagare) il canone, riconosce il diritto di proprietà del soggetto che gli ha concesso in locazione il bene che l’inquilino utilizza.
L’usucapione è l’acquisto della proprietà del bene altrui per effetto del «possesso» perdurato per un certo tempo indicato dalla legge. Per aversi usucapione, occorre il possesso; la mera detenzione non porta all’usucapione. Per il maturare dell’usucapione, il possesso deve essere continuato (e cioè non discontinuo), non interrotto (non cessato per il venir meno dell’inerzia del titolare del diritto), pacifico (non conseguito con violenza) e non clandestino (non conseguito nascostamente).
Si dice «tolleranza» la situazione in cui l’utilizzatore di un dato bene altrui ne abbia la disponibilità per il fatto che il proprietario ne sia condiscendente (in modo esplicito o implicito); in sostanza, si tratta del proprietario che “chiude un occhio”: ad esempio, Tizio tollera che il suo vicino di casa Caio parcheggi nel posto-auto di Tizio mentre costui è in vacanza.
La tolleranza massimamente si ha per il fatto che proprietario e utilizzatore sono amici, parenti o vicini. Ma se l’utilizzo tollerato di un dato bene dura assai a lungo, c'è da chiedersi se tratti sempre di tolleranza (e quindi di “detenzione”) o se il rapporto tra proprietario e utilizzatore sia evoluto in una situazione diversamente qualificabile.
Ebbene, secondo la Cassazione, se è vero che i rapporti di parentela, di amicizia e di buon vicinato sono indice di tolleranza; è pur anche vero che se l’utilizzazione dura per lungo tempo, questo fatto rende improbabile la qualificazione della situazione in termini di tolleranza, in quanto, qualora almeno si verta in tela di rapporti di amicizia o di buon vicinato, che sono di per sé labili e mutevoli, la lunghezza del periodo di utilizzo fa propendere per una situazione di vero e proprio “possesso” e cioè una situazione da cui può in effetti derivare l’usucapione del bene da parte del soggetto che lo utilizza
(articolo Il Sole 24 Ore del 05.08.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Il Collegio ritiene di aderire alla precedente giurisprudenza che in numerosi casi analoghi, riguardanti la posizione di A.N.A.S. s.p.a., ha già accertato e dichiarato la legittimità delle ordinanze di rimozione (rifiuti abbandonati) adottate nei confronti di quest’ultima.
Da ultimo, può farsi richiamo a TAR Emilia Romagna, Sez. II, 21.05.2014, n. 524 che ha stigmatizzato l’inconferenza del rilievo volto a censurare il mancato accertamento di una responsabilità propria di A.N.A.S. s.p.a. relativamente all’abbandono dei rifiuti con conseguente insussistenza dell’obbligo di smaltimento, sia in relazione alle caratteristiche del bene, sia avuto riguardo alla sua estensione e sia, infine, alla sua difficile controllabilità: “… la questione controversa ha trovato soluzione con la sentenza del Consiglio di Stato, sez. IV, 13.01.2010, n. 84 che ha richiamato la Cassazione Civile, Sezioni Unite, 25.02.2009, n. 4472.
Secondo tale pronuncia, se è vero che l’art. 14 del D.Lgs. n. 22 del 1997 (oggi sostituito dal D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 192, comma 3), prevede la corresponsabilità solidale del proprietario o del titolare di diritti personali o reali di godimento sull’area ove sono stati abusivamente abbandonati o depositati rifiuti, con il conseguente suo obbligo di provvedere allo smaltimento ed al ripristino, solo in quanto la violazione sia imputabile anche a quei soggetti a titolo di dolo o colpa, le esigenze di tutela ambientale sottese alla norma citata rendono evidente che il riferimento a chi è titolare di diritti reali o personali di godimento va inteso in senso lato, essendo destinato a comprendere qualunque soggetto si trovi con l’area interessata in un rapporto, anche di mero fatto, tale da consentirgli -e per ciò stesso imporgli- di esercitare una funzione di protezione e custodia finalizzata ad evitare che l’area medesima possa essere adibita a discarica abusiva di rifiuti nocivi per la salvaguardia dell’ambiente; per altro verso, il requisito della colpa postulato da detta norma ben può consistere proprio nell’omissione degli accorgimenti e delle cautele che l’ordinaria diligenza suggerisce per realizzare un’efficace custodia e protezione dell’area, così impedendo che possano essere in essa indebitamente depositati rifiuti nocivi.
Si deve poi aggiungere che, in materia di strade, il canone dell’ordinaria diligenza va definito in relazione all’art. 14 del codice della strada (D.L.vo n. 285/19992) che prevede un obbligo da parte del gestore di provvedere alla pulizia delle strade e delle loro pertinenze.
Tale norma, fatto salvo il caso fortuito, impone quindi all’ANAS obblighi particolari anche in materia di rimozione dei rifiuti che insistono non solo sulla carreggiata, ma anche sulle pertinenze; ne consegue che il comune non era tenuto ad una motivazione particolare”.

La presente controversia concerne l’ordinanza indicata in epigrafe con la quale il Comune di Rosarno ha intimato ad ANAS s.p.a. –odierna ricorrente- di provvedere alla rimozione dei rifiuti giacenti nell’area, posta accanto al sottopasso della superstrada di collegamento al Porto di Gioia Tauro, sita in località Mongiari e corrispondente alla particella catastale n. 446 del foglio di mappa n. 446, con conseguente ordine di bonifica, recinzione e corretta custodia.
...  
Parimenti infondata è la censura relativa all’omessa comunicazione dell’avvio del procedimento, dovendo farsi applicazione dell’art. 21-octies, II comma, ultima parte, della L. n. 241/1990 come risulterà da quanto si viene di seguito ad esporre.
Nel merito, infatti, il Collegio ritiene di aderire alla precedente giurisprudenza che in numerosi casi analoghi, riguardanti la posizione di A.N.A.S. s.p.a., ha già accertato e dichiarato la legittimità delle ordinanze di rimozione adottate nei confronti di quest’ultima.
Da ultimo, anche ai sensi e per gli effetti dell’art. 74, ultima parte, c.p.a., può farsi richiamo a TAR Emilia Romagna, Sez. II, 21.05.2014, n. 524 che ha stigmatizzato l’inconferenza del rilievo volto a censurare il mancato accertamento di una responsabilità propria di A.N.A.S. s.p.a. relativamente all’abbandono dei rifiuti con conseguente insussistenza dell’obbligo di smaltimento, sia in relazione alle caratteristiche del bene, sia avuto riguardo alla sua estensione e sia, infine, alla sua difficile controllabilità: “… la questione controversa ha trovato soluzione con la sentenza del Consiglio di Stato, sez. IV, 13.01.2010, n. 84 che ha richiamato la Cassazione Civile, Sezioni Unite, 25.02.2009, n. 4472. Secondo tale pronuncia, se è vero che l’art. 14 del D.Lgs. n. 22 del 1997 (oggi sostituito dal D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 192, comma 3), prevede la corresponsabilità solidale del proprietario o del titolare di diritti personali o reali di godimento sull’area ove sono stati abusivamente abbandonati o depositati rifiuti, con il conseguente suo obbligo di provvedere allo smaltimento ed al ripristino, solo in quanto la violazione sia imputabile anche a quei soggetti a titolo di dolo o colpa, le esigenze di tutela ambientale sottese alla norma citata rendono evidente che il riferimento a chi è titolare di diritti reali o personali di godimento va inteso in senso lato, essendo destinato a comprendere qualunque soggetto si trovi con l’area interessata in un rapporto, anche di mero fatto, tale da consentirgli -e per ciò stesso imporgli- di esercitare una funzione di protezione e custodia finalizzata ad evitare che l’area medesima possa essere adibita a discarica abusiva di rifiuti nocivi per la salvaguardia dell’ambiente; per altro verso, il requisito della colpa postulato da detta norma ben può consistere proprio nell’omissione degli accorgimenti e delle cautele che l’ordinaria diligenza suggerisce per realizzare un’efficace custodia e protezione dell’area, così impedendo che possano essere in essa indebitamente depositati rifiuti nocivi.
Si deve poi aggiungere che, in materia di strade, il canone dell’ordinaria diligenza va definito in relazione all’art. 14 del codice della strada (D.L.vo n. 285/19992) che prevede un obbligo da parte del gestore di provvedere alla pulizia delle strade e delle loro pertinenze.
Tale norma, fatto salvo il caso fortuito, impone quindi all’ANAS obblighi particolari anche in materia di rimozione dei rifiuti che insistono non solo sulla carreggiata, ma anche sulle pertinenze; ne consegue che il comune non era tenuto ad una motivazione particolare
”.
Parte ricorrente, inoltre, non solo non ha provato, ma finanche allegato, l’adozione di alcuna cautela eventualmente adottata al fine di adempiere agli obblighi di custodia su di essa gravanti con ciò comprovando il proprio comportamento omissivo, fondante la corresponsabilità con gli autori dell'illecito (TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 03.08.2015 n. 809 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

TRIBUTI: Tarsu 2013 senza aumenti e senza addizionale ex «Eca». Enti locali. Decisione del Consiglio di Stato.
I Comuni rimasti a Tarsu nel 2013 non avrebbero dovuto applicare l’addizionale Eca né aumentare le tariffe rispetto al 2012, se non ponendo l’aumento a carico della fiscalità generale.
Lo ha deciso il Consiglio di Stato -Sez. V- con la sentenza 01.08.2015 n. 3781, confermando l’esito del giudizio di primo grado favorevole ad alcuni albergatori del salento.
La sentenza
La sentenza affronta diverse questioni, tra cui l’obbligo di motivare le modifiche tariffarie e il principio «chi inquina paga», ma anche la possibilità o meno di aumentare le tariffe e di applicare l’addizionale ex Eca per il 2013. Anno che avrebbe dovuto inaugurare l’entrata in vigore della Tares, il nuovo tributo sui rifiuti e sui servizi introdotto dal Dl 201/2011.
Ma una serie di difficoltà applicative hanno indotto il legislatore a modificare la disciplina prima con il Dl 35/2013 e poi con il Dl 102/2013. Alla fine la legge di conversione del Dl 102/2013 ha consentito ai Comuni di rimanere con i vecchi regimi (Tarsu, Tia1 o Tia2), rinviando al 2014 l’applicazione della Tares, che poi sarà soppressa e sostituita dalla Tari.
La disciplina transitoria
La disciplina ponte del 2013 è contenuta nell’articolo 5 del Dl 102/2013, in particolare nel comma 4-quater, inserito dalla legge di conversione 124/2013, sul quale si concentra l’attenzione dei giudici amministrativi. Per il Consiglio di Stato la norma si limita a prevedere, nel caso di opzione per la Tarsu, una ultrattività dei soli criteri adottati nel 2012 per determinare i costi del servizio e le relative tariffe, senza pertanto far rivivere la disciplina del Dlgs 507/1993. I giudici di Palazzo Spada pervengono quindi alla conclusione che il comune non avrebbe potuto né approvare un aumento del 30% delle tariffe previste per la Tarsu né applicare l’addizionale ex Eca del 10% in quanto soppressa dal 01.01.2013.
Il quadro di riferimento
Conclusione che non appare però condivisibile perché il comma 4-quater non si limita a disporre il rinvio ai soli criteri previsti per il 2012, ma prevede una “deroga” all’articolo 14, comma 46, del Dl 201/2011 (che abrogava tutti i prelievi sui rifiuti) rendendo così applicabile la vecchia disciplina, compresa l’addizionale ex Eca. Inoltre la norma contiene anche un espresso riferimento al «caso in cui il Comune continui ad applicare, per l’anno 2013, la Tarsu, in vigore nell’anno 2012».
Pertanto, pur in presenza di un testo piuttosto confuso, si ritiene che nel complesso la norma permetteva ai comuni di svincolarsi dai costi previsti dal Dpr 158/1999, senza l’obbligo di considerare tutte le nuove componenti (come il Carc) né di garantire il 100% di copertura, che poteva essere raggiunta anche attraverso entrate derivanti dalla fiscalità generale dell’ente. D’altronde non tutti i Comuni sarebbero stati in grado di fronteggiare gli aumenti con altre risorse.
Per quanto riguarda l’Eca si ritiene che il mantenimento della Tarsu per il 2013 comporti inevitabilmente l’applicazione dell’addizionale in deroga all’abrogazione prevista dal Dl 201/2011, neutralizzata dal comma 4-quater e rinviata al passaggio alla Tares-Tari
(articolo Il Sole 24 Ore del 04.08.2015).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Il pubblico impiegato che abbia adottato o concorso alla formazione, nell'esercizio delle proprie funzioni, di atti amministrativi lesivi di interessi legittimi, ne risponde nei confronti del terzo danneggiato dal provvedimento, non ostandovi il disposto dell'art. 23 d.p.r. n. 3 del 1957, il quale, interpretato in modo costituzionalmente orientato, non esclude la responsabilità del pubblico dipendente per lesione di interessi legittimi.
2.1. Col secondo motivo di ricorso i ricorrenti sostengono che la sentenza impugnata sarebbe affetta da una violazione di legge, ai sensi all'art. 360, n. 3, c.p.c.. Si assumono violati gli artt. 2043 c.c.; 23 del d.P.R. 10.01.1957 n. 3; 58 della I. 08.06.1990 n. 142.
Espongono, al riguardo, che la Corte d'appello avrebbe errato nel ritenere che un pubblico dipendente non possa essere chiamato a rispondere del danno causato a terzi nell'esercizio dell'attività d'ufficio, e consistito nella lesione d'un interesse legittimo.
2.2. Il motivo è fondato.
La Corte d'appello di Perugia ha rigettato la domanda di risarcimento del danno proposta nei confronti di Orfeo Carnevali (ed ora, per lui, del suo erede) con la seguente motivazione:
(a) il danneggiato, lamentando la mancata assegnazione di un incarico dirigenziale, ha prospettato la lesione d'un interesse legittimo;
(b) il pubblico impiegato che nell'esercizio delle sue funzioni causi a terzi un danno ne risponde, ma solo a condizione che tale danno sia consistito nella lesione d'un diritto;
(c) ergo, il pubblico impiegato non risponde dei danni provocati da atti amministrativi da lui adottati nell'esercizio delle sue funzioni, e lesivi soltanto d'un interesse legittimo.
Questa motivazione è erronea.
2.3. Il "danno ingiusto" di cui all'art. 2043 c.c. può consistere tanto nella lesione d'un diritto soggettivo assoluto, quanto nella lesione d'un diritto soggettivo relativo; quanto, infine, nella lesione d'un interesse legittimo come pure d'ogni altra situazione giuridica soggettiva "presa in considerazione dall'ordinamento" (così la fondamentale decisione pronunciata da Sez. U, Sentenza n. 500 del 22/07/1999, Rv. 530553).
Vero è che la lesione d'un interesse legittimo non può derivare che da una condotta della pubblica amministrazione, giacché solo a fronte dei poteri autoritativi di cui questa è titolare può concepirsi quella situazione giuridica soggettiva; ma è altresì vero che in tema di responsabilità aquiliana vige la regola dell'equivalenza delle condotte di cui all'art. 2055 c.c.: pertanto, se la p.a. con un proprio provvedimento viola un interesse legittimo, a provocare tale danno concorre anche il funzionario che quel provvedimento adotta ovvero non ostacola.
2.4. A queste conclusioni non osta il disposto dell'art. 23 d.P.R. 3/1957, cit. (il quale stabilisce che "é danno ingiusto, agli effetti previsti dall'art. 22, quello derivante da ogni violazione dei diritti dei terzi che l'impiegato abbia commesso per dolo o per colpa grave").
Questa norma, infatti, fu promulgata in un'epoca in cui non si dubitava della irrisarcibilità del danno da lesione di interesse legittimo (ex permultis, Sez. U, Sentenza n. 1950 del 25/06/1953, Rv. 880278).
Oggi il quadro normativo e giurisprudenziale è radicalmente mutato.
E' mutato il quadro normativo, perché la risarcibilità del danno da lesione di interessi legittimi è espressamente prevista dalla legge (art. 7, comma 4, d.lgs. 02.07.2010 n. 104).
E' mutato il quadro giurisprudenziale, perché sin dal 1999 le Sezioni Unite di questa Corte hanno ammesso la risarcibilità del danno da lesione d'interessi legittimi (Cass. 500/1999, cit.).
Il mutato quadro normativa e giurisprudenziale, che accorda a chiunque il diritto ad ottenere il risarcimento del danno da lesione di interessi legittimi, impone una lettura aggiornata e costituzionalmente orientata dell'art. 23 d.p.r. 3/1957, in virtù della quale l'espressione "violazione dei diritti dei terzi" deve intendersi quale sinonimo di "violazione degli interessi protetti dei terzi".
Qualsiasi diversa interpretazione, infatti, creerebbe una ingiustificata disparità di trattamento tra chi ha visto vulnerare dall'amministrazione un proprio diritto, e chi ha visto vulnerare un proprio interesse: al primo, infatti, sarebbe accordata sia l'azione contro l'impiegato, sia l'azione contro la p.a.; al secondo invece sarebbe concessa solo l'azione nei confronti della p.a.. E questo esito interpretativo si porrebbe in palese contrasto con l'art. 24 cost., a norma del quale tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi.
2.5. Le considerazioni che precedono sono già state implicitamente condivise da questa Corte in due occasioni.
Una prima volta con la sentenza pronunciata da Sez. 3, Sentenza n. 17914 del 25/11/2003, Rv. 568434, la quale, in un giudizio avente ad oggetto una domanda di risarcimento del danno da lesione di interessi legittimi proposta contro il pubblico impiegato, ha affermato che la responsabilità dei pubblici impiegati per i danni causati al cittadino in conseguenza di provvedimenti adottati nell'esercizio della proprie funzioni presuppone che il provvedimento sia stato adottato "in lesione di una situazione di interesse protetto" (e dunque non soltanto nel caso di lesione di diritti).
Una seconda volta con la sentenza pronunciata da Sez. U, Sentenza n. 5123 del 26/05/1994, Rv. 486773, la quale, sia pure pronunciandosi solo sulla giurisdizione, ha ritenuto comunque ammissibile una domanda di risarcimento del danno da lesione di interesse legittimo proposta direttamente nei confronti d'un pubblico impiegato.
Queste decisioni, oltre che le modifiche normative sopra ricordate, devono quindi fare ritenere abbandonato il diverso e più remoto orientamento espresso da Sez. U, Sentenza n. 3357 del 18/03/1992, Rv. 476329, secondo cui la condotta del pubblico impiegato lesiva d'un interesse legittimo "non possa costituire causa di danno risarcibile" ai sensi dell'art. 23 d.p.r. 3/1957.
In quella decisione, infatti, l'inammissibilità della domanda venne fondata unicamente sull'assunto che "la violazione dell'interesse legittimo non costituisce un danno risarcibile": sicché, venuto questo meno quest'ultimo principio, è caduta di conseguenza anche l'interpretazione restrittiva dell'art. 23 d.p.r. 3/1957, fatta propria dalla sentenza impugnata.
2.6. La sentenza impugnata va dunque cassata con rinvio alla Corte d'appello di Perugia in diversa composizione, la quale nel riesaminare l'appello si atterrà al seguente principio di diritto: "
Il pubblico impiegato che abbia adottato o concorso alla formazione, nell'esercizio delle proprie funzioni, di atti amministrativi lesivi di interessi legittimi, ne risponde nei confronti del terzo danneggiato dal provvedimento, non ostandovi il disposto dell'art. 23 d.p.r. n. 3 del 1957, il quale, interpretato in modo costituzionalmente orientato, non esclude la responsabilità del pubblico dipendente per lesione di interessi legittimi." (Corte di Cassazione, Sez. III civile, sentenza 31.07.2015 n. 16276).

INCARICHI PROFESSIONALI: Possibile verificare i crediti del debitore verso enti pubblici. Tar di Lecce. Opera il diritto di accesso.
Nuove possibilità per i creditori, nella ricerca di somme aggredibili: lo precisa il TAR Puglia-Lecce, Sez. II, con la sentenza 29.07.2015 n. 2564, che consente a un creditore di dare uno sguardo alle somme che il debitore deve riscuotere, quale professionista, per servizi resi a un ente pubblico.
In particolare, è stata esaminata la situazione di un avvocato che aveva gestito più liti per l’Inps e che, a sua volta, risultava debitore di un soggetto terzo: quest’ultimo, per riscuotere il credito dal proprio debitore-avvocato, ha chiesto all’Inps di conoscere gli onorari dovuti dall’Istituto previdenziale al professionista, per poi poterli aggredire.
L’aspetto innovativo della sentenza Tar riguarda la possibilità, per il creditore, di chiedere l’esibizione di documenti relativi al debitore, anche se il creditore abbia già intrapreso un’azione esecutiva di espropriazione presso terzi finalizzata al recupero del credito.
Di norma, chi ha un credito può effettuare un pignoramento presso i terzi che risultino debitori del suo debitore.
Ciò avviene con una azione denominata “accertamento dell’obbligo del terzo”, disciplinata dagli articoli 543 e seguenti del codice di procedura civile, con un meccanismo che prevede la ricerca del debitore del proprio debitore ed il pignoramento (blocco) delle operazioni di pagamento, dirottando tali pagamenti verso il creditore pignorante.
Per effettuare un pignoramento presso terzi, occorre tuttavia conoscere l’esistenza del credito vantato da chi è debitore, procedendo successivamente al pignoramento.
Appunto in tale fase opera il meccanismo dell’“accesso”, previsto dalla legge 241/1990, che il Tar Lecce applica al professionista legale che aveva curato delle cause per l’Inps.
Vi è quindi il diritto del creditore ad avere accesso a documenti concernenti le ragioni di credito vantate da un avvocato verso l’Inps, anche indipendentemente da una procedura esecutiva già in corso contro l’avvocato, perché vi è autonomia tra l’azione di accertamento dell’obbligo del terzo (nel caso esaminato, l’Inps) innanzi al giudice ordinario, rispetto alla domanda giudiziale indirizzata al Tar, per ottenere accesso agli atti detenuti dallo stesso terzo (Inps).
Le due azioni, innanzi al giudice ordinario e dinanzi al Tar, sono infatti cumulativamente percorribili.
Si completa in questo modo un sistema che già prevede l’accesso del subappaltatore rispetto alla gestione del contratto principale (Tar Lazio 879/2013), al fine di poter seguire l’andamento dei pagamenti a favore del proprio debitore, mentre il Tar Parma (370/2014) limita l’accesso alla dichiarazione dei redditi di un soggetto genericamente inadempiente a contratti.
Infine, la sentenza del Tar Lecce si collega alle recenti riforme nella ricerca dei beni da pignorare (articolo 492-bis del Cpc) e quindi alla previsione di accesso alle banche dati (Dl 83/2015, si veda il Sole del 26.06.2015): l’accesso attraverso l’ufficiale giudiziario deve tuttavia attendere uno specifico decreto ministeriale (articolo 155-quater disposizioni attuative del Codice di procedura civile) e inoltre presuppone un titolo già esecutivo, mentre l’accesso a norma della legge 241/1990 può avvenire anche senza un titolo già esecutivo, sulla base cioè di concrete e dimostrate esigenze di informazione
(articolo Il Sole 24 Ore del 06.08.2015).

CONDOMINIO: Tabelle modificate all’unanimità. Solo all’unanimità è possibile modificare le tabelle millesimali. Assemblea. Virata della Cassazione per cambiare il riparto.
La II Sez. civile della Corte di Cassazione, con la sentenza 28.07.2015 n. 15946, torna ad occuparsi della possibilità, da parte dell’assemblea, di modificare le tabelle millesimali.
Con un cambio di rotta rispetto alla giurisprudenza più recente, la Cassazione ritiene che la modifica possa essere effettuata solo all’unanimità dei comproprietari.
Un condòmino, a seguito di un’intimazione di pagamento per spese condominiali relative a garage e cantine, impugna il decreto ingiuntivo emesso nei suoi confronti dal condominio, sostenendo che le tabelle millesimali poste alla base della ripartizione delle spese non sono valide, non essendo state approvate all’unanimità da tutti i condòmini. Secondo la Corte d’appello, e la Cassazione conferma, «nessun rilievo poteva assumere la delibera (...) di modifica delle originarie tabelle in quanto adottata a seguito di assemblea condominiale all’unanimità dei presenti e non dei condòmini».
Si tratta di una sentenza piuttosto eccentrica: le Sezioni unite della Cassazione, con la sentenza 18477/2010, avevano infatti posto dei paletti stabilendo che, per la modifica delle tabelle, è sufficiente la maggioranza qualificata dei condomini per cui sarebbe sufficiente una delibera votata dalla maggioranza dei presenti in assemblea che rappresenti almeno 501 millesimi.
Tale orientamento è stato confermato dalla Cassazione più recente (sentenze 4569/2014 e 3221/2014). Secondo queste giurisprudenza, le tabelle millesimali non incidono sui diritti dei condomini ma si limitano ad esprimere, in termini aritmetici, il rapporto di valore tra i vari condòmini. La deliberazione assembleare che approva le tabelle millesimali, non costituisce quindi la fonte diretta dell’obbligo contributivo posto a carico di ciascun condòmino, ma si limita a rappresentare un parametro per la sua quantificazione, determinato in base ad un valutazione tecnica.
Le tabelle, insomma, almeno sino alla sentenza 15940/2015, non accertano il diritto dei singoli condomini sulle unità immobiliari di proprietà esclusiva, ma soltanto il valore di tali unità rispetto all’intero edificio
 (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.08.2015).

PUBBLICO IMPIEGO: Multe, ok chiudere un occhio. Ma due no.
Non configura il reato di omissione di atti d'ufficio la mancata redazione di un verbale stradale da parte di un operatore addetto ai controlli di polizia stradale.
Lo ha evidenziato la Corte di Cassazione, Sez. VI penale, con la sentenza 24.07.2015 n. 32594.
Un carabiniere è stato giudicato per una complessa vicenda di soprusi perpetrati ai danni di alcuni utenti stradali incappando poi in pesanti sanzioni penali confermate dalla Corte d'appello di Bologna.
Contro questa determinazione l'interessato ha proposto censure ai giudici del Palazzaccio che hanno riformulato parzialmente la sentenza. La mancata redazione di una multa stradale non configura il reato previsto e punito dall'art. 328 del codice penale.
I verbali stradali, infatti, non rientrano nelle categorie di atti tassativamente individuati dal modello normativo della fattispecie incriminatrice prevista dal codice, specifica il collegio.
Quindi omettere di redigere una multa, anche se evidentemente poco corretto, non configura automaticamente un grave reato di omissione di atti d'ufficio (articolo ItaliaOggi Sette del 03.08.2015).

APPALTI SERVIZIContano le prestazioni. Tar Lazio sulle parti di servizio.
Negli appalti di servizi e forniture l'obbligo di dichiarare le parti del servizio da svolgere può essere assolto sia in termini percentuali, sia indicando materialmente le prestazioni svolte da ogni soggetto raggruppato.

È quanto afferma il TAR Lazio-Roma, Sez. III-bis con la sentenza 24.07.2015 n. 10187 con riguardo a una gara di appalto di servizi e rispetto all'articolo 37 del codice dei contratti pubblici che stabilisce, per gli appalti di servizi e forniture, che nell'offerta devono essere specificate le parti del servizio o della fornitura che saranno eseguite dai singoli operatori economici riuniti o consorziati.
Il problema che veniva posto riguardava le modalità attraverso le quali assolvere l'obbligo. La sentenza preliminarmente chiarisce che l'obbligo dichiarativo è espressione di un principio generale che non consente distinzioni legate alla natura morfologica del raggruppamento (verticale o orizzontale).
Venendo poi alle modalità di assolvimento dell'onere dichiarativo i giudici precisano che l'obbligo si deve considerare legittimamente assolto in caso «sia di indicazione, in termini descrittivi, delle singole parti del servizio da cui sia evincibile il riparto di esecuzione tra loro, sia di indicazione, in termini percentuali, della quota di riparto delle prestazioni che saranno eseguite tra le singole imprese».
È infatti dall'applicazione del principio di tassatività delle cause di esclusione che discende l'impossibilità di reputare incongrue o illegittime le dichiarazioni di riparto tra le imprese raggruppate soltanto perché non ne rechino la puntigliosa suddivisione in valori e in percentuali, dovendo tener conto anche dell'oggetto del servizio e della complessità, o meno, della relativa esecuzione.
Inoltre, dicono i giudici, l'intervenuta abrogazione del principio della necessaria corrispondenza fra quote di esecuzione dell'appalto e quote di possesso dei requisiti di gara, obbligo che, conseguentemente, attualmente, deve essere ricostruito in termini di corrispondenza sostanziale e relativa responsabilità aziendale piuttosto che in termini di assoluta e precisa corrispondenza quantitativa (articolo ItaliaOggi del 07.08.2015).
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MASSIMA
Si premette che l’articolo 37 del d.lgs. n. 163 del 2006 dispone testualmente al riguardo che “4. Nel caso di forniture o servizi nell'offerta devono essere specificate le parti del servizio o della fornitura che saranno eseguite dai singoli operatori economici riuniti o consorziati. …
9. E' vietata l'associazione in partecipazione. Salvo quanto disposto ai commi 18 e 19, è vietata qualsiasi modificazione alla composizione dei raggruppamenti temporanei e dei consorzi ordinari di concorrenti rispetto a quella risultante dall'impegno presentato in sede di offerta.
10. L'inosservanza dei divieti di cui al precedente comma comporta l'annullamento dell'aggiudicazione o la nullità del contratto, nonché l'esclusione dei concorrenti riuniti in raggruppamento o consorzio ordinario di concorrenti, concomitanti o successivi alle procedure di affidamento relative al medesimo appalto. …
”.
Si rileva che
l'obbligo dichiarativo recato dall'art. 37, comma 4, del D.Lgs. n. 163 del 2006, avente ad oggetto la specificazione delle parti del servizio da eseguire a cura dei singoli operatori riuniti, è espressione di un principio generale che non consente distinzioni legate alla natura morfologica del raggruppamento (verticale o orizzontale), non distinguendo il dettato normativo tra associazioni di tipo orizzontale e associazioni di tipo verticale, alla tipologia delle prestazioni (principali o secondarie, scorporabili o unitarie) o al dato cronologico del momento della costituzione dell'associazione (costituita o costituenda) ed è previsto a pena di esclusione (Cons. Giust. Amm. Sic., 01.12.2014, n. 648).
E, tuttavia, in primo luogo,
l'obbligo di cui alla norma richiamata si deve considerare legittimamente assolto in caso sia di indicazione, in termini descrittivi, delle singole parti del servizio da cui sia evincibile il riparto di esecuzione tra loro, sia di indicazione, in termini percentuali, della quota di riparto delle prestazioni che saranno eseguite tra le singole imprese, Ciò in considerazione del principio di tassatività delle cause di esclusione, sancito dall'art. 46, c. 1-bis, D.Lgs. n. 163/2006, da cui discende l'impossibilità di reputare incongrue o illegittime le dichiarazioni di riparto tra le predette imprese soltanto perché non ne rechino la puntigliosa suddivisione in valori e in percentuali, dovendo tener conto anche dell'oggetto del servizio e della complessità, o meno, della relativa esecuzione (Cons. Stato, sez. III, 18.10.2013, n. 5069; TAR Sicilia–Palermo, sez. I, 23.01.2014, n. 212).
E, in secondo luogo,
l’intervenuta abrogazione del comma 13 dell’articolo 37 richiamato, e quindi del principio della necessaria corrispondenza fra quote di esecuzione dell’appalto e quote di possesso dei requisiti di gara, ha finito per incidere, indirettamente, anche sull’obbligo di cui al predetto comma 4 di esplicitazione delle parti di servizio di competenza delle singole imprese in RTI, obbligo che, conseguentemente, attualmente, deve essere ricostruito in termini di corrispondenza sostanziale e relativa responsabilità aziendale piuttosto che in termini di assoluta e precisa corrispondenza quantitativa.
Si premette, ancora, al riguardo, che l'articolo 275 del d.P.R. n. 207/2010, Requisiti dei partecipanti alle procedure di affidamento, dispone testualmente, al comma 2, che “2. Per i soggetti di cui all'articolo 34, comma 1, lettere d), e), f), e f-bis), del codice, il bando individua i requisiti economico-finanziari e tecnico-organizzativi necessari per partecipare alla procedura di affidamento, nonché le eventuali misure in cui gli stessi devono essere posseduti dai singoli concorrenti partecipanti. La mandataria in ogni caso deve possedere i requisiti ed eseguire le prestazioni in misura maggioritaria.”.
In linea generale, si rileva che il criterio adottato da parte della ricorrente di associazione meccanica tra presunta provenienza della risorsa professionale attestata attraverso il curriculum e quota di pertinenza del servizio presenta alcuni profili di arbitrarietà, laddove si consideri che, effettivamente, sebbene le risorse professionali siano la principale componente del complesso ed articolato apparato produttivo da attivare per la realizzazione del servizio, tuttavia, sono pur sempre soltanto una delle predette componenti, non potendosi disconoscere che, al riguardo, rilevino anche l’organizzazione aziendale complessiva, il know how specifico aziendale, i mezzi tecnici e/o consulenziali e di supporto etc..
Senza considerare, altresì, che i curricula degli esperti indicati non appaiono idonei a comprovare, di per sé soli, la specifica posizione della singola risorsa professionale nella fase di esecuzione del servizio, e, in particolare, per gli esperti che non siano titolari di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato per evidenti motivi.

PUBBLICO IMPIEGO: Anche in Regione funzioni dirigenziali solo per concorso. Al vertice. Decisione della Consulta.
Anche le Regioni e gli enti locali non possono promuovere a dirigente i dipendenti pubblici del comparto mediante procedure che vadano oltre i limiti stabiliti dal decreto legislativo 165/2001, il quale, com’è noto, costituisce ormai norma di principio applicabile agli enti locali ed alle Regioni sia per gli aspetti civilistici (la durata minima del contratto), sia per quelli di natura più strettamente organizzativa (le procedure di scelta dei dirigenti).
E ciò dopo la ben nota decisione della Corte costituzionale 324/2010, per la quale la normativa in questione (articolo 19 del Dlgs 165/2001) è «riconducibile alla materia dell’ordinamento civile di cui all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., poiché il conferimento di incarichi dirigenziali a soggetti esterni, disciplinato dalla normativa citata, si realizza mediante la stipulazione di un contratto di lavoro di diritto privato. Conseguentemente, la disciplina della fase costitutiva di tale contratto, così come quella del rapporto che sorge per effetto della conclusione di quel negozio giuridico, appartengono alla materia dell’ordinamento civile».
Conseguentemente, dopo la stangata ricevuta dall’agenzia delle Entrate, anche le Regioni (il meccanismo era contenuto in una legge regionale della Basilicata) si sono viste bloccare dalla Corte costituzionale potenziali promozioni a dirigente pubblico di dipendenti sprovvisti di tale status.

Con la recentissima sentenza 23.07.2015 n. 180, la Consulta stigmatizza l’operato legislativo finalizzato, tra l’altro, ad attribuire, nelle more dell’espletamento dei concorsi pubblici per l’accesso alla qualifica dirigenziale, le funzioni dirigenziali a dipendenti di ruolo dell’Amministrazione regionale appartenenti alla categoria D3 del comparto Regioni-enti locali in possesso dei requisiti per l’accesso alla qualifica dirigenziale, previo espletamento di apposite procedure selettive, stabilendo altresì che al dipendente incaricato spetti, per la durata dell’attribuzione delle funzioni, il trattamento tabellare già in godimento e il trattamento accessorio del personale con la qualifica dirigenziale.
Si afferma ancora una volta il principio per cui l'assegnazione, ancorché temporanea, di personale ad attività e mansioni di rango dirigenziale è in violazione ai requisiti prescritti dal Testo Unico del pubblico impiego.
D'altronde, la stessa Corte di cassazione più volte, in passato, ha confermato che «nell’ambito del pubblico impiego contrattualizzato il conferimento di mansioni dirigenziali ad un funzionario direttivo è illegittimo» (ex plurimis, Cass. Civ., Sezione Lavoro: n. 13597 dell’11.06.2009, n. 8529 del 12.04.2006, n. 10027 del 27.04.2007, ecc…).
Ben diverso epilogo avrebbe potuto avere una disposizione regionale che valorizzasse l’accesso a procedure selettive concorsuali allo scopo di consolidare pregresse esperienze lavorative maturate nell’ambito dell’amministrazione, purché ciò non escluda, o irragionevolmente riduca attraverso norme di privilegio, le possibilità di accesso per tutti gli altri aspiranti, con violazione del carattere del concorso (tra le tante, Corte cost. sent. n. 213/2010).
Ma forse per questa soluzione, stante il sostanziale blocco derivante dalla ricollocazione del personale delle Province, il tempo è oramai scaduto
(articolo Il Sole 24 Ore del 05.08.2015).
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3.– Il ricorrente censura inoltre l’art. 51, comma 4, della legge regionale n. 26 del 2014, nella parte in cui, inserendo il comma 9-bis all’art. 2 della legge della Regione Basilicata 25.10.2010, n. 31 (Disposizioni di adeguamento della normativa regionale al decreto legislativo 27.10.2009, n. 150. Modifica art. 73 della legge regionale 30.12.2009, n. 42. Modifiche della legge regionale 09.02.2001, n. 7. Modifica art. 10 legge regionale 02.02.1998, n. 8 e s.m.i.), prevede la possibilità di attribuire, nelle more dell’espletamento dei concorsi pubblici per l’accesso alla qualifica dirigenziale e, comunque, per non oltre due anni, le funzioni dirigenziali a dipendenti a tempo indeterminato di ruolo dell’amministrazione regionale appartenenti alla categoria D3 giuridico del comparto Regioni-Enti locali in possesso dei requisiti per l’accesso alla qualifica dirigenziale, previo espletamento di apposite procedure selettive, disponendo, altresì, che al dipendente incaricato spetti, per la durata dell’attribuzione delle funzioni, il trattamento tabellare già in godimento e il trattamento accessorio del personale con qualifica dirigenziale.
Tale disposizione violerebbe gli artt. 97 e 117, secondo comma, lettera l), Cost., che riserva alla competenza legislativa esclusiva dello Stato la materia dell’«ordinamento civile» cui devono essere ricondotte tutte le regole inerenti al rapporto di lavoro, come quelle oggetto della predetta disposizione impugnata.
3.1.– La questione è fondata in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost.
La norma regionale impugnata ha inserito il comma 9-bis all’art. 2 della legge regionale n. 31 del 2010. L’art. 2 della predetta legge regionale è così rubricato: «Adeguamento delle disposizioni regionali all’art. 19 del d.lgs. n. 165/2001 in materia di conferimento delle funzioni dirigenziali».
Il citato art. 19 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165 (Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), modificato dal decreto legislativo 27.10.2009, n. 150 (Attuazione della legge 04.03.2009, n. 15, in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni), detta norme in tema di conferimento di «incarichi di funzioni dirigenziali» con riguardo alle amministrazioni statali. Poiché l’art. 27 del medesimo d.lgs. n. 165 del 2001 dispone che «Le regioni a statuto ordinario, nell’esercizio della propria potestà statutaria, legislativa e regolamentare […] adeguano ai princípi dell’articolo 4 e del presente capo i propri ordinamenti, tenendo conto delle relative peculiarità», con l’ art. 2 della legge regionale n. 31 del 2010 la Regione Basilicata ha provveduto a realizzare tale adeguamento.
Tuttavia,
il comma 9-bis introdotto al citato art. 2 con la norma regionale ora impugnata (l’art. 51, comma 4, della legge regionale n. 26 del 2014) interviene a dettare norme specificamente in tema di assegnazione temporanea di personale ad altre mansioni (nella specie di rango dirigenziale), norme che, peraltro, risultano difficilmente riconducibili alle fattispecie delineate dal d.lgs. n. 165 del 2001.
Esse, infatti, non configurano un’ipotesi di legittimo conferimento di mansioni superiori (di cui all’art. 52 del d.lgs. n. 165 del 2001), in quanto, oltre a non soddisfare i requisiti prescritti dal citato decreto legislativo (e dal relativo contratto collettivo), delineano il conferimento di funzioni corrispondenti ad una diversa “carriera” (quella dirigenziale, appunto), piuttosto che di mansioni superiori, sanzionato dall’art. 52, comma 5, del medesimo d.lgs. n. 165 del 2001.
Né si può ravvisare la fattispecie della reggenza, poiché quest’ultima ricorre solo in caso di vacanza di posto in organico, di temporaneità e straordinarietà, con la conseguenza che non si producono gli effetti retributivi propri del riconoscimento dello svolgimento di mansioni superiori.

Nella specie, infatti, la norma regionale dispone che la temporaneità dell’incarico potrebbe espandersi fino a due anni e riconosce ai soggetti investiti del medesimo incarico sulla base di apposite procedure selettive il trattamento retributivo accessorio del personale con qualifica dirigenziale.
È indirizzo costante di questa Corte quello secondo cui
per effetto della «intervenuta privatizzazione del rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, che interessa, altresì, il personale delle Regioni, la materia è regolata dalla legge dello Stato e, in virtù del rinvio da essa operato, dalla contrattazione collettiva» (sentenza n. 286 del 2013). Infatti, a seguito della suddetta privatizzazione, la materia cui va ricondotto il rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni ivi comprese le Regioni è quella dell’ordinamento civile, che appartiene alla potestà del legislatore statale, il quale «ben può intervenire […] a conformare gli istituti del rapporto di impiego attraverso norme che si impongono all’autonomia privata con il carattere dell’inderogabilità, anche in relazione ai rapporti di impiego dei dipendenti delle Regioni (sent. n. 19 del 2013)» (sentenza n. 228 del 2013).
In altri termini,
«la disciplina del rapporto lavorativo dell’impiego pubblico privatizzato è rimessa alla competenza legislativa statale di cui all’art. 117, secondo comma, lett. l), Cost., in quanto riconducibile alla materia “ordinamento civile”, che vincola anche gli enti ad autonomia differenziata (cfr. sentenza n. 151 del 2010; sentenza n. 95 del 2007)» (sentenza n. 77 del 2013).
Con riguardo, poi, specificamente, all’assegnazione temporanea di personale ad altre mansioni, questa Corte ha già avuto occasione di affermare che essa «tipicamente attiene allo svolgimento del rapporto di lavoro. Ne concreta, cioè, una modificazione temporanea con riguardo al contenuto della prestazione lavorativa» delineando un «mutamento provvisorio di mansioni». Pertanto, «la relativa disciplina rientra […] nella materia del rapporto di lavoro e, per esso, dell’ordinamento civile, […] di competenza esclusiva dello Stato ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera l) Cost.» (sentenza n. 17 del 2014).
Sulla base delle richiamate indicazioni, risulta dunque evidente che l’art. 51, comma 4, della legge regionale n. 26 del 2014 è costituzionalmente illegittimo per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost.
Al di là della verifica della scarsa coerenza della disciplina dettata dalla norma regionale impugnata con la corrispondente disciplina di fonte statale e negoziale, la norma in questione regola una fattispecie che, incidendo sull’assegnazione del personale ad altre mansioni (nella specie di rango dirigenziale): sentenza n. 37 del 2015, e comunque sull’inquadramento professionale dello stesso, con effetti sul trattamento retributivo, tocca inevitabilmente aspetti che attengono allo svolgimento del rapporto di lavoro, da ricondursi alla materia dell’«ordinamento civile», di competenza statale esclusiva ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera l) Cost..

LAVORI PUBBLICI: Grandi opere «intoccabili» dopo l’ok Cipe. Tar di Milano. Il Comune non può modificare il piano territoriale per fermare l’intervento.
Dopo che il Comitato interministeriale per la programmazione economica (Cipe) ha approvato il progetto preliminare di una “grande opera” e quindi l’assetto urbanistico dell’area d’insediamento, l’ente locale interessato dai lavori non può modificare il proprio piano territoriale per annullarne il progetto.
L’ha chiarito il TAR Lombardia-Milano nella sentenza 22.07.2015 n. 1770, Sez. III, bocciando il ricorso di alcuni residenti contro l’esproprio di terreni di proprietà su cui era prevista una pista ciclopedonale inclusa nella riqualificazione di una strada provinciale, «opera connessa» all’«infrastruttura strategica» della Tangenziale est esterna di Milano.
Per i ricorrenti, l’atto era illegittimo poiché il progetto aveva ormai perso «compatibilità urbanistica»: sei anni dopo l’«ok» del Cipe al preliminare, il Comune aveva approvato il nuovo Piano di governo del territorio (Pgt), destinando l’area a “trasformazione produttiva” (industria, terziario e commercio).
Il Tar ha spiegato che il Codice degli appalti in tema di “progetto preliminare” di tali infrastrutture (comma 7, articoli 165 del Dlgs 163/2006) stabilisce che il relativo via libera «determina, ove necessario (…), l’accertamento della compatibilità ambientale dell’opera e perfeziona, a ogni fine urbanistico ed edilizio, l’intesa Stato-regione sulla sua localizzazione, comportando l’automatica variazione degli strumenti urbanistici vigenti ed adottati».
Tali dettami, ha ricordato il collegio, fissano che «gli enti locali provvedono alle occorrenti misure di salvaguardia delle aree impegnate e delle relative eventuali fasce di rispetto e non possono rilasciare, in assenza dell’attestazione di compatibilità tecnica da parte del soggetto aggiudicatore, permessi di costruire, né altri titoli abilitativi nell’ambito del corridoio individuato con l’approvazione del progetto ai fini urbanistici e delle aree comunque impegnate (…)».
Per i giudici, quindi, «ritenere che deliberazioni successive dei singoli enti locali, di tratto diverso dalle delibere di approvazione dei progetti preliminari, possano rendere le cosiddette “grandi opere” incompatibili con gli strumenti urbanistici sopravvenuti ne vanificherebbe, nei fatti, la realizzazione e renderebbe facilmente eludibili le norme citate».
Nella sentenza si è così infine affermato come in tali casi «l’ente locale non abbia il potere di modificare unilateralmente lo strumento urbanistico relativamente alle aree su cui incide il progetto e che eventuali provvedimenti comportanti modifiche unilaterali successivamente intervenuti debbano quindi essere considerati nulli per difetto di un elemento essenziale dell’atto», ovvero «la coerenza –sotto il profilo urbanistico– con le delibere Cipe»
(articolo Il Sole 24 Ore del 06.08.2015).
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MASSIMA
La variazione degli strumenti urbanistici vigenti ed adottati è determinata, quale effetto automatico, dall’approvazione del progetto preliminare dell’opera, secondo il disposto dell’art. 3, comma 7, del D.Lgs. 190/2002 (oggi ritrasfuso nell’art. 165, comma 7, del D.Lgs. 163/2006), applicabile alla vicenda ratione temporis: «…L’approvazione determina, ove necessario ai sensi delle vigenti norme, l’accertamento della compatibilità ambientale dell’opera e perfeziona, ad ogni fine urbanistico ed edilizio, l’intesa Stato-regione sulla sua localizzazione, comportando l’automatica variazione degli strumenti urbanistici vigenti ed adottati…».
Lo stesso comma 7 stabilisce –fra l’altro– anche che «…gli enti locali provvedono alle occorrenti misure di salvaguardia delle aree impegnate e delle relative eventuali fasce di rispetto e non possono rilasciare, in assenza dell’attestazione di compatibilità tecnica da parte del soggetto aggiudicatore, permessi di costruire, né altri titoli abilitativi nell’ambito del corridoio individuato con l’approvazione del progetto ai fini urbanistici e delle aree comunque impegnate dal progetto stesso…».
Da tali disposizioni normative discende, quale logica conseguenza che
l’assetto territoriale derivante dalle delibere di approvazione dei progetti preliminari non possa essere unilateralmente modificato da determinazioni successive delle amministrazioni locali il cui territorio è coinvolto nella realizzazione dell’infrastruttura e delle opere connesse.
Infatti,
ritenere che deliberazioni successive dei singoli enti locali, di tratto diverso dalle delibere di approvazione dei progetti preliminari, possano rendere le cd. “grandi opere” incompatibili con gli strumenti urbanistici sopravvenuti ne vanificherebbe, nei fatti, la realizzazione e renderebbe facilmente eludibili le norme citate.
Ciò induce a ritenere che
–successivamente all’approvazione del progetto preliminare con delibera CIPE– l’ente locale non abbia il potere di modificare unilateralmente lo strumento urbanistico relativamente alle aree su cui incide il progetto e che eventuali provvedimenti comportanti modifiche unilaterali successivamente intervenuti debbano quindi essere considerati nulli per difetto di un elemento essenziale dell’atto.
Discende infatti dalle disposizioni normative sopra indicate che, nell’ambito dei provvedimenti inerenti le cd “grandi opere”, la coerenza –sotto il profilo urbanistico– con le delibere CIPE di approvazione del progetto preliminare costituisce elemento essenziale dei provvedimenti comunali comportanti modifiche unilaterali degli strumenti urbanistici successivamente intervenuti (con riferimento alla possibilità di individuazione di specifici elementi essenziali per tipologia di provvedimenti, si veda Cons. Stato, Sez. VI, 23.05.2012, n. 3039, in relazione all’elemento dell’assenza di dissensi qualificati nella previa conferenza di servizi).

TRIBUTIIci/Imu, sì a esenzioni multiple. Il contemporaneo uso di più unità non vieta il beneficio. La Ctp di Roma: per l'agevolazione conta l'effettiva utilizzazione degli immobili.
Il comune di Roma non può negare il diritto a fruire dell'agevolazione Ici a un contribuente che utilizzi più immobili, distintamente iscritti in catasto, come abitazione principale. Il contemporaneo utilizzo di più unità catastali non costituisce impedimento all'applicazione, per tutte, dell'esenzione prevista per l'abitazione principale. Per fruire dei benefici fiscali non conta il numero delle unità catastali, ma l'effettiva utilizzazione degli immobili complessivamente considerati come prima casa.

L'importante principio è stato affermato dalla Commissione tributaria provinciale di Roma, Sez. XXXVII, con la sentenza 17.07.2015 n. 16449.
Lo stesso problema si pone per l'Imu e l'esenzione non dovrebbe essere disconosciuta qualora l'interessato utilizzi più immobili, ancorché l'articolo 13 del dl Monti (201/2011) prevede che l'abitazione principale sia limitata a un'unica unità immobiliare.
Per i giudici capitolini, «la ricorrente ha fornito prova sufficiente di utilizzare tutto l'immobile (210 mq lordi) come abitazione principale, così come risulta dalla documentazione prodotta ed in particolare dalla certificazione anagrafica. D'altro canto, il nucleo familiare, composto di cinque membri di cui quattro adulti e di collaboratrice domestica, appare avere un'esigenza abitativa correlata correttamente all'estensione e caratteristiche del cespite».
Secondo la commissione, «il contemporaneo utilizzo di più unità catastali non costituisce impedimento all'applicazione, per tutte, dell'aliquota agevolata (ovvero esenzione) prevista per l'abitazione principale, assumendo rilievo a tal fine non il numero delle unità catastali», ma «l'effettiva utilizzazione ad abitazione principale dell'immobile complessivamente considerato». Nel caso in esame la questione dell'esenzione Ici, che ha formato oggetto di contestazione da parte del comune di Roma, riguardava l'anno d'imposta 2008.
L'esenzione Ici. Il contribuente, dunque, ha diritto all'esenzione Ici se utilizza contemporaneamente diversi fabbricati come abitazione principale, anche nel caso in cui titolare degli immobili non sia un unico proprietario. In questi termini si è espressa anche la Corte di Cassazione con la
sentenza 19.05.2010 n. 12269.
Bisogna ricordare che l'agevolazione per l'Ici non era più limitata solo a aliquota agevolata e detrazione. Dal 2008 non erano più tenuti al pagamento dell'Ici i titolari di immobili adibiti ad abitazione principale, che era quella in cui i contribuenti avevano la residenza anagrafica e destinavano a dimora abituale. Erano, al solito, escluse dal beneficio solo le unità immobiliari iscritte nelle categorie catastali A1, A8 e A9 (immobili di lusso, ville e castelli). In base a quanto disposto dall'articolo 1 del decreto-legge 93/2008, l'esenzione si estendeva agli immobili assimilati dai comuni alla prima casa e alle pertinenze.
Il beneficio si applicava anche agli immobili parificati dalla legge all'abitazione principale (appartenenti alle cooperative edilizie e assegnati ai soci) e a quelli assimilati dai comuni. Il dipartimento delle Finanze del Ministero dell'economia (risoluzione 04.03.2009 n. 1/DF) aveva però precisato, modificando il proprio orientamento manifestato con la risoluzione 05.06.2008 n. 12/DF, che l'agevolazione operasse solo nei casi di assimilazione stabiliti da specifiche disposizioni di legge.
Quindi, si poteva considerare adibita a prima casa l'unità immobiliare posseduta a titolo di proprietà o di usufrutto da anziani o disabili che acquisivano la residenza in istituti di ricovero o cura, a condizione che non risultasse locata, e quella concessa in uso gratuito a parenti in linea retta o collaterale. Per il Ministero, però, era necessario che il comune avesse espresso la volontà di effettuare l'assimilazione entro la data fissata dalla legge (29.05.2008). In questi casi il comune aveva diritto al rimborso da parte dello stato del minor gettito Ici.
Esenzione Imu. La nozione di prima casa per l'Imu è leggermente diversa rispetto a quella stabilita per l'Ici dall'articolo 8 del decreto legislativo 504/1992. In base a quanto disposto dall'articolo 13 del dl 201/2011, per abitazione principale si intende l'immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore dimora abitualmente e risiede anagraficamente.
Per pertinenze dell'abitazione principale si intendono esclusivamente quelle classificate nelle categorie catastali C/2, C/6 e C/7, nella misura massima di un'unità pertinenziale per ciascuna delle suddette categorie catastali, anche se iscritte in catasto unitamente all'immobile adibito ad abitazione. In presenza delle condizioni di legge questi immobili sono esenti, tranne quelli iscritti nella categorie catastali A1, A8 e A9, vale a dire immobili di lusso, ville e castelli, per i quali il trattamento agevolato è limitato all'aliquota e alla detrazione.
La legge, infatti, prevede per queste unità immobiliari l'applicazione di una aliquota ridotta del 4 per mille, che i Comuni possono aumentare o diminuire di 2 punti percentuali, e una detrazione di 200 euro. Mentre l'aliquota di base per tutti gli altri immobili, a partire dalle seconde case, è fissata nella misura del 7,6 per mille, che gli enti locali possono aumentare o diminuire di 3 punti percentuali.
L'utilizzo di più immobili. Anche per l'Imu il contribuente dovrebbe avere diritto al trattamento agevolato qualora utilizzi contemporaneamente diversi fabbricati come abitazione principale, visto che l'articolo 13 richiede che si tratti di un'unica unità immobiliare iscritta o «iscrivibile» come tale in catasto.
Si ritiene sufficiente che sussistano due requisiti: uno soggettivo e l'altro oggettivo. Nello specifico, le diverse unità immobiliari devono essere possedute da un unico titolare e devono essere contigue. Del resto, la Cassazione più volte ha affermato che ciò che conta è l'effettiva utilizzazione come abitazione principale dell'immobile complessivamente considerato, a prescindere dal numero delle unità catastali.
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Stesso solco tracciato dalla Cassazione.
Per la Corte di Cassazione (sentenza 25.10.2008 n. 25902;
sentenza 12.02.2010 n. 3397 e sentenza 19.05.2010 n. 12269) quello che conta è l'effettiva utilizzazione come abitazione principale dell'immobile complessivamente considerato, a prescindere dal numero delle unità catastali. Non importa, peraltro, che gli immobili distintamente iscritti in catasto siano di proprietà non di un solo coniuge ma di ciascuno dei due in regime di separazione dei beni.
A patto che «il derivato complesso abitativo utilizzato non trascenda la categoria catastale delle unità che lo compongono». Secondo i giudici di legittimità, una interpretazione contraria non sarebbe rispettosa della finalità legislativa di ridurre il carico Ici sugli immobili adibiti a «prima casa», confermata dalla previsione dell'esenzione totale dal 2008.
Tuttavia, la tesi dei giudici di piazza Cavour si pone in contrasto con quanto affermato dal dipartimento delle Finanze del Ministero dell'economia (risoluzione 6/2002) sui presupposti richiesti per usufruire dei benefici fiscali. Il Ministero ha infatti precisato che due o più unità immobiliari vanno singolarmente e separatamente soggette a imposizione, «ciascuna per la propria rendita».
Dunque, solo una può essere considerata ai fini Ici come abitazione principale. Il contribuente, per usufruire dell'esenzione, dovrebbe richiedere l'accatastamento unitario degli immobili, per i quali è attribuita in catasto una distinta rendita, presentando all'ente una denuncia di variazione.
Allo stesso modo si è espresso il Ministero dell'economia con la
circolare 18.05.2012 n. 3/DF per circoscrivere l'esenzione Imu.
Dalla lettura della norma emergerebbe che l'abitazione principale deve essere costituita da una sola unità immobiliare iscritta o iscrivibile in catasto, a prescindere dalla circostanza che, di fatto venga utilizzato più di un fabbricato distintamente iscritto in catasto. In questo caso, le singole unità immobiliari vanno assoggettate separatamente a imposizione, ciascuna per la propria rendita.
Il contribuente può scegliere quale destinare a prima casa; «le altre, invece, vanno considerate come abitazioni diverse da quella principale con l'applicazione dell'aliquota deliberata dal comune per tali tipologie di fabbricati» (articolo ItaliaOggi Sette del 10.08.2015).

TRIBUTI: La pubblicità sui silos compete al Comune del luogo del cantiere. Affissioni. A chi spettano riscossione e accertamento.
Competente per l’accertamento e la riscossione dell’imposta sulla pubblicità per i marchi sulle macchine da cantiere è il concessionario del Comune nel cui territorio l’esposizione pubblicitaria è effettuata e non quello in cui ha sede l’impresa.
A precisarlo è la Ctp di Reggio Emilia, con la sentenza 17.07.2015 n. 330/03/2015 (presidente Montanari, relatore Gianferrari).
La vicenda nasce da un atto impositivo notificato dal concessionario comunale dell’imposta sulla pubblicità a una società costruttrice di macchine per l’edilizia. Alla contribuente era contestato di non aver versato l’imposta sulle scritte raffiguranti il marchio aziendale apposte sui silos prodotti e utilizzati nei cantieri. Il concessionario che emetteva l’atto era quello del Comune in cui erano esposte le macchine.
La società proponeva ricorso in Ctp lamentando, in via pregiudiziale, che la competenza per l’accertamento e la riscossione dell’imposta su questi tipi di mezzi pubblicitari spetterebbe al Comune in cui ha sede la società produttrice dei silos e non a quello del territorio in cui la pubblicità è effettuata. Inoltre, nel merito, affermava che la scritta non eccedeva le misure minime che per legge sono esentate dal pagamento dell’imposta.
Secondo l’articolo 3, comma 16-sexies, del Dl 16/2012 il Mef provvede, con proprio decreto, a disciplinare l’applicazione dell’imposta comunale sulla pubblicità di cui al Dlgs 507/73, al marchio apposto sulle gru mobili, su quelle a torre adoperate nei cantieri edili e sulle macchine da cantiere. È stato, dunque, emanato il Dm del 26.07.2012 che all’articolo 2 stabilisce i limiti dimensionali entro cui l’imposta non è dovuta. Inoltre, la stessa disposizione stabilisce al comma 2 che, qualora l’imposta sia dovuta, allora sarà competente il Comune dove ha sede l’impresa produttrice dei beni.
La Ctp, pur accogliendo il ricorso nel merito, ha ritenuto infondata l’eccezione pregiudiziale. I giudici affermano che, seppur il Dm del 2012 attribuirebbe la competenza al Comune dove ha sede l’impresa, al contrario l’articolo 1 del Dlgs 507/1993 stabilisce che la pubblicità esterna e le pubbliche affissioni sono soggette a un’imposta a favore del Comune nel cui territorio sono effettuate. In caso di contrasto tra regolamento e legge, il primo -ritenuto illegittimo- va disapplicato a favore della seconda.
A questo proposito, l’articolo 7, comma 5, del Dlgs 546/1992 dispone che le commissioni tributarie, se ritengono illegittimo un regolamento o un atto generale rilevante ai fini della decisione, non lo applicano in relazione all’oggetto dedotto in giudizio. I giudici, dunque, hanno ritenuto di non applicare il disposto del Dm, ritenendo prevalente il dettato normativo che privilegia la competenza del Comune dove viene effettuata la pubblicità.
Pur respingendo l’eccezione preliminare della ricorrente, tuttavia, il ricorso è stato accolto nel merito poiché la superficie del silos contenente il marchio societario risultava inferiore rispetto alla minima imponibile
(articolo Il Sole 24 Ore del 03.08.2015).

INCARICHI PROFESSIONALI: I legali sono sospesi per suggerimenti illegali.
Nel caso in cui un avvocato suggerisce al cliente di aggirare il problema dell'avvenuta prescrizione documentandone falsamente l'interruzione, sarà legittima la sanzione disciplinare della sospensione dall'esercizio della professione.

Lo hanno stabilito i giudici delle Sezz. Unite civili della Corte di Cassazione con la sentenza 16.07.2015 n. 14905.
I giudici di Piazza Cavour sono stati chiamati ad esprimersi su un caso in cui un Consiglio dell'Ordine degli Avvocati aveva inflitto ad un avvocato la sanzione disciplinare di due mesi di sospensione dall'esercizio dell'attività professionale per aver proposto al proprio assistito, al fine di rimediare all'intervenuta prescrizione del diritto al risarcimento del danno, di utilizzare una falsa documentazione così da attestare falsamente di avere interrotto il termine di prescrizione.
Il ricorso avverso la suddetta decisione veniva, poi, respinto dal Consiglio nazionale forense.
Secondo l'avvocato ci sarebbe, inoltre, stato l'omesso esame delle circostanze indicate a sostegno dell'illegittimità della sanzione comminata –che non avrebbe considerato l'incensuratezza dell'avvocato, la sufficienza della sanzione formale e il fatto che le sanzioni interdittive sono riservate agli avvocati che commettono illeciti penalmente rilevanti– e la mancata motivazione in ordine all'equità di quest'ultima.
Il professionista legale, inoltre, sosteneva che, in virtù del terzo comma dell'art. 56 della legge n. 247 del 2012 (Nuova disciplina dell'Ordinamento della professione forense) l'azione disciplinare in questione sarebbe prescritta, essendo trascorsi sette anni e mezzo dalla commissione del fatto.
Infatti, il legale riteneva che la nuova disciplina, in quanto più favorevole all'incolpato, sia applicabile anche ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della suddetta nuova disciplina e poneva la questione di legittimità costituzionale dell'art. 65, comma 5, della legge n. 247 del 2012 nella parte in cui non prevede l'applicabilità di tutte le norme deontologiche (e non solo quelle contenute nel codice deontologico) ai procedimenti in corso
(articolo ItaliaOggi Sette del 10.08.2015).

EDILIZIA PRIVATA: Parcheggi selvaggi, ok ai dissuasori senza permesso. Sanzione pecuniaria.
Non serve il permesso di costruire ma basta la Scia per impiantare nell'area privata aperta al pubblico passaggio i paletti che impediscono il parcheggio selvaggio delle auto: i dissuasori, infatti, non costituiscono una nuova costruzione o una trasformazione edilizia e se manca la segnalazione di inizio attività risulta sufficiente la sanzione pecuniaria senza l'obbligo di demolizione.

Lo chiarisce il Consiglio di Stato, Sez. VI, con la sentenza 16.07.2015 n. 3554.
Strutture escluse. Accolto il ricorso del proprietario dell'area: palazzo Spada annulla tutti gli atti contrari del comune. Le catenelle che univano i pali conficcati al terreno sono scomparse e ora l'area del privato è accessibile a tutti, pedoni in primis, tranne che alle auto. E i dissuasori risultano facilmente rimovibili.
In base al Testo unico dell'edilizia risultano assoggettati a semplice Scia tanto gli interventi di manutenzione straordinaria che quelli di restauro e di risanamento conservativo e quindi, in via di esempio, «le opere e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti anche strutturali degli edifici», o «un insieme sistematico di opere» che attuino sostanziali trasformazioni di fabbricati, oltre che «il rinnovo degli elementi costitutivi, l'inserimento degli elementi accessori e degli impianti richiesti dalle esigenze dell'uso».
I paletti, in particolare, rientrano nell'inserimento di elementi accessori. Nella specie manca anche la Scia del privato ma la sanzione non poteva essere demolitoria bensì soltanto economica (articolo ItaliaOggi del 05.08.2015).
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MASSIMA
1. Con la sentenza in forma semplificata n. 10081 del 2013 il Tribunale amministrativo regionale del Lazio –sezione I-quater, ha respinto il ricorso proposto dalla signora A.C. contro la determinazione dirigenziale di Roma Capitale n. 1594 del 12.09.2013 con la quale, visti il d.P.R. n. 380/2001 e l’art. 16 della l.reg. n. 15/2008, è stato ingiunto alla interessata la “rimozione o demolizione”, entro 30 giorni, dell’intervento edilizio ritenuto abusivo, in quanto eseguito in assenza di titolo abilitativo, “di ristrutturazione edilizia e/o cambio di destinazione d’uso da una categoria all’altra”, consistente nella realizzazione, nell’area di proprietà della ricorrente, in Via di ..., n. 237 –piano stradale, “di n. 19 paletti in ferro con altezza di m. 1 circa uniti tra loro da catena in ferro e ancorati a terra tramite calcestruzzo e bulloni”.
Questa la motivazione della sentenza: “la realizzazione di tali opere, benché finalizzata a preservare l’area in questione dall’accesso di auto e motoveicoli, consistenti nel posizionamento a terra di paletti in ferro di altezza pari ad un metro, fissati con calcestruzzo, doveva necessariamente comportare la preventiva acquisizione di apposito titolo abilitativo, nel caso di specie non rinvenibile… la segnalazione certificata di inizio attività risulta essere stata presentata all’Amministrazione comunale in data 14.11.2013, ossia in data successiva alla realizzazione delle opere e del termine di adozione del provvedimento impugnato… il ricorso (va) respinto, tenuto conto della natura abusiva delle opere edilizie realizzate”.
La ricorrente è stata condannata alle spese.
2. Con la sentenza in forma semplificata n. 4982 del 2014 la Sez. I-quater del Tar del Lazio ha respinto un altro ricorso della signora C., proposto avverso e per l’annullamento del provvedimento di Roma Capitale –Municipio XIV –prot. n. 105503 del 05.12.2013 con cui il dirigente dell’Unità Organizzativa Tecnica, con riferimento alla segnalazione certificata di inizio attività (SCIA) presentata dalla C. il 14.11.2013 con prot. n. 98367, relativa all’accertamento di conformità, ex art. 37, comma 5, del d.P.R. n. 380/2001 e art. 22 della l.reg. n. 22/2008, riguardante i lavori eseguiti nell’immobile sito in via ..., angolo via di ..., consistenti nelle “opere eseguite ad aprile 2013 –delimitazione dell’area di mia proprietà mediante l’installazione di paletti di ferro alti circa 1 m. distanziati tra loro in modo da consentire il facile accesso pedonale ai negoziprospicienti la proprietà”, ha affermato che “l’istanza riguarda interventi non contemplati nel T.U. per l’edilizia -D.P.R. 380/2001 e pertanto non rientranti tra quelli soggetti a segnalazione certificata di inizio attività (e che la SCIA) è da intendersi priva di efficacia ed i lavori eseguiti…dovranno quindi essere considerati come realizzati in assenza di titolo abilitativo”.
Al riguardo la seconda decisione, riepilogata la controversia definita in primo grado con la sentenza n. 10081/2013, e rammentato che con l’atto del 05.12.2013 l’Amministrazione, “nel pronunciarsi in ordine all’accertamento di conformità presentato ai sensi dell’articolo 37, comma 5, del d.p.r. 380 del 2001 e dell’articolo 22 della legge regionale 15 del 2008, ha ritenuto la segnalazione certificata di inizio attività priva di efficacia ed i lavori eseguiti in assenza di titolo abilitativo”, ha respinto la censura dedotta –e così sintetizzata: l’atto gravato “sarebbe errato nella parte in cui considera il contenuto dell’istanza presentata dalla ricorrente quale segnalazione certificata di inizio attività anziché quale domanda di accertamento di conformità riguardante, peraltro, opere di delimitazione della proprietà rientranti tra quelle di “finitura di spazi esterni” di cui all’articolo 6, comma 2, lettera c), del d.p.r. 380 del 2001, ossia tra le attività di edilizia libera”- rigettando, per l’effetto, il ricorso, sul rilievo che “la realizzazione delle opere in questione risulta essere stata eseguita, come peraltro l’adozione dell’ordine di demolizione, adottato in data 12.09.2013, antecedentemente alla presentazione dell’istanza presentata dalla ricorrente in data 14.11.2013 la quale, ove si dovesse intendere quale domanda accertamento di conformità ex art. 36 del d.p.r. n. 380/2001, sarebbe stata in ogni caso da intendersi insuscettibile di positiva definizione per intervenuto decorso del termine di sessanta giorni decorrenti dalla ricezione di tale istanza”.
Anche in questo giudizio la ricorrente è stata condannata al pagamento delle spese.
...
8.2. Ciò premesso, la principale questione da risolvere, come prospettata dall’appellante, consiste nello stabilire se l’intervento edilizio in questione sia assoggettabile a titolo abilitativo, o meno, e in caso di risposta affermativa quale esso possa essere e quali siano le conseguenze derivanti dall’assenza del titolo medesimo.
8.2.1. In primo luogo, diversamente da quanto sostiene l’appellante,
è da ritenere che l’intervento eseguito non rientri tra le “finiture di spazi esterni”, né costituisca “elemento di arredo di area pertinenziale di edificio”, di cui alle lettere c) e d) del comma 2 dell’art. 6 del d.P.R. n. 380 del 2001.
L’intervento effettuato non ricade cioè tra le attività libere (indicate tra l’altro in modo tassativo all’art. 6 del t.u. n. 380 del 2001, in deroga al generale obbligo di munirsi di un titolo abilitativo per eseguire interventi edilizi, ciò di cui occorre tenere conto per una corretta lettura e interpretazione dello stesso art. 6), avendo riguardo da un lato alle tipologie delle fattispecie liberalizzate e, dall’altro, all’entità dell’opera posta in essere, che non corrisponde alla descrizione delle attività di cui alle lettere c) e d) del citato art. 6.
8.2.2.
D’altra parte il Collegio, a differenza di quanto sembra essere stato considerato dal Tar, e da questa Sezione nella fase cautelare, ritiene che nel caso qui in esame non venga in discussione un’ipotesi di trasformazione edilizio–urbanistica, o di alterazione permanente dell’assetto del territorio, o di nuova costruzione, tale da esigere il previo rilascio del permesso di costruire ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 10 del d.P.R. n. 380 del 2001, rientrandosi invece nel campo di applicazione dell’art. 22 del t. u. n. 380/2001, in tema di SCIA.
Al riguardo, è bene rammentare che
sulla questione, intuitivamente affine, dell’assoggettamento, o meno, delle recinzioni, a permesso di costruire, la giurisprudenza amministrativa, specialmente dei Tar, afferma che la valutazione sulla necessità, o meno, del permesso di costruire, va compiuta in base ai parametri della natura e delle dimensioni delle opere, e della loro destinazione e funzione (si vedano, tra le altre, Tar Campania, n. 3328/2013 e n. 1542/2012, Tar Lombardia, n. 6266/2009, Tar Lazio, n. 8644/2009, Tar Veneto, n. 1215/2011, Tar Calabria, n. 1299/2014, Tar Lombardia–Brescia, n. 118/2013 e altre), sicché quando, ad esempio, vengono eseguite opere in muratura e la recinzione non è facilmente rimuovibile, l’intervento, essendo idoneo a incidere in modo permanente sull’assetto edilizio del territorio, esige il previo rilascio del permesso di costruire.
Ciò posto,
l’intervento in argomento, alla luce delle caratteristiche e delle dimensioni dello stesso (su cui si vedano le foto prodotte in giudizio sia da Roma Capitale, sia dall’appellante), ricade nel campo di applicazione –non dell’art. 10 ma- dell’art. 22 del t.u. n. 380/2001. L'intervento in questione rientra cioè tra quelli realizzabili con il regime semplificato della d.i.a., la cui mancanza non è sanzionabile con la rimozione o la demolizione, previste dall'art. 31 del d.P.R. n. 380/2001 per l'esecuzione di interventi in assenza del permesso di costruire, o in totale difformità del medesimo ovvero con variazioni essenziali, ma con l'applicazione della mera sanzione pecuniaria prevista dal successivo art. 37 per l'esecuzione di interventi in assenza della prescritta denuncia di inizio di attività.
In primo luogo,
non è stata eseguita nessuna opera muraria significativa. I paletti apposti, uniti al suolo mediante un basamento di calcestruzzo assai sottile, sono avvitati con bulloni e risultano distanziati tra loro in modo tale da consentire un facile accesso pedonale ai negozi prospicienti la proprietà. La prevista apposizione di una catenella tra alcuni paletti, ossia tra i soli paletti ove non c’era corrispondenza con ingressi ad abitazioni o a negozi, risulta eliminata, in base a quanto affermato dall’appellante e non specificamente contestato dal Comune (si veda l’allegato fotografico fasc. Caffari citato sopra al p. 8.1.).
Viene in rilievo, nel complesso, un’opera finalizzata a delimitare la proprietà della ricorrente (non si tratta neppure di una recinzione, essendo l’area “tuttora liberamente accessibile a tutti, salvo che alle autovetture”, come rileva l’appellante), rimovibile in maniera tutt’altro che disagevole e, come tale, inidonea a incidere sull’assetto edilizio del territorio.
Al riguardo,
risulta persuasiva la tesi di parte appellante, secondo la quale dal disposto degli articoli 3 e 10 del t.u. n. 380 del 2001 risultano assoggettati a semplice SCIA tanto gli interventi di manutenzione straordinaria che quelli di restauro e di risanamento conservativo e quindi, in via di esempio, "le opere e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti anche strutturali degli edifici", o "un insieme sistematico di opere" che attuino sostanziali trasformazioni di fabbricati, nonché “il rinnovo degli elementi costitutivi, l'inserimento degli elementi accessori e degli impianti richiesti dalle esigenze dell'uso" (cfr. art. 3, comma 1, lett. c) del d.P.R. n. 380/2001).
Poiché dunque la realizzazione dei paletti per cui è causa doveva farsi rientrare nella fattispecie dell’inserimento di elementi accessori di cui all’art. 3, comma 1, lett. c), del t.u. n. 380 del 2001, ne consegue che l’intervento eseguito in assenza di titolo ex art. 22 –su area a quanto consta “non soggetta a particolari vincoli come afferma parte appellante senza alcuna specifica contestazione a questo riguardo da parte del Comune- avrebbe dovuto essere assoggettato non alla sanzione demolitoria di cui all’art. 31 del t.u. ma, come puntualmente segnalato dalla signora C., alla sanzione pecuniaria di cui all’art. 37 (si veda anche l’art. 19 della l.reg. n. 15/2008).
Dalle considerazioni su esposte discende l’accoglimento non solo dell’appello n. RG 4581/2014, con il conseguente accoglimento del ricorso di primo grado n. 10074/2013 e l’annullamento dell’impugnata ingiunzione di demolizione del 12.09.2013, salvi gli atti ulteriori della P. A., ma anche l’accoglimento del ricorso in appello n. RG 4582/2014, con l’accoglimento consequenziale del ricorso di primo grado n. 1689/2014 dato che erra l’Amministrazione, con l’atto del 05.12.2013, nel rilevare che l’istanza del 14.11.2013 riguarda interventi non rientranti tra quelli soggetti a SCIA.
8.3. Sempre con riferimento al giudizio n. 4582/2014, l’appellante coglie nel segno (anche) laddove critica la sentenza nel punto in cui essa afferma che, ove si volesse qualificare l’istanza del 14.11.2013 come domanda di accertamento in conformità ex art. 36 del d.P.R. n. 380/2001, la stessa “sarebbe stata in ogni caso da intendersi insuscettibile di positiva definizione per intervenuto decorso del termine di sessanta giorni decorrenti dalla ricezione di tale istanza”.
Fermo restando che la realizzazione dei paletti non richiede il preventivo rilascio del permesso di costruire, in modo condivisibile parte appellante rileva che:
- l’art. 36 del t.u. n. 380/2001 dispone che la domanda di accertamento di conformità può essere presentata fino alla scadenza del termine di cui all’art. 31, comma 3;
- l’art. 31, comma 3, stabilisce che il responsabile dell’abuso deve provvedere al ripristino dello stato dei luoghi “nel termine di novanta giorni dall’ingiunzione”;
- il termine per presentare utilmente la domanda di accertamento di conformità è di novanta giorni e non già di sessanta giorni;

- l’ingiunzione di demolizione è stata adottata il 12.09.2013, mentre l’istanza è stata presentata dalla signora C. il 14.11.2013, vale a dire il sessantatreesimo giorno successivo, sicché non risulta corretta l’affermazione svolta in sentenza sulla insuscettibilità di una positiva definizione della domanda di accertamento di conformità.
In conclusione, gli appelli riuniti devono essere accolti e, per l’effetto, in riforma delle sentenze impugnate, i ricorsi di primo grado vanno accolti e gli atti impugnati annullati, salvi gli ulteriori provvedimenti che l’autorità amministrativa adotterà tenendo conto di quanto statuito nella presente sentenza
(Consiglio di  Stato, Sez. VI, sentenza 16.07.2015 n. 3554 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Ambulanti esclusi dall'albo. Rifiuti sicuri.
Per l'attività di raccolta e trasporto di rifiuti non pericolosi effettuata in forma ambulante da chi possiede un relativo titolo abilitativo non è richiesta l'iscrizione all'albo dei gestori dei rifiuti. Sempre che il soggetto sia abilitato all'esercizio in forma ambulante e che si tratti di rifiuti che formano oggetto del suo commercio. Tale titolo abilitativo non consente la raccolta e il trasporto di rifiuti pericolosi.

Questo è quanto si legge nella sentenza 15.07.2015 n. 30466 della Corte di Cassazione, Sez. III penale.
Nell'ambito della normativa sui rifiuti, non è prevista alcuna disposizione sul commercio ambulante dei rottami ferrosi, per cui deve necessariamente farsi riferimento ai titoli abilitativi disciplinati da altre leggi speciali.
La materia del commercio ambulante impone agli ambulanti di munirsi di un'autorizzazione comunale. La procedura di iscrizione ordinaria nell'albo gestori ambientali riguarda i soggetti di cui all'articolo 212, comma 5, del dlgs n. 152/2006
(articolo ItaliaOggi del 04.08.2015).
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MASSIMA
3. In particolare, quanto al motivo sub b., va rilevato che, con motivazione logica e congrua, la Corte territoriale, facendo buon governo della giurisprudenza di questa Corte di legittimità secondo cui
l'attività di raccolta e trasporto di rifiuti non pericolosi effettuata in forma ambulante da chi possiede un relativo titolo abilitativo non richiede l'iscrizione all'albo dei gestori dei rifiuti sempre che il soggetto sia abilitato all'esercizio in forma ambulante e che si tratti di rifiuti che formano oggetto del suo commercio, dà atto che, tuttavia, non risulta che l'imputato avesse un titolo abilitativo per l'esercizio del commercio ambulante di rifiuti ferrosi, essendo stato semplicemente prodotto il certificato di iscrizione alla Camera di Commercio di Palermo per tale categoria nonché l'istanza avanzata al Comune di Santa Margherita Belice per ottenere il nullaosta per operare sul territorio comunale dell'ente.

PUBBLICO IMPIEGO: Sugli incarichi giudizi ordinari. Una sentenza del Tar per la Calabria.
La controversia riguardante atti privatistici del datore di lavoro pubblico, quale il conferimento di un incarico dirigenziale, rientra nella giurisdizione del giudice ordinario.

È quanto hanno ribadito i giudici della seconda sezione del TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, con la sentenza 15.07.2015 n. 1242.
I giudici amministrativi calabresi hanno altresì osservato, richiamando anche quanto sostenuto dai giudici del consiglio di stato (si veda: cons. di stato, sez. V, 14.05.2013 n. 2607), che quanto sopra detto vale a meno che quanto contestato non vada ad investire direttamente il corretto esercizio del potere amministrativo, attraverso la deduzione della non conformità a legge degli atti organizzativi, mediante i quali le pubbliche amministrazioni determinano le linee fondamentali di organizzazione degli uffici e i modi di conferimento della titolarità degli stessi.
Infatti, gli atti amministrativi attraverso i quali vengono organizzati gli uffici è opportuno che sia ispirati (rendendoli conoscibili) a principi di non manifesta illogicità o incongruità dell'assetto in concreto prescelto, con la precisazione che, in relazione a tali principi, va commisurato il quantum di motivazione esigibile.
Il caso sottoposto all'attenzione dei giudici amministrativi di Catanzaro aveva a oggetto l'impugnazione, per difetto di motivazione, della riorganizzazione della struttura amministrativa e della dotazione organica della provincia, approvata con disposizione presidenziale, e dei conseguenti avvisi pubblici e decreti presidenziali aventi ad oggetto la nomina dei dirigenti di settori.
Pertanto la lite proposta rientrava nella giurisdizione del giudice adito, nella misura in cui l'illegittimità degli atti di natura privatistica (avvisi e nomine) viene dedotta come effetto derivante dall'invalidità della presupposta delibera di riorganizzazione degli uffici (articolo ItaliaOggi Sette del 03.08.2015).
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MASSIMA
La parte ricorrente (ndr: Unione Italia del Lavoro - Uil) impugna, per difetto di motivazione, la riorganizzazione della struttura amministrativa e della dotazione organica della Provincia di Cosenza, approvata con disposizione presidenziale n. 3/2014. Impugna, altresì, i conseguenti avvisi pubblici e decreti presidenziali aventi ad oggetto la nomina dei dirigenti di settori.
In proposito, occorre precisare che
la controversia riguardante atti privatistici del datore di lavoro pubblico, quale il conferimento di un incarico dirigenziale, rientra nella giurisdizione del giudice ordinario, a meno che la contestazione non investa direttamente il corretto esercizio del potere amministrativo, mediante la deduzione della non conformità a legge degli atti organizzativi, attraverso i quali le amministrazioni pubbliche definiscono le linee fondamentali di organizzazione degli uffici ed i modi di conferimento della titolarità degli stessi (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 14.05.2013 n. 2607).
Infatti,
gli atti amministrativi attraverso i quali vengono organizzati gli uffici devono ispirarsi (rendendoli conoscibili) a principi di non manifesta illogicità od incongruità dell’assetto in concreto prescelto, con l’avvertenza che, in relazione a tali principi, va commisurato il quantum di motivazione esigibile (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 14.05.2013 n. 2607).
La lite proposta rientra, quindi, nella giurisdizione del giudice adito, nella misura in cui l’illegittimità degli atti di natura privatistica (avvisi e nomine) viene dedotta come effetto derivante dall’invalidità della presupposta delibera di riorganizzazione degli uffici.
Con ordinanza 09.04.2015 n. 138, il Tribunale accoglieva la domanda cautelare, ai limitati fini del riesame, rilevando, in particolare, che l’amministrazione pubblica, pur godendo di ampia discrezionalità nell’organizzazione dei propri uffici, deve supportare le scelte adottate con un’idonea motivazione e sulla scorta di una previa puntuale istruttoria (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 22.09.2005 n. 4957 e 12.06.2009 n. 3728).
E’ stata dunque ritenuta non accoglibile la tesi sostenuta dall’ente intimato, secondo cui, dalla natura generale dell’atto di revisione della struttura organizzativa e dotazione organica, discende “la mancanza, in ogni caso, di qualsivoglia obbligo di motivazione”.
V’è da dire che, a seguito dell’ordinanza, l’amministrazione si è rideterminata, colmando le lacune motivazionali dianzi rappresentate.
Il nuovo provvedimento, depositato agli atti di causa il 22.05.2015, non è stato sottoposto ad alcun tipo di doglianza ad opera della parte istante, sicché può essere ritenuta la sopravvenuta carenza d’interesse.

ENTI LOCALI - VARI: Poste, l’economicità non basta alla chiusura. Tar Friuli-Venezia Giulia. Prevale l’interesse pubblico.
I Comuni battono nuovamente Poste italiane. La lunga e complessa contesa che i sindaci dei piccoli centri hanno intrapreso contro il Piano industriale che dovrà condurre alla chiusura di numerosi sportelli si tinge di un ulteriore episodio, favorevole anche questa volta ai primi cittadini.
Il Tar Friuli-Venezia Giulia, con la sentenza 15.07.2015 n. 332, ha accolto il ricorso proposto dal comune di Buja (Ud), annullando i provvedimenti con i quali Poste italiane spa aveva chiuso gli uffici postali ubicati in due frazioni.
Secondo i giudici friulani, l’esigenza di risparmiare va tenuta in debito conto, ma non può prevalere sull’interesse pubblico allo svolgimento corretto del servizio universale e va rapportata alla situazione geografica e orografica dei singoli territori. Né possono essere eluse le eventuali proposte alternative presentate dai Comuni, che possono essere bypassate solo con una congrua motivazione.
Il Comune contestava, fra l’altro, il fatto che con la chiusura dei due uffici un’intera parte del territorio comunale si trovasse sprovvista di presìdi, con grande penalizzazione per i cittadini. Né Poste aveva previsto un potenziamento dell’unico ufficio rimasto nel capoluogo.
Nel merito, i giudici hanno ritenuto fondate le ragioni del Comune in quanto l’aspetto economico, cioè l’esigenza per Poste di risparmiare tramite la riduzione degli uffici postali, va certo tenuto in debito conto, «tuttavia non può essere considerato né esclusivo né prevalente sull’interesse pubblico allo svolgimento corretto di un servizio universale come va considerato il servizio postale».
Ancora più chiaramente, sostengono i giudici che il dato economico ma anche le distanze minime tra uffici indicate dal Dm 07.10.2008 «non possono essere considerati né come assoluti né come di automatica applicazione, ma vanno rapportati alla situazione geografica e orografica di alcune zone, onde raggiungere un equilibrio e un bilanciamento tra gli interessi degli utenti e quelli dell’azienda»
(articolo Il Sole 24 Ore del 04.08.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

CONDOMINIO: Ascensori, spese pagate da tutti. Gli atti conservativi spettano all'intero condominio. Una pronuncia della Cassazione: l'impianto si presume sia bene di proprietà comune.
L'ascensore condominiale si presume bene di proprietà comune, salvo diversa ed espressa previsione contenuta in un regolamento di natura contrattuale o in una delibera assembleare assunta all'unanimità dei partecipanti al condominio. A eccezione di questo caso, le spese di conservazione dell'impianto restano quindi a carico dell'intera collettività condominiale, anche dei proprietari delle unità immobiliari site al piano terreno. Va da sé che tutti i condomini proprietari del bene debbano quindi essere messi in condizione di partecipare all'assemblea convocata per la deliberazione dei predetti interventi, in modo da poter esprimere in maniera libera e informata il proprio voto.

Lo ha chiarito la II Sez. civile della Corte di Cassazione nella recente sentenza 14.07.2015 n. 14697.
Il caso concreto. Nella specie un condomino aveva impugnato la delibera condominiale con la quale era stata approvata l'esecuzione di alcuni interventi sull'ascensore, poiché la stessa era stata adottata con la partecipazione dei soli proprietari degli appartamenti situati dal primo all'ultimo piano dell'edificio, con esclusione dei condomini proprietari del piano ammezzato e dei negozi siti nello stabile.
Il condominio si era quindi costituito in giudizio e aveva chiesto l'integrale rigetto delle doglianze avversarie, evidenziando tra l'altro come l'ascensore fosse sempre stato al servizio dei soli appartamenti situati sopra il piano ammezzato e come, quindi, detto impianto dovesse considerarsi di proprietà dei soli condomini titolari delle predette unità immobiliari. Il tribunale di Genova, ritenendo l'impugnazione del tutto infondata, aveva quindi respinto la domanda.
Ne era conseguito l'appello della sentenza presso la competente corte territoriale. Quest'ultima, tuttavia, ribaltando l'inquadramento dei fatti di causa, aveva ritenuto che gli interventi realizzati a favore dell'ascensore non avessero riguardato la semplice manutenzione dell'impianto, ma fossero stati finalizzati alla conservazione del bene comune. Secondo i giudici di merito, mentre nel primo caso sarebbe apparso giustificabile l'intervento in assemblea dei soli condomini proprietari degli appartamenti siti ai piani superiori a quello ammezzato, nella seconda ipotesi la decisione di operare sull'impianto avrebbe invece dovuto essere condivisa tra tutti i comproprietari. Di qui l'accoglimento dell'appello e l'annullamento della delibera impugnata.
Questa decisione era quindi stata impugnata dinanzi alla Suprema corte. Si evidenziava, infatti, come i giudici di secondo grado fossero caduti in contraddizione laddove, pur ritenendo che l'impianto fosse di proprietà esclusiva di alcuni condomini, aveva ripartito le relative spese tra tutti i comproprietari, ivi inclusi i proprietari degli appartamenti siti al piano ammezzato e dei negozi. I ricorrenti avevano quindi eccepito la violazione e la falsa applicazione del disposto degli artt. 1104, 1105, 1117 e 1124 c.c., ritenendo che, qualora un bene non fosse di proprietà comune, la relativa gestione sarebbe dovuta spettare ai soli condomini proprietari e che le conseguenti spese avrebbero dovuto essere ripartite soltanto tra i condomini che ne traevano effettivo godimento.
La decisione della Suprema corte e la questione del riparto delle spese relative all'ascensore. La Cassazione ha tuttavia respinto il ricorso avverso la sentenza del giudice di appello e ha provveduto a chiarire alcuni importanti aspetti in merito alla differenza tra proprietà e utilizzo dei beni e dei servizi condominiali.
In primo luogo i giudici di legittimità hanno chiarito come in base all'art. 1117 c.c. si presumano di natura condominiale (e quindi comuni a tutti i condomini) i beni e i servizi destinati all'uso comune (tra i quali viene espressamente menzionato l'ascensore). Questo vuol dire che, salvo diversa convenzione tra tutti i condomini (per esempio anche per mezzo di un regolamento condominiale di natura contrattuale o di una delibera assunta all'unanimità dei partecipanti al condominio) con la quale si esonerino uno o più tra essi dalla compartecipazione a tutte le spese di gestione di un bene (comprese quelle di tipo conservativo), gli stessi si considerano tutti comproprietari del medesimo.
In ragione di quanto sopra, nel caso di specie la Suprema corte ha evidenziato come per l'approvazione degli interventi (e delle relative spese) da effettuare in favore dei beni e degli impianti comuni sia assolutamente necessario, a pena di invalidità della delibera condominiale, che l'amministratore convochi per la relativa assemblea tutti i condomini comproprietari, perché a ognuno di essi sia data la possibilità di esprimere la propria opinione (e il proprio voto), salvo appunto che dal regolamento condominiale di natura contrattuale o da altra diversa convenzione stipulata tra tutti i condomini emerga in modo chiaro ed evidente che gli stessi siano di proprietà esclusiva di una parte soltanto dei condomini.
Più complesso è invece il discorso relativo alla partecipazione alle spese relative agli interventi di manutenzione dell'ascensore dei condomini proprietari delle unità immobiliari site al piano terreno dell'edificio, questione lasciata sul tappeto dalla legge n. 220/2012 e che la Suprema corte ha in questa sede affrontato soltanto in modo indiretto. Secondo una parte della giurisprudenza di merito, nella quale sembra potersi annoverare anche la sentenza della Corte di appello di Genova impugnata nella specie dinanzi alla Cassazione, detti condomini non dovrebbero infatti partecipare alle spese di esercizio e manutenzione dell'impianto, ma soltanto a quelle relative alla sua conservazione.
L'art. 1123, comma 1, c.c., stabilisce in via generale che tutti i condomini devono contribuire nelle spese di gestione dei beni comuni a prescindere dall'effettivo utilizzo di essi. Infatti, a condizione che sussista l'oggettiva possibilità di farne uso, ogni comproprietario è tenuto a sostenere le spese relative al bene o all'impianto comune, anche se nella realtà non se ne serva affatto o se ne serva in misura inferiore rispetto agli altri.
Detto principio è però temperato dalle disposizioni di cui al comma 2 (in base al quale, ove si tratti di beni destinati a servire i condomini in misura diversa, le relative spese vanno ripartite in base all'uso che ciascun comproprietario può farne) e al comma 3 del medesimo articolo (in base al quale qualora un edificio abbia beni o impianti destinati a servire soltanto una parte dell'intero fabbricato, le spese di manutenzione sono a carico del gruppo di condomini che ne trae utilità).
Nel caso dell'ascensore, inoltre, il nuovo art. 1124 c.c. prevede in modo specifico, analogamente a quanto avviene per le scale, che l'impianto di ascensore deve essere mantenuto dai proprietari delle unità immobiliari a cui serve e che le spese di manutenzione devono essere sostenute dai predetti condomini per metà in ragione del valore delle singole unità immobiliari e per metà in misura proporzionale all'altezza di ciascun piano dal suolo.
Al contrario, invece, secondo detto orientamento giurisprudenziale, le spese di conservazione, che, essendo pertinenti all'esistenza stessa dell'impianto nell'edificio, il quale ne viene quindi in certo qual modo arricchito, andrebbero suddivise tra tutti i condomini, anche tra quelli proprietari delle unità abitative poste al piano terreno (appartamenti, negozi, box ecc.), sulla base dei rispettivi millesimi di proprietà.
Nella decisione in questione la seconda sezione civile della Cassazione sembra quindi aver fatto proprio detto criterio di riparto, basato sulla distinzione fra spese di manutenzione e spese di conservazione. Più che altro nel caso di specie i giudici di legittimità hanno però inteso chiarire come la questione del criterio di riparto delle spese dell'ascensore non incida di per sé sulla questione della proprietà dell'impianto.
In altri termini, il fatto che il menzionato art. 1124 c.c. diversifichi la ripartizione delle spese di manutenzione tra i vari condomini non comporta di per sé la conseguenza che l'impianto di ascensore debba essere considerato di proprietà dei soli condomini chiamati a partecipare a tali spese. L'impianto, infatti, salvo che venga provata in giudizio la proprietà esclusiva in capo ad alcuni soltanto dei condomini, si presume di proprietà comune a tutti i partecipanti al condominio.
Deve quindi ritenersi legittima non solo la convenzione con la quale tutti i condomini ripartiscano tra di loro in misura diversa le spese relative alla manutenzione dell'ascensore ma anche quella con cui i medesimi esonerino totalmente da detto onere alcuni dei comproprietari, anche in relazione alle spese relative alla conservazione stessa dell'impianto.
Tuttavia soltanto in quest'ultimo caso, come evidenziato dai giudici di appello e confermato dalla Suprema corte, si ha il superamento della presunzione di comproprietà dell'impianto e si può correttamente affermare che detto bene sia di proprietà soltanto di alcuni dei partecipanti alla compagine condominiale (articolo ItaliaOggi Sette del 03.08.2015).

INCARICHI PROFESSIONALISugli onorari spazio al giudice. Possibile l'adeguamento al valore della controversia. AVVOCATI/ La Cassazione è intervenuta sui rapporti tra professionista e cliente.
Nei rapporti tra avvocato e cliente sussiste sempre la possibilità per il giudice di concreto adeguamento degli onorari al valore effettivo e sostanziale della controversia, ove sia ravvisabile una manifesta sproporzione con quello derivante dall'applicazione delle norme del codice di rito.

Lo hanno affermato i giudici della II Sez. civile della Corte di Cassazione con la sentenza 14.07.2015 n. 14691.
Quanto sopra detto non vale ai fini della liquidazione delle spese a carico della parte soccombente, nei quali il valore della lite si determina secondo i criteri codicistici, salva l'adozione di quello del decisum, nelle cause di pagamento e risarcimento di danni.
I giudici di piazza Cavour hanno altresì evidenziato come tale interpretazione fosse aderente al criterio finalistico, secondo cui «il dato letterale va opportunamente coordinato con la ricerca dell'intenzione del legislatore (art. 12 preleggi, comma 1, u.p.), deve ritenersi preferibile, siccome più aderente all'esigenza cui il combinato disposto delle due norme tariffarie risulta palesemente improntato, vale a dire all'osservanza di quel «principio generale di proporzionalità ed adeguatezza degli onorari di avvocato nell'opera professionale effettivamente prestata»
».
Pertanto la disposizione tariffaria, secondo l'interpretazione offerta dagli Ermellini, vuole semplicemente riferirsi a tutte le regole dettate dal codice di rito, ivi compresa quella ex artt. 10 e 14, correlata all'indicazione del quantum nella domanda nelle cause relative a somme di danaro o beni mobili, per la determinazione del valore della controversia, attribuendo al giudice una generale facoltà discrezionale, ove ravvisi la suesposta manifesta sproporzione tra il formale petitum e l'effettivo valore della controversia, desumibile dai sostanziali interessi in contrasto, di adeguare la misura dell'onorario all'effettiva importanza della prestazione, in relazione alla concreta valenza economica della controversia (si vedano: Cass. n. 7807 del 2013; ma anche Cass. n. 23809 del 2012 e Cass. n. 1805 del 2012).
E, infine, ai fini della liquidazione dell'onorario, si deve valutare opportunamente l'attività in concreto svolta dall'avvocato nella trattazione anche delle domande riconvenzionali, tenendo presente il parametro correttivo del valore effettivo della controversia (valore dei diversi interessi sostanzialmente perseguiti), quando esso risulti manifestamente diverso da quello presunto codicistico, ovvero il criterio suppletivo del valore indeterminabile, quando non è possibile determinarlo in applicazione del c.p.c. (si vedano: Cass. 25.02.2014 nn. 20302 e 4488) (articolo ItaliaOggi Sette del 10.08.2015).

PUBBLICO IMPIEGO: Controversie sulla graduatoria al giudice civile. Consiglio di Stato.
La controversia in tema di diritto alla mobilità, come quella relativa al diritto allo scorrimento di una graduatoria concorsuale, non attiene alla fase della procedura di concorso ovvero al controllo giudiziale sulla legittimità della scelta discrezionale operata dell'amministrazione, e spetta quindi al giudice civile.

Lo hanno affermato i giudici della III Sez. del Consiglio di Stato con la sentenza 14.07.2015 n. 3513.
I supremi giudici amministrativi hanno altresì osservato che spetta al giudice il controllo del potere amministrativo ai sensi dell'art. 103 Cost., ma la controversia in tema di diritto alla mobilità è demandata alla connessa fase successiva relativa agli atti di gestione del rapporto di lavoro, facendosi valere appunto il «diritto all'assunzione» al di fuori dell'ambito della procedura concorsuale, donde la sussistenza della giurisdizione civile.
Secondo, poi, un orientamento della Cassazione (Cass. ss.uu. 06.05.2013 n. 10404), ove invece l'eventuale riconoscimento del suddetto diritto sia consequenziale alla negazione degli effetti del provvedimento di indizione di diverse procedure (quale il concorso) per la copertura dei posti resisi vacanti, la controversia ha in realtà ad oggetto diretto il controllo giudiziale sulla legittimità della scelta discrezionale operata dell'amministrazione pubblica, a fronte della quale la situazione giuridica privata dedotta in giudizio appartiene alla categoria degli interessi legittimi, la cui tutela è demandata al giudice amministrativo ai sensi dell'art. 63, c. 4, del dpr n. 165 del 2001.
Nella sentenza in commento i giudici di palazzo Spada hanno poi richiamato il principio del previo esperimento delle procedure di mobilità rispetto al reclutamento di nuovo personale, peraltro già presente nell'ordinamento, posto dall'art. 30 del dlgs 30.03.2001 n. 165, il cui secondo comma commina la nullità degli accordi, atti e clausole dei contratti collettivi volti ad eluderne l'applicazione, mentre il c. 2-bis (aggiunto dall'art. 5, c. 1-quater, dl 31.01.2005 n. 7, conv. con mod. dalla l. 31.03.2005 n. 43) prevede che «Le amministrazioni, prima di procedere all'espletamento di procedure concorsuali, finalizzate alla copertura di posti vacanti in organico, devono attivare le procedure di mobilità di cui al comma 1, provvedendo, in via prioritaria, all'immissione in ruolo dei dipendenti, provenienti da altre amministrazioni, in posizione di comando o di fuori ruolo, appartenenti alla stessa area funzionale, che facciano domanda di trasferimento nei ruoli delle amministrazioni in cui prestano servizio. Il trasferimento è disposto, nei limiti dei posti vacanti, con inquadramento nell'area funzionale e posizione economica corrispondente a quella posseduta presso le amministrazioni di provenienza» (articolo ItaliaOggi Sette del 03.08.2015).
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MASSIMA
L’appellato si è costituito in giudizio e, ricordati i proposti motivi di ricorso, ha svolto ampie controdeduzioni.
3.- L’appello, introitato in decisione all’udienza pubblica del 23.04.2015, dev’essere disatteso quanto alla riproposta eccezione di difetto di giurisdizione del giudice amministrativo.
È ben vero che la controversia in tema di diritto alla mobilità, come quella relativa al diritto allo scorrimento di una graduatoria concorsuale, non attiene alla fase della procedura di concorso ovvero al controllo giudiziale sulla legittimità della scelta discrezionale operata dell'Amministrazione, la cui tutela è demandata al giudice cui spetta il controllo del potere amministrativo ai sensi dell'art. 103 Cost., ma alla connessa fase successiva relativa agli atti di gestione del rapporto di lavoro, facendosi valere appunto il "diritto all'assunzione" al di fuori dell'ambito della procedura concorsuale, donde la sussistenza della giurisdizione civile (cfr., ex multis, Cons. St., sez. III 21.05.2013 n. 2754).
È però altrettanto vero che, ove invece l’eventuale riconoscimento del suddetto diritto sia consequenziale alla negazione degli effetti del provvedimento di indizione di diverse procedure (quale, nella fattispecie in trattazione, il concorso) per la copertura dei posti resisi vacanti, la controversia ha in realtà ad oggetto diretto il controllo giudiziale sulla legittimità della scelta discrezionale operata dell'amministrazione, a fronte della quale la situazione giuridica privata dedotta in giudizio appartiene alla categoria degli interessi legittimi, la cui tutela è demandata al giudice amministrativo ai sensi dell'art. 63, co. 4, del d.P.R. n. 165 del 2001 (cfr. Cass. ss.uu. 06.05.2013 n. 10404).
4.- Nel merito l’appello è però fondato, per le ragioni di fondo già espresse da questo Consiglio di Stato in sede cautelare con l’ordinanza 03.02.2010 n. 614 della sezione quinta.
4.1.- Il principio del previo esperimento delle procedure di mobilità rispetto al reclutamento di nuovo personale, peraltro già presente nell’ordinamento, è stato specificamente posto dall’art. 30 del d.lgs. 30.03.2001 n. 165, il cui secondo comma commina la nullità degli accordi, atti e clausole dei contratti collettivi volti ad eluderne l’applicazione, mentre il co. 2-bis (aggiunto dall'art. 5, co. 1-quater, d.l. 31.01.2005 n. 7, conv. con mod. dalla l. 31.03.2005 n. 43) prevede che “
Le amministrazioni, prima di procedere all'espletamento di procedure concorsuali, finalizzate alla copertura di posti vacanti in organico, devono attivare le procedure di mobilità di cui al comma 1, provvedendo, in via prioritaria, all'immissione in ruolo dei dipendenti, provenienti da altre amministrazioni, in posizione di comando o di fuori ruolo, appartenenti alla stessa area funzionale, che facciano domanda di trasferimento nei ruoli delle amministrazioni in cui prestano servizio. Il trasferimento è disposto, nei limiti dei posti vacanti, con inquadramento nell'area funzionale e posizione economica corrispondente a quella posseduta presso le amministrazioni di provenienza”.
Non v’è dubbio che, diversamente da quanto sostenuto dall’Amministrazione appellante,
il principio in parola è applicabile non già limitatamente al personale in posizione di comando o di fuori ruolo presso l’amministrazione ricevente, bensì “in via prioritaria” in favore tale personale rispetto a quello che presti ancora servizio presso altre amministrazioni.

ATTI AMMINISTRATIVIVietate al Tar le integrazioni. Il Cds e i giudizi di ottemperanza.
In tema di giudizio di ottemperanza di sentenza di condanna emessa dal giudice ordinario, il giudice amministrativo, dovendone individuare il contenuto e la portata precettiva sulla base del dispositivo e della motivazione, con esclusione di elementi esterni, non può integrare la pronuncia carente o dubbia con il riferimento a regole di diritto o ad un determinato orientamento giurisprudenziale.

È quanto hanno sottolineato i giudici della IV Sez. del Consiglio di Stato con la sentenza 14.07.2015 n. 3509.
I giudici di palazzo Spada hanno altresì evidenziato che è jus receptum quello per cui il giudice amministrativo incontra limiti maggiori allorché la ottemperanza riguardi una sentenza del giudice civile rispetto a quelli afferenti alla attuazione di un giudicato «amministrativo».
Un ormai consolidato orientamento giurisprudenziale sostiene che il potere interpretativo del giudicato da eseguire, che è insito nella struttura stessa di ogni giudizio di esecuzione, e, quindi a maggior ragione del giudizio di ottemperanza, nel caso in cui tale giudizio attenga a un giudicato formatosi davanti a giudice diverso dal giudice amministrativo «non può esercitarsi che sulla base di elementi interni al giudicato ottemperando e non sulla base di elementi esterni allo stesso, la cui valutazione, se ancora ammissibile, rientrerebbe in ogni caso nella giurisdizione propria del giudice che ha emesso la sentenza».
L' art. 87, dlgs n. 104/2010 (Cpa) stabilisce poi, al comma 2, lett. d), che i giudizi di ottemperanza siano trattati in camera di consiglio, aggiungendo al successivo comma 3 che tutti i termini processuali (per i giudizi in camera di consiglio) siano dimezzati rispetto a quelli del processo ordinario, tranne, nei giudizi di primo grado, quelli per la notificazione del ricorso introduttivo, del ricorso incidentale e dei motivi.
Il termine «breve» per appellare (di regola pari a sessanta giorni) è quindi pari a trenta: l'appello è tardivo (si vedano: sez. III, 28.10.2014, n. 5334, sez. V, 17.11.2014, n. 5627, 16.04.2014, n. 1967, 24.03.2014, n. 1439; sez. V, 17.06.2014, n. 3085, 17.06.2014, n. 3052)
(articolo ItaliaOggi Sette del 10.08.2015).

APPALTI: Contratti pubblici, sulla moralità accertamenti contenuti. Tar Emilia: la verifica deve riguardare solo chi sia amministratore e abbia rappresentanza.
L'art. 38 del Codice dei contratti pubblici -per il quale l'accertamento dei requisiti di moralità per l'ammissione alla gara è svolto nei confronti «degli amministratori muniti del potere di rappresentanza o del direttore tecnico» se si tratta di società o di consorzi organizzati nelle forme diverse dall'impresa individuale, in accomandita, o in nome collettivo- va interpretato nel senso che il medesimo accertamento deve riguardare soltanto coloro per i quali vi sia la compresenza della qualità di amministratore e del potere di rappresentanza e non è suscettibile di interpretazione estensiva.

Lo hanno ribadito i giudici della II Sez. del TAR Emilia Romagna-Bologna con la sentenza 10.07.2015 n. 670.
I giudici amministrativi bolognesi, prendendo spunto anche da un precedente orientamento giurisprudenziale (Consiglio di stato nella sentenza n. 23 del 16.10.2013), hanno sottolineato che le dichiarazioni non sono dovute anche dal procuratore e dall'institore, che non sono amministratori.
Nella sentenza in commento è stato altresì evidenziato come il bando di gara possa però prevedere -a pena di esclusione- che le dichiarazioni previste dall'art. 38 siano rese anche dal procuratore munito di potere decisionale la cui particolare ampiezza renda configurabile un vero e proprio amministratore di fatto ai sensi dell'art. 2639, comma primo, cod. civ..
È interessante, a questo punto analizzare il ruolo della Pubblica amministrazione, infatti, nel caso in cui neppure il bando preveda l'onere per il «procuratore-amministratore di fatto» di rendere le dichiarazioni, «l'Amministrazione può disporre l'esclusione solo se risulti in concreto l'assenza dei requisiti di moralità, e non per il solo fatto che siano mancate le dichiarazioni».
Nel caso sottoposto all'attenzione dei giudici emiliani non risultava contestata la sostanziale mancanza dei requisiti di moralità e di affidabilità in capo ai procuratori speciali indicati dalla parte ricorrente che nulla affermava in ordine ai poteri concreti dei medesimi procuratori ed alla possibilità di assimilarli o meno agli amministratori della società.
Ed inoltre, la lex specialis della gara non richiedeva tale dichiarazione da parte dei procuratori speciali e nessuna violazione della lex specialis veniva dedotta (articolo ItaliaOggi Sette del 10.08.2015).
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MASSIMA
16. Va, inoltre, respinta la terza ed ultima censura contenuta nel ricorso introduttivo, concernente la seconda classificata, con cui viene contestata la mancata presentazione della dichiarazione di cui all’articolo 38, comma 1°, lettera c), del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, di tre procuratori speciali della società Eco Eridania.
La questione, ancorché dibattuta in passato, è stata risolta nel senso che tale dichiarazione è richiesta soltanto per gli amministratori, come precisato dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato nella sentenza n. 23 del 16.10.2013, laddove ha stabilito che "
L'art. 38 del Codice dei contratti pubblici -per il quale l'accertamento dei requisiti di moralità per l'ammissione alla gara è svolto nei confronti "degli amministratori muniti del potere di rappresentanza o del direttore tecnico" se si tratta di società o di consorzi organizzati nelle forme diverse dall'impresa individuale, in accomandita, o in nome collettivo- va interpretato nel senso che il medesimo accertamento deve riguardare soltanto coloro per i quali vi sia la compresenza della qualità di amministratore e del potere di rappresentanza e non è suscettibile di interpretazione estensiva, sicché le dichiarazioni non sono dovute anche dal procuratore e dall'institore, che non sono amministratori. Il bando di gara può però prevedere -a pena di esclusione- che le dichiarazioni previste dall'art. 38 siano rese anche dal procuratore munito di potere decisionale la cui particolare ampiezza renda configurabile un vero e proprio amministratore di fatto ai sensi dell'art. 2639, comma primo, cod. civ.. Qualora neppure il bando preveda l'onere per il "procuratore-amministratore di fatto" di rendere le dichiarazioni, l'Amministrazione può disporre l'esclusione solo se risulti in concreto l'assenza dei requisiti di moralità, e non per il solo fatto che siano mancate le dichiarazioni".
Nel caso in esame non risulta contestata la sostanziale mancanza dei requisiti di moralità e di affidabilità in capo ai procuratori speciali indicati dalla ricorrente che nulla afferma in ordine ai poteri concreti dei medesimi procuratori ed alla possibilità di assimilarli o meno agli amministratori della società.
Del resto la lex specialis della gara non richiedeva tale dichiarazione da parte dei procuratori speciali e nessuna violazione della lex specialis è dedotta con la presente censura.

INCARICHI PROFESSIONALI: Spazio ai nuovi parametri nel corso della prestazione.
Nel caso di prestazioni professionali da parte di un avvocato, se queste non siano ancora terminate dopo l'entrata in vigore del d.m. n. 140/12, andranno applicati i nuovi parametri in esso esplicati.
Ad affermarlo sono stati i giudici della VI Sez. civile della Corte di Cassazione con la sentenza 07.07.2015 n. 14084.
Secondo gli Ermellini, ai sensi dell'art. 41 del dm 20.07.2012 n. 140, che è applicazione dell'art. 9 comma II, dl 1/12 conv. in legge 27/2012, i nuovi parametri sono da applicare ogni qual volta la liquidazione giudiziale intervenga in un momento successivo alla data di entrata in vigore del predetto decreto ed abbia ad oggetto il compenso di un professionista che, a quella data, non abbia ancora completato la propria prestazione professionale, quantunque tale prestazione abbia avuto inizio e si sia in parte svolta in epoca precedente, quando ancora erano in vigore le tariffe professionali abrogate.
Logica conclusione di quanto sopra affermato è che le tariffe abrogate possono trovare ancora applicazione solo nel caso in cui la prestazione professionale di cui si tratta si sia completamente esaurita sotto il vigore delle precedenti tariffe.
Sarà necessario, invece, applicare il dm 140/2012 con riferimento a prestazioni professionali, iniziatesi prima, ma ancora in corso quando detto decreto è entrato in vigore ed il giudice deve procedere alla liquidazione del compenso.
Inoltre, nella sentenza in commento, i giudici di piazza Cavour hanno evidenziato che in ossequio anche ad un orientamento pacifico della giurisprudenza della medesima Cassazione (si vedano tra le altre: Cass. n. 10634/2010; n. 18693/2011; 23831/2011), ai fini della liquidazione delle spese –il procedimento abusivamente frazionato con distinti ricorsi di uguale contenuto depositata contestualmente dal medesimo difensore– deve considerarsi come unico (articolo ItaliaOggi Sette del 10.08.2015).

TRIBUTI: Ici, la classificazione catastale è vincolante.
L'immobile iscritto nel catasto dei fabbricati come «rurale» (categoria A/6 o D/10) non è soggetto all'Ici; qualora l'amministrazione comunale intenda vantare la debenza dell'imposta deve necessariamente impugnare l'attribuzione della categoria catastale che, altrimenti, esclude a priori la tassazione.
Se, invece, l'immobile è accatastato in una differente categoria, spetta al contribuente che intenda sostenere l'esenzione dall'imposta contestare l'atto di classamento. La categoria, dunque, riveste un'efficacia determinante ai fini dell'assoggettamento dell'immobile al tributo comunale. Inoltre, il nuovo classamento ha effetto retroattivo ai cinque anni antecedenti a quello in cui è stata presentata la domanda.

Sono le conclusioni che si leggono nella sentenza 03.07.2015 n. 13740 della Corte di Cassazione, Sez. V civile.
Una cooperativa agricola presentava istanza di rimborso dell'Ici versata per l'anno 2006, in relazione a un immobile utilizzato per funzioni strumentali connesse all'attività agricola. L'immobile in questione risultava accatastato come opificio (categoria D/1), ma nell'anno 2011 la cooperativa aveva presentato istanza di variazione da D/1 a D/10 («Fabbricati per funzioni produttive connesse alle attività agricole»).
Sul diniego da parte del comune, la contribuente attivava il contenzioso, con esiti alterni (accoglimento in primo grado, riforma della sentenza in sede d'appello). Il giudizio di legittimità ha cassato la pronuncia di seconde cure, ribadendo degli interessanti principi. In primis, gli ermellini ricordano che la variazione catastale ha effetto retroattivo al quinquennio precedente rispetto alla presentazione della domanda, come stabilito dall'articolo 7, comma 2-bis, del dl 13.05.2011, n. 70 (cosiddetto decreto sviluppo).
La Cassazione ribadisce che la classificazione catastale è elemento determinante ai fini dell'assoggettamento dell'immobile all'imposta comunale. Per ribaltare la posizione impositiva è necessario contestare proprio la classificazione catastale che, altrimenti, risulta vincolante oltre ogni criterio. Per cui, l'immobile iscritto nel catasto dei fabbricati come «rurale», con attribuzione della relativa categoria per la riconosciuta ricorrenza dei requisiti di legge, non è soggetto all'imposta, ed è onere del contribuente, al fine di ottenerne l'esenzione, impugnare l'atto di diverso classamento del cespite; parimenti, il comune, onde poter legittimamente pretendere il pagamento dell'imposta, deve a sua volta impugnare autonomamente l'attribuzione della categoria catastale, ove la stessa rientri nella classificazione «rurale».
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
La società (omissis) presentò al comune di Bressanvido istanza di rimborso in relazione all'imposta Ici, versata per l'anno 2006, in riferimento a un immobile adibito a uso strumentale all'attività agricola espletata. ( )
Nella fattispecie l'immobile risultava accatastato in D1 categoria relativa ad attività di opificio ma in data 30/09/2011 la società ha presentato istanza di variazione da D1 in D10 categoria che riguarda specificamente le costruzioni strumentali all'esercizio di attività agricola.
Il nuovo classamento ha effetto retroattivo ai cinque anni antecedenti a quello in cui è stata presentata la domanda di nuovo classamento, essendo tale ipotesi prevista oltre che per i casi di variazioni costituenti correzioni di errori materiali di fatto, anche negli altri casi come sancito dall'art. 7, comma 2-bis, dl 13.05.2011 n. 70 convertito in legge 12.07.2011 n. 106 il quale ha previsto la retroattività delle variazioni annotate negli atti catastali a seguito di domanda presentata in forza della suddetta normativa.
Infatti secondo sezz. 6-5, ordinanza n. 422 del 10/01/2014 «In tema di Ici, l'immobile iscritto nel catasto dei fabbricati come «rurale», con attribuzione della relativa categoria per la riconosciuta ricorrenza dei requisiti di legge, non è soggetto all'imposta, sicché è onere del contribuente, al fine di ottenerne l'esenzione, impugnare l'atto di diverso classamento del cespite, mentre il comune, onde poterla legittimamente pretendere, deve impugnare autonomamente l'attribuzione della categoria catastale «rurale», salva la rilevanza, in ogni stato e grado di giudizio, dello «jus superveniens», la cui applicazione compete al giudice del rinvio ove comporti la necessità di accertamenti di fatto preclusi in sede di legittimità
».
Nella specie successivamente al deposito della sentenza gravata era intervenuto l'art. 7, comma 2-bis, del dl 13.05.2011, n. 70, convertito, con modificazioni, dalla legge 12.07.2011, n. 106, che aveva sancito la retroattività delle variazioni annotate negli atti 41 catastali a seguito di domanda presentata in forza della suddetta normativa, cui effetti, in forza dell'art. 2, comma 5-ter, del dl 31.08.2013, n. 102, convertito con la legge 28.10.2013, n. 124, erano stati fatti decorrere dal quinquennio antecedente alla presentazione della domanda stessa).
Per quanto sopra deve essere accolto il ricorso in ordine ai motivi dal primo al quinto i quali ripropongono tutti, sotto differenti profili, la medesima questione sopra affrontata di immobili strumentali ad attività agricole accatastati in categoria diversa da quella D1, assorbiti il sesto e settimo motivo (articolo ItaliaOggi Sette del 03.08.2015).

EDILIZIA PRIVATA: Indipendentemente dalla previsione della conferenza di servizi (ora abrogata), in mancanza di parere della Soprintendenza ex art. 146 dlgs 42/2004 e decorsi sessanta giorni dalla ricezione degli atti, <<l’amministrazione procedente provvede comunque sulla domanda di autorizzazione>> (art. 146, co. 9, cit.).
Essa è dunque tenuta comunque a concludere in proprio il procedimento, se la Soprintendenza non si è espressa (tanto più una volta eliminata la previsione della conferenza di servizi), derivando anche da ciò la necessità di dover considerare non più vincolante il parere tardivo (in ipotesi, emesso allorquando l’Amministrazione abbia già formulato o sia in procinto di esprimere la propria autonoma valutazione).
Invero, il decorso del termine non consuma il potere della Soprintendenza di emettere il parere e, dunque, a rigore, tale termine non ha carattere propriamente perentorio, ne consegue che il parere può ben essere emesso tardivamente (la Soprintendenza mantiene il potere di esprimere il proprio avviso, anche per la rilevanza dei valori alla cui tutela è preposta, benché spogliato del carattere vincolante), ma l’Amministrazione procedente non è più vincolata ad osservarlo, dovendolo considerare alla stregua di un rilevante contributo istruttorio a cui può o meno uniformarsi in entrambi i casi illustrando nella motivazione, anche sinteticamente, le ragioni della scelta operata.
Diversamente argomentando, ritenendo cioè che il parere di cui al comma 5 dell’art. 146 d.lgs. n. 42/2004 sarebbe comunque vincolante anche decorso il termine di adozione, si perverrebbe ad attribuire alla Soprintendenza il potere di emettere un parere vincolante in ogni tempo, cosicché, per un verso, la fissazione del termine stesso non avrebbe alcuna ragion d’essere e, per altro verso, l’Amministrazione procedente dovrebbe prendere atto del parere della Soprintendenza, anche qualora sia decorso il maggior termine di sessanta giorni e spetti ad essa di provvedere autonomamente.
In conclusione, il parere del Soprintendente è vincolante se espresso nei quarantacinque giorni dalla ricezione delle osservazioni dell’interessato, successive al preavviso di parere negativo (in mancanza di esse, dalla scadenza dei dieci giorni ex art. 10-bis della legge n. 241/1990).
Se nelle more è emesso il parere della Soprintendenza, esso non ha carattere vincolante e l’Amministrazione (chiamata a concludere il procedimento ma non più tenuta a provvedere “in conformità”, come stabilito dall’art. 146, ottavo comma, ultimo periodo) deve considerare i rilievi manifestati dall’amministrazione statale, che entrano a far parte della valutazione da assumere in merito all’autorizzazione paesaggistica.

Ritiene il Collegio di confermare la statuizione cautelare alla stregua delle considerazioni di seguito proposte.
E’ necessario muovere dalla disciplina di riferimento.
L’art. 146 del d.lgs. 22.01.2004, n. 42, nel prevedere che sull’istanza di autorizzazione paesaggistica si pronuncia la Regione (ovvero, l’Autorità comunale delegata), dopo avere acquisito il parere vincolante del Soprintendente (quinto comma), stabilisce che quest’ultimo debba essere reso entro il termine di quarantacinque giorni, previa formulazione del preavviso di diniego se il parere è negativo (ottavo comma).
Come già rilevato in sede cautelare, deve ritenersi che il carattere vincolante del parere della Soprintendenza permanga solamente se esso venga reso entro i quarantacinque giorni di cui al quinto comma dell’art. 146 del d.lgs. n. 42/2004 (ovvero, dovendo essere preceduto dal preavviso di rigetto, entro 45 giorni dalle osservazioni dell’interessato o dal decorso dei 10 giorni di cui all’art. 10-bis della legge n. 241/1990).
Milita in tal senso la formulazione testuale delle norme che vengono in rilievo: l’ottavo comma dell’art. 146 si riferisce al “parere di cui al comma 5” (qualificato in tale sede vincolante), fissando il termine di 45 giorni e soggiungendo, all’ultimo periodo, che “l’amministrazione provvede in conformità”.
Se, quindi, il parere (vincolante ai sensi del quinto comma) è reso nel termine di 45 giorni (ottavo comma), l’Amministrazione non può discostarsene ma deve limitarsi a prenderne atto entro venti giorni dalla ricezione, secondo quanto previsto dall’ottavo comma, ultimo periodo dell’art. 146 d.lgs. n. 42/2004.
I primi due periodi del successivo nono comma dell’art. 146 citato nel testo (nel testo vigente ratione temporis) prevedevano che: <<Decorso inutilmente il termine di cui al primo periodo del comma 8 senza che il soprintendente abbia reso il prescritto parere, l'amministrazione competente può indire una conferenza di servizi, alla quale il soprintendente partecipa o fa pervenire il parere scritto. La conferenza si pronuncia entro il termine perentorio di quindici giorni>>.
È evidente che la previsione della conferenza di servizi, nell’ipotesi in cui il termine non sia rispettato, è inconciliabile con la possibilità che possa ancora essere assegnato carattere vincolante al parere tardivo della Soprintendenza, atteso che la stessa previsione di una conferenza di sevizi non avrebbe alcun senso se, una volta pervenuto il parere, le Amministrazioni intervenute non disponessero di alcun margine di apprezzamento.
La norma dell’art. 146, nono comma, è stata modificata dall’art. 25, terzo comma, del decreto-legge 12.09.2014, n. 133, convertito con legge 11.11.2014, n. 164, che ha soppresso il primo e secondo periodo, ma il procedimento oggetto di causa era stato avviato nella vigenza delle norme che prevedevano il ricorso alla conferenza di servizi (essendo la modifica del nono comma dell’art. 146 entrata in vigore il 13.09.2014), per cui la notazione può valere a fini argomentativi, rafforzando il convincimento che la tardività del parere ne faccia venir meno il carattere vincolante (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 27.04.2015, n. 2136; TAR Veneto, sez. II, 22/05/2014, n. 698).
In ogni caso, indipendentemente dalla previsione della conferenza di servizi (ora abrogata), in mancanza di parere della Soprintendenza e decorsi sessanta giorni dalla ricezione degli atti, <<l’amministrazione procedente provvede comunque sulla domanda di autorizzazione>> (art. 146, co. 9, cit.).
Essa è dunque tenuta comunque a concludere in proprio il procedimento, se la Soprintendenza non si è espressa (tanto più una volta eliminata la previsione della conferenza di servizi), derivando anche da ciò la necessità di dover considerare non più vincolante il parere tardivo (in ipotesi, emesso allorquando l’Amministrazione abbia già formulato o sia in procinto di esprimere la propria autonoma valutazione).
Invero, il decorso del termine non consuma il potere della Soprintendenza di emettere il parere e, dunque, a rigore, tale termine non ha carattere propriamente perentorio, ne consegue che il parere può ben essere emesso tardivamente (la Soprintendenza mantiene il potere di esprimere il proprio avviso, anche per la rilevanza dei valori alla cui tutela è preposta, benché spogliato del carattere vincolante), ma l’Amministrazione procedente non è più vincolata ad osservarlo, dovendolo considerare alla stregua di un rilevante contributo istruttorio a cui può o meno uniformarsi in entrambi i casi illustrando nella motivazione, anche sinteticamente, le ragioni della scelta operata.
Diversamente argomentando, ritenendo cioè che il parere di cui al comma 5 dell’art. 146 d.lgs. n. 42/2004 sarebbe comunque vincolante anche decorso il termine di adozione, si perverrebbe ad attribuire alla Soprintendenza il potere di emettere un parere vincolante in ogni tempo, cosicché, per un verso, la fissazione del termine stesso non avrebbe alcuna ragion d’essere e, per altro verso, l’Amministrazione procedente dovrebbe prendere atto del parere della Soprintendenza, anche qualora sia decorso il maggior termine di sessanta giorni e spetti ad essa di provvedere autonomamente (cfr. da ultimo TAR Campania, sez. III, 22.04.2015, n. 2267).
In conclusione, il parere del Soprintendente è vincolante se espresso nei quarantacinque giorni dalla ricezione delle osservazioni dell’interessato, successive al preavviso di parere negativo (in mancanza di esse, dalla scadenza dei dieci giorni ex art. 10-bis della legge n. 241/1990).
Se nelle more è emesso il parere della Soprintendenza, esso non ha carattere vincolante e l’Amministrazione (chiamata a concludere il procedimento ma non più tenuta a provvedere “in conformità”, come stabilito dall’art. 146, ottavo comma, ultimo periodo) deve considerare i rilievi manifestati dall’amministrazione statale, che entrano a far parte della valutazione da assumere in merito all’autorizzazione paesaggistica (cfr. in tal senso da ultimo Cons. Stato, sez. VI, 27.04.2015, n. 2136).
Nel caso di specie, invece, la Regione e il SUAP si sono limitate a negare l’autorizzazione richiamando il parere della Soprintendenza, sull’erroneo presupposto che esso fosse vincolante.
Peraltro, il parere espresso dalla Soprintendenza deve considerarsi anche affetto anche da vizi suoi propri, atteso che, come anticipato e rilevato in sede cautelare, esso non ha preso in considerazione le articolate deduzioni formulate da parte ricorrente nell’ambito dell’interlocuzione procedimentale avviata a seguito della comunicazione dell’avviso di parere negativo ex art. 10-bis l. n. 241/1990 (15.11.2013).
Né può sostenersi che le osservazioni formulate non potessero modificare l’orientamento espresso dalla Soprintendenza, atteso che, per un verso, parte ricorrente ha proposto specifici rimedi volti a superare le criticità rappresentate nel preavviso e che, per altro verso, ha fornito informazioni e dettagli sugli aspetti del progetto di intervento sui quali la Soprintendenza stessa aveva chiesto integrazioni e chiarimenti rilevando specifiche carenze.
A fronte di tali oggettivi contributi in sede di contraddittorio, il parere impugnato si limita a ribadire, anche sotto il profilo testuale, quanto la medesima Soprintendenza aveva rilevato già in sede di preavviso di parere negativo, senza nulla aggiungere e non tenendo in considerazione le osservazioni formulate da parte ricorrente, anche solo per ritenerle insufficienti o inadeguate; ad esempio, nel parere definitivo sono state ribadite dalla Soprintendenza pretese carenze relative ad elementi dell’intervento accessori su cui parte ricorrente aveva, invece, fornito numerose indicazioni che, però, l’Amministrazione non ha nemmeno menzionato.
Ciò considerato, il ricorso deve essere accolto e gli atti impugnati devono essere annullati (TAR Molise, sentenza 26.06.2015 n. 292 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non sussiste alcun obbligo di dare comunicazione ai proprietari di immobili vicini dell'avvio del procedimento diretto al rilascio di una concessione edilizia, in quanto gli interessi coinvolti dal provvedimento con cui si consente la trasformazione edilizia del territorio sono di tale varietà ed ampiezza da rendere difficilmente individuabili tutti i soggetti che dall'emanazione dell'atto potrebbero ricevere nocumento.
Secondo un costante orientamento giurisprudenziale, il vicino controinteressato (nel nostro caso proprietario frontista) non è un soggetto contemplato tra quelli cui va inviata la comunicazione di avvio del procedimento avviato per il rilascio di una concessione edilizia: “Non sussiste alcun obbligo di dare comunicazione ai proprietari di immobili vicini dell'avvio del procedimento diretto al rilascio di una concessione edilizia, in quanto gli interessi coinvolti dal provvedimento con cui si consente la trasformazione edilizia del territorio sono di tale varietà ed ampiezza da rendere difficilmente individuabili tutti i soggetti che dall'emanazione dell'atto potrebbero ricevere nocumento” (cfr. TRGA Trento, 08.04.2010, n. 110; nello stesso senso, Consiglio di Stato, Sez. IV, 31.07.2009, n. 4847).
Né rileva la circostanza che il vicino risulti essersi opposto in precedenti occasioni all’attività edilizia dell’altro soggetto confinante (cfr. TAR Liguria, Genova, Sez. I, 10.07.2009, n. 1736) (TRGA Trentino Alto Adige-Bolzano, sentenza 17.06.2015 n. 201 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Non è il proprietario che deve ripulire l'area nomadi. Tar Lombardia.
Non è il proprietario che deve ripulire, mettere in sicurezza e recintare l'area occupata abusivamente dai nomadi. O almeno: non è il Comune che glielo può imporre con un'ordinanza se manca la prova del dolo o della colpa da parte del titolare del fondo nel deposito incontrollato di rifiuti.

È quanto emerge dalla sentenza 29.06.2015 n. 1482, pubblicata dalla III Sez. del TAR Lombardia-Milano.
Annullato perché illegittimo il provvedimento adottato da un Comune in provincia di Milano dopo l'incendio che ha interessato l'area occupata dai nomadi. In origine c'era una comunità di giostrai in affitto ma in seguito si sono aggiunti insediamenti di abusivi che oggi non pagano alcun canone e si attaccano ai contatori per rubare l'energia elettrica: si sospetta che proprio dall'allacciamento non autorizzato si sia sviluppato il rogo.
Il punto è che l'amministrazione locale sa che nel campo ci sono occupanti senza titolo e non può imporre al proprietario un'attività che si risolverebbe nel farsi giustizia da sé: nessun privato può infatti procedere in proprio a sgomberare un terreno e a portare via i beni presenti senza il consenso degli interessati. E per le questioni di ordine pubblico serve sempre l'intervento delle autorità.
Infine: soltanto chi è corresponsabile dell'abbandono incontrollato dei rifiuti può essere costretto alla rimessione in pristino dal provvedimento amministrativo: manca la prova della responsabilità in capo al proprietario del terreno. Al Comune non resta che pagare le spese di giudizio (articolo ItaliaOggi del 04.08.2015).
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MASSIMA
1. Il ricorso è fondato.
2. Con la prima censura si assume l’illegittimità del provvedimento impugnato giacché con lo stesso si sarebbe imposto alla ricorrente, soltanto in qualità di proprietaria dell’area da mettere in sicurezza, lo svolgimento di un’attività –ossia impedire l’accesso alla stessa anche dalla pubblica via nonché l’immediata rimozione di tutte le parti e gli oggetti potenzialmente pericolosi e/o maleodoranti presenti– che sarebbe vietata dall’ordinamento, in quanto nessuno potrebbe farsi ragione da sé, omettendo di ricorrere all’autorità giurisdizionale.
Inoltre, le questioni di ordine e sicurezza pubblici sarebbero di competenza dell’autorità pubblica e non potrebbero essere demandate ai privati cittadini.
2.1. La doglianza è fondata.
L’ordinanza del Sindaco di Bollate impone alla società ricorrente, in qualità di proprietaria dell’area, di impedire l’accesso alla stessa e di metterla in sicurezza tramite l’asportazione degli oggetti potenzialmente pericolosi. Nelle premesse dell’ordinanza si dà atto della circostanza che l’incendio divampato nel sito sarebbe stato causato dalla presenza di insediamenti abusivi collegati fraudolentemente alla linea elettrica, dimostrandosi in tal modo la consapevolezza del Comune in relazione allo stato dell’immobile e ai soggetti che lo detengono in via di fatto.
La richiamata consapevolezza del Comune in ordine alla disponibilità dell’area, rende illegittima l’ordinanza impugnata, atteso che un soggetto privato non può procedere in proprio a sgomberare un terreno o edificio occupato e non può asportare i beni ivi presenti senza il consenso dei soggetti direttamente interessati; in mancanza di tale assenso, l’unica alternativa che residua è il ricorso agli strumenti giurisdizionali.
Nel caso di specie si è ordinato alla ricorrente di impedire l’accesso all’area di sua proprietà, nonostante l’Amministrazione comunale fosse al corrente dell’occupazione abusiva del predetto sito e quindi fosse consapevole di imporre alla destinataria il compimento di un’attività non consentita dall’ordinamento, che impedisce di farsi giustizia da sé.
2.2. Inoltre dal contenuto dell’ordinanza, seppure molto scarna e non accompagnata dai rapporti redatti dall’E.N.E.L. e dalla Polizia Locale, si evince che la stessa risulta finalizzata a porre rimedio ad una problematica di ordine pubblico che, tuttavia, non può essere delegata a soggetti privati, ma deve essere affrontata dagli Enti competenti con gli strumenti del diritto pubblico, attesi i risvolti in materia di ordine, sicurezza, incolumità e igiene pubblici.
In tal senso sembra essere orientata anche la giurisprudenza più recente, allorquando afferma che l’Amministrazione ha il dovere di adottare una posizione espressa –quantomeno per giustificare la sua inerzia– laddove il privato, proprietario di un bene, prospettando “
la sussistenza di un pericolo per l’igiene o per l’incolumità pubblica –e non già per il proprio diritto dominicale– derivante dall’abusiva occupazione del proprio bene perpetrata da una serie indeterminata di soggetti con modalità tali da non costituire più o soltanto un semplice spossessamento del bene e, quindi, un fatto illecito avente mera rilevanza inter privatos, ma da costituire un pericolo per l’igiene, l’ordine e la sicurezza pubblici, (…) invochi conseguentemente l’intervento dell’Amministrazione stessa a tutela dell’incolumità pubblica. [Tale] aspettativa differenziata e qualificata del privato si radica nel fatto che il proprio bene diventa luogo, strumento e occasione in cui e/o per cui si realizza, ad opera di terzi, il turbamento dell’ordine, dell’igiene o dell’incolumità pubblica, con tutta una serie di ipotizzabili effetti negativi (civili, penali e amministrativi), sul piano patrimoniale e morale, per la sua sfera giuridica, sicché egli vanta innegabilmente una situazione che impone all’Amministrazione, pur nell’ampio potere discrezionale di apprezzare i presupposti degli artt. 50 e 54 T.U.E.L., l’obbligo di adottare un provvedimento espresso” (Consiglio di Stato, III, 14.11.2014, n. 5601).
2.3. In relazione a quanto evidenziato in precedenza, la censura deve essere accolta.
3. Con la seconda doglianza si assume l’illegittimità dell’ordinanza sindacale nella parte in cui impone alla società ricorrente di rimuovere gli oggetti e le parti pericolosi e maleodoranti, pur nella consapevolezza della mancata responsabilità della stessa in ordine all’abbandono dei predetti rifiuti.
3.1. La doglianza è fondata.
Con l’ordinanza impugnata si è imposta alla ricorrente la rimozione dei rifiuti presenti nell’area di sua proprietà, nonostante la stessa non sia responsabile del loro abbandono, come riconosciuto implicitamente dallo stesso Comune, allorquando nelle premesse dell’ordinanza evidenzia l’abusiva occupazione dell’area.
Ciò appare in contrasto con l’art. 192, comma 3, del D.Lgs. n. 152 del 2006, secondo il quale chiunque viola i divieti di cui ai commi 1 (divieto di abbandono e di deposito incontrollati di rifiuti sul suolo e nel suolo) e 2 (divieto di immissione di rifiuti di qualsiasi genere, allo stato solido o liquido, nelle acque superficiali e sotterranee) è tenuto a procedere alla rimozione, all’avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi in solido con il proprietario e con i titolari di diritti reali o personali di godimento sull’area, ai quali tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa.
Non essendo stato dimostrato il dolo o la colpa della ricorrente in relazione all’abbandono dei rifiuti, non poteva imporsi alla stessa l’obbligo di rimozione e le spese per procedere alla realizzazione di tale rimozione
(cfr., da ultimo, TAR Lombardia, Milano, III, 11.03.2015, n. 693).
3.2. Ciò conduce all’accoglimento del predetto motivo.
4. La fondatezza delle suesposte censure determina l’accoglimento del ricorso e il conseguente annullamento dell’ordinanza n. 40 del 24.03.2014, emessa dal Sindaco della Città di Bollate e impugnata nella presente sede.

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Al comune 15 giorni per provare l'ordine di demolizione. Manufatto abusivo.
Il comune deve tirare fuori entro 15 giorni i verbali della polizia municipale che hanno fatto scattare l'ordine di demolizione del manufatto ritenuto abusivo: di fronte all'istanza di accesso dei documenti proposta dal privato, infatti, l'ente locale non può giustificare il diniego spiegando che il privato non ha utilizzato il modulo ad hoc predisposto dall'amministrazione.

È quanto emerge dalla sentenza 29.06.2015 n. 996, pubblicata dal TAR Toscana, Sez. III.
Forma no, sostanza sì. Non si abbattono, almeno per ora, le opere che il comune ha individuato come illegittime sui due fondi del cittadino, riuniti sotto il nome di condominio «L».
Il proprietario dei cespiti vuole vederci chiaro nell'ordine di demolizione: chiede dunque all'ente locale di esibire la comunicazione della polizia municipale e il verbale congiunto del servizio dei vigili urbani e dei servizi tecnici del comune, ai ai sensi della legge sulla trasparenza.
Non regge il diniego opposto dall'amministrazione sul rilievo di un mero vizio di forma: è irrilevante che il richiedente non abbia utilizzato la modulistica dedicata laddove il privato indica comunque l'atto cui si chiede di accedere, l'interesse che sorregge la pretesa ostensiva e l'esatta indicazione del richiedente.
Il fatto che l'ente locale abbia elaborato un formato ad hoc per chi vuole accedere agli atti amministrativi è una forma di aiuto al cittadino: l'utilizzo non può essere considerato condizione di ammissibilità dell'istanza. Il comune paga le spese di giudizio (articolo ItaliaOggi del 05.08.2015).
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MASSIMA
6 - La censura è fondata, nei sensi di seguito esposti.
7 - L’Amministrazione comunale pone a fondamento del diniego di ostensione, in primo luogo, la circostanza che “la domanda non è presentata con l’apposita modulistica dedicata”;
si tratta di motivo di diniego sicuramente illegittimo, giacché nessuna norma autorizza l’Amministrazione a pretendere l’utilizzo di modulistica dalla stessa predisposta a pena di inammissibilità della pretesa ostensiva; quindi se l’Amministrazione deve certo pretendere che l’istante presenti una domanda avente il contenuto previsto dalla legge (indicante quindi l’atto cui si chiede di accedere, l’interesse che sorregge la pretesa ostensiva, l’esatta indicazione del soggetto richiedente ecc.) al contrario essa non può esigere che le indicazioni stesse siano fornite attraverso l’uso della “modulistica dedicata” predisposta dall’Amministrazione medesima dovendo valutarsi la funzione della stessa come ausilio offerto ai privati e non come condizione di ammissibilità o procedibilità della procedura di accesso.
8 – In secondo luogo il gravato atto di diniego statuisce che “non è stata prodotta autorizzazione dell’avente titolo”.
Anche questo profilo motivazionale
appare illegittimo, non essendo esplicitato chiaramente a cosa l’Amministrazione si riferisca; l’istanza di accesso è stata presentata al Comune di Poggio a Caiano dall’avv. F.B.C. a nome della società L.F. s.r.l. e nell’istanza medesima è riportato mandato del legale rappresentante della società stessa con il quale si conferisce all’avv. C., tra l’altro, “la facoltà di avanzare istanze ai sensi della legge n. 241 del 1990; d’altra parte dal società L.F. è senz’altro legittimata ad avanzare istanze di accesso con riferimento ad atti che risultano richiamati nell’ordinanza di demolizione n. 7 del 2015 (doc. 4) di cui la società medesima risulta destinataria; con l’effetto che non appare chiaro a cosa si riferisca l’Amministrazione quando richiede “autorizzazione dell’avente titolo”.
9 – In terzo luogo il gravato provvedimento di diniego motiva con riferimento al fatto che “tali documentazioni [cioè quelle richieste nella istanza di accesso] devono essere richieste direttamente alla Procura della Repubblica di Prato non potendo essere evase direttamente da questo Ente”.
Anche il suddetto profilo motivazione
risulta inidoneo a fondare l’impugnato diniego di accesso, non esplicitando in modo chiaro un profilo di preclusione all’assentimento del richiesto accesso; infatti gli atti a cui la ricorrente chiede di accedere sono atti propri del procedimento amministrativo che ha condotto all’emanazione dell’ordinanza di demolizione pregiudizievole per la ricorrente; l’Amministrazione non dà prova della esistenza di un procedimento penale in corso che sia idoneo a supportare il diniego di accesso, né espressamente riferisce circa la sussistenza di una azione penale in corso; l’affermazione circa la necessità di richiedere gli atti alla Procura della Repubblica sembra evocare semplicemente l’avvenuta trasmissione degli atti del procedimento amministrativo alla stessa per gli accertamenti di competenza; ma, come la giurisprudenza ha chiarito, la semplice trasmissione degli atti alla Procura, in assenza di sequestro penale o di dimostrazione di effettivo avvio dell’azione penale, non è sufficiente a giustificare il diniego di ostensione di atti amministrativi (TAR Bari, sez. 1^, 4954 del 2002).
Ne segue che il profilo motivazionale in esame non appare idoneo a giustificare l’atto gravato.
10 – Alla luce delle considerazioni che precedono il ricorso deve essere accolto, con spese a carico dell’Amministrazione, liquidate come da dispositivo.

APPALTI SERVIZI: Servizio pubblico affidato a onlus se praticano prezzi fuori mercato.
La onlus può ottenere in affidamento diretto la gestione del servizio pubblico, laddove grazie al lavoro dei volontari, pratica prezzi tanto bassi da risultare «fuori mercato»: non si tratta di un appalto mascherato, e dunque illegittimo, perché conferito senza gara in quanto il profitto imprenditoriale risulta effettivamente escluso mentre la diffusione sul territorio delle associazioni assicura il regolare svolgimento delle attività, consentendo all'amministrazione di centrare l'obiettivo dell'efficienza economica.

Via libera in Liguria, dunque, alle ambulanze gestite da associazioni di volontariato aderenti all'Anpas, Associazione nazionale pubbliche assistenze.
È quanto emerge dalla sentenza 26.06.2015 n. 3208, pubblicata dalla III Sez. del Consiglio di Stato, che dà attuazione alla sentenza 11.12.2014, C-113/13 dalla Corte di giustizia europea (V Sez.) proprio traendo spunto da questa vicenda.
Solidarietà e cassa
Accolto il ricorso dell'Asl che ha siglato l'intesa con le onlus e la Croce rossa italiana, destando le ire delle cooperative sociali che non sono in grado di offrire prezzi tanto competitivi. I giudici eurounitari hanno affidato un monito alle autorità italiane: non si possono coprire «le pratiche abusive delle associazioni di volontariato e dei loro membri». Ma per palazzo Spada nella specie non c'è alcun rischio del genere: l'accordo quadro sottoscritto non può essere qualificato come contratto a titolo oneroso che comporta un ristoro più ampio del rimborso spese, ciò che farebbe scattare la violazione delle regole comunitarie che impongono sempre le gare per gli appalti pubblici.
Il punto è che volontariato e Croce rossa sono presenti sul territorio in modo capillare: così il servizio può essere gestito utilizzando in modo razionale il complesso delle risorse di uomini e di mezzi disponibili, limitando al massimo le distanze da percorrere e i tempi degli interventi, riducendo anche in questo modo i costi. Insomma: le onlus sono favorite perché non hanno praticamente costi di manodopera.
E non c'è motivo di ritenere che la modalità organizzativa scelta dall'Asl non sia in grado di conseguire gli obiettivi di solidarietà sociale da un lato e contenimento della spesa dall'altro. Spese di giudizio compensate per la novità della questione (articolo ItaliaOggi dell'11.08.2015).

TRIBUTI: Terreni, allo Iap non basta l’iscrizione al registro imprese. La conduzione diretta di un terreno agricolo, ai fini delle agevolazioni in materia di Ici (oggi Imu) va provata dal contribuente.
Immobili. Il contribuente deve provare la coltivazione diretta ai fini dell’agevolazione Ici sulle aree edificabili.

Così si è espressa la Ctp Caltanisetta con la sentenza 26.06.2015 n. 524/03/15 (presidente Lupo), chiamata a esprimersi su un ricorso in materia di Ici 2005.
La fattispecie riguardava un’area di oltre quattro ettari inserita fra le aree edificabili nello strumento urbanistico del Comune che però, essendo coltivata dalla proprietaria imprenditrice agricola, ai fini dell’imposta comunale doveva essere considerata agricola (articoli 2 e 9 del Dlgs 504/1992).
Il collegio ricorda che queste disposizioni agevolative devono essere coordinate con l’articolo 58, comma 2, del Dlgs 446/1997, il quale prevede che il beneficio in materia di Ici spetta ai coltivatori diretti e imprenditori agricoli (Iap) iscritti negli appositi elenchi comunali per l’assicurazione invalidità, vecchiaia e malattia. La Commissione che ha respinto il ricorso ha probabilmente accertato che la contribuente non aveva questo requisito: la difesa aveva documentato l’iscrizione come imprenditore agricolo nel registro delle imprese, insufficiente ai fini dell’agevolazione Ici.
Un aspetto ulteriore evidenziato nella sentenza riguarda la prova della coltivazione diretta del terreno che secondo il giudice va provata in via autonoma dal contribuente. Potrebbe accadere, infatti, che un soggetto ancorché iscritto negli elenchi previdenziali non conduca direttamente il fondo. Con ogni probabilità questa circostanza è stata contestata dal Comune in quanto la norma di legge non prevede espressamente l’obbligo di fornire la prova (anche perché l’iscrizione previdenziale, di per sé, comporta un accertamento da parte dell’ente previdenziale).
Il terreno edificabile, ai fini Ici, si considera agricolo se è posseduto e condotto da un coltivatore diretto o Iap iscritto all’Inps. La conduzione non deve essere necessariamente manuale, ma anche in economia, e cioè con l’ausilio di dipendenti o contoterzisti. La prova può essere fornita mediante la documentazione amministrativa relativa alle varie pratiche che normalmente svolge una azienda agricola. Tra queste il libretto Uma per l’assegnazione del gasolio agevolato, la domanda di attribuzione dei titoli Pac (il fascicolo aziendale riporta anche i dati catastali del terreno), le fatture di acquisto di vendita e così via.
I giudici hanno altresì respinto le contestazioni in ordine alla carenza di motivazione, ricordando che la Corte di cassazione ha stabilito che la motivazione dell’accertamento deve ritenersi adempiuta se il contribuente sia posto in grado di conoscere la pretesa tributaria nei suoi elementi essenziali e quindi di poter contestare efficacemente l’an e il quantum dell’imposta.
Non ci è dato di sapere come fosse formulato l’avviso di accertamento esaminato dai giudici siciliani, ma in generale questi accertamenti consistono in prospetti spersonalizzati che riportano i dati catastali dell’immobile con l’imposta dichiarata e quella accertata; in generale gli accertamenti comunali sono carenti di motivazione e il contribuente riesce a sapere le reali ragioni dell’accertamento recandosi in Comune
(articolo Il Sole 24 Ore del 03.08.2015).

TRIBUTI: La tassa rifiuti (Tari) va pagata, anche se non si utilizza il servizio.
Per il pagamento della tassa rifiuti conta la detenzione del locale e non l'utilizzo del servizio. I criteri di ripartizione del costo sostenuto dal comune non sono collegati al concreto utilizzo del servizio da parte di ciascun utente e non a caso si basano su indici presuntivi.
Il presupposto impositivo del tributo, anche riferito all'attuale regime di prelievo (Tari), si identifica con l'istituzione del servizio, non con la sua materiale fruizione da parte del contribuente. La ragione istitutiva della tassa è quella di porre le amministrazioni locali nelle condizioni di soddisfare interessi generali della collettività e non di fornire delle prestazioni riferibili ai singoli cittadini.

Queste importanti precisazioni sono contenute nella sentenza 10.06.2015 n. 12035 della Corte di Cassazione, Sez. V civile.
Secondo la Cassazione, «la tassa è dovuta indipendentemente dal fatto che l'utente utilizzi il servizio, al verificarsi della sola detenzione dei locali». «Questo perché il presupposto impositivo del tributo si identifica con l'istituzione del servizio, non con la materiale fruizione». Precisano i giudici, che anche i criteri di ripartizione del costo del servizio «non sono conferenti al concreto utilizzo da parte di ciascun utente, tanto che si basano su indici presuntivi». «Sarebbe del tutto asistematico pretendere di condizionare il pagamento al rilievo di concrete condizioni di fruibilità».
Ecco perché è stata ritenuta infondata la pronuncia del giudice d'appello che aveva escluso il pagamento della tassa poiché la contribuente aveva documentato di non aver potuto fruire del servizio pubblico per la mancanza di collegamento stradale tra la sua abitazione e il punto di raccolta dei rifiuti.
Tra l'altro, anche il mancato svolgimento del servizio di raccolta da parte del comune non comporta l'esenzione, ma il pagamento del tributo in misura ridotta. In realtà l'articolo 59, comma 4, del decreto legislativo 507/1993 disponeva per la Tarsu la riduzione anche se il servizio di raccolta, sebbene istituito, non venisse svolto nella zona di residenza, di dimora o dove esercitava l'attività il contribuente. La riduzione spettava, inoltre, se il servizio era effettuato in grave violazione delle prescrizioni del regolamento comunale di nettezza urbana.
Nel regolamento comunale, infatti, devono essere indicati i limiti della zona di raccolta obbligatoria e dell'eventuale estensione del servizio a zone con insediamenti sparsi, le modalità di effettuazione del servizio, con l'individuazione degli ambiti e delle zone, nonché delle distanze massime di collocazione dei contenitori. È il contribuente che deve dare la prova delle condizioni per usufruire eventualmente della riduzione della tassa.
Le stesse regole valgono oggi per la Tari. I commi 656 e 657 della legge di stabilità 2014 (147/2013) prevedono che la tassa rifiuti è dovuta nella misura del 20% in caso di mancato svolgimento del servizio e in misura non superiore al 40% nelle zone in cui non è effettuata la raccolta, da graduare in relazione alla distanza dal più vicino punto di raccolta (articolo ItaliaOggi dell'11.08.2015).

SICUREZZA LAVOROGare, responsabilità a cascata. Lesioni al lavoratore: il subappaltatore risponde sempre. Lo ha stabilito la Corte di cassazione: non si può scaricare il peso sull'appaltante.
In caso di lavori affidati in appalto la ditta subappaltatrice non può mai invocare la persistente concomitante attività della ditta appaltante, con la quale deve necessariamente cooperare per l'attuazione delle misure di prevenzione e protezione dei rischi inerenti all'esecuzione dell'opera appaltata.

Lo ha stabilito la IV Sez. penale della Corte di Cassazione con la sentenza 27.05.2015 n. 22369.
Nel caso concreto un operaio di un cantiere allestito per la costruzione di un parcheggio multipiano è stato vittima di un grave sinistro, per essere precipitato in una trincea non segnalata. La procura ha, conseguentemente, avviato un procedimento penale a carico del datore, nella sua qualità di presidente del cda della società titolare del contratto di subappalto per la pavimentazione dell'edificio.
All'esito del giudizio di primo grado l'imputato è stato condannato per il reato di lesioni colpose, con decisione confermata in appello. Secondo i giudici di merito, infatti, l'incidente si sarebbe verificato a causa della mancata predisposizione, da parte del datore, delle dovute e opportune cautele atte a impedire il verificarsi di eventi come quello verificatosi.
La vicenda è stata, da ultimo, sottoposta all'attenzione dei giudici della cassazione, cui è stato chiesto l'annullamento del pronunciamento della corte territoriale. In particolare, la difesa ha insistito nel sostenere come la responsabilità dell'incidente non potesse affatto imputarsi all'imputato, e tanto sulla base di due principali argomenti: da un lato, la circostanza che la vittima fosse alle strette dipendenze della società subappaltatrice dei lavori di pavimentazione e non già di quella, titolare dell'appalto, su cui gravava -nell'interezza- l'obbligo di garantire la sicurezza del cantiere; dall'altro, l'assoluta eccezionalità del comportamento tenuto dal dipendente tale da recidere ogni nesso causale tra il l'evento dannoso prodottosi e la posizione del datore.
Nel confermare il verdetto della sentenza impugnata, gli ermellini sono tornati a occuparsi dell'annosa problematica inerente al riparto di responsabilità tra appaltatore e subappaltatore per i danni subiti dai dipendenti in occasione dello svolgimento delle mansioni lavorative.
Secondo la Corte nell'ipotesi di subappalto dell'esecuzione di parte dell'opera ad altra ditta, l'impresa appaltante e quella subappaltatrice devono cooperare all'attuazione delle misure di prevenzione e protezione, sicché permane in capo a ciascun datore di lavoro l'obbligo di assicurare ai propri dipendenti condizioni di lavoro sicure. Di conseguenza, «giammai la ditta subappaltatrice può invocare la persistente concomitante attività della ditta appaltante o subappaltante, con la quale deve cooperare per l'attuazione delle misure di prevenzione e protezione per i rischi inerenti all'esecuzione dell'opera appaltata».
La cessione dei lavori in subappalto, infatti, comporta sempre il trasferimento del rischio e dell'onere di tutela della sicurezza dei lavoratori dal cedente al cessionario. Tale trasferimento, peraltro, non può essere derogato da determinazioni pattizie, con conseguente ininfluenza di eventuali clausole di manleva dal rischio e dalla responsabilità intercorse tra appaltante e subappaltatore
Semmai -si precisa- è configurabile una esclusione della responsabilità dell'appaltatore nel caso in cui al subappaltatore sia affidato lo svolgimento di lavori, ancorché determinati e circoscritti, che, però, questi svolga «in piena e assoluta autonomia organizzativa e dirigenziale». Il che, tuttavia, non si verifica quando l'interdipendenza dei lavori svolti dai due soggetti -come nel caso affrontato- escluda ogni estromissione dell'appaltatore dall'organizzazione del cantiere.
Ciò premesso, la Corte ha altresì escluso che la responsabilità del sinistro fosse riconducibile alla semplice inavvedutezza della vittima.
Sotto questo profilo, il Palazzaccio ha ribadito come gli obblighi prevenzionistici incombenti sul datore si pongono «anche in funzione di protezione dei lavoratore dai suoi stessi comportamenti negligenti, imperiti o imprudenti, purché non completamente avulsi dal contesto lavorativo». Per l'effetto, la responsabilità del datore può essere esclusa -per causa sopravvenuta- «solo in virtù di un comportamento del lavoratore avente i caratteri dell'eccezionalità, dell'abnormità e, comunque, dell'esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo e alle precise direttive organizzative ricevute, connotandosi come dei tutto imprevedibile o inopinabile» (articolo ItaliaOggi Sette del 10.08.2015).

APPALTI FORNITURE: Specifiche tecniche sopravvenute, la revoca è legittima. Stazioni appaltanti/sentenza della corte di cassazione.
La stazione appaltante può revocare la gara anche quando, a seguito dell'aggiudicazione definitiva, sorga l'esigenza di rivedere le specifiche tecniche dei beni oggetto della fornitura, con conseguente integrazione del bando e ripetizione della procedura di selezione.

Lo ha stabilito la I Sez. civile della Corte di Cassazione con la sentenza 25.05.2015 n. 10748.
Nel caso di specie un comune marchigiano ha indetto una gara d'appalto per la fornitura di alcuni arredi, precisando nel capitolato le relative specifiche tecniche. All'esito del confronto tra gli operatori economici partecipanti alla selezione, l'amministrazione ha adottato il provvedimento di aggiudicazione definitiva in favore del miglior offerente.
Tuttavia, nelle more della stipulazione del contratto, il comune ha fatto marcia indietro, operando inaspettatamente la revoca dell'aggiudicazione: secondo l'ente, infatti, i campioni degli arredi forniti in visione dal primo classificato non rispondevano appieno alle caratteristiche tecniche desiderate.
L'aggiudicatario si è, quindi, rivolto al giudice civile per ottenere il risarcimento dei danni subiti per effetto della disposta revoca. A supporto della richiesta risarcitoria, il ricorrente ha evidenziato l'illegittimità della scelta del comune di precisare i termini del suo fabbisogno in un momento in cui la selezione era ormai giunta al termine: in altri termini, secondo l'impresa, l'amministrazione avrebbe dovuto prevedere fin dall'inizio, nel bando e nel capitolato di gara, tutte le caratteristiche e i requisiti della fornitura.
Tanto il tribunale quanto la Corte d'appello hanno respinto la domanda attorea; entrambi i giudici di merito, infatti, hanno ritenuto la revoca impugnata in linea con le previsioni della legge di gara che, seppure non in modo dettagliato, lasciavano nondimeno intendere quali fossero le principali specifiche della fornitura che sarebbero rimaste insoddisfatte se si fosse proceduto con l'esecuzione del contratto.
Sulla vicenda si è, da ultimo, pronunciata la corte di cassazione. Il ricorrente ha censurato il verdetto reso dalla corte d'appello, evidenziando come i giudici di secondo grado si fossero limitati ad affermare la mera rispondenza tra gli atti di gara e il provvedimento adottato in autotutela anziché soffermarsi sulle «aggiunte» richieste dalla stazione appaltante dopo l'aggiudicazione.
I giudici romani, pur confermando l'esito dei precedenti giudizi, si sono spinti oltre, riconoscendo la possibilità, per la stazione appaltante, di revocare l'aggiudicazione definitiva anche al solo ed unico scopo di fissare, nel bando di gara, nuove «specifiche tecniche» relative ai beni oggetto della fornitura.
Tale scelta, si afferma, trova una espressa conferma testuale nell'art. 11, comma 11, del codice dei contratti pubblici (dlgs n. 163/2006) secondo cui «divenuta efficace l'aggiudicazione definitiva, e fatto salvo l'esercizio dei poteri di autotutela nei casi consentiti dalle norme vigenti, la stipulazione del contratto di appalto o di concessione ha luogo entro il termine di sessanta giorni».
La norma, nel far salva l'adozione, pur motivata, di provvedimenti di secondo grado (i.e. annullamento e revoca), permette alla p.a. di ritornare sui propri passi al precipuo fine di garantire la legittimità ovvero l'opportunità della procedura di gara, e tanto anche se questa sia ormai giunta al termine.
In conclusione, la forza vincolante, nei confronti della stazione appaltante, dell'aggiudicazione definitiva trova pur sempre il suo limite nell'interesse pubblico, sicché,quantomeno di norma, a fronte della scelta di annullare o revocare la gara l'aggiudicatario non vanta alcun diritto a ottenere il risarcimento dei danni che possa aver eventualmente patito (articolo ItaliaOggi Sette del 03.08.2015).

EDILIZIA PRIVATA: È insufficiente la nota scritta dall'ufficio tecnico. Impianti fotovoltaici.
L'impianto fotovoltaico «non comporta grave turbamento all'ambiente in cui dovrà sorgere». Ma non s'ha da fare comunque, nonostante le rassicurazioni del Comune, perché comunque non ha ottenuto l'autorizzazione paesaggistica.
La mera nota dell'ufficio tecnico dell'ente locale non può infatti sostituire il placet della Regione previsto dal piano urbanistico territoriale, che impone più complesse valutazioni di impatto sull'ambiente.

È quanto emerge dalla sentenza 27.04.2015 n. 2071, pubblicata dalla V Sez. del Consiglio di Stato.
È la stessa amministrazione locale a rendersi conto che nella specie la denuncia di inizio attività non basta al privato per installare e attivare sul territorio l'impianto che produce energia da fonte rinnovabile. E ciò perché la zona del Comune salentino è soggetta a vincolo e l'autorizzazione paesaggistica in Puglia è richiesta dal Putt, il piano urbanistico territoriale tematico.
Scatta allora l'annullamento in autotutela della Dia, considerata l'insufficienza della nota proveniente dall'ufficio tecnico comunale, peraltro sottoscritta da un consulente. L'impianto «incriminato» non può essere qualificato come opera di pubblica utilità, indifferibile e urgente: sono considerate tali solo le opere che hanno ottenuto l'autorizzazione unica, che sconta l'avvenuta verifica del rispetto delle normative vigenti in materia di tutela dell'ambiente, di tutela del paesaggio e del patrimonio storico-artistico.
La società paga le spese di lite (articolo ItaliaOggi del 04.08.2015).

EDILIZIA PRIVATA: Ai sensi e per gli effetti stabiliti dalla legge n. 122 del 1989 (cd. legge Tognoli) è consentita la realizzazione di parcheggi pertinenziali interrati o nei locali siti al piano terra dei fabbricati anche in deroga agli strumenti urbanistici.
La giurisprudenza amministrativa ha chiarito che l'applicabilità delle suddette agevolazioni, in considerazione delle finalità della legge ed in relazione al suo carattere eccezionale, non può estendersi ad altre ipotesi non contemplate nella indicata normativa.
Si è in conseguenza affermato che la realizzazione di autorimesse e parcheggi, se non effettuata in locali preesistenti o totalmente al di sotto del piano di campagna naturale, è soggetta alla disciplina urbanistica che regola le nuove costruzioni fuori terra.
La deroga agli strumenti urbanistici è pertanto consentita solo quando i parcheggi sono realizzati nel sottosuolo ovvero nei locali siti al piano terreno dei fabbricati già esistenti mentre la deroga non è possibile (e quindi i parcheggi devono essere realizzati nel rispetto delle disposizioni urbanistiche) se non vengono a ciò adibiti i locali (preesistenti) siti al piano terra di un fabbricato o se gli stessi non vengano allocati nel sottosuolo dei fabbricati.
Del resto per gli edifici di nuova costruzione provvede il precedente art. 2, comma 2 della stessa legge n. 122 del 1989, che –nel sostituire l’art. 41-sexies della L.U. n. 1150 del 1942– ha stabilito l'obbligo di riservare appositi spazi per parcheggi in misura non inferiore a 1 mq. per ogni 10 mc. di costruzione.
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Nel ribadire che la possibilità di realizzare parcheggi da destinare a pertinenze delle singole unità immobiliari anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti, consentita dall’art. 9 della legge n. 122 del 1989, costituisce una disposizione di carattere eccezionale da interpretarsi nel suo significato strettamente letterale, in considerazione delle finalità di una legge volta a favorire la diminuzione del traffico veicolare all’interno dei centri abitati, la prevalente giurisprudenza amministrativa ha poi anche affermato che le indicate disposizioni sono applicabili alla costruzione di spazi parcheggio nelle sole aree urbane, mentre la realizzazione di parcheggi in aree extraurbane, e in particolare nelle zone agricole, resta soggetta alle ordinarie prescrizioni urbanistiche ed edilizie e necessita della normale concessione edilizia ed oggi del permesso di costruire.

12.- Sostiene peraltro il signor A. che la sua istanza non poteva essere respinta perché presentata ai sensi e per gli effetti stabiliti dalla legge n. 122 del 1989 (cd. legge Tognoli) che consente la realizzazione di parcheggi pertinenziali interrati o nei locali siti al piano terra dei fabbricati anche in deroga agli strumenti urbanistici.
Stabilisce, al riguardo, l'art. 9 della legge n. 122 del 1989 che "i proprietari di immobili possono realizzare nel sottosuolo degli stessi ovvero nei locali siti al piano terreno dei fabbricati parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti". La norma continua disponendo che tali parcheggi possono essere realizzati, ad uso esclusivo dei residenti, anche nel sottosuolo di aree pertinenziali esterne al fabbricato purché non in contrasto con i piani urbani del traffico, tenuto conto dell'uso della superficie sovrastante e compatibilmente con la tutela delle risorse idriche.
Anche l’articolo 6 della legge della Regione Campania n. 19 del 28.11.2001, modificato con l’art. 49 della legge regionale 22.12.2004, n. 16 ed integrato dall'art. 41, della legga regionale 30.01.2008, n. 1, detta specifiche disposizioni per la realizzazione di parcheggi pertinenziali, prevedendo (al primo comma) che la realizzazione di parcheggi, da destinare a pertinenze di unità immobiliare e da realizzare nel sottosuolo del lotto su cui insistono gli edifici, se conformi agli strumenti urbanistici vigenti, è soggetta a semplice denuncia di inizio attività, e (al secondo comma) che la realizzazione di parcheggi in aree libere, anche non di pertinenza del lotto dove insistono gli edifici, ovvero nel sottosuolo di fabbricati o al pianterreno di essi, è soggetta a permesso di costruire non oneroso, anche in deroga agli strumenti urbanistici vigenti.
13.- Ai sensi delle indicate disposizioni, ma nei limiti dettati dalle stesse, i parcheggi pertinenziali possono essere quindi effettivamente realizzati anche in deroga agli strumenti urbanistici.
La giurisprudenza amministrativa ha quindi chiarito che l'applicabilità delle suddette agevolazioni, in considerazione delle finalità della legge ed in relazione al suo carattere eccezionale, non può estendersi ad altre ipotesi non contemplate nella indicata normativa (Consiglio Stato, Sez. V, 29.03.2006, n. 1608).
14.- Si è in conseguenza affermato che la realizzazione di autorimesse e parcheggi, se non effettuata in locali preesistenti o totalmente al di sotto del piano di campagna naturale, è soggetta alla disciplina urbanistica che regola le nuove costruzioni fuori terra (Consiglio Stato sez. IV, 26.09.2008 n. 4645; 11.11.2006, n. 6065; Consiglio Stato Sez. V, 29.03.2006 n. 1608; 29.03.2004, n. 1662; TAR Lazio, sede di Roma, Sezione I, n. 3259 del 16.04.2008).
La deroga agli strumenti urbanistici è pertanto consentita solo quando i parcheggi sono realizzati nel sottosuolo ovvero nei locali siti al piano terreno dei fabbricati già esistenti mentre la deroga non è possibile (e quindi i parcheggi devono essere realizzati nel rispetto delle disposizioni urbanistiche) se non vengono a ciò adibiti i locali (preesistenti) siti al piano terra di un fabbricato o se gli stessi non vengano allocati nel sottosuolo dei fabbricati.
Del resto per gli edifici di nuova costruzione provvede il precedente art. 2, comma 2 della stessa legge n. 122 del 1989, che –nel sostituire l’art. 41-sexies della L.U. n. 1150 del 1942– ha stabilito l'obbligo di riservare appositi spazi per parcheggi in misura non inferiore a 1 mq. per ogni 10 mc. di costruzione (Consiglio di Stato, sez. V, n. 5676 del 24.10.2000).
15.- Nel ribadire che la possibilità di realizzare parcheggi da destinare a pertinenze delle singole unità immobiliari anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti, consentita dall’art. 9 della legge n. 122 del 1989, costituisce una disposizione di carattere eccezionale da interpretarsi nel suo significato strettamente letterale, in considerazione delle finalità di una legge volta a favorire la diminuzione del traffico veicolare all’interno dei centri abitati, la prevalente giurisprudenza amministrativa ha poi anche affermato che le indicate disposizioni sono applicabili alla costruzione di spazi parcheggio nelle sole aree urbane, mentre la realizzazione di parcheggi in aree extraurbane, e in particolare nelle zone agricole, resta soggetta alle ordinarie prescrizioni urbanistiche ed edilizie e necessita della normale concessione edilizia ed oggi del permesso di costruire (Consiglio Stato, sez. V, 11.11.2004, n. 7324 e n. 7325; TAR Lazio, sede di Roma, Sezione I, n. 3259 del 16.04.2008 cit.; TAR Veneto, Sez. II, n. 1331 del 02.05.2007; TAR Toscana, Sez. III, n. 817 del 29.05.2007, TAR Sicilia Catania, Sez. I, n. 1531 del 03.10.2005) (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 08.06.2009 n. 3134 -
link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa possibilità di realizzare parcheggi da destinare a pertinenze di unità immobiliari, anche in deroga agli strumenti urbanistici e ai regolamenti edilizi vigenti è sì prevista dall’art. 9 della legge n. 122/1989, ma in concreto, trattandosi di una disposizione di carattere eccezionale, è applicabile unicamente solo alle aree urbane e non, come a quella delle ricorrenti, alle aree poste in zona extra urbana.
In tale senso si è più volte espressa la giurisprudenza e sul punto il Collegio non ha motivo di discostarsi dal su illustrato orientamento interpretativo.
In particolare, avuto riguardo alle finalità della legge n. 122/1989, collegate all’esigenza di favorire il decongestionamento dei centri urbani mediante la realizzazione di parcheggi in sottosuolo, la norma di cui al citato art. 9 è di stretta interpretazione con la conseguenza che il regime di favore da essa recato è applicabile unicamente alle aree urbane.
Correttamente dunque, l’Amministrazione comunale con gli atti in contestazione ha opposto il proprio diniego rilevando l’impossibilità per un’area sita in zona agricola di realizzare l’autorimessa ai sensi della legge n. 122/1989, come quella, appunto, progettata dalle ricorrenti.

L’immobile in relazione al quale è stata chiesta la realizzazione di un garage nel sottosuolo ai sensi della c.d. “legge Tognoli” è sito in zona agricola (zone boscate normali) e questa circostanza si appalesa decisiva ai fini della non accoglibilità della richiesta avanzata dalle ricorrenti.
Invero, la possibilità di realizzare parcheggi da destinare a pertinenze di unità immobiliari, anche in deroga agli strumenti urbanistici e ai regolamenti edilizi vigenti è sì prevista dall’art. 9 della legge n. 122/1989, ma in concreto, trattandosi di una disposizione di carattere eccezionale, è applicabile unicamente solo alle aree urbane e non, come a quella delle ricorrenti, alle aree poste in zona extra urbana.
In tale senso si è più volte espressa la giurisprudenza (Cons. Stato Sezione V 11/11/2004 n. 7324; Tar Veneto Sezione II 06/09/2002 n. 5229, questa stessa Sezione 07/06/2002 n. 1173) e sul punto il Collegio non ha motivo di discostarsi dal su illustrato orientamento interpretativo.
In particolare, avuto riguardo alle finalità della legge n. 122/1989, collegate all’esigenza di favorire il decongestionamento dei centri urbani mediante la realizzazione di parcheggi in sottosuolo, la norma di cui al citato art. 9 è di stretta interpretazione con la conseguenza che il regime di favore da essa recato è applicabile unicamente alle aree urbane (cfr. sentenza n. 1174/2002 di questa Sezione già citata).
Correttamente dunque, l’Amministrazione comunale con gli atti in contestazione ha opposto il proprio diniego rilevando l’impossibilità per un’area sita in zona agricola di realizzare l’autorimessa ai sensi della legge n. 122/1989, come quella, appunto, progettata dalle ricorrenti.
Quanto, poi, al riferimento pure contenuto nel parere contrario della CEC circa la pretesa alterazione dello stato dei luoghi dal punto di vista ambientale, è indubbio che l’immobile è collocato in zona sottoposta a vincolo paesaggistico e comunque, al di là dell’apprezzamento espresso dalla Commissione in ordine "all’impatto ambientale” pure in ipotesi possibile, il diniego di rilascio di concessione risulta legittimamente giustificato e sufficientemente motivato in relazione alla espressa preclusione all’applicabilità della norma di cui all’art. 9 già menzionato per le autorimesse da realizzarsi in area extraurbana.
Per le suesposte considerazioni il ricorso si appalesa infondato e va, perciò, respinto (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 29.05.2007 n. 817 -
link a www.giustizia-amministrativa.it).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATADeve osservare il Collegio che se “il comma 1 dell'art. 9 l. 24.03.1989 n. 122 (nel testo originario) era stato già interpretato dalla giurisprudenza nel senso che consentisse la realizzazione di parcheggi in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi, anche se collocati in cortili o aree esterne adiacenti al fabbricato, e senza necessità di osservanza delle norme di piano sulle distanze dai confini; interpretazione che poi ha ricevuto il conforto normativo dall'art. 17, comma 90, l. 15.05.1997 n. 127”, allora se ne deve dedurre che non può essere condivisa la tesi (pure sostenuta da alcune pronunce di merito) sulla natura eccezionale della norma e sulla conseguente natura tassativa delle sue previsioni e delle sue elencazioni.
Considerate le finalità di pubblico interesse dei parcheggi a servizio degli edifici residenziali, desumibili dalle disposizioni di cui alla legge 1150/1942, art. 41-sexies, per come modificato dall'art. 18 l. 06.08.1967 n. 765 deve quindi disattendersi l'argomento difensivo della interveniente secondo il quale non sarebbero possibili interpretazioni del termine “sottosuolo”, diverse dal tenore strettamente letterale e compatibili con una condizione del manufatto di “seminterrato”.
In tal senso, la norma è di stretta interpretazione quanto alle condizioni espresse della sua applicazione: essa quindi si applicherà solo con riferimento a posteggi pertinenziali “nel senso che devono essere al servizio di *singole unità immobiliari*” nonché in favore dei soli “residenti”, implicando la coincidenza soggettiva tra i richiedenti ed i proprietari dell'immobile, dal momento che il legislatore ha inteso prevedere la deroga al regime urbanistico e concessorio (ossia introducendo un regime semplificato ed a titolo gratuito) per i soli residenti e non per tutti gli usi dell'immobile come ad es. quello commerciale.
Quanto invece al regime interpretativo del termine “sottosuolo” ritiene il Collegio che non si possa che aderire a quelle massime che considerano il box interrato su due lati come compreso nella sfera di applicazione della norma in esame, riportate dalla difesa della ricorrente, per due ordini di ragioni.
Il primo è testuale. Recita infatti la norma: “I proprietari di immobili possono realizzare nel sottosuolo degli stessi ovvero nei locali siti al piano terreno dei fabbricati parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari, anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti. Tali parcheggi possono essere realizzati, ad uso esclusivo dei residenti, anche nel sottosuolo di aree pertinenziali esterne al fabbricato, purché non in contrasto con i piani urbani del traffico, tenuto conto dell'uso della superficie sovrastante e compatibilmente con la tutela dei corpi idrici. Restano in ogni caso fermi i vincoli previsti dalla legislazione in materia paesaggistica ed ambientale ed i poteri attribuiti dalla medesima legislazione alle regioni e ai Ministeri dell'ambiente e per i beni culturali ed ambientali…(omississ)”.
La norma pone dunque limiti espressi e precisi, quali condizioni della facoltà dei privati di utilizzare il sottosuolo delle aree pertinenziali: ossia il rispetto dei piani urbani del traffico, il rispetto della tutela paesaggistica ed ambientale e la tutela dei corpi idrici.
All'interno di queste “coordinate” non si comprende quale ragione teleologica possa consentire all'interprete di affermare che il termine “sottosuolo” sia equivalente (con esclusività) alla locuzione “totalmente interrato”. Tale interpretazione appare infatti solo il frutto di una lettura “semantica” del termine, lettura che, anche sotto questo aspetto, presenta peraltro evidenti limiti.
Vero è che, di norma, il termine “sottosuolo” sta ad indicare la porzione di spazio sottostante il piano di calpestio, o di campagna; ma è altrettanto vero che se il terreno è ad andamento non pianeggiante o irregolare, come avviene nel caso di specie ove è pacifico in punto di fatto che attorno alla zona oggetto di insediamento del manufatto, sussistono quote altimetriche differenti, allora nella stessa locuzione indicata non può che intendersi ricompreso anche il senso di “porzioni di spazio sottostante ad alcune quote di livello e coincidenti o sovrastanti ad altre”.
In altri termini e sotto un secondo profilo, quello che appare essenziale, ai fini del rispetto della norma sul punto e delle finalità di decongestione del parcheggio veicolare su strade urbane (elemento, questo sì, di stretta interpretazione laddove la norma non è applicabile in ipotesi di edifici in zona agricola o comunque extraurbani) è che il garage sia realizzato utilizzando aree pertinenziali all'edificio residenziale cui è a servizio, che sia vincolato con destinazione non modificabile, non sia suscettibile cioè di vendita separata e che rispetti le esigenze inderogabili individuate dalla stessa norma.
Nel rispetto di queste, trovano spazio le finalità di preminente interesse pubblico che hanno spinto il legislatore a costituire un regime normativo di favore per incentivare i privati a ricorrere a posteggi “all'esterno” della sede stradale e qualsiasi limitazione alla realizzazione di questo interesse pubblico, diversa dai limiti già previsti dalla norma, deve intendersi come non compatibile con le finalità in esame.
Sotto il profilo ricostruttivo della fattispecie, poi, ai fini delle volumetrie e delle cubature, si richiede che il garage sia posto al di sotto del piano di campagna, ragione per cui si giustifica la deroga allo strumento urbanistico ed al regolamento edilizio. Ma se il piano di calpestio o di campagna è inserito in un contesto ad andatura irregolare, ossia possiede diversi livelli di calpestio, allora deve essere preso a riferimento un piano prevalente, a meno di non voler sostenere che debba essere interamente sottostante al piano più basso in assoluto.
Se dev'essere dunque individuato un piano prevalente, ossia una quota “zero” di riferimento, questo non può che essere individuato in quello dell'abitazione di cui è pertinenza, considerando la destinazione quale vincolo edilizio ed urbanistico atto ad associare la “potenziale” volumetria ad un immobile assentito già esistente e quindi creare un “unicum” edilizio.
Quindi appare condivisibile la tesi della interpretabilità estensiva della norma sul punto del termine “sottosuolo”, secondo la quale ad un box seminterrato (ossia interrato per almeno due lati) è applicabile l'art. 9 cit.; (si aggiunge) che nel caso di un andamento del suolo non pianeggiante, ciò è possibile a patto che il manufatto sia sottostante al piano di calpestio del “piano terra” del fabbricato principale. Ciò che sul piano della fattispecie dedotta in giudizio appare convincente, quanto alla fondatezza della tesi della ricorrente, è che il manufatto è del tutto sottostante alla quota di calpestio del giardino della abitazione cui è a servizio.

I) Con il quarto motivo di ricorso, terzo motivo aggiunto, deduce la ricorrente che l'Amministrazione, nell'annullare il provvedimento ampliativo a suo tempo rilasciato, avrebbe errato nel non considerare applicabile alla fattispecie in esame l'art. 9, comma I, l. 24.03.1989, n. 122. Il provvedimento di annullamento, infatti, sarebbe motivato, in punto di diritto, con riferimento alla circostanza che, non essendo il garage totalmente interrato, non sussisterebbero le condizioni previste dalla legge per l'autorizzazione in deroga alla normativa urbanistica (strumenti urbanistici e regolamento edilizio).
Tale motivazione sarebbe errata in quanto secondo la giurisprudenza richiamata dalla ricorrente (Cons. Stato, V, 03.07.1995 n. 1007 e TAR Piemonte, 04.06.2003, nr. 831) la dizione di cui all'art. 9 cit. sarebbe da interpretarsi estensivamente, ricomprendendo anche la tipologia dei box seminterrati nella sua sfera di applicazione. In punto di fatto, deduce ancora la ricorrente, essendo il manufatto realizzato interrato sui due lati ed inferiore alla quota di calpestio del giardino di proprietà della ricorrente, cui lo stesso garage accede pertinenzialmente, le condizioni imposte dalla norma sarebbero rispettate.
Oppongono l'Amministrazione resistente e l'interveniente che la natura eccezionale della norma invocata dalla ricorrente, ne impone una interpretazione letterale e rigorosa, conducendo l'interprete a dover ritenere che siano ammissibili, quanto ai garage esterni ricadenti su terreno di proprietà, pertinenza dell'edificio, solo il tipo dei garage interamente interrati. Anche la difesa della resistente allega massime giurisprudenziali ad essa favorevoli (cfr. tra le altre TAR Molise, 05.03.2004, nr. 141, TAR Calabria Catanzaro, II, 14.11.2002, n. 2921; CdS, V, 29.03.2004, nr. 1662).
Secondo la difesa del Comune, inoltre, la interpretazione estensiva cui fa riferimento la ricorrente sarebbe stata sostenuta da arresti giurisprudenziali anteriori alla riforma di cui alla legge 127/1997 che ha previsto, all'art. 17, comma 90, la modifica dell'art. 9 della legge 122/1989, inserendo in essa la previsione della possibilità di realizzare i parcheggi interrati nel sottosuolo delle aree pertinenziali; detta riforma avrebbe perciò assorbito (ed esaurito nella sua previsione tassativa e di stretto rigore interpretativo) la portata innovativa delle pronunce cui si rifà il ricorrente. Analogamente, anche la difesa dell'interveniente sostiene la non applicabilità della legge Tognoli al caso di specie, rifacendosi anch'essa a pronunce di segno contrario alla tesi del ricorrente (tra le quali in particolare, CGA, 26.06.2000, nr. 29 che afferma la non applicabilità dell'art. 9 l. cit. a struttura autonoma seppure per due lati interrata).
Nella memoria depositata il 26.04.2005, la ricorrente, oltre a ribadire le proprie argomentazioni difensive, allegando altra pronuncia favorevole (TAR Lazio, Roma, II, 22.05.1998, nr. 979), contesta le tesi difensive delle parti resistenti, deducendo che le massime riportate a loro dimostrazione sono riferibili tutte a situazioni diverse da quella in esame. Particolarmente con riferimento alla decisione del CGA 299/2000, rileva che si tratta di fattispecie di fatto verificatasi prima dell'entrata in vigore della modifica di cui alla legge 127/1997 e quindi con riferimento alla precedente versione dell'art. 9 cit. Gli altri casi sarebbero riconducibili a box interamente fuori terra o effettuati dietro “riporto di terra”.
Le repliche ulteriori delle parti resistenti insistono nella interpretazione del termine “sottosuolo” come inconciliabile con l'esistenza di un manufatto interrato solo per due lati (ed uno di questi riportante una differenza di trenta centimetri).
Come anticipato sopra, la risoluzione della questione in esame appare pregiudiziale rispetto all'esame delle questioni inerenti il punto 2 e 3 del ricorso (e corrispondenti motivi aggiunti), nonché, correlativamente, il punto 4 dei motivi aggiunti.
Osserva il Collegio che, in merito all'applicazione dell'art. 9 della legge 122/1989, le difese delle parti hanno esaustivamente e con chiarezza ricostruito tutti i termini giuridici delle rispettive tesi, suffragandole con ampia giurisprudenza, al punto che in questa sede è sufficiente richiamarne le conclusioni.
Intanto, deve osservare il Collegio che se “il comma 1 dell'art. 9 l. 24.03.1989 n. 122 (nel testo originario) era stato già interpretato dalla giurisprudenza nel senso che consentisse la realizzazione di parcheggi in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi, anche se collocati in cortili o aree esterne adiacenti al fabbricato, e senza necessità di osservanza delle norme di piano sulle distanze dai confini; interpretazione che poi ha ricevuto il conforto normativo dall'art. 17, comma 90, l. 15.05.1997 n. 127” (TAR Campania, Salerno, II 07.04.2003, nr. 243), allora se ne deve dedurre che non può essere condivisa la tesi (pure sostenuta da alcune pronunce di merito) sulla natura eccezionale della norma e sulla conseguente natura tassativa delle sue previsioni e delle sue elencazioni.
Considerate le finalità di pubblico interesse dei parcheggi a servizio degli edifici residenziali, desumibili dalle disposizioni di cui alla legge 1150/1942, art. 41-sexies, per come modificato dall'art. 18 l. 06.08.1967 n. 765 deve quindi disattendersi l'argomento difensivo della interveniente secondo il quale non sarebbero possibili interpretazioni del termine “sottosuolo”, diverse dal tenore strettamente letterale e compatibili con una condizione del manufatto di “seminterrato”.
In tal senso, la norma è di stretta interpretazione quanto alle condizioni espresse della sua applicazione: essa quindi si applicherà solo con riferimento a posteggi pertinenziali “nel senso che devono essere al servizio di *singole unità immobiliari*” (Consiglio Stato, sez. VI, 17.02.2003, n. 844) nonché in favore dei soli “residenti”, implicando la coincidenza soggettiva tra i richiedenti ed i proprietari dell'immobile (TAR Piemonte, I, 05.03.2003, nr. 338), dal momento che il legislatore ha inteso prevedere la deroga al regime urbanistico e concessorio (ossia introducendo un regime semplificato ed a titolo gratuito) per i soli residenti e non per tutti gli usi dell'immobile come ad es. quello commerciale (Consiglio Stato, sez. VI, 17.02.2003, n. 844).
Quanto invece al regime interpretativo del termine “sottosuolo” ritiene il Collegio che non si possa che aderire a quelle massime che considerano il box interrato su due lati come compreso nella sfera di applicazione della norma in esame, riportate dalla difesa della ricorrente, per due ordini di ragioni.
Il primo è testuale. Recita infatti la norma: “I proprietari di immobili possono realizzare nel sottosuolo degli stessi ovvero nei locali siti al piano terreno dei fabbricati parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari, anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti. Tali parcheggi possono essere realizzati, ad uso esclusivo dei residenti, anche nel sottosuolo di aree pertinenziali esterne al fabbricato, purché non in contrasto con i piani urbani del traffico, tenuto conto dell'uso della superficie sovrastante e compatibilmente con la tutela dei corpi idrici. Restano in ogni caso fermi i vincoli previsti dalla legislazione in materia paesaggistica ed ambientale ed i poteri attribuiti dalla medesima legislazione alle regioni e ai Ministeri dell'ambiente e per i beni culturali ed ambientali…(omississ)”.
La norma pone dunque limiti espressi e precisi, quali condizioni della facoltà dei privati di utilizzare il sottosuolo delle aree pertinenziali: ossia il rispetto dei piani urbani del traffico, il rispetto della tutela paesaggistica ed ambientale e la tutela dei corpi idrici.
All'interno di queste “coordinate” non si comprende quale ragione teleologica possa consentire all'interprete di affermare che il termine “sottosuolo” sia equivalente (con esclusività) alla locuzione “totalmente interrato”. Tale interpretazione appare infatti solo il frutto di una lettura “semantica” del termine, lettura che, anche sotto questo aspetto, presenta peraltro evidenti limiti.
Vero è che, di norma, il termine “sottosuolo” sta ad indicare la porzione di spazio sottostante il piano di calpestio, o di campagna; ma è altrettanto vero che se il terreno è ad andamento non pianeggiante o irregolare, come avviene nel caso di specie ove è pacifico in punto di fatto che attorno alla zona oggetto di insediamento del manufatto, sussistono quote altimetriche differenti, allora nella stessa locuzione indicata non può che intendersi ricompreso anche il senso di “porzioni di spazio sottostante ad alcune quote di livello e coincidenti o sovrastanti ad altre”.
In altri termini e sotto un secondo profilo, quello che appare essenziale, ai fini del rispetto della norma sul punto e delle finalità di decongestione del parcheggio veicolare su strade urbane (elemento, questo sì, di stretta interpretazione, cfr. TAR Veneto, II, 06.09.2002, nr. 5229, secondo il quale la norma non è applicabile in ipotesi di edifici in zona agricola o comunque extraurbani) è che il garage sia realizzato utilizzando aree pertinenziali all'edificio residenziale cui è a servizio, che sia vincolato con destinazione non modificabile, non sia suscettibile cioè di vendita separata e che rispetti le esigenze inderogabili individuate dalla stessa norma.
Nel rispetto di queste, trovano spazio le finalità di preminente interesse pubblico che hanno spinto il legislatore a costituire un regime normativo di favore per incentivare i privati a ricorrere a posteggi “all'esterno” della sede stradale e qualsiasi limitazione alla realizzazione di questo interesse pubblico, diversa dai limiti già previsti dalla norma, deve intendersi come non compatibile con le finalità in esame.
Sotto il profilo ricostruttivo della fattispecie, poi, ai fini delle volumetrie e delle cubature, si richiede che il garage sia posto al di sotto del piano di campagna, ragione per cui si giustifica la deroga allo strumento urbanistico ed al regolamento edilizio. Ma se il piano di calpestio o di campagna è inserito in un contesto ad andatura irregolare, ossia possiede diversi livelli di calpestio, allora deve essere preso a riferimento un piano prevalente, a meno di non voler sostenere che debba essere interamente sottostante al piano più basso in assoluto.
Se dev'essere dunque individuato un piano prevalente, ossia una quota “zero” di riferimento, questo non può che essere individuato in quello dell'abitazione di cui è pertinenza, considerando la destinazione quale vincolo edilizio ed urbanistico atto ad associare la “potenziale” volumetria ad un immobile assentito già esistente e quindi creare un “unicum” edilizio.
Quindi appare condivisibile la tesi della interpretabilità estensiva della norma sul punto del termine “sottosuolo”, secondo la quale ad un box seminterrato (ossia interrato per almeno due lati) è applicabile l'art. 9 cit.; (si aggiunge) che nel caso di un andamento del suolo non pianeggiante, ciò è possibile a patto che il manufatto sia sottostante al piano di calpestio del “piano terra” del fabbricato principale. Ciò che sul piano della fattispecie dedotta in giudizio appare convincente, quanto alla fondatezza della tesi della ricorrente, è che il manufatto è del tutto sottostante alla quota di calpestio del giardino della abitazione cui è a servizio.
Tale circostanza, oltre che pacifica nelle ricostruzioni descrittive dello stato dei luoghi contenute negli atti dell'Amministrazione e nelle deduzioni delle parti, è del pari resa con immediata evidenza nella produzione fotografica allegata alla relazione depositata con il ricorso - punto 14, fotografia nr. 4 e 5, lati est e nord ad opera ultimata.
Dall'esame degli atti si evince chiaramente che il manufatto possiede i due lati interrati ed è sottostante il piano del giardino dell'edificio cui è a servizio, costituendone una parte integrante non suscettibile di essere considerata un corpo aggiunto o un volume. Sul punto, non vale osservare, come fanno le resistenti, che circa uno dei due lati interrati esiste una differenza di 30 cm rispetto al piano di calpestio; a parte la rilevanza della differenza ai fini del regime applicabile in tema di difformità tra il titolo ed il manufatto, aspetto sul quale si tornerà oltre, si deve osservare che un eventuale dislivello minimo e contenuto tra il manufatto stesso ed il piano di calpestio, può apparire rilevante solo ad una lettura formale ed acritica della norma che dimentichi la necessaria valorizzazione delle esigenze di interesse pubblico ampiamente illustrate sopra.
Da tutti questi aspetti deriva che il ricorso, sul punto, è fondato; ne dovrebbe derivare, a rigore, anche una pronuncia di “assorbimento” dei motivi indicati in ricorso al punto 2 (e punto 1 dei motivi aggiunti), in quanto, all'evidenza, la insussistenza del profilo di illegittimità del provvedimento annullato rende superflua ogni considerazione in ordine alla necessità che il provvedimento di annullamento sia sostenuto dalle motivazioni attuali circa l'interesse pubblico.
Tuttavia, il collegio ritiene di dover rilevare in merito a ciò un aspetto particolare, legato alla ricostruzione della normativa applicabile per come sopra indicata
(TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 03.10.2005 n. 1531 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sull'annullamento del provvedimento abilitativo circa la costruzione di un box in deroga ex lege n. 122/1989.
La circostanza che sul problema della interpretazione dell'art. 9 l. 122/1989 sussista giurisprudenza diversa, nonché profili di ampio contenuto e di diverse possibili tesi ricostruttive, implica che avendo dapprima autorizzato il manufatto sulla base dell'art. 9 della legge Tognoli, l'Amministrazione avrebbe dovuto ancora più ampiamente dare conto delle ragioni di interesse pubblico che l'hanno consigliata sia alla diversa interpretazione e sia alla rimozione del precedente provvedimento.
Non è sufficiente, infatti, addurre presunte false rappresentazioni o inesatte indicazioni tecniche inerenti una pretesa esistenza (o assenza) del terzo muro interrato o assenza di quote grafiche nel progetto per dare conto di quale interesse pubblico preminente giustifichi la rinuncia alla realizzazione di un manufatto che, per condizioni e per localizzazione, assicura il rispetto di quelle (inderogabili) finalità di legge già viste sopra.
Né appare sufficiente richiamare il “rispetto della legalità violata” per motivare l'annullamento del titolo abilitativo a manufatto realizzato, dopo aver consacrato una valutazione positiva della istanza in un provvedimento assistito dalla presunzione di legittimità e quindi come tale pienamente suscettibile di fondare l'affidamento dell'istante non solo per l'efficacia sua propria, ma anche in virtù della rilevanza generale che ad esso si riconduce per effetto del più volte citato art. 9.
Si tratta all'evidenza di un comportamento contrastante con i canoni della buona fede esecutiva che deve assistere le parti di un rapporto pubblico amministrativo al pari delle parti di un contratto, sorgendo dal procedimento amministrativo un vero e proprio obbligo di tutela dell'affidamento.
Affidamento che, nella specie, andava ancora maggiormente garantito in presenza delle precipue finalità di incentivazione della norma alla realizzazione di parcheggi privati, nonché delle differenti possibilità interpretative che la stessa norma, per come visto sopra, consente e quindi, al contempo, per il maggiore affidamento che da tutto questo deriva in capo al privato sulle funzioni certificative proprie dell'Ente nell'esercizio del potere ampliativo ad esso affidato.
Inoltre, il provvedimento avrebbe dovuto essere congruamente motivato sul punto dell'interesse pubblico attuale alla rimozione anche per il deficit di comprensione e prevedibilità del comportamento dovuto che deriva dalla possibile diversa possibile interpretazione della norma in punto di fatto.

II) Circa l'aspetto appena indicato, si deve rilevare che il ricorso è fondato per le seguenti considerazioni.
La circostanza che sul problema della interpretazione della norma su esposta sussista giurisprudenza diversa, nonché profili di ampio contenuto e di diverse possibili tesi ricostruttive, implica che avendo dapprima autorizzato il manufatto sulla base dell'art. 9 della legge Tognoli, l'Amministrazione avrebbe dovuto ancora più ampiamente dare conto delle ragioni di interesse pubblico che l'hanno consigliata sia alla diversa interpretazione e sia alla rimozione del precedente provvedimento.
Non è sufficiente, infatti, addurre presunte false rappresentazioni o inesatte indicazioni tecniche inerenti una pretesa esistenza (o assenza) del terzo muro interrato o assenza di quote grafiche nel progetto per dare conto di quale interesse pubblico preminente giustifichi la rinuncia alla realizzazione di un manufatto che, per condizioni e per localizzazione, assicura il rispetto di quelle (inderogabili) finalità di legge già viste sopra.
Né appare sufficiente richiamare il “rispetto della legalità violata” per motivare l'annullamento del titolo abilitativo a manufatto realizzato, dopo aver consacrato una valutazione positiva della istanza in un provvedimento assistito dalla presunzione di legittimità e quindi come tale pienamente suscettibile di fondare l'affidamento dell'istante non solo per l'efficacia sua propria, ma anche in virtù della rilevanza generale che ad esso si riconduce per effetto del più volte citato art. 9.
Si tratta all'evidenza di un comportamento contrastante con i canoni della buona fede esecutiva che deve assistere le parti di un rapporto pubblico amministrativo al pari delle parti di un contratto, sorgendo dal procedimento amministrativo un vero e proprio obbligo di tutela dell'affidamento. Affidamento che, nella specie, andava ancora maggiormente garantito in presenza delle precipue finalità di incentivazione della norma alla realizzazione di parcheggi privati, nonché delle differenti possibilità interpretative che la stessa norma, per come visto sopra, consente e quindi, al contempo, per il maggiore affidamento che da tutto questo deriva in capo al privato sulle funzioni certificative proprie dell'Ente nell'esercizio del potere ampliativo ad esso affidato.
Inoltre, il provvedimento avrebbe dovuto essere congruamente motivato sul punto dell'interesse pubblico attuale alla rimozione anche per il deficit di comprensione e prevedibilità del comportamento dovuto che deriva dalla possibile diversa possibile interpretazione della norma in punto di fatto.
Ne consegue, dunque che il ricorso è fondato in relazione ad entrambi i profili esposti
(TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 03.10.2005 n. 1531 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAlla luce dell’orientamento condiviso dal Collegio, deve ritenersi che lo spargimento di ghiaia su un'area che ne era in precedenza priva richiede la concessione edilizia allorché appaia preordinata alla modifica della precedente destinazione d'uso (circostanza questa che deve fondarsi su fatti positivamente accertati).
Tale indirizzo, peraltro, risulta corroborato dalla risalente interpretazione del Giudice penale, secondo cui deve ritenersi soggetto a concessione lo spianamento di un terreno agricolo ed il riporto di sabbia e ghiaia, al fine di ottenerne un piazzale per deposito e smistamento di autocarri e containers (cfr. altresì <<è legittimo il provvedimento del sindaco che ordini la riduzione in pristino di un'area destinata, in base al piano regolatore, a verde pubblico, che sia stata coperta di ghiaia, per essere destinata a parcheggio).
Per esigenze di completezza si osserva che la tesi abbracciata dal Collegio sembra, oggi, avere un testuale riscontro nel nuovo Testo unico in materia edilizia –D.P.R. n. 380/2001- (che non ha certo potenzialità applicativa e di risoluzione del caso in esame, ma che può rappresentare un valido ausilio interpretativo, specie ove “codifica” un orientamento giurisprudenziale pregresso): l’art. 3, in materia di definizione degli interventi edilizi, assoggetta a permesso di costruire –ascrivendole al genus delle nuove costruzioni- <<la realizzazione di infrastrutture e di impianti, anche per pubblici servizi, che comporti la trasformazione in via permanente di suolo inedificato>> (lett. e.3) e <<la realizzazione di depositi di merci o di materiali, la realizzazione di impianti per attività produttive all'aperto ove comportino l'esecuzione di lavori cui consegua la trasformazione permanente del suolo inedificato>> (e.7); si tratta, come è facile rilevare, di interventi privi di connotazione strettamente edilizia e, nondimeno, assoggettati a titolo abilitativo.

2. Il Collegio ritiene prioritario valutare e decidere se, in ordine all’intervento realizzato dall’appellante e per la sanatoria del quale è causa, fosse necessario il rilascio di titolo concessorio, come ritiene il Comune appellato.
Deve essere preliminarmente osservato che, secondo la disciplina normativa (articolo 1 -Trasformazione urbanistica del territorio e concessione di edificare– L. n. 10/1977; l’articolo in esame è stato abrogato dall'art. 136, comma 1 e 2, d.p.r. 06.06.2001, n. 380, a decorrere dal 30.06.2003, ai sensi dell'art. 3, d.l. 20.06.2002, n. 122, conv., con modificazioni, in l. 01.08.2002, n. 185) <<Ogni attività comportante trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio comunale partecipa agli oneri ad essa relativi e la esecuzione delle opere è subordinata a concessione da parte del sindaco, ai sensi della presente legge>>.
L’interpretazione del dato normativo richiamato non è stata affatto pacifica.
Invero, la giurisprudenza e la dottrina hanno elaborato due indirizzi ermeneutici: secondo il primo, andrebbero assoggettati a titolo abilitativo solo gli interventi di portata -simultaneamente– urbanistica ed edilizia. Invero, osservano i fautori della tesi in esame, l’uso congiunto delle due espressioni (urbanistica ed edilizia) nel citato articolo escluderebbe l’assoggettamento al previo rilascio del titolo degli interventi che, pur non mancando di impatto urbanistico, siano privi di consistenza materiale di opere edilizie.
Secondo l’opposto indirizzo, l’art. 1 l. 28.01.1977 n. 10 sulla edificabilità dei suoli, che pone la regola della soggezione a concessione di ogni attività comportante trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, non comprende le sole attività di edificazione, ma tutte quelle consistenti in una modificazione dello stato materiale e della conformazione del suolo per adattarlo ad un impiego diverso da quello che gli è proprio in relazione alla sua condizione naturale ed alla sua qualificazione giuridica (cfr.: Cons. Stato, sez. V, 31/01/2001, n. 343; Cons. Stato, sez. V, 20/12/1999, n. 2125; Cons. Stato, sez. V, 01/03/1993, n. 319; tale orientamento è condiviso anche dalla giurisprudenza ordinaria: cfr. Cass. pen., 14/10/1988; Cass. pen., sez. III, 24/10/1997, n. 10709; Cass. pen., sez. VI, 24/07/1997, n. 8520).
La giurisprudenza favorevole a tale tesi ha aggiunto che l’art. 1 l. 28.01.1977 n. 10 impone al soggetto attuatore di munirsi di concessione edilizia per ogni attività che comporti la trasformazione del territorio attraverso l'esecuzione di opere comunque attinenti agli aspetti urbanistici ed edilizi, ove il mutamento e l'alterazione abbiano un qualche rilievo ambientale ed estetico, o solo funzionale (cfr. la recente Cons. Stato, sez. VI, 26/09/2003, n. 5502).
Pertanto, è soggetto a concessione edilizia ogni intervento sul territorio, preordinato alla perdurante modificazione dello stato dei luoghi con materiale posto sul suolo, pur in assenza di opere in muratura (Cons. Stato, sez. V, 06/04/1998, n. 415; cfr. altresì: <<la concessione edilizia è richiesta sia quando vi sia la realizzazione di opere murarie, sia quando si intenda realizzare un intervento sul territorio che, pur non richiedendo opere in muratura, comporti la perdurante modifica dello stato dei luoghi con materiale posto sul suolo>> Cons. Stato, sez. V, 14/12/1994, n. 1486; Cons. Stato, sez. VI, 27/01/2003, n. 419).
E’ ben vero che, secondo un precedente citato dall’appellante, questo Consesso ha ritenuto che non integra l'ipotesi di trasformazione urbanisticamente rilevante del territorio, soggetta a concessione ex art. 1 l. n. 10 del 1977, l'intervento materialmente consistente nella mera ripulitura di un terreno parzialmente erboso, con ripristino di una recinzione preesistente e spargimento di ghiaia, a nulla rilevando, sotto il profilo urbanistico, la conseguente utilizzazione del suolo così ripulito e riordinato all'esposizione di autovetture a scopi commerciali (Cons. Stato, sez. IV, 08/03/1983, n. 103).
Tuttavia, alla luce dell’orientamento condiviso dal Collegio, deve ritenersi che lo spargimento di ghiaia su un'area che ne era in precedenza priva richiede la concessione edilizia allorché appaia preordinata alla modifica della precedente destinazione d'uso (circostanza questa che deve fondarsi su fatti positivamente accertati). Tale indirizzo, peraltro, risulta corroborato dalla risalente interpretazione del Giudice penale, secondo cui deve ritenersi soggetto a concessione lo spianamento di un terreno agricolo ed il riporto di sabbia e ghiaia, al fine di ottenerne un piazzale per deposito e smistamento di autocarri e containers (Cass. pen., 09/06/1982; cfr. altresì <<è legittimo il provvedimento del sindaco che ordini la riduzione in pristino di un'area destinata, in base al piano regolatore, a verde pubblico, che sia stata coperta di ghiaia, per essere destinata a parcheggio>> Cons. Stato, sez. II, 15/02/1989, n. 18/89).
Per esigenze di completezza si osserva che la tesi abbracciata dal Collegio sembra, oggi, avere un testuale riscontro nel nuovo Testo unico in materia edilizia –D.P.R. n. 380/2001- (che non ha certo potenzialità applicativa e di risoluzione del caso in esame, ma che può rappresentare un valido ausilio interpretativo, specie ove “codifica” un orientamento giurisprudenziale pregresso): l’art. 3, in materia di definizione degli interventi edilizi, assoggetta a permesso di costruire –ascrivendole al genus delle nuove costruzioni- <<la realizzazione di infrastrutture e di impianti, anche per pubblici servizi, che comporti la trasformazione in via permanente di suolo inedificato>> (lett. e.3) e <<la realizzazione di depositi di merci o di materiali, la realizzazione di impianti per attività produttive all'aperto ove comportino l'esecuzione di lavori cui consegua la trasformazione permanente del suolo inedificato>> (e.7); si tratta, come è facile rilevare, di interventi privi di connotazione strettamente edilizia e, nondimeno, assoggettati a titolo abilitativo.
Significativa è, poi, la previsione dell’art. 10, comma 2, secondo cui <<Le regioni stabiliscono con legge quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili o di loro parti, sono subordinati a permesso di costruire o a denuncia di inizio attività>>.
L’intervento per cui è causa, alla luce delle superiori considerazioni, era assoggettato a rilascio di titolo concessorio
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 11.11.2004 n. 7325 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La possibilità di realizzare parcheggi da destinare a pertinenze delle singole unità immobiliari anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti, consentita dall'art. 9 l. n. 122 del 1989 (c.d. Legge Tognoli) costituisce disposizione di carattere eccezionale da interpretarsi nel suo significato strettamente letterale ed in considerazione delle finalità della legge nel cui contesto risulta inserita.
Pertanto tale articolo è applicabile alla costruzione di spazi parcheggio nelle sole aree urbane, mentre la realizzazione di parcheggi in aree extraurbane resta soggetta alle ordinarie prescrizioni urbanistiche ed edilizie necessitando della normale concessione edilizia.

3. E’ inconferente il richiamo operato dall’odierno appellante alle previsioni racchiuse nella L. n. 122/1989.
Invero, la possibilità di realizzare parcheggi da destinare a pertinenze delle singole unità immobiliari anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti, consentita dall'art. 9 l. n. 122 del 1989 (c.d. Legge Tognoli), costituisce disposizione di carattere eccezionale da interpretarsi nel suo significato strettamente letterale ed in considerazione delle finalità della legge nel cui contesto risulta inserita.
Pertanto tale articolo è applicabile alla costruzione di spazi parcheggio nelle sole aree urbane, mentre la realizzazione di parcheggi in aree extraurbane resta soggetta alle ordinarie prescrizioni urbanistiche ed edilizie necessitando della normale concessione edilizia
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 11.11.2004 n. 7325 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai sensi dell'art. 7 l. 25.03.1982 n. 94 un'opera che abbia natura pertinenziale è soggetta all'autorizzazione gratuita anziché alla concessione edilizia; ma senza deroga alla regola generale che impone la conformità delle iniziative edilizie a quanto stabilito dagli strumenti urbanistici, limitando, al contrario, l'art. 7 cit. il rilascio dell'autorizzazione alle opere <<conformi alle prescrizioni degli strumenti urbanistici vigenti.
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- La nozione di pertinenza dettata dal diritto civile è più ampia di quella che regola la materia urbanistica, onde beni che, secondo quella normativa, assumono senz'altro natura pertinenziale tali invece non sono ai fini dell'applicazione delle regole ch e governano l'attività edilizia.
- Considerata la nozione di pertinenza urbanistica, quali possono considerarsi solo manufatti di dimensioni modeste e ridotte rispetto alla casa a cui sono annessi, non può essere permessa la costruzione di opere di rilevante importanza soltanto perché destinate al servizio ed all'ornamento del bene principale; ed è perciò necessaria la concessione edilizia per l'esecuzione di opere che da un punto di vista edilizio ed urbanistico sono da considerarsi come ulteriori rispetto al bene principale, poiché occupano aree e volumi diversi.
- Soggiace a concessione edilizia la realizzazione di un'opera di rilevanti dimensioni, che modifica l'assetto del territorio e che occupa aree e volumi diversi rispetto alla "res principalis", indipendentemente dal vincolo di servizio o d'ornamento nei riguardi di essa.

4. Del pari inconferente è il richiamo operato dall’appellante alla normativa ex Legge n. 94/1982 (conversione in legge del D.L. n. 9/1982) posto che ai sensi dell'art. 7 l. 25.03.1982 n. 94 un'opera che abbia natura pertinenziale è soggetta all'autorizzazione gratuita anziché alla concessione edilizia; ma senza deroga alla regola generale che impone la conformità delle iniziative edilizie a quanto stabilito dagli strumenti urbanistici, limitando, al contrario, l'art. 7 cit. il rilascio dell'autorizzazione alle opere <<conformi alle prescrizioni degli strumenti urbanistici vigenti>> (Cons. Stato, sez. V, 23/06/1997, n. 704; Cons. Stato, sez. II, 08/05/1996, n. 3029).
In disparte il rilievo della nozione più ristretta di pertinenza (rispetto a quella accolta dal diritto civile) propria del diritto amministrativo che non si attaglia all’intervento per cui è causa (<<La nozione di pertinenza dettata dal diritto civile è più ampia di quella che regola la materia urbanistica, onde beni che, secondo quella normativa, assumono senz'altro natura pertinenziale tali invece non sono ai fini dell'applicazione delle regole ch e governano l'attività edilizia>> Cons. Stato, sez. V, 18/04/2001, n. 2325; <<Considerata la nozione di pertinenza urbanistica, quali possono considerarsi solo manufatti di dimensioni modeste e ridotte rispetto alla casa a cui sono annessi, non può essere permessa la costruzione di opere di rilevante importanza soltanto perché destinate al servizio ed all'ornamento del bene principale; ed è perciò necessaria la concessione edilizia per l'esecuzione di opere che da un punto di vista edilizio ed urbanistico sono da considerarsi come ulteriori rispetto al bene principale, poiché occupano aree e volumi diversi>> Cons. Stato, sez. V, 30/11/2000, n. 6358; cfr. altresì Cons. Stato, sez. V, 30/10/2000, n. 5828; <<Soggiace a concessione edilizia la realizzazione di un'opera di rilevanti dimensioni, che modifica l'assetto del territorio e che occupa aree e volumi diversi rispetto alla "res principalis", indipendentemente dal vincolo di servizio o d'ornamento nei riguardi di essa>> Cons. Stato, sez. V, 23/03/2000, n. 1600; Cons. Stato, sez. V, 06/09/1999, n. 1015; Cons. Stato, sez. II, 12/05/1999, n. 729; Cons. Stato, sez. II, 21/02/1996, n. 1895)
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 11.11.2004 n. 7325 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza ammette la riconducibilità alla qualifica di ristrutturazione degli interventi che comportino incrementi di superficie purché si tratti di incrementi di lieve entità: fra gli interventi di ristrutturazione edilizia, previsti dall'art. 31 lett. d) l. 05.08.1978 n. 457, rientrano quelli rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto –o in parte- diverso dal precedente, ma, trattandosi di interventi di recupero, resta fermo che il nuovo edificio deve presentare nel suo complesso le caratteristiche fondamentali di quello abbattuto.
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L'interpretazione della norma giuridica contenuta in una circolare in nessun caso vincola il giudice.

6. Né può essere condivisa la tesi secondo cui trattasi di ristrutturazione edilizia ex art. 31, lett. d), l. n. 457/1978; invero, la giurisprudenza ammette la riconducibilità alla qualifica di ristrutturazione degli interventi che comportino incrementi di superficie –come correttamente rileva l’appellante che cita dei precedenti giurisprudenziali– purché si tratti di incrementi di lieve entità: fra gli interventi di ristrutturazione edilizia, previsti dall'art. 31 lett. d) l. 05.08.1978 n. 457, rientrano quelli rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto –o in parte- diverso dal precedente, ma, trattandosi di interventi di recupero, resta fermo che il nuovo edificio deve presentare nel suo complesso le caratteristiche fondamentali di quello abbattuto (cfr. Cons. Stato, sez. V, 02/12/1998, n. 1714), fra le quali la superficie.
7. Inoltre, il Collegio ritiene di non poter condividere il pensiero espresso nelle circolari citate dall’appellante, per le circostanze sopra riportate (si ricordi, a tal proposito, che l'interpretazione della norma giuridica contenuta nella circolare in nessun caso vincola il giudice: Cons. Stato, Sez. IV, 14/09/1988, n. 745)
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 11.11.2004 n. 7325 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATADeve osservare il Collegio che se “il comma 1 dell'art. 9 l. 24.03.1989 n. 122 (nel testo originario) era stato già interpretato dalla giurisprudenza nel senso che consentisse la realizzazione di parcheggi in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi, anche se collocati in cortili o aree esterne adiacenti al fabbricato, e senza necessità di osservanza delle norme di piano sulle distanze dai confini; interpretazione che poi ha ricevuto il conforto normativo dall'art. 17, comma 90, l. 15.05.1997 n. 127”, allora se ne deve dedurre che non può essere condivisa la tesi (pure sostenuta da alcune pronunce di merito) sulla natura eccezionale della norma e sulla conseguente natura tassativa delle sue previsioni e delle sue elencazioni.
Considerate le finalità di pubblico interesse dei parcheggi a servizio degli edifici residenziali, desumibili dalle disposizioni di cui alla legge 1150/1942, art. 41-sexies, per come modificato dall'art. 18 l. 06.08.1967 n. 765 deve quindi disattendersi l'argomento difensivo della interveniente secondo il quale non sarebbero possibili interpretazioni del termine “sottosuolo”, diverse dal tenore strettamente letterale e compatibili con una condizione del manufatto di “seminterrato”.
In tal senso, la norma è di stretta interpretazione quanto alle condizioni espresse della sua applicazione: essa quindi si applicherà solo con riferimento a posteggi pertinenziali “nel senso che devono essere al servizio di *singole unità immobiliari*” nonché in favore dei soli “residenti”, implicando la coincidenza soggettiva tra i richiedenti ed i proprietari dell'immobile, dal momento che il legislatore ha inteso prevedere la deroga al regime urbanistico e concessorio (ossia introducendo un regime semplificato ed a titolo gratuito) per i soli residenti e non per tutti gli usi dell'immobile come ad es. quello commerciale.
Quanto invece al regime interpretativo del termine “sottosuolo” ritiene il Collegio che non si possa che aderire a quelle massime che considerano il box interrato su due lati come compreso nella sfera di applicazione della norma in esame, riportate dalla difesa della ricorrente, per due ordini di ragioni.
Il primo è testuale. Recita infatti la norma: “I proprietari di immobili possono realizzare nel sottosuolo degli stessi ovvero nei locali siti al piano terreno dei fabbricati parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari, anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti. Tali parcheggi possono essere realizzati, ad uso esclusivo dei residenti, anche nel sottosuolo di aree pertinenziali esterne al fabbricato, purché non in contrasto con i piani urbani del traffico, tenuto conto dell'uso della superficie sovrastante e compatibilmente con la tutela dei corpi idrici. Restano in ogni caso fermi i vincoli previsti dalla legislazione in materia paesaggistica ed ambientale ed i poteri attribuiti dalla medesima legislazione alle regioni e ai Ministeri dell'ambiente e per i beni culturali ed ambientali…(omississ)”.
La norma pone dunque limiti espressi e precisi, quali condizioni della facoltà dei privati di utilizzare il sottosuolo delle aree pertinenziali: ossia il rispetto dei piani urbani del traffico, il rispetto della tutela paesaggistica ed ambientale e la tutela dei corpi idrici.
All'interno di queste “coordinate” non si comprende quale ragione teleologica possa consentire all'interprete di affermare che il termine “sottosuolo” sia equivalente (con esclusività) alla locuzione “totalmente interrato”. Tale interpretazione appare infatti solo il frutto di una lettura “semantica” del termine, lettura che, anche sotto questo aspetto, presenta peraltro evidenti limiti.
Vero è che, di norma, il termine “sottosuolo” sta ad indicare la porzione di spazio sottostante il piano di calpestio, o di campagna; ma è altrettanto vero che se il terreno è ad andamento non pianeggiante o irregolare, come avviene nel caso di specie ove è pacifico in punto di fatto che attorno alla zona oggetto di insediamento del manufatto, sussistono quote altimetriche differenti, allora nella stessa locuzione indicata non può che intendersi ricompreso anche il senso di “porzioni di spazio sottostante ad alcune quote di livello e coincidenti o sovrastanti ad altre”.
In altri termini e sotto un secondo profilo, quello che appare essenziale, ai fini del rispetto della norma sul punto e delle finalità di decongestione del parcheggio veicolare su strade urbane (elemento, questo sì, di stretta interpretazione laddove la norma non è applicabile in ipotesi di edifici in zona agricola o comunque extraurbani) è che il garage sia realizzato utilizzando aree pertinenziali all'edificio residenziale cui è a servizio, che sia vincolato con destinazione non modificabile, non sia suscettibile cioè di vendita separata e che rispetti le esigenze inderogabili individuate dalla stessa norma.
Nel rispetto di queste, trovano spazio le finalità di preminente interesse pubblico che hanno spinto il legislatore a costituire un regime normativo di favore per incentivare i privati a ricorrere a posteggi “all'esterno” della sede stradale e qualsiasi limitazione alla realizzazione di questo interesse pubblico, diversa dai limiti già previsti dalla norma, deve intendersi come non compatibile con le finalità in esame.
Sotto il profilo ricostruttivo della fattispecie, poi, ai fini delle volumetrie e delle cubature, si richiede che il garage sia posto al di sotto del piano di campagna, ragione per cui si giustifica la deroga allo strumento urbanistico ed al regolamento edilizio. Ma se il piano di calpestio o di campagna è inserito in un contesto ad andatura irregolare, ossia possiede diversi livelli di calpestio, allora deve essere preso a riferimento un piano prevalente, a meno di non voler sostenere che debba essere interamente sottostante al piano più basso in assoluto.
Se dev'essere dunque individuato un piano prevalente, ossia una quota “zero” di riferimento, questo non può che essere individuato in quello dell'abitazione di cui è pertinenza, considerando la destinazione quale vincolo edilizio ed urbanistico atto ad associare la “potenziale” volumetria ad un immobile assentito già esistente e quindi creare un “unicum” edilizio.
Quindi appare condivisibile la tesi della interpretabilità estensiva della norma sul punto del termine “sottosuolo”, secondo la quale ad un box seminterrato (ossia interrato per almeno due lati) è applicabile l'art. 9 cit.; (si aggiunge) che nel caso di un andamento del suolo non pianeggiante, ciò è possibile a patto che il manufatto sia sottostante al piano di calpestio del “piano terra” del fabbricato principale. Ciò che sul piano della fattispecie dedotta in giudizio appare convincente, quanto alla fondatezza della tesi della ricorrente, è che il manufatto è del tutto sottostante alla quota di calpestio del giardino della abitazione cui è a servizio.

I) Con il quarto motivo di ricorso, terzo motivo aggiunto, deduce la ricorrente che l'Amministrazione, nell'annullare il provvedimento ampliativo a suo tempo rilasciato, avrebbe errato nel non considerare applicabile alla fattispecie in esame l'art. 9, comma I, l. 24.03.1989, n. 122. Il provvedimento di annullamento, infatti, sarebbe motivato, in punto di diritto, con riferimento alla circostanza che, non essendo il garage totalmente interrato, non sussisterebbero le condizioni previste dalla legge per l'autorizzazione in deroga alla normativa urbanistica (strumenti urbanistici e regolamento edilizio).
Tale motivazione sarebbe errata in quanto secondo la giurisprudenza richiamata dalla ricorrente (Cons. Stato, V, 03.07.1995 n. 1007 e TAR Piemonte, 04.06.2003, nr. 831) la dizione di cui all'art. 9 cit. sarebbe da interpretarsi estensivamente, ricomprendendo anche la tipologia dei box seminterrati nella sua sfera di applicazione. In punto di fatto, deduce ancora la ricorrente, essendo il manufatto realizzato interrato sui due lati ed inferiore alla quota di calpestio del giardino di proprietà della ricorrente, cui lo stesso garage accede pertinenzialmente, le condizioni imposte dalla norma sarebbero rispettate.
Oppongono l'Amministrazione resistente e l'interveniente che la natura eccezionale della norma invocata dalla ricorrente, ne impone una interpretazione letterale e rigorosa, conducendo l'interprete a dover ritenere che siano ammissibili, quanto ai garage esterni ricadenti su terreno di proprietà, pertinenza dell'edificio, solo il tipo dei garage interamente interrati. Anche la difesa della resistente allega massime giurisprudenziali ad essa favorevoli (cfr. tra le altre TAR Molise, 05.03.2004, nr. 141, TAR Calabria Catanzaro, II, 14.11.2002, n. 2921; CdS, V, 29.03.2004, nr. 1662).
Secondo la difesa del Comune, inoltre, la interpretazione estensiva cui fa riferimento la ricorrente sarebbe stata sostenuta da arresti giurisprudenziali anteriori alla riforma di cui alla legge 127/1997 che ha previsto, all'art. 17, comma 90, la modifica dell'art. 9 della legge 122/1989, inserendo in essa la previsione della possibilità di realizzare i parcheggi interrati nel sottosuolo delle aree pertinenziali; detta riforma avrebbe perciò assorbito (ed esaurito nella sua previsione tassativa e di stretto rigore interpretativo) la portata innovativa delle pronunce cui si rifà il ricorrente. Analogamente, anche la difesa dell'interveniente sostiene la non applicabilità della legge Tognoli al caso di specie, rifacendosi anch'essa a pronunce di segno contrario alla tesi del ricorrente (tra le quali in particolare, CGA, 26.06.2000, nr. 29 che afferma la non applicabilità dell'art. 9 l. cit. a struttura autonoma seppure per due lati interrata).
Nella memoria depositata il 26.04.2005, la ricorrente, oltre a ribadire le proprie argomentazioni difensive, allegando altra pronuncia favorevole (TAR Lazio, Roma, II, 22.05.1998, nr. 979), contesta le tesi difensive delle parti resistenti, deducendo che le massime riportate a loro dimostrazione sono riferibili tutte a situazioni diverse da quella in esame. Particolarmente con riferimento alla decisione del CGA 299/2000, rileva che si tratta di fattispecie di fatto verificatasi prima dell'entrata in vigore della modifica di cui alla legge 127/1997 e quindi con riferimento alla precedente versione dell'art. 9 cit. Gli altri casi sarebbero riconducibili a box interamente fuori terra o effettuati dietro “riporto di terra”.
Le repliche ulteriori delle parti resistenti insistono nella interpretazione del termine “sottosuolo” come inconciliabile con l'esistenza di un manufatto interrato solo per due lati (ed uno di questi riportante una differenza di trenta centimetri).
Come anticipato sopra, la risoluzione della questione in esame appare pregiudiziale rispetto all'esame delle questioni inerenti il punto 2 e 3 del ricorso (e corrispondenti motivi aggiunti), nonché, correlativamente, il punto 4 dei motivi aggiunti.
Osserva il Collegio che, in merito all'applicazione dell'art. 9 della legge 122/1989, le difese delle parti hanno esaustivamente e con chiarezza ricostruito tutti i termini giuridici delle rispettive tesi, suffragandole con ampia giurisprudenza, al punto che in questa sede è sufficiente richiamarne le conclusioni.
Intanto, deve osservare il Collegio che se “il comma 1 dell'art. 9 l. 24.03.1989 n. 122 (nel testo originario) era stato già interpretato dalla giurisprudenza nel senso che consentisse la realizzazione di parcheggi in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi, anche se collocati in cortili o aree esterne adiacenti al fabbricato, e senza necessità di osservanza delle norme di piano sulle distanze dai confini; interpretazione che poi ha ricevuto il conforto normativo dall'art. 17, comma 90, l. 15.05.1997 n. 127” (TAR Campania, Salerno, II 07.04.2003, nr. 243), allora se ne deve dedurre che non può essere condivisa la tesi (pure sostenuta da alcune pronunce di merito) sulla natura eccezionale della norma e sulla conseguente natura tassativa delle sue previsioni e delle sue elencazioni.
Considerate le finalità di pubblico interesse dei parcheggi a servizio degli edifici residenziali, desumibili dalle disposizioni di cui alla legge 1150/1942, art. 41-sexies, per come modificato dall'art. 18 l. 06.08.1967 n. 765 deve quindi disattendersi l'argomento difensivo della interveniente secondo il quale non sarebbero possibili interpretazioni del termine “sottosuolo”, diverse dal tenore strettamente letterale e compatibili con una condizione del manufatto di “seminterrato”.
In tal senso, la norma è di stretta interpretazione quanto alle condizioni espresse della sua applicazione: essa quindi si applicherà solo con riferimento a posteggi pertinenziali “nel senso che devono essere al servizio di *singole unità immobiliari*” (Consiglio Stato, sez. VI, 17.02.2003, n. 844) nonché in favore dei soli “residenti”, implicando la coincidenza soggettiva tra i richiedenti ed i proprietari dell'immobile (TAR Piemonte, I, 05.03.2003, nr. 338), dal momento che il legislatore ha inteso prevedere la deroga al regime urbanistico e concessorio (ossia introducendo un regime semplificato ed a titolo gratuito) per i soli residenti e non per tutti gli usi dell'immobile come ad es. quello commerciale (Consiglio Stato, sez. VI, 17.02.2003, n. 844).
Quanto invece al regime interpretativo del termine “sottosuolo” ritiene il Collegio che non si possa che aderire a quelle massime che considerano il box interrato su due lati come compreso nella sfera di applicazione della norma in esame, riportate dalla difesa della ricorrente, per due ordini di ragioni.
Il primo è testuale. Recita infatti la norma: “I proprietari di immobili possono realizzare nel sottosuolo degli stessi ovvero nei locali siti al piano terreno dei fabbricati parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari, anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti. Tali parcheggi possono essere realizzati, ad uso esclusivo dei residenti, anche nel sottosuolo di aree pertinenziali esterne al fabbricato, purché non in contrasto con i piani urbani del traffico, tenuto conto dell'uso della superficie sovrastante e compatibilmente con la tutela dei corpi idrici. Restano in ogni caso fermi i vincoli previsti dalla legislazione in materia paesaggistica ed ambientale ed i poteri attribuiti dalla medesima legislazione alle regioni e ai Ministeri dell'ambiente e per i beni culturali ed ambientali…(omississ)”.
La norma pone dunque limiti espressi e precisi, quali condizioni della facoltà dei privati di utilizzare il sottosuolo delle aree pertinenziali: ossia il rispetto dei piani urbani del traffico, il rispetto della tutela paesaggistica ed ambientale e la tutela dei corpi idrici.
All'interno di queste “coordinate” non si comprende quale ragione teleologica possa consentire all'interprete di affermare che il termine “sottosuolo” sia equivalente (con esclusività) alla locuzione “totalmente interrato”. Tale interpretazione appare infatti solo il frutto di una lettura “semantica” del termine, lettura che, anche sotto questo aspetto, presenta peraltro evidenti limiti.
Vero è che, di norma, il termine “sottosuolo” sta ad indicare la porzione di spazio sottostante il piano di calpestio, o di campagna; ma è altrettanto vero che se il terreno è ad andamento non pianeggiante o irregolare, come avviene nel caso di specie ove è pacifico in punto di fatto che attorno alla zona oggetto di insediamento del manufatto, sussistono quote altimetriche differenti, allora nella stessa locuzione indicata non può che intendersi ricompreso anche il senso di “porzioni di spazio sottostante ad alcune quote di livello e coincidenti o sovrastanti ad altre”.
In altri termini e sotto un secondo profilo, quello che appare essenziale, ai fini del rispetto della norma sul punto e delle finalità di decongestione del parcheggio veicolare su strade urbane (elemento, questo sì, di stretta interpretazione, cfr. TAR Veneto, II, 06.09.2002, nr. 5229, secondo il quale la norma non è applicabile in ipotesi di edifici in zona agricola o comunque extraurbani) è che il garage sia realizzato utilizzando aree pertinenziali all'edificio residenziale cui è a servizio, che sia vincolato con destinazione non modificabile, non sia suscettibile cioè di vendita separata e che rispetti le esigenze inderogabili individuate dalla stessa norma.
Nel rispetto di queste, trovano spazio le finalità di preminente interesse pubblico che hanno spinto il legislatore a costituire un regime normativo di favore per incentivare i privati a ricorrere a posteggi “all'esterno” della sede stradale e qualsiasi limitazione alla realizzazione di questo interesse pubblico, diversa dai limiti già previsti dalla norma, deve intendersi come non compatibile con le finalità in esame.
Sotto il profilo ricostruttivo della fattispecie, poi, ai fini delle volumetrie e delle cubature, si richiede che il garage sia posto al di sotto del piano di campagna, ragione per cui si giustifica la deroga allo strumento urbanistico ed al regolamento edilizio. Ma se il piano di calpestio o di campagna è inserito in un contesto ad andatura irregolare, ossia possiede diversi livelli di calpestio, allora deve essere preso a riferimento un piano prevalente, a meno di non voler sostenere che debba essere interamente sottostante al piano più basso in assoluto.
Se dev'essere dunque individuato un piano prevalente, ossia una quota “zero” di riferimento, questo non può che essere individuato in quello dell'abitazione di cui è pertinenza, considerando la destinazione quale vincolo edilizio ed urbanistico atto ad associare la “potenziale” volumetria ad un immobile assentito già esistente e quindi creare un “unicum” edilizio.
Quindi appare condivisibile la tesi della interpretabilità estensiva della norma sul punto del termine “sottosuolo”, secondo la quale ad un box seminterrato (ossia interrato per almeno due lati) è applicabile l'art. 9 cit.; (si aggiunge) che nel caso di un andamento del suolo non pianeggiante, ciò è possibile a patto che il manufatto sia sottostante al piano di calpestio del “piano terra” del fabbricato principale. Ciò che sul piano della fattispecie dedotta in giudizio appare convincente, quanto alla fondatezza della tesi della ricorrente, è che il manufatto è del tutto sottostante alla quota di calpestio del giardino della abitazione cui è a servizio.
Tale circostanza, oltre che pacifica nelle ricostruzioni descrittive dello stato dei luoghi contenute negli atti dell'Amministrazione e nelle deduzioni delle parti, è del pari resa con immediata evidenza nella produzione fotografica allegata alla relazione depositata con il ricorso - punto 14, fotografia nr. 4 e 5, lati est e nord ad opera ultimata.
Dall'esame degli atti si evince chiaramente che il manufatto possiede i due lati interrati ed è sottostante il piano del giardino dell'edificio cui è a servizio, costituendone una parte integrante non suscettibile di essere considerata un corpo aggiunto o un volume. Sul punto, non vale osservare, come fanno le resistenti, che circa uno dei due lati interrati esiste una differenza di 30 cm rispetto al piano di calpestio; a parte la rilevanza della differenza ai fini del regime applicabile in tema di difformità tra il titolo ed il manufatto, aspetto sul quale si tornerà oltre, si deve osservare che un eventuale dislivello minimo e contenuto tra il manufatto stesso ed il piano di calpestio, può apparire rilevante solo ad una lettura formale ed acritica della norma che dimentichi la necessaria valorizzazione delle esigenze di interesse pubblico ampiamente illustrate sopra.
Da tutti questi aspetti deriva che il ricorso, sul punto, è fondato; ne dovrebbe derivare, a rigore, anche una pronuncia di “assorbimento” dei motivi indicati in ricorso al punto 2 (e punto 1 dei motivi aggiunti), in quanto, all'evidenza, la insussistenza del profilo di illegittimità del provvedimento annullato rende superflua ogni considerazione in ordine alla necessità che il provvedimento di annullamento sia sostenuto dalle motivazioni attuali circa l'interesse pubblico.
Tuttavia, il collegio ritiene di dover rilevare in merito a ciò un aspetto particolare, legato alla ricostruzione della normativa applicabile per come sopra indicata
(TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 03.10.2005 n. 1531 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sull'annullamento del provvedimento abilitativo circa la costruzione di un box in deroga ex lege n. 122/1989.
La circostanza che sul problema della interpretazione dell'art. 9 l. 122/1989 sussista giurisprudenza diversa, nonché profili di ampio contenuto e di diverse possibili tesi ricostruttive, implica che avendo dapprima autorizzato il manufatto sulla base dell'art. 9 della legge Tognoli, l'Amministrazione avrebbe dovuto ancora più ampiamente dare conto delle ragioni di interesse pubblico che l'hanno consigliata sia alla diversa interpretazione e sia alla rimozione del precedente provvedimento.
Non è sufficiente, infatti, addurre presunte false rappresentazioni o inesatte indicazioni tecniche inerenti una pretesa esistenza (o assenza) del terzo muro interrato o assenza di quote grafiche nel progetto per dare conto di quale interesse pubblico preminente giustifichi la rinuncia alla realizzazione di un manufatto che, per condizioni e per localizzazione, assicura il rispetto di quelle (inderogabili) finalità di legge già viste sopra.
Né appare sufficiente richiamare il “rispetto della legalità violata” per motivare l'annullamento del titolo abilitativo a manufatto realizzato, dopo aver consacrato una valutazione positiva della istanza in un provvedimento assistito dalla presunzione di legittimità e quindi come tale pienamente suscettibile di fondare l'affidamento dell'istante non solo per l'efficacia sua propria, ma anche in virtù della rilevanza generale che ad esso si riconduce per effetto del più volte citato art. 9.
Si tratta all'evidenza di un comportamento contrastante con i canoni della buona fede esecutiva che deve assistere le parti di un rapporto pubblico amministrativo al pari delle parti di un contratto, sorgendo dal procedimento amministrativo un vero e proprio obbligo di tutela dell'affidamento.
Affidamento che, nella specie, andava ancora maggiormente garantito in presenza delle precipue finalità di incentivazione della norma alla realizzazione di parcheggi privati, nonché delle differenti possibilità interpretative che la stessa norma, per come visto sopra, consente e quindi, al contempo, per il maggiore affidamento che da tutto questo deriva in capo al privato sulle funzioni certificative proprie dell'Ente nell'esercizio del potere ampliativo ad esso affidato.
Inoltre, il provvedimento avrebbe dovuto essere congruamente motivato sul punto dell'interesse pubblico attuale alla rimozione anche per il deficit di comprensione e prevedibilità del comportamento dovuto che deriva dalla possibile diversa possibile interpretazione della norma in punto di fatto.

II) Circa l'aspetto appena indicato, si deve rilevare che il ricorso è fondato per le seguenti considerazioni.
La circostanza che sul problema della interpretazione della norma su esposta sussista giurisprudenza diversa, nonché profili di ampio contenuto e di diverse possibili tesi ricostruttive, implica che avendo dapprima autorizzato il manufatto sulla base dell'art. 9 della legge Tognoli, l'Amministrazione avrebbe dovuto ancora più ampiamente dare conto delle ragioni di interesse pubblico che l'hanno consigliata sia alla diversa interpretazione e sia alla rimozione del precedente provvedimento.
Non è sufficiente, infatti, addurre presunte false rappresentazioni o inesatte indicazioni tecniche inerenti una pretesa esistenza (o assenza) del terzo muro interrato o assenza di quote grafiche nel progetto per dare conto di quale interesse pubblico preminente giustifichi la rinuncia alla realizzazione di un manufatto che, per condizioni e per localizzazione, assicura il rispetto di quelle (inderogabili) finalità di legge già viste sopra.
Né appare sufficiente richiamare il “rispetto della legalità violata” per motivare l'annullamento del titolo abilitativo a manufatto realizzato, dopo aver consacrato una valutazione positiva della istanza in un provvedimento assistito dalla presunzione di legittimità e quindi come tale pienamente suscettibile di fondare l'affidamento dell'istante non solo per l'efficacia sua propria, ma anche in virtù della rilevanza generale che ad esso si riconduce per effetto del più volte citato art. 9.
Si tratta all'evidenza di un comportamento contrastante con i canoni della buona fede esecutiva che deve assistere le parti di un rapporto pubblico amministrativo al pari delle parti di un contratto, sorgendo dal procedimento amministrativo un vero e proprio obbligo di tutela dell'affidamento. Affidamento che, nella specie, andava ancora maggiormente garantito in presenza delle precipue finalità di incentivazione della norma alla realizzazione di parcheggi privati, nonché delle differenti possibilità interpretative che la stessa norma, per come visto sopra, consente e quindi, al contempo, per il maggiore affidamento che da tutto questo deriva in capo al privato sulle funzioni certificative proprie dell'Ente nell'esercizio del potere ampliativo ad esso affidato.
Inoltre, il provvedimento avrebbe dovuto essere congruamente motivato sul punto dell'interesse pubblico attuale alla rimozione anche per il deficit di comprensione e prevedibilità del comportamento dovuto che deriva dalla possibile diversa possibile interpretazione della norma in punto di fatto.
Ne consegue, dunque che il ricorso è fondato in relazione ad entrambi i profili esposti
(TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 03.10.2005 n. 1531 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAlla luce dell’orientamento condiviso dal Collegio, deve ritenersi che lo spargimento di ghiaia su un'area che ne era in precedenza priva richiede la concessione edilizia allorché appaia preordinata alla modifica della precedente destinazione d'uso (circostanza questa che deve fondarsi su fatti positivamente accertati).
Tale indirizzo, peraltro, risulta corroborato dalla risalente interpretazione del Giudice penale, secondo cui deve ritenersi soggetto a concessione lo spianamento di un terreno agricolo ed il riporto di sabbia e ghiaia, al fine di ottenerne un piazzale per deposito e smistamento di autocarri e containers (cfr. altresì <<è legittimo il provvedimento del sindaco che ordini la riduzione in pristino di un'area destinata, in base al piano regolatore, a verde pubblico, che sia stata coperta di ghiaia, per essere destinata a parcheggio).
Per esigenze di completezza si osserva che la tesi abbracciata dal Collegio sembra, oggi, avere un testuale riscontro nel nuovo Testo unico in materia edilizia –D.P.R. n. 380/2001- (che non ha certo potenzialità applicativa e di risoluzione del caso in esame, ma che può rappresentare un valido ausilio interpretativo, specie ove “codifica” un orientamento giurisprudenziale pregresso): l’art. 3, in materia di definizione degli interventi edilizi, assoggetta a permesso di costruire –ascrivendole al genus delle nuove costruzioni- <<la realizzazione di infrastrutture e di impianti, anche per pubblici servizi, che comporti la trasformazione in via permanente di suolo inedificato>> (lett. e.3) e <<la realizzazione di depositi di merci o di materiali, la realizzazione di impianti per attività produttive all'aperto ove comportino l'esecuzione di lavori cui consegua la trasformazione permanente del suolo inedificato>> (e.7); si tratta, come è facile rilevare, di interventi privi di connotazione strettamente edilizia e, nondimeno, assoggettati a titolo abilitativo.

2. Il Collegio ritiene prioritario valutare e decidere se, in ordine all’intervento realizzato dall’appellante e per la sanatoria del quale è causa, fosse necessario il rilascio di titolo concessorio, come ritiene il Comune appellato.
Deve essere preliminarmente osservato che, secondo la disciplina normativa (articolo 1 -Trasformazione urbanistica del territorio e concessione di edificare– L. n. 10/1977; l’articolo in esame è stato abrogato dall'art. 136, comma 1 e 2, d.p.r. 06.06.2001, n. 380, a decorrere dal 30.06.2003, ai sensi dell'art. 3, d.l. 20.06.2002, n. 122, conv., con modificazioni, in l. 01.08.2002, n. 185) <<Ogni attività comportante trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio comunale partecipa agli oneri ad essa relativi e la esecuzione delle opere è subordinata a concessione da parte del sindaco, ai sensi della presente legge>>.
L’interpretazione del dato normativo richiamato non è stata affatto pacifica.
Invero, la giurisprudenza e la dottrina hanno elaborato due indirizzi ermeneutici: secondo il primo, andrebbero assoggettati a titolo abilitativo solo gli interventi di portata -simultaneamente– urbanistica ed edilizia. Invero, osservano i fautori della tesi in esame, l’uso congiunto delle due espressioni (urbanistica ed edilizia) nel citato articolo escluderebbe l’assoggettamento al previo rilascio del titolo degli interventi che, pur non mancando di impatto urbanistico, siano privi di consistenza materiale di opere edilizie.
Secondo l’opposto indirizzo, l’art. 1 l. 28.01.1977 n. 10 sulla edificabilità dei suoli, che pone la regola della soggezione a concessione di ogni attività comportante trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, non comprende le sole attività di edificazione, ma tutte quelle consistenti in una modificazione dello stato materiale e della conformazione del suolo per adattarlo ad un impiego diverso da quello che gli è proprio in relazione alla sua condizione naturale ed alla sua qualificazione giuridica (cfr.: Cons. Stato, sez. V, 31/01/2001, n. 343; Cons. Stato, sez. V, 20/12/1999, n. 2125; Cons. Stato, sez. V, 01/03/1993, n. 319; tale orientamento è condiviso anche dalla giurisprudenza ordinaria: cfr. Cass. pen., 14/10/1988; Cass. pen., sez. III, 24/10/1997, n. 10709; Cass. pen., sez. VI, 24/07/1997, n. 8520).
La giurisprudenza favorevole a tale tesi ha aggiunto che l’art. 1 l. 28.01.1977 n. 10 impone al soggetto attuatore di munirsi di concessione edilizia per ogni attività che comporti la trasformazione del territorio attraverso l'esecuzione di opere comunque attinenti agli aspetti urbanistici ed edilizi, ove il mutamento e l'alterazione abbiano un qualche rilievo ambientale ed estetico, o solo funzionale (cfr. la recente Cons. Stato, sez. VI, 26/09/2003, n. 5502).
Pertanto, è soggetto a concessione edilizia ogni intervento sul territorio, preordinato alla perdurante modificazione dello stato dei luoghi con materiale posto sul suolo, pur in assenza di opere in muratura (Cons. Stato, sez. V, 06/04/1998, n. 415; cfr. altresì: <<la concessione edilizia è richiesta sia quando vi sia la realizzazione di opere murarie, sia quando si intenda realizzare un intervento sul territorio che, pur non richiedendo opere in muratura, comporti la perdurante modifica dello stato dei luoghi con materiale posto sul suolo>> Cons. Stato, sez. V, 14/12/1994, n. 1486; Cons. Stato, sez. VI, 27/01/2003, n. 419).
E’ ben vero che, secondo un precedente citato dall’appellante, questo Consesso ha ritenuto che non integra l'ipotesi di trasformazione urbanisticamente rilevante del territorio, soggetta a concessione ex art. 1 l. n. 10 del 1977, l'intervento materialmente consistente nella mera ripulitura di un terreno parzialmente erboso, con ripristino di una recinzione preesistente e spargimento di ghiaia, a nulla rilevando, sotto il profilo urbanistico, la conseguente utilizzazione del suolo così ripulito e riordinato all'esposizione di autovetture a scopi commerciali (Cons. Stato, sez. IV, 08/03/1983, n. 103).
Tuttavia, alla luce dell’orientamento condiviso dal Collegio, deve ritenersi che lo spargimento di ghiaia su un'area che ne era in precedenza priva richiede la concessione edilizia allorché appaia preordinata alla modifica della precedente destinazione d'uso (circostanza questa che deve fondarsi su fatti positivamente accertati). Tale indirizzo, peraltro, risulta corroborato dalla risalente interpretazione del Giudice penale, secondo cui deve ritenersi soggetto a concessione lo spianamento di un terreno agricolo ed il riporto di sabbia e ghiaia, al fine di ottenerne un piazzale per deposito e smistamento di autocarri e containers (Cass. pen., 09/06/1982; cfr. altresì <<è legittimo il provvedimento del sindaco che ordini la riduzione in pristino di un'area destinata, in base al piano regolatore, a verde pubblico, che sia stata coperta di ghiaia, per essere destinata a parcheggio>> Cons. Stato, sez. II, 15/02/1989, n. 18/89).
Per esigenze di completezza si osserva che la tesi abbracciata dal Collegio sembra, oggi, avere un testuale riscontro nel nuovo Testo unico in materia edilizia –D.P.R. n. 380/2001- (che non ha certo potenzialità applicativa e di risoluzione del caso in esame, ma che può rappresentare un valido ausilio interpretativo, specie ove “codifica” un orientamento giurisprudenziale pregresso): l’art. 3, in materia di definizione degli interventi edilizi, assoggetta a permesso di costruire –ascrivendole al genus delle nuove costruzioni- <<la realizzazione di infrastrutture e di impianti, anche per pubblici servizi, che comporti la trasformazione in via permanente di suolo inedificato>> (lett. e.3) e <<la realizzazione di depositi di merci o di materiali, la realizzazione di impianti per attività produttive all'aperto ove comportino l'esecuzione di lavori cui consegua la trasformazione permanente del suolo inedificato>> (e.7); si tratta, come è facile rilevare, di interventi privi di connotazione strettamente edilizia e, nondimeno, assoggettati a titolo abilitativo.
Significativa è, poi, la previsione dell’art. 10, comma 2, secondo cui <<Le regioni stabiliscono con legge quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili o di loro parti, sono subordinati a permesso di costruire o a denuncia di inizio attività>>.
L’intervento per cui è causa, alla luce delle superiori considerazioni, era assoggettato a rilascio di titolo concessorio
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 11.11.2004 n. 7325 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La possibilità di realizzare parcheggi da destinare a pertinenze delle singole unità immobiliari anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti, consentita dall'art. 9 l. n. 122 del 1989 (c.d. Legge Tognoli) costituisce disposizione di carattere eccezionale da interpretarsi nel suo significato strettamente letterale ed in considerazione delle finalità della legge nel cui contesto risulta inserita.
Pertanto tale articolo è applicabile alla costruzione di spazi parcheggio nelle sole aree urbane, mentre la realizzazione di parcheggi in aree extraurbane resta soggetta alle ordinarie prescrizioni urbanistiche ed edilizie necessitando della normale concessione edilizia.

3. E’ inconferente il richiamo operato dall’odierno appellante alle previsioni racchiuse nella L. n. 122/1989.
Invero, la possibilità di realizzare parcheggi da destinare a pertinenze delle singole unità immobiliari anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti, consentita dall'art. 9 l. n. 122 del 1989 (c.d. Legge Tognoli), costituisce disposizione di carattere eccezionale da interpretarsi nel suo significato strettamente letterale ed in considerazione delle finalità della legge nel cui contesto risulta inserita.
Pertanto tale articolo è applicabile alla costruzione di spazi parcheggio nelle sole aree urbane, mentre la realizzazione di parcheggi in aree extraurbane resta soggetta alle ordinarie prescrizioni urbanistiche ed edilizie necessitando della normale concessione edilizia
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 11.11.2004 n. 7325 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai sensi dell'art. 7 l. 25.03.1982 n. 94 un'opera che abbia natura pertinenziale è soggetta all'autorizzazione gratuita anziché alla concessione edilizia; ma senza deroga alla regola generale che impone la conformità delle iniziative edilizie a quanto stabilito dagli strumenti urbanistici, limitando, al contrario, l'art. 7 cit. il rilascio dell'autorizzazione alle opere <<conformi alle prescrizioni degli strumenti urbanistici vigenti.
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- La nozione di pertinenza dettata dal diritto civile è più ampia di quella che regola la materia urbanistica, onde beni che, secondo quella normativa, assumono senz'altro natura pertinenziale tali invece non sono ai fini dell'applicazione delle regole ch e governano l'attività edilizia.
- Considerata la nozione di pertinenza urbanistica, quali possono considerarsi solo manufatti di dimensioni modeste e ridotte rispetto alla casa a cui sono annessi, non può essere permessa la costruzione di opere di rilevante importanza soltanto perché destinate al servizio ed all'ornamento del bene principale; ed è perciò necessaria la concessione edilizia per l'esecuzione di opere che da un punto di vista edilizio ed urbanistico sono da considerarsi come ulteriori rispetto al bene principale, poiché occupano aree e volumi diversi.
- Soggiace a concessione edilizia la realizzazione di un'opera di rilevanti dimensioni, che modifica l'assetto del territorio e che occupa aree e volumi diversi rispetto alla "res principalis", indipendentemente dal vincolo di servizio o d'ornamento nei riguardi di essa.

4. Del pari inconferente è il richiamo operato dall’appellante alla normativa ex Legge n. 94/1982 (conversione in legge del D.L. n. 9/1982) posto che ai sensi dell'art. 7 l. 25.03.1982 n. 94 un'opera che abbia natura pertinenziale è soggetta all'autorizzazione gratuita anziché alla concessione edilizia; ma senza deroga alla regola generale che impone la conformità delle iniziative edilizie a quanto stabilito dagli strumenti urbanistici, limitando, al contrario, l'art. 7 cit. il rilascio dell'autorizzazione alle opere <<conformi alle prescrizioni degli strumenti urbanistici vigenti>> (Cons. Stato, sez. V, 23/06/1997, n. 704; Cons. Stato, sez. II, 08/05/1996, n. 3029).
In disparte il rilievo della nozione più ristretta di pertinenza (rispetto a quella accolta dal diritto civile) propria del diritto amministrativo che non si attaglia all’intervento per cui è causa (<<La nozione di pertinenza dettata dal diritto civile è più ampia di quella che regola la materia urbanistica, onde beni che, secondo quella normativa, assumono senz'altro natura pertinenziale tali invece non sono ai fini dell'applicazione delle regole ch e governano l'attività edilizia>> Cons. Stato, sez. V, 18/04/2001, n. 2325; <<Considerata la nozione di pertinenza urbanistica, quali possono considerarsi solo manufatti di dimensioni modeste e ridotte rispetto alla casa a cui sono annessi, non può essere permessa la costruzione di opere di rilevante importanza soltanto perché destinate al servizio ed all'ornamento del bene principale; ed è perciò necessaria la concessione edilizia per l'esecuzione di opere che da un punto di vista edilizio ed urbanistico sono da considerarsi come ulteriori rispetto al bene principale, poiché occupano aree e volumi diversi>> Cons. Stato, sez. V, 30/11/2000, n. 6358; cfr. altresì Cons. Stato, sez. V, 30/10/2000, n. 5828; <<Soggiace a concessione edilizia la realizzazione di un'opera di rilevanti dimensioni, che modifica l'assetto del territorio e che occupa aree e volumi diversi rispetto alla "res principalis", indipendentemente dal vincolo di servizio o d'ornamento nei riguardi di essa>> Cons. Stato, sez. V, 23/03/2000, n. 1600; Cons. Stato, sez. V, 06/09/1999, n. 1015; Cons. Stato, sez. II, 12/05/1999, n. 729; Cons. Stato, sez. II, 21/02/1996, n. 1895)
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 11.11.2004 n. 7325 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza ammette la riconducibilità alla qualifica di ristrutturazione degli interventi che comportino incrementi di superficie purché si tratti di incrementi di lieve entità: fra gli interventi di ristrutturazione edilizia, previsti dall'art. 31 lett. d) l. 05.08.1978 n. 457, rientrano quelli rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto –o in parte- diverso dal precedente, ma, trattandosi di interventi di recupero, resta fermo che il nuovo edificio deve presentare nel suo complesso le caratteristiche fondamentali di quello abbattuto.
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L'interpretazione della norma giuridica contenuta in una circolare in nessun caso vincola il giudice.

6. Né può essere condivisa la tesi secondo cui trattasi di ristrutturazione edilizia ex art. 31, lett. d), l. n. 457/1978; invero, la giurisprudenza ammette la riconducibilità alla qualifica di ristrutturazione degli interventi che comportino incrementi di superficie –come correttamente rileva l’appellante che cita dei precedenti giurisprudenziali– purché si tratti di incrementi di lieve entità: fra gli interventi di ristrutturazione edilizia, previsti dall'art. 31 lett. d) l. 05.08.1978 n. 457, rientrano quelli rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto –o in parte- diverso dal precedente, ma, trattandosi di interventi di recupero, resta fermo che il nuovo edificio deve presentare nel suo complesso le caratteristiche fondamentali di quello abbattuto (cfr. Cons. Stato, sez. V, 02/12/1998, n. 1714), fra le quali la superficie.
7. Inoltre, il Collegio ritiene di non poter condividere il pensiero espresso nelle circolari citate dall’appellante, per le circostanze sopra riportate (si ricordi, a tal proposito, che l'interpretazione della norma giuridica contenuta nella circolare in nessun caso vincola il giudice: Cons. Stato, Sez. IV, 14/09/1988, n. 745)
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 11.11.2004 n. 7325 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’art. 9 legge n. 122/1989, introducendo una deroga alla disciplina urbanistica, deve considerarsi norma di carattere eccezionale e come tale deve essere interpretata con specifico riferimento alla finalità perseguita dalla legge citata (risoluzione dei problemi relativi ai parcheggi nelle aree urbane)..
Conseguentemente l’operatività della stessa non può ritenersi estesa anche alle zone agricole.

... considerato che l’art. 9 legge n. 122/1989, introducendo una deroga alla disciplina urbanistica, deve considerarsi norma di carattere eccezionale e come tale deve essere interpretata con specifico riferimento alla finalità perseguita dalla legge citata (risoluzione dei problemi relativi ai parcheggi nelle aree urbane); conseguentemente l’operatività della stessa non può ritenersi estesa anche alle zone agricole (TAR Veneto, Sez. II, sentenza
06.09.2002 n. 5229 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’art. 9 legge n. 122/1989, introducendo una deroga alla disciplina urbanistica, deve considerarsi norma di carattere eccezionale e come tale deve essere interpretata con specifico riferimento alla finalità perseguita dalla legge citata (risoluzione dei problemi relativi ai parcheggi nelle aree urbane)..
Conseguentemente l’operatività della stessa non può ritenersi estesa anche alle zone agricole.

... considerato che l’art. 9 legge n. 122/1989, introducendo una deroga alla disciplina urbanistica, deve considerarsi norma di carattere eccezionale e come tale deve essere interpretata con specifico riferimento alla finalità perseguita dalla legge citata (risoluzione dei problemi relativi ai parcheggi nelle aree urbane); conseguentemente l’operatività della stessa non può ritenersi estesa anche alle zone agricole (TAR Veneto, Sez. II, sentenza
06.09.2002 n. 5229 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 05.08.2015

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Gli interventi di ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore al 20%, di edifici unifamiliari sono sempre e comunque gratuiti sic et simpliciter per mera disposizione normativa??
NO!!
     L'art. 17, comma 3, del DPR 380/2001 così recita:


Art. 17 (L) - Riduzione o esonero dal contributo di costruzione
.

1. Nei casi di edilizia abitativa convenzionata, relativa anche ad edifici esistenti, il contributo afferente al permesso di costruire è ridotto alla sola quota degli oneri di urbanizzazione qualora il titolare del permesso si impegni, a mezzo di una convenzione con il comune, ad applicare prezzi di vendita e canoni di locazione determinati ai sensi della convenzione-tipo prevista dall’articolo 18.

2. Il contributo per la realizzazione della prima abitazione è pari a quanto stabilito per la corrispondente edilizia residenziale pubblica, purché sussistano i requisiti indicati dalla normativa di settore.

3. Il contributo di costruzione non è dovuto:
   a) per gli interventi da realizzare nelle zone agricole, ivi comprese le residenze, in funzione della conduzione del fondo e delle esigenze dell’imprenditore agricolo a titolo principale, ai sensi dell’articolo 12 della legge 9 maggio 1975, n. 153;
(l'art. 12 della legge n. 153 del 1975 è stato abrogato dall'art. 1, comma 5, d.lgs. n. 99 del 2004; si vedano ora l'art. 1, comma 1 del d.lgs. n. 99 del 2004 e l'articolo 2135 del codice civile)
   b) per gli interventi di ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore al 20%, di edifici unifamiliari;
   c) per gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti nonché per le opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici;
   d) per gli interventi da realizzare in attuazione di norme o di provvedimenti emanati a seguito di pubbliche calamità;
   e) per i nuovi impianti, lavori, opere, modifiche, installazioni, relativi alle fonti rinnovabili di energia, alla conservazione, al risparmio e all'uso razionale dell'energia, nel rispetto delle norme urbanistiche, di tutela artistico-storica e ambientale.
 

     Qui sotto alcune (condivisibili) pronunce circa la ratio della norma de qua:

EDILIZIA PRIVATA: Non può reputarsi "edificio unifamiliare" una casa di abitazione avente una volumetria complessiva di mc. 1.338,78, distribuiti su tre livelli, in categoria A/7, 13 vani.
L’art. 17, comma 3, lett. b), del d.P.R. n. 380/2001) prevede l’esenzione dal contributo di costruzione “per gli interventi di ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore al 20%, di edifici unifamiliari”.
L'esenzione in esame si giustifica come aiuto alla famiglia che, banalmente, necessiti di ulteriore spazio per la propria decorosa sistemazione abitativa.
Accedendo alla doverosa interpretazione della norma secundum rationem legis occorre inferire l’estraneità della fattispecie in esame all’alveo applicativo della norma invocata, proprio in considerazione delle rilevate caratteristiche costruttive e dimensionali dell’edificio ancorché unifamiliare.

... per l'annullamento:
a - del provvedimento di cui alla nota prot. n. 34045 del 04/03/2015, successivamente conosciuto, con il quale il Direttore del Settore Trasformazioni Edilizie - Sportello Unico dell'Edilizia - Ufficio Permessi di Costruire del comune di Salerno ha disposto che "per il rilascio del titolo edilizio di autorizzazione dell'intervento di ampliamento volumetrico, richiesto ai sensi del Piano Casa… è dovuto il contributo di costruzione di cui all'art. 16 D.P.R. 380/2001…" e, per l’effetto, ha negato la richiesta di esenzione invocata dal ricorrente ai sensi dell’art. 17 – comma 3, lett. b), del D.P.R. n. 380/2001;
b – di tutti gli atti presupposti, collegati, connessi e consequenziali ivi compresi, ove e per quanto occorra ed ove lesivi, il parere dirigenziale n. 246/2012 e le delibere con le quali il Comune di Salerno ha determinato i criteri per il pagamento del contributo di costruzione
nonché per la declaratoria della non debenza della somma richiesta dalla P.A. a titolo di contributo di costruzione ricorrendo l’ipotesi di esenzione di cui all’art. 17 – comma 3 – lett. b), del D.P.R. n. 380/2001.
...
Con ricorso notificato in data 11.05.2015 e ritualmente depositato il 20 maggio successivo, il sig. V.S. impugna il provvedimento, meglio distinto in epigrafe, con il quale il Comune di Salerno ha disposto che è dovuto il pagamento del contributo di costruzione di cui all’art. 16 del D.P.R. n. 380/2001 ai fini del rilascio del titolo edilizio di autorizzazione all’ampliamento volumetrico ai sensi del Piano Casa, così negando la richiesta di esenzione invocata dal ricorrente in applicazione dell’art. 17, comma 3, lett. b), del d.P.R. n. 380/2001.
Avverso tale atto, il ricorrente deduce, sotto distinti e concorrenti profili, i vizi della violazione di legge e dell’eccesso di potere, in quanto, come da orientamento di questa Tribunale, ricorrerebbero i presupposti per l’invocata esenzione quando, come nel caso di specie, si tratta di ampliamento non superiore al 20% di un edificio unifamiliare. Sarebbe stato altresì omesso il preavviso di diniego.
Si costituisce il Comune di Salerno al fine di resistere.
Alla camera di consiglio del 04.06.2015, rese edotte le parti, il ricorso è trattenuto in decisione semplificata, sussistendone i presupposti di legge.
Il ricorso è infondato.
La questione agitata in ricorso investe l’ambito applicativo della norma invocata dall’istante (dell’art. 17, comma 3, lett. b), del d.P.R. n. 380/2001), laddove prevede l’esenzione dal contributo di costruzione “per gli interventi di ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore al 20%, di edifici unifamiliari”.
Il diniego opposto dall’Ente civico contiene la seguente testuale motivazione: “la partecipazione del privato al costo delle opere di urbanizzazione è dovuta allorquando l’intervento determini un incremento del peso insediativo con un’oggettiva rivalutazione dell’immobile, sicché l’onerosità del permesso di costruire è funzionale a sopportare il carico socio-economico che la realizzazione comporta sotto il profilo urbanistico; la ratio che ispira la specifica esenzione, di cui all’art. 17 del D.P.R. 380/2001 ss.mm.ii., è di derivazione sociale e pertanto la nozione di edificio unifamiliare assunta dalla norma, non è nella sua accezione strutturale, ma socio-economica e coincide con la piccola proprietà immobiliare meritevole di un trattamento differenziato rispetto alle altre tipologia edilizie”.
Si controverte pertanto della corretta interpretazione della norma su citata, dovendosi decidere se l’intervento progettato dal ricorrente rientri o meno nel suo alveo applicativo, avuto riguardo alla particolare consistenza del fabbricato di sua proprietà, avendo una volumetria complessiva attuale di mc. 1.338,78, distribuiti su tre livelli, in categoria A/7, 13 vani.
A tal riguardo soccorrono i principi sanciti da recente giurisprudenza (TAR Lombardia-Brescia Sez. I, Sent., 21/11/2014, n. 1280), secondo cui “il contributo di cui si ragiona è un tributo propriamente detto perché ha natura di prestazione patrimoniale imposta per ragioni di pubblica utilità - così fra le molte C.d.S. sez. V 13.03.2014 n. 2438 e, nella giurisprudenza della Sezione, sez. I 03.05.2014 n. 464; di conseguenza, le ipotesi in cui esso non è dovuto hanno natura di esenzioni tributarie, di carattere eccezionale, e quindi insuscettibile di interpretazioni estensive ed analogiche, in quanto eccezioni al principio costituzionale di capacità contributiva, come ritenuto da costante giurisprudenza della Corte costituzionale, da ultimo 20.04.2012 n. 103, e nella fattispecie in esame in modo specifico da TAR Campania-Napoli sez. VIII 09.05.2012 n. 2136.
4. Ciò posto, si deve osservare che, sempre secondo la giurisprudenza -la decisione del TAR Napoli citata, nonché TAR Campania-Salerno, sez. I, 08.01.2013 n. 25 e TAR Marche 10.05.2012 n. 310- l'esenzione in esame si giustifica come aiuto alla famiglia che, banalmente, necessiti di ulteriore spazio per la propria decorosa sistemazione abitativa…
”.
Accedendo alla doverosa interpretazione della norma secundum rationem legis occorre inferire l’estraneità della fattispecie in esame all’alveo applicativo della norma invocata, proprio in considerazione delle rilevate caratteristiche costruttive e dimensionali dell’edificio ancorché unifamiliare
(TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 22.06.2015 n. 1416 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAE’ vero che l’art. 17 d.P.R. cit. prescrive, al comma 3, che “il contributo di costruzione non è dovuto: (…) b) per gli interventi di ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore al 20%, di edifici unifamiliari”.
La giurisprudenza tuttavia, nell’interpretare la suddetta disposizione, ha condivisibilmente evidenziato che, nell’ipotesi di immobile destinato allo svolgimento di attività produttive, “non ricorre affatto la ratio della norma che dispone l'esonero dal relativo pagamento; beneficio che è rivolto solo a quelle situazioni in cui l'intervento edilizio non è destinato a fini di lucro, ma esclusivamente a migliorare la funzionalità e l'usabilità dell'immobile ad esclusivo vantaggio della famiglia che ci vive e delle relative esigenze abitative”.
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Per quanto concerne in particolare gli oneri di urbanizzazione, che vengono direttamente in rilievo nella presente controversia, la posizione interpretativa maggiormente seguita in giurisprudenza è quella secondo cui la relativa quota costituirebbe un corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del costruttore a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione ai benefici che la nuova costruzione ne ritrae, derivandone che il fatto da cui in concreto nasce l'obbligo di corrispondere gli "oneri" anzidetti è l'aumento del carico urbanistico.
Ebbene, è vero che l'incremento del peso insediativo può conseguire anche ad interventi di ristrutturazione senza incrementi di volumi e di superficie e senza cambiamenti della originaria destinazione d’uso: è compito dell’Amministrazione tuttavia, quale presupposto per l’esigibilità del contributo, verificare attentamente l’incidenza incrementativa delle suddette opere sul carico urbanistico preesistente e dare congrua giustificazione delle conclusioni raggiunte.
Deve invece rilevarsi che non è meritevole di accoglimento la deduzione attorea, incentrata sulla gratuità assoluta ed a priori del suddetto intervento edilizio.
L’art. 22 d.P.R. n. 380/2001 infatti, dopo aver previsto che, “in alternativa al permesso di costruire, possono essere realizzati mediante denuncia di inizio attività: a) gli interventi di ristrutturazione di cui all'articolo 10, comma 1, lettera c)” (cui è riconducibile quello oggetto di controversia), ha aggiunto (comma 5) che “gli interventi di cui al comma 3 sono soggetti al contributo di costruzione ai sensi dell'articolo 16” (il quale stabilisce, a sua volta, che “il rilascio del permesso di costruire comporta la corresponsione di un contributo commisurato all'incidenza degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di costruzione, secondo le modalità indicate nel presente articolo”).
E’ vero che l’art. 17 d.P.R. cit. prescrive, al comma 3, che “il contributo di costruzione non è dovuto: (…) b) per gli interventi di ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore al 20%, di edifici unifamiliari”: la giurisprudenza tuttavia, nell’interpretare la suddetta disposizione, ha condivisibilmente evidenziato (cfr. TAR Marche, Sez. I, 10.05.2012, n. 310) che, nell’ipotesi di immobile destinato allo svolgimento di attività produttive, “non ricorre affatto la ratio della norma che dispone l'esonero dal relativo pagamento; beneficio che è rivolto solo a quelle situazioni in cui l'intervento edilizio non è destinato a fini di lucro, ma esclusivamente a migliorare la funzionalità e l'usabilità dell'immobile ad esclusivo vantaggio della famiglia che ci vive e delle relative esigenze abitative”.
Pur con tali precisazioni, non vi è dubbio che la doverosità in astratto del contributo di costruzione non valeva, tuttavia, ad esimere l'Amministrazione dall'obbligo di verificare, nel caso concreto, la sussistenza dei presupposti per poterlo esigere, avuto riguardo alla natura e alla funzione tipica assolta da ciascuna delle sue due componenti.
Per quanto concerne in particolare gli oneri di urbanizzazione, che vengono direttamente in rilievo nella presente controversia, la posizione interpretativa maggiormente seguita in giurisprudenza è quella secondo cui la relativa quota costituirebbe un corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del costruttore a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione ai benefici che la nuova costruzione ne ritrae, derivandone che il fatto da cui in concreto nasce l'obbligo di corrispondere gli "oneri" anzidetti è l'aumento del carico urbanistico.
Ebbene, è vero che l'incremento del peso insediativo può conseguire anche ad interventi di ristrutturazione senza incrementi di volumi e di superficie e senza cambiamenti della originaria destinazione d’uso: è compito dell’Amministrazione tuttavia, quale presupposto per l’esigibilità del contributo, verificare attentamente l’incidenza incrementativa delle suddette opere sul carico urbanistico preesistente e dare congrua giustificazione delle conclusioni raggiunte (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 08.01.2013 n. 25 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATACirca il regime concessorio gratuito di cui all’art. 17, comma 3, lett. b), del DPR n. 380/2001, è la realtà effettiva che deve prevalere su quella cartacea attraverso cui si vorrebbe dimostrare l’esistenza dei presupposti per la gratuità dell’intervento: presupposti che non solo devono sussistere al momento di rilascio del titolo edilizio ma devono permanere anche dopo, contrariamente a quanto accaduto nel caso specifico, in cui l’avvio dell’attività produttiva di Bad & Breakfast avveniva addirittura prima della fine dei lavori.
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Anche se nell’edificio sono svolte attività produttive compatibili con la residenza, non ricorre affatto la ratio della norma che dispone l’esonero dal relativo pagamento; beneficio che è rivolto solo a quelle situazioni in cui l’intervento edilizio non è destinato a fini di lucro, ma esclusivamente a migliorare la funzionalità e l’usabilità dell’immobile ad esclusivo vantaggio della famiglia che ci vive e delle relative esigenze abitative.

1. La ricorrente propone ricorso per ottenere la restituzione del contributo concessorio a suo tempo versato per il rilascio del permesso di costruire n. 02/2003 del 09.08.2003, poiché considerato non dovuto in base all’art. 17, comma 3, lett. b), del DPR n. 380/2001, trattandosi di intervento di ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore al 20%, di edificio unifamiliare.
...
3. Dai fatti sopra ricordati pare evidente, a giudizio del Collegio, che l’edificio in questione non costituisce (né mai ha costituito dopo l’acquisto da parte della ricorrente) una semplice abitazione unifamiliare, ma presenta funzionalità miste, in parte residenziali e in parte produttive (queste ultime fonti di lucro e di aumento di carico urbanistico rispetto all’edificio utilizzato per esclusive finalità residenziali di un solo nucleo familiare).
Risulta quindi irrilevante l’istanza del 03.07.2003 per la modifica del progetto assentito (al fine di ripristinare la destinazione economica originaria, cioè casa unifamiliare di civile abitazione), essendo palese che tale richiesta non corrispondeva all’effettiva realtà delle cose, ma aveva quale unico scopo quello di beneficiare del regime concessorio gratuito di cui all’art. 17, comma 3, lett. b), del DPR n. 380/2001.
La realtà effettiva deve quindi prevalere su quella cartacea attraverso cui si vorrebbe dimostrare l’esistenza dei presupposti per la gratuità dell’intervento: presupposti che non solo devono sussistere al momento di rilascio del titolo edilizio ma devono permanere anche dopo, contrariamente a quanto accaduto nel caso specifico, in cui l’avvio dell’attività produttiva di Bad & Breakfast avveniva addirittura prima della fine dei lavori.
Ciò dimostra che tali lavori di recupero non erano certamente rivolti a ripristinare la destinazione economica originaria.
Correttamente, pertanto, il Comune ha preteso il pagamento del contributo, poiché anche se nell’edificio sono svolte attività produttive compatibili con la residenza, non ricorre affatto la ratio della norma che dispone l’esonero dal relativo pagamento; beneficio che è rivolto solo a quelle situazioni in cui l’intervento edilizio non è destinato a fini di lucro, ma esclusivamente a migliorare la funzionalità e l’usabilità dell’immobile ad esclusivo vantaggio della famiglia che ci vive e delle relative esigenze abitative.
Al contrario, la destinazione mista (abitativa e produttiva) persegue anche scopi lucrativi e determina un maggiore carico urbanistico.
4. Il ricorso va quindi respinto (TAR Marche, sentenza 10.05.2012 n. 310 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 9, lettera d), della legge n. 10 del 1977, ha fatto generico riferimento al termine di “edifici familiari”, sicché deve ritenersi che sia consentita alla discrezionalità delle singole Amministrazioni comunali di adottare determinazioni volte a precisare e circoscrivere il termine in questione.
Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica proposto dal sig. A.T. per l ’annullamento del provvedimento del Comune di Mantova n. 8841/1999 del 25.10.1999, concernente la reiezione della richiesta di concessione edilizia gratuita.
...
Premesso e considerato in data 28.06.1999, il sig. A.T. presentava al Comune di Mantova richiesta di concessione edilizia gratuita ex art. 9, lett. d), n. 10/1977 per la ristrutturazione di fabbricato di civile abitazione.
Con provvedimento del 25.10.1999, il Dirigente dello SUIC (sportello unico per le imprese e i cittadini) respingeva l’istanza per la considerazione che “l’edificio non può essere considerato unifamiliare….perché supera ad intervento ultimato il limite fissato dalla D.C.C. n. 186/94 di 200 mq. di superficie lorda”.
Con ricorso notificato il 26.02.2000, il sig. T. ha proposto ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, chiedendo l’annullamento del summenzionato provvedimento, nonché della deliberazione consiliare del 18.11.1994 n. 186.
A suo avviso, con la l’art. 9, lett. d), della legge n. 10 del 1977, il legislatore ha esteso il beneficio della concessione gratuita ad ipotesi d’ampliamento di un edificio residenziale preesistente condizionando il beneficio al concorso di due condizioni: a) che il fabbricato sia tipologicamente destinato ad accogliere un unico nucleo familiare; b) che l’ampliamento non superi il 20%. Al di fuori di tali presupposti, non vi sarebbero limiti di sorta all’edificio unifamiliare.
L’Amministrazione ha controdedotto ai motivi di censura, concludendo per la reiezione del gravame.
Il ricorso è infondato.
Nella fattispecie in esame si è trattato di opere edilizie relative ad una corte rurale, che, all’epoca dei fatti, erano disciplinate dall’art. 38 delle N.T.U. del piano regolatore generale del Comune di Mantova.
In particolare, i commi 3 e 5 del predetto art. 38, richiamati dal provvedimento impugnato, stabilivano che i proprietari e i titolari di diritti reali, seppure non imprenditori agricoli, di corti agricole dismesse alla data del 31.12.1993 potessero eseguire opere di ristrutturazione edilizia e cambio di destinazione d’uso nonché recuperare i sottotetti per fini abitativi, ai sensi della L.R. Lombardia n. 15/1996 mediante concessione edilizia onerosa. A parte ciò v’è da considerare che l’art. 9, lettera d), della legge n. 10 del 1977, ha fatto generico riferimento al termine di “edifici familiari”, sicché deve ritenersi che sia consentita alla discrezionalità delle singole Amministrazioni comunali di adottare determinazioni volte a precisare e circoscrivere il termine in questione.
In conclusione, per le suesposte considerazioni, si esprime l’avviso che il ricorso debba essere respinto (Consiglio di Stato, Sez. III, parere 03.03.2009 n. 405 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

     Ed altre pronunce, un poco datate, che non paiono essere in linea -oggi- con l'evolversi della giurisprudenza sull'argomento:

EDILIZIA PRIVATAL'art. 9, lett. d), della Legge 28.01.1977 n. 10, all'epoca vigente, stabiliva che il contributo per spese di urbanizzazione e costo di costruzione non era dovuto: “per gli interventi di restauro, di risanamento conservativo, di ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore al 20 per cento, di edifici unifamiliari".
Come ha già osservato la giurisprudenza amministrativa condivisa da questo Collegio, dalla disposizione in esame si possono trarre i seguenti principi:
- l'esenzione riguarda anche gli interventi di ristrutturazione, con la conseguente irrilevanza dell'eventuale modifica della destinazione d'uso di alcuni locali, se resta invariata quella complessiva dell'edificio;
- si deve trattare di un edificio "unifamiliare" e, in mancanza di ulteriori specificazioni limitative, tale è quello strutturalmente destinato all'uso "abitativo" di un "solo" nucleo familiare, indipendentemente dalle dimensioni o meno dell'edificio stesso;
- l'intervento non deve comportare ampliamento del volume complessivo dell'edificio esistente in misura superiore al 20%.

I ricorrenti, a seguito dell’approvazione di un piano di recupero, ottenevano la concessione edilizia n. 6453 prot. 957 del 26.02.1991 (e successiva concessione edilizia n. 6453 prot. 1315 del 27.07.1993 relativa a varianti al progetto originario) per il recupero di un edificio di civile abitazione.
L’art. 4 della convenzione attuativa del predetto piano di recupero, conteneva l’impegno dei proprietari a versare gli oneri di urbanizzazione e il contributo sul costo di costruzione determinato sulla base di un computo metrico estimativo.
Le predette concessioni venivano quindi rilasciate a titolo oneroso, con richiesta del pagamento di Lire 12.820.584 relativamente al contributo afferente al costo di costruzione; somma che risulta poi essere stata versata dai ricorrenti a favore dell’Amministrazione comunale.
Gli stessi ricorrenti propongono ora ricorso chiedendo l’annullamento, in parte qua, dei provvedimenti sopra indicati e la conseguente condanna del Comune alla restituzione della somma corrisposta a titolo di contributo concessorio.
Al riguardo deducono, con una prima censura, che detto contributo non avrebbe dovuto essere corrisposto in applicazione dell’art. 9, lett. d), della Legge n. 10/1977, trattandosi di intervento finalizzato al recupero di un edificio unifamiliare. Di conseguenza deve considerarsi illegittima la pretesa economica dell’Amministrazione, come altrettanto illegittimo deve considerarsi l’art. 4 della citata convenzione. In punto di fatto evidenziano che l’edificio ha mantenuto, anche dopo la ristrutturazione, la configurazione unifamiliare, senza aumenti di volume e di superfici rispetto alla struttura esistente.
...
2. Nel merito il primo profilo di doglianza è fondato.
In punto di diritto va osservato che l'art. 9, lett. d), della Legge 28.01.1977 n. 10, all'epoca vigente, stabiliva che il contributo per spese di urbanizzazione e costo di costruzione non era dovuto: “per gli interventi di restauro, di risanamento conservativo, di ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore al 20 per cento, di edifici unifamiliari".
Come ha già osservato la giurisprudenza amministrativa condivisa da questo Collegio (cfr. TAR Marche, 31.01.2007 n. 8), dalla disposizione in esame si possono trarre i seguenti principi:
- l'esenzione riguarda anche gli interventi di ristrutturazione, con la conseguente irrilevanza dell'eventuale modifica della destinazione d'uso di alcuni locali, se resta invariata quella complessiva dell'edificio;
- si deve trattare di un edificio "unifamiliare" e, in mancanza di ulteriori specificazioni limitative, tale è quello strutturalmente destinato all'uso "abitativo" di un "solo" nucleo familiare, indipendentemente dalle dimensioni o meno dell'edificio stesso;
- l'intervento non deve comportare ampliamento del volume complessivo dell'edificio esistente in misura superiore al 20%.
Esaminando le tavole progettuali e di accatastamento versate in atti, emerge chiaramente che si tratta di un edificio unifamiliare. Tale configurazione è compatibile con la presenza di alcuni piccoli vani accessori tipici del casolare rurale nel periodo in cui detto edificio venne realizzato (porticato, latrina, porcile, stalla e stallino, letamaio e cantina).
Emerge, inoltre, che l’edificio non è stato oggetto di ampliamento, ma solo di recupero edilizio mediante ristrutturazione con l’eliminazione delle superfetazioni e con modifica della destinazione d’uso dei vani accessori (di natura agricolo/residenziale) non più necessari in relazione alle moderne esigenze abitative, pur mantenendo la destinazione monofamiliare secondo i tradizionali schemi tipologici delle abitazioni rurali.
Sussistono, dunque, tutti i presupposti indicati dal citato art. 9, lett. d), della Legge n. 10/1977 per il rilascio gratuito dei titoli edilizi oggetto di ricorso (
TAR Lombardia-Brescia, sentenza 25.02.2008 n. 151 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’esame della giurisprudenza in argomento fa ritenere che l’art. 9 della l. n. 10/1977, avendo introdotto in una certa serie di ipotesi la figura della concessione gratuita, rappresenti una deroga al principio generale dell’onerosità della concessione edilizia, tanto è vero che l’indicazione delle fattispecie di esonero dal versamento del contributo di concessione ha carattere tassativo. Pertanto, le predette fattispecie di esonero, inclusa quella ex art. 9, lett. d), cit., sono di stretta interpretazione.
Ne discende che è legittimo cercare di individuare e circoscrivere il contenuto della nozione di “edifici unifamiliari” ricorrendo, come ha fatto il Comune, a criteri estratti da altri complessi normativi, con l’unico limite di non stravolgere la portata della disciplina da applicare.
Nel caso di specie, al contrario di quanto sostenuto nel ricorso, nessun stravolgimento della portata dell’art. 9, lett. d), della l. n. 10/1977 si può ricavare dall’avere il predetto Comune fatto ricorso agli artt. 3 del D.M. n. 1444/1968 e 19 della l.r. n. 51/1975 (quest’ultimo, nella versione anteriore alle modifiche introdotte dall’art. 6 della l.r. n. 1/2001), definendo quali “edifici unifamiliari” quelli la cui volumetria non superi i 100 mc. per ciascun componente del nucleo familiare, individuato attraverso l’Anagrafe comunale.
In particolare, dalle norme citate si ricava che il valore medio, sulla cui base va computata la capacità insediativa, è di 100 mc. per abitante. Sembra, quindi, ragionevole l’utilizzo di siffatto criterio anche ai fini della definizione della nozione di “edifici unifamiliari”, per il cui ampliamento entro il 20% è prevista la gratuità della concessione edilizia: ciò, in quanto, come si è già detto, il principio è quello opposto, dell’onerosità della concessione stessa, inteso come dovere di contribuire agli oneri connessi alla trasformazione del territorio, per la realizzazione di nuovi insediamenti o l’ampliamento di quelli esistenti, con il conseguente consumo metrico e volumetrico.
Sul punto, del resto, la giurisprudenza ha avuto modo di affermare l’incensurabilità, in sede di legittimità, della determinazione comunale delle caratteristiche dell’edificio unifamiliare, stabilite in relazione ad un criterio logico di abitabilità di un nucleo familiare medio, ai fini dell’applicazione dell’art. 9, lett. d), cit..

... contro il Comune di Appiano Gentile, non costituito in giudizio per l’annullamento della nota del Comune di Appiano Gentile prot. n. 1971/99 del 24.02.1999, con cui è stata respinta la richiesta di riesame ai fini dell’esonero dal contributo concessorio ex art. 9, lett. d), della l. n. 10/1977, nonché di ogni altro atto presupposto, connesso e consequenziale e per l’accertamento dell’indebita riscossione del contributo concessorio e conseguentemente per la condanna alla restituzione delle somme indebitamente versate, pari a £. 7.628.000 (€ 3.939,53), oltre gli interessi.
...
In ogni caso, anche ai fini di eventuali future ulteriori azioni giurisdizionali, occorre rilevare come la questione sollevata dalla ricorrente investa, a ben vedere, l’an debeatur, cioè la non debenza, nel caso di specie, di alcun contributo concessorio, atteso l’esonero ex art. 9, lett. d), della l. n. 10/1977, e non, invece, il quantum debeatur: poiché, dunque, viene contestata la stessa imposizione del contributo e non le modalità di calcolo, ci si trova a contestare la legittimità di un’attività non paritetica, ma autoritativa, a fronte della quale la posizione lesa è di interesse legittimo, con il corollario dell’impugnabilità dell’atto lesivo entro il termine decadenziale più sopra indicato (C.d.S., Sez. V, 27.09.2004, n. 6281).
Alle conclusioni fin qui raggiunte nemmeno può obiettarsi alcunché argomentando dal fatto che la nota comunale impugnata si pone come conferma in senso proprio e non gi à come atto meramente confermativo delle precedenti determinazioni del Comune. Ed infatti, in disparte la considerazione che la nota comunale prot. n. 1971/99 del 24.02.1999 ha la funzione di indicare alla sig.ra B. l’iter logico e normativo seguito dall’Amministrazione nel ritenere non applicabile al suo caso l’esonero dal contributo concessorio di cui all’art. 9, lett. d), della l. n. 10/1977, piuttosto che di rappresentare l’esito di un procedimento di vero e proprio riesame della fattispecie (com’è per la conferma in senso proprio: TAR Sicilia, Palermo, Sez. II, 22.06.2005, n. 1042), resta il fatto che la qualificazione della nota in discorso come conferma o atto meramente confermativo rileva ai soli fini della necessità o meno dell’impugnativa della nota medesima, ma non toglie nulla alla necessità che fossero impugnati, altresì, la “comunicazione” comunale del 13.01.1999, nonché, in parte qua, la concessione edilizia di pari data: la mancata impugnazione di tali atti rende, pertanto, il ricorso inammissibile.
In ogni caso il gravame, oltre che inammissibile, è pure infondato.
Invero, l’assunto di base della ricorrente è che la previsione dell’art. 9, comma 1, lett. d), della l. n. 10/1977 non costituisca una deroga ai principi generali in materia di concessione edilizia, ma anzi ne costituisca una diretta applicazione, giacché solo le attività comportanti trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio comunale determinano la partecipazione del realizzatore ai relativi oneri: in base a tale regola, quindi, poiché in caso di ampliamento di edifici unifamiliari entro il 20% non si avrebbe alcuna trasformazione del territorio, del tutto logicamente la legge ha previsto l’esonero dal contributo di concessione.
Sempre secondo la ricorrente, se ne dovrebbe dedurre l’impossibilità di utilizzare ulteriori limitazioni, a pena, in caso contrario, di stravolgere significato e portata del testo normativo: nella vicenda in esame, in cui, invece, tali limitazioni ulteriori sono state utilizzate, avendo il Comune fatto ricorso al D.M. n. 1444/1968 ed all’art. 19 della l.r. n. 51/1975 per decifrare la nozione di edificio “unifamiliare”, l’operato dell’Amministrazione sarebbe stato, perciò, illegittimo.
Tuttavia, l’esame della giurisprudenza in argomento non conforta la tesi della ricorrente e anzi fa ritenere che l’art. 9 della l. n. 10/1977, avendo introdotto in una certa serie di ipotesi la figura della concessione gratuita, rappresenti, invece, una deroga al principio generale dell’onerosità della concessione edilizia, tanto è vero che l’indicazione delle fattispecie di esonero dal versamento del contributo di concessione ha carattere tassativo (C.d.S., Sez. V, 06.02.2003, n. 617). Pertanto, le predette fattispecie di esonero, inclusa quella ex art. 9, lett. d), cit., sono di stretta interpretazione.
Ne discende che è legittimo cercare di individuare e circoscrivere il contenuto della nozione di “edifici unifamiliari” ricorrendo, come ha fatto il Comune di Appiano Gentile, a criteri estratti da altri complessi normativi, con l’unico limite di non stravolgere la portata della disciplina da applicare.
Nel caso di specie, al contrario di quanto sostenuto nel ricorso, nessun stravolgimento della portata dell’art. 9, lett. d), della l. n. 10/1977 si può ricavare dall’avere il predetto Comune fatto ricorso agli artt. 3 del D.M. n. 1444/1968 e 19 della l.r. n. 51/1975 (quest’ultimo, nella versione anteriore alle modifiche introdotte dall’art. 6 della l.r. n. 1/2001), definendo quali “edifici unifamiliari” quelli la cui volumetria non superi i 100 mc. per ciascun componente del nucleo familiare, individuato attraverso l’Anagrafe comunale.
In particolare, dalle norme citate si ricava che il valore medio, sulla cui base va computata la capacità insediativa, è di 100 mc. per abitante. Sembra, quindi, ragionevole l’utilizzo di siffatto criterio anche ai fini della definizione della nozione di “edifici unifamiliari”, per il cui ampliamento entro il 20% è prevista la gratuità della concessione edilizia: ciò, in quanto, come si è già detto, il principio è quello opposto, dell’onerosità della concessione stessa, inteso come dovere di contribuire agli oneri connessi alla trasformazione del territorio, per la realizzazione di nuovi insediamenti o l’ampliamento di quelli esistenti, con il conseguente consumo metrico e volumetrico.
Sul punto, del resto, la giurisprudenza ha avuto modo di affermare l’incensurabilità, in sede di legittimità, della determinazione comunale delle caratteristiche dell’edificio unifamiliare, stabilite in relazione ad un criterio logico di abitabilità di un nucleo familiare medio, ai fini dell’applicazione dell’art. 9, lett. d), cit. (così C.d.S., Sez. II, parere n. 1402 del 24.10.1984).
In definitiva, il ricorso è inammissibile e comunque infondato (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 26.04.2006 n. 1063 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Il TAR Lombardia-Brescia scavalca la L.R. 12/2005 Lombardia in materia di edifici di culto senza attendere che il comune si doti (preliminarmente) del piano delle attrezzature religiose, atto separato facente parte del piano dei servizi, dove vengono dimensionate e disciplinate sulla base delle esigenze locali, valutate le istanze avanzate dagli enti delle confessioni religiose di cui all'articolo 70.
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Per quanto riguarda la rilevanza della nuova legislazione regionale sulle attrezzature religiose, si ritiene che il caso in esame, essendo riferito a un intervento già favorevolmente valutato in sede di variante al PGT, ricada nella deroga prevista dall’art. 72, comma 8, della LR 12/2005 (“attrezzature religiose esistenti”).
Più precisamente, poiché si tratta di una situazione in itinere, devono essere salvaguardate le aspettative dei privati che si sono ormai consolidate per effetto della pianificazione vigente.
Non è quindi necessario attendere l’approvazione dello specifico piano riferito alle attrezzature religiose, perché la zonizzazione già consente l’inserimento di un luogo di culto. Su questo presupposto, gli aspetti dell’intervento edilizio collegati alle opere di urbanizzazione e alle distanze minime possono essere definiti attraverso l’elaborazione delle norme tecniche del piano attuativo.
Il Comune deve invece dotarsi dei criteri che compongono la restante parte della disciplina prevista dall’art. 72, comma 7, della LR 12/2005 (parcheggi, sevizi igienici, accessibilità, congruità architettonica e dimensionale degli edifici).
Per l’elaborazione di questi criteri (che non richiedono necessariamente la modifica del PGT, trattandosi di prescrizioni di dettaglio) il termine ragionevole è individuato in 120 giorni dal deposito della presente ordinanza. In ogni caso, scaduto il termine, l’esame dello schema preliminare dovrà essere ripreso anche per la parte relativa alle attrezzature religiose.

... per l'annullamento, previa sospensione dell'efficacia, del provvedimento del responsabile della Direzione Pianificazione Urbanistica del 25.03.2015, con il quale è stata sospesa l’istruttoria sullo schema di piano attuativo NE21, riguardante aree situate in via Campi Spini;
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Considerato a un sommario esame:
1. Il Comune di Bergamo, con provvedimento del responsabile della Direzione Pianificazione Urbanistica del 25.03.2015, ha sospeso l’istruttoria sullo schema preliminare di piano attuativo NE21, riguardante aree situate in via Campi Spini.
2. Lo schema prevede, in conformità alla variante al PGT approvata nel 2014, due corpi di fabbrica, uno a ovest con destinazioni d’uso terziarie e commerciali, e uno a est con destinazione a servizi religiosi (la società ricorrente, soggetto promotore del piano attuativo, ha stipulato il 21.05.2014 un preliminare di vendita con l’Associazione dei Testimoni di Geova di Bergamo).
3. Il motivo della sospensione dell’istruttoria è indicato nella nuova formulazione dell’art. 72 della LR 11.03.2005 n. 12, che consente la realizzazione di attrezzature religiose solo sulla base di un apposito piano (commi 1 e 2) approvato con la stessa procedura dei piani inseriti nel PGT (comma 3). Il piano deve contenere (comma 7) una disciplina puntuale delle infrastrutture di servizio e degli altri requisiti urbanistico-edilizi necessari per l’ottimale inserimento delle attrezzature religiose.
4. Sulla vicenda così sintetizzata si possono formulare le seguenti considerazioni:
(a) lo schema preliminare di piano attuativo prevede due edificazioni distinte sia fisicamente sia sotto il profilo della destinazione d’uso. La decisione del Comune di sospendere l’istruttoria si basa sulla nuova disciplina delle attrezzature religiose, che interessa solo una parte del lotto. Per il principio di proporzionalità appare quindi necessario consentire la prosecuzione dell’istruttoria almeno con riguardo alle destinazioni d’uso terziarie e commerciali, se questo corrisponde a un interesse economico del soggetto promotore;
(b) in questa prospettiva deve essere affrontato anche il problema delle opere di urbanizzazione non scindibili, nel senso che deve essere data la possibilità al soggetto promotore di elaborare un programma di lavori adeguatamente graduato nel tempo;
(c) per quanto riguarda la rilevanza della nuova legislazione regionale sulle attrezzature religiose, si ritiene che il caso in esame, essendo riferito a un intervento già favorevolmente valutato in sede di variante al PGT, ricada nella deroga prevista dall’art. 72, comma 8, della LR 12/2005 (“attrezzature religiose esistenti”);
(d) più precisamente, poiché si tratta di una situazione in itinere, devono essere salvaguardate le aspettative dei privati che si sono ormai consolidate per effetto della pianificazione vigente;
(e) non è quindi necessario attendere l’approvazione dello specifico piano riferito alle attrezzature religiose, perché la zonizzazione già consente l’inserimento di un luogo di culto. Su questo presupposto, gli aspetti dell’intervento edilizio collegati alle opere di urbanizzazione e alle distanze minime possono essere definiti attraverso l’elaborazione delle norme tecniche del piano attuativo.
Il Comune deve invece dotarsi dei criteri che compongono la restante parte della disciplina prevista dall’art. 72, comma 7, della LR 12/2005 (parcheggi, sevizi igienici, accessibilità, congruità architettonica e dimensionale degli edifici);
(f) per l’elaborazione di questi criteri (che non richiedono necessariamente la modifica del PGT, trattandosi di prescrizioni di dettaglio) il termine ragionevole è individuato in 120 giorni dal deposito della presente ordinanza. In ogni caso, scaduto il termine, l’esame dello schema preliminare dovrà essere ripreso anche per la parte relativa alle attrezzature religiose.
5. Sussistono pertanto le condizioni per adottare una misura cautelare propulsiva con il contenuto sopra esposto.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia sezione staccata di Brescia (Sezione Prima)
(a) accoglie la domanda cautelare, come precisato in motivazione;
(b) fissa la trattazione del merito all'udienza pubblica del 21.09.2016;
(c) compensa le spese della fase cautelare (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, ordinanza 29.07.2015 n. 1443 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

COMPETENZE GESTIONALI: Il sindaco non può essere (legittimamente) il responsabile del servizio finanziario.
Seppur il comune abbia meno di 5.000 abitanti (nel caso di specie poco meno di 1.000), non appare conforme all’ordinamento vigente che il Sindaco assuma su di sé, in aggiunta alle responsabilità connaturate alla carica elettiva, anche quelle di responsabile del servizio finanziario dell’ente.
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In sede di esame della relazione trasmessa dall’Organo di revisione del Comune di Ono San Pietro (BS), relativo al rendiconto 2012, redatto ai sensi dell’articolo 1, commi 166 e seguenti, della legge 23.12.2005, n. 266 (Finanziaria 2006), è emerso che l’ente:
1. non ha rispettato il limite relativo alle spese del personale previsto dall’art. 1, comma 562, L. 296/2006;
2. non è stato effettuato dal responsabile delle entrate il riaccertamento dei residui attivi.
Con lettera istruttoria trasmessa in data 09.02.2015 al numero di protocollo 1314, il magistrato istruttore ha richiesto all’Organo di revisione delucidazioni in merito alle motivazioni per cui non è stato effettuato dai singoli responsabili delle relative entrate il riaccertamento dei residui attivi e alle ragioni che non hanno permesso il rispetto del limite previsto relativamente al contenimento delle spese del personale, la cui variazione nel periodo 2008/2012 è stata del 54,54% (dati del questionario).
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Mancato riaccertamento dei residui.
Ai sensi degli artt. 153 e 228 del T.U.E.L. il riaccertamento dei residui è attività obbligatoria a presidio della sana gestione contabile dell’ente locale e a tutela degli equilibri di bilancio, in quanto adempimento ciclico incidente sulla composizione dell’avanzo di amministrazione.
L’operazione di riaccertamento deve essere compiuta dall’organo individuato dal T.U.E.L. quale proposto al servizio finanziario, in possesso dei requisiti tecnici per espletare l’attività funzionale richiesta.
Quanto poi alla carenza in organico di un responsabile del servizio finanziario, pur prendendo atto della peculiarità del caso in esame, in ragione della ridotta struttura amministrativa dell’ente,
il Collegio non può che rimarcare il principio di separazione dell’azione amministrativa dalla gestione di indirizzo politico dell’ente locale. Suddetto principio di organizzazione della pubblica amministrazione, introdotto compiutamente dalla c.d. legislazione Bassanini, e ripreso dal D.lgs. 165/2001 e dalla legge 15/2009, pone quale responsabile dell’azione amministrativa l’organo al vertice della struttura burocratica.
Ne consegue che non appare conforme all’ordinamento vigente che il Sindaco assuma su di sé, in aggiunta alle responsabilità connaturate alla carica elettiva, anche quelle di responsabile del servizio finanziario dell’ente.

...
P.Q.M.
La Corte dei conti Sezione Regionale di Controllo per la Lombardia
1) accerta che in base alle risultanze della certificazione resa dal Revisore dei conti del Comune di Ono San Pietro, l'ente non ha rispettato il limite di contenimento delle spese del personale;
2) invita l’amministrazione comunale al rispetto dei limiti in tema di spese di personale, anche alla luce della normativa attualmente in vigore;
3)
accerta che il riaccertamento dei residui attivi non è avvenuto in conformità agli artt. 153 e 228 T.U.E.L. in quanto asseritamente compiuto non dal responsabile del servizio finanziario, bensì dal responsabile unico nella persona del sindaco;
4) dispone che la presente deliberazione sia trasmessa al Presidente del Consiglio Comunale, al Sindaco ed all’Organo di revisione del Comune di Ono San Pietro (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, deliberazione 09.06.2015 n. 219).

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATANel caso in esame, la Soprintendenza, in relazione al tipo d’intervento effettuato, ha sovrapposto il proprio sindacato a quello favorevolmente esercitato dall’autorità comunale, addentrandosi in valutazioni di tipo propriamente urbanistico–edilizio e trascurando un apprezzamento in concreto relativo all’effettiva compatibilità dell’intervento con il vincolo paesaggistico.
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L’art. 167 d.lgs. 42/2004 non esclude affatto che il volume tecnico, rispetto alla nozione di volume edilizio, possa ricevere, in considerazione della peculiare destinazione funzionale, una valutazione differenziata, caso per caso, suscettibile di concludersi con l’autorizzazione paesaggistica postuma, qualora in concreto il manufatto non presenti elementi incompatibili o comunque di estraneità con il paesaggio nel quale è destinato a collocarsi; non è un caso che, proprio in tema di autorizzazione paesaggistica in sanatoria, l’ipotesi del volume tecnico riceva dallo stesso ministero resistente una considerazione differenziata rispetto alla disciplina generale relativa ai volumi edilizi;
Al riguardo, la circolare del Segretario generale n. 33 del 26.06.2009, nel dettare talune linee interpretative ed operative ai fini dell’autorizzazione paesaggistica postuma, ai sensi del menzionato art. 167 d.lgs. 42/2004, chiarisce che “per volumi s’intende qualsiasi manufatto costituito da parti chiuse emergente dal terreno o dalla sagoma di un fabbricato preesistente indipendentemente dalla destinazione d’uso del manufatto”, per poi precisare: “ad esclusione dei volumi tecnici”;
Benché la circolare sia espressione di un potere ministeriale di mero indirizzo interno, privo di efficacia precettiva autonoma e non vincolante per i giudici, essa è tuttavia un chiaro indizio di come la stessa amministrazione competente abbia sposato una soluzione interpretativa della norma in esame che ragionevolmente tiene conto delle peculiari caratteristiche dei volumi tecnici.

Il ricorso è fondato.
Le censure ivi espresse trovano corrispondenza specifica in un precedente della Sezione, rappresentato dalla sentenza breve, n. 1540 del 2013 (ndr: riformata da Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 05.01.2015 n. 12), relativa allo stesso Comune qui considerato (Pisciotta), la cui motivazione si ritiene opportuno riportare integralmente: “Considerato che:
- nel caso in esame, la Soprintendenza, in relazione al tipo d’intervento effettuato, ha sovrapposto il proprio sindacato a quello favorevolmente esercitato dall’autorità comunale, addentrandosi in valutazioni di tipo propriamente urbanistico–edilizio e trascurando un apprezzamento in concreto relativo all’effettiva compatibilità dell’intervento con il vincolo paesaggistico (Tar Campania, Salerno, sez. I, 01.10.2012, n. 1737);
- l’art. 167 d.lgs. 42/2004 non esclude affatto che il volume tecnico, rispetto alla nozione di volume edilizio, possa ricevere, in considerazione della peculiare destinazione funzionale, una valutazione differenziata, caso per caso, suscettibile di concludersi con l’autorizzazione paesaggistica postuma, qualora in concreto il manufatto non presenti elementi incompatibili o comunque di estraneità con il paesaggio nel quale è destinato a collocarsi; non è un caso che, proprio in tema di autorizzazione paesaggistica in sanatoria, l’ipotesi del volume tecnico riceva dallo stesso ministero resistente una considerazione differenziata rispetto alla disciplina generale relativa ai volumi edilizi;
- al riguardo, la circolare del Segretario generale n. 33 del 26.06.2009, nel dettare talune linee interpretative ed operative ai fini dell’autorizzazione paesaggistica postuma, ai sensi del menzionato art. 167 d.lgs. 42/2004, chiarisce che “per volumi s’intende qualsiasi manufatto costituito da parti chiuse emergente dal terreno o dalla sagoma di un fabbricato preesistente indipendentemente dalla destinazione d’uso del manufatto”, per poi precisare: “ad esclusione dei volumi tecnici”;
- benché la circolare sia espressione di un potere ministeriale di mero indirizzo interno, privo di efficacia precettiva autonoma e non vincolante per i giudici, essa è tuttavia un chiaro indizio di come la stessa amministrazione competente abbia sposato una soluzione interpretativa della norma in esame che ragionevolmente tiene conto delle peculiari caratteristiche dei volumi tecnici;
- il manufatto contestato realizza in concreto un volume tecnico, di carattere pertinenziale e destinato esclusivamente ad impianti tecnologici (legnaia, serbatoio idrico con connesso autoclave); appare invero irrilevante la circostanza che i locali tecnici ospitanti la non siano immediatamente contigui alla casa di abitazione ma da essa separati; questo dato è tuttavia scarsamente significativo dal punto di vista paesaggistico e, peraltro, non è decisivo per fare venire meno il carattere di pertinenza dell’opera all’abitazione principale;
- per quanto sopra, con rilievo di carattere assorbente, il ricorso merita accoglimento. Ne consegue l’annullamento degli atti della Soprintendenza, sopra impugnati.
Appare comunque equo compensare le spese in relazione alla natura della controversia ed all’incerta esatta interpretazione dell’art. 167 d.lgs. 42/2004 in merito ai volumi tecnici
”.
Rileva il Tribunale come il caso, oggetto del citato precedente, si presenti assai simile, quasi sovrapponibile, rispetto alla fattispecie concreta, oggetto dell’odierno esame del Collegio, riguardante l’ampliamento di un locale garage e la realizzazione di uno scannafosso, adiacente al locale garage, quindi l’edificazione di volumi tecnici, senz’altro non idonei all’uso abitativo, destinati a ospitare una centrale termica e un serbatoio d’acqua, con relativa autoclave.
Le considerazioni, in detta decisione espresse, valgano altresì a superare le controdeduzioni formulate dall’Avvocatura Erariale nelle proprie difese.
Ne deriva l’annullamento del parere negativo impugnato, e, secondo la regola dell’invalidità derivata, dei provvedimenti, conseguentemente adottati dal Comune di Pisciotta, anch’essi travolti dalla pronunzia d’annullamento dell’atto presupposto.
Sussistono peraltro, per le oscillazioni giurisprudenziali in tema di autorizzazioni paesaggistiche postume per i volumi tecnici, eccezionali motivi per compensare integralmente, tra le parti, le spese di giudizio (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 09.06.2015 n. 1359 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATACome è noto, ai sensi dell’art. 167, 4° comma, d.lgs. n. 42/2004, vige il divieto di sanatoria postuma per gli interventi che abbiano determinato “creazioni di superfici utili o volumi ovvero aumenti di quelli legittimamente realizzati”.
Nelle volumetrie da considerare rientrano anche, per comune intendimento, i c.d. volumi tecnici.
Anche secondo il costante orientamento di questo Tribunale non può sostenersi che l’attività edilizia di ampliamento compiuta in maniera difforme dal titolo edilizio possa essere apprezzata quale volumetria tecnica, anche quando, proprio come nella specie, intesa a realizzare, tramite una copertura del tetto, uno strumento di isolamento termico.
Del resto, la nozione di volume tecnico si aggancia ai seguenti tre parametri:
a) il primo, di tipo funzionale, secondo cui l’opera deve assumere un rapporto di strumentalità necessaria rispetto alla costruzione principale perché ne consente un migliore e più efficiente utilizzo;
b) il secondo ed il terzo di tipo strutturale, nel senso che, da un lato, la collocazione esterna del volume tecnico appare l’unica soluzione praticabile per impossibilità di ricorrere a soluzioni progettuali diverse e, dall’altro, deve esistere un rapporto di necessaria proporzionalità tra volume tecnico e costruzione principale.
Nella nozione di volume tecnico non rientrano quindi, ad esempio, le soffitte, gli stenditoio chiusi e quelli di sgombero, i piani di copertura qualora, impropriamente considerati sottotetti, costituiscano in realtà mansarde perché dotate di rilevante altezza media rispetto al piano di gronda. Devono invece considerarsi tali gli impianti serventi connessi a condotte idrica, termica o all’ascensore.
In tale ribadita prospettiva, quindi, la copertura del tetto, resasi necessaria al presunto scopo di creare un isolamento termico, non trova alcuna giustificazione né nella normativa sopra menzionata né nell’elaborazione giurisprudenziale ed in quella ministeriale volte ad individuare la predetta nozione
Del resto, le norme di tutela paesaggistica hanno lo scopo di salvaguardare la sostanziale integrità di determinati ambiti territoriali, imponendo per tal via il divieto di realizzare qualsiasi volume edilizio, e quindi anche quei volumi che non sono considerati normalmente rilevanti secondo le norme che regolano l'attività edilizia (nello stesso senso, con riferimento, per esempio, ai volumi addirittura interrati, v. TAR Napoli, 04.03.2009 n. 1267).
A maggior ragione, deve ritenersi in ogni caso preclusa la sanatoria di opere consistenti nella realizzazione di sottotetti tecnicamente abitabili (e, come tali, neppure prospetticamente rientranti nella riassunta nozione di volume tecnico).

3.- In disparte le premesse che precedono, osserva il Collegio come si debba, in ogni caso, in accoglimento degli appositi motivi affidati, anche per aggiunzione, al secondo gravame, affermarsi l’illegittimità dell’autorizzazione paesaggistica rilasciata a favore di Giorgio Giovanni e del presupposto parere favorevole rilasciato dalla Soprintendenza.
Al tal fine, premette il Collegio che, come è noto, ai sensi dell’art. 167, 4° comma, d.lgs. n. 42/2004, vige il divieto di sanatoria postuma per gli interventi che abbiano determinato “creazioni di superfici utili o volumi ovvero aumenti di quelli legittimamente realizzati”.
Nelle volumetrie da considerare rientrano anche, per comune intendimento, i c.d. volumi tecnici, (in terminis, Cons. Stato, sez. IV, 28.03.2011, n. 1879; cfr., inoltre, Cons. Stato, sez. VI, 12.01.2011, n. 110; sez. IV, 11.05.2005, n. 2388).
Anche secondo il costante orientamento di questo Tribunale (cfr., da ultimo, TAR Salerno, sez. I, 03.03.2015 e Id. n. 464/2014) non può sostenersi che l’attività edilizia di ampliamento compiuta in maniera difforme dal titolo edilizio possa essere apprezzata quale volumetria tecnica, anche quando, proprio come nella specie, intesa a realizzare, tramite una copertura del tetto, uno strumento di isolamento termico.
Del resto, la nozione di volume tecnico si aggancia ai seguenti tre parametri:
a) il primo, di tipo funzionale, secondo cui l’opera deve assumere un rapporto di strumentalità necessaria rispetto alla costruzione principale perché ne consente un migliore e più efficiente utilizzo;
b) il secondo ed il terzo di tipo strutturale, nel senso che, da un lato, la collocazione esterna del volume tecnico appare l’unica soluzione praticabile per impossibilità di ricorrere a soluzioni progettuali diverse e, dall’altro, deve esistere un rapporto di necessaria proporzionalità tra volume tecnico e costruzione principale (TAR Campania, Napoli, sez. III, 09.11.2010, n. 23699; sez. IV, 10.05.2010, n. 3433).
Nella nozione di volume tecnico non rientrano quindi, ad esempio, le soffitte, gli stenditoio chiusi e quelli di sgombero, i piani di copertura qualora, impropriamente considerati sottotetti, costituiscano in realtà mansarde perché dotate di rilevante altezza media rispetto al piano di gronda (Cons. Stato, sez. IV, 28.01.2011, n. 687). Devono invece considerarsi tali gli impianti serventi connessi a condotte idrica, termica o all’ascensore.
In tale ribadita prospettiva, quindi, la copertura del tetto, resasi necessaria al presunto scopo di creare un isolamento termico, non trova alcuna giustificazione né nella normativa sopra menzionata né nell’elaborazione giurisprudenziale ed in quella ministeriale volte ad individuare la predetta nozione
Del resto, le norme di tutela paesaggistica hanno lo scopo di salvaguardare la sostanziale integrità di determinati ambiti territoriali, imponendo per tal via il divieto di realizzare qualsiasi volume edilizio, e quindi anche quei volumi che non sono considerati normalmente rilevanti secondo le norme che regolano l'attività edilizia (nello stesso senso, con riferimento, per esempio, ai volumi addirittura interrati, v. TAR Napoli, 04.03.2009 n. 1267).
A maggior ragione, deve ritenersi in ogni caso preclusa la sanatoria di opere consistenti nella realizzazione di sottotetti tecnicamente abitabili (e, come tali, neppure prospetticamente rientranti nella riassunta nozione di volume tecnico) (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 28.05.2015 n. 1199 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAE’ noto che il legislatore, nel ricondurre l’esercizio della funzione amministrativa a precisi riferimenti di natura temporale ricorre alla enucleazione di termini che soltanto nei casi espressamente previsti assumono natura perentoria, di guisa che la loro violazione non refluisce sulla legittimità delle determinazioni emesse tardivamente.
La giurisprudenza si è espressa in tal senso, evidenziando che, ai sensi dell'art. 146, comma 7, d.lgs. n. 42 del 2004, l'Amministrazione Comunale, entro quaranta giorni dalla ricezione dell'istanza, deve provvedere a trasmettere al Soprintendente la documentazione presentata dall'interessato, accompagnandola con una relazione tecnica illustrativa, ai fini dell'espressione del parere vincolante di cui all'art. 146, comma 5, del medesimo d.lgs. n. 42 del 2004, di tal che, laddove detto termine non sia stato rispettato, sussiste un illegittimo silenzio-inadempimento dell'Amministrazione Comunale. La configurazione di tale fattispecie, integrata dal comportamento silente dell’Amministrazione, postula invero la persistenza del potere pur a termine elasso.
Così pure il Supremo Consesso di G.A. ha di recente osservato che “nel caso di mancato rispetto del termine fissato dall'art. 146, comma 5, così come del termine fissato dall'art. 167, comma 5, del D.Lgs. 22.01.2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell' articolo 10 della L. 06.07.2002, n. 137) - il potere della Soprintendenza continua a sussistere (tanto che un suo parere tardivo resta comunque disciplinato dai richiamati commi 5 e mantiene la sua natura vincolante), ma l'interessato può proporre ricorso al giudice amministrativo, per contestare l'illegittimo silenzio-inadempimento dell'organo statale: la perentorietà del termine riguarda non la sussistenza del potere o la legittimità del parere, ma l'obbligo di concludere la fase del procedimento”.
Ne consegue che il potere di verificare la compatibilità paesaggistica dell’intervento non risente, in punto di legittimità, della semplice tardività della sua adozione rispetto al termine previsto dalla legge, e pertanto il parere negativo espresso dalla Soprintendenza, ancorché intervenuto ultra tempus, conserva il carattere vincolante assegnatogli dalla medesima disciplina di riferimento.
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L'illegittimità per disparità di trattamento in materia paesaggistica è infatti configurabile solo in casi macroscopici e presuppone un'assoluta identità delle situazioni, sia sotto il profilo estetico che dimensionale.
Peraltro la giurisprudenza prevalente ritiene che in tema di autorizzazione paesaggistica la disparità di trattamento sia vizio assai difficilmente riscontrabile, atteso il naturalmente diverso impatto sul paesaggio di differenti progetti, quand'anche simili tra loro; nella specie non è stata dimostrata un'eccezionale somiglianza dei casi addotti a paragone con quello per cui è causa, laddove la prova rigorosa deve essere fornita dall'interessato.
Il Supremo Consesso di G.A. ha peraltro soggiunto che è nella realtà delle cose che ciascun nuovo manufatto, o progetto di manufatto, sia normalmente diverso -per quantità di ingombro e altri caratteri estrinseci- da ogni altro già assentito; e comunque, anche nell'ipotesi di manufatti simili, sempre avviene che il nuovo vada a occupare una porzione fisica di spazio tutelato diverso da quello dell'altro già assentito, e che così naturalmente diversi ne siano l'impatto visivo e prospettico e il rischio di alterazione negativa del contesto protetto.
Sicché il giudizio concreto di compatibilità paesaggistica -salvi ben rari e macroscopici casi- è normalmente non comparabile con altri concreti giudizi già operati, quand'anche nelle immediate vicinanze.

I. Col primo e secondo mezzo, meritevoli per il loro tenore di trattazione congiunta, parte ricorrente deduce la violazione dell’art. 146, commi 7 e 8, del d.lvo n. 42/2004, nonché l’eccesso di potere, in quanto l’Amministrazione comunale avrebbe trasmesso l’istanza di rilascio del permesso di costruire per la realizzazione di un fabbricato in Pisciotta, alla località Terra Bianca, ben oltre il termine di quaranta giorni e il parere della Soprintendenza sarebbe stato espresso oltre il termine di quarantacinque giorni.
In effetti, dalla documentazione versata in atti risulta che la dinamica procedimentale innescata dalla istanza di parte ha comportato il superamento di entrambi gli anzidetti termini, avuto riguardo alla data in cui il Comune di Pisciotta ha trasmesso la documentazione alla Soprintendenza per l’acquisizione del relativo parere (avvenuta con nota prot. n. 4845 del 25.06.2013), rispetto a quella di presentazione dell’istanza (04.01.2007, prot. n. 69) e la successiva integrazione documentale (19.11.2007, prot. n. 8288).
Così pure il provvedimento soprintendentizio risulta tardivo in considerazione del tempo trascorso, superiore ai prescritti 45 giorni, dalla ricezione degli atti (avvenuta in data 03.07.2013), laddove non si voglia tener conto del lasso temporale intercorso tra la comunicazione dei motivi ostativi e l’acquisizione delle relative osservazioni.
Tuttavia, dalla violazione dei termini anzidetti non discende la divisata illegittimità dei provvedimenti negativi adottati, avuto riguardo alla loro natura ordinatoria, prevedendo il legislatore la sola attivazione di meccanismi sostitutivi in caso di mancata adozione del provvedimento soprintendentizio secondo la prevista scansione temporale.
E’ noto che il legislatore, nel ricondurre l’esercizio della funzione amministrativa a precisi riferimenti di natura temporale ricorre alla enucleazione di termini che soltanto nei casi espressamente previsti assumono natura perentoria, di guisa che la loro violazione non refluisce sulla legittimità delle determinazioni emesse tardivamente.
La giurisprudenza (TAR Napoli (Campania) sez. VII 11.02.2011 n. 891) si è espressa in tal senso, evidenziando che, ai sensi dell'art. 146, comma 7, d.lgs. n. 42 del 2004, l'Amministrazione Comunale, entro quaranta giorni dalla ricezione dell'istanza, deve provvedere a trasmettere al Soprintendente la documentazione presentata dall'interessato, accompagnandola con una relazione tecnica illustrativa, ai fini dell'espressione del parere vincolante di cui all'art. 146, comma 5, del medesimo d.lgs. n. 42 del 2004, di tal che, laddove detto termine non sia stato rispettato, sussiste un illegittimo silenzio-inadempimento dell'Amministrazione Comunale. La configurazione di tale fattispecie, integrata dal comportamento silente dell’Amministrazione, postula invero la persistenza del potere pur a termine elasso.
Così pure il Supremo Consesso di G.A. ha di recente osservato che “nel caso di mancato rispetto del termine fissato dall'art. 146, comma 5, così come del termine fissato dall'art. 167, comma 5, del D.Lgs. 22.01.2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell' articolo 10 della L. 06.07.2002, n. 137) - il potere della Soprintendenza continua a sussistere (tanto che un suo parere tardivo resta comunque disciplinato dai richiamati commi 5 e mantiene la sua natura vincolante), ma l'interessato può proporre ricorso al giudice amministrativo, per contestare l'illegittimo silenzio-inadempimento dell'organo statale: la perentorietà del termine riguarda non la sussistenza del potere o la legittimità del parere, ma l'obbligo di concludere la fase del procedimento” (cfr. Cons. Stato Sez. VI, Sent., 04/10/2013, n. 4914).
Ne consegue che il potere di verificare la compatibilità paesaggistica dell’intervento non risente, in punto di legittimità, della semplice tardività della sua adozione rispetto al termine previsto dalla legge, e pertanto il parere negativo espresso dalla Soprintendenza, ancorché intervenuto ultra tempus, conserva il carattere vincolante assegnatogli dalla medesima disciplina di riferimento. Le censure in esame vanno quindi disattese.
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IV. Col quinto ed ultimo mezzo, parte ricorrente lamenta disparità di trattamento per essere stati autorizzati “fabbricati situati a pochissimi metri di distanza da quello che il ricorrente avrebbe dovuto realizzare” (cfr. pag. 7 del gravame). La censura non supera la soglia della genericità, per come formulata, facendo riferimento a non meglio identificati interventi edilizi, nemmeno lumeggiati dalla certificazione del Responsabile UTC del Comune di Pisciotta del 26.02.2014, pure allegata al ricorso, attestandosi soltanto che <<“nello stesso foglio di mappa” risultano rilasciati Concessioni Edilizie e Permesso di Costruire per la realizzazione di fabbricati ad uso residenziale>>.
La censura non è quindi meritevole di apprezzamento, già solo per il fatto che non è suffragata dalla specifica indicazione degli immobili di confronto nella loro esatta consistenza planovolumetrica oltre che architettonica.
L'illegittimità per disparità di trattamento in materia paesaggistica è infatti configurabile solo in casi macroscopici e presuppone un'assoluta identità delle situazioni, sia sotto il profilo estetico che dimensionale.
Peraltro la giurisprudenza prevalente ritiene che in tema di autorizzazione paesaggistica la disparità di trattamento sia vizio assai difficilmente riscontrabile, atteso il naturalmente diverso impatto sul paesaggio di differenti progetti, quand'anche simili tra loro (in termini Cons. Stato, Sez. VI, 01.04.2014, n. 1559; Sez. VI, 11.09.2013, n. 4497); nella specie non è stata dimostrata un'eccezionale somiglianza dei casi addotti a paragone con quello per cui è causa, laddove la prova rigorosa deve essere fornita dall'interessato (Cons. Stato, Sez. VI, 05.03.2013, n. 1323).
Il Supremo Consesso di G.A. ha peraltro soggiunto che è nella realtà delle cose che ciascun nuovo manufatto, o progetto di manufatto, sia normalmente diverso -per quantità di ingombro e altri caratteri estrinseci- da ogni altro già assentito; e comunque, anche nell'ipotesi di manufatti simili, sempre avviene che il nuovo vada a occupare una porzione fisica di spazio tutelato diverso da quello dell'altro già assentito, e che così naturalmente diversi ne siano l'impatto visivo e prospettico e il rischio di alterazione negativa del contesto protetto. Sicché il giudizio concreto di compatibilità paesaggistica -salvi ben rari e macroscopici casi- è normalmente non comparabile con altri concreti giudizi già operati, quand'anche nelle immediate vicinanze (Consiglio di Stato, sez. VI, 11.09.2013, n. 4497).
Il ricorso va conclusivamente respinto siccome del tutto infondato (TAR Calabria-Salerno, Sez. I, sentenza 26.05.2015 n. 1158 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA Ai sensi del disposto dell'art. 167 del d.lgs. n. 42 del 2004 gli interventi che non determinano creazione di superfici utili o di volumi e quelli configurabili in termini di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell'articolo 3 del d.p.r. n. 380 del 2001 sono gli unici per i quali è possibile l'accertamento postumo di conformità paesaggistica, a sua volta presupposto del rilascio della sanatoria edilizia.
Ne consegue, come si osserva in giurisprudenza, che una valutazione postuma di compatibilità ambientale è consentita solo nei casi di lavori che non abbiano determinato creazione o aumento di superfici utili o volumi, per l’impiego di materiali in difformità dall’autorizzazione concessa, ovvero di lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria.
La scelta operata dal legislatore, nel senso cioè di precludere l’autorizzazione paesaggistica in sanatoria per gli abusi edilizi concretanti, come nella fattispecie, nuova superficie utile o nuovo volume realizzato, senza che sia necessario, ai fini dell’assentibilità, valutarne in concreto la compatibilità paesaggistica, è stata ritenuta conforme ai principi costituzionali.
Invero, si è osservato, con la scelta recepita dal Codice dei Beni Culturali, il legislatore ha inteso presidiare il regime delle opere incidenti su beni paesaggistici, escludendo in radice che l'esame di compatibilità paesaggistica possa essere postergato all’intervento realizzato (sine titulo o in difformità dal titolo rilasciato), e ciò al fine di escludere che possa riconnettersi al fatto compiuto qualsivoglia forma di legittimazione giuridica.
In altri termini, il richiamato art. 167, evidentemente in considerazione delle prassi applicative delle leggi succedutesi in materia di condoni e sanatorie (caratterizzate di regola dall'esercizio di poteri discrezionali delle Autorità preposte alla tutela del vincolo paesaggistico), ha inteso tutelare più rigorosamente i beni sottoposti al medesimo vincolo, precludendo in radice ogni valutazione di compatibilità ex post delle opere abusive, tranne quelle tassativamente indicate nello stesso art. 167.
Ne consegue che tutte le volte in cui la compatibilità paesaggistica debba essere negata per profili strettamente edilizi e sulla base di un “applicazione” vincolata della disposizione, il parere dell’organo preposto alla tutela del vincolo in questione potrà essere legittimamente omesso, in ossequio al divieto di inutile aggravamento del procedimento amministrativo ex art. 1, comma 2, l. n. 241/1990.

II.1. Orbene, va in primo luogo disattesa la censura sollevata col terzo mezzo, in ordine alla pretesa incompetenza dell’Ufficio Urbanistica nel rilevare il preteso contrasto con l’art. 167 del D.Lgs. n. 42/2004, assumendosi che a tale organo non sarebbero demandati compiti che attengono alla valutazione della compatibilità paesaggistica di un intervento edilizio. Sarebbe stato quindi obliterato, a parere della ricorrente, quanto statuito dall’art. 167, comma 5, di cui alla predetta disciplina codicistica, laddove prevede l’acquisizione del parere vincolante della soprintendenza.
Va invero rilevato che l’applicazione di tale norma postula la presentazione di “apposita domanda all'autorità preposta alla gestione del vincolo ai fini dell'accertamento della compatibilità paesaggistica degli interventi”, quando invece la società ricorrente ha rivolto all’ente comunale istanza di accertamento di conformità urbanistica ai sensi dell’art. 36 del d.P.R. n. 380/2001. L’adozione di ogni determinazione conseguente a tale iniziativa procedimentale non può che competere all’ufficio preposto all’esame delle pratiche edilizie.
Del resto, con il censurato diniego, l’Amministrazione, pur richiamando l’art. 167 citato, si diffonde in argomentazioni che investono la legittimità delle opere dal punto di vista urbanistico, avendo più volte sottolineato la presenza di “opere edilizie abusive all’interno della struttura turistica denominata “Hotel Stella Maris”, sommariamente consistenti nella modifica aperture esterne, creazione di nuove aperture esterne, ampliamento servizi igienici, diversa distribuzione spazi interni”, e meglio descritte nel verbale di infrazione edilizia n. 2/2009 del 04.03.2009.
Peraltro, l’Ufficio ha ritenuto che le stesse, insistenti pacificamente su area sottoposta a vincolo paesaggistico, non sarebbero sanabili siccome tali da incrementare volume e superficie, a ciò ostando la espressa previsione del richiamato art. 167, la cui applicazione, per come formulata, non involge apprezzamenti di natura paesaggistica. Ai sensi del disposto dell'art. 167 del d.lgs. n. 42 del 2004, infatti, gli interventi che non determinano creazione di superfici utili o di volumi e quelli configurabili in termini di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell'articolo 3 del d.p.r. n. 380 del 2001 sono gli unici per i quali è possibile l'accertamento postumo di conformità paesaggistica, a sua volta presupposto del rilascio della sanatoria edilizia (Consiglio di Stato, sez. VI, 05.01.2015, n. 12).
Ne consegue, come si osserva in giurisprudenza (TAR Napoli-Campania - sez. VII, 05.11.2014, n. 5703; TAR Palermo-Sicilia - sez. I, 10.04.2013, n. 802), che una valutazione postuma di compatibilità ambientale è consentita solo nei casi di lavori che non abbiano determinato creazione o aumento di superfici utili o volumi, per l’impiego di materiali in difformità dall’autorizzazione concessa, ovvero di lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria. La scelta operata dal legislatore, nel senso cioè di precludere l’autorizzazione paesaggistica in sanatoria per gli abusi edilizi concretanti, come nella fattispecie, nuova superficie utile o nuovo volume realizzato, senza che sia necessario, ai fini dell’assentibilità, valutarne in concreto la compatibilità paesaggistica, è stata ritenuta (TAR Napoli-Campania - sez. VII, 04.06.2014, n. 3066) conforme ai principi costituzionali.
Invero, si è osservato, con la scelta recepita dal Codice dei Beni Culturali, il legislatore ha inteso presidiare il regime delle opere incidenti su beni paesaggistici, escludendo in radice che l'esame di compatibilità paesaggistica possa essere postergato all’intervento realizzato (sine titulo o in difformità dal titolo rilasciato), e ciò al fine di escludere che possa riconnettersi al fatto compiuto qualsivoglia forma di legittimazione giuridica.
In altri termini, il richiamato art. 167, evidentemente in considerazione delle prassi applicative delle leggi succedutesi in materia di condoni e sanatorie (caratterizzate di regola dall'esercizio di poteri discrezionali delle Autorità preposte alla tutela del vincolo paesaggistico), ha inteso tutelare più rigorosamente i beni sottoposti al medesimo vincolo, precludendo in radice ogni valutazione di compatibilità ex post delle opere abusive, tranne quelle tassativamente indicate nello stesso art. 167.
Ne consegue che tutte le volte in cui la compatibilità paesaggistica debba essere negata per profili strettamente edilizi e sulla base di un “applicazione” vincolata della disposizione, il parere dell’organo preposto alla tutela del vincolo in questione potrà essere legittimamente omesso, in ossequio al divieto di inutile aggravamento del procedimento amministrativo ex art. 1, comma 2, l. n. 241/1990 (TAR Genova–Liguria - sez. I, 26.02.2014, n. 360).
La censura in esame è quindi da respingere.
II.2. Ne discende, di conserva, l’infondatezza pure del secondo mezzo, col quale parte ricorrente lamenta la mancata verifica, da parte dell’Ente civico, della conformità paesaggistica delle opere su descritte diverse dall’ampliamento dei servizi igienici, in quanto privi di incidenza plano volumetrica, quali la modifica e la creazione di aperture esterne e la diversa distribuzione di spazi interni.
La deducente a tal uopo valorizza la previsione di cui all’art. 167, comma 4, del d.lgs, n. 42/2004, assumendo che tali interventi non sarebbero riconducibili a nessuna delle ipotesi, ivi contemplate, di esclusione in via preventiva dal perimetro della possibile compatibilità paesaggistica. La censura non coglie nel segno già solo perché postula la scindibilità di un intervento che va invece va esaminato unitariamente nella sua complessiva idoneità ad immutare l’esistente.
La prospettiva unitaria si deve al fatto che le opere afferiscono al medesimo immobile, dall’unitaria consistenza strutturale e funzionale, che non consente quindi di accedere ad una visione rapsodica e frammentaria che scomponga l’intervento oggetto di sanatoria in singole parti, oggetto di distinta valutazione. Va da sé che, proprio in tale ottica, appunto unitaria, che emerge il carattere ostativo dell’incremento volumetrico prodotto dall’ampliamento dei servizi igienici, come ammesso dallo stesso ricorrente alla luce del tratto testuale del citato art. 167, comma 4.
Anche la censura in esame va quindi respinta (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 25.05.2015 n. 1119 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: No al silenzio inadempiente. La p.a. deve comunque concludere il procedimento. EDILIZIA E PAESAGGIO/ La Regione Calabria soccombe in Consiglio di stato.
Di fronte a istanze di accertamento di compatibilità paesaggistica per opere edilizie, le Regioni e la pubblica amministrazione non possono opporre ai privati un «silenzio inadempiente»: sono, al contrario, obbligate a concludere il procedimento, non fosse altro che per consentire alla parte privata di poter esercitare il proprio diritto all'impugnazione.

È questo il principio di fondo sancito dalla sentenza 04.03.2015 n. 1070 del Consiglio di Stato, Sez. VI, che ha visto definitivamente soccombere la Regione Calabria di fronte al ricorso di una cooperativa edilizia di Lamezia Terme.
I 40 soci della coop lametina quattro anni fa avevano presentato alla Regione formale domanda d'accertamento della compatibilità paesaggistica in sanatoria per lavori già eseguiti. L'istanza veniva trasmessa dalla Regione alla Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici competente territorialmente per il previsto «parere vincolante».
La Regione Calabria non faceva, però, seguire alcun provvedimento, costringendo la cooperativa, rappresentata e difesa dall'avvocato Silvia Gulisano, a ricorrere al Tar per chiedere la condanna di entrambe le amministrazioni (Regione e Soprintendenza) a provvedere. Il Tar della Calabria, due anni dopo dichiarava inammissibile il ricorso. Ma contro la sentenza, la cooperativa ha proposto appello al Consiglio di Stato invocando l'obbligo della Regione a pronunciarsi e a concludere il procedimento con un provvedimento, anche in assenza del parere della Soprintendenza.
La causa, discussa a Palazzo Spada con l'intervento dell'avvocato Gulisano, si è conclusa con una sentenza, ormai inoppugnabile, di vittoria piena della parte ricorrente. I magistrati della suprema corte amministrativa VI Sezione (presidente Luciano Barca Caracciolo, estensore Giulio Castriota Scanderbeg) hanno infatti ritenuto che il carattere vincolante del parere della Soprintendenza non significa che la Regione risulti esonerata dall'obbligo di provvedere, ove tale parere non sia espresso.
Per i magistrati del Consiglio di Stato «la totale omissione di pronuncia», si legge nella sentenza n. 1070/2015, «rappresenta violazione dei termini di cui alla disciplina speciale in materia di condono paesaggistico (art. 181 e art. 167 dlgs n. 42 del 2004) e più in generale del principio di necessaria conclusione con atto espresso di ogni procedimento amministrativo (per come desumibile dall'art. 2 della legge 241 del 1990 e s.m.i.), dando così vita a una fattispecie di silenzio inadempimento, così come denunciato dall'appellante».
Da ciò l'ordine alla Regione Calabria, impartito in sentenza, di provvedere entro 30 giorni «con provvedimento espresso sulla istanza a suo tempo proposta dalla società appellante» (articolo ItaliaOggi Sette del 27.07.2015).
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MASSIMA
1.- Con il ricorso di primo grado (RG n. 132 del 2013), proposto al Tribunale amministrativo regionale per la Campania, la Rapida Società Cooperativa a r.l. chiedeva l'accertamento e la declaratoria dell'illegittimità del silenzio riservato dalla Regione Calabria sulla domanda d’accertamento della compatibilità paesaggistica presentata, ai sensi dell'art. 181 comma 1-quater d.lgs. 42 del 2004, per lavori eseguiti nel Comune di Lamezia Terme riguardanti “nove corpi di fabbrica (inseriti nei lotti A e B) facenti parte del complesso edilizio di proprietà della Cooperativa Edilizia La Rapida e realizzati in difformità rispetto alla precedente autorizzazione paesaggistica rilasciata dalla Regione Calabria con DPGR 135/1998”.
L'istanza, con nota 36626 del 01.02.2012, veniva trasmessa dalla Regione alla Soprintendenza per i Beni architettonici e paesaggistici territorialmente competente, ai fini della acquisizione del “parere vincolante” previsto dall’art. 167, comma 5, d.lgs. n.42 del 2004.
In data 18.04.2012, l'amministrazione statale, in riscontro della predetta istanza, dichiarava che avrebbe potuto “esprimere il parere al mantenimento delle opere di che trattasi con esclusivo riguardo al profilo paesaggistico, contestualmente alla proposizione di un progetto di completamento degli immobili in oggetto”.
La Regione Calabria non faceva seguire alcun provvedimento.
La società ricorrente chiedeva, così, la condanna di entrambe le amministrazioni a provvedere.
Con la sentenza 23.06.2014 n. 1047, il TAR Calabria-Catanzaro dichiarava inammissibile il ricorso diretto ad accertare il silenzio-inadempimento della Regione Calabria e del Ministero per i beni e le attività culturali, posto che la Soprintendenza non era stata posta nelle condizioni di provvedere non avendo mai la società privata adempiuto all’obbligo di produrre la documentazione richiesta.
2.- Avverso detta sentenza la Rapida Società Cooperativa a r.l. ha proposto appello (ricorso n. 9277 del 2014), lamentandone l'erroneità e chiedendone la riforma sul capo relativo alla declaratoria di inammissibilità del ricorso, con conseguente accoglimento delle richieste formulate in primo grado e con la dichiarazione dell'obbligo di entrambe le amministrazioni a pronunciarsi e a concludere il procedimento con un provvedimento espresso.
3.- Si è costituito il Ministero per resistere all'appello e per chiederne l'inammissibilità e l'infondatezza dell’appello.
4.- All'udienza del 03.02.2015 la causa è stata trattenuta per la sentenza.
5.- L'appello, che va definito con sentenza succintamente motivata ai sensi dell’art. 117, comma 2, Cod.proc.amm., è fondato e merita accoglimento.
6.- Invero
la circostanza che il parere della Soprintendenza abbia carattere vincolante, non significa che la Regione risulti esonerata dall'obbligo di provvedere, ove tale parere non sia espresso.
Nella specie peraltro, come riconosce la sentenza di primo grado,
la Soprintendenza pur non esprimendo il parere ha comunque risposto alla Regione, esponendo le ragioni “di sostanziale improcedibilità dell'istanza (c.d. archiviazione)”.
Dunque,
non vi erano preclusioni per la Regione medesima di concludere pure essa il procedimento nei termini stabiliti a tal fine, uniformandosi a sua volta alla pronuncia di archiviazione che, legittimamente o illegittimamente, aveva assunto la Sopraintendenza a causa della carenza della documentazione progettuale che si assumeva mancasse agli atti ovvero, ancor meglio (nella prospettiva della leale collaborazione), a mezzo della richiesta dell’ulteriore documentazione richiesta dall’autorità preposta alla tutela del vincolo paesaggistico. Il che avrebbe consentito all'attuale appellante di integrare la documentazione richiesta, ovvero di impugnare l'atto conclusivo del procedimento, ove avesse ritenuto l'integrazione documentale non dovuta.
Viceversa la totale omissione di pronuncia, nel termine di cui si è detto, rappresenta violazione dei termini di cui alla disciplina speciale in materia di condono paesaggistico (art. 181 e art. 167 d.lgs n. 42 del 2004) e più in generale del principio di necessaria conclusione con atto espresso di ogni procedimento amministrativo (per come desumibile dall'art. 2 della legge 241 del 1990 e s.m.i.), dando così vita a una fattispecie di silenzio-inadempimento, così come denunciato dall'appellante.
Né, in senso contrario, vale l'obiezione del Ministero per i Beni e le attività culturali secondo la quale non sarebbe ammissibile, in quanto violativa della sfera di discrezionalità dell'amministrazione, una statuizione circa l'obbligo di provvedere “sulla base della sola documentazione fornita dal ricorrente”.
L'obbligo di pronuncia di cui all'art. 30 c. 1 Cod. proc. amm. prescinde, infatti, dal contenuto della determinazione che spetta all'amministrazione configurare, salvo l'ulteriore diritto d'impugnazione della parte privata.
In conclusione,
sussiste l'obbligo dell'amministrazione regionale di concludere il procedimento e, pertanto, il Collegio non può che ordinare alla Regione Calabria di provvedere con provvedimento espresso sulla istanza a suo tempo proposta dalla società appellante, e ciò nel termine di trenta giorni dalla notificazione ovvero dalla comunicazione della presente sentenza.
7.- Per quanto sin qui esposto, l'appello risulta fondato e va, pertanto, accolto; per l'effetto, in riforma della sentenza impugnata, va accolto nei sensi anzidetti il ricorso di primo grado.

EDILIZIA PRIVATAIn base all’art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004, gli interventi da eseguire su immobili vincolati sono soggetti alla preventiva autorizzazione dell’autorità preposta alla tutela del vincolo e non è ammissibile la sanatoria successiva per le opere realizzate in assenza o difformità del titolo paesaggistico fuori dai casi di cui all'articolo 167, co. 4 e 5, del DLgs. n. 42 cit. .
In particolare, una valutazione postuma di compatibilità ambientale è consentita solo nei casi di lavori che non abbiano determinato creazione o aumento di superfici utili o volumi, per l'impiego di materiali in difformità dall'autorizzazione concessa, ovvero di lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria.
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Nella specie la Soprintendenza, investita dal Comune per l’acquisizione del relativo parere, ha appunto rilevato l’inammissibilità dell’accertamento di compatibilità paesaggistica degli abusi compiuti a causa degli incrementi di superficie e di volume.
Tale determinazione ha carattere essenzialmente vincolato essendo priva di contenuti discrezionali.
Ne consegue che il provvedimento è sufficientemente motivato mediante la enunciazione dei presupposti di fatto e di diritto rilevanti ai fini della individuazione della fattispecie di illecito ed a sostegno della determinazione adottata.
Inoltre, in applicazione dell'art. 21-octies, della legge n. 241 del 1990, è da escludere l’annullabilità del provvedimento adottato in violazione delle norme sul procedimento amministrativo ed in particolare per l'omissione del preavviso di rigetto dell'istanza, qualora sia palese che il suo contenuto non avrebbe potuto essere comunque diverso.
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L'art. 167, co. 4, del dlgs. n. 42 del 2004 esclude la sanabilità di opere abusive che abbiano comportato un aumento di cubatura, quale che sia la natura dei volumi, ivi compresi quindi i volumi tecnici.
Inoltre la realizzazione di una tettoia addossata al muro dell’edificio con la connessa pavimentazione, anche se attuata senza opere murarie, non solo modifica la sagoma del corpo di fabbrica al quale aderisce, ma anche comporta un incremento della superficie utile.
Per il resto è da osservare che l'oggettiva idoneità del complesso di opere abusive ad incidere sullo stato dei luoghi va considerata unitariamente. Infatti un artificioso frazionamento dei singoli interventi abusivi vanificherebbe l’effettività delle regole che disciplinano il settore e l’efficacia della sanzioni previste in caso di inosservanza.
Ne consegue che, secondo consolidato orientamento di questo Tribunale, la legittimità degli atti impugnati non può che essere valutata considerando il complesso degli interventi abusivi in rapporto alla disciplina urbanistica e paesaggistica che regola la trasformazione del territorio nell’area interessata.

2.1. Giova premettere che, in base all’art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004, gli interventi da eseguire su immobili vincolati sono soggetti alla preventiva autorizzazione dell’autorità preposta alla tutela del vincolo e non è ammissibile la sanatoria successiva per le opere realizzate in assenza o difformità del titolo paesaggistico fuori dai casi di cui all'articolo 167, co. 4 e 5, del DLgs. n. 42 cit..
In particolare, una valutazione postuma di compatibilità ambientale è consentita solo nei casi di lavori che non abbiano determinato creazione o aumento di superfici utili o volumi, per l'impiego di materiali in difformità dall'autorizzazione concessa, ovvero di lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria.
Nella specie la Soprintendenza, investita dal Comune per l’acquisizione del relativo parere, ha appunto rilevato l’inammissibilità dell’accertamento di compatibilità paesaggistica degli abusi compiuti a causa degli incrementi di superficie e di volume.
Tale determinazione ha carattere essenzialmente vincolato essendo priva di contenuti discrezionali (cfr. TAR Campania, sez. VII, 04/06/2014, n. 3066).
Ne consegue che il provvedimento è sufficientemente motivato mediante la enunciazione dei presupposti di fatto e di diritto rilevanti ai fini della individuazione della fattispecie di illecito ed a sostegno della determinazione adottata.
Inoltre, in applicazione dell'art. 21-octies, della legge n. 241 del 1990, è da escludere l’annullabilità del provvedimento adottato in violazione delle norme sul procedimento amministrativo ed in particolare per l'omissione del preavviso di rigetto dell'istanza, qualora sia palese che il suo contenuto non avrebbe potuto essere comunque diverso (cfr. Cons. St., sez. IV, 31/07/2014, n. 4043).
2.2. L'art. 167, co. 4, del dlgs. n. 42 del 2004 esclude la sanabilità di opere abusive che abbiano comportato un aumento di cubatura, quale che sia la natura dei volumi, ivi compresi quindi i volumi tecnici (cfr., Cons. St., sez. VI, 26/03/2013, n. 1671).
Inoltre la realizzazione di una tettoia addossata al muro dell’edificio con la connessa pavimentazione, anche se attuata senza opere murarie, non solo modifica la sagoma del corpo di fabbrica al quale aderisce, ma anche comporta un incremento della superficie utile (cfr. Cons. St., sez. VI, 05/08/2013, n. 4086).
Per il resto è da osservare che l'oggettiva idoneità del complesso di opere abusive ad incidere sullo stato dei luoghi va considerata unitariamente. Infatti un artificioso frazionamento dei singoli interventi abusivi vanificherebbe l’effettività delle regole che disciplinano il settore e l’efficacia della sanzioni previste in caso di inosservanza. Ne consegue che, secondo consolidato orientamento di questo Tribunale, la legittimità degli atti impugnati non può che essere valutata considerando il complesso degli interventi abusivi in rapporto alla disciplina urbanistica e paesaggistica che regola la trasformazione del territorio nell’area interessata (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 05.11.2014 n. 5703 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’istanza di accertamento di conformità e di compatibilità paesaggistica avanzata dalla parte ricorrente prevede la realizzazione di interventi edilizi ex novo (realizzazione di un nuovo solaio) al fine di ripristinare la volumetria originaria del fabbricato.
Tuttavia, alla luce del vigente ordinamento giuridico, non è ammissibile il rilascio di una concessione in sanatoria ai sensi dell’art. 36 D.P.R. 06.06.2001 n. 380 o di compatibilità paesaggistica ex art. 167 D.Lgs. 22.01.2004 n. 42 subordinata alla esecuzione di opere edilizie, anche se gli ulteriori interventi sono finalizzati a ricondurre l'immobile abusivo nell'alveo di conformità degli strumenti urbanistici o compatibili con il paesaggio.
Invero, ciò contrasta ontologicamente con gli elementi essenziali dell'accertamento di conformità, i quali presuppongono la già avvenuta esecuzione delle opere e la loro integrale conformità alla disciplina urbanistica, dal momento che la compatibilità paesaggistica va scrutinata con riguardo alle opere già eseguite e non a quelle da eseguire.
Pertanto, nel valutare l’assentibilità del manufatto le intimate amministrazioni hanno correttamente valutato la consistenza del manufatto “al netto” del progetto di adeguamento proposto dalla parte ricorrente: trattandosi di immobile la cui volumetria era stata illegittimamente incrementata, appare quindi pienamente condivisibile l’argomentazione reiettiva tracciata nell’impugnato provvedimento secondo cui l’istanza non può essere accolta in quanto –ravvisandosi incremento volumetrico della consistenza originaria– deve escludersi la compatibilità paesaggistica ai sensi dell’art. 167 D.Lgs. 42/2004.
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Con la scelta recepita dal Codice dei Beni Culturali il legislatore ha inteso presidiare il regime delle opere incidenti su beni paesaggistici, escludendo in radice che l’esame di compatibilità paesaggistica possa essere postergato all’intervento realizzato (sine titulo o in difformità dal titolo rilasciato) e ciò al fine di escludere che possa riconnettersi al fatto compiuto qualsivoglia forma di legittimazione giuridica.
In altri termini, il richiamato art. 167, evidentemente in considerazione delle prassi applicative delle leggi succedutesi in materia di condoni e sanatorie (caratterizzate di regola dall’esercizio di poteri discrezionali delle Autorità preposte alla tutela del vincolo paesaggistico), ha inteso tutelare più rigorosamente i beni sottoposti al medesimo vincolo, precludendo in radice ogni valutazione di compatibilità ex post delle opere abusive, tranne quelle tassativamente indicate nello stesso art. 167.
Sul punto, si è osservato che il principio generale per il quale l’autorizzazione paesaggistica non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi è stato derogato prevedendo la possibilità di una valutazione postuma della compatibilità paesaggistica di alcuni interventi minori. Si tratta, in particolare, dei lavori, realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati; dell'impiego di materiali in difformità dall'autorizzazione paesaggistica; dei lavori configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria, ai sensi dell'art. 3 del T.U. Edilizia.
In tali ipotesi, poiché l’esiguità di interventi realizzati è circoscritta a casi tassativi per i quali è consentito il rilascio di un provvedimento di accertamento di compatibilità paesaggistica in sanatoria, vigendo, al di fuori di tali casi eccezionali, il divieto previsto dall’art. 146, quarto comma, del D.Lgs. 42/2004, la diversificazione tra le situazioni poste a raffronto (abusi “minori”, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati, e “maggiori”), non appare violare alcuno dei parametri costituzionali evocati dalla parte ricorrente, trattandosi, per l’appunto, di situazioni in relazione alle quali, venendo in rilievo la consistenza dell’opera realizzata sul piano della percezione nel contesto paesaggistico di riferimento, non risulta irragionevole una disciplina normativa diversa.

Il ricorso è destituito di giuridico fondamento.
Il Collegio osserva che l’istanza di accertamento di conformità e di compatibilità paesaggistica avanzata dalla parte ricorrente prevede la realizzazione di interventi edilizi ex novo (realizzazione di un nuovo solaio) al fine di ripristinare la volumetria originaria del fabbricato.
Tuttavia, alla luce del vigente ordinamento giuridico, non è ammissibile il rilascio di una concessione in sanatoria ai sensi dell’art. 36 D.P.R. 06.06.2001 n. 380 o di compatibilità paesaggistica ex art. 167 D.Lgs. 22.01.2004 n. 42 subordinata alla esecuzione di opere edilizie, anche se gli ulteriori interventi sono finalizzati a ricondurre l'immobile abusivo nell'alveo di conformità degli strumenti urbanistici o compatibili con il paesaggio.
Invero, ciò contrasta ontologicamente con gli elementi essenziali dell'accertamento di conformità, i quali presuppongono la già avvenuta esecuzione delle opere e la loro integrale conformità alla disciplina urbanistica (Cass. Pen., 12.11.2007 n. 41567; 27.09.2005 n. 986; 30.05.2000 n. 10601), dal momento che la compatibilità paesaggistica va scrutinata con riguardo alle opere già eseguite e non a quelle da eseguire (Cass. Pen. 24.03.2009 n. 19081).
Pertanto, nel valutare l’assentibilità del manufatto le intimate amministrazioni hanno correttamente valutato la consistenza del manufatto “al netto” del progetto di adeguamento proposto dalla parte ricorrente: trattandosi di immobile la cui volumetria era stata illegittimamente incrementata, appare quindi pienamente condivisibile l’argomentazione reiettiva tracciata nell’impugnato provvedimento prot. n. 5704/2007 secondo cui l’istanza non può essere accolta in quanto –ravvisandosi incremento volumetrico della consistenza originaria– deve escludersi la compatibilità paesaggistica ai sensi dell’art. 167 D.Lgs. 42/2004.
Con memoria depositata il 29.04.2008 parte ricorrente pone la questione di legittimità costituzionale per contrasto dell’art. 167, commi 4 e 5, del D.Lgs. 42/2004 con gli artt. 3, 9, 32, 41, 42 e 97 della Costituzione nella parte in cui le citate disposizioni contenute nel Codice dei Beni Culturali precludono l’autorizzazione paesaggistica in sanatoria per gli abusi edilizi concretanti, come nel caso di specie, nuova superficie utile o nuovo volume realizzato, senza che sia necessario, ai fini dell’assentibilità, valutarne in concreto la compatibilità paesaggistica.
La questione è manifestamente infondata.
Invero, con la scelta recepita dal Codice dei Beni Culturali il legislatore ha inteso presidiare il regime delle opere incidenti su beni paesaggistici, escludendo in radice che l’esame di compatibilità paesaggistica possa essere postergato all’intervento realizzato (sine titulo o in difformità dal titolo rilasciato) e ciò al fine di escludere che possa riconnettersi al fatto compiuto qualsivoglia forma di legittimazione giuridica.
In altri termini, il richiamato art. 167, evidentemente in considerazione delle prassi applicative delle leggi succedutesi in materia di condoni e sanatorie (caratterizzate di regola dall’esercizio di poteri discrezionali delle Autorità preposte alla tutela del vincolo paesaggistico), ha inteso tutelare più rigorosamente i beni sottoposti al medesimo vincolo, precludendo in radice ogni valutazione di compatibilità ex post delle opere abusive, tranne quelle tassativamente indicate nello stesso art. 167.
Sul punto, si è osservato (Consiglio di Stato, Sez. II, 08.04.2013 parere n. 1664) che il principio generale per il quale l’autorizzazione paesaggistica non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi è stato derogato prevedendo la possibilità di una valutazione postuma della compatibilità paesaggistica di alcuni interventi minori. Si tratta, in particolare, dei lavori, realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati; dell'impiego di materiali in difformità dall'autorizzazione paesaggistica; dei lavori configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria, ai sensi dell'art. 3 del T.U. Edilizia.
In tali ipotesi, poiché l’esiguità di interventi realizzati è circoscritta a casi tassativi per i quali è consentito il rilascio di un provvedimento di accertamento di compatibilità paesaggistica in sanatoria, vigendo, al di fuori di tali casi eccezionali, il divieto previsto dall’art. 146, quarto comma, del D.Lgs. 42/2004, la diversificazione tra le situazioni poste a raffronto (abusi “minori”, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati, e “maggiori”), non appare violare alcuno dei parametri costituzionali evocati dalla parte ricorrente, trattandosi, per l’appunto, di situazioni in relazione alle quali, venendo in rilievo la consistenza dell’opera realizzata sul piano della percezione nel contesto paesaggistico di riferimento, non risulta irragionevole una disciplina normativa diversa.
Le considerazioni svolte circa l’insussistenza di margini per l’accoglimento dell’istanza di sanatoria conduce inoltre a dequotare il vizio procedimentale censurato dalla parte ricorrente per omessa comunicazione del c.d. preavviso di rigetto ex art. 10-bis L. 241/1990.
Ed invero, con specifico riguardo a tale ultimo profilo deve rammentarsi che il provvedimento ex art. 36 D.P.R. 380/2001 si caratterizza per la sua connotazione oggettiva e vincolata in quanto l’amministrazione si limita a effettuare una valutazione sulla conformità alla disciplina urbanistica senza svolgere apprezzamenti discrezionali (TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 06.12.2012 n. 4971; Sez. III, 13.07.2010 n. 16689).
Inoltre, per pacifico e consolidato orientamento giurisprudenziale, ove le opere risultino diverse da quelle sanabili e indicate nell’art. 167, le competenti autorità non possono che emanare un atto dal contenuto vincolato e cioè esprimersi nel senso della reiezione dell’istanza di sanatoria (Consiglio di Stato, Sez. VI, 20.06.2012 n. 3578), con l’unica eccezione a tale rigida prescrizione per il caso in cui i lavori, pur se realizzati in assenza o difformità dell’autorizzazione paesaggistica, non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati.
Alla fattispecie, pertanto, è applicabile l’art. 21-octies della L. 241/1990 che statuisce la non annullabilità del provvedimento adottato in violazione delle norme sul procedimento amministrativo qualora per la sua natura vincolata sia palese che il suo contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello concretamente adottato. Attesa la natura dovuta del diniego di accertamento di conformità e di compatibilità paesaggistica per le ragioni illustrate, il relativo procedimento non è quindi inficiato dall’omissione del preavviso di rigetto dell’istanza.
E’ del pari legittima anche la conseguente ordinanza di demolizione basata sul presupposto del mancato accoglimento, per le ragioni sopra enunciate, della domanda di concessione in sanatoria.
Conclusivamente, ribadite le svolte considerazioni, il ricorso ed i motivi aggiunti devono essere respinti pur stimandosi equo disporre l’integrale compensazione delle spese di giudizio in ragione della peculiare natura delle questioni dedotte in giudizio (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 04.06.2014 n. 3066 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl parere della commissione paesaggio si rende necessario tutte le volte in cui venga in questione una valutazione di natura “discrezionale” circa la compatibilità paesaggistica di un intervento ex art. 167, comma 4, del D.Lgs. n. 42/2004, per esempio circa l'impiego di materiali in difformità dall'autorizzazione paesaggistica.
Diversamente, tutte le volte in cui la compatibilità paesaggistica debba essere negata per profili strettamente edilizi e sulla base di un’applicazione “vincolata” della disposizione (per esempio, per interventi eccedenti la manutenzione, che abbiano determinato la creazione di superfici utili o volumi, ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati), il parere in questione potrà essere legittimamente omesso, in ossequio al divieto di inutile aggravamento del procedimento amministrativo ex art. 1, comma 2, L. n. 241/1990.
Del resto, per costante giurisprudenza il provvedimento di diniego di condono edilizio costituisce espressione di potere vincolato rispetto ai presupposti normativi richiesti e dei quali deve farsi applicazione, sicché l’omissione di un parere obbligatorio –che costituisce violazione di norma sul procedimento– è sanabile mercé l’applicazione dell’art. 21-octies, comma 2, L. n. 241/1990, allorché -come nel caso di specie, in cui è pacifica la creazione di volume- sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.

3. Infondato è anche il terzo motivo di ricorso.
Quanto alla commissione edilizia, l’art. 12 del regolamento edilizio, nella parte in cui richiedeva il parere della commissione edilizia in merito ai “dinieghi di sanatorie e di condoni” è stato abrogato con deliberazione del consiglio comunale 28.09.2010, n. 84.
Quanto alla commissione locale per il paesaggio, l’art. 2, comma 2, della L.R. 05.06.2009, n. 22, stabilisce che “le Commissioni esprimono pareri obbligatori in relazione ai procedimenti: […] b) di rilascio di pareri su istanze di condono edilizio o di accertamento di compatibilità paesaggistica ai sensi degli articoli 167 e 181 del Codice”.
La ratio della normativa (la L.R. n. 22/2009 è stata emanata in attuazione degli articoli 159, comma 1, 148 e 146, comma 6, del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42- Codice dei beni culturali e del paesaggio) rende evidente come il parere della commissione si renda necessario tutte le volte in cui venga in questione una valutazione di natura “discrezionale” circa la compatibilità paesaggistica di un intervento ex art. 167, comma 4, del D.Lgs. n. 42/2004, per esempio circa l'impiego di materiali in difformità dall'autorizzazione paesaggistica.
Diversamente, tutte le volte in cui la compatibilità paesaggistica debba essere negata per profili strettamente edilizi e sulla base di un’applicazione “vincolata” della disposizione (per esempio, per interventi eccedenti la manutenzione, che abbiano determinato la creazione di superfici utili o volumi, ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati), il parere in questione potrà essere legittimamente omesso, in ossequio al divieto di inutile aggravamento del procedimento amministrativo ex art. 1, comma 2, L. n. 241/1990.
Del resto, per costante giurisprudenza il provvedimento di diniego di condono edilizio costituisce espressione di potere vincolato rispetto ai presupposti normativi richiesti e dei quali deve farsi applicazione (cfr. Cons. di St., IV, 05.11.2012, n. 5619; TAR Liguria, I, 08.06.2012, n. 785), sicché l’omissione di un parere obbligatorio –che costituisce violazione di norma sul procedimento– è sanabile mercé l’applicazione dell’art. 21-octies, comma 2, L. n. 241/1990, allorché -come nel caso di specie, in cui è pacifica la creazione di volume- sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 26.02.2014 n. 360 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

UTILITA'

EDILIZIA PRIVATA: IVA in edilizia, ecco un’analisi delle diverse casistiche.
IVA in edilizia, continua la riproposizione degli Speciali di BibLus-net più utili. In questo articolo parliamo di IVA, con lo Speciale che tratta i casi principali.
L’IVA in edilizia costituisce un argomento decisamente complesso e spesso nasconde insidie anche per gli esperti del settore.
La legislazione fiscale, infatti, è molto articolata e classifica in modo dettagliato i diversi ambiti di applicazione in edilizia, definendo e delimitando i diversi tipi di intervento e le varie aliquote applicabili.
In linea generale, anche in edilizia l’aliquota ordinaria dell’IVA è del 22%, ma ci sono due aliquote agevolate al 4% e al 10%.
In questo articolo proponiamo uno Speciale a cura della redazione di BibLus-net che ha lo scopo di chiarire e riassumere le modalità di applicazione dell’IVA ai vari interventi edilizi.
In particolare, vengono analizzate le 3 aliquote e tutti i casi e le modalità di applicazione.
In Appendice sono disponibili le seguenti tavole sinottiche:
• Nuove costruzioni
• Interventi di manutenzione, recupero, risanamento e ristrutturazione di cui al DPR 380/2001 (art. 3, comma 1)
• Beni finiti
• Prestazioni di servizi
• Tabella riepilogativa IVA al 4%
• Tabella riepilogativa IVA al 10% (03.08.2015 - link a www.acca.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA - APPALTI SERVIZI - SICUREZZA LAVORO: G.U. 03.08.2015 n. 178 "Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea - Legge europea 2014" (Legge 29.07.2015 n. 115).
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Di interesse si leggano:
Art. 8. - Disposizioni in materia di affidamento di servizi pubblici locali. Procedure di infrazione n. 2012/2050 e 2011/4003
Art. 16. - Disposizioni in materia di salute e sicurezza dei lavoratori nei cantieri temporanei o mobili. Caso EU Pilot 6155/14/EMPL
Art. 23. - Disposizioni finalizzate al corretto recepimento della direttiva 94/62/CE sugli imballaggi e rifiuti di imballaggio. Procedura di infrazione n. 2014/2123

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 32 del 03.08.2015, "Sesto aggiornamento 2015 dell’elenco degli enti locali idonei all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005, art. 80)" (decreto D.G. 29.07.2015 n. 6391).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI - SICUREZZA LAVORO: G.U. 31.07.2015 n. 176 "Delega al Governo per il recepimento delle direttive europee e l’attuazione di altri atti dell’Unione europea - Legge di delegazione europea 2014" (Legge 09.07.2015 n. 114).
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Di interesse si leggano:
Art. 14. - Princìpi e criteri direttivi per l’attuazione della direttiva 2014/52/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16.04.2014, che modifica la direttiva 2011/92/ UE concernente la valutazione dell’impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati
Art. 16. - Criterio direttivo per l’attuazione della direttiva 2013/35/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26.06.2013, sulle disposizioni minime di sicurezza e di salute relative all’esposizione dei lavoratori ai rischi derivanti dagli agenti fisici (campi elettromagnetici)

CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI: G.U. 31.07.2015 n. 176 "Regolamento in materia di esercizio del potere sanzionatorio, ai sensi dell’art. 47 del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33" (A.N.AC., provvedimento 15.07.2015).

APPALTI: G.U. 30.07.2015 n. 175, suppl. ord. n. 44, "Ripubblicazione del testo della legge 13.07.2015, n. 107, recante: «Riforma del sistema nazionale di istruzione e formazione e delega per il riordino delle disposizioni legislative vigenti.» corredato delle relative note".
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Di interesse si legga:
- art. 1, comma 169, che rinvia all'01.11.2015 l'entrata in vigore delle Centrali di committenza: "169. All’articolo 23-ter , comma 1, del decreto-legge 24.06.2014, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla legge 11.08.2014, n. 114, e successive modificazioni, le parole: «1º settembre 2015» sono sostituite dalle seguenti: «1º novembre 2015».".

ENTI LOCALI: G.U. 30.07.2015 n. 175 "Differimento dal 30 luglio al 30.09.2015 del termine per la deliberazione del bilancio di previsione 2015 delle città metropolitane, delle province e degli enti locali della Regione Siciliana" (Ministero dell'Interno, decreto 30.07.2015).

PATRIMONIO: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 31 del 30.07.2015, "POR FESR 2014-20: Asse IV, Azione IV.4.C.1.1 - Iniziativa per la riqualificazione energetica degli edifici pubblici di proprietà di piccoli Comuni, unioni di Comuni, Comuni derivanti da fusione e Comunità Montane" (deliberazione G.R. 24.07.2015 n. 3904).

PUBBLICO IMPIEGO: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 30 del 24.07.2015, "Modalità di iscrizione e di tenuta dell’elenco dei Comandanti e dei Responsabili di servizio di Polizia locale istituito presso la competente direzione della Giunta Regionale ai sensi dell’articolo 12 della legge regionale 01.04.2015, n. 6" (deliberazione G.R. 17.007.2015 n. 3870).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 30 del 24.07.2015:
"Deroga regionale per il comune di Certosa di Pavia, in provincia di Pavia, all’obbligo di gestione associata delle funzioni fondamentali tra comuni ai sensi dell’art. 21, comma 4, lett. b) e comma 6 della legge regionale 05.08.2014, n. 24 «Assestamento al bilancio 2014-2016 - I provvedimento di variazione con modifiche di leggi regionali»" (deliberazione G.R. 17.07.2015 n. 3847);
"Deroga regionale per i comuni di Copiano e Villanterio al raggiungimento dei limiti demografici minimi ai comuni obbligati all’esercizio associato delle funzioni fondamentali ai sensi dell’articolo 10, della legge regionale 28.12.2011, n. 22, «Disposizioni per l’attuazione della programmazione economico-finanziaria regionale, ai sensi dell’art. 9-ter della l.r. 31.03.1978, n. 34 ‘Norme sulle procedure della programmazione, sul bilancio e sulla contabilità della regione’
 collegato 2012»" (deliberazione G.R. 17.07.2015 n. 3848);
"Deroga regionale per il comune di Berlingo, in provincia di Brescia, e di Brunate, in provincia di Como, all’obbligo di gestione associata delle funzioni fondamentali tra comuni ai sensi dell’art. 21, comma 4, lett. a) e comma 6 della legge regionale 05.08.2014, n. 24 «Assestamento al bilancio 2014-2016 - I provvedimento di variazione con modifiche di leggi regionali»" (deliberazione G.R. 17.07.2015 n. 3849).

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 24.07.2015 n. 170 "Disposizioni di prevenzione incendi per le attività ricettive turistico - alberghiere con numero di posti letto superiore a 25 e fino a 50" (Ministero dell'Interno, decreto 14.07.2015).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 30 del 23.07.2015, "Disposizioni in merito alla disciplina per l’efficienza energetica degli edifici ed al relativo attestato di prestazione energetica a seguito dell’approvazione dei decreti ministeriali per l’attuazione del d.lgs. 192/2005, come modificato con l. 90/2013" (deliberazione G.R. 17.07.2015 n. 3868).

APPALTI: G.U. 22.07.2015 n. 168 "Saggio degli interessi da applicare a favore del creditore nei casi di ritardo nei pagamenti nelle transazioni commerciali".
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Interessi moratori all'8,05% per i ritardati pagamenti delle transazioni.
Confermato anche per il 2° semestre 2015 il tasso degli interessi di mora all'8,05% per i ritardati pagamenti delle transazioni commerciali.

È stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 167 del 21.07.2014 il nuovo tasso di riferimento dello 0,05%, al quale vanno aumentati 8 punti percentuali per determinare il tasso annuale di mora da applicare per i ritardati pagamenti delle transazioni commerciali, nel periodo che va dal 01.07.2015 al 31.12.2015, in base alla normativa europea disciplinata dal decreto legislativo 09.10.2002, n. 231.
Anche per il secondo semestre 2015, quindi, la percentuale degli interessi di mora da applicare sui ritardati pagamenti è dell’8,05%. Si precisa che, invece, per chi cede prodotti agricoli e alimentari (non a consumatori privati), il tasso annuale di mora è del 10,05% dal 01.01.2015 al 03.07.2015 e del 12,05% dal 04.07.2015 fino al 31.12.2015 (commento tratto da www.fiscoetasse.com).

LAVORI PUBBLICI: G.U. 21.07.2015 n. 167 "Rilevazione dei prezzi medi per l’anno 2013 e delle variazioni percentuali annuali superiori al dieci per cento, relative all’anno 2014, ai fini della determinazione delle compensazioni dei singoli prezzi dei materiali da costruzione più significativi" (Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, decreto 01.07.2015).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Recepimento della nuova normativa nazionale in merito all’efficienza energetica degli edifici e relativo Attestato di Prestazione Energetica (ANCE di Bergamo, circolare 31.07.2015 n. 174).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Oggetto: Valutazione di Impatto Ambientale per impianti mobili di trattamento rifiuti (ANCE di Bergamo, circolare 31.07.2015 n. 169).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Annullamento Durc On-Line anomali - Circolare CNCE n. 31 (ANCE di Bergamo, circolare 31.07.2015 n. 168).

APPALTIOggetto: Indicazioni e chiarimenti in merito al calcolo dell'indicatore di tempestività dei pagamenti della amministrazioni pubbliche, ai sensi dell'articolo 8, comma 3-bis, del decreto-legge 24.04.2014, n. 66, convertito, con modificazioni, dalla legge 23.06.2014, n. 89 (Ministero dell'Economia e delle Finanze, Ragioneria Generale dello Stato, circolare 22.07.2015 n. 22).

PUBBLICO IMPIEGO: OGGETTO: Decreto legislativo n. 80 del 15.06.2015 in attuazione dell’art. 1, commi 8 e 9 della legge delega n. 183 del 2014 (Jobs Act) - Congedo parentale. Elevazione dei limiti temporali di fruibilità del congedo parentale da 8 a 12 anni ed elevazione dei limiti temporali di indennizzo a prescindere dalle condizioni di reddito da 3 a 6 anni (INPS, circolare 17.07.2015 n. 139 - link a www.inps.it).
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SOMMARIO:
1. Le lavoratrici ed i lavoratori dipendenti possono fruire dell’eventuale periodo di congedo parentale ancora spettante fino al compimento dei 12 anni di età del figlio oppure fino a 12 anni dall’ingresso in famiglia del minore adottato/affidato. La novità riguarda periodi fruiti entro il 2015.
2. I periodi di congedo fruiti fino a 6 anni di età del figlio, oppure fino a 6 anni dall’ingresso in famiglia del minore adottato/affidato, sono indennizzati al 30% della retribuzione media giornaliera a prescindere dalle condizioni di reddito del genitore richiedente. La novità riguarda i periodi fruiti entro il 2015.
3. La fruizione del congedo parentale tra il 25.06.2015 e il 31.12.2015 è coperta da contribuzione figurativa fino al 12° anno del bambino ovvero fino al 12° anno di ingresso del minore in caso di adozione o affidamento; nei limiti temporali ai quali è sottoposta la riforma in oggetto, l’allungamento della fruibilità del congedo parentale si applica anche al beneficio di cui al comma 5 dell’art. 35 del D.lgs. 151/2001.
4.Le domande all’INPS, anche per i periodi fruibili in base alla riforma, sono presentate on-line, fatto salvo il periodo transitorio dal 25 giugno alla data dell’aggiornamento della procedura di presentazione delle domande.

ENTI LOCALI - VARI: MEZZI AEREI A PILOTAGGIO REMOTO (ENAC, regolamento 16.07.2015 edizione n. 2).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: OGGETTO: Istruzioni applicative circa la decurtazione permanente da applicare, a partire dal 2015, ai fondi della contrattazione integrativa, in misura corrispondente ai risparmi realizzati ai sensi dell'articolo 9, comma 2-bis, del decreto legge 31.05.2010, n. 78 convertito, con modificazioni, in legge 30.07.2010, n. 122 come modificato dall'articolo 1, comma 456, della legge n. 147/2013 (Ministero dell'Economia e delle Finanze, Ragioneria Generale dello Stato, circolare 08.05.2015 n. 20).

A.N.AC. (già AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI)

APPALTIVia a 35 centrali committenza. Prorogati a novembre i nuovi obblighi per i comuni. L'Anac accredita le prime nel suo elenco. Ma la materia è destinata a cambiare presto.
Ancora due mesi prima che scatti l'obbligo per gli enti locali di ricorrere a forme aggregate di acquisto di beni e servizi; il differimento dell'obbligo è previsto dal 1° settembre al 01.11.2015; intanto l'Anac accredita nel suo elenco le prime 35 centrali di committenza, ma nel disegno di legge delega appalti si prefigura un nuovo pesante intervento sulla materia.

Sono queste alcune delle novità riguardanti il mondo variegato delle «centrali di committenza», uno degli strumenti considerati essenziali per il contenimento della spesa pubblica e per la semplificazione delle procedure di affidamento a livello locale, regionale e statale.
Diversi sono i livelli di intervento, dalle urgenze, all'attuazione della normativa vigente, alle ulteriori modifiche in corso di esame.
Sul fronte delle «urgenze» il provvedimento più recente è quello concernente la proroga per i comuni non capoluogo di fare ricorso a soggetti delegati di committenza sotto diverse forme (Unione dei comuni, accordi consortili con altri comuni, o ricorso ai soggetti aggregatori o alle province), salvi i casi di acquisti con procedure telematiche (per esempio, tramite Consip) che possono essere effettuati in forma autonoma e gli affidamenti fino a 40.000 per i comuni non capoluogo con più di 10.000 abitanti per contratti fino a 40.000 euro.
La disposizione che fa slittare il termine di entrata in vigore di quest'obbligo dal 01.09.2015 al 01.11.2015, è contenuta all'interno della legge n. 107/2015 (cosiddetta «Buona scuola») pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 15.07.2015.
Nel frattempo l'Anac con propria delibera 22.07.2015 n. 58 ha diffuso l'elenco dei soggetti aggregatori di cui all'articolo 9 del dl 66/2014, il provvedimento di legge che ha stabilito che non potranno essere più di 35 le centrali di committenza.
L'elenco dei soggetti ammessi è stato pubblicato dall'Autorità nazionale anticorruzione e fra di essi figurano, oltre alla Consip, un soggetto aggregatore per ogni regione (in forma di Sua -Stazione unica appaltante, o di direzione della regione, o di società costituita ad hoc, come è il caso del Piemonte con la Scr- Società di committenza regione Piemonte spa, o di Città metropolitana per le grandi città. Fra i soggetti non ammessi spiccano Asmel (in Campania), per carenza di requisiti soggettivi e, in particolare, per la non rispondenza ai modelli organizzativi di cui all'art. 33, comma 3-bis, del codice dei contratti e Invitalia, per carenza di requisiti.
In prospettiva, però, la materia potrebbe essere soggetta a ulteriori cambiamenti visto che nel disegno di legge delega appalti vi è un apposito criterio di delega. In particolare nella norma che è all'esame della camera si legge che bisognerà ridurre il numero in base al grado di qualificazione conseguito dalle stazioni appaltanti (si istituirà un apposito sistema di qualificazione) e di capacità di gestire contratti di particolare complessità.
La legge salva però l'obbligo, per i comuni non capoluogo di provincia, di ricorrere alle centrali di committenza prevedendo, per gli affidamenti di importo superiore alle soglie di rilevanza comunitaria, un livello di aggregazione almeno regionale o di provincia autonoma e, per gli affidamenti di importo superiore a 100.000 euro e inferiore alle medesime soglie di rilevanza comunitaria, aggiudicati da comuni non capoluogo di provincia, livelli di aggregazione sub provinciali.
In questo caso si dovranno definire gli ambiti ottimali territorialmente omogenei e garantire la tutela dei diritti delle minoranze linguistiche come previsto dalla Costituzione e dalle disposizioni vigenti (articolo ItaliaOggi del 31.07.2015).

CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI: Niente trasparenza? Multa fino a 10mila euro. Anac. Per le amministrazioni che non rispettano gli obblighi sui patrimoni.
L’inosservanza da parte delle amministrazioni pubbliche degli obblighi di pubblicazione relativi alla situazione patrimoniale dei soggetti che ricoprono incarichi politici, nonché ai dati sulle partecipazioni in società e sugli amministratori delle stesse comporta sanzioni rilevanti che possono essere contestate dall’Anac nell'esercizio delle sue funzioni di vigilanza.
L’Autorità nazionale anticorruzione ha pubblicato il 23 luglio il regolamento 15.07.2015 per la gestione del procedimento per le sanzioni previste dall’articolo 47 del Dlgs 33/2013 (da 500 a 10mila euro), precisando nelle disposizioni i comportamenti che danno luogo alle violazioni degli obblighi e le modalità di contestazione delle stesse. Il regolamento stabilisce in ordine alle due fattispecie previste dalla norma i profili comportamentali che determinano le violazioni.
Per quanto riguarda il comma 1 dell’articolo 47, la mancata o incompleta comunicazione, da parte del titolare dell’incarico, delle informazioni e dei dati relativi alla situazione patrimoniale e alle partecipazioni è dettagliata nella casistica di sviluppo.
Peraltro, il regolamento evidenzia due ipotesi:
- nel caso in cui il responsabile della trasparenza attesti che l’inadempimento sia dipeso dall’omessa comunicazione da parte del titolare dell’incarico delle informazioni e dei dati, l'Anac avvia il procedimento sanzionatorio contestando la violazione;
- nel caso, invece, in cui i dati siano stati correttamente comunicati dal titolare dell’incarico al responsabile della trasparenza e, tuttavia, non siano stati pubblicati in tutto o in parte, l’autorità si riserva di ordinare all’amministrazione di pubblicare le informazioni e i dati mancanti.
Le violazioni previste dall’articolo 47, comma 2, sono distinte con riferimento anzitutto al primo periodo, che regola fattispecie che attengono alla mancata pubblicazione, da parte del soggetto individuato nel programma triennale trasparenza e integrità, ovvero in altro atto organizzativo interno, dei dati relativi agli enti.
Le violazioni previste nel secondo periodo del comma 2, attengono invece alla mancata comunicazione, da parte degli amministratori societari, ai soci pubblici, del proprio incarico e del relativo compenso entro trenta giorni dal conferimento ovvero, per le indennità di risultato, entro 30 giorni dal percepimento.
Vengono quindi ad essere distinte le responsabilità dell’amministrazione partecipante da quelle degli amministratori delle società partecipate. .
L’attività di vigilanza dell’Anac si presenta a spettro molto ampio, tanto che in data 24 luglio è stato emanato un comunicato del presidente che specifica l’estrazione a campione degli appalti di lavori affidati in deroga in base alle norme del decreto sbloccaItalia (articolo 9 legge 164/2014), per i quali l’autorità deve svolgere una specifica attività di monitoraggio.
Il comunicato evidenzia le modalità con le quali sono stati individuati i campioni e i sub-campioni da sottoporre ad analisi, che hanno determinato l'individuazione di 16 affidamenti, con importi variabili tra i 40mila e i tre milioni di euro, aggiudicati con procedura negoziata con gara informale o con affidamenti mediante cottimo fiduciario, sfruttando le deroghe concesse dalla norma
(articolo Il Sole 24 Ore del 25.07.2015).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOEnti, spiragli per le assunzioni. Mano libera sui budget residui del triennio 2011-2013. Per la sezione autonomie non sono vincolati all'assorbimento degli esuberi provinciali.
Mano libera degli enti locali sui budget assunzionali residui del triennio 2011-2013, che non sono vincolati all'assorbimento degli esuberi delle province, ma possono essere utilizzati anche per nuove assunzioni.

Lo ha chiarito la Corte dei conti, sezione delle autonomie, pronunciandosi con deliberazione 28.07.2015 n. 26 sulla questione di massima rimessa dalla sezione regionale di controllo della Lombardia in merito alla corretta interpretazione dell'art. 1, comma 424, della l. 190/2014.
Tale norma impone agli enti locali, per il biennio 2015-2016, il blocco delle assunzioni ordinarie (al netto di quelle riguardanti vincitori di concorsi collocati in graduatorie già approvate o vigenti al 01/01/2015) e l'utilizzo del proprio budget assunzionale esclusivamente per il ricollocamento del personale provinciale dichiarato in esubero (fino al 100% del turn-over).
Fra i tanti dubbi posti da questa disciplina (in gran parte risolti dalla deliberazione della stessa sezione autonomie n. 19/2015), rimaneva da sciogliere quella relativo alla possibilità di utilizzare liberamente nel biennio 2015-2016, i budget per assunzioni di anni precedenti: per esempio, il budget 2014 costituito dalle cessazioni 2013 e rinviato al 2015.
Sul punto, invero, la circolare della Funzione pubblica n. 1/2015 ha espressamente consentito di utilizzare liberamente le quote residue della capacità assunzionale di anni precedenti, ma è stata contraddetta dalla sezione Lombardia, secondo la quale il budget dell'anno 2014 risulterebbe «attratto» nell'ambito delle risorse 2015 destinate alla mobilità obbligatoria del personale provinciale e, pertanto, anch'esso andrebbe destinato esclusivamente al ricollocamento degli esuberi.
Invero, la pronuncia lombarda ha sollevato il problema in un quadro normativo che ammetteva il solo cumulo triennale verso il «futuro» ex art. 3, comma 5, primo periodo, del dl 90/2014, mentre nel frattempo il dl 78/2015 ha ripristinato anche la possibilità (prima negata da sezione autonomie n. 27/2014 per gli enti soggetti a Patto) di cumulare i resti del triennio precedente.
Anche dopo tale novella, tuttavia, altre sezioni regionali hanno negato tale possibilità (deliberazione n. 304/2015 del Veneto e n. 163/2015 delle Marche), mentre in senso favorevole si erano espressi la sezione della Sardegna (deliberazione n. 32/2015) e di recente anche l'Anci.
Quest'ultima tesi trova ora conferma da parte delle autonomie, che hanno enunciato il seguente principio di diritto: «gli enti locali possono effettuare assunzioni di personale a tempo indeterminato utilizzando la capacità assunzionale del 2014 derivante dalle cessazioni di personale nel triennio 2011-2013, sempre nel rispetto dei vincoli di finanza pubblica; mentre, con riguardo al budget di spesa del biennio 2015-2016 (riferito alle cessazioni di personale intervenute nel 2014 e nel 2015), la capacità assunzionale è soggetta ai vincoli posti dall'articolo 1, comma 424, della legge 190/2014 finalizzati a garantire il riassorbimento del personale provinciale».
In pratica, quindi, si possono effettuare assunzioni di personale a tempo indeterminato non vincolate dalla disposizione del comma 424 utilizzando la capacità assunzionale del 2014 derivante dalle cessazioni di personale nel triennio 2011-2013, mentre il budget di spesa del biennio 2015-2016 (riferito alle cessazioni di personale intervenute nel 2014 e nel 2015) deve essere riservato al riassorbimento del personale provinciale (al netto dell'eventuale quota destinata da assumere i vincitori di concorso).
La sezione, invece, non ha chiarito se la trasformazione di un rapporto di lavoro da tempo parziale a tempo pieno sia ammessa (come sostenuto dalla Funzione pubblica) o ricada nel blocco previsto dal comma 424 (come affermato dalla sezione della Lombardia) (articolo ItaliaOggi dell'01.08.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOGli enti locali possono effettuare assunzioni di personale a tempo indeterminato utilizzando la capacità assunzionale del 2014 derivante dalle cessazioni di personale nel triennio 2011-2013, sempre nel rispetto dei vincoli di finanza pubblica.
Mentre, con riguardo al budget di spesa del biennio 2015-2016 (riferito alle cessazioni di personale intervenute nel 2014 e nel 2015), la capacità assunzionale è soggetta ai vincoli posti dall’articolo 1, comma 424 della legge 190/2014 finalizzati a garantire il riassorbimento del personale provinciale.
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1. Il primo quesito rimesso a questa Sezione è sostanzialmente il seguente: “se l’ente comunale procede nell’anno 2015 ad una nuova assunzione utilizzando il budget relativo all’anno 2014 (nella percentuale del 60% della spesa riferita al personale cessato nell’anno 2013), trovano applicazione le limitazioni previste dall’art. 1, commi 424 e 425, della l. n. 190/2014 in relazione alla ricollocazione del personale delle provincie e delle città metropolitane?
Nel merito, la Sezione lombarda remittente ha ritenuto (con la citata deliberazione del 23.03.2015, n. 120/2015/QMIG) che la circolare del Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione n. 1/2015 abbia risolto la questione, per gli enti locali e le regioni, limitando la portata applicativa del comma 424 cit. al budget delle assunzioni relativo agli anni 2015 e 2016, nonché precisando che il budget vincolato dalla legge di stabilità “è quello riferito alle cessazioni 2014 e 2015” (pag. 15 della circolare citata, sub paragrafo “ambito soggettivo e disciplina del comma 424”).
Inoltre, la volontà del Ministero di “limitare” la portata applicativa del comma 424 a quelle sole assunzioni a tempo indeterminato che verranno effettuate a valere sui budget 2015-2016, emerge a pag. 17 della circolare in parola dove –sub paragrafo “divieti ed effetti derivanti dai commi 424 e 425 per le amministrazioni pubbliche”- si afferma a chiare lettere che “rimangono consentite le assunzioni, a valere sui budget degli anni precedenti, nonché quelle previste da norme speciali”.
L’interpretazione fornita dalla circolare è ritenuta dalla Sezione remittente conforme al dato letterale del richiamato comma 424; la medesima Sezione, tuttavia, evidenzia che la ratio della norma è volta ad assicurare che, negli anni 2015 e 2016, le regioni e gli enti locali devono destinare le risorse per le assunzioni a tempo indeterminato di personale unicamente alle seguenti due finalità̀: “immissione nei ruoli dei vincitori di concorso pubblico collocati nelle proprie graduatorie vigenti o approvate alla data di entrata in vigore della presente legge” e “ricollocazione nei propri ruoli delle unità soprannumerarie destinatarie dei processi di mobilità”.
Partendo proprio da questa osservazione, la Sezione remittente ritiene che nell’inciso “per gli anni 2015 e 2016, destinano le risorse per le assunzioni a tempo indeterminato” possono farsi rientrare non solo i budget 2015 e 2016, bensì anche il budget 2014 oggetto di cumulo alla stregua dell’ultimo periodo del comma 5 dell’art. 3 del d.l. n. 90/2014.
Tale soluzione ermeneutica comporta che l’assunzione programmata dall’ente comunale per l’anno 2015 (anche se fatta valere sul budget dell’anno precedente) soggiacerebbe comunque ai vincoli fissati dal comma 424 cit. e, quindi, favorirebbe in concreto la “immissione nei ruoli dei vincitori di concorso pubblico collocati nelle proprie graduatorie vigenti o approvate alla data di entrata in vigore della presente legge” e la “ricollocazione nei propri ruoli delle unità soprannumerarie destinatarie dei processi di mobilità”.
Viceversa, se si applicasse la soluzione interpretativa fornita dalla circolare n. 1/2015, qualora il Comune potesse, nel 2015, procedere ad una nuova assunzione, non soggiacerebbe ai vincoli fissati dal comma 424, in quanto detta assunzione avverrebbe sulla scorta del budget 2014 maturato per una cessazione intervenuta nell’anno 2013; in altri termini, l’amministrazione interessata potrebbe indire un concorso nell’anno 2015 per procedere ad un’assunzione che si avvale del budget dell’anno 2014, utilizzabile, ove sia stata effettuata la prescritta programmazione, nel 2015.
Tanto premesso ai fini dell’inquadramento della questione, questa Sezione rileva che, successivamente alla richiamata deliberazione della Sezione di controllo per la Lombardia, il legislatore è intervenuto con l’art. 4, comma 3, del decreto legge n. 78 del 19.06.2015, disponendo che: “All'articolo 3, comma 5, del decreto legge 24.06.2014, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla legge 11.08.2014, n. 114, dopo le parole "nel rispetto della programmazione del fabbisogno e di quella finanziaria e contabile" sono aggiunte le seguenti: “è altresì consentito l'utilizzo dei residui ancora disponibili delle quote percentuali delle facoltà assunzionali riferite al triennio precedente".
Tale novella legislativa, integrando il quadro interpretativo già fornito dalla circolare n. 1/2015 (registrata dalla Corte dei conti in data 20.02.2015), autorizza i Comuni ad impiegare nel 2015 l’eventuale budget residuo del triennio 2011-2013 per assunzioni non vincolate ai sensi del comma 424.
Ne consegue che per le cessazioni intervenute nel 2013, la capacità assunzionale del 2014, eventualmente rinviata nel 2015, non soggiace alle limitazioni introdotte dal citato comma 424, restando regolata da quanto previsto, per gli enti soggetti al patto di stabilità interno, dall’art. 3, comma 5, del D.L. n. 90/2014, convertito con legge n. 114/2014, che indica le quote percentuali di turn-over consentite per le assunzioni di personale a tempo indeterminato.
Si deve pertanto affermare che gli enti locali possono effettuare assunzioni di personale a tempo indeterminato non vincolate dalla disposizione del comma 424 utilizzando la capacità assunzionale del 2014 derivante dalle cessazioni di personale nel triennio 2011-2013, sempre nel rispetto dei vincoli di finanza pubblica; mentre, con riguardo al budget di spesa del biennio 2015-2016 (riferito alle cessazioni di personale intervenute nel 2014 e nel 2015), la capacità assunzionale è soggetta ai vincoli posti dall’articolo 1, comma 424, della legge 190/2014 finalizzati a garantire il riassorbimento del personale provinciale.
2. Con il secondo quesito rimesso a questa Sezione si richiede “se la trasformazione di un rapporto di lavoro da tempo parziale a tempo pieno, sottoposta alla disciplina limitativa delle assunzioni di personale dall’art. 3, comma 101, della legge n. 244/2007, sia soggetta, per gli anni 2015 e 2016, anche agli ulteriori limiti e divieti posti dall’art. 1, comma 424, della legge n. 190/2014”.
La Sezione remittente, sulla scorta del dettato letterale delle normativa in materia (art. 3, comma 101, legge n. 244/2007; art. 3, comma 5, del d.l. n. 90/2014, convertito con legge n. 114/2014; art. 1, comma 424, legge n. 190/2014), nonché dei pregressi orientamenti assunti da alcune Sezioni regionali di controllo, ritiene che, nell’attesa che si concludano le procedure previste dal comma 424 della legge di stabilità per il 2015, gli enti locali non possano procedere alla trasformazione di un rapporto di lavoro da tempo parziale a tempo pieno in quanto fattispecie normativamente equiparata alla disciplina prescritta per le assunzioni a tempo indeterminato.
Al riguardo, poiché la disciplina della trasformazione dei rapporti di lavoro da tempo parziale a tempo pieno non presenta profili ermeneutici direttamente riferibili alla disciplina di cui al citato comma 424, la Sezione delle Autonomie non può che confermare l’orientamento già espresso nella propria deliberazione 16.06.2015 n. 19, concludendo per il non luogo a deliberare sul quesito deferito dalla Sezione di controllo per la Lombardia con deliberazione n. 135/2015/QMIG.
In tale ultima deliberazione, infatti, si trova affermato che “l’esame delle questioni è limitato alle difficoltà interpretative, sotto il profilo letterale, sistematico e logico, direttamente ed esclusivamente connesse al tenore dell’art. 1, comma 424, della legge 190/2014; altri istituti concernenti altre facoltà assunzionali degli enti interessati, anche se indirettamente rilevanti nell’ambito del lavoro esegetico, restano fuori dal perimetro della questione di massima. La ragione di questa delimitazione dell’ambito esegetico risiede nel fatto che il comma 424 contiene solo un espresso regime derogatorio a specifiche norme che regolano la fattispecie dei limiti e dei vincoli alle assunzioni a tempo indeterminato. Ciò comporta che la pronuncia di orientamenti interpretativi su altre disposizioni non toccate da alcuna novella legislativa esorbita dalla stessa funzione nomofilattica, attesa la diversità della disciplina e delle fattispecie considerate. Tali fattispecie, estranee alle disposizioni contenute nell’art. 1, comma 424, della legge 190/2014, restano confermate nella loro peculiare disciplina normativa anche per quello che attiene ai relativi vincoli previsti dalle leggi”.
P.Q.M.
La Sezione delle autonomie della Corte dei conti, sulla questione interpretativa posta dalla Sezione regionale di controllo per la Lombardia con la deliberazione n. 120/2015/QMIG, pronuncia il seguente principio di diritto: “
gli enti locali possono effettuare assunzioni di personale a tempo indeterminato utilizzando la capacità assunzionale del 2014 derivante dalle cessazioni di personale nel triennio 2011-2013, sempre nel rispetto dei vincoli di finanza pubblica; mentre, con riguardo al budget di spesa del biennio 2015-2016 (riferito alle cessazioni di personale intervenute nel 2014 e nel 2015), la capacità assunzionale è soggetta ai vincoli posti dall’articolo 1, comma 424, della legge 190/2014 finalizzati a garantire il riassorbimento del personale provinciale” (Corte dei Conti, Sez. Autonomie, deliberazione 28.07.2015 n. 26).

APPALTI: Sulla possibilità, o meno, di riconoscere quali debiti fuori bilancio alcune poste relative ad interessi moratori maturati a seguito del ritardato pagamento di fatture per contratti stipulati dall’ente con ditte esterne.
...
L’obbligazione di pagamento degli interessi moratori non può configurare un’ipotesi di debito fuori bilancio.
Invero,
l’Amministrazione richiedente ha correttamente inquadrato la peculiarità della tipologia di spesa de qua; infatti, la non riconoscibilità del debito è riconducibile al difetto del requisito dell’utilità e dell’arricchimento nei confronti dell’ente stesso.
---------------
In generale, l’assenza di un regolare impegno di spesa, comporta che il pagamento della medesima sia preceduta dal riconoscimento del debito fuori bilancio nei termini indicati dall’art. 194, comma 1, lett. e), del TUEL., sempre che ne ricorrano tutti i presupposti.
Occorre mettere in luce, infatti, che
può procedersi al riconoscimento del debito solamente nei limiti nei quali il bene o il servizio acquisito rientrino “nell'ambito dell'espletamento di pubbliche funzioni e servizi di competenza” e venga accertata, con delibera motivata, sia l'utilità del bene o del servizio che l'arricchimento che l'attività ha comportato per l'ente (art. 194, co. 1, lett. e).
Il riconoscimento del debito fuori bilancio che derivi dall'acquisizione di un bene o servizio in assenza di impegno di spesa risulta essere, quindi, possibile, sempreché sussistano le condizioni previste dalla norma suindicata; con la conseguenza che ogni volta che l'ente abbia seguito una procedura irregolare può attuare una sorta di regolarizzazione a posteriori.
Tale regolarizzazione, però, non opera automaticamente in quanto viene demandata al Consiglio dell'ente la valutazione discrezionale in ordine alla sussistenza, in concreto, dei presupposti della norma e solo in caso positivo potrà procedersi all'effettivo riconoscimento.
Osserva il Collegio che
il legislatore ha richiesto che venga accertata e dimostrata il requisito dell’“utilità” della prestazione, senza che nella legislazione vigente si possa rinvenire una precisa nozione della fattispecie, demandando alla delibera consiliare di riconoscimento l’individuazione dei requisiti delle spese in questione, in un ottica di efficienza, efficacia e buona amministrazione.
In mancanza del requisito dell’utilità [art. 194, comma 1, lettera e), del TUEL] il comune non può riconoscere spontaneamente alcun debito né, tantomeno, quello per interessi che per sua stessa natura non produce affatto utilità all’ente.
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Peraltro,
non è pensabile che il comune, in presenza di un’obbligazione di interessi di mora per ritardato pagamento debba sostenere un contenzioso giudiziale, al fine di poter fare rientrare il debito nella fattispecie di cui alla lettera a) del citato comma 1 dell’art. 194 TUEL e subire le ulteriori conseguenze negative della condanna alle spese del giudizio.
Questa Sezione di controllo, pertanto, ritiene che se l’obbligazione degli interessi scaturisca dal mancato pagamento di un credito certo, liquido ed esigibile del creditore, l’ente debitore debba verificare la fondatezza e la correttezza delle richieste della parte privata, valutando eventualmente l’opportunità di giungere ad un accordo transattivo in cui dovranno, ovviamente, essere ben chiare le reciproche concessioni (cod. civ., art. 1965).
L’Amministrazione dovrà assumere tempestivamente l’impegno di spesa e provvedere, quanto prima, al relativo pagamento per evitare il proliferare di ulteriori interessi ed il rischio di subire azioni esecutive in sede giudiziaria.

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Il Sindaco del Comune di Taranto ha formulato una richiesta di parere alla Sezione volta a conoscere la corretta procedura di contabilizzazione degli interessi maturati, nel caso in cui l’ente non abbia provveduto ad assumere regolare impegno di spesa.
In particolare, il Rappresentante legale del comune istante, premettendo che gli interessi derivano dal ritardato pagamento di fatture relative a contratti stipulati dall’ente, per i quali è risultato insufficiente il relativo stanziamento di bilancio, ha posto il seguente quesito:
- “…si chiede se occorra seguire la procedura del riconoscimento dei debiti fuori bilancio di cui alla lettera e) art. 194 TUEL, anche se non si tratta di fattispecie rispetto alla quale in senso stretto è possibile apprezzare un’utilitas, oppure si debba procedere all’impegno di spesa sull’esercizio corrente, fatte salve le responsabilità a causa del ritardo di pagamento della fattura ed agire nei confronti di chi di ragione”.
...
La questione in esame concerne la possibilità o meno, per il comune di Taranto, di riconoscere quali debiti fuori bilancio alcune poste relative ad interessi moratori maturati a seguito del ritardato pagamento di fatture per contratti stipulati dall’ente con ditte esterne.
Il comune, quindi, si interroga se debba procedere con l’ordinaria procedura di spesa, stanziando e impegnando la somma necessaria nell’esercizio di competenza in cui la pretesa è sorta e rivolta all’ente, oppure se debba attivare la procedura del riconoscimento del debito fuori bilancio, trattandosi, per l’appunto di debiti non precedentemente impegnati.
Le Sezioni regionali di controllo hanno in molteplici occasioni (cfr. ex multis, Sezione regionale di controllo per la Sardegna, deliberazione n. 118/PAR/2011, Sezione regionale di controllo per il Piemonte, deliberazione n. 354/PAR/2013, Sezione regionale di controllo per Sezione regionale di controllo per la Regione siciliana n. 55/2014) espresso l’avviso che debito fuori bilancio sia ogni debito che non risulti preventivamente previsto nel bilancio dell’ente e, quindi, impegnato, su quel bilancio, nelle forme di legge, in coincidenza con l’assunzione di un’obbligazione giuridicamente perfezionata.
Ritiene il Collegio che l’obbligazione di pagamento degli interessi moratori non può configurare un’ipotesi di debito fuori bilancio.
Invero,
l’Amministrazione richiedente ha correttamente inquadrato la peculiarità della tipologia di spesa de qua; infatti, la non riconoscibilità del debito è riconducibile al difetto del requisito dell’utilità e dell’arricchimento nei confronti dell’ente stesso.
In generale,
l’assenza di un regolare impegno di spesa, comporta che il pagamento della medesima sia preceduta dal riconoscimento del debito fuori bilancio nei termini indicati dall’art. 194, comma 1, lett. e), del TUEL., sempre che ne ricorrano tutti i presupposti.
Occorre mettere in luce, infatti, che
può procedersi al riconoscimento del debito solamente nei limiti nei quali il bene o il servizio acquisito rientrino “nell'ambito dell'espletamento di pubbliche funzioni e servizi di competenza” e venga accertata, con delibera motivata, sia l'utilità del bene o del servizio che l'arricchimento che l'attività ha comportato per l'ente (art. 194, co. 1, lett. e).
Il riconoscimento del debito fuori bilancio che derivi dall'acquisizione di un bene o servizio in assenza di impegno di spesa risulta essere, quindi, possibile, sempreché sussistano le condizioni previste dalla norma suindicata; con la conseguenza che ogni volta che l'ente abbia seguito una procedura irregolare può attuare una sorta di regolarizzazione a posteriori.
Tale regolarizzazione, però, non opera automaticamente in quanto viene demandata al Consiglio dell'ente la valutazione discrezionale in ordine alla sussistenza, in concreto, dei presupposti della norma e solo in caso positivo potrà procedersi all'effettivo riconoscimento.
Osserva il Collegio che
il legislatore ha richiesto che venga accertata e dimostrata il requisito dell’“utilità” della prestazione, senza che nella legislazione vigente si possa rinvenire una precisa nozione della fattispecie, demandando alla delibera consiliare di riconoscimento l’individuazione dei requisiti delle spese in questione, in un ottica di efficienza, efficacia e buona amministrazione.
In mancanza del requisito dell’utilità [art. 194, comma 1, lettera e), del TUEL] il comune non può riconoscere spontaneamente alcun debito né, tantomeno, quello per interessi che per sua stessa natura non produce affatto utilità all’ente.
Peraltro,
non è pensabile che il comune, in presenza di un’obbligazione di interessi di mora per ritardato pagamento debba sostenere un contenzioso giudiziale, al fine di poter fare rientrare il debito nella fattispecie di cui alla lettera a) del citato comma 1 dell’art. 194 TUEL e subire le ulteriori conseguenze negative della condanna alle spese del giudizio.
Questa Sezione di controllo, pertanto, ritiene che se, come nel caso sottoposto all’esame, l’obbligazione degli interessi scaturisca dal mancato pagamento di un credito certo, liquido ed esigibile del creditore, l’ente debitore debba verificare la fondatezza e la correttezza delle richieste della parte privata, valutando eventualmente l’opportunità di giungere ad un accordo transattivo in cui dovranno, ovviamente, essere ben chiare le reciproche concessioni (cod. civ., art. 1965).
L’Amministrazione dovrà assumere tempestivamente l’impegno di spesa e provvedere, quanto prima, al relativo pagamento per evitare il proliferare di ulteriori interessi ed il rischio di subire azioni esecutive in sede giudiziaria.
Tali considerazioni sono avallate da quanto prescrive il nuovo principio contabile applicato (Allegato n. 4/2 al D.Lgs. 118/2011 - Aggiornato al D.M. del 20.05.2015), concernente la contabilità finanziaria, il quale al punto 6.3, capoverso. 7^ stabilisce che: “…Le attività gestionali e contabili sono improntate al principio dell’efficienza e della celerità del procedimento di spesa, tenuto conto anche della normativa in tema di interessi moratori per ritardati pagamenti...”.
In disparte, la questione inerente all’eventuale responsabilità erariale che si potrebbe configurare nel caso in cui fosse accertato, nelle sedi opportune, il ricorrere dei requisiti previsti dalla legge.
Ne deriva l’obbligatoria comunicazione alla competente Procura regionale della Corte dei conti (Corte dei Conti, Sez. controllo Puglia, parere 23.07.2015 n. 149).

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Il previgente art. 92, comma 5, del d.lgs. n. 163/2006 è stato abrogato dall’art. 13 del d.l. n. 90/2014, convertito con legge n. 114/2014.
Tuttavia, il legislatore ha mantenuto ferma la possibilità di attribuzione di un incentivo ai dipendenti degli enti pubblici cui sono conferiti incarichi tecnici nell’ambito delle procedure di aggiudicazione ed esecuzione di un’opera pubblica, salvo ridisciplinarne presupposti e limiti nel nuovo “fondo per la progettazione e l’innovazione” previsto dall’art. 13-bis della legge n. 114/2014
.
Di conseguenza,
a decorrere dall’entrata in vigore della legge n. 114/2014, di conversione del d.l. n. 90/2014, i comuni, come tutte le altre pubbliche amministrazioni, dovranno fare riferimento, per la disciplina degli incentivi al personale interno incaricato di attività tecniche nell’ambito del procedimento di aggiudicazione ed esecuzione di un’opera pubblica, alla nuova disciplina legislativa, con conseguente necessaria adozione di un nuovo regolamento interno che stabilisca la percentuale massima destinata a tali compensi (comma 7-bis) e un nuovo accordo integrativo decentrato, da recepire nel regolamento, che stabilisca i criteri di ripartizione (comma 7-ter).
Entrambi dovranno adeguarsi alle novità normative, fra le quali spicca l’esclusione, fra i soggetti beneficiari dell’incentivo, del personale con qualifica dirigenziale (comma 7-ter, ultimo periodo).
---------------
I punti fermi che il regolamento interno deve rispettare
sono i seguenti:
- erogazione ai soli dipendenti espletanti gli incarichi tassativamente indicati dalla norma (responsabile del procedimento, incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, e loro collaboratori), riferiti all’aggiudicazione ed esecuzione “di un’opera o un lavoro” (non, pertanto, di un appalto di fornitura di beni o di servizi).
La norma non richiede, ai fini della legittima erogazione, il necessario espletamento interno di una o più attività (per esempio, la progettazione), purché il regolamento ripartisca gli incentivi in maniera conforme alle responsabilità attribuite e devolva in economia la quota relativa agli incarichi conferiti a professionisti esterni;

- puntuale ripartizione del fondo incentivante tra gli incarichi attribuibili (responsabile del procedimento, progettista, responsabili della sicurezza, direttore dei lavori, collaudatori, nonché loro collaboratori), secondo percentuali rimesse alla discrezionalità dell’amministrazione, da mantenere, tuttavia, entro i binari della logicità, congruenza e ragionevolezza;
- devoluzione in economia delle quote del fondo incentivante corrispondenti a prestazioni non svolte dai dipendenti, ma affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione.
Obbligo che impone di prevedere analiticamente nel regolamento interno, e graduare, le percentuali spettanti per ogni incarico espletabile dal personale, in maniera tale da permettere, nel caso in cui alcune prestazioni siano affidate a professionisti esterni, la predetta devoluzione
;
- devoluzione in economia delle quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni, anche se svolte da dipendenti interni, prive dell’accertamento di esecuzione dell’opera in conformità ai tempi ed ai costi prestabiliti.
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In estrema sintesi, quindi, la novella normativa ha lasciato intatto il potere dell’amministrazione di riconoscere, sia pure con le diverse forme ed entro i nuovi limiti indicati, incentivi per l’attività di progettazione e per l’attività di supporto alla progettazione esterna, intaccando per contro la diversa fattispecie (art. 92, comma 6, del codice dei contratti) concernente la redazione di atti pianificatori pur sempre connessi all’espletamento di un’opera pubblica.
In conclusione, quindi,
deve ritenersi che permanga, pur a seguito dell’introduzione, nell’art. 93 del codice dei contratti pubblici, d.lgs. n. 163/2006, di quattro nuovi commi (7-bis, 7-ter, 7-quater e 7-quinquies) il potere dell’amministrazione di disporre un riconoscimento economico in favore del personale interno concernente la fase di gestione degli appalti di opere nel caso di attività di progettazione esterna.

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Il comune di Tartano (SO) richiede chiarimenti sulla possibilità di prevedere un riconoscimento economico concernente la fase di gestione degli appalti di opere nel caso di attività di progettazione esterna in favore del personale interno dell'ente, e in particolare con riferimento all'attività relativa alle operazioni di scelta del contraente, di redazione del bando dì gara, dei procedimenti di aggiudicazione, liquidazione, verifica in corso d’opera e controllo di conformità dell’opera.
...
Tanto premesso, con specifico riferimento al caso di specie, i quesiti devono ritenersi ammissibili, in quanto relativi a normativa evidentemente diretta al contenimento della spesa pubblica, oltretutto in passato già affrontata dalla Sezione (
parere 01.10.2014 n. 246 e parere 01.10.2014 n. 247).
MERITO
La questione è stata già affrontata dalla Sezione con i due arresti citati, da cui non vi è motivo alcuno di discostarsi.
In particolare, la Sezione ha avuto modo di evidenziare che
il previgente art. 92, comma 5, del d.lgs. n. 163/2006 è stato abrogato dall’art. 13 del d.l. n. 90/2014, convertito con legge n. 114/2014. Tuttavia, il legislatore ha mantenuto ferma la possibilità di attribuzione di un incentivo ai dipendenti degli enti pubblici cui sono conferiti incarichi tecnici nell’ambito delle procedure di aggiudicazione ed esecuzione di un’opera pubblica, salvo ridisciplinarne presupposti e limiti nel nuovo “fondo per la progettazione e l’innovazione” previsto dall’art. 13-bis della legge n. 114/2014. Quest’ultima norma ha inserito, nell’art. 93 del codice dei contratti pubblici, d.lgs. n. 163/2006, quattro nuovi commi (7-bis, 7-ter, 7-quater e 7-quinquies).
Di conseguenza,
a decorrere dall’entrata in vigore della legge n. 114/2014, di conversione del d.l. n. 90/2014, i comuni, come tutte le altre pubbliche amministrazioni, dovranno fare riferimento, per la disciplina degli incentivi al personale interno incaricato di attività tecniche nell’ambito del procedimento di aggiudicazione ed esecuzione di un’opera pubblica, alla nuova disciplina legislativa, con conseguente necessaria adozione di un nuovo regolamento interno che stabilisca la percentuale massima destinata a tali compensi (comma 7-bis) e un nuovo accordo integrativo decentrato, da recepire nel regolamento, che stabilisca i criteri di ripartizione (comma 7-ter). Entrambi dovranno adeguarsi alle novità normative, fra le quali spicca l’esclusione, fra i soggetti beneficiari dell’incentivo, del personale con qualifica dirigenziale (comma 7-ter, ultimo periodo).
Circa il quesito specifico posto dal Comune istante, la nuova disciplina si pone in sostanziale prosecuzione della precedente, prevedendo esplicitamente che beneficiari dei compensi in discorso possano essere i dipendenti interni incaricati delle funzioni di responsabile del procedimento, della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché i loro collaboratori.
Allo stesso modo
la nuova disciplina ribadisce la confluenza in economia delle quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai dipendenti sopra indicati, ma affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione (ovvero prive, novità normativa, dell’accertamento dell'effettivo rispetto, nella fase realizzativa dell'opera, dei tempi e dei costi previsti dal quadro economico del progetto esecutivo).
Nel parere 08.10.2012 n. 425 e parere 24.10.2012 n. 453, dopo averne richiamato il tenore letterale, è stato sottolineato come
la norma (oggi l’art. 93, commi 7-bis, 7-ter e 7-quater, del d.lgs. n. 163/2006) vada letta nel complessivo contesto delle modalità d’affidamento degli incarichi tecnico-professionali, previsti dalla legislazione in materia di contratti pubblici. Quest’ultima (cfr. artt. 10, 84, 90, 112, 120 e 130 del d.lgs. 163/2006) è informata da un principio generale, codificato anche dall’art. 7, comma 6, del d.lgs. n. 165/2001, in base al quale i predetti incarichi possono essere conferiti a soggetti esterni al plesso amministrativo solo se non si disponga di professionalità adeguate nel proprio organico e tale carenza non sia altrimenti risolvibile con strumenti flessibili di gestione delle risorse umane. Tale presupposto mira a preservare le finanze pubbliche, oltre che a valorizzare il personale interno alle amministrazioni.
Pertanto,
nelle ipotesi (che la legge considera ordinarie) in cui gli incarichi tecnici siano espletati da personale interno occorre far riferimento, ai fini della loro remunerazione, alle regole generali previste per il pubblico impiego, il cui sistema retributivo è conformato da due principi cardine, quello di definizione contrattuale delle componenti economiche e quello di onnicomprensività della retribuzione (cfr. artt. 2, 24, 40 e 45 del d.lgs. n. 165/2001, nonché Corte dei Conti, sezione giurisdizionale per la Puglia,
sentenza 20.07.2010 n. 464, sentenza 22.07.2010 n. 475 e sentenza 02.08.2010 n. 487). Secondo questi ultimi nulla è dovuto, oltre al trattamento economico fondamentale ed accessorio stabilito dai contratti collettivi, al dipendente che ha svolto una prestazione che rientra nei suoi doveri d’ufficio, anche se di particolare complessità.
Tuttavia, la fonte legislativa, oltre a disciplinare la struttura ed i livelli di contrattazione nel pubblico impiego (cfr. artt. 2, 24, 40 e 45 d.lgs. 165/2001) può, in omaggio al generale sistema delle fonti previsto dalla Costituzione, disciplinare in modo diretto l’ammontare del trattamento economico (si rimanda, per esempio, ai precetti posti dall’art. 9 del d.l. n. 78/2010, convertito nella legge n. 122/2010), nonché attribuire ulteriori specifici compensi (come nel caso dell’art. 92, comma 5, del Codice dei contratti pubblici, oggi art. 93, commi 7-bis e seguenti).
Il c.d. “incentivo alla progettazione (la cui denominazione risale all’art. 18 dell’abrogata legge n. 109/1994), costituisce, infatti, uno di quei casi nei quali il legislatore, derogando al principio per cui il trattamento economico è fissato dai contratti collettivi, attribuisce un compenso ulteriore e speciale, rinviando ai regolamenti dell’amministrazione aggiudicatrice ed alla contrattazione decentrata, i criteri e le modalità di ripartizione. In quanto tale costituisce un’eccezione di stretta interpretazione con divieto di analogia (art. 12 delle diposizioni preliminari al codice civile, cfr. altresì Sezione Campania,
parere 07.05.2008 n. 7/2008).
Come evincibile dalla lettera del comma, la legge pone alcuni paletti per la ripartizione del predetto incentivo, rimettendone la disciplina concreta (“modalità e criteri”) ad un regolamento interno assunto previa contrattazione decentrata (in virtù della novella legislativa del 2014, risulta chiarita la competenza della sola amministrazione, a mezzo di atto regolamentare, per la quantificazione del fondo, nella percentuale massima del 2% dell’importo posto a base di gara).
Limitando l’analisi ai soli quesiti avanzati dal comune istante,
i punti fermi che il regolamento interno deve rispettare (sull’impossibilità da parte del regolamento di derogare a quanto previsto dalla legge o di attribuire compensi non previsti, si rimanda al parere 30.05.2012 n. 259 della Sezione) sono i seguenti:
- erogazione ai soli dipendenti espletanti gli incarichi tassativamente indicati dalla norma (responsabile del procedimento, incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, e loro collaboratori), riferiti all’aggiudicazione ed esecuzione “di un’opera o un lavoro” (non, pertanto, di un appalto di fornitura di beni o di servizi).
La norma non richiede, ai fini della legittima erogazione, il necessario espletamento interno di una o più attività (per esempio, la progettazione), purché il regolamento ripartisca gli incentivi in maniera conforme alle responsabilità attribuite e devolva in economia la quota relativa agli incarichi conferiti a professionisti esterni;

- puntuale ripartizione del fondo incentivante tra gli incarichi attribuibili (responsabile del procedimento, progettista, responsabili della sicurezza, direttore dei lavori, collaudatori, nonché loro collaboratori), secondo percentuali rimesse alla discrezionalità dell’amministrazione, da mantenere, tuttavia, entro i binari della logicità, congruenza e ragionevolezza (cfr. Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici,
deliberazione 13.12.2007 n. 315, deliberazione 22.06.2005 n. 70, deliberazione 19.05.2004 n. 97-bis);
- devoluzione in economia delle quote del fondo incentivante corrispondenti a prestazioni non svolte dai dipendenti, ma affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione.
Obbligo che impone di prevedere analiticamente nel regolamento interno, e graduare, le percentuali spettanti per ogni incarico espletabile dal personale, in maniera tale da permettere, nel caso in cui alcune prestazioni siano affidate a professionisti esterni, la predetta devoluzione
(si rinvia alla
deliberazione 13.12.2007 n. 315, deliberazione 08.04.2009 n. 35, deliberazione 07.05.2008 n. 18 e deliberazione 02.05.2001 n. 150 dell’Autorità di vigilanza);
- devoluzione in economia delle quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni, anche se svolte da dipendenti interni, prive dell’accertamento di esecuzione dell’opera in conformità ai tempi ed ai costi prestabiliti (novità discendente dal predetto art. 93, comma 7-ter, per gli incarichi attribuiti dopo l’entrata in vigore della legge di conversione n. 114/2014).
Altri principi applicabili alla fattispecie (rilevanti ai fini del parere di cui si discute) si ricavano dalla normativa generale sul pubblico impiego e, in particolare, dall’art. 7, comma 5, del d.lgs. n. 165/2001, in base al quale “
le amministrazioni pubbliche non possono erogare trattamenti economici accessori che non corrispondano alle prestazioni effettivamente rese”.
La regola è fatta espressamente propria dal legislatore anche nella materia degli incentivi di cui si discute, posto che il nuovo art. 93, comma 7-ter, del d.lgs. n. 163/2006 (riprendendo analoga formulazione del precedente art. 92, comma 5, dispone che “
la corresponsione dell'incentivo è disposta dal dirigente o dal responsabile di servizio preposto alla struttura competente, previo accertamento positivo delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti”. Nel caso in cui tale accertamento sia invece negativo, scatta la medesima regola della devoluzione in economia esaminata in precedenza (cfr. in tal senso, sia pure nel previgente contesto normativo, la deliberazione 22.06.2005 n. 69 dell’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici).
In estrema sintesi, quindi,
la novella normativa ha lasciato intatto il potere dell’amministrazione di riconoscere, sia pure con le diverse forme ed entro i nuovi limiti indicati, incentivi per l’attività di progettazione e per l’attività di supporto alla progettazione esterna, intaccando per contro (sez. Toscana, parere 05.03.2015 n. 12) la diversa fattispecie (art. 92, comma 6, del codice dei contratti) concernente la redazione di atti pianificatori pur sempre connessi all’espletamento di un’opera pubblica.
In conclusione, quindi,
deve ritenersi che permanga, pur a seguito dell’introduzione, nell’art. 93 del codice dei contratti pubblici, d.lgs. n. 163/2006, di quattro nuovi commi (7-bis, 7-ter, 7-quater e 7-quinquies) il potere dell’amministrazione di disporre un riconoscimento economico in favore del personale interno concernente la fase di gestione degli appalti di opere nel caso di attività di progettazione esterna (Corte ei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 20.07.2015 n. 236).

SEGRETARI COMUNALI: La Sezione centrale ha avuto modo di ribadire l’orientamento propugnato dal dicastero siciliano affermando che "In difetto di specifica regolamentazione nell’ambito del CCNL di categoria successivo alla novella normativa i diritti di rogito sono attribuiti integralmente ai segretari comunali, laddove gli importi riscossi dal comune, nel corso dell’esercizio, non eccedano i limiti della quota del quinto della retribuzione in godimento del segretario”, negando quindi un autonomo potere regolamentare dell’ente interessato avulso dal c.c.n.l. di categoria.
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Le somme destinate al pagamento dell’emolumento in parola devono intendersi al lordo di tutti gli oneri accessori connessi all’erogazione, ivi compresi quelli a carico degli enti.
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Il comune di Nave (BS) aveva richiesto l’avviso della Sezione su una duplice problematica afferente alla nuova disciplina in tema di diritti spettanti ai segretari comunali, e in particolare:
i) se l’ente possa deliberare in autonomia la percentuale dei diritti da corrispondere al segretario comunale;
ii) se, considerando che la corresponsione di un compenso al segretario comporta ulteriori costi per l'ente (oneri previdenziali e IRAP), l’ente stesso possa scorporare tali oneri dalla somma complessiva, in modo tale che quest’ultima non sia superiore ai diritti ricevuti da parte di terzi.
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L'art. 10, comma 2-bis, del d.l. 24.06.2014, n. 90, convertito dal d.l. 11.08.2014, n. 114, ha stabilito che “Negli enti locali privi di dipendenti con qualifica dirigenziale, e comunque a tutti i segretari comunali che non hanno qualifica dirigenziale, una quota del provento annuale spettante al comune ai sensi dell'articolo 30, secondo comma, della legge 15.11.1973, n. 734, come sostituito dal comma 2 del presente articolo, per gli atti di cui ai numeri 1, 2, 3, 4 e 5 della tabella D allegata alla legge 08.06.1962, n. 604, e successive modificazioni, è attribuita al segretario comunale rogante, in misura non superiore a un quinto dello stipendio in godimento".
In disparte i profili afferenti all’individuazione dei soggetti beneficiari di tale voce stipendiale, oggetto di diverse opzioni ermeneutiche non rilevanti nella presente sede, in relazione al versante oggettivo della quantificazione di detti proventi, con la deliberazione della Sezione citata in premessa, sono stati sollevati dubbi in ordine alla condivisione della pronunzia della Sezione regionale per la Regione Sicilia, che con deliberazione del 14.11.2014, n. 194, aveva affermato che “
laddove spettanti, i proventi annuali dei diritti di segreteria e i diritti di rogito vadano attribuiti al segretario comunale secondo una quota che non può superare un quinto dello stipendio in godimento (trattamento teorico della figura professionale compresa la retribuzione di risultato) da calcolarsi in relazione al periodo di servizio prestato nell’anno dal segretario comunale o provinciale”; e che “L’espressione adottata dal legislatore, riferita al ‘provento annuale’, induce a ritenere che gli importi dei diritti di segreteria e di rogito vadano introitati integralmente al bilancio dell’ente locale per essere erogati, al termine dell’esercizio, in una quota calcolata in misura non superiore al quinto dello stipendio in godimento del segretario comunale, ove spettante. Pertanto, nel silenzio della legge ed in assenza di regolamentazione nell’ambito del CCNL di categoria successivo alla novella normativa, i proventi in esame sono attribuiti integralmente al segretario comunale, laddove gli importi riscossi dal comune, nel corso dell’esercizio, non eccedano i limiti della quota del quinto della retribuzione in godimento del predetto segretario comunale o provinciale”.
Sul punto, tuttavia, occorre rilevare che la Sezione centrale investita della risoluzione del quesito (deliberazione 24.06.2015 n. 21) ha avuto modo di ribadire l’orientamento propugnato dal dicastero siciliano, affermando che “
In difetto di specifica regolamentazione nell’ambito del CCNL di categoria successivo alla novella normativa i predetti proventi sono attribuiti integralmente ai segretari comunali, laddove gli importi riscossi dal comune, nel corso dell’esercizio, non eccedano i limiti della quota del quinto della retribuzione in godimento del segretario”, negando quindi un autonomo potere regolamentare dell’ente interessato avulso dal c.c.n.l. di categoria.
In relazione al secondo problema oggetto della richiesta di parere, la Sezione delle Autonomie ha invece precisato che “
le somme destinate al pagamento dell’emolumento in parola devono intendersi al lordo di tutti gli oneri accessori connessi all’erogazione, ivi compresi quelli a carico degli enti” (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 20.07.2015 n. 235).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Per il 2015 ed il 2016 agli enti locali è consentito indire bandi di procedure di mobilità riservate esclusivamente al personale soprannumerario degli enti di area vasta. A conclusione del processo di ricollocazione del personale soprannumerario destinatario dei processi di mobilità, è ammissibile indire le ordinarie procedure di mobilità volontaria.
Fintanto che non sarà implementata la piattaforma di incontro di domanda e offerta di mobilità presso il Dipartimento della funzione pubblica, è consentito alle amministrazioni pubbliche indire bandi di procedure di mobilità volontaria riservate esclusivamente al personale di ruolo degli enti di area vasta”.
Le suddette procedure di mobilità volontaria riservate esclusivamente al personale soprannumerario di ruolo degli enti di area vasta non possono essere limitate al solo personale della Provincia in cui è situato il Comune.
Le procedure in analisi -attivabili, peraltro, come precisato nella suddetta circolare nelle more dell’implementazione, ormai prossima al completamento, della piattaforma di incontro di domanda e offerta di mobilità presso il Dipartimento della funzione pubblica– sono volte a favorire e ad agevolare il pieno perseguimento degli obiettivi perseguiti dal Legislatore con art. 1, commi 424 e ss. della legge di stabilità 2015, ovvero la ricollocazione delle unità soprannumerarie degli Enti di area vasta destinatarie dei processi di mobilità.
Nell’applicazione delle disposizioni che vincolano le risorse destinate alle assunzioni a tempo indeterminato per la parte relativa alla ricollocazione del personale sovrannumerario delle province vanno considerate tutte le unità da ricollocare e non solo quelle della provincia nella cui circoscrizione territoriale ricade l’ente che deve fare le assunzioni.
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Alle procedure di mobilità riservate in analisi, essendo volte al perseguimento delle finalità ora ricordate –ovvero la piena ricollocazione delle unità soprannumerarie degli Enti di area vasta destinatarie-, non può che trovare applicazione la disciplina contenuta nel menzionato comma 424, nella parte in cui deroga al limite di spesa di cui all’art. 1, comma 557, della legge 296/2007, restando fermi i vincoli del patto di stabilità interno e la sostenibilità finanziaria e di bilancio dell'ente.

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Il Sindaco del Comune di Mazzano (BS), con nota del giorno 18.02.2015, dopo aver premesso che:
- “il Comune di Mazzano, onde garantire la normale funzionalità dell’ufficio tecnico (settore lavori pubblici), ha la urgente necessità di reperire due risorse umane (un tempo parziale di 18 ore settimanali e un tempo pieno);
- in tal senso, intende avviare una procedura di mobilità volontaria, ai sensi dell’art. 30 del D.Lgs. 30.03.2001, n. 165, riservata esclusivamente al personale di ruolo dell’Amministrazione provinciale di Brescia”,
ha posto alla Sezione i seguenti quesiti:
a) se ”il Comune possa perfezionare la procedura di mobilità volontaria sopra richiamata (esclusivamente riservata al personale di ruolo dell'Amministrazione provinciale di Brescia);
b) se “la spesa relativa alla predetta procedura di mobilità di cui alla lettera a) possa essere esclusa dal calcolo rilevante al fine del rispetto del tetto di spesa di cui al comma 557 dell'art. 1 della legge 27.12.2006, n. 296.
...
2. Venendo all’esame del primo dei quesiti posti dal Comune istante, va ricordato che la Sezione Autonomie di questa Corte, con la recente deliberazione 16.06.2015 n. 19 ha, al riguardo, ritenuto che “
per il 2015 ed il 2016 agli enti locali è consentito indire bandi di procedure di mobilità riservate esclusivamente al personale soprannumerario degli enti di area vasta. A conclusione del processo di ricollocazione del personale soprannumerario destinatario dei processi di mobilità, è ammissibile indire le ordinarie procedure di mobilità volontaria”.
Nello stesso senso sono gli indirizzi emanati con circolare 30.01.2015 n. 1/2015 del Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione e del Ministro per gli affari regionali e le autonomie, ove si afferma che “
fintanto che non sarà implementata la piattaforma di incontro di domanda e offerta di mobilità presso il Dipartimento della funzione pubblica, è consentito alle amministrazioni pubbliche indire bandi di procedure di mobilità volontaria riservate esclusivamente al personale di ruolo degli enti di area vasta”.
Rispetto alla concreta prospettazione dell’Ente istante, dunque, appare da precisare che
le suddette procedure di mobilità volontaria riservate esclusivamente al personale soprannumerario di ruolo degli enti di area vasta non possono essere limitate al solo personale della Provincia in cui è situato il Comune.
Le procedure in analisi -attivabili, peraltro, come precisato nella suddetta circolare nelle more dell’implementazione, ormai prossima al completamento, della piattaforma di incontro di domanda e offerta di mobilità presso il Dipartimento della funzione pubblica– sono volte a favorire e ad agevolare il pieno perseguimento degli obiettivi perseguiti dal Legislatore con art. 1, commi 424 e ss. della legge di stabilità 2015, ovvero la ricollocazione delle unità soprannumerarie degli Enti di area vasta destinatarie dei processi di mobilità.
Al riguardo, la Sezione delle Autonomie, nella citata deliberazione, ha avuto modo di precisare che “
nell’applicazione delle disposizioni che vincolano le risorse destinate alle assunzioni a tempo indeterminato per la parte relativa alla ricollocazione del personale sovrannumerario delle province vanno considerate tutte le unità da ricollocare e non solo quelle della provincia nella cui circoscrizione territoriale ricade l’ente che deve fare le assunzioni”.
3. Alla luce di quanto ora ricordato, può, altresì, ritenersi, in merito al secondo quesito posto dall’Ente, che
alle procedure di mobilità riservate in analisi, essendo volte al perseguimento delle finalità ora ricordate –ovvero la piena ricollocazione delle unità soprannumerarie degli Enti di area vasta destinatarie- non può che trovare applicazione la disciplina contenuta nel menzionato comma 424, nella parte in cui deroga al limite di spesa di cui all’art. 1, comma 557, della legge 296/2007, restando fermi i vincoli del patto di stabilità interno e la sostenibilità finanziaria e di bilancio dell'ente (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 20.07.2015 n. 234).

PUBBLICO IMPIEGOPresupposto per l’erogazione dei compensi professionali ai dipendenti delle avvocature erariali è allora il dato formale dell’iscrizione all’albo, oltre che quello sostanziale della “stabile costituzione di un ufficio legale con specifica attribuzione della trattazione degli affari legali dell'ente stesso e l'appartenenza a tale ufficio del professionista incaricato in forma esclusiva di tali funzioni”.
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Il Sindaco del Comune di Lanciano richiede delucidazioni sulla portata operativa dell’art. 9 del d.l. 24.06.2014, n. 90, convertito nella l. 11.08.2014, n. 114, e in particolare se sia possibile attribuire quota parte dei compensi professionali disciplinati da tale legge ai dipendenti del Settore Avvocatura che non rivestano la qualifica di avvocati.
...
La normativa conferente dispone che “1. I compensi professionali corrisposti dalle amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, e successive modificazioni, agli avvocati dipendenti delle amministrazioni stesse, ivi incluso il personale dell’Avvocatura dello Stato, sono computati ai fini del raggiungimento del limite retributivo di cui all’articolo 23-ter del decreto-legge 06.12.2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22.12.2011, n. 214, e successive modificazioni (omissis).
3. Nelle ipotesi di sentenza favorevole con recupero delle spese legali a carico delle controparti, le somme recuperate sono ripartite tra gli avvocati dipendenti delle amministrazioni di cui al comma 1, esclusi gli avvocati e i procuratori dello Stato, nella misura e con le modalità stabilite dai rispettivi regolamenti e dalla contrattazione collettiva ai sensi del comma 5 e comunque nel rispetto dei limiti di cui al comma 7. La parte rimanente delle suddette somme è riversata nel bilancio dell’amministrazione.
4. Nelle ipotesi di sentenza favorevole con recupero delle spese legali a carico delle controparti, il 50 per cento delle somme recuperate è ripartito tra gli avvocati e procuratori dello Stato secondo le previsioni regolamentari dell’Avvocatura dello Stato, adottate ai sensi del comma 5. Un ulteriore 25 per cento delle suddette somme è destinato a borse di studio per lo svolgimento della pratica forense presso l’Avvocatura dello Stato, da attribuire previa procedura di valutazione comparativa. Il rimanente 25 per cento è destinato al Fondo per la riduzione della pressione fiscale, di cui all’articolo 1, comma 431, della legge 27.12.2013, n. 147, e successive modificazioni.
5. I regolamenti dell’Avvocatura dello Stato e degli altri enti pubblici e i contratti collettivi prevedono criteri di riparto delle somme di cui al primo periodo del comma 3 e al primo periodo del comma 4 in base al rendimento individuale, secondo criteri oggettivamente misurabili che tengano conto tra l’altro della puntualità negli adempimenti processuali. I suddetti regolamenti e contratti collettivi definiscono altresì i criteri di assegnazione degli affari consultivi e contenziosi, da operare ove possibile attraverso sistemi informatici, secondo princìpi di parità di trattamento e di specializzazione professionale.
6. In tutti i casi di pronunciata compensazione integrale delle spese, ivi compresi quelli di transazione dopo sentenza favorevole alle amministrazioni pubbliche di cui al comma 1, ai dipendenti, ad esclusione del personale dell’Avvocatura dello Stato, sono corrisposti compensi professionali in base alle norme regolamentari o contrattuali vigenti e nei limiti dello stanziamento previsto, il quale non può superare il corrispondente stanziamento relativo all’anno 2013. Nei giudizi di cui all’articolo 152 delle disposizioni per l’attuazione del codice di procedura civile e disposizioni transitorie, di cui al regio decreto 18.12.1941, n. 1368, possono essere corrisposti compensi professionali in base alle norme regolamentari o contrattuali delle relative amministrazioni e nei limiti dello stanziamento previsto. Il suddetto stanziamento non può superare il corrispondente stanziamento relativo all’anno 2013.
7. I compensi professionali di cui al comma 3 e al primo periodo del comma 6 possono essere corrisposti in modo da attribuire a ciascun avvocato una somma non superiore al suo trattamento economico complessivo (omissis)
”.
Come può agevolmente desumersi dalle espressioni inequivocabilmente utilizzate dal legislatore,
la novella normativa intende operare un chiaro riferimento ai soli dipendenti degli enti pubblici che posseggano lo status professionale di avvocato.
Del resto,
la novella ha inteso disciplinare in modo uniforme e al contempo innovativo l’annosa questione dei compensi professionali riconosciuti agli avvocati dipendenti degli enti pubblici in ragione della loro natura sostanzialmente “ibrida”, vale a dire “sospesa tra l'autonomia e la subordinazione, che coniuga in sé la qualità di professionista con quella di impiegato, relazionandosi costantemente con quello che è, al contempo, il proprio cliente, ma anche il suo datore di lavoro. Questa duplicità di status (la cd. doppia identità dell'avvocato dipendente: da un lato professionista, dall'altro pubblico impiegato) si riflette anche sulla struttura del trattamento economico a lui spettante, normalmente composto, pur nella varietà delle situazioni, per una quota, dallo stipendio tabellare e dalle relative voci integrative e accessorie e, per altra quota, da compensi aggiuntivi correlati all'esito favorevole delle lite, di importo tendenzialmente variabile, ancorché erogati con continuità (cd. propine) (in tal senso e da ultimo TAR Puglia - sez. II, 16.10.2014, n. 2543).
Esula evidentemente dall’intento del legislatore, invece, l’obiettivo di fornire alle amministrazioni un crivello per eludere il principio di onnicomprensività della retribuzione del pubblico dipendente, che importa che “
nulla è dovuto, oltre al trattamento economico fondamentale ed accessorio stabilito dai contratti collettivi, al dipendente che ha svolto una prestazione che rientra nei suoi doveri d’ufficio, anche se di particolare complessità” (Sez. controllo Lombardia, 06.03.2013, n. 73).
Da ultimo, si rammenta che la recente legge professionale (l. 31.12.2012, n. 247) all’art. 23, nel disciplinare lo status degli avvocati degli enti pubblici, prevede che “
gli avvocati degli uffici legali specificamente istituiti presso gli enti pubblici, anche se trasformati in persone giuridiche di diritto privato, sino a quando siano partecipati prevalentemente da enti pubblici, ai quali venga assicurata la piena indipendenza ed autonomia nella trattazione esclusiva e stabile degli affari legali dell'ente ed un trattamento economico adeguato alla funzione professionale svolta, sono iscritti in un elenco speciale annesso all'albo”.
Presupposto per l’erogazione dei compensi professionali ai dipendenti delle avvocature erariali è allora il dato formale dell’iscrizione all’albo (comma 2), oltre che quello sostanziale della “stabile costituzione di un ufficio legale con specifica attribuzione della trattazione degli affari legali dell'ente stesso e l'appartenenza a tale ufficio del professionista incaricato in forma esclusiva di tali funzioni (Corte dei Conti, Sez. controllo Abruzzo, parere 17.07.2015 n. 187).

QUESITI & PARERI

EDILIZIA PRIVATA: L'opera abusiva.
DOMANDA:
L'art. 31 del DPR 380/2001 al comma 4 sancisce, in caso di inottemperanza entro i termini stabiliti, l'acquisizione di diritto gratuita al patrimonio del comune del bene del'aerea di sedime, nonché di quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe.
La domanda che si rivolge è questa: l'acquisizione di quanto sopra descritto è una procedura obbligatoria e necessaria al fine di procedere alla demolizione del manufatto abusivo, ovviamente sempre a spese dell'inadempiente? Quali sono i presupposti per non ricorrere all'acquisizione gratuita del bene e a chi compete tale decisione?
RISPOSTA:
L'acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere abusive, ai sensi dell'art. 31 DPR 380/2001, "avviene di diritto e in automatico, non ha alcun carattere di discrezionalità", avendo natura meramente dichiarativa, ed è subordinata unicamente all'accertamento dell'inottemperanza e del decorso del termine di legge per la demolizione e il ripristino dello stato dei luoghi, che opera automaticamente con riguardo non solo all'opera abusiva e all'area di sedime, ma anche alle pertinenze (Consiglio di Stato 2368/2014, TAR Salerno, sent. 1318/2014).
L’accertamento dell’inottemperanza alla ingiunzione di demolizione al termine dei 90 giorni previsti, costituisce titolo per l’immissione in possesso e per la trascrizione gratuita nei registri immobiliari dell’area acquisita a patrimonio comunale, previa notifica all’interessato. Il verbale di accertamento di inottemperanza, di cui sopra, ha carattere endoprocedimentale e meramente dichiarativo, in quanto viene redatto automaticamente per effetto dell’inottemperanza alla demolizione.
L’ordine di demolizione, che costituisce il presupposto per l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale, può essere impugnato davanti al giudice amministrativo. Quindi la semplice scadenza dei 90 giorni per ottemperare alla demolizione determina l’automatica applicazione della sanzione amministrativa del trasferimento di proprietà al Comune che, a sua volta, è presupposto necessario affinché l’amministrazione possa provvedere alla demolizione. Non esistono presupposti per non ricorrere all'acquisizione gratuita del bene, salvo i casi in cui le opere siano state realizzate solo in parziale difformità dal permesso di costruire.
In tali fattispecie, è possibile non procedere alla demolizione del manufatto laddove, dopo attenta analisi e valutazione da parte della P.A., risulti che le parti difformi non possano essere eliminate senza compromettere la stabilità dell'edificio o delle parti conformi: è allora possibile convertire la demolizione in sanzione pecuniaria (cd. “fiscalizzazione dell’abuso”), che rimane pertanto assoggettata alla valutazione di natura tecnico-edilizia- strutturale del dirigente o responsabile dell'ufficio comunale preposto (art. 34 del D.P.R. 380/2001) (link a www.ancirisponde.ancitel.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Conflitti, decide l'ente. Il consiglio delibera sulle incompatibilità. All'amministratore locale va riconosciuto il diritto alla difesa.
Sussiste una causa di incompatibilità, ex art. 63, comma 1, n. 2, dlgs 267/2000, tra la carica di Consigliere comunale e quella di socio di una libreria privata, fornitrice di libri per le scuole elementari, destinataria di un contributo comunale (cedole librarie)?

La questione va esaminata alla luce della citata norma del Tuel, laddove è prevista l'incompatibilità alla carica di consigliere comunale di chi, come titolare, amministratore, dipendente con poteri di rappresentanza o di coordinamento, ha parte direttamente o indirettamente in servizi, somministrazioni o appalti nell'interesse del comune.
In proposito, la consolidata giurisprudenza della Corte di cassazione ha chiarito come la norma sia volta a evitare il pericolo di deviazioni nell'esercizio del mandato da parte degli eletti e il conflitto, anche solo potenziale, che la medesima persona sarebbe chiamata a dirimere se dovesse scegliere tra l'interesse che deve tutelare in quanto amministratore dell'ente che gestisce il servizio e l'interesse che deve tutelare in quanto amministratore del comune che di quel servizio fruisce.
La Suprema corte ha più volte affermato che l'art. 63 citato, nello stabilire la causa di incompatibilità di interessi («non può ricoprire la carica») ivi prevista e rilevante nella fattispecie, pone, ai fini della sua sussistenza, una duplice, concorrente condizione: la prima di natura soggettiva, la seconda di natura oggettiva.
Sul piano soggettivo, «è necessario che il soggetto, in ipotesi incompatibile all'esercizio della carica elettiva, rivesta la qualità di «titolare» (per es., di impresa individuale), o «di amministratore» (per es., di società di persone o di capitali: cfr. il n. 1 del medesimo comma ove si parla più ampiamente, sia pure ad altri fini, di «amministratore di ente, istituto o azienda»), ovvero di «dipendente con poteri di rappresentanza o di coordinamento» [cfr. Cass. civile, sent. n. 11959 dell'08.08.2003, sez. I, ord. n. 550 del 16.01.2004].
L'ampia formulazione della norma, per un verso, dimostra che le menzionate qualità soggettive devono risolversi in poteri di gestione e/o di decisione, per altro verso legittima il ricorso a una eventuale interpretazione estensiva della disposizione. Dal punto di vista oggettivo, l'amministratore locale, «rivestito di una delle predette qualità, può considerarsi incompatibile, in quanto abbia parte in appalti nell'interesse del comune».
L'espressione «avere parte» è qui usata per indicare una contrapposizione tra l'interesse particolare del soggetto, in ipotesi incompatibile, e l' interesse del comune, istituzionalmente generale, quindi una situazione di potenziale conflitto rispetto all' esercizio imparziale della carica elettiva.
Nella fattispecie in esame, la questione rappresentata dall'eventuale incompatibilità con la carica elettiva per il socio di una libreria privata, fornitrice di libri per le scuole elementari, destinataria di contributo comunale, deve essere posta all'attenzione del Consiglio comunale, onde evitare pregiudizi all'ente, nel pieno rispetto della normativa volta a garantire il legittimo espletamento della carica elettiva.
Ciò, in conformità al principio generale secondo cui ogni organo collegiale delibera sulla regolarità dei titoli di appartenenza dei propri componenti; la verifica delle cause ostative all'espletamento del mandato è compiuta con la procedura prevista dall'art. 69 del dlgs 267/2000, che garantisce il contraddittorio tra organo e amministratore, assicurando a quest'ultimo l'esercizio alla difesa e la possibilità di rimuovere entro un congruo termine la causa di incompatibilità contestata (articolo ItaliaOggi del 31.07.2015).

CONSIGLIERI COMUNALI: Incompatibilità di un consigliere comunale che riveste la carica di vice Presidente di un'associazione locale che riceve contributi dal Comune.
1) Per il consigliere comunale che riveste, altresì, la carica, di vicepresidente di un'associazione locale calcistica che riceve contributi da parte dell'amministrazione comunale, potrebbe sussistere la causa di incompatibilità prevista dall'art. 63, c. 1, n. 1), del D.Lgs. 267/2000, nella parte in cui dispone che non può ricoprire la carica di consigliere comunale l'amministratore di ente, istituto o azienda che riceva dal comune, in via continuativa, una sovvenzione in tutto o in parte facoltativa, quando la parte facoltativa superi nell'anno il dieci per cento del totale delle entrate dell'ente.
2) Qualora l'indicata associazione locale gestisca, sulla base di apposita convenzione, il campo da calcio comunale potrebbe venire in rilevo, altresì, la causa di incompatibilità di cui all'art. 63, comma 1, num. 2), prima parte del TUEL, il quale prevede che non possa ricoprire la carica di consigliere comunale colui che, come amministratore ha parte, direttamente o indirettamente, in servizi, esazioni di diritti, somministrazioni o appalti, nell'interesse del comune.

Il Comune chiede di conoscere un parere in merito alla sussistenza di una causa di incompatibilità tra la carica consigliere comunale e quella di vicepresidente
[1] di un'associazione locale [2] calcistica, sovvenzionata in modo continuativo, dal Comune stesso e che gestisce, sulla base di apposita convenzione, il campo da calcio comunale.
Più in particolare, l'Ente, sentito anche per le vie brevi, precisa che oltre ad erogare annualmente un contributo in denaro a favore dell'associazione, si accolla, altresì, alcune spese relative alla gestione ordinaria (luce, acqua, metano) del campo di calcio affidato in gestione gratuita all'associazione stessa, senza che sussista alcuna controprestazione a fronte di un tale accollo.
Sentito il Servizio elettorale, si formulano le seguenti considerazioni.
In via preliminare, si rileva che la valutazione della sussistenza delle cause di ineleggibilità o di incompatibilità dei componenti di un organo elettivo amministrativo è attribuita dalla legge all'organo medesimo. È, infatti, principio di carattere generale del nostro ordinamento che gli organi collegiali elettivi debbano esaminare i titoli di ammissione dei propri componenti.
Ciò premesso, con riferimento alla fattispecie in esame potrebbero venire in rilievo le cause di incompatibilità previste dall'articolo 63, comma 1, numero 1), seconda parte, e numero 2), prima parte, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267.
Con riferimento alla prima norma citata (articolo 63, comma 1, num. 1) TUEL) si osserva che essa prevede che non può ricoprire la carica di consigliere comunale l'amministratore di ente, istituto o azienda che riceva dal comune, in via continuativa, una sovvenzione in tutto o in parte facoltativa, quando la parte facoltativa superi nell'anno il dieci per cento del totale delle entrate dell'ente.
Innanzitutto si osserva come, secondo autorevole dottrina,
[3] il termine 'ente' deve essere inteso in senso lato e, pertanto, vi rientrano anche gli organismi privi di personalità giuridica. In questo senso si è pronunciata anche la Corte di Cassazione [4] che ha inteso comprendere nella nozione di ente sovvenzionato le persone giuridiche pubbliche, private e le associazioni non riconosciute che, pur non dotate di personalità giuridica, abbiano autonomia amministrativa e patrimoniale.
Con riferimento al requisito soggettivo si osserva che, ai fini del venire in rilievo dell'indicata causa di incompatibilità, il consigliere comunale deve rivestire, all'interno dell'associazione, il ruolo di amministratore. Al riguardo, si tratterà di verificare se sia possibile ricomprendere lo stesso nella nozione legislativa di 'amministratore' contemplata dall'articolo 63 del TUEL, in ordine alla quale è prevista la causa di incompatibilità in argomento. Si ritiene che tale valutazione debba essere effettuata considerando la situazione concreta, in relazione a quanto previsto nelle clausole statutarie dell'associazione: si rileva comunque al riguardo che, di norma, i membri dell'esecutivo svolgono funzioni sussumibili tra quelle proprie dell'organo di amministrazione, con conseguente configurarsi dell'incompatibilità in esame, nella sussistenza degli altri requisiti richiesti dalla legge.
Con riferimento, poi, al fatto che il consigliere comunale, membro del direttivo dell'associazione riveste, altresì, il ruolo di vice presidente all'interno della stessa si riportano le considerazioni espresse dalla giurisprudenza la quale, relativamente ad una questione analoga a quella qui in esame, ha affermato che 'non è esatto, in primo luogo, che l'incarico di vicepresidente avrebbe "un valore prettamente onorifico e simbolico" nell'ambito del sodalizio. Come messo in luce dai giudici di merito, si tratta di una figura destinata a sostituire il presidente dell'associazione in caso d'impedimento di questo "in ogni sua attribuzione" [...], sicché sia pure in posizione vicaria può assumere funzioni direttive e rappresentative dell'associazione al massimo livello. Inoltre egli fa parte del consiglio direttivo. Tale organo, in base allo statuto, è responsabile verso l'assemblea della gestione sportiva dell'associazione ed ha una serie di compiti [...] che lo rendono l'organo di amministrazione della società sportiva'.
[5]
Passando a trattare del concetto di sovvenzione si evidenzia che esso si diversifica chiaramente da quello di corrispettivo. Non si ha, dunque, sovvenzione nel caso in cui la somma corrisposta avvenga in relazione a prestazioni svolte in favore dell'Ente.
Per quanto riguarda la specificazione del concetto di sovvenzione, secondo la dottrina e la giurisprudenza,
[6] essa deve consistere in un'erogazione continuativa a titolo gratuito, volta a consentire all'ente sovvenzionato di raggiungere, con l'integrazione del proprio bilancio, le finalità in vista delle quali è stato costituito.
In definitiva, affinché si verifichi la situazione di incompatibilità in questione, la succitata norma prescrive che tale sovvenzione debba possedere, cumulativamente, tre caratteri:
- continuità, nel senso che la sua erogazione non deve essere saltuaria od occasionale;
- facoltatività (in tutto o in parte): l'intervento finanziario dell'ente non deve cioè derivare da un obbligo, ovvero può essere in parte obbligatorio e in parte facoltativo, tenuto conto di quanto in appresso precisato;
- notevole consistenza: l'apporto della sovvenzione deve essere, per la parte facoltativa, superiore al dieci per cento del totale delle entrate annuali dell'ente sovvenzionato.
Con riferimento alla fattispecie in esame l'Ente dovrà, pertanto, valutare se sussistano tutti i tre requisiti sopra indicati.
In particolare, mentre pare non sorgano dubbi interpretativi circa il significato da dare al requisito della continuità ed a quello della notevole consistenza, si ritiene invece opportuno fornire alcune considerazioni circa il modo di intendere il concetto di facoltatività.
Al riguardo si rileva come, in passato, la tesi dottrinaria prevalente affermava che per determinare l'incompatibilità la sovvenzione non deve avere il carattere dell'obbligatorietà, nel senso che 'non deve essere conseguenza di una legge, o di un regolamento o di un contratto bilaterale, ma deve rientrare nella discrezionalità, cioè deve essere concessa a titolo gratuito o ciò che è lo stesso deve rientrare nella libera determinazione dell'Ente che la accorda'.
[7] Corre l'obbligo di rilevare che più di recente ha ottenuto l'avallo del Ministero dell'Interno la tesi secondo la quale la sovvenzione è facoltativa 'nel senso e nei limiti in cui non trovi origine in un obbligo stabilito dalla legge'. [8] Trattasi di impostazione più rigorosa che circoscrive il concetto dell'obbligatorietà a quelle sole elargizioni per le quali manchi qualsiasi facoltà discrezionale dell'Ente locale nel concederle. [9]
Da ultimo, con riferimento alla fattispecie prospettata, necessita chiarire se nella nozione di 'sovvenzione' rientri, altresì, la somma relativa alle spese di gestione ordinaria del campo da calcio che l'Ente si accolla annualmente.
Sul tema sono stati individuati degli orientamenti difformi relativi, più precisamente, al caso in cui il Comune provveda al rimborso dei costi di gestione sostenuti dall'ente 'sovvenzionato'.
Si cita, da un lato, una sentenza del giudice civile la quale ha affermato che «detta somma non appare qualificabile come sovvenzione facoltativa, perché in base al tenore della clausola è riferita a 'parziale rimborso spese ed eventuali perdite di gestione'».
[10] Nello stesso senso pare deporre un parere del Ministero dell'Interno il quale recita 'peraltro, il contributo non appare comunque qualificabile come sovvenzione facoltativa in quanto corrisposto, ai sensi della L.R. n. 17/1999, quale parziale rimborso dei costi di gestione'. [11]
In senso opposto si è espresso, invece, l'ANCI, il quale nell'affrontare una questione analoga a quella in esame ha affermato 'potersi riscontare la sussistenza della causa di incompatibilità disciplinata dall'art. 63, comma 1, n. 1 del D.Lgs. 267/2000 [...]'.
[12]
Alla luce delle considerazioni sopra esposte, l'Ente valuti se ricorrono, in relazione alla fattispecie concreta, i requisiti sopra indicati, l'esistenza dei quali porterebbe all'insorgenza dell'indicata causa di incompatibilità.
Con riferimento alla fattispecie in esame necessita prendere in considerazione anche l'articolo 63, comma 1, num. 2), prima parte del TUEL, il quale prevede che non possa ricoprire la carica di consigliere comunale 'colui che, come titolare, amministratore, dipendente con poteri di rappresentanza o di coordinamento ha parte, direttamente o indirettamente, in servizi, esazioni di diritti, somministrazioni o appalti, nell'interesse del comune'.
Come evidenziato in diversi pareri ministeriali, 'l'assenza della finalità di lucro, non è sufficiente ad escludere la sussistenza dell'incompatibilità. Il comma 2 dell'articolo. 63 ha, infatti, escluso l'applicazione della suddetta ipotesi solo per coloro che hanno parte in cooperative sociali, iscritte regolarmente nei registri pubblici, dal momento che solo tali forme organizzative offrono adeguate garanzie per evitare il pericolo di deviazioni nell'esercizio del mandato da parte degli eletti ed il conflitto, anche solo potenziale, che la medesima persona sarebbe chiamata a dirimere se dovesse scegliere tra l'interesse che deve tutelare in quanto amministratore dell'ente che gestisce il servizio e l'interesse che deve tutelare in quanto consigliere del comune che di quel servizio fruisce'.
[13]
Si ricorda, infatti, che la norma in esame è finalizzata ad evitare che la medesima persona fisica rivesta contestualmente la carica di amministratore di un comune e la qualità di amministratore di un soggetto che si trovi in rapporti giuridici con l'ente locale, caratterizzati da una prestazione da effettuare all'ente o nel suo interesse, atteso che tale situazione potrebbe determinare l'insorgere di una posizione di conflitto di interessi.
In particolare, la locuzione 'aver parte', se correlata alla successiva locuzione 'nell'interesse del comune' allude alla contrapposizione tra interesse 'particolare' del soggetto ed interesse del comune, istituzionalmente 'generale', in relazione alle funzioni attribuitegli, e, quindi, sottintende alla situazione di potenziale conflitto di interessi, in cui si trova il predetto soggetto, rispetto all'esercizio imparziale della carica elettiva.
Inoltre, l'ampia espressione 'servizi nell'interesse del comune' suole ricomprendere 'qualsiasi rapporto intercorrente con l'ente locale che a causa della sua durata e della costanza delle prestazioni effettuate sia in grado di determinare conflitto di interessi'.
[14] La giurisprudenza ha, altresì, specificato che l'ampia espressione di 'servizi nell'interesse del comune' si riferisce 'a tutte quelle attività che l'ente locale, nell'ambito dei propri compiti istituzionali e mediante l'esercizio dei poteri normativi ed amministrativi attribuitigli, fa e considera proprie [...]'. [15]
La disposizione in oggetto, quindi, si riferisce al soggetto che, rivestito di una delle predette qualità soggettive, partecipi ad un servizio pubblico, inteso nell'ampio senso sopra specificato, come portatore di un proprio specifico interesse, contrapposto a quello generale dell'ente locale e, quindi, per questo potenzialmente confliggente con l'esercizio imparziale della carica elettiva.
Spetta all'Ente valutare se l'associazione in oggetto svolge o meno un servizio nell'interesse dell'amministrazione comunale.
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[1] Il vicepresidente è, altresì, membro del consiglio direttivo dell'associazione.
[2] Precisa l'Ente che si tratta di un'associazione senza scopo di lucro.
[3] Cfr. P. Virga, Diritto amministrativo, Amministrazione locale, 3, ed. Giuffré, II ed. 1994, pag. 78 e segg.; R.O. Di Stilo - E. Maggiora, Ineleggibilità e incompatibilità alle cariche elettive, ed. Maggioli, 1985, pag. 73; E. Maggiora, Ineleggibilità, incompatibilità, incandidabilità nell'ente locale, 2000, pagg. 136-137.
[4] Corte di Cassazione, sentenza del 22.06.1972, n. 2068.
[5] Cassazione civile, Sez. I, sentenza del 28.12.2000, n. 16203.
[6] Cassazione civile, sez. I, sentenza del 16.05.1972, n. 1479.
[7] ] Rocco Orlando di Stilo, 'Gli organi regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali', Maggioli editore, 1982, pag. 140. Nello stesso senso, Enrico Maggiora, 'Ineleggibilità, incompatibilità, incandidabilità nell'ente locale', Giuffrè editore, 2000, pag. 142; AA.VV., 'L'ordinamento comunale', Giuffré editore, 2005, pag. 138. Tale filone interpretativo è, tutt'ora, seguito dall'ANCI il quale ha affermato, anche di recente, che la facoltatività della sovvenzione richiede che 'l'intervento finanziario dell'ente locale non deve derivare da un obbligo di legge o da un obbligo convenzionale' (così pareri del 17.09.2014 e del 28.04.2014).
[8] Ministero dell'Interno, parere del 30.12.2010 (prot. n. 15900/TU/63). In dottrina, si veda, F. Pinto e S. D'Alfonso, 'Incandidabilità, ineleggibilità, incompatibilità e status degli amministratori locali', Maggioli editore, 2003, pag. 196.
[9] Si veda, anche, il parere dell'08.03.2002 espresso sull'argomento dalla Regione Val d'Aosta, ove si afferma che: 'La sovvenzione si intende facoltativa nel senso e nei limiti in cui non trovi origine in un obbligo stabilito dalla legge. Non si sottrae dal concetto di sovvenzione facoltativa un contributo dovuto sulla base di un regolamento comunale, laddove la determinazione del regolamento sia riconducibile ad una scelta discrezionale dell'ente'.
[10] Cassazione civile, Sez. I, sentenza del 28.12.2000, n. 16203 la quale riguardava un caso di presunta incompatibilità di un amministratore locale che rivestiva, altresì, la carica di vicepresidente di un'associazione sportiva che gestiva, sulla base di una apposita convenzione, gli impianti sportivi comunali a titolo di comodato. Va precisato, tuttavia, che la sentenza citata ha fondato l'incompatibilità del consigliere sul diverso requisito dell'esistenza, nel caso di specie, del rapporto di vigilanza del Comune sull'ente privato di talché, come affermato nella sentenza stessa, il diverso profilo dei requisiti della sovvenzione, che in questa sede rileva, non è stato oggetto di approfondita analisi.
[11] Ministero dell'Interno, parere del 12.05.2011. Atteso tuttavia che nel caso affrontato nel parere ministeriale il rimborso delle spese è avvenuto in attuazione di una disposizione di legge regionale potrebbe avanzarsi il dubbio che la mancanza di facoltatività sia da ancorare a tale ultimo elemento e non già al fatto che trattasi di spesa consistente in un rimborso di costi di gestione.
[12] ANCI, parere del 21.08.2006.
[13] Ministero dell'Interno, pareri del 12.05.2011 e dell'11.01.2011.
[14] Saporito, Pisciotta, Albanese, 'Elezioni regionali ed amministrative', Bologna, 1990, pag. 115.
[15] Cassazione civile, sez. I, sentenza del 16.01.2004, n. 550
(27.07.2015 -
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ENTI LOCALI: Possibilità, da parte di un Ente locale, di disporre un'erogazione liberale a favore di altro Ente locale, colpito da calamità naturale.
Il Comune è l'ente locale che rappresenta la propria comunità ed è deputato istituzionalmente a curarne gli interessi e promuoverne lo sviluppo, ai sensi dell'art. 8 della legge regionale 1/2006; qualunque utilizzo di risorse comunali dovrà essere coerente con le predette finalità.
Un Comune chiede se sia possibile che lo stesso disponga un'erogazione liberale a favore di altro Ente locale, che è stato colpito da calamità naturale.
Com'è noto, ogni ente pubblico deve improntare il proprio operato al primario principio di buona amministrazione, di cui all'art. 97 Cost..
A tale proposito l'art. 12 della legge 241/1990
[1] impone che contributi, sovvenzioni, benefici economici di qualunque genere a soggetti privati, ma anche ad enti pubblici, siano attribuiti dall'Ente locale previa predeterminazione dei criteri e modalità con apposito regolamento.
La fattispecie oggi in discussione, in realtà, rappresenta un'ipotesi particolare: si tratterebbe di un'elargizione da attribuire specificatamente ad un determinato Ente pubblico in quanto colpito da una calamità naturale.
Si ritiene utile, preliminarmente, far riferimento ad una pronuncia della Corte dei conti regionale
[2] nella quale il Magistrato contabile ribadisce che l'attività di beneficenza si compie con il denaro proprio e non con quello pubblico; la fattispecie colà trattata però riguarda l'impiego di fondi destinati al funzionamento dei gruppi consiliari del Consiglio regionale.
Nel caso oggi in discussione invece si tratterebbe di utilizzo di risorse di un Ente locale, deliberate dagli organi dello stesso. Va considerato, a tale proposito, il principio costituzionale di solidarietà, sancito dall'art. 2 della Costituzione.
A tale proposito, si ritiene utile citare una pronuncia del Magistrato contabile
[3], datata, ma che enuncia principi che possono ritenersi ancora attuali: 'I valori umani, fondamentali e certamente non disconosciuti dal diritto vigente, della solidarietà con chi, cittadino o straniero, è colpito dalla sventura, vanno equamente contemperati con quelli, anch'essi giuridici, da riportare essenzialmente al principio, su cui riposa ogni collettività organizzata (locale o no), di corrispondenza finalistica tra sacrifici imposti ai consociati e cura dei loro interessi come membri della stessa collettività; è comunque da escludere che questo secondo ordine di valori sia violato ogni qualvolta l'attività dell'ente, nella specie locale: a) non esorbiti in competenze riservate allo stato, quali quelle attinenti ai rapporti internazionali, né si ponga in alcun modo in contrasto con dette esclusive competenze; b) pur producendo effetti diretti fuori dell'ambito territoriale proprio dell'ente, non sia estranea, né tanto meno contrapposta alla cura degli interessi della collettività stanziata sul territorio; c) per le modalità in cui è posta in essere, non possa apparire tesa a fini diversi da quelli della solidarietà umana, né ispirata a finalità politiche dei governanti o di parte; d) non comporti infine per sua natura né la predisposizione di uno stabile apparato, né un onere continuativo, o comunque di entità tale da compromettere praticamente l'assolvimento delle funzioni dalla legge affidate istituzionalmente all'ente...'.
Il Comune infatti è l'ente locale che rappresenta la propria comunità ed è deputato istituzionalmente a curarne gli interessi e promuoverne lo sviluppo, ai sensi dell'art. 8 della legge regionale 1/2006. Quindi qualunque utilizzo di risorse comunali dovrà essere coerente con le predette finalità.
Stante il principio di equiordinazione tra enti e di autonomia organizzativa, riconosciuta in capo all'Ente locale, sancita dall'art. 118 Cost., la valutazione di tale coerenza è rimessa all'Ente stesso, che dovrà comunque sempre operare le sue scelte tramite canone di ragionevolezza.
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[1] E l'art. 30 della l.r. 7/2000, in quanto richiamato dall'art. 2, comma 2-bis, della l.r. 7/2000..
[2] Sez. giurisdizionale, sentenza dell'11.06.2014, n. 47, riferita all'utilizzo indebito, da parte di consiglieri regionali, di fondi destinati ai gruppi consiliari del Consiglio regionale, reperibile sul sito internet nazionale della Corte dei conti, alla voce 'giurisdizione'.
[3] C. conti, sez. II, sent. del 09.07.1983, n. 74
(24.07.2015 -
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CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ L'astenuto fa quorum. Va calcolato per la validità della seduta. L'astensione non può invece essere equiparata a un voto contrario.
Al fine di stabilire la validità della seduta del consiglio comunale, gli astenuti vanno computati tra i votanti?

L'art. 38, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000, demanda al regolamento comunale, «nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto», la determinazione del numero dei consiglieri necessario per la validità delle sedute.
Unico limite indicato dal legislatore è che tale numero non può, in ogni caso, scendere sotto la soglia del «terzo dei consiglieri assegnati per legge all'ente, senza computare a tale fine il sindaco e il presidente della provincia».
Il legislatore statale si è, quindi, limitato a stabilire una soglia minima, inderogabile, di presenze nel consiglio comunale, rimettendo all'autonomia normativa dell'ente la determinazione del numero legale per la validità delle sedute, implicante anche la possibilità di stabilire maggioranze qualificate per l'adozione di determinati atti deliberativi sui quali si reputi che debba convergere un più elevato numero di consensi.
Nel caso di specie, la questione concerne l'eventuale computabilità degli astenuti tra i votanti e dunque se, nel caso specifico, ferma restando la necessità dell'approvazione da parte della maggioranza dei presenti, la deliberazione debba intendersi non approvata.
In merito, si ritiene che gli astenuti, anche in assenza di una specifica previsione regolamentare, concorrono alla formazione del c.d. «quorum strutturale», cioè alla formazione del numero minimo di consiglieri necessario per la validità della seduta.
Del resto, anche il richiamato Tuel n. 267/2000, all'articolo 78, comma 2, impone agli amministratori l'astensione dal prendere parte alla discussione e alla votazione di delibere riguardanti interessi propri o di loro parenti e affini fino al quarto grado.
In presenza di una situazione diffusa di astensioni, se non si ammettesse la formazione del quorum strutturale, il funzionamento del consiglio comunale potrebbe risultare compromesso.
Tuttavia, in carenza di apposite disposizioni regolamentari, proprio per l'esigenza di garantire la funzionalità dell'assemblea deliberante, gli astenuti devono essere esclusi dal calcolo del quorum funzionale e le deliberazioni vengono approvate in presenza di una maggioranza di voti favorevoli.
Tale assunto è dettato in analogia alla previsione contenuta nell'art. 48 del regolamento della camera dei deputati, per cui per l'approvazione delle deliberazioni dovranno essere conteggiati i soli votanti, compresi coloro che hanno votato scheda bianca, nulla o non leggibile, ed esclusi gli astenuti.
Una interpretazione diversa, nel senso di considerare l'astensione equivalente nei fatti a un voto contrario, non sarebbe giustificata laddove è previsto il voto favorevole, il voto contrario e l'astensione.
Pertanto, pur ritenendo opportuno che l'ente si doti di norme regolamentari che definiscano inequivocabilmente il quorum funzionale, la deliberazione, che nella fattispecie in esame ha ricevuto un numero superiore di voti favorevoli rispetto ai voti contrari, dovrebbe intendersi approvata. (V. sentenza Cds n. 3372/2012 del 07.06.2012) (articolo ItaliaOggi del 24.07.2015).

SICUREZZA LAVORO: Personale degli enti locali. Gestione ufficio associato. Datore di lavoro e medico competente.
L'art. 3, comma 6, del d.lgs. 81/2008, prevede che, per il personale delle pubbliche amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2, del d.lgs. 165/2001, che presta servizio con rapporto di dipendenza funzionale presso altre amministrazioni pubbliche, gli obblighi imposti dal medesimo decreto sono a carico del datore di lavoro designato dall'amministrazione ospitante (nel caso di associazione intercomunale, l'amministrazione presso cui ha sede l'ufficio comune cui viene assegnato il personale). Pertanto, è compito del datore di lavoro, come individuato, procedere alla nomina del medico competente per la sorveglianza sanitaria di tutto il personale assegnato all'ufficio comune.
Il Comune ha chiesto un parere rappresentando la seguente fattispecie.
Nell'ambito di un ufficio associato costituito ai sensi della l.r. 1/2006, il titolare di posizione organizzativa, dipendente del Comune Y ove ha sede lo stesso ufficio, è datore di lavoro ex d.lgs. 81/2008 anche per il personale assegnato all'ufficio medesimo e dipendente del Comune X.
Si precisa che i due Comuni interessati hanno ciascuno il proprio medico competente e la convenzione attuativa nulla specifica in relazione agli adempimenti e prestazioni richieste al medico incaricato nell'ambito della forma associativa.
Premesso un tanto, si pone la questione se sia corretto che il titolare di posizione organizzativa del Comune Y sottoponga a visita medica anche i dipendenti del Comune X, ricorrendo alle prestazioni professionali del medico contrattualmente incaricato da e per il Comune Y, provvedendo poi a chiedere al Comune X il rimborso dei costi a tal fine sostenuti.
L'Ente istante riterrebbe più corretto che il titolare di posizione organizzativa garantisca gli adempimenti della sicurezza sui luoghi di lavoro avvalendosi degli strumenti/forniture di cui gli altri Comuni sono autonomamente dotati, facendo effettuare le visite mediche prescritte dai medici incaricati dai rispettivi comuni per il proprio personale e con i costi direttamente fatturati al comune di appartenenza.
Sentito il Servizio finanza locale, Posizione organizzativa sviluppo forme associative, innovazione finanza locale e monitoraggio del sistema regionale, si espone quanto segue.
Si osserva preliminarmente che la questione sottoposta si sarebbe dovuta affrontare e definire, in maniera puntuale, nell'ambito o della convenzione quadro o dei singoli atti attuativi della medesima, in quanto atti fondamentali che disciplinano l'organizzazione e il funzionamento della forma associativa.
In carenza di tali presupposti, soccorre comunque quanto disposto in materia dalla legislazione vigente, tenendo conto che la problematica in esame coinvolge esclusivamente i dipendenti assegnati all'ufficio comune e non incide sul contratto di fornitura di servizio già stipulato dal Comune X, che conserva piena validità nei confronti del restante personale dipendente del Comune medesimo.
L'art. 2 del d.lgs. 81/2008 definisce la figura del 'datore di lavoro' nell'ambito delle pubbliche amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 165/2001 (enti locali compresi).
La citata disposizione precisa che per datore di lavoro si intende il dirigente al quale spettano i poteri di gestione, ovvero il funzionario non avente qualifica dirigenziale, nei soli casi in cui quest'ultimo sia preposto ad un ufficio avente autonomia gestionale, individuato dall'organo di vertice delle singole amministrazioni tenendo conto dell'ubicazione e dell'ambito funzionale degli uffici nei quali viene svolta l'attività, e dotato di autonomi poteri decisionali e di spesa.
Pertanto, il datore di lavoro, individuato ai sensi e per le finalità della normativa di cui trattasi, è in sostanza il dipendente (dirigente o titolare di p.o.) cui, a termini di regolamento, viene affidata la responsabilità di un determinato ufficio/servizio, all'interno della struttura organizzativa dell'ente
[1].
L'art. 18 del citato decreto elenca esaurientemente gli obblighi organizzativi e gestionali propri del datore di lavoro e dei dirigenti/responsabili che collaborano con lui, vigilando sulla sicurezza dell'attività lavorativa dei rispettivi settori.
Premesso un tanto, si osserva che lo scrivente Ufficio ha in precedenza affrontato la problematica relativa all'individuazione del datore di lavoro nell'ambito di un'associazione intercomunale, nei termini di seguito riportati
[2].
Si è in particolare rilevato che l'art. 3, comma 6, del del d.lgs. 81/2008 prevede che, per il personale delle pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del d.lgs. 165/2001 che presta servizio con rapporto di dipendenza funzionale presso altre amministrazioni pubbliche, organi o autorità nazionali, gli obblighi imposti dall'art. 18 del citato decreto sono a carico del datore di lavoro designato dall'amministrazione, organo o autorità ospitante.
Pertanto, nel caso di associazione intercomunale, l'amministrazione ospitante risulta individuata nell'ente locale presso cui ha sede l'ufficio comune e al quale viene assegnato il personale dei Comuni associati, in dipendenza funzionale.
Detta amministrazione deve quindi procedere a designare il datore di lavoro responsabile per la sicurezza dell'ufficio comune ai fini del d.lgs. 81/2008, e spetta a tale datore di lavoro, come indicato espressamente al comma 1, lett. a), del citato articolo 18 del d.lgs. 81/2008, nominare il medico competente per l'effettuazione della sorveglianza sanitaria nei casi previsti dal legislatore.
Pertanto, è compito del datore di lavoro/titolare di posizione organizzativa, all'uopo individuato, procedere sia alla definizione delle modalità di effettuazione delle visite sanitarie, sia alla designazione del medico competente, che diviene quindi l'unico referente per gli adempimenti prescritti dal legislatore in materia di sorveglianza sanitaria nei confronti di tutto il personale assegnato all'ufficio comune, e ciò a prescindere dall'appartenenza a Comuni diversi dell'associazione.
Si osserva peraltro che una soluzione univoca alla problematica è auspicabile anche alla luce della vigente disciplina contrattuale, in relazione al peculiare rapporto che viene a crearsi nell'ambito dell'ufficio comune delle forme associative.
Si rammenta infatti che l'art. 47, comma 1, del CCRL del 07.12.2006 stabilisce che il personale degli enti che costituiscono uffici comuni nell'ambito delle forme associative, ai quali sia affidato l'esercizio delle funzioni pubbliche in luogo degli enti partecipanti all'accordo costitutivo, viene assegnato dagli enti stessi agli uffici comuni.
Come precisato dal successivo comma 2 dell'articolo in esame, detta assegnazione avviene automaticamente in forza della stipula della convenzione attuativa che costituisce l'ufficio della forma associativa.
Il comma 3 del citato art. 47 precisa inoltre che l'assegnazione del personale non comporta la costituzione di un distinto rapporto di lavoro, il vincolo di dipendenza organica permane con l'ente di provenienza, e (ciò che rileva ai fini della questione sottoposta) il rapporto di servizio si svolge nell'ambito dell'ufficio della forma associativa
[3].
Esposto quanto sopra se, come segnalato, le varie convenzioni attuative e la convenzione quadro nulla hanno disposto in merito all'attività in esame da parte del responsabile dell'ufficio comune e se, soprattutto, non sono state indicate le modalità di riparto degli oneri derivanti dall'effettuazione dei controlli sanitari, il silenzio in materia parrebbe lasciar intendere una volontà sottesa: che la gestione di tale attività debba essere comunque svolta in modo da non determinare oneri aggiuntivi per i comuni partecipanti alla gestione. Un tanto anche al fine di garantire l'economicità dell'azione amministrativa.
Al riguardo, peraltro, si rinvia ad una verifica in seno alla conferenza dei sindaci, anche al fine eventualmente di apportare le dovute modifiche alle convenzioni in essere, come anticipato in premessa.
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[1] L'art. 16 del d.lgs. 81/2008 prevede inoltre che il datore di lavoro possa delegare le proprie funzioni ad altri soggetti, con determinati limiti e condizioni.
[2] Cfr. prot. n. 20833 dell'08.07.2013 e prot. n. 7268 del 07.03.2014.
[3] Cfr. anche Comparto unico e contrattazione/Pareri - Convenzioni e forme associative, parere n. 7, consultabile sul sito della regione.fvg.it
(20.07.2015 -
link a www.regione.fvg.it).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Richiesta di parere in merito alla procedura da seguire per il condono c.d. differito a seguito di procedure immobiliari esecutive ai sensi dell'art. 40, comma 6, della legge 47/1985 - Comune di Sutri (VT) (Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, nota 15.07.2015 n. 7278 di prot.)

URBANISTICA: OGGETTO: Risposta a richiesta di parere circa i limiti entro cui sono ammissibili modifiche al RUE a seguito dell'accoglimento di osservazioni (Regione Emilia Romagna, nota 13.07.2015 n. 494278 di prot.).
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Con e-mail dell’11.05.2015 si chiede di conoscere il parere di questo Servizio circa una ampia ricostruzione normativa e giurisprudenziale sulle seguenti tematiche:
a) se il RUE possa modificare le zonizzazioni degli ambiti territoriali comunali;
b) quale procedimento debba seguire il RUE che presenti tali contenuti;
c) se le osservazioni dei soggetti privati possano contenere la richiesta di modifiche del piano nell’interesse di colui che presenta le osservazioni stesse;
d) se l’eventuale accoglimento di dette osservazioni richieda necessariamente la ripubblicazione del piano e, con essa, un riesame da parte della Provincia (... continua).

ENTI LOCALI - VARI: Interpretazione dell'articolo 202, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30.04.1992, n. 285 (codice della strada). Pagamento, tramite bonifico on-line, della sanzione amministrativa in misura ridotta del 30 per cento entro cinque giorni dalla contestazione o dalla notificazione.
Ai sensi dell'art. 202, c. 2, del C.d.S. (d.lgs. 285/1992), il soggetto contravventore, nell'ammettere al pagamento tramite le modalità offerte dalle new tecnology, deve richiamare le norme che le disciplinano, mentre ai sensi dell'art. 5 del codice dell'amministrazione digitale (d.lgs. 82/2005), gli enti pubblici sono tenuti a specificare, a favore del privato, le condizioni economiche per l'utilizzo delle diverse modalità di pagamento mediante strumenti elettronici.
Per ciò stesso, nel tentativo di conciliare contrapposte esigenze -tutela dell'affidamento del cittadino/principio di favor per il trasgressore da un lato e corretta amministrazione contabile dall'altro- si ritiene opportuno che, tra le indicazioni fornite al privato circa le modalità di pagamento on line, sia richiamata, in particolare, l'attenzione di questo sull'inserimento della data valuta nella maschera di carico del bonifico, in modo da consentire allo stesso di non perdere il beneficio della riduzione del 30 per cento.
Si tratta, infatti, di trovare il giusto contemperamento tra due opposte esigenze: da un lato quelle del soggetto contravvenuto che ha, comunque, pagato nel rispetto del termine di cinque giorni e che ha, quindi, diritto a vedersi riconosciuto lo sconto previsto dall'art. 202, c. 1, d.lgs. 285/1992; dall'altro, le esigenze del Comune che incassa la somma prevista dalla legge ma con alcuni giorni di scostamento rispetto al giorno di pagamento per quanto attiene la data valuta.

L'Ente chiede un parere in merito all'interpretazione dell'articolo 202 del decreto legislativo 30.04.1992, n. 285, che disciplina il pagamento in misura ridotta delle sanzioni amministrative per violazione del codice della strada.
In particolare, il Comune domanda se si può ritenere rispettato il termine di cinque giorni, previsto dall'articolo 202, comma 1 e finalizzato al conseguimento della riduzione del 30 per cento della sanzione amministrativa, nel caso in cui l'introito della somma da parte dell'Ente (valuta al beneficiario) sia successivo ai cinque giorni previsti dalla norma.
Il soggetto instante segnala, in particolare, che, nel caso di saldo a mezzo bonifico on-line, la valuta per il Comune beneficiario risulta posticipata (anche di parecchi giorni) rispetto alla data dell'ordine di pagamento, comunque effettuato entro i cinque giorni previsti dall'articolo 202 (Pagamento in misura ridotta), comma 1, del codice della strada, il quale statuisce: 'Per le violazioni per le quali il presente codice stabilisce una sanzione amministrativa pecuniaria ... il trasgressore è ammesso a pagare, entro sessanta giorni dalla contestazione o dalla notificazione, una somma pari al minimo fissato dalle singole norme. Tale somma è ridotta del 30 per cento se il pagamento è effettuato entro cinque giorni dalla contestazione o dalla notificazione'.
Dirimente per l'inquadramento della problematica in esame è anche la disposizione di cui all'articolo 202, comma 2, del decreto legislativo 285/1992, ove si legge: 'Il trasgressore può corrispondere la somma dovuta presso l'ufficio dal quale dipende l'agente accertatore oppure a mezzo di versamento in conto corrente postale, oppure, se l'amministrazione lo prevede, a mezzo di conto corrente bancario ovvero mediante strumenti di pagamento elettronico. All'uopo, nel verbale contestato o notificato devono essere indicate le modalità di pagamento, con il richiamo delle norme sui versamenti in conto corrente postale, o, eventualmente, su quelli in conto corrente bancario ovvero mediante strumenti di pagamento elettronico'
[1].
Come anche evidenziato dal Comune instante, ritenere o meno rispettato il termine di cinque giorni da parte del soggetto sanzionato comporta un sensibile diverso introito per le casse comunali: infatti, soltanto se il succitato termine è osservato, l'importo da corrispondere a titolo di oblazione è ridotto del trenta per cento; decorso il termine di cinque giorni, il soggetto contravvenuto è ammesso a corrispondere una somma pari al minimo della sanzione edittale, sempreché il pagamento avvenga nel rispetto del termine di sessanta giorni dall'avvenuta contestazione o notificazione della violazione al codice della strada.
La fattispecie prospettata dal Comune attiene, quindi, alla problematica del pagamento delle sanzioni stradali con strumenti elettronici.
Come emerge dalla lettura della disposizione in esame, le novità di cui all'articolo 202, entrate in vigore il 21.08.2013, riguardano non solo la possibilità di ottenere uno 'sconto' in caso di estinzione tempestiva del dovuto ma anche l'introduzione del pagamento in forma elettronica delle sanzioni pecuniarie. Il secondo comma della summenzionata norma prevede, infatti, espressamente, la possibilità per il trasgressore di effettuare la liquidazione della sanzione amministrativa anche avvalendosi di strumenti informatici.
A tal fine, nel verbale deve essere fatta menzione delle modalità di effettuazione dell'oblazione con il richiamo delle norme anche sui versamenti mediante sistemi telematici. Si segnala che, del resto, la problematica prospettata dal Comune si solleva non solo in relazione al rispetto del termine per ottenere lo sconto del 30 per cento, ma, decorsi inutilmente i primi cinque giorni dalla contestazione o notificazione della violazione, anche in riferimento al secondo termine previsto dall'articolo 202, comma 1, e cioè quello di sessanta giorni, finalizzato all'ammissione al pagamento di una somma pari al minimo fissato dalle singole norme.
Con la circolare del 19.08.2013
[2], il Ministero dell'Interno - Dipartimento della pubblica sicurezza - Direzione centrale per la polizia stradale, ferroviaria, delle comunicazioni e per i reparti speciali della polizia di stato -Servizio polizia Stradale- ha specificato che al cittadino deve essere chiarito che il pagamento della sanzione nella misura ridotta del 30 per cento può avvenire utilizzando uno dei sistemi indicati nelle istruzioni scritte che gli sono consegnate. Nella medesima circolare, si precisa che 'l'operatore dell'ufficio verbali deve procedere alla verifica del rispetto del termine di cinque giorni dalla contestazione o, se più favorevole, dalla notificazione del verbale. ... il pagamento con la riduzione del 30 per cento effettuato fuori termine ed in assenza di integrazioni della somma entro il sessantesimo giorno dalla contestazione/notificazione del verbale ... costituisce acconto di quanto dovuto in sede di riscossione della sanzione mediante iscrizione a ruolo'.
Al fine della risoluzione dell'odierno quesito, è anche necessario prendere in considerazione le disposizioni del decreto legislativo 07.03.2005, n. 82 -Codice dell'amministrazione digitale- ed, in particolare, l'articolo 5 che disciplina l'effettuazione di pagamenti con modalità informatiche.
L'articolo citato dispone che le pubbliche amministrazioni sono tenute 'a far data dal 01.06.2013 ad accettare i pagamenti ad essi spettanti, a qualsiasi titolo dovuti, anche con l'uso delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione. A tal fine (gli enti pubblici n.d.r.): a) sono tenuti a pubblicare nei propri siti istituzionali e a specificare nelle richieste di pagamento: 1) i codici IBAN identificativi del conto di pagamento ... tramite i quali i soggetti versanti possono effettuare i pagamenti mediante bonifico bancario ... ; 2) i codici identificativi del pagamento da indicare obbligatoriamente per il versamento; b) si avvalgono di prestatori di servizi di pagamento, ... per consentire ai privati di effettuare i pagamenti in loro favore attraverso l'utilizzo di carte di debito, di credito, prepagate ovvero di altri strumenti di pagamento elettronico disponibili, che consentano anche l'addebito in conto corrente, indicando sempre le condizioni, anche economiche, per il loro utilizzo. Il prestatore dei servizi di pagamento, che riceve l'importo dell'operazione di pagamento, effettua il riversamento dell'importo trasferito al tesoriere dell'ente, registrando in apposito sistema informatico, a disposizione dell'amministrazione, il pagamento eseguito, i codici identificativi del pagamento medesimo, nonché i codici IBAN identificativi dell'utenza bancaria ...'
[3].
È bene specificare che, con la locuzione "pagamenti elettronici", si identificano diverse tecniche di pagamento (quali carte di credito, carte di debito, bonifici on-line, eccetera) che consentono movimentazioni patrimoniali da un soggetto ad un altro per il tramite di ordini inviati elettronicamente, senza il ricorso alla moneta cartacea
[4].
Le principali novità introdotte con la riforma dell'articolo 5, decreto legislativo 82/2005, sono, quindi, per gli aspetti attinenti all'odierno quesito, le seguenti: a) le amministrazioni pubbliche devono pubblicare nei propri siti istituzionali e specificare nelle richieste di pagamento i codici IBAN del conto di pagamento e le altre indicazioni richieste per i bonifici bancari e postali; b) nel caso di pagamento attraverso carte di debito, di credito, prepagate ovvero altri strumenti di pagamento elettronico, che consentano anche l'addebito in conto corrente, devono essere indicate le condizioni anche economiche per il loro utilizzo.
La diffusione dei pagamenti mediante strumenti elettronici, previsti anche dal riformato articolo 202 del codice della strada, ha, tuttavia, fatto sorgere un problema legato all'home banking e al rischio di perdere il beneficio dello 'sconto'. Chi corrisponde le sanzioni stradali con l'internet banking deve, infatti, prestare attenzione alla data della valuta per non perdere i benefici connessi ai pagamenti tempestivi come lo sconto del 30 per cento o il pagamento in misura ridotta. Il pagamento tempestivo delle multe stradali è, infatti, una condizione per accedere ai benefici dello 'sconto' o del pagamento ridotto entro sessanta giorni
[5].
È, inoltre, doveroso richiamare il decreto legislativo 27.01.2010, n. 11 - Attuazione della direttiva 2007/64/CE, relativa ai servizi di pagamento nel mercato interno (Payment Services Directive - PSD), articolo 1 (Definizioni), comma 1, lettera p), ove è specificato che, per data valuta, si intende 'la data di riferimento usata da un prestatore di servizi di pagamento per il calcolo degli interessi applicati ai fondi addebitati o accreditati su un conto di pagamento'.
All'articolo 20, comma 1, del decreto legislativo 11/2010, è stabilito, poi, che 'Il prestatore di servizi di pagamento del pagatore assicura che, dal momento della ricezione dell'ordine, l'importo dell'operazione venga accreditato sul conto del prestatore di servizi di pagamento del beneficiario entro la fine della giornata operativa successiva'
[6]. Ed, ancora, ai sensi dell'articolo 20, comma 2, del medesimo decreto legislativo 'Il prestatore di servizi di pagamento del beneficiario applica la data valuta e rende disponibile l'importo dell'operazione di pagamento sul conto del beneficiario ...'.
Richiamata la normativa di riferimento nella quale inquadrare la fattispecie in esame (articolo 202, commi 1 e 2, del codice della strada; articolo 5 del codice dell'amministrazione digitale; decreto legislativo 11/2010 sui servizi di pagamento) è possibile per lo scrivente suggerire la seguente soluzione interpretativa.
Si ritiene che, nell'ipotesi in cui il soggetto contravvenuto abbia effettuato on-line il pagamento della sanzione, specificando, nella maschera di carico del bonifico, la data valuta e facendola coincidere con il giorno del pagamento, non si prospetti nessuna problematica in quanto il calcolo degli interessi in favore del Comune avviene sulla somma accreditata proprio a partire dal giorno del pagamento on-line.
Il problema si pone, invece, nell'ipotesi in cui, effettuando il pagamento on-line, il contravvenuto non specifica la data valuta ed in questo caso si può verificare quello scostamento, denunciato dall'ente locale, tra giorno del pagamento, effettuato nel termine di legge e introito della somma da parte della pubblica amministrazione.
È qui doveroso rammentare che, ai sensi dell'articolo 202, comma 2, del codice della strada (decreto legislativo 285/1992), il soggetto contravventore nell'ammettere al pagamento tramite le modalità offerte dalle new tecnology deve, comunque, richiamare le norme che le disciplinano, mentre ai sensi dell'articolo 5 del codice dell'amministrazione digitale (decreto legislativo 82/2005), gli enti pubblici sono tenuti a specificare, a favore del privato, le condizioni economiche per l'utilizzo delle diverse modalità di pagamento mediante strumenti elettronici.
Per ciò stesso nel tentativo di conciliare contrapposte esigenze -tutela dell'affidamento del cittadino/principio di favor per il trasgressore da un lato e corretta amministrazione contabile dall'altro
[7]- si ritiene opportuno che, tra le indicazioni fornite al privato circa le modalità di pagamento on-line, sia richiamata, in particolare, l'attenzione di questo sull'inserimento della data valuta nella maschera di carico del bonifico, in modo da consentire allo stesso di non perdere il beneficio della riduzione del 30 per cento.
Si tratta, infatti, di trovare il giusto contemperamento tra due opposte esigenze: da un lato quelle del soggetto contravvenuto che ha, comunque, pagato nel rispetto del termine di cinque giorni e che ha, quindi, diritto a vedersi riconosciuto lo sconto previsto dall'articolo 202, comma 1, decreto legislativo 285/1992; dall'altro le esigenze del Comune che incassa la somma prevista dalla legge ma con alcuni giorni di scostamento rispetto al giorno di pagamento per quanto attiene la data valuta.
In conclusione, se, nell'effettuare il pagamento on-line, il soggetto sanzionato ha specificato, nella maschera di carico del bonifico, la data valuta, facendola coincidere con il giorno di pagamento, nulla quaestio.
Se, invece, ciò non è avvenuto, ma il Comune non ha precisato le modalità di pagamento tra le istruzioni fornite all'utente della codice della strada, sembrerebbe prevalere il principio di affidamento a tutela del diritto del contravvenuto a vedersi riconosciuto un pagamento comunque effettuato nel termine di legge.
Se, al contrario, l'ente ha fornito tutte le indicazioni per permettere al contravvenuto di effettuare correttamente il pagamento nel termine di legge (precisando la necessità di inserire la data valuta nella maschera di carico del bonifico, da far coincidere con il giorno di effettuazione dell'operazione di saldo) e il pagatore non ha specificato la data valuta nella maschera di carico on-line, allora si deve ritenere che il pagamento non sia stato effettuato regolarmente e a norma di legge e, quindi, non possa essere riconosciuto il beneficio della riduzione del trenta per cento.
In tal caso, secondo le indicazioni fornite dal Ministero dell'Interno, nella citata circolare del 19.08.2013, l'importo già versato potrà valere come acconto sulla somma, pari al minimo fissato dalle singole norme, da pagare nel termine di sessanta giorni ovvero, in mancanza, come acconto della somma da riscuotere tramite iscrizione a ruolo.
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[1] I commi 1 e 2 dell'articolo 202 del codice della strada sono stati così modificati dall'articolo 20, comma 5-bis, lettera a) e lettera b), numeri 1) e 2), del decreto legge 21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 09.08.2013, n. 98. Sul tema si legga S. Bedessi, 'Sconto sulle multe del codice della strada: è legge', Il Vigile Urbano, 9-2013, 15-25.
[2] La circolare è intitolata 'Modifica dell'art. 202 del codice della strada: pagamento delle sanzioni pecuniarie con la riduzione del 30 per cento. Disposizioni per la redazione dei verbali di contestazione e per la riscossione delle somme', prot. 00/A/6399/13/101/20/21/1.
[3] L'articolo è stato, da ultimo, sostituito ad opera dell'articolo 15 (Pagamenti elettronici), comma 1, del decreto legge 18.10.2012, n. 179 - Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese ('Decreto Crescita'), convertito con modificazioni dalla legge 17.12.2012, n. 221.
[4] Definizione a cura del Formez PA, consultabile on-line al seguente indirizzo http://egov.formez.it/lista_materiali
[5] Una questione analoga a quella oggi all'attenzione dello scrivente è stata presa in esame dalla Corte dei Conti, sezione regionale di controllo per l'Emilia Romagna, deliberazione n. 195/2014/PAR del 16.10.2014, in relazione al pagamento, in misura ridotta, di una sanzione amministrativa per violazione del codice della strada: in tale fattispecie il pagamento era stato effettuato a mezzo home banking, senza, tuttavia, specificazione, nella maschera di carico del bonifico, della data valuta del beneficiario. La Corte dei Conti ha ritenuto, tuttavia, il quesito inammissibile non attenendo alla materia della contabilità pubblica.
[6] Ai sensi del decreto legislativo 11/2010, articolo 1, comma 1, lettera u), per 'giornata operativa' si intende 'il giorno in cui il prestatore di servizi di pagamento del pagatore o del beneficiario coinvolto nell'esecuzione di un'operazione di pagamento è operativo, in base a quanto è necessario per l'esecuzione dell'operazione stessa'.
Per le misure attuative delle norme del decreto legislativo 11/2010 (in particolare Titolo II relativo ai diritti e agli obblighi delle parti di un'operazione di pagamento), si veda il provvedimento della Banca d'Italia datato 5 luglio 2011. Le diposizioni contenute nel citato provvedimento forniscono, invero, indicazioni a contenuto vincolante, cui prestatori ed utilizzatori di servizi di pagamento devono attenersi nell'applicazione delle norme contenute nel richiamato Titolo II.
[7] Fa riferimento ai principi citati nel testo S. Manzelli, 'Occhio alla valuta per chi usa l'home banking', 27.10.2014, pubblicato su www.dirittoegiustizia.it
(10.07.2015 -
link a www.regione.fvg.it).

NEWS

PATRIMONIO: Piccoli comuni, i sindaci gestiscono le grandi strade.
Spetta all'ente proprietario della strada occuparsi della manutenzione dei manufatti di servizio che costituiscono un elemento pertinenziale della sede stradale. Anche nel caso di strade statali, provinciali o regionali che attraversano comuni di piccole dimensioni.

Lo ha chiarito il Ministero dei Trasporti con il parere 28.05.2015 n. 2553 di prot..
È molto frequente che una strada di grande percorrenza attraversi un comune di popolazione inferiore a diecimila unità, restando di proprietà di un ente diverso dal comune.
In questo caso infatti, ai sensi dell'art. 2 del codice stradale, la proprietà dell'infrastruttura resta invariata ma all'ente locale compete comunque disciplinare la circolazione stradale e porre in essere la relativa segnaletica, previo parere dell'ente proprietario.
In pratica restano a carico del titolare dell'infrastruttura i segnali che riguardano le caratteristiche strutturali o geometriche della strada. Ma anche la manutenzione del tratto adiacente al piano viabile. Ovvero degli eventuali elementi pertinenziali presenti nell'area (articolo ItaliaOggi dell'01.08.2015).

ENTI LOCALIBilanci al 30 settembre anche per i comuni siciliani.
Nessuna ulteriore proroga per i bilanci dei comuni. Per i municipi la dead-line per l'approvazione dei preventivi è spirata ieri. Ma non per tutti. Gli enti locali siciliani avranno tempo fino al 30 settembre così come tutte le città metropolitane e le province d'Italia.

Così ha deciso la Conferenza stato-città di ieri, presieduta dal ministro dell'interno, Angelino Alfano a cui hanno partecipato il sottosegretario alla presidenza del consiglio, Claudio De Vincenti, il sottosegretario all'economia, Pier Paolo Baretta, il sottosegretario all'interno, Gianpiero Bocci, oltre ai rappresentanti di Anci e Upi.
Il 2015 sarà dunque ricordato come l'anno della proroga selettiva dei bilanci, con due diverse scadenze motivate dalla necessità di dare un po' di ossigeno agli enti di area vasta alle prese con una situazione finanziaria estremamente critica. Il rinvio a settembre consentirà a province e città metropolitane di applicare le positive novità introdotte dal decreto legge enti locali (dl 78/2015) che dopo il sì del senato sarà convertito in legge senza ulteriori modifiche dalla camera (Atto Camera n. 3262) martedì prossimo. La principale è rappresentata dalla chance di approvare un bilancio solo annuale (anziché triennale), senza dimenticare i 30 milioni extra che verranno distribuiti all'interno del comparto.
Per quanto riguarda invece gli enti locali siciliani, la proroga è stata motivata dalle difficoltà registrate dai comuni dell'isola nell'adeguare il proprio ordinamento contabile all'armonizzazione dei bilanci su cui la regione è intervenuta di recente con la legge 10.07.2015 n. 12. Tanto che nei giorni scorsi il presidente di Anci Sicilia e sindaco di Palermo Leoluca Orlando era ufficialmente intervenuto chiedendo un extra-time (articolo ItaliaOggi del 31.07.2015).

TRIBUTIImu delle scuole, niente ritocchi. Padoan alla Camera: «Non c’è bisogno di cambiare ancora le regole».
Adempimenti. Il ministro dell’Economia respinge le ipotesi di nuovi interventi ventilate nei giorni scorsi
Il Governo non ha intenzione di cambiare ancora le regole sull’Imu delle scuole paritarie perché le due sentenze della Cassazione che hanno scatenato le polemiche nei giorni scorsi, polemiche respinte come «fuor d’opera» dallo stesso presidente della Suprema corte Giorgio Santacroce, avevano al centro la vecchia disciplina dell’Ici, giudicata dalla Ue come «aiuto di Stato incompatibile con il mercato interno».
Il chiarimento ieri è arrivato dal ministro dell’Economia Piercarlo Padoan, in una risposta nel question-time alla Camera (INTERROGAZIONE A RISPOSTA IMMEDIATA IN ASSEMBLEA 3/01648 DEL 29.07.2015) che ha messo da parte le ipotesi di «nuove riflessioni», «norme interpretative» o tavoli tecnici ipotizzate la scorsa settimana anche da esponenti del Governo come il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini o il sottosegretario all’Economia Enrico Zanetti.
Il problema riguarda l’Ici, è la linea fissata ieri dal titolare di Via XX Settembre, che era già stata bocciata dall’Europa, e quindi «non è necessario» un intervento sull’Imu, disciplinata invece nel 2012 proprio per respingere le obiezioni comunitarie. Il «chiarimento definitivo» di Padoan piace all’ex ministro delle Infrastrutture e ora capogruppo di Area Popolare Maurizio Lupi, il quale nella replica ha sostenuto che «l’Imu non deve essere pagata dalle scuole paritarie a condizione che l’educazione sia gratuita o che la retta non ripaghi per intero il costo di gestione dell’istituto», e soddisfazione è stata espressa anche da Paola Binetti, sempre di Area popolare, che chiede all’Economia di «emanare una direttiva agli enti locali».
La distinzione su cui Padoan ha poggiato l’intenzione del Governo di non rimettere le mani su un tema ad alta tensione politica è senza dubbio corretta, perché le due sentenze della Cassazione (la 14225 e la 14226 del 2015, descritte sul Sole 24 Ore del 15 luglio scorso) hanno rimandato al mittente, cioè al giudice di secondo grado, le pronunce con cui si garantiva l’esenzione Ici nel 2004-2009 a due scuole livornesi, contro l’opinione del Comune.
A scaldare però il dibattito, e soprattutto a preoccupare i titolari di scuole paritarie, è stato il ragionamento svolto nelle sentenze, che a giudizio di molti potrebbe far traballare anche le nuove regole sull’esenzione. Per evitare l’Ici, spiegano le sentenze, è indispensabile che l’immobile sia occupato da una delle attività considerate dal fisco “meritevoli” di un trattamento di favore (sono elencate all’articolo 7 del Dlgs 504/1992), e per essere tali le attività devono essere svolte con «modalità non commerciali». Qui sta il punto perché, prosegue la Cassazione, l’esistenza di una retta rappresenta in sé «un fatto rilevatore dell’esercizio dell’attività con modalità commerciali».
Il ragionamento svolto dai giudici, relativo all’Ici, è in linea anche con la “riforma” dell’Imu per il terzo settore approvata dal Governo Monti nel decreto legge 1/2012, ma è il suo regolamento attuativo a sollevare più interrogativi. Nelle regole fissate dall’Economia nel Dm 200/2012, infatti, la retta non basta a qualificare l’attività come «commerciale», perché viene messo in campo un parametro diverso fondato sul «costo medio per studente» pubblicato dal ministero dell’Istruzione, e calcolato dall’Ocse: l’esenzione è garantita finché la retta media chiesta agli iscritti non supera questo «costo medio», che varia dai 5.739,17 euro degli asili ai 6.914,17 euro delle superiori e misura gli oneri complessivi dell’istruzione a carico delle finanze pubbliche e private.
Tutto questo è contenuto nel regolamento ministeriale, e non nella legge primaria che si limita a prevedere l’esenzione per le attività svolte «con modalità non commerciali», ma è ovviamente quest’ultima a orientare le decisioni dei giudici. Reggerà questo parametro agli eventuali contenziosi? Alla domanda, per ora, non c’è risposta
 (articolo Il Sole 24 Ore del 30.07.2015).

CONSIGLIERI COMUNALISpese legali rimborsate ai sindaci. Torna anche per assessori e consiglieri la copertura «cancellata» dalla Cassazione.
Dl enti locali. Nel decreto approvato alla Camera novità per gli amministratori - Indennizzi in caso di assoluzione o archiviazione.
Tornano i rimborsi per le spese legali sostenute da sindaci, assessori e consiglieri che vanno sotto processo per cause legate all’esercizio del loro mandato e ne escono con un’assoluzione o un’archiviazione.
A riportare in campo gli indennizzi a carico dell’amministrazione locale di appartenenza è la legge di conversione del decreto legge enti locali approvata martedì al Senato (Atto Senato n. 1577-B), e ora attesa alla Camera dove nelle intenzioni di Governo e maggioranza dovrebbe ottenere una semplice ratifica per evitare un altro passaggio a Palazzo Madama.
Fino a ieri la possibilità di vedersi rimborsate le spese legali era appesa a un’interpretazione estensiva di un regolamento del 1987 (articolo 67 del Dpr 268/1987, tra l’altro abrogato nel 2012) relativo ai dipendenti pubblici, e questa fragile base era stata spazzata via dalla sentenza 5264/2015 della Cassazione: sindaci, assessori e consiglieri, avevano spiegato i giudici, non sono dipendenti della Pubblica amministrazione, quindi la tutela legale va esclusa.
La legge di conversione del decreto enti locali riprende in mano la questione (si veda anche «Il Sole 24 Ore» del 27 luglio) e fissa tre condizioni per attivare la tutela, possibile ovviamente solo quando il si chiude in modo favorevole per il diretto interessato, con un’assoluzione o un provvedimento di archiviazione: i fatti al centro del giudizio devono essere collegati da un «nesso causale» con le funzioni esercitate dall’amministratore locale, non si devono affacciare conflitti di interesse con l’ente di appartenenza e deve essere assente dolo o colpa grave. In questi casi, il rimborso non è comunque automatico ma «ammissibile», e non può superare i parametri dei compensi legali fissati dal decreto del ministero della Giustizia.
Dal punto di vista dello status degli amministratori locali questa è la novità più rilevante in arrivo dagli interventi raccolti nel maxiemendamento approvato a Palazzo Madama, che si occupa anche di questioni di dettaglio: una di queste, conseguenza di alcuni casi scoppiati in Campania nelle ultime amministrative, permette a un sindaco uscente di candidarsi in un altro Comune quando le elezioni nei due enti sono «contestuali».
Quello sugli amministratori è solo uno dei tanti capitoli affrontati dal provvedimento, che ieri ha incontrato la soddisfazione del presidente dell’Anci Piero Fassino per «le molte misure positive», dalla replica del Fondo Tasi alle risorse per ammorbidire l’impatto della nuova perequazione nei piccoli Comuni, fino all’abolizione generalizzata dell’obolo del 10% da girare allo Stato in caso di alienazioni di patrimonio.
Novità positive che, naturalmente, non chiudono la partita in vista di una legge di stabilità che si preannuncia ricchissima di interventi
(articolo Il Sole 24 Ore del 30.07.2015).

ENTI LOCALIBilanci dei Comuni, si torna a discutere del rinvio a settembre. Stato-Città. La proroga spunta all’ordine del giorno.
Oggi scadono i termini per l’approvazione dei bilanci preventivi e, in vista della Conferenza Stato-Città in programma per questa mattina, ieri sono tornate a circolare voci di una nuova proroga al 30 settembre, data già fissata per Città metropolitane e Province dall’inedito rinvio “selettivo” deciso un paio di settimane fa (si veda «Il Sole 24 Ore» del 16 luglio). Ai ministeri negli ultimi giorni sono arrivate parecchie telefonate, in particolare dalle amministrazioni appena rinnovate con le ultime amministrative e dai Comuni siciliani, alle prese con una giravolta da parte della Regione sulle regole per l’armonizzazione.
Fino a ieri, nell’ordine del giorno della Conferenza era previsto solo l’esame del decreto sulle modalità di distribuzione degli 850 milioni sblocca-debiti messi a disposizione dal decreto enti locali, ma nel pomeriggio un’integrazione ha messo in calendario anche la «valutazione della proroga dei termini del bilancio 2015 dei Comuni». L’integrazione arriva dal Viminale, cioè il ministero che scrive i decreti con i rinvii, mentre da Palazzo Chigi finora si è sempre spinto per non ritoccare più il calendario con l’obiettivo di “dare un segnale” di svolta rispetto all’incertezza endemica degli anni passati. La partita, insomma, appare aperta, all’interno dello stesso Governo.
Nei Comuni, come sempre, il quadro è articolato, e accanto a molte amministrazioni locali che hanno già approvato da tempo i preventivi 2015 si incontrano enti in difficoltà. In un quadro perennemente in movimento come quello della finanza locale, ovviamente, gli argomenti per chiedere un rinvio non mancano mai.
La situazione si è colorata di tinte paradossali in Sicilia, dove la Regione prima ha concesso ai Comuni di rinviare all’anno prossimo il debutto della riforma della contabilità, con il fondo crediti a copertura delle mancate riscossioni, ma poi si è rimangiata questa opzione anche perché il fondo crediti serve ad abbattere l’obiettivo del Patto di stabilità. La marcia indietro, però, è arrivata solo a luglio inoltrato, gettando i Comuni nel caos, ma l’idea di una proroga solo siciliana, pure circolata dalle parti del ministro dell’Interno Alfano, è parsa troppo particolare anche per un ordinamento come il nostro.
A spiegare i ritardi fuori dall’isola, oltre alle elezioni che a maggio hanno rinnovato giunte e consigli in oltre mille Comuni, c’è il debutto a pieno regime dell’armonizzazione, e i tempi lunghi del decreto enti locali non hanno aiutato: le risorse destinate ad ammorbidire il taglio perequativo per i piccoli Comuni, per esempio, saranno distribuite solo a settembre.
Di tutto questo si discuterà stamattina in conferenza, per scegliere se spostare i termini al 30 settembre o confermare la scadenza di oggi, assegnando agli assestamenti in corso d’opera il compito di tener conto delle novità
(articolo Il Sole 24 Ore del 30.07.2015).

TRIBUTIIci e scuole? Non è cambiato nulla. Question-time del ministro Padoan alla camera dei deputati.
Scuole paritarie (gestite da un ente ecclesiastico) soggette al pagamento dell'Ici, secondo la Cassazione? Nulla cambia rispetto alla «normativa attualmente in vigore» sulla tassazione degli immobili, quindi non è previsto, ad oggi, alcun «intervento di modifica».

A dirlo è stato il ministro dell'economia Pier Carlo Padoan, fugando ieri pomeriggio, nel corso del question time nell'aula della Camera
(INTERROGAZIONE A RISPOSTA IMMEDIATA IN ASSEMBLEA 3/01648 DEL 29.07.2015), ogni dubbio sulle conseguenze del pronunciamento dei giudici di piazza Cavour, che con le sentenze 14225 e 14226 avevano sollevato un polverone giuridico, oltre che politico.
E, prima che il titolare del dicastero di via XX Settembre mettesse la parola fine sulla vicenda chiarendo, alla domanda di un deputato di Ap, che la Suprema corte si riferiva all'Ici richiesta per immobili per gli anni 2004-2009, e non toccava l'«attuale regime Imu», aveva detto la sua il sottosegretario Enrico Zanetti, ritenendo, al contrario, che «sulla questione dell'esenzione Ici-Imu non vedo soluzioni diverse da una norma di interpretazione autentica sul concetto di attività commerciale» (si veda ItaliaOggi del 28/07/2015).
Sollecitato, poi, a rispondere a un'interrogazione che, riportando articoli giornalistici, evidenziava l'ipotesi di una proposta del ministro delle finanze tedesco, Wolfgang Schaeuble, per l'introduzione di una «eurotassa», l'esponente governativo, menzionando «contatti diretti» avuti con l'omologo della Germania, ha smentito vi sia una «iniziativa esplicita» in tal senso.
Nel contempo, però, Padoan non ha nascosto che, «naturalmente, il tema in generale delle tasse a livello europeo», nonché, soprattutto, dell'adozione di «eventuali misure di armonizzazione fiscale è da parecchie settimane nel dibattito pubblico, e anche in quello ufficiale», a seguito del confronto in corso sul «futuro dell'Unione monetaria».
La più importante iniziativa in questa direzione, ha proseguito, viene dal gruppo di studio presieduto dal senatore a vita Mario Monti, che «sta ragionando su un Rapporto che verrà reso pubblico l'anno prossimo». E, finora, è emersa «la conferma della difficoltà di qualsiasi esercizio di riforma del sistema delle risorse proprie», determinate anche da «complicazioni procedurali e istituzionali», ha concluso il ministro (articolo ItaliaOggi del 30.07.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOScaricabarile sulle province. Il peso della riforma passa dallo stato alle regioni. Il maxiemendamento del governo al dl enti locali ha ufficializzato la decisione.
Lo Stato scarica sulle regioni il peso finanziario della riforma delle province. Il maxiemendamento alla legge di conversione del dl 78/2015 su cui martedì scorso il senato (Atto Senato n. 1977) ha votato la fiducia e che è ora alla camera per il sì definitivo, ufficializza quanto era divenuto ormai evidente: una volta che la legge 190/2014 ha prelevato forzosamente alle province la somma a regime di 3 miliardi rendendo impossibile, come dimostrato dall'Upi, perfino la gestione delle funzioni fondamentali, si è aperta una voragine di circa 1,5 miliardi nella gestione delle funzioni non fondamentali. Quelle, cioè, da riordinare, sottraendole alle province e riallocandole in regioni o comuni.
A dover riordinare e riallocare quelle funzioni sono le regioni, che avrebbero dovuto provvedere entro il 31/12/2014. Ma, se ne sono guardate bene. Infatti, nell'autunno 2014 mentre partiva il processo di riordino, si avviava anche il disegno di legge di stabilità 2015, sfociato poi nella legge 190/2014, che avrebbe radicalmente stravolto l'impianto della legge Delrio in merito al riordino.
La legge 56/2014, infatti, all'articolo 1, commi 92 e 96, dispone che le funzioni non fondamentali delle province transitino verso regioni e comuni, insieme con tutte le risorse necessarie al loro funzionamento, oltre che col personale addetto. Gli insostenibili prelievi forzosi imposti alle province dalla legge 190/2014 impediscono di attuare quanto prevede la legge Delrio: sicché, le regioni o i comuni dovrebbero fare fronte alle funzioni provinciali nelle quali subentrano a proprie spese. Per questa ragione, moltissime regioni hanno fatto di tutto per non emanare le leggi di riordino delle funzioni.
Il maxiemendamento, ora, tenta di «stanare» le regioni, attraverso due strade. In primo luogo, un (ennesimo) ultimatum: adottare entro il 31.10.2015 le leggi regionali di riordino (stando al timing della legge 56/2014, la prima scadenza era il 31.10.2014 ).
Laddove le regioni decidano di rimanere ancora inerti, il maxiemendamento impone loro una «sanzione»: versare entro il 30.11.2015 ed entro il 30 aprile degli «anni successivi» a province e città metropolitane «le somme corrispondenti alle spese sostenute dalle medesime per l'esercizio delle funzioni non fondamentali, come quantificate, su base annuale, con decreto del ministro per gli affari regionali, di concerto con i ministri dell'interno e dell'economia e delle finanze, da adottare entro il 31.10.2015.
Quindi, le regioni «renitenti» dovrebbero comunque accollarsi la spesa complessiva per l'esercizio delle funzioni che dovessero restare sulle spalle delle province. Il versamento non sarebbe più dovuto a decorrere dalla data nella quale gli enti individuati dalle leggi regionali di riordino inizieranno realmente a gestire le funzioni provinciali loro trasferite. La previsione pare intendere spingere le regioni a versare alle province e alle città metropolitane le risorse per le spese connesse alle funzioni non fondamentali a tempo indeterminato, come dimostra il riferimento all'obbligo di provvedere entro il 30 aprile per gli anni successivi.
Si nota, allora, uno sfasamento con le previsioni della legge 190/2014, secondo la quale, invece, il processo di riordino dovrebbe concludersi entro il 31.12.2016. Occorre comprendere come coordinare le previsioni del maxiemendamento con quelle della legge di stabilità. Se, infatti, le regioni saranno obbligate a coprire la spesa di province e città metropolitane per le funzioni non fondamentali finché non siano riordinate, a questo punto che senso ha il taglio lineare al costo del personale degli enti di area vasta, imposto dall'articolo 421, della legge 190/2014?
Ancora, c'è da chiedersi perché il personale addetto alle funzioni non fondamentali debba essere ex lege posto in sovrannumero e rischiare di andare in disponibilità e verso il licenziamento, se entro il 31.12.2016 non sia ricollocato, visto che la copertura dei costi per le funzioni non fondamentali di province e città metropolitane, a carico delle regioni, a rigor di logica, dovrebbe riguardare anche il costo del personale.
Il maxiemendamento sottende, forse, ad un complessivo ripensamento delle logiche della legge 190/2014, che oggettivamente hanno determinato lo stallo della riforma, a meno che non si ritenga di escludere, dalle spese che le regioni saranno tenute a coprire, quelle di personale (articolo ItaliaOggi del 30.07.2015).

ENTI LOCALIEstensione a tappeto del rinvio dei bilanci. Tema oggi in Conferenza stato-città-autonomie.
Estendere anche ai comuni il rinvio al 30 settembre del termine per il varo del bilancio di previsione 2015 al momento disposto solo per gli enti di area vasta.

Potrebbe essere questa la decisione a sorpresa della Conferenza stato-città e autonomie locali convocata per oggi.
Si tratterebbe di un piccolo colpo di scena, visto che appena due settimane fa la proroga venne consentita solo a favore di province e città metropolitane.
In quell'occasione, peraltro, si verificò un mezzo giallo. Sul tavolo della Conferenza, infatti, arrivò una richiesta firmata, oltre che dal presidente dell'Upi, Achille Variati, anche dal n. 1 di Anci, Piero Fassino. Essa, tuttavia, non menzionava i comuni, che quindi rimasero tagliati fuori, con inevitabile coda di polemiche, visto il clima non proprio idilliaco che in questi mesi si respira all'interno dell'associazione dei sindaci.
Oggi la questione verrà nuovamente discussa e l'opzione di un rinvio generalizzato pare al momento quella più gettonata, anche perché in qualche modo legittimata dal fatto che il decreto «enti locali» (dl 78/2015), che nel corso dell'iter di conversione ha imbarcato ulteriori misure correttive (Atto Senato n. 1977), non diventerà legge prima della settimana prossima.
Sempre oggi la Conferenza dovrebbe dare il via libera allo schema di decreto del Mef chiamato a definire criteri, tempi e modalità per la distribuzione degli 850 milioni di euro messi a disposizione dall'art. 8 dello stesso dl 78 per l'erogazione agli enti locali di anticipazioni di liquidità finalizzate a consentire il pagamento dei debiti pregressi.
In realtà, il provvedimento si limita a rinviare a quanto sarà previsto da un atto integrativo alla convezione in essere fra Via XX Settembre e la Cassa depositi e prestiti, che gestirà le risorse e sottoscriverà i contratti con i beneficiari. Le richieste dovranno essere presentate, a pena di nullità, entro la data che sarà fissata dall'atto integrativo (articolo ItaliaOggi del 30.07.2015).

APPALTIIndice tempestività, il Durc nel calcolo. PAGAMENTI P.A./ Circolare della Ragioneria.
Non sono esclusi dal calcolo dell'indicatore di tempestività dei pagamenti delle amministrazioni pubbliche i periodi di tempo intercorrenti tra la richiesta del Durc e il suo ottenimento.
È uno dei chiarimenti forniti dalla circolare 22.07.2015 n. 22, diffusa martedì dalla Ragioneria generale dello stato per fare luce sulle modalità applicative dell'art. 8, comma 3-bis, del dl 66/2014.
Tale norma ha previsto, nel quadro degli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni imposti alle p.a., di calcolare e pubblicare un indicatore annuale e trimestrale sulla tempestività dei pagamenti.
Quest'ultimo è definito in termini di ritardo medio di pagamento ponderato in base all'importo delle fatture. In pratica, si tratta di calcolare un rapporto fra la somma dell'importo di ciascuna fattura pagata (al netto dell'Iva da split payment) moltiplicato per la differenza, in giorni effettivi, tra la data di pagamento della fattura ai fornitori e la data di scadenza e la somma degli importi pagati nell'anno solare o nel trimestre di riferimento.
Il calcolo deve tenere conto di tutte le transazioni commerciali pagate nel periodo di riferimento (anno solare o trimestre), ma attribuisce un peso maggiore ai casi in cui sono pagate in ritardo le fatture di importo più elevato. Possono essere escluse solo le fatture tassativamente indicate dalla legge, fra cui quelle pagate grazie ai cd decreti sblocca debiti (dl 35/2013 e dl 66).
La data di pagamento è quella di trasmissione degli ordinativi di pagamento in tesoreria, mentre la data di scadenza è quella prevista dal dlgs 231/2002, ossia in generale 30 giorni dalla data di ricevimento della fattura, salvo il diverso termine previsto a livello contrattuale (ma in ogni non può essere superiore a 60 giorni). Al riguardo, la circolare precisa che la p.a. debitrice non può artificiosamente abbassare l'indicatore neutralizzando il periodo di tempo necessario per acquisire il Durc (che adesso peraltro viaggia online e quindi in tempo reale). Tali adempimenti fanno parte della ordinaria attività contabile finanziaria posta a carico dell'ente, che quindi deve adottare opportune procedure gestionali al fine di evitare ritardi.
La circolare ricorda che i nuovi termini di pagamento si applicano ai soli contratti stipulati a decorrere dal 01.01.2013, mentre a quelli stipulati prima di tale data continuano ad applicarsi le norme vigenti al momento della loro conclusione. Tuttavia, qualora sia stipulato un atto aggiuntivo o si proceda al rinnovo, si applica la nuova disciplina dettata dal dlgs 192 (articolo ItaliaOggi del 30.07.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOProvince, mobilità per 10mila «esuberi». Sanzioni alle Regioni in ritardo nell’attuazione - Via libera ai rinnovi dei contratti a termine.
Sanzioni alle regioni che non si affrettano ad attuare la legge Delrio, nuovi canali per il trasferimento di circa 10mila dipendenti provinciali a Regioni e Comuni e qualche ritocco vitale alle regole dei bilanci degli enti di area vasta.
Il decreto legge enti locali
(Atto Senato n. 1977) che ieri ha ottenuto la fiducia al Senato è anche una sorta di riforma-bis di Province e Città metropolitane, soprattutto dopo che il passaggio parlamentare lo ha arricchito di una serie di misure per sbloccare le parti incagliate del riordino.
Il provvedimento, che dopo l’ok di Palazzo Madama viaggia ora verso la Camera per quella che secondo i programmi del governo dovrebbe essere una ratifica, guarda agli ostacoli fondamentali al decollo della riforma.
I problemi sono chiari: la legge Delrio aveva previsto l’abbandono di una serie di attività da parte degli enti di area vasta, che nel nuovo quadro si devono concentrare sulla pianificazione di trasporto e rete scolastica (e sul coordinamento di viabilità, servizi pubblici e piani di sviluppo nel caso delle Città metropolitane), e le Regioni avrebbero dovuto decidere quali “rami” sarebbero passati, con il relativo personale, alle Regioni o ai Comuni del territorio.
Tra ritardi governativi, con i decreti sulla mobilità ancora in fase di adozione, e territoriali, costi e dipendenti sono rimasti in carico a Province e Città, che però hanno subito i tagli da un miliardo previsti dall’ultima manovra e quindi rischiano di saltare, con duri colpi alla gestione dei servizi locali (già in forte crisi) ma anche all’immagine di una politica che su quella riforma ha puntato molto.
Con il voto del Senato il presidente dell’Unione delle Province Achille Variati parla di «prime risposte positive», anche se la nuova geografia di costi e servizi territoriali a regime deve ancora essere disegnata e giusto ieri è stata al centro di un incontro fra lo stesso Variati e il ministro dell’Economia Piercarlo Padoan.
La prima mossa passa dalle sanzioni previste per le Regioni che entro il 30 ottobre non avranno completato l’attuazione della Delrio. I ritardatari dovranno coprire entro novembre i costi che Province e Città del loro territorio sostengono per le «funzioni non fondamentali», cioè le attività che sarebbero dovute passare ad altri enti, e se il ritardo continuerà negli anni successivi ci sarà il bis ogni 30 aprile. A quantificare l’assegno che le Regioni dovranno girare agli enti di area vasta sarà il governo, e per fermare la catena delle penalità non basterà scrivere le leggi di riordino, ma occorrerà garantire l’«effettivo esercizio» delle funzioni da parte dei nuovi enti.
Per provare davvero a tenere in piedi i conti di Province e Città, però, occorre spostare il personale, e su questo arrivano altre due misure i cui effetti però andranno testati sul campo. I dipendenti dei centri per l’impiego, circa 8mila, dovrebbero passare alle Regioni, sulla base di convenzioni con il ministero del Lavoro che mette sul piatto 90 milioni da distribuire tra i firmatari; per quel che riguarda la Polizia provinciale, invece, gli enti dovranno individuare entro il 31 ottobre quanti dei circa 2.700 dipendenti deve restare per svolgere le «funzioni fondamentali», mentre gli altri dovranno «transitare» nei ruoli dei Comuni in deroga ai tetti di spesa per il personale (purché si mantenga l’equilibrio di bilancio e il rispetto del Patto di stabilità).
Nella speranza che questi meccanismi funzionino, anche se nei decreti ministeriali rimangono le incognite sulle tutele stipendiali per chi si sposta, il testo votato ieri dal Senato permette il rinnovo dei contratti a termine nelle 33 Province e Città che hanno sforato il Patto nel 2014, chiudendo il periodo di limbo dei precari interessati, e permette agli enti di area vasta di scrivere (entro il 30 settembre) un preventivo solo annuale, e non triennale come prevedono le regole ordinarie della finanza pubblica.
Dietro a questo apparente dettaglio tecnico si nasconde il problema dei problemi, ancora da risolvere: per l’anno prossimo è in calendario un taglio aggiuntivo da un miliardo, e da due per il 2017, che però Province e Città non riusciranno a sostenere nemmeno centrando in pieno la spesa standard calcolata dalla Sose. La possibilità di scrivere il bilancio solo annuale riconosce il problema, che però andrà affrontato nella manovra d’autunno: un altro compito per la spending review già alle prese con la caccia alle coperture in vista dei tagli fiscali
(articolo Il Sole 24 Ore del 29.07.2015).

ENTI LOCALI - VARIArriva l’identità digitale unica. Cittadini e Pa. Entro dicembre il debutto dello Spid per accedere alla rete.
Entro dicembre 2015 verranno rilasciate le prime identità digitali che permetteranno a cittadini e imprese di accedere ai servizi in rete offerti dalla pubblica amministrazione e dai privati.
L’Agid (Agenzia per l’Italia digitale), in collaborazione con il Garante per la protezione dei dati personali, ha emanato infatti ieri i quattro regolamenti tecnici necessari all’avvio dello Spid (Sistema pubblico per la gestione dell’identità digitale) dando così attuazione concreta all’articolo 64 del Codice dell’amministrazione digitale e al correlato decreto del Presidente del consiglio dei ministri datato 24.10.2014, pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 285 del 09.12.2014.
Le prime pubbliche amministrazioni che permetteranno l’accesso ai propri servizi tramite Spid sono agenzia delle Entrate, Inail, Inps, regione Piemonte, Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna, Liguria, Toscana e Marche. Le altre pubbliche amministrazioni sono obbligate ad aderire a Spid entro i ventiquattro mesi successivi all’accreditamento del primo gestore di identità digitale. L’identità Spid è costituita infatti dalle credenziali erogate, previa richiesta e identificazione dell’utente, dagli identity provider o gestori di identità digitale: si tratta di aziende in possesso delle caratteristiche definite dai regolamenti tecnici e che dal 15 settembre 2015 potranno fare richiesta di accreditamento ad Agid.
Con lo Spid si potrà accedere a qualunque servizio online con le medesime credenziali di autenticazione universalmente accettato. Nel sistema attuale ogni servizio richiede invece credenziali specifiche per singolo ente. Il cittadino potrà così autenticarsi una sola volta presso uno dei gestori di identità digitali e utilizzare tale autenticazione con qualunque erogatore di servizi online, pubblico e privato, sia italiano che della Ue.
Gli utenti potranno disporre di una o più identità digitali, costituite da alcune informazioni identificative obbligatorie, quali codice fiscale, nome, cognome, luogo e data di nascita, sesso. Le identità digitali vengono rilasciate dai gestori su richiesta dell’interessato dietro presentazione di un modulo di richiesta di adesione, contenente tutte le informazioni necessarie all’identificazione del richiedente, distinte a seconda che si tratti di persona fisica o giuridica. Alla richiesta segue la fase di identificazione e cioè l’accertamento delle informazioni sufficienti a identificare il richiedente sulla base dei documenti forniti.
L’identificazione può essere a vista, con presenza fisica del richiedente presso le sedi preposte, oppure a vista da remoto mediante l’utilizzo di strumenti di registrazione audio/video. L’identificazione può aversi anche in modo informatico, tramite documenti digitali di identità, altre identità Spid o con firma elettronica qualificata o digitale. All’identificazione segue la verifica dell’identità dichiarata con accertamenti effettuati tramite fonti autoritative istituzionali per verificare la veridicità dei dati raccolti.
Il sistema Spid è basato su tre livelli di sicurezza. Il primo permette l’autenticazione del titolare tramite Id e password stabilita dallo stesso utente. L’identità Spid di secondo livello permette invece l’autenticazione tramite password e generazione di una Otp - One time password inviata al titolare. Il terzo livello permette, infine, l’autenticazione tramite utilizzo di una password e una smart card
(articolo Il Sole 24 Ore del 29.07.2015).

CONDOMINIOTutte le strategie per evitare i danni. L’amministratore deve risarcire in caso di omissione ai suoi doveri.
Vacanze sicure. Perdite d’acqua, allarmi a vuoto, lavori urgenti possono essere affrontati facilmente.

Il periodo estivo comporta alcuni problemi per la vita condominiale, che si trova solitamente “svuotata” da molti dei suoi usuali protagonisti, dai condòmini (salvo pochi superstiti) allo stesso amministratore. Ci si può pertanto trovare ad affrontare emergenze o situazioni che normalmente non si presentano nella restante parte dell'anno.
Va detto, anzitutto, che l’amministratore professionale, prima di lasciare lo studio, avrà l'accortezza (soprattutto se il condominio non usufruisce dei servizi di un portinaio) di tutelare i suoi amministrati anche nel periodo nel quale non sarà presente (e magari neppure reperibile) stilando (e lasciando in bella evidenza in condominio) una comunicazione con la lista e i riferimenti delle aziende e dei professionisti ai quali, di norma, ci si deve rivolgere per le riparazioni e la manutenzione dei vari impianti condominiali: pensiamo per esempio all'ascensore rotto o a una chiave che si spezza nel portone o ancora alla piscina condominiale con problemi di depurazione.
All'amministratore, ovviamente, non potrà essere richiesto di essere presente tutto l'anno senza interruzioni, ma di fare in modo che dalla sua assenza non derivino possibili danni per lo stabile certamente sì: quindi l'amministratore che venisse meno a tale avvertenza potrebbe certamente essere ritenuto (in forza del rapporto di mandato che lo lega ai suoi amministrati) responsabile e quindi chiamato a risarcire i danni occorsi allo stabile a causa di un suo comportamento omissivo.
Anche il condòmino, ovviamente, prima di abbandonare temporaneamente la propria abitazione dovrà preoccuparsi (al pari dell'amministratore) di chi resta, e mettere in atto quei necessari accorgimenti volti ad evitare un possibile danno per i pochi che si trovino a trascorrere agosto in città. Anche perché di tali danni, al pari dell'amministratore, lo stesso condomino potrebbe poi essere chiamato a rispondere sia civilmente che, ricorrendone i presupposti, penalmente in base alla responsabilità delle “cose in custodia” regolata dal codice civile all''articolo 2051.
Come prima cosa, anzitutto, anche il condomino (al pari dell'amministratore) dovrà lasciare la propria reperibilità (al portinaio se presente, all'amministratore o piuttosto ad un condomino che resti sulla località), in modo che sia possibile avvisarlo in caso di emergenza.
Il condòmino, inoltre, potrebbe lasciare a persone di fiducia (amministratore, portinaio, vicini che non vadano in vacanza nel suo stesso periodo) il numero dell'azienda che ha installato l'allarme antifurto, dato che tutti conosciamo lo sgradevolissimo fenomeno di allarmi che suonano sino ad esaurimento o al ritorno dei diretti interessati. In questo modo, fatti ovviamente gli opportuni controlli, la ditta potrebbe intervenire a disinnescare la fonte di molestie sonore.
A questo proposito, va ricordata una recente decisione della Cassazione che ha stabilito che per considerare o meno illecita (e quindi vietata) una immissione sonora, occorre anche tenere presente il rumore “di fondo” presente sul posto: più tale rumore (come d'estate a città semi deserte) sarà attenuato, e più una singola fonte sonora potrà risultare molesta.
Altra avvertenza da seguire, per il condòmino che voglia allontanarsi dal proprio alloggio per un certo periodo, è quello di chiudere l'interruttore dell'acqua, assicurandosi così dal rischio di perdite indesiderate. Qualora avvenissero, infatti, è ovvio che l'amministratore (o persino altri condòmini) potrebbero intervenire per evitare che dall'acqua che fuoriesce derivino danni alle parti comuni o private dello stabile. Attenzione: a meno che ci si trovi in una fase tale di emergenza e pericolo assoluti, i condòmini dovranno evitare di agire di propria iniziativa e chiedere invece l'intervento della autorità pubblica (ad esempio vigili del fuoco) per segnalare quanto sta accadendo. Nonostante l'esistenza di una perdita d'acqua, infatti, nessun privato ha il diritto di introdursi in un altro appartamento e deve necessariamente richiedere l'intervento della forza pubblica.
L’amministratore, inoltre, inviterà i condòmini a staccare nei propri alloggi la corrente elettrica o almeno, se non è possibile, almeno tutte le spine di televisione computer e telefono dato che le prese elettriche sono conduttori di fulmini (tipici del periodo estivo) e per evitare il fenomeno ricorrente (d'estate) del blocco dell'elettricità.
Nel periodo estivo non viene , dunque, meno il legame (e le conseguenze che necessariamente ne derivano) che lega o in forza di un contratto di mandato (l'amministratore) o in forza di un diritto reale (il condomino) il singolo al bene immobile: per entrambi varrà quindi il principio di evitare o almeno circoscrivere le insidie che ne possono derivare.
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Le emergenze si gestiscono meglio con il «consiglio». Parti comuni. Interventi rapidi.
Durante l'estate in condominio le attività non si fermano. Non soltanto vi è da curare, come sempre, l'erogazione delle spese, l'osservanza del regolamento, la tutela delle parti comuni e la gestione dei servizi condominiali, ma si presentano specifiche situazioni connesse alla stagione e alle sue caratteristiche.
Così, ad esempio, molti interventi sulle parti comuni (in particolare quelli che riguardano i tetti e le coperture) devono, necessariamente, essere eseguiti nel periodo estivo per evitare che le piogge o altri imprevisti metereologici possano comprometterne la corretta esecuzione e i risultati.
Inoltre, l'apertura delle finestre imposta dal clima più caldo può accentuare i problemi legati a immissioni di rumore (magari durante feste svolte sui terrazzi) e/o di fumi e odori (a causa di inopportune grigliate).
Infine, gli appartamenti lasciati vuoti dai loro occupanti, che sono andati in ferie, possono attirare i ladri, spesso facilitati dalle finestre aperte, e, quindi, se sono anche presenti ponteggi per l'esecuzione di interventi di manutenzione in facciata o sulla copertura, si possono verificare furti, rispetto a cui le sentenze hanno attribuito la responsabilità, oltre che all'impresa esecutrice, anche al condominio, ai sensi dell'articolo 2051 del Codice civile, per l'insufficiente controllo sulle parti comuni oggetti dei lavori e di cui esso è custode.
Quindi, in sostanza, durante il periodo feriale, vi possono essere eventi imprevisti che richiedono un intervento immediato, e anche se l'amministratore si è diligentemente organizzato, cercando di prevenire le emergenze e lasciando i propri recapiti, a volte è necessaria una presenza fisica e concreta per risolvere i problemi insorti e tutelare gli interessi comuni.
Proprio per questo, nel regolamento di molti condominii è previsto il “consiglio di condominio” deputato, da un lato, ad affiancare e coadiuvare l'amministratore nelle decisioni per le quali non vi è il tempo sufficiente a convocare l'assemblea, e, dall'altro, a risolvere i problemi più urgenti e/o di minor rilievo.
Tale organo, che, prima della riforma, era previsto esclusivamente dai singoli regolamenti, e, spesso, quindi, disciplinato in modo diverso da un condominio all'altro, ora, a seguito delle modifiche introdotte dalla legge 220/2012, è espressamente menzionato dall'ultimo comma dell'articolo 1130 bis del codice civile, il quale prevede che «l'assemblea può anche nominare, oltre all'amministratore, un consiglio di condominio composto da almeno tre condomini negli edifici di almeno dodici unità immobiliari» il quale «ha funzioni consultive e di controllo».
Insomma, il condominio che non lo ha dovrebbe proprio istituirlo, anche in assenza di una previsione del regolamento condominiale. Infatti, sono proprio i consiglieri che, durante il periodo feriale, mantengono i contatti con l'amministratore, sostituendolo per le necessità più urgenti
(articolo Il Sole 24 Ore del 28.07.2015).

EDILIZIA PRIVATALombardia, contabilizzatori senza correttivi. Consumi energetici. Il Pirellone si adegua alle norme Ue - In difficoltà chi ha seguito la disciplina regionale.
Addio definitivo ai “correttivi” per i contabilizzatori. Anche la Lombardia li abbandona, in linea con il principio del pagare solo sul consumo effettivo.
In effetti i coefficienti correttivi sono vietati dalla legge 10/1991, articolo 26, comma 5, dalla direttiva europea 2012/27/Ue e dal dlgs 102/2015, articolo 9, comma 5, lettera d). Nessuna norma regionale li può prevedere.
Ma la Regione Lombardia, con la Delibera di Giunta regionale (Dgr) del 20.12.2013, n. X/1118, all'articolo 10, comma 11, prevede che «Nella progettazione del sistema di termoregolazione e contabilizzazione dell'energia termica, il Tecnico abilitato deve tenere conto delle diverse esposizioni delle unità abitative, degli ambienti situati al primo e all'ultimo piano dell'edificio, dell'equilibratura dell'impianto. Tali caratteristiche dovranno essere evidenziate in una relazione da consegnare al Committente per individuare (omissis) i criteri di ripartizione delle spese».
È evidente il riferimento ai così detti “coefficienti correttivi” che “correggono” i dati del calore prelevato dal termosifone tenendo in considerazione le dispersioni dalle pareti. Da più parti sono sorte perplessità circa questa disposizione, che contrasta con altre norme di rango superiore. La perplessità maggiore derivava dal fatto che una norma Regionale non avrebbe potuto dettare disposizioni in materia di ripartizioni delle spese. L'articolo 117 della Costituzione, infatti, non assegna tale potere alle Regioni.
Il ripensamento, indirettamente, arriva dalla stessa Regione Lombardia. Questa, infatti, nella conferenza delle regioni 15/69/cu7/c5 del 16.07.2015, ha sottoscritto lo schema di decreto legislativo recante disposizioni integrative al decreto legislativo 04.07.2014, n. 102.
In esso viene chiaramente specificato che il ricorso ai coefficienti correttivi potrebbe essere contenuto sono in una legge dello Stato in quanto la materia non rientra nelle competenze delle Regioni. Tuttavia, viene anche ricordato che gli stessi non sono previsti né dalla Direttiva Europea 2012/27/UE e nemmeno dalla Legge 10/1991. Nella bozza di modifica approvata dalla Conferenza delle Regioni, infatti, non ne viene fatto riferimento alcuno.
Non solo. Le leggi e le norme regolamentari (quali sono le Dgr) non possono derogare alle direttive europee, anche se queste non sono ancora state recepite. La Dgr Lombarda n. 1118 è del dicembre 2013, quando era già in vigore la Direttiva 2012/27/UE che, di fatto, vieta proprio il ricorso ai coefficienti correttivi.
E qui subentra l’assurdità: allo stato attuale, dal 01.01.2017, i cittadini della Regione Lombardia che si sono attenuti alla Dgr 1118/2013 rischiano di vedersi irrogare vedranno irrogare una sanzione amministrativa da 500 a 2.500 euro dalla Regione stessa, in quanto non ripartiscono le spese del riscaldamento in base ai consumi effettivi. A meno che non cambino i metodi di calcolo
(articolo Il Sole 24 Ore del 28.07.2015).

APPALTIAcquisti senza deroghe (per ora) nei Comuni fino a 10mila abitanti. Centrali uniche. Tra i soggetti aggregatori anche nove Città metropolitane.
Nel pacchetto di emendamenti approvati dalla commissione Bilancio del Senato non arriva la deroga alla centralizzazione degli acquisti per i piccoli Comuni, che quindi (a meno di novità dal maxiemendamento) continuano a vedere in prospettiva (dal 1° novembre) l’obbligo di rivolgersi alle centrali uniche per tutti gli acquisti, mentre la deroga per i mini-acquisti fino a 40mila euro vale solo per i Comuni sopra i 10mila abitanti.
Per i piccoli, il Governo aveva ipotizzato una soglia intermedia, a 20mila euro, ma resta da capire la sorte di questa idea. Intanto l’individuazione dei soggetti aggregatori da parte dell’Anac avvia il percorso operativo.
Nell’elenco Anac (su cui si veda anche Il Sole 24 Ore del 24 luglio) rientrano Consip e 21 centrali di committenza regionali, individuate secondo modelli diversi, che vanno dalle strutture direzionali delle stesse Regioni (come nel caso della Toscana), a centri regionali di acquisto (come il Crav in Veneto), a stazioni uniche appaltanti (come in Liguria), ad agenzie (come Intercent, in Emilia-Romagna), sino alle società specializzate (come Arca in Lombardia).
Nel novero rientrano anche 9 Città metropolitane e 2 province, per le quali è ipotizzabile un ruolo significativo rispetto ai contesti territoriali di riferimento, che dovrà essere coordinato con quello delle centrali regionali.
Il 35esimo organismo ammesso nel numero massimo previsto dalla legge è il consorzio Cev, istituito dagli enti locali per l’approvvigionamento di energia: l’ammissione è peraltro condizionata a una modifica statutaria che deve escludere qualsiasi possibilità di partecipazione di privati al consorzio. Tra i soggetti esclusi per mancanza dei requisiti soggettivi risultano anche Invitalia e la società consortile Asmel
Lo sviluppo concreto del sistema si trasferisce ora al tavolo dei soggetti aggregatori (nel quale sono presenti anche Mef, Anci e Upi), che dovrà definire le tipologie e i volumi di beni e servizi da ricondurre alle macro-committenze
In questa prospettiva è utile che le amministrazioni (soprattutto gli enti locali) diano corso alla programmazione per gli acquisti di beni e servizi (prevista dall’articolo 271 del Dpr 207/2010), in modo tale da poter rilevare eventuali specificità e, soprattutto, enucleare le forniture e le prestazioni che potranno essere acquisite autonomamente con procedure semplificate o da riservare all’affidamento alle coop di tipo B.
Il profilo più complesso risulta dal doppio ruolo che i soggetti aggregatori verranno ad avere in base al quadro normativo attuale: da un lato, infatti, assolvono al ruolo di centrali di committenza per i fabbisogni relativi a beni e servizi, dall’altro, tuttavia, possono anche configurarsi come stazioni appaltanti delegate (su base normativa) a svolgere singole procedure di gara, in particolare per gli appalti di lavori
(articolo Il Sole 24 Ore del 27.07.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Per i nuovi fondi decentrati solo la replica dei tagli 2014. Personale. Le conseguenze delle istruzioni della Ragioneria.
Le amministrazioni pubbliche devono fare il «copia e incolla» del fondo stabile del 2014 per avere la base del fondo stabile del 2015: può essere così sintetizzata la indicazione di maggiore rilievo contenuta nella circolare 08.05.2015 n. 20 della Ragioneria Generale dello Stato (si veda Il Sole 24 Ore del 24 luglio).
Gli organismi di controllo interno, negli enti locali i revisori dei conti, vengono impegnati a verificare la corretta applicazione delle nuove regole. Il documento riprende le indicazioni dettate nella precedente circolare n. 8, diretta alle sole amministrazioni statali, e quelle implicitamente contenute nella circolare 17/2015, sul conto annuale, in cui si ipotizza il vincolo di lasciare inalterata la incidenza media dei dipendenti sul fondo per le risorse decentrate.
Essa dà una lettura radicalmente diversa delle prescrizioni dettate dall’articolo 9, comma 2-bis, del Dl 78/2010, come modificato dalla legge 147/2013 rispetto alle sezioni regionali di controllo della Corte dei Conti della Puglia, della Sicilia e dell’Abruzzo. Questi organismi ritengono che nel 2015 occorra detrarre dal fondo per la contrattazione decentrata i tagli operati negli anni dal 2011 al 2014, il che può portare in molti casi a ulteriori decurtazioni del fondo.
Le differenze interpretative nascono a seguito della infelice formulazione legislativa, che utilizza il plurale quanto ai tagli da effettuare nel 2015, senza precisare se ci si riferisce solamente agli obblighi di decurtazione per restare entro il tetto del 2010 e in caso di diminuzione del personale in servizio, come inteso dalla Ragioneria Generale dello Stato, o anche a quelle effettuate negli anni dal 2011 al 2014, come inteso dalle citate sezioni della magistratura contabile.
In termini sostanziali il vincolo legislativo viene correttamente interpretato da Via XX Settembre nel senso che si vuole impedire di rimettere nel fondo i tagli che sono stati operati negli anni dal 2011 al 2014 in ossequio alle previsioni del Dl 78/2010 e non determinare un’ulteriore riduzione del fondo.
La presa di posizione della Ragioneria è molto attenta a distinguere i casi in cui nel fondo 2014 sono state inserite tutte le risorse previste dai contratti decentrati, anche se determinavano un aumento teorico, rispetto alle amministrazioni in cui tali risorse non sono state inserite. Il risultato che si deve avere è in ogni caso eguale.
Quindi, riproposizione del fondo 2014 di parte stabile, stando attenti a inserire anche gli aumenti derivanti dall’applicazione delle norme contrattuali, essenzialmente la Ria e gli assegni ad personam dei cessati. Ovviamente ciò non impedisce che, nel caso in cui maturino le condizioni per nuovi incrementi, essi debbano essere disposti. Per la parte stabile il riferimento va alla Ria e agli assegni ad personam dei dipendenti cessati nel 2014, per la parte che matura nell’anno successivo, e del 2015; ma va anche –alla luce delle indicazioni contenute nell’emanando decreto del ministro della Pa- alle risorse necessarie alla corresponsione del salario accessorio, quanto meno per la parte fissa, dei dipendenti in sovrannumero degli enti di area vasta assorbiti.
Si deve evidenziare inoltre che non sembrano esserci vincoli alla parte variabile del fondo, dal momento che viene costituito annualmente, ovviamente ferma restando la necessità di rispettare i vincoli dettati dal legislatore, per cui risorse aggiuntive possono essere inserite solamente dagli enti che rispettano il Patto e i vincoli di spesa del personale.
La circolare si conclude responsabilizzando gli organi di controllo ad effettuare la certificazione «dell’ammontare della decurtazione permanente». È facile prevedere che queste indicazioni saranno tradotte in prescrizioni operative nel conto annuale 2015
(articolo Il Sole 24 Ore del 27.07.2015).

EDILIZIA PRIVATAContributi straordinari, la mappa dei pagamenti. Oneri aggiuntivi in tre Regioni e in diversi Comuni. Urbanistica. Versamenti extra quando si aumenta l’edificabilità in deroga al Prg.
Le Regioni e i Comuni stanno applicando senza molte deviazioni le norme statali per il contributo straordinario di urbanizzazione, ovvero l’onere dovuto sull’incremento di valore che deriva dagli accordi tra Comune e privati per aumentare gli indici di edificabilità, in deroga ai piani regolatori generali.
È quanto risulta da una prima ricognizione svolta dall’associazione nazionale dei costruttori edili (Ance) sull’applicazione delle modifiche introdotte dal decreto legge 133/2014 (il cosiddetto Sblocca Italia), alla norma sugli oneri di urbanizzazione (articolo 16 del Dpr 380/2001, testo unico dell’edilizia).
La previsione
La realizzazione, secondo le previsioni degli strumenti urbanistici vigenti, di un immobile residenziale, di un capannone industriale o di un centro commerciale comporta sempre il pagamento al Comune di contributo commisurato al costo di costruzione e agli oneri di urbanizzazione. Le somme che i proprietari degli immobili devono pagare sono stabilite dai consigli comunali partendo da griglie di valori definite dalle Regioni sulla base di un insieme di parametri.
Non di rado, però, vengono realizzati interventi che vanno oltre le previsioni dei Prg, introducendo una variante alle previsioni del Prg o derogandovi. Quando accade, il proprietario dell’area o dell’immobile ottiene un bel vantaggio: il valore del suo bene aumenta. La stessa cosa capita quando si consente di cambiare la destinazione d’uso di un immobile, per esempio trasformando un capannone industriale in appartamenti.
Con la modifica al testo unico dell’edilizia, per determinare gli oneri di urbanizzazione i Comuni devono tener conto anche di quell’eventuale aumento di valore, che deve essere «suddiviso in misura non inferiore al 50 per cento tra il Comune e la parte privata ed è erogato da quest’ultima al Comune stesso sotto forma di contributo straordinario».É straordinario perché si somma al normale pagamento degli oneri di urbanizzazione. Poiché si crea una plusvalenza dovuta unicamente a una decisione amministrativa, si è ritenuto che debbano beneficiarne anche le casse dell’ente pubblico. Il legislatore ha pensato di attestare, in questo modo, che la variante, la deroga o il cambio di destinazione d’uso non è vantaggiosa solo per il proprietario interessato, ma che è stato perseguito anche un interesse pubblico.
L’attuazione
Dalla ricognizione sullo stato dell’arte fatta dall’Ance, risulta che non tutte le amministrazioni si sono attenute alla regola della suddivisione a metà nella ripartizione tra pubblico e privato del maggior valore. D’altra parte, la norma statale per la determinazione del valore del contributo fa salve le disposizioni regionali e degli strumenti urbanistici comunali.
Ad esempio Roma chiede di incassarne almeno i due terzi, con possibilità di fermarsi al 60% di fronte ad un’elevata qualità progettuale degli interventi. Restando in provincia di Roma, a Fiano Romano chi si accorda con il Comune per costruire oltre le previsioni del Prg deve versare tra il 40 e il 60 per cento del plus valore; la percentuale esatta è stabilita di volta in volta tenendo conto anche dell’importanza dell’intervento per la comunità.
La norma statale obbliga i Comuni a reinvestire i contributi straordinari, negli stessi ambiti territoriali in cui sono stati realizzati gli incrementi di valore, in opere pubbliche e servizi o per accrescere la dotazione di edilizia pubblica. Regioni e Comuni hanno dettagliato gli interventi da realizzare, secondo le priorità di ogni amministrazione. La Liguria, per esempio, ha dato disposizione ai Comuni di indirizzare la spesa anche nella realizzazione di opere anti dissesto idrogeologico, vista la particolare vulnerabilità. In alternativa al pagamento monetario, il contributo straordinario può anche tradursi nella cessione di aree o di immobili da destinare a edilizia residenziale sociale o servizi sociali, come nel caso del comune di Thiene. Sempre Roma prevede, come alternativa, la realizzazione e la gestione da parte di privati, per un determinato periodo, di servizi di uso pubblico e di edilizia per l’affitto a tariffe e cononi concordati.
Sono sempre i Comuni a stabilire le modalità di calcolo dell’incremento di valore dovuto alla variante o alla deroga al Prg. In genere, viene determinato come differenza tra il valore dell’area o dell’immobile a seguito della modifica dello strumento urbanistico e il loro valore a piano vigente
(articolo Il Sole 24 Ore del 27.07.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIAAmbiente, contravvenzioni con via d’uscita amministrativa.
L’articolo 1, comma 9 della legge 68/2015 introduce nel corpo del Testo unico ambientale la Parte sesta–bis, rubricata «Disciplina sanzionatoria degli illeciti amministrativi e penali in materia di tutela ambientale» e sviluppata in sei articoli (da 318-bis a 318-octies), con la quale si prevede un meccanismo estintivo che ricalca quella prevista dal Dlgs 758/1994 in materia di violazioni della normativa sulla sicurezza sul lavoro.
A discapito della rubrica, tale disciplina (non retroattiva) si applica a una sola categoria di illecito, ovvero le fattispecie penali contravvenzionali previste dal Dlgs 152/2006 (e dunque non da altre fonti normative che pure contengono contravvenzioni in materia ambientale), che non abbiano cagionato un danno o pericolo concreto ed attuale di danno alle risorse ambientali, urbanistiche o paesaggistiche protette.
La procedura prevede che l’organo di vigilanza detti al contravventore prescrizioni asseverate dell’autorità competente, volte a regolarizzare la situazione non conforme; una volta accertato l’adempimento della prescrizione nel termine tecnicamente necessario dettato dallo stesso organo di vigilanza, ed eventualmente prorogato su richiesta di parte, il contravventore è ammesso alla definizione del procedimento penale (che nelle more rimane sospeso) con il pagamento in via amministrativa di un importo pari a un quarto della pena pecuniaria massima, estinguendo così il reato.
La prescrizione dettata dall’organo di vigilanza non è impugnabile in sede amministrativa; se, dunque, il trasgressore non riterrà di adempiere la prescrizione o non sarà in grado di ottemperarvi nella tempistica prescritta, il procedimento penale riprenderà il proprio corso. Tuttavia, l’adempimento eseguito con modalità diverse o in un termine maggiore, ma comunque congruo, potrà essere valutato ai fini dell’ammissione all’oblazione “penale” ai sensi dell’articolo 162-bis Cp (l’importo sarà però della metà della pena pecuniaria massima).
La novità legislativa ha sicuramente il pregio di introdurre una modalità deflattiva che potrà servire ad alleggerire il carico giudiziario, trovando una “via d’uscita” per molti processi che verrebbero altrimenti istruiti per violazioni meramente formali o scarsamente offensive; restano però diversi dubbi dettati da una tecnica redazionale che rimane per molti versi non particolarmente chiara.
Innanzitutto, è lasciata una significativa discrezionalità dell’organo di vigilanza nell’individuare se la violazione possa o meno aver generato un danno o un pericolo di danno (che potrebbe, in ipotesi, manifestarsi in futuro con una contaminazione non percepibile o prevedibile nell’immediato dall’ente accertatore), con il rischio di una sperequazione applicativa, anche in base agli orientamenti interpretativi che potrebbero radicarsi nei diversi ambiti territoriali.
Non è poi chiaro in che termini e tempistiche (e da quale Autorità) debba essere emessa l’asseverazione della prescrizione, né se essa sia effettivamente necessaria anche per casi non complessi quali le violazioni di natura formale o di condotta già esaurita.
Manca poi (e si auspica in tal senso in un orientamento estensivo in sede giurisprudenziale) un coordinamento tra l’estinzione delle contravvenzioni ascritte alla persona fisica e il correlato illecito amministrativo che, in relazione allo stesso fatto contravvenzionale, potrebbe essere contestato alla persona giuridica ai sensi del Dlgs 231/2001. Attendiamo dunque di apprezzare se, giungendo alla “fase pratica”, la riforma troverà una efficace e uniforme applicazione, garantendo gli obiettivi che l’hanno ispirata
 (articolo Il Sole 24 Ore del 25.07.2015).

PUBBLICO IMPIEGOCongedi parentali anche a ore. Permessi frazionabili fino a metà dell'orario giornaliero. Nella nuova modulistica Inps la possibilità di chiedere la modalità alternativa di fruizione.
Via libera alla fruizione del congedo parentale su base oraria. Anche se non disciplinato da un contratto collettivo, i lavoratori possono scegliere di fruire del congedo su base oraria oltre che su base giornaliera.

La novità è prevista dal dlgs n. 80/2015 (riforma maternità in attuazione del Jobs act), in vigore dal 25 giugno, che ha svincolato la facoltà della fruizione oraria dalla previsione di una disciplina nel Ccnl.
L'Inps ha aggiornato la modulistica (il che consente ai lavoratori di presentare le richieste) in attesa di emanare apposita circolare con le istruzioni (come anticipato nella circolare 17.07.2015 n. 139, su ItaliaOggi del 21 luglio). Quando non esista una disciplina collettiva, la fruizione oraria è consentita per la metà dell'orario giornaliero (per esempio quattro ore se la giornata lavorativa è di otto ore).
Congedo parentale. Per congedo parentale s'intende l'astensione facoltativa del lavoratore/trice dipendente. In seguito alla riforma del Jobs act, per ogni bambino, nei primi suoi 12 anni di vita, ciascun genitore (lavoratore dipendente) ha diritto di astenersi per un periodo complessivamente (tra i due) non eccedente dieci mesi (11 se il papà ne fruisce per almeno tre mesi).
La legge n. 228/2012 aveva introdotto la possibilità di frazionare a ore la fruizione del congedo parentale. Una facoltà, tuttavia, subordinata alla preventiva previsione, da parte della contrattazione collettiva di settore, delle modalità di fruizione, nonché dei criteri di calcolo e dell'equiparazione di un determinato monte ore alla singola giornata lavorativa, il che di fatto aveva lasciato impraticabile la nuova opportunità.
Base oraria per tutti. A rendere effettivo il diritto di fruire del congedo orario ci ha pensato il dlgs n. 80/2015. Infatti, ha stabilito che, in caso di mancata regolamentazione da parte della contrattazione collettiva, anche di livello aziendale, delle modalità di fruizione del congedo su base oraria, ciascun genitore può scegliere tra la fruizione giornaliera e quella oraria. E che, nel caso la scelta cada sulla seconda chance, la fruizione oraria è consentita in misura pari alla metà dell'orario medio giornaliero del periodo di paga quadri-settimanale o mensile immediatamente precedente a quello nel corso del quale ha avuto inizio il congedo parentale.
A corredo della nuova opportunità vale la pena ricordare che, sempre il dlgs n. 80/2015, ha anche stabilito che, in caso di fruizione oraria ex lege (cioè in assenza di contratto collettivo), è esclusa la cumulabilità con gli altri permessi e riposi e che è escluso dalla facoltà il personale del comparto sicurezza e difesa e a quello dei vigili del fuoco e soccorso pubblico.
La domanda. La domanda di congedo parentale, qualunque sia la modalità scelta per la fruizione (oraria o giornaliera), va presentata all'Inps telematicamente prima dell'inizio del periodo di congedo richiesto. Per quanto riguarda la nuova opportunità di fruizione oraria, nella domanda andrà:
• specificato il numero di giorni di congedo parentale da fruire a ore nell'arco del periodo individuato;
• indicato un periodo, al massimo un mese solare, entro il quale intende fruire del congedo parentale frazionato a ore.
Al fine di facilitare le acquisizioni, il sistema telematico dell'Inps permette di:
• acquisire una domanda simile a quella su base oraria già presentata; i dati vengono replicati e possono essere modificati prima della conferma di protocollazione della nuova domanda;
• acquisire una domanda con un nuovo periodo partendo da una domanda su base oraria già presentata, confermando i dati precedentemente immessi e inserendo il nuovo periodo e il relativo numero di giorni (articolo ItaliaOggi del 25.07.2015).

PUBBLICO IMPIEGOIntegrativi, niente tagli a catena sui fondi. Ragioneria generale.
Niente tagli a catena per i fondi decentrati negli enti locali.

Diventa ufficiale l’orientamento della Ragioneria generale dello Stato, nella circolare 08.05.2015 n. 20 diffusa ieri (e anticipata sul Sole 24 Ore del 6 luglio scorso) che evita di raddoppiare nel 2015 i tagli cumulati negli anni 2010-2014.
Tutto nasce dal fatto che l’articolo 9 del Dl 78/2010 ha imposto alle amministrazioni di frenare il fondo per gli integrativi in due mosse: prima di tutto, è stato fissato il congelamento del suo valore a quello registrato nel 2010, e poi è stato imposto di ridurlo di anno in anno in proporzione all’alleggerimento del personale prodotto dal turn-over.
Da quest’anno è entrata invece in vigore la nuova regola, scritta al comma 456 della legge 147/2014, che con la consueta formulazione infelice chiede di tagliare i fondi «di un importo pari» alla sforbiciata prodotta dalle vecchie norme.
Alcune sezioni di controllo della Corte dei conti hanno interpretato questa regola come una sorta di raddoppio dei vecchi tagli, mentre la Ragioneria sgombra il campo da questa ipotesi e propone di replicare, senza raddoppiare, le vecchie riduzioni.
L’obiettivo, spiegano espressamente le istruzioni diffuse da Via XX Settembre (anche senza riprodurre gli esempi numerici presenti nelle prime bozze), è quello di «storicizzare» i tagli. Da quest’anno, inoltre, non opera più il tetto che imponeva di non superare il livello registrato nel 2010
(articolo Il Sole 24 Ore del 24.07.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

ATTI AMMINISTRATIVIConferenze servizi più rapide. Iter snello per grandi opere e insediamenti produttivi. La riduzione dei termini nel ddl delega per la riforma della p.a. che ora passa al senato.
Riduzione dei termini delle conferenze di servizi, che si esprimeranno non più a maggioranza ma a prevalenza delle posizioni espresse; procedure autorizzative semplificate con riduzione della metà dei termini per gli insediamenti produttivi e per le grandi opere; revisione della disciplina della Scia; riordino degli obblighi di pubblicità e trasparenza per le stazioni appaltanti e per gli enti privati soggetti a controllo pubblico.

Sono queste alcune delle principali novità previste dal disegno di legge delega per la riforma della pubblica amministrazione approvato all'inizio di questa settimana
(Atto Camera n. 3098) e adesso passato al senato.
Sono numerosi gli ambiti dai interesse per il settore degli appalti e dell' edilizia a partire dall' intervento sulla disciplina della conferenza di servizi, fase che spesso rallenta l'iter di approvazione dei progetti e quindi l'avvio delle opere.
L'articolo 2 del provvedimento prevede innanzitutto la ridefinizione e riduzione dei casi in cui la convocazione della conferenza di servizi sia obbligatoria, con un possibile «révirement» rispetto a quanto previsto oggi; inoltre si prevede l'introduzione di modelli di istruttoria pubblica nei casi di adozione di «provvedimenti di interesse generale», in alternativa al diritto di partecipazione al procedimento. Ma il punto più rilevante è quello della riduzione dei termini per la convocazione della conferenza (che potrà essere convocata e svolta anche utilizzando strumenti informatici) e per l'acquisizione degli atti per l'adozione del provvedimento conclusivo, oltre a quello concernente una nuova disciplina del calcolo delle presenze e delle maggioranze, per rendere più celere i lavori della conferenza.
Si stabilisce poi che in caso di più uffici della stessa amministrazione statale, dovrà partecipare un solo soggetto che si esprimerà per tutti gli uffici. Per quel che riguarda la adozione del provvedimento si passa al principio della prevalenza delle posizioni che supera quello della maggioranza per dare peso e importanza alle determinazioni di soggetti che abbiano un ruolo di maggiore rilievo rispetto ad altri in relazione alla questione da decidere.
Per le grandi opere e gli insediamenti produttivi si delinea un procedimento ad hoc semplificato nel quale la presidenza del consiglio potrà decidere a quali interventi applicare il rito semplificato che prevede una riduzione della metà dei termini ordinari. Alla presidenza del consiglio smetterà anche la attivazione di poteri sostitutivi per lo sblocco di situazioni problematiche.
Prevista anche la revisione della disciplina della Scia, in maniera da chiarire quando sia necessaria e quando si procede con silenzio assenso o con comunicazioni preventive, il tutto con tempi certi per la conclusione dei procedimenti. In attuazione della delega (tempo previsto: un anno) si dovrà dettare la disciplina generale delle attività non assoggettate ad autorizzazione preventiva espressa, nonché definire le modalità di presentazione e i contenuti standard degli atti degli interessati, così come le modalità di svolgimento della procedura, anche telematica.
Il disegno di legge approvato dalla camera, infine, prevede che entro sei mesi siano approvate disposizioni integrative e correttive dei decreti attuativi della legge Severino (dlgs 33 e 39/2013) relativamente alla materia attinente gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni (oggi previsti in diverse fonti normative) e l'inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le amministrazioni pubbliche e presso gli enti privati sottoposti a controllo pubblico (articolo ItaliaOggi del 24.07.2015).

PUBBLICO IMPIEGOCongedo parentale, moduli on-line.
Welfare. Disponibile l’aggiornamento telematico per la versione rinnovata dal decreto genitorialità
È on-line il modulo con cui richiedere il congedo parentale nella versione rinnovata dal decreto genitorialità in vigore dal 25 giugno scorso.
Lo ha reso noto l’Inps nella circolare 17.07.2015 n. 139, nella quale sono state specificatamente illustrate le novità introdotte dal Dlgs 80/2015 in materia di congedo parentale.
Per effetto dell’aggiornamento del modulo da trasmettere telematicamente, i genitori non dovranno pertanto più utilizzare il modello cartaceo SR23 che l’Istituto, nel messaggio 06.07.2015 n. 4576, aveva invece consentito di usare nel breve periodo transitorio dall’entrata in vigore del decreto ai necessari adeguamenti tecnici.
Il modello ospita quindi le nuove regole sui congedi parentali, applicabili dal 25 giugno al 31.12.2015, salvo rifinanziamento delle nuove misure di tutela (che dovrebbe essere sicuro), e che hanno comportato la modifica degli articoli 32, 34 e 36 del testo unico sulla maternità (Dlgs 151/2001).
La novità più importante è sicuramente rappresentata dall’estensione del periodo di fruizione che dagli originari 8 anni è diventato utilizzabile fino ai 12 anni di età del bambino o 12 anni dall’ingresso in famiglia del minore in caso di adozione e/o affidamento.
Conseguentemente è stato modificato il relativo trattamento economico, rispetto al quale l’Inps nel recente provvedimento ha esaminato le diverse casistiche che possono verificarsi, evidenziandone le rispettive differenze rispetto al passato.
In primo luogo, il periodo indennizzabile a carico dell’Inps (nella misura del 30% della retribuzione media giornaliera), è stato ampliato fino al 6° anno di età del bambino o di ingresso del minore in famiglia (contro i precedenti tre), sempre comunque nei limiti dei sei mesi complessivi.
Si tratta del caso più generale in cui l’indennità è sempre riconosciuta, senza che rilevino le condizioni reddituali del lavoratore richiedente.
Più specifico, invece, è il caso in cui il genitore richiedente abbia un reddito che non supera 2,5 volte l’importo del trattamento minimo pensionistico dell’anno (limite che per il 2015 è pari ad euro 6.531,07), condizione quest’ultima che consente di ricevere l’indennità c/Inps fino all’8° anno di età (o di ingresso in famiglia) del bambino (contro i precedenti 6 anni).
In presenza di questa condizione reddituale, l’Istituto indennizza anche i congedo fruiti tra il 6° e l’8° anno di età del bambino (o di ingresso), nonché i periodi di congedo eccedenti il limite complessivo indennizzabile (madre e padre congiuntamente considerati) dei 6 mesi, ancora previsto dall’articolo 34 del Dlgs n. 151/2001.
L’ulteriore caso che potrebbe verificarsi è quello del congedo utilizzato tra gli 8 ed i 12 anni di età del bambino, periodo quest’ultimo che, sebbene fruibile, non è mai indennizzabile da parte dell’Istituto.
L’effetto delle modifiche apportate al periodo di fruizione nonché conseguentemente al periodo di indennizzabilità, spiega infine l’Inps, è che la copertura contributiva figurativa è estesa fino al dodicesimo anno di età (o di ingresso) del bambino, ferma restando l’applicazione delle specifiche regole di valorizzazione di cui al comma 2 dell’articolo 35 del testo unico, per i congedi fruiti dal 7° anno di vita
(articolo Il Sole 24 Ore del 23.07.2015).

EDILIZIA PRIVATAAntincendio negli hotel con regola.
In arrivo la regola tecnica per l'adeguamento antincendio degli hotel. Le nuove disposizioni si applicano alle attività ricettive turistico-alberghiere tra 26 e 50 posti letto. I materiali devono avere adeguate caratteristiche di reazione al fuoco e rispondere alle caratteristiche del luogo di installazione. L'intera struttura ricettiva, ad eccezione delle aree a rischio, può costituire un unico compartimento. Le porte in tutti i locali in diretta comunicazione con le vie di esodo o con spazi adiacenti e non separati dalle vie di esodo, devono essere dotate di dispositivo di auto chiusura.

È con il decreto del ministero dell'interno «disposizioni di prevenzione incendi per le attività ricettive turistico-alberghiere con numero di posti letto superiore a 25 e fino a 50», che vengono stabilite le regole per l'adeguamento antincendio delle strutture alberghiere sarà presto pubblicato in gazzetta ufficiale.
La larghezza utile delle vie d'uscita deve essere misurata deducendo l'ingombro di eventuali elementi sporgenti, con esclusione dei medaglioni antipanico.
Nel sistema di vie d'uscita è vietato collocare specchi che possano tranne in inganno sulla direzione da seguire nell'esodo (articolo ItaliaOggi del 23.07.2015).

EDILIZIA PRIVATADetrazioni edilizie legate al permesso del Comune. Agevolazioni. La disciplina per gli interventi iniziati prima del 21.08.2013.
Nel caso di un intervento edilizio iniziato prima del 21.08.2013 e terminato successivamente, riguardante demolizione e ricostruzione di un edificio con modifica della sagoma, ma con identica volumetria, le detrazioni fiscali per il recupero edilizio e per il risparmio energetico sono applicabili solo sulle spese sostenute dopo l’eventuale modifica del titolo abilitativo ottenuta dal Comune.

Con questa risposta a un interpello del giugno scorso (protocollo 909-195/2015), la Dre Emilia-Romagna prende posizione su una questione spinosa e che può incidere notevolmente sulla dichiarazione che alcuni contribuenti presenteranno entro il prossimo 30 settembre (nonché sui relativi versamenti d’imposta già effettuati o in corso).
Il problema riguarda gli effetti fiscali della modifica apportata all’articolo 3, comma 1, lettera d), del Dpr 380/2001 dall’articolo 30, comma 1, del Dl 69/2013, in vigore dal 21.08.2013. Per effetto della modifica, la definizione di “ristrutturazione edilizia” in caso di demolizione e ricostruzione dell’edificio non si ha più a condizione che l’intervento avvenga «con la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica», ma eliminando da tale locuzione le parole «e sagoma». Un intervento di demolizione e ricostruzione con stessa volumetria e diversa sagoma, quindi, è una “ristrutturazione”, mentre se si varia anche la volumetria è una “nuova costruzione”.
Quando mutano le definizioni in edilizia si ha inevitabilmente un “effetto domino” su quelle fiscali, che alle prime si ricollegano. Infatti, l’articolo 16-bis, comma 1, lettera a), del Tuir (che disciplina la detrazione per il recupero edilizio, attualmente pari al 50%) rinvia al Dpr 380/2001, come pure, indirettamente, la tabella A, parte II e III, del Dpr 633/1972 in tema di aliquote Iva applicabili alle prestazioni di servizio dipendenti dai contratti di appalto per l’esecuzione dei relativi lavori.
La stessa detrazione sul risparmio energetico (attualmente fissata al 65%) non spetta in caso di nuova costruzione ma solo di “ristrutturazione” (Risoluzione 4/E/2011, circolare 36/E/2007 e Faq Enea del 26.06.2014 n. 41). Si ricorda altresì che il bonus fiscale del 36-50% spetta anche se l’edificio demolito aveva una destinazione diversa da quella residenziale, a patto che l’uso residenziale sia rispettato dal nuovo edificio ricostruito (risoluzione 14/E/2005).
Nell’ipotesi oggetto di interpello, l’autorizzazione era stata rilasciata a dicembre 2012 e quindi prima della modifica normativa, per cui essa si riferiva a un intervento di “demolizione e ricostruzione” all’epoca non assimilabile a una ristrutturazione. L’istante, tuttavia, facendo presente che l’intervento realizzato mantiene la stessa volumetria dell’edificio precedente e che, quindi in base alla legge 98/2013 è da qualificarsi tecnicamente come “ristrutturazione”, riteneva di poter detrarre al 50% ai fini Irpef le spese sostenute successivamente al 21.08.2013 (criterio di cassa), mentre ai fini Iva l’aliquota del 4% applicata sulle fatture emesse sino a quella data (tabella A, parte II, n. 39, Dpr 633/1972) avrebbe dovuto lasciare il posto a quella del 10% (tabella A, parte III, n. 127-quaterdecies).
La Dre Emilia-Romagna, invece, ha sposato una tesi più conservativa, trincerandosi dietro al fatto che la corretta qualificazione di un intervento edilizio non è riscontrabile in un interpello né «in sede di correzione delle dichiarazioni dei redditi» se non basandosi sui documenti in possesso del contribuente. Senza prendere esplicitamente posizione sulle aliquote Iva, l’Agenzia nega al caso specifico le detrazioni per la ristrutturazione edilizia almeno sino a quando non «sia possibile ottenere dal Comune una modifica del titolo abilitativo», peraltro «solo sulle spese sostenute dopo l’eventuale modifica».
In proposito, al di là del fatto che l’esatta qualificazione dei lavori può essere asseverata anche da un tecnico, si osserva che potrebbe non essere necessario nella fattispecie considerata richiedere una «modifica del titolo abilitativo». Ove il Comune, infatti, certificasse che l’intervento oggetto del primo permesso sia da qualificarsi, in base alle prescrizioni in vigore dal 21.08.2013, come «ristrutturazione edilizia», potrebbe presumibilmente essere possibile considerare agevolabili le spese sostenute (“per cassa”) almeno a decorrere da quella data, non essendo mutato l’intervento, ma solo la sua definizione urbanistica (e fiscale).
Anche ai fini Iva non sembra soluzione immune da critiche far dipendere la corretta aliquota applicabile non dall’esatta natura dell’intervento, ma dal fatto che il contribuente si attivi o meno per farne modificare la dizione sul titolo abilitativo
(articolo Il Sole 24 Ore del 22.07.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA - CONDOMINIODoppia tutela contro il rumore. Si va dal risarcimento dei danni in sede civile fino alla denuncia penale.
Le regole sulle immissioni. Con caldo e finestre aperte si fanno più intensi i fastidi provenienti dal vicinato.

Nel caseggiato, soprattutto nel periodo estivo, aumentano in modo esponenziale le liti dovute al comportamento di quei condòmini che innaffiano abbondantemente le piante sul balcone senza alcuna precauzione o accendono i condizionatori senza preoccuparsi dell’acqua di condensa che inevitabilmente cade nella proprietà sottostante. Del resto, con le finestre aperte, è inevitabile che si avvertano con maggiore facilità anche gli odori prodotti dal vicinato o le emissioni di vapori provenienti da locali commerciali nel caseggiato.
In questi casi, qualora sia superata la normale tollerabilità delle immissioni, il condòmino danneggiato può tutelarsi in sede civile o in sede penale, se è stato commesso il reato di getto pericoloso di cose.
La «normale tollerabilità»
Secondo l’articolo 844 del Codice civile, il proprietario non può impedire le immissioni di fumo o di calore, le esalazioni, i rumori, gli scuotimenti e simili propagazioni derivanti dal vicino, se non superano la normale tollerabilità, avendo anche riguardo alla condizione dei luoghi. Tale disposizione si basa sul criterio della “normale tollerabilità” che è un criterio relativo, poiché esso non trova il suo punto di riferimento in dati aritmetici fissati dal legislatore. L’indagine del magistrato, diretta a stabilire se le immissioni restino comprese o meno nei limiti della norma, deve essere quindi riferita, da un lato, alla sensibilità dell’uomo medio e, dall’altro, alla situazione locale.
Al giudice è così affidato un ruolo di moderatore da esercitarsi di volta in volta con riguardo, oltre alle condizioni di tempo e di luogo nelle quali si verificano le immissioni, anche alla loro intensità e idoneità a ripercuotersi sfavorevolmente nei confronti dei condòmini che le ricevono.
Lo stillicidio
È certamente vietata la collocazione di vasi di piante su parapetti, ove gli stessi non siano fissati e creino problemi di stillicidio. Molto spesso questo divieto è contenuto in una norma del regolamento di condominio. In tal caso l’unica soluzione è quella di utilizzare sottovasi e fioriere interne, saldamente ancorate alla ringhiera dei balconi, con conseguente rispetto della disposizione di cui all’articolo 844 del Codice civile della la norma regolamentare che vieta la collocazione di vasi di piante su parapetti.
Commette addirittura il reato di getto pericolo di cose il condòmino che, senza precauzioni, innaffia i fiori del proprio appartamento, facendo cadere al piano di sotto acqua e terriccio e imbrattando il davanzale, i vetri e altre suppellettili.
Precauzioni sono necessarie pure per l’acqua condensata dall’unità esterna di un impianto di condizionamento singolo, che deve essere convogliata in contenitori periodicamente svuotati, onde evitare lo stillicidio verso altre unità immobiliari.
Non è possibile, invece, innestare il tubo di scarico della condensa del condizionatore nel pluviale condominiale, comportando tale attività un’alterazione della cosa comune perché il pluviale ha la finalità di scaricare solamente acque meteoriche.
Odori molesti
L’articolo 844 del Codice civile non detta un criterio univoco e prestabilito per determinare fino a quando si debba tollerare le immissioni odorose del condomino vicino: il giudizio del giudice potrebbe variare e la stessa fonte di disturbo potrebbe essere valutata in modo differente.
In ogni caso il condòmino (o un suo inquilino) che, nell’esercizio di un’attività commerciale, determini l’emissione nell’atmosfera di fumi e vapori nauseabondi, al punto da determinare disagio in tutti i condomini dello stabile, che sono costretti a tenere le finestre chiuse, può arrivare a commettere il reato di getto pericoloso di cose (
Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 01.07.2015 n. 27562), soprattutto se i vapori illeciti provengono da una canna fumaria che è in aperto contrasto con le leggi sanitarie vigenti.
La tutela civile e penale
Il condòmino danneggiato dalle immissioni intollerabili è legittimato a chiedere al giudice civile di proibire al vicino la prosecuzione della sua attività e di ordinare a suo carico il risarcimento dei danni, anche non patrimoniali (danno biologico, morale eccetera).
Prima o contemporaneamente all’azione ordinaria innanzi al giudice si può anche chiedere un provvedimento d’urgenza per far cessare immediatamente le molestie. In ogni caso il tema delle immissioni, oltre ai risvolti civilistici, può rilevare anche in ambito penale come conseguenze del comportamento del singolo condòmino che commette il reato di getto pericoloso di cose, punito con l’arresto fino a un mese o con l’ammenda fino a duecentosei euro
(articolo Il Sole 24 Ore del 21.07.2015).

PUBBLICO IMPIEGOCongedi retribuiti fino a 8 anni. Per i periodi successivi spettano solo i contributi figurativi. Una circolare dell'Inps riepiloga tutte le novità introdotte dal dlgs 139/2015 (Jobs act).
Benefici a metà dall'estensione del periodo di fruizione del congedo parentale a dodici anni. È sempre garantita, infatti, la contribuzione figurativa, ma non l'indennità economica; la quale, in particolare, non spetta mai per le giornate fruite dopo gli otto anni del figlio (fino a dodici).

Lo precisa l'Inps nella circolare 17.07.2015 n. 139, illustrando le novità sul congedo parentale introdotte dal dlgs n. 80/2015 attuativo del Jobs Act.
Dal 25 giugno. Le novità, spiega l'Inps, si applicano in via sperimentale per il solo anno 2015 e soltanto per le giornate di astensione riconosciute nello stesso anno 2015. Quindi, tenuto conto che sono in vigore dal 25.06.2015, trovano applicazione per le giornate di astensione fruite dal 25 giugno al 31.12.2015. Per gli anni successivi il riconoscimento degli stessi benefici potrà avvenire solo previa adozione di appositi decreti che individuino adeguata copertura finanziaria.
Da 8 a 12 anni. È l'estensione del periodo di fruizione, la novità fondamentale in tema di congedo parentale: il limite è passato da otto a dodici anni del figlio per il quale si richiede il congedo.
La riforma, invece, ha lasciato invariato la durata dei congedi nel doppio limite massimo: a) individuale (del singolo lavoratore dipendente, papà o mamma) pari a sei mesi, elevabile a sette nel caso in cui il padre ne fruisca di almeno tre mesi; b) complessivo, tra i genitori, pari a dieci mesi, elevabili a undici nel caso in cui il padre fruisca di un periodo non inferiore a tre mesi; ovvero limite massimo di dieci mesi in caso di genitore solo.
L'elevazione del limite comporta che, dal 25 giugno al prossimo 31 dicembre, ciascun genitore può fruire degli eventuali periodi residui di congedo parentale fino ai dodici anni di vita del figlio. La novità si applica anche per i casi di adozione, nazionale e internazionale, e di affidamento.
Pertanto, sempre per l'anno 2015, il congedo parentale può essere fruito dai genitori adottivi e affidatari, qualunque sia l'età del minore, entro dodici anni (e non più otto) dall'ingresso del minore in famiglia, fermo restando che il congedo non può essere fruito oltre la maggiore età del figlio.
Da 3 a 6 anni. La riforma, inoltre, ha elevato da tre a sei anni di vita del figlio il periodo entro cui, nel limite massimo di sei mesi, il genitore che fruisce del congedo parentale ha diritto all'indennità pari al 30% della retribuzione media giornaliera. Lo stesso vale nei casi di adozione o affidamento (entro i sei anni, e non più i tre anni dall'ingresso in famiglia del minore). Anche questa novità, ovviamente, trova applicazione limitatamente ai periodi di congedo parentale fruiti dal 25 giugno al 31.12.2015.
Alla luce della riforma, pertanto, si distinguono tre ipotesi (si veda tabella) in presenza delle quali il congedo parentale:
a) è indennizzato a prescindere dalle condizioni di reddito del genitore richiedente;
b) è indennizzato subordinatamente alle condizioni di reddito del genitore richiedente;
c) non è indennizzato.
La contribuzione figurativa. L'Inps precisa, infine, che la fruizione del congedo parentale tra il 25 giugno e il 31.12.2015 è sempre coperta da contribuzione figurativa fino al dodicesimo anno di vita del bambino (ovvero di ingresso del minore in caso di adozione o affidamento) (articolo ItaliaOggi del 21.07.2015).

EDILIZIA PRIVATALibretto unico ma non per tutti. Seguono le regole nazionali 15 Regioni, nelle altre può servire un modello per ogni apparecchio.
Impianti termici. Ricade su proprietario, inquilino o amministratore condominiale la responsabilità di errori nella compilazione.

Lo Stato ha semplificato. E ha varato un modello unico che permette -a chi in casa ha più impianti per il riscaldamento e/o per il raffrescamento- di compilare un solo documento per tutti, completo di diverse schede. Alcune Regioni, però, hanno introdotto regole locali: con il risultato che, a un anno e mezzo dalla norma statale (Dm 10.02.2014 in applicazione del Dpr 74/2013), c’è chi ha una modulistica diversa da quella nazionale e chi di libretti continua a chiederne uno per ogni apparato presente nel fabbricato.
Da un lato ci sono 15 tra Regioni e province autonome che hanno deciso di attenersi alla normativa nazionale sul libretto unico. Dall’altro, ci sono le eccezioni che vanno dall’Emilia Romagna al Piemonte, dal Veneto alla Lombardia. Fino all’estremo della Provincia di Bolzano che, nei mesi scorsi, ha fatto circolare un documento d’intenti dove viene messa in discussione l’esistenza stessa del libretto, considerato “inutile”, perché in Alto Adige esiste una disciplina locale sulla sicurezza degli impianti (Lp 18/1992).
In questo caso, la complessità delle discipline locali ricade direttamente anche sull’utente finale, e non solo su tecnici e installatori. Perché –stando al Dpr 74/2013– l’obbligo di predisporre il libretto d’impianto, compilandolo secondo i nuovi modelli, spetta al proprietario di un alloggio o all’inquilino (anche quando ha ereditato la gestione di un impianto esistente) o all’amministratore per una caldaia centralizzata condominiale.
Per questo, tocca al cittadino sapere che in Emilia Romagna occorre compilare un libretto per ogni impianto presente in casa (ma con una serie di distinguo sulle potenze, che costringono anche chi non è esperto a confrontarsi con una norma davvero complessa). E ancora, tenere conto, come spiega Giovanni Maj della società di formazione e-training «che nel libretto emiliano bisogna indicare obbligatoriamente anche il numero dell’attestato di prestazione energetica e i codici Pdr (o punto di riconsegna) e Pod (o point of delivery). Sono codici, rinvenibili in bolletta, che vengono assegnati a ciascuna utenza rispettivamente dai distributori di gas in rete e dalla aziende di fornitura di energia elettrica».
Stessa situazione in Veneto (dove non è richiesto però il Pod) e in Lombardia: qui per gli impianti sotto i 5 kW si segue la regola nazionale (nessun libretto) e così anche per i condizionatori sotto i 12 kW (al contrario di ciò che accade nel resto d’Italia). E dove, anziché indicare Pdr e Pod, bisogna invece ricopiare il codice di targatura rilasciato dall’installatore o dal manutentore al momento del controllo dell’apparato (nel caso non sia ancora assegnato, viene apposto dopo la prima verifica dei fumi). Al contrario, in Piemonte, oltre ad Ape, Pod e Pdr, è richiesta anche la misurazione dei valori di emissione degli ossidi di azoto, i cosiddetti NOx. «Una prassi –prosegue Maj– non prevista dalla norma in materia, peraltro recentemente aggiornata con le Uni 10389-1 del 2009 e che comporta l’utilizzo di strumenti più sofisticati da parte dei tecnici manutentori. Con l’aggravante che, laddove si trovino valori di NOx superiori ai limiti imposti nella sola regione Piemonte, non resta che sostituire l’apparecchio visto che non è possibile intervenire sul generatore di calore per ricondurre gli inquinanti sotto le soglie stabilite».
Tutto, infine, si riflette nella pratica. Poniamo il caso di una casa con un impianto composto da caldaia a gas con produzione di acqua calda sanitaria (sotto i 35 kW); sistema di condizionamento domestico (dual) split da 2 kW; caldaia a pellet da 16 kW. Secondo la norma nazionale, il libretto è unico, con una scheda per ciascuno dei tre sistemi. Ma in Lombardia, dovranno essere predisposti due libretti (perché per i condizionatori sotto una certa potenza non è richiesto il libretto) mentre in Emilia Romagna e Veneto i libretti dovranno essere tre
(articolo Il Sole 24 Ore del 20.07.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Mobilità. Personale in «eccesso», tempi e criteri di destinazione.
Entro il mese di novembre, se il decreto della Funzione Pubblica sulla mobilità del personale in sovrannumero sarà pubblicato in Gazzetta ufficiale nel mese di luglio (cioè entro i 120 giorni successivi), i dipendenti intressati degli enti di area vasta e della Croce Rossa, compresi i vigili (con l’unica esclusione dei “provinciali” impegnati nelle attività connesse al mercato dei lavoro), prenderanno servizio nelle Pa di destinazione.
Nelle assegnazioni le amministrazioni riceventi non hanno alcuno spazio di apprezzamento o valutazione: i criteri dettati fanno riferimento esclusivamente a fattori che hanno natura oggettiva, quali la residenza, l’età, la presenza di condizioni di handicap, anche di familiari, le tipologie di attività svolte. Questo potrà alimentare le perplessità, per non dire ostilità, di molti Comuni. Le amministrazioni riceventi si dovranno fare carico, attingendo dai fondi per le assunzioni a tempo indeterminato, non solo del trattamento economico fondamentale, ma anche di quello accessorio in godimento per le voci che hanno natura fissa e continuativa.
Nelle regioni che non daranno attuazione al riordino delle funzioni delle Province si applica, comunque, il collocamento in sovrannumero del personale degli enti di area vasta e, se a statuto speciale, dovranno provvedere all’assunzione diretta. Il personale degli enti di area vasta, in caso di ritardi o inadempimenti, può direttamente iscriversi negli elenchi di mobilità.

Sono queste le principali indicazioni dettate dalla proposta di decreto della Funzione Pubblica.
Le finalità sono quelle di mettere finalmente in moto il concreto passaggio dei dipendenti delle province e delle città metropolitane a Comuni, regioni, amministrazioni statali e, novità, enti del servizio sanitario nazionale e i pubblici non economici controllati da regioni e comuni. Nel contempo si vuole dare una garanzia sul trattamento economico accessorio del personale trasferito.
In assenza di una specifica previsione di legge e di risorse disponibili da parte degli enti di area vasta, non si prevede che i singoli dipendenti si portino dietro tutto il trattamento in godimento, ma solo le voci fisse e continuative, e si dispone che tali oneri siano sostenuti dalle amministrazioni che li assumono con risorse proprie, che sono tratte da quelle per le assunzioni e che devono andare ad alimentare uno specifico fondo riservato. In modo ambiguo si dispone anche il divieto di incrementare i compensi di produttività, di risultato e le indennità accessorie, voci che rimangono confermati negli importi in godimento all’atto del trasferimento.
I tempi di attuazione sono rigidamente prefissati e decorrono dalla data di pubblicazione del provvedimento in Gazzetta ufficiale: entro 20 giorni province e città metropolitane pubblicano sul portale della mobilità della Funzione Pubblica l’elenco dei dipendenti in sovrannumero; entro 40 giorni le regioni pubblicano le informazioni sul personale degli enti di area vasta per i quali hanno proceduto alla ricollocazione diretta; sempre entro 40 giorni tutte le Pa rendono noto l’elenco dei posti disponibili, distinguendoli per categorie e per funzioni (operazione da ripetere per il 2016 entro il mese di gennaio); entro 60 giorni (ovvero entro febbraio per il 2016) la Funzione Pubblica indica i posti disponibili; entro 30 giorni da tale pubblicazione i dipendenti interessati presentano le domande ed entro i 30 giorni successivi sono assegnati alle singole Pa.
I criteri di assegnazione sono assai rigidi sia per l’individuazione delle amministrazioni (che preferibilmente sono della stessa provincia), sia del personale (assegnazione agli stessi compiti), per le precedenza (disabili, che assistono congiunti disabili, con figli di età inferiore a 3 anni), che per le preferenze (situazione di famiglia ed età)
(articolo Il Sole 24 Ore del 20.07.2015).

VARI: Il dossier sanitario è blindato. Costituzione con il consenso. Illeciti segnalati entro 48 h. I contenuti delle linee guide varate dal Garante. Interessate strutture pubbliche e private.
Stop al Far west dei dossier sanitari. Tanti e confusi, senza procedure standard a garanzia della correttezza delle informazioni, del loro aggiornamento e delle condizioni del loro utilizzo.

L'argine è stato alzato dal garante della privacy con apposite linee guida, approvate con la deliberazione 04.06.2015 n. 331 (pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 164 del 17/7), che richiede consenso informato, diritto di oscuramento, accesso solo per il personale autorizzato, segnalazione delle violazioni.
Molto spesso nella prassi si riscontrano veri e propri illeciti: accessi abusivi; consultazione, estrazione, copia delle informazioni sanitarie da parte di personale amministrativo o personale medico che non era stato mai coinvolto nel processo di cura del paziente e che per motivi di interesse personale aveva acceduto allo stesso per poi divulgare le informazioni così acquisite a terzi all'insaputa dell'interessato.
Questo anche con riferimento a informazioni relative a prestazioni sanitarie particolarmente delicate (affezioni da Hiv, interruzione volontaria della gravidanza, parto in anonimato).
La gestione del dossier sanitario deve, invece, essere ispirata a criteri di correttezza e legittimità.
Ecco in sintesi i contenuti del provvedimento, che riguarda le strutture sanitarie sia pubbliche sia private.
Che cos'è il dossier sanitario. Il dossier elettronico va tenuto distinto dalla cartella clinica e dal Fascicolo sanitario elettronico (Fse). Il dossier sanitario elettronico è lo strumento costituito presso un'unica struttura sanitaria (un ospedale, un'azienda sanitaria, una casa di cura), che raccoglie informazioni sulla salute di un paziente al fine di documentarne la storia clinica presso quella singola struttura.
Si differenzia dal fascicolo sanitario elettronico in cui invece confluisce l'intera storia clinica di una persona generata da più strutture sanitarie. Il dossier è diverso anche dalla cartella clinica, che è finalizzata a rilevare tutte le informazioni su un paziente e a un singolo episodio di ricovero.
Solo con il consenso. La prima prescrizione concerne il consenso del paziente: all'interessato è consentito di scegliere se far costituire o meno il dossier sanitario. Il consenso al dossier, anche se manifestato unitamente a quello previsto per il trattamento dei dati a fini di cura, deve essere autonomo e specifico. In caso di incapacità di agire dell'interessato deve essere acquisito il consenso di chi esercita la potestà legale su di esso. In caso di minori, raggiunta la maggiore età, deve essere acquisito, al primo contatto utile, nuovamente il consenso informato dell'interessato divenuto maggiorenne.
Una volta prestato il consenso, il dossier sanitario sarà a disposizione da parte di tutti gli operatori sanitari che, nel corso del tempo, lo prenderanno in cura, senza che l'interessato debba manifestare tale volontà ogni volta che accede per vari motivi alla struttura sanitaria. Questo vale anche nel caso del paziente che giunga al pronto soccorso in gravi condizioni e non sia in grado di esprimere alcuna specifica volontà. Inoltre una volta che l'interessato abbia acconsentito al trattamento, il dossier sanitario potrà essere consultato, se indispensabile per la salvaguardia della salute di un terzo o della collettività, per esempio, nei casi di rischio di insorgenza di patologie su soggetti terzi a causa della condivisione di ambienti con l'interessato
Se il paziente non acconsente ad aprire il dossier sanitario, il professionista che lo prende in cura avrà a disposizione solo le informazioni rese in quel momento dallo stesso interessato (in sostanza anamnesi e documentazione diagnostica consegnata) e quelle relative alle precedenti prestazioni erogate dallo stesso professionista. Anche il personale sanitario di reparto/ambulatorio, in mancanza di dossier, avrà accesso solo alle informazioni relative all'episodio per il quale l'interessato si è rivolto presso quella struttura e alle altre informazioni relative alle eventuali prestazioni sanitarie erogate in passato da quel reparto/ambulatorio.
Il consenso è necessario anche per l'inserimento delle informazioni relative a eventi sanitari pregressi e il paziente può anche scegliere che le informazioni sanitarie pregresse non siano trattate mediante il dossier. La mancanza del consenso non deve, però, incidere minimamente sulla possibilità di accedere alle cure richieste.
Per poter inserire nel dossier informazioni particolarmente delicate sarà necessario un consenso specifico: si tratta, in particolare, dei dati ad atti di violenza sessuale o di pedofilia, alle infezioni da Hiv o all'uso di sostanze stupefacenti, di sostanze psicotrope e di alcool, interventi di interruzione volontaria della gravidanza o parti in anonimato e i servizi offerti dai consultori familiari. In tali casi, l'interessato può richiedere che tali informazioni siano consultabili solo da parte di alcuni soggetti dallo stesso individuati (per esempio, solo dallo specialista presso cui è in cura), fermo restando la possibilità che agli stessi possano sempre accedere i professionisti che li hanno elaborati.
Data breach. Eventuali violazioni di dati o incidenti informatici relativi ai dossier sanitari dovranno essere comunicati al garante, entro quarantotto ore dalla conoscenza del fatto, attraverso un modulo reperibile all'indirizzo databreach.dossier@pec.gpdp.it.
La mancata comunicazione al Garante delle suddette violazioni o dei predetti incidenti informatici configura un illecito amministrativo. Inoltre si prescrive che la struttura individui una procedura per comunicare senza ritardo al paziente le operazioni di trattamento illecito effettuate dagli incaricati o da chiunque sui dati personali trattati mediante il relativo dossier. Tale tempestiva informazione, infatti, in termini generali, può consentire all'interessato di minimizzare i rischi connessi alla violazione subita.
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Possibile oscurare alcuni dati.
La struttura sanitaria deve garantire al paziente l'esercizio dei diritti riconosciuti dal Codice privacy (accesso ai dati, integrazione, rettifica e la conoscenza del reparto, della data e dell'orario in cui è avvenuta la consultazione del suo dossier).
Al paziente dovrà essere garantita anche la possibilità di oscurare alcuni dati o documenti sanitari che non intende far confluire nel dossier.
D'altra parte è quello che accade nel rapporto paziente-medico curante, nel quale il primo può addivenire a una determinazione consapevole di non informare il secondo di alcuni eventi sanitari che lo riguardano. Ciò, anche nel rispetto della legittima volontà dell'interessato di richiedere il parere di un altro specialista senza che quest'ultimo possa essere influenzato da quanto già espresso da un collega.
Si consideri, poi, che di per sé il dossier sanitario costituisce uno strumento informativo incompleto. Indipendentemente dalle ipotesi di oscuramento, infatti, il dossier include solo le informazioni cliniche derivanti dagli accessi del paziente nella struttura sanitaria che utilizza il dossier e non anche quelle relative agli accessi effettuati presso altre strutture pubbliche e private.
Per tutto questo la struttura sanitaria deve avvisare che i dati potrebbero non essere completi, in quanto l'interessato potrebbe aver esercitato il diritto di oscuramento.
Il garante evidenzia che i dossier sanitari non certificano lo stato di salute dei pazienti, in quanto consistono in strumenti che possono aiutare il clinico a inquadrare meglio e più rapidamente lo stato di salute di questi, ma è diritto/dovere del medico effettuare gli accertamenti che riterrà più opportuni.
L'oscuramento dell'evento clinico (revocabile nel tempo) deve avvenire con modalità tali da garantire che i soggetti abilitati all'accesso non possano venire automaticamente a conoscenza del fatto che l'interessato ha effettuato tale scelta (oscuramento dell'oscuramento).
I dati oscurati restano comunque disponibili al professionista sanitario o alla struttura interna al titolare che li ha raccolti o elaborati (per esempio, referto accessibile tramite dossier da parte del professionista, che lo ha redatto, cartella clinica accessibile da parte del reparto di ricovero).
Le strutture sanitarie confidano, in ogni caso, che ci siano pochi oscuramenti: secondo quanto riportato dagli operatori di settore, laddove agli interessati sia stato ben illustrato sia l'esercizio di tale diritto che le implicazioni mediche di tale scelta la percentuale di oscuramento, come quella di negazione del consenso al dossier, è risultata essere minore dell'1%.
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Accesso limitato al personale coinvolto.
L'accesso al dossier sarà consentito solo al personale sanitario coinvolto nella cura. Ogni accesso e ogni operazione effettuata, anche la semplice consultazione, saranno tracciati e registrati automaticamente in appositi file di log che la struttura dovrà conservare per almeno 24 mesi. In tale quadro, le strutture sanitarie dovranno fornire all'interessato un riscontro alla richiesta di conoscere gli accessi eseguiti sul proprio dossier con l'indicazione della struttura/reparto che ha effettuato l'accesso, e anche della data e dell'ora dello stesso. Il titolare del trattamento o un suo delegato deve fornire riscontro alla richiesta di accesso dell'interessato entro 15 giorni dal suo ricevimento.
Se le operazioni necessarie per un integrale riscontro alla richiesta sono di particolare complessità, oppure ricorre altro giustificato motivo, il titolare o un suo delegato ne danno comunicazione all'interessato e in tal caso, il termine per l'integrale riscontro è di trenta giorni dal ricevimento della richiesta. Sono esclusi dall'accesso alle informazioni contenute del dossier periti, compagnie di assicurazione, datori di lavoro, associazioni o organizzazioni scientifiche, organismi amministrativi anche operanti in ambito sanitario, e anche il personale medico nell'esercizio di attività medico-legale (per esempio visite per l'accertamento dell'idoneità lavorativa o per il rilascio di certificazioni necessarie al conferimento di permessi o abilitazioni).
L'insieme delle informazioni sanitarie trattate mediante il dossier sanitario costituisce una banca dati di significativo rilievo non solo clinico ma anche economico. Al fine di scongiurare il rischio di un accesso da parte di soggetti non autorizzati o di comunicazione a terzi da parte di soggetti a ciò abilitati, è necessario, pertanto, che la struttura sanitaria ponga attenzione nell'individuazione dei profili di autorizzazione e nella formazione dei soggetti abilitati (articolo ItaliaOggi Sette del 20.07.2015).

GIURISPRUDENZA

PATRIMONIOIncidenti. Velocità. Il limite basso non scagiona il gestore della strada.
La III Sez. civile della Corte di Cassazione “demolisce” una certezza dei gestori di strade e della giurisprudenza: il fatto che su un tratto poco sicuro basti fissare un limite di velocità bassissimo per scaricarsi da ogni responsabilità in caso d’incidente.
La sentenza 28.07.2015 n. 15859, depositata ieri a chiusura di un giudizio iniziato nel 1992, ha ritenuto legittima l’interpretazione della Corte di appello di Catanzaro, che aveva affermato la responsabilità dell’Anas per la caduta di un’auto lungo una scarpata, nonostante il conducente avesse superato il limite di 30 km/h.
In sostanza, la Cassazione non ha riscontrato alcun vizio di motivazione nella sentenza di appello, che aveva considerato sia la velocità sia il limite, ma aveva ritenuto che la responsabilità del sinistro fosse interamente del gestore. Un convincimento dettato dalla presenza sull’asfalto di acqua e fango in gran quantità (dovuta a una fontana evidentemente fuori controllo) e dall’assenza sia di un segnale di pericolo sia di un guard-rail.
A protezione del bordo della carreggiata verso la scarpata c’era solo un terrapieno, che secondo i giudici avrebbe ceduto anche solo con l’impatto a velocità moderata da parte di un veicolo leggero come un’auto
(articolo Il Sole 24 Ore del 29.07.2015).

ATTI AMMINISTRATIVIIn presenza di atto plurimotivato anche la legittimità di una delle motivazioni è da sola idonea a sorreggerlo, con la conseguenza che alcun rilievo avrebbero le ulteriori censure volte a contestare gli ulteriori profili motivazionali (è stato affermato: - “Per un atto c.d. "plurimotivato", anche l'eventuale fondatezza di una delle argomentazioni addotte non potrebbe in ogni caso condurre all'annullamento dell'impugnato provvedimento sindacale, che rimarrebbe sorretto dal primo versante motivazionale risultato immune ai vizi lamentati"; - “Nel caso di provvedimento di esclusione da una gara d'appalto "plurimotivato", la riconosciuta legittimità di una delle ragioni dell'atto è sufficiente a reggere il provvedimento di estromissione”; - “Nel caso in cui il provvedimento impugnato sia fondato su di una pluralità di autonomi motivi (c.d. provvedimento plurimotivato), il rigetto della doglianza volta a contestare una delle sue ragioni giustificatrici comporta la carenza di interesse della parte ricorrente all'esame delle ulteriori doglianze volte a contestare le altre ragioni giustificatrici atteso che, seppure tali ulteriori censure si rivelassero fondate, il loro accoglimento non sarebbe comunque idoneo a soddisfare l'interesse del ricorrente ad ottenere l'annullamento del provvedimento impugnato, che resterebbe supportato dall'autonomo motivo riconosciuto sussistente”).
11.1 Ciò posto va prioritariamente chiarito che nell’ipotesi di specie si è in presenza di un atto plurimotivato, essendo il provvedimento di diniego, da intendersi altresì motivato per relationem con rinvio alla richiamata nota di comunicazione di avvio del procedimento e di comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza, motivato sotto il duplice rilievo dell’insanabilità delle opere sub condono ex lege 326/2003, da qualificarsi quale opere di nuova costruzione, in quanto contrarie alla normativa urbanistico edilizia e realizzate in zona sottoposta a vincolo paesaggistico ai sensi dell’art. 32, commi 26 e 27, l. 326/2003, nonché per carenza documentale.
11.1.1. Pertanto alcun interesse allo scrutinio del primo motivo di ricorso –relativo alla parte motivazionale relativa alla carenza documentale– può vantare parte ricorrente, essendo il provvedimento adeguatamente motivato, alla stregua di quanto di seguito precisato, anche in relazione al solo profilo della non condonabilità delle opere in quanto ricadenti in zona sottoposta a vincolo paesaggistico e contrarie alla normativa urbanistica edilizia alla luce delle previsioni ostative di cui ai commi 26 e 27 della l. 326/2003.
11.1.2 Infatti alla luce del costante orientamento giurisprudenziale, condiviso della Sezione, in presenza di atto plurimotivato anche la legittimità di una delle motivazioni è da sola idonea a sorreggerlo, con la conseguenza che alcun rilievo avrebbero le ulteriori censure volte a contestare gli ulteriori profili motivazionali (giurisprudenza costante, cfr. TAR Campania Salerno, sez. II, 17.01.2011, n. 63 secondo cui “Per un atto c.d. "plurimotivato", anche l'eventuale fondatezza di una delle argomentazioni addotte non potrebbe in ogni caso condurre all'annullamento dell'impugnato provvedimento sindacale, che rimarrebbe sorretto dal primo versante motivazionale risultato immune ai vizi lamentati"; TAR Campania Napoli, sez. VIII, 14.01.2011, n. 139 secondo cui “Nel caso di provvedimento di esclusione da una gara d'appalto "plurimotivato", la riconosciuta legittimità di una delle ragioni dell'atto è sufficiente a reggere il provvedimento di estromissione”; TAR Campania Napoli, sez. VII, 14.01.2011, n. 164 secondo cui “Nel caso in cui il provvedimento impugnato sia fondato su di una pluralità di autonomi motivi (c.d. provvedimento plurimotivato), il rigetto della doglianza volta a contestare una delle sue ragioni giustificatrici comporta la carenza di interesse della parte ricorrente all'esame delle ulteriori doglianze volte a contestare le altre ragioni giustificatrici atteso che, seppure tali ulteriori censure si rivelassero fondate, il loro accoglimento non sarebbe comunque idoneo a soddisfare l'interesse del ricorrente ad ottenere l'annullamento del provvedimento impugnato, che resterebbe supportato dall'autonomo motivo riconosciuto sussistente”).
12. Con riguardo al terzo motivo di ricorso vi è poi da evidenziare come la mancata indicazione, nella nota di comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza, della carenza documentale indicata invece nel provvedimento di diniego di condono, sia parimenti del tutto irrilevante, essendo, come detto, il provvedimento correttamente ed esaurientemente motivato in relazione all’ulteriore profilo motivazionale, idoneo da solo a sorreggerlo, ovvero la non condonabilità delle opere per contrarietà alla normativa urbanistica ed edilizia, profilo per contro evidenziato nella nota di comunicazione dei motivi ostativi, nella quale si faceva altresì presente che le opere sub condono erano da qualificarsi quale opere di nuova costruzione (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 28.07.2015 n. 3971 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: La dedotta censura di violazione del disposto dell’art. 10-bis l. 241/1990 non potrebbe in ogni caso condurre all’annullamento dell’atto, vertendosi in tema di attività vincolata per cui ben può farsi applicazione del disposto sanante di cui all’art. 21-octies, comma 2, prima parte l. 241/1990, secondo il quale “Non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.
Ed invero, come evincibile claris verbis dal disposto de quo, lo stesso è applicabile in relazione a tutti i vizi formali e procedimentali nell’ipotesi in cui si verta in tema di attività vincolata e sia palese che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato e pertanto anche al vizio di omessa comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza (giurisprudenza costante: - “Nell’ipotesi in cui l’impugnato provvedimento si manifesta a contenuto vincolato ne consegue automaticamente il superamento della dedotta omissione del preavviso di rigetto ex art. 10-bis della L. n. 241/1990, trovando applicazione l'art. 21-octies della medesima fonte normativa posto che, trattandosi di attività doverosa e vincolata, il contenuto dell'atto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto stabilito”; - “Nel procedimento di accertamento di conformità ex art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001 (in passato, art. 13, l. n. 47 del 1985), non è necessaria l'acquisizione del parere della Commissione edilizia, quando, come nella fattispecie, non si debba procedere a valutazioni tecniche, ma occorra l'effettuazione solo di valutazioni di natura giuridica, e altresì il vizio connesso alla mancata previa comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza di sanatoria (dovuta in applicazione dell'art. 10-bis, l. n. 241 del 1990) risulta superabile ai sensi dell'art. 21-octies, l. n. 241 del 1990, posto che, trattandosi di attività doverosa e vincolata, il contenuto dell'atto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto stabilito”).
Infatti è la seconda parte dell’indicato comma 2 dell’art. 21-octies l. 241/1990, secondo la quale “Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato” che ha un ambito di applicazione diverso, per un verso più ampio, in quanto riferito anche agli atti discrezionali, e per altro verso più ristretto in quanto riferito alla sola omissione della comunicazione di avvio del procedimento ed al ricorrere del presupposto che l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato (è stato affermato: “L'art. 21-octies, l. n. 141 del 07.08.1990 (in base al quale il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione di avvio del procedimento, qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato) non trova applicazione solo in caso di attività amministrativa di carattere vincolato, atteso che la sua formulazione risulta riferibile anche alle ipotesi di attività di tipo discrezionale”).

12. Con riguardo al terzo motivo di ricorso vi è poi da evidenziare come la mancata indicazione, nella nota di comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza, della carenza documentale indicata invece nel provvedimento di diniego di condono, sia parimenti del tutto irrilevante, essendo, come detto, il provvedimento correttamente ed esaurientemente motivato in relazione all’ulteriore profilo motivazionale, idoneo da solo a sorreggerlo, ovvero la non condonabilità delle opere per contrarietà alla normativa urbanistica ed edilizia, profilo per contro evidenziato nella nota di comunicazione dei motivi ostativi, nella quale si faceva altresì presente che le opere sub condono erano da qualificarsi quale opere di nuova costruzione.
12.1. Peraltro a prescindere da tali rilievi, vi è da evidenziare che la dedotta censura di violazione del disposto dell’art. 10-bis l. 241/1990 non potrebbe in ogni caso condurre all’annullamento dell’atto, vertendosi in tema di attività vincolata per cui ben può farsi applicazione del disposto sanante di cui all’art. 21-octies, comma 2, prima parte l. 241/1990, secondo il quale “Non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.
Ed invero, come evincibile claris verbis dal disposto de quo, lo stesso è applicabile in relazione a tutti i vizi formali e procedimentali nell’ipotesi in cui si verta in tema di attività vincolata e sia palese che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato e pertanto anche al vizio di omessa comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza (giurisprudenza costante: ex multis TAR Emilia Romagna-Parma sez. I, 16/04/2014, n. 97 secondo cui “Nell’ipotesi in cui l’impugnato provvedimento si manifesta a contenuto vincolato ne consegue automaticamente il superamento della dedotta omissione del preavviso di rigetto ex art. 10-bis della L. n. 241/1990, trovando applicazione l'art. 21-octies della medesima fonte normativa posto che, trattandosi di attività doverosa e vincolata, il contenuto dell'atto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto stabilito”; in senso analogo TAR Campania Napoli sez. VII, 06/09/2012 n. 3775 cit. secondo il cui “Nel procedimento di accertamento di conformità ex art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001 (in passato, art. 13, l. n. 47 del 1985), non è necessaria l'acquisizione del parere della Commissione edilizia, quando, come nella fattispecie, non si debba procedere a valutazioni tecniche, ma occorra l'effettuazione solo di valutazioni di natura giuridica, e altresì il vizio connesso alla mancata previa comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza di sanatoria (dovuta in applicazione dell'art. 10-bis, l. n. 241 del 1990) risulta superabile ai sensi dell'art. 21-octies, l. n. 241 del 1990, posto che, trattandosi di attività doverosa e vincolata, il contenuto dell'atto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto stabilito”).
Infatti è la seconda parte dell’indicato comma 2 dell’art. 21-octies l. 241/1990, secondo la quale “Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato” che ha un ambito di applicazione diverso, per un verso più ampio, in quanto riferito anche agli atti discrezionali, e per altro verso più ristretto in quanto riferito alla sola omissione della comunicazione di avvio del procedimento ed al ricorrere del presupposto che l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato (cfr. TAR Sardegna Cagliari sez. I, 27/11/2012 n. 1015 secondo cui “L'art. 21-octies, l. n. 141 del 07.08.1990 (in base al quale il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione di avvio del procedimento, qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato) non trova applicazione solo in caso di attività amministrativa di carattere vincolato, atteso che la sua formulazione risulta riferibile anche alle ipotesi di attività di tipo discrezionale”)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 28.07.2015 n. 3971 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Circa la fattispecie del lottizzante che si rifiuta di cedere al comune le opere di urbanizzazione realizzate e già collaudate.
La controversia rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. a), n. 2, e lett. f), cod. proc. amm. perché riguarda l'esecuzione di obbligazioni derivanti da una convenzione urbanistica che rientra tra gli accordi sostitutivi di provvedimenti amministrativi ai sensi dell’art. 11 della legge n. 07.08.1990, n. 241, in materia urbanistica.
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L’art. 2932 c.c., primo comma, prevede infatti che "se colui che è obbligato a concludere un contratto non adempie l'obbligazione, l'altra parte, qualora sia possibile e non sia escluso dal titolo, può ottenere una sentenza che produca gli effetti del contratto non concluso" e, al secondo comma, dispone che, se ove come nella specie il contratto abbia "per oggetto il trasferimento della proprietà di una cosa determinata", "la domanda non può essere accolta, se la parte che l'ha proposta non esegue la sua prestazione o non ne fa offerta nei modi di legge, a meno che la prestazione non sia ancora esigibile".
La convenuta non ha adempiuto all’obbligo di trasferimento delle aree previsto dalla convenzione e la giurisprudenza ha chiarito che “il rimedio previsto dall’art. 2932 c.c. al fine di ottenere l’esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto, deve ritenersi applicabile non solo nelle ipotesi di contratto preliminare non seguito da quello definitivo, ma anche in qualsiasi altra ipotesi dalla quale sorga l’obbligazione di prestare il consenso per il trasferimento o la costituzione di un diritto, sia in relazione ad un negozio unilaterale, sia in relazione ad un atto o ad un fatto dai quali detto obbligo possa sorgere ex lege”.

...per l’accertamento dell’inadempimento agli obblighi previsti dalla convenzione urbanistica intercorsa tra il Comune di Castelgomberto e la ditta Grandangolo Immobiliare S.r.l. relativa al piano di lottizzazione Tezzon nel Comune di Castelgomberto e la condanna all’esecuzione in forma specifica della predetta convenzione mediante il trasferimento dei mappali nn. 563, 564, 565, 566, 568, 569, 571, 573, 585, 587, 658, 668, 671, 679, 681, 684, 715, 716, 717, 718, 719, 720, 721, 723, 724, 725, 726, 728, 729, 730, 731, 732, 733, 734, 735, 738.
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Con il ricorso in epigrafe il Comune di Castelgomberto ha convenuto avanti questo Tribunale la Società Grandangolo Immobiliare.
Il Comune espone di aver stipulato in data 28.07.2003, avanti il notaio dott. V.G., una convenzione urbanistica relativa al piano di lottizzazione “Tezzon”, il cui art. 5 prevede l’obbligo per la ditta lottizzante, i suoi successori ed aventi causa, di trasferire al Comune a propria cura e spese entro sei mesi dal collaudo finale, le aree relative a sedi stradali, marciapiedi, piazze, parcheggi pubblici, verde, ed altre eventuali aree destinate a standard.
Acquisiti i titoli edilizi e realizzate le opere di urbanizzazione, la convenuta in data 23.02.2006, ne ha chiesto il collaudo, accompagnando la richiesta, così come previsto dall’art. 7, punto 11, della convenzione, con una planimetria che evidenzia le aree da cedere, e con la Tavola n. 3, che reca l’elenco analitico dei relativi mappali.
Il collaudo è stato eseguito in data 14.06.2006, ma la Società convenuta non si è presentata avanti il notaio per la stipula del rogito né in data 17.07.2014, né in data 27.11.2014, e in entrambi i casi non ha proposto una data alternativa.
Ciò premesso, il Comune chiede l’accertamento dell’inadempimento e il trasferimento delle aree ai sensi dell’art. 2932 c.c..
La convenuta Grandangolo Immobiliare Srl non si è costituita in giudizio.
Alla pubblica udienza del 25.06.2015, la causa è stata trattenuta in decisione.
Il ricorso è fondato e deve essere accolto.
La controversia rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. a), n. 2, e lett. f), cod. proc. amm. perché riguarda l'esecuzione di obbligazioni derivanti da una convenzione urbanistica che rientra tra gli accordi sostitutivi di provvedimenti amministrativi ai sensi dell’art. 11 della legge n. 07.08.1990, n. 241, in materia urbanistica (ex pluribus cfr. Consiglio di Stato, Ad. Plen. 20.07.2012, n. 28; Tar Lombardia, Brescia, Sez. I, 26.03.2014, n. 298; Tar Marche, 24.05.2013, n. 388; Tar Veneto, Sez. II, 25.01.2012, n. 33; Tar Veneto, Sez. II, 13.07.2011, n. 1219).
Nel merito ricorrono i presupposti per l’accoglimento della domanda.
L’art. 2932 c.c., primo comma, prevede infatti che "se colui che è obbligato a concludere un contratto non adempie l'obbligazione, l'altra parte, qualora sia possibile e non sia escluso dal titolo, può ottenere una sentenza che produca gli effetti del contratto non concluso" e, al secondo comma, dispone che, se ove come nella specie il contratto abbia "per oggetto il trasferimento della proprietà di una cosa determinata", "la domanda non può essere accolta, se la parte che l'ha proposta non esegue la sua prestazione o non ne fa offerta nei modi di legge, a meno che la prestazione non sia ancora esigibile".
La convenuta non ha adempiuto all’obbligo di trasferimento delle aree previsto dalla convenzione e la giurisprudenza ha chiarito (cfr. Cass. civ., Sez. II, 30.03.2012, n. 5160) che “il rimedio previsto dall’art. 2932 c.c. al fine di ottenere l’esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto, deve ritenersi applicabile non solo nelle ipotesi di contratto preliminare non seguito da quello definitivo, ma anche in qualsiasi altra ipotesi dalla quale sorga l’obbligazione di prestare il consenso per il trasferimento o la costituzione di un diritto, sia in relazione ad un negozio unilaterale, sia in relazione ad un atto o ad un fatto dai quali detto obbligo possa sorgere ex lege”.
Nel caso di specie il Comune ha dedotto l'inadempimento della convenuta all'obbligazione di trasferimento prevista dalla convenzione, rispetto alla quale, trattandosi di un’obbligazione contrattuale, l’inadempimento deve essere semplicemente allegato, e non emerge alcuna circostanza ostativa all’accoglimento della domanda, dato che il Comune risulta aver assolto agli obblighi a suo carico previsti dalla convenzione e dal punto di vista istruttorio vi è l’analitica identificazione dei mappali da trasferire ad opera della documentazione formata dalla stessa convenuta al fine di ottenere il collaudo delle opere.
Pertanto sussistono tutte le condizioni per accogliere la domanda del Comune nei termini specificati nel dispositivo.
Le spese di giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate nella misura liquidata in dispositivo.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto (Sezione Seconda) definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto:
a) accerta, in favore del Comune di Castelgomberto ed a carico della convenuta Grandangolo Immobiliare Srl, l'inadempimento dell'obbligo di trasferimento delle aree relative a sedi stradali, marciapiedi, piazze, parcheggi pubblici, verde, ed altre destinate a standard, previsto dalla convenzione urbanistica stipulata il 28.07.2003, rep. 35269, del notaio Guglielmi, relativa al piano di lottizzazione “Tezzon”;
b) dispone, ai sensi dell'art. 2932 c.c., il trasferimento dalla convenuta Grandangolo Immobiliare Srl (P. IVA .....) con sede in ....... n. 2, al ricorrente Comune di Castelgomberto (P. IVA 00185650249) con sede a Castelgomberto, Piazza Marconi n. 1, delle aree individuate dalle singole particelle del Catasto terreni del Comune di Castelgomberto, foglio 1, di seguito precisate: mappali nn. 563, 564, 565, 566, 568, 569, 571, 573, 585, 587, 658, 668, 671, 679, 681, 684, 715, 716, 717, 718, 719, 720, 721, 723, 724, 725, 726, 728, 729, 730, 731, 732, 733, 734, 735, 738;
c) ordina al competente Conservatore dei registri immobiliari di procedere alle relative trascrizioni, con esonero da ogni sua responsabilità al riguardo;
d) condanna la convenuta alla refusione delle spese di giudizio, liquidandole in € 5.000,00, a titolo di compensi e spese (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 24.07.2015 n. 875 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIllegittimo qualificare i manufatti leggeri come interventi di nuova costruzione.
È illegittima la norma del TU Edilizia, rimasta in vigore per soli otto mesi e adesso modificata, che considerava quali “interventi di nuova costruzione” l’installazione di “manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere” che non fossero diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee “ancorché siano installati, con temporaneo ancoraggio al suolo, all'interno di strutture ricettive all'aperto”.
Parimenti illegittima la norma che prevede che una quota dei proventi derivanti dalla dismissione dell'originario patrimonio immobiliare disponibile degli enti territoriali venga destinato al Fondo per l'ammortamento dei titoli di Stato.

La Corte Costituzionale è intervenuta, su ricorso promosso dalla Regione Veneto, per dichiarare l’illegittima della norma del TU Edilizia (DPR n. 380/2001) che considerava quali “interventi di nuova costruzione” l’installazione di “manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere” che non fossero diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee “ancorché siano installati, con temporaneo ancoraggio al suolo, all'interno di strutture ricettive all'aperto”.
Nella specie, la norma illegittima è l’art. 41, comma 4, del D.L. n. 69/2013 che aveva modificato l’art. 3, comma 1, lettera e.5), del TU Edilizia: tale previsione è rimasta in vigore per circa otto mesi (dal 21.08.2013 al 27.05.2014), dato che il c.d. “Decreto casa” (segnatamente, l’art. 10-ter, del D.L. n. 47/2014) ha sostituito la parola “ancorché” con le parole “e salvo che”.
La norma impugnata si inserisce nell’ambito della disciplina urbanistico-edilizia, dettata dal legislatore statale all’art. 3 (L) del D.P.R. n. 380/2001, in tema di realizzazione di strutture mobili configurate come “interventi di nuova costruzione”, per le quali è necessario lo specifico titolo abilitativo costituito dal permesso di costruire.
La Corte Costituzionale ha già avuto occasione di osservare che tale disciplina deve essere ricondotta alla materia del “governo del territorio” e, in merito, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di una norma statale che escludeva che le installazioni ed i rimessaggi di mezzi mobili di pernottamento (campers, roulottes, case mobili ed altro), anche se collocati permanentemente, per l’esercizio dell’attività, entro il perimetro di strutture turistico-ricettive regolarmente autorizzate, fossero attività rilevanti sul piano urbanistico ed edilizio, escludendo la necessità di conseguire apposito titolo abilitativo per la loro realizzazione, in considerazione del mero dato della precarietà strutturale del manufatto.
La Consulta in tal modo richiamava il legislatore statale che aveva dettato una disciplina puntuale inerente a specifiche tipologie di interventi edilizi realizzati in contesti ben definiti e circoscritti, senza lasciare alcuno spazio al legislatore regionale, competente per la normativa di dettaglio.
La norma dichiarata illegittima con la sentenza 24.07.2015 n. 189 presenta analoghi vizi di illegittimità costituzionale, laddove nel ricomprendere nella nozione di “interventi di nuova costruzione” l’installazione di manufatti leggeri anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere (etc.):
- ha esteso, con norma di dettaglio, l’ambito oggettivo degli “interventi di nuova costruzione”, per i quali è richiesto il permesso di costruire;
- ha individuato specifiche tipologie di interventi edilizi, realizzati nell’ambito delle strutture turistico-ricettive all’aperto, molto peculiari, che peraltro contraddicono i criteri generali (della trasformazione permanente del territorio e della precarietà strutturale e funzionale degli interventi) forniti, dallo stesso legislatore statale, ai fini dell’identificazione della necessità o meno del titolo abilitativo.
In tal modo, l’art. 41, comma 4, del D.L. n. 69/2013 ha sottratto al legislatore regionale ogni spazio di intervento, determinando la compressione della sua competenza concorrente in materia di governo del territorio, nonché la lesione della competenza residuale del medesimo in materia di turismo, strettamente connessa, nel caso di specie, alla prima.
Parimenti, la Consulta ha dichiarato illegittima la norma che prevede che una quota dei proventi derivanti dalla dismissione dell'originario patrimonio immobiliare disponibile degli enti territoriali venga destinato al Fondo per l'ammortamento dei titoli di Stato.
Nel dettaglio, la norma in questione è l’art. 56-bis, comma 11, del D.L. n. 69/2013 (c.d. “decreto del fare”), nella parte in cui impone un vincolo di destinazione a favore del Fondo per l’ammortamento dei titoli di Stato sulla quota del 10% delle risorse derivanti dall’alienazione dell’originario patrimonio immobiliare disponibile delle Regioni.
La norma colpita dalla declaratoria di illegittimità dei giudici costituzionali si colloca nel quadro delle recenti misure adottate dal legislatore statale volte alla riduzione del debito pubblico, al fine precipuo di fronteggiare, in termini dichiaratamente derogatori e straordinari, l’«eccezionalità della situazione economica» e, appunto, le «esigenze prioritarie di riduzione del debito pubblico» (art. 56-bis, comma 11, primo periodo, del D.L. n. 69/2013).
Tale norma ha fissato un vincolo puntuale ed esaustivo al fine di perseguire gli obiettivi di finanza pubblica, imponendo agli enti territoriali di destinare una quota dei proventi derivanti dalla dismissione di loro beni alla riduzione del debito pubblico dello Stato, con ciò ledendo i parametri evocati.
La pronuncia conferma l’orientamento della Corte Costituzionale segnato con la sentenza n. 63/2013), con la quale ha ritenuto che la previsione statale dell’obbligo di destinazione delle risorse derivanti dalle operazioni di dismissione di terreni demaniali agricoli e a vocazione agricola dello Stato, delle Regioni e degli altri enti territoriali alla riduzione del proprio debito, sia espressiva, oltre che «del perseguimento di un obiettivo di interesse generale in un quadro di necessario concorso anche delle autonomie al risanamento della finanza pubblica», di un «principio fondamentale nella materia, di competenza concorrente, del coordinamento della finanza pubblica», come tale non invasivo delle attribuzioni della Regione nella materia stessa, in quanto proporzionato al fine perseguito.
Sempre nella stessa sentenza n. 63/2013, la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di una disposizione statale che prescriveva agli enti territoriali, in assenza di debito o per la parte eventualmente eccedente, di destinare le risorse derivanti dalle operazioni di dismissione dei terreni demaniali agricoli e a vocazione agricola al Fondo per l’ammortamento dei titoli di Stato.
E ciò sulla base del rilievo che detta previsione, “non essendo finalizzata ad assicurare l’esigenza del risanamento del debito degli enti territoriali e, quindi, non essendo correlata alla realizzazione del ricordato principio fondamentale, si risolve in una indebita ingerenza nell’autonomia della Regione”.
Tale norma determinava “una indebita appropriazione da parte dello Stato di risorse appartenenti agli enti territoriali, in quanto realizzate attraverso la dismissione di beni di loro proprietà e, con ciò, sottrae ad essi il potere di utilizzazione dei propri mezzi finanziari, che fa parte integrante di detta autonomia finanziaria, funzionale all’assolvimento dei compiti istituzionali che gli enti territoriali sono chiamati a svolgere […] con conseguente violazione degli articoli 117, terzo comma, e 119 Cost.”.
Conclusioni richiamate e condivise dalla Consulta anche nella sentenza n. 189/2015, dato che anche l’art. 56-bis, comma 11, del “decreto del fare”, nella parte in cui impone un vincolo di destinazione a favore del Fondo è, infatti, volto a destinare le risorse derivanti da operazioni di dismissione di beni degli enti territoriali alla riduzione del debito pubblico di pertinenza, e, in assenza del debito o per la parte eventualmente eccedente il debito degli enti medesimi, al Fondo per l’ammortamento dei titoli di Stato.
Tale norma, inoltre, non soddisfa alcuna delle condizioni ripetutamente poste dalla giurisprudenza di questa Corte in ordine all’individuazione dei princípi di coordinamento della finanza pubblica (27.07.2015 - tratto da www.ipsoa.it).
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SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 18, comma 9, 41, comma 4, e 56-bis, comma 11, del decreto-legge 21.06.2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 09.08.2013, n. 98, promosso dalla Regione Veneto con ricorso notificato il 19.10.2013, depositato in cancelleria il 29.10.2013 ed iscritto al n. 98 del registro ricorsi 2013.
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3.2.– Nel merito, la questione è fondata.
La norma impugnata si inserisce nell’ambito della disciplina urbanistico-edilizia, dettata dal legislatore statale all’art. 3 (L) del d.P.R. n. 380 del 2001, in tema di realizzazione di strutture mobili configurate come «interventi di nuova costruzione», in quanto tali subordinati al conseguimento di specifico titolo abilitativo costituito dal permesso di costruire.
Con riferimento a tale disciplina questa Corte ha già avuto occasione di osservare che essa, la quale deve essere ricondotta alla materia del «governo del territorio» di cui al terzo comma dell’art. 117 Cost., «sancisce il principio per cui ogni trasformazione permanente del territorio necessita di titolo abilitativo e ciò anche ove si tratti di strutture mobili allorché esse non abbiano carattere precario» (sentenza n. 278 del 2010).
Quanto a quest’ultimo si è, poi, precisato che «[i]l discrimine tra necessità o meno di titolo abilitativo è dato dal duplice elemento: precarietà oggettiva dell’intervento, in base alle tipologie dei materiali utilizzati, e precarietà funzionale, in quanto caratterizzata dalla temporaneità dello stesso» (sentenza n. 278 del 2010).
Su tali premesse, è stata allora dichiarata l’illegittimità costituzionale di una norma statale che escludeva che le installazioni ed i rimessaggi di mezzi mobili di pernottamento (campers, roulottes, case mobili ed altro), anche se collocati permanentemente, per l’esercizio dell’attività, entro il perimetro di strutture turistico-ricettive regolarmente autorizzate, fossero attività rilevanti sul piano urbanistico ed edilizio, escludendo la necessità di conseguire apposito titolo abilitativo per la loro realizzazione, in considerazione del mero dato della precarietà strutturale del manufatto.
Così disponendo, infatti, il legislatore statale aveva dettato una disciplina puntuale inerente a specifiche tipologie di interventi edilizi realizzati in contesti ben definiti e circoscritti, senza lasciare alcuno spazio al legislatore regionale, in contrasto con quanto più volte chiarito da questa Corte e cioè che «alla normativa di principio spetta di prescrivere criteri e obiettivi, mentre alla normativa di dettaglio è riservata l’individuazione degli strumenti concreti da utilizzare per raggiungere tali obiettivi» (sentenza n. 278 del 2010; anche sentenze n. 16 del 2010, n. 340 del 2009, n. 401 del 2007).
La norma impugnata in questo giudizio presenta analoghi vizi di illegittimità costituzionale. Essa, infatti, nella parte in cui stabilisce che costituiscono «interventi di nuova costruzione» l’installazione di manufatti leggeri anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee, «ancorché siano installati, con temporaneo ancoraggio al suolo, all’interno di strutture ricettive all’aperto, in conformità alla normativa regionale di settore, per la sosta ed il soggiorno di turisti», estende, con norma di dettaglio, l’ambito oggettivo degli «interventi di nuova costruzione», per i quali è richiesto il permesso di costruire.
Essa in specie individua, al pari della norma dichiarata costituzionalmente illegittima con la citata sentenza n. 278 del 2010, specifiche tipologie di interventi edilizi, realizzati nell’ambito delle strutture turistico-ricettive all’aperto, molto peculiari, che peraltro contraddicono i criteri generali (della trasformazione permanente del territorio e della precarietà strutturale e funzionale degli interventi) forniti, dallo stesso legislatore statale, ai fini dell’identificazione della necessità o meno del titolo abilitativo.
In tal modo, la norma impugnata sottrae al legislatore regionale ogni spazio di intervento, determinando la compressione della sua competenza concorrente in materia di governo del territorio, nonché la lesione della competenza residuale del medesimo in materia di turismo, strettamente connessa, nel caso di specie, alla prima.

Deve, pertanto, essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 41, comma 4, del d.l. n. 69 del 2013 (Corte Costituzionale, sentenza 24.07.2015 n. 189).

EDILIZIA PRIVATA: a) il potere di annullamento della Soprintendenza non consente il riesame nel merito delle valutazioni discrezionali compiute dalla Regione, o dall'ente subdelegato, ma si esprime in un sindacato di legittimità, esteso a tutte le ipotesi riconducibili all'eccesso di potere, anche per difetto di motivazione o di istruttoria;
b) la Regione (nella specie il Comune subdelegato) deve quindi esercitare il proprio potere motivando adeguatamente sulla compatibilità con il vincolo paesaggistico dell'opera specificamente assentita, in relazione a tutte le circostanze rilevanti nel caso di specie, sussistendo, in caso contrario, illegittimità per carenza di motivazione o di istruttoria.
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Al riguardo va ricordato che l'autorizzazione paesistica rilasciata deve essere congruamente motivata, esponendo le ragioni di effettiva compatibilità delle opere da realizzare con gli specifici valori paesistici dei luoghi, con la conseguenza che il difetto di motivazione dell'autorizzazione giustifica per ciò solo il suo annullamento in sede di controllo.
Difatti, il paesaggio è un valore costituzionale primario e, pertanto, l'autorità amministrativa deve operare un giudizio in concreto circa il rispetto da parte dell'intervento progettato delle esigenze connesse alla tutela del paesaggio stesso. La determinazione dell’autorità competente al rilascio dell’autorizzazione de qua deve, dunque, essere motivata anche quando abbia contenuto positivo, favorevole al richiedente.
Tale principio, già consolidato in giurisprudenza in relazione alla peculiare natura dell'atto ed alla rilevanza degli interessi coinvolti, trova oggi espresso fondamento normativo nell'articolo 3 della legge n. 241/1990, secondo il quale ogni provvedimento amministrativo, di contenuto sia negativo che positivo, deve essere motivato, recando l'indicazione dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione in relazione alle risultanze dell'istruttoria.
Quanto, poi, al contenuto di tale motivazione, la giurisprudenza è ferma nel ritenere, ai fini della congruità e sufficienza della stessa, che debba esservi l'indicazione della ricostruzione dell'iter logico seguito, in ordine alle ragioni di compatibilità effettive che -in riferimento agli specifici valori paesistici dei luoghi- possano consentire tutti i progettati lavori, considerati nella loro globalità e non esclusivamente in semplici episodi di dettaglio.

Quanto ai limiti dell'esame da parte della Soprintendenza dell'autorizzazione paesaggistica rilasciata dalla Regione (o da un ente subdelegato), si richiama la giurisprudenza costante del Giudice amministrativo, per la quale:
a) il potere di annullamento della Soprintendenza non consente il riesame nel merito delle valutazioni discrezionali compiute dalla Regione, o dall'ente subdelegato, ma si esprime in un sindacato di legittimità, esteso a tutte le ipotesi riconducibili all'eccesso di potere, anche per difetto di motivazione o di istruttoria;
b) la Regione (nella specie il Comune subdelegato) deve quindi esercitare il proprio potere motivando adeguatamente sulla compatibilità con il vincolo paesaggistico dell'opera specificamente assentita, in relazione a tutte le circostanze rilevanti nel caso di specie, sussistendo, in caso contrario, illegittimità per carenza di motivazione o di istruttoria (cfr. Cons. St. sopra citato cui adde sez. VI, n. 3767 del 2011, n. 4861 del 2010, nn. 7609 e 772 del 2009).
Al riguardo va ricordato che l'autorizzazione paesistica rilasciata deve essere congruamente motivata, esponendo le ragioni di effettiva compatibilità delle opere da realizzare con gli specifici valori paesistici dei luoghi, con la conseguenza che il difetto di motivazione dell'autorizzazione giustifica per ciò solo il suo annullamento in sede di controllo. Difatti, il paesaggio è un valore costituzionale primario e, pertanto, l'autorità amministrativa deve operare un giudizio in concreto circa il rispetto da parte dell'intervento progettato delle esigenze connesse alla tutela del paesaggio stesso. La determinazione dell’autorità competente al rilascio dell’autorizzazione de qua deve, dunque, essere motivata anche quando abbia contenuto positivo, favorevole al richiedente.
Tale principio, già consolidato in giurisprudenza in relazione alla peculiare natura dell'atto ed alla rilevanza degli interessi coinvolti, trova oggi espresso fondamento normativo nell'articolo 3 della legge n. 241/1990, secondo il quale ogni provvedimento amministrativo, di contenuto sia negativo che positivo, deve essere motivato, recando l'indicazione dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione in relazione alle risultanze dell'istruttoria.
Quanto, poi, al contenuto di tale motivazione, la giurisprudenza è ferma nel ritenere, ai fini della congruità e sufficienza della stessa, che debba esservi l'indicazione della ricostruzione dell'iter logico seguito, in ordine alle ragioni di compatibilità effettive che -in riferimento agli specifici valori paesistici dei luoghi- possano consentire tutti i progettati lavori, considerati nella loro globalità e non esclusivamente in semplici episodi di dettaglio (ved. Cons. St., nr. 2395 del 2012).
Ciò richiamato si deve osservare che nel provvedimento regionale di cui si tratta la motivazione della compatibilità dell'intervento autorizzato con la disciplina vincolistica della zona in cui ricade il manufatto, riposa nella considerazione che “dall’esame istruttorio ….è risultato che le opere realizzate, descritte nel progetto, non presentano motivi di contrasto con il contesto paesistico e panoramico vincolato e non sono tali da impedirne l’inserimento nel medesimo”. Ne consegue, all’evidenza, che sono rimaste indeterminate le ragioni in forza delle quali il progetto della è stato ritenuto conforme alle previsioni di conformazione dell'area, e dunque non solo a quelle di livello comunale, ma anche a quelle territoriali di rilievo paesaggistico, comunque prevalenti (cfr., in tal senso, ex plurimis, Cons. St. n. 2401 del 2008).
Il provvedimento rilasciato dall'ente subdelegato non ha assolto perciò al compito proprio di dare "da solo, piena contezza dell'ammissibilità dell'intervento con una congrua descrizione sia dell'ambiente nel quale l'opera deve inserirsi, che dell'opera medesima” (così Cons. St., n. 6885 del 2011 e n. 2219/2012 cit.) e correttamente, di conseguenza, la Soprintendenza ha nel proprio decreto rilevato che nel provvedimento in esame l'Autorità decidente non spiega come e perché l'intervento sanato sia compatibile con le esigenze della tutela ambientale e, su tale base, conclude che l’autorizzazione o il parere non adempiono all’obbligo legale di una motivazione esauriente e completa in ordine alla compatibilità dell’opera realizzata rispetto alle valenze del vincolo ed alla sua disciplina, restando con ciò nei limiti della propria competenza.
Né può ritenersi che la Soprintendenza avrebbe dovuto prendere in considerazione la perdita dei caratteri paesistici del sito a causa dell'intervenuta urbanizzazione dell'area in questione. E difatti -ed a prescindere dalla circostanza che detta urbanizzazione è solo assunta e, in alcun modo, documentata dalla ricorrente; mentre nel provvedimento impugnato l’area interessata all’abuso viene indicata come ricadente nella zona V2 (verde di P.r.g.)- come ripetutamente affermato dalla Sezione (cfr., ex plurimis, sent. n. 10167 del 2012) lo stato di compromissione dell'area oggetto di tutela non può considerarsi un corretto parametro per le valutazioni (di mera legittimità) dell'atto impugnato, che deve giudicare la legittimità del nulla osta sulla base dei valori paesistici giuridicamente tutelati tralasciando "lo stato di fatto" della zona al momento della decisione dell'istanza di sanatoria.
Non è infatti consentito all’ente competente di prescindere da tali valori, in considerazione della loro frequente violazione per effetto del fenomeno dell'abusivismo. Infatti, come più volte chiarito dal Consiglio di Stato "ove la trasformazione illecitamente realizzata in assenza di autorizzazione e di concessione edilizia dovesse condizionare -per le modificazioni introdotte, di fatto, al territorio- la valutazione paesaggistica, da un lato non avrebbe significato che il legislatore continui a condizionare la sanatoria alla previa autorizzazione paesaggistica, e, d'altra parte, vanificherebbe la tutela, sostanzialmente rimessa alla volontà degli amministrati di non perpetrare e realizzare interventi abusivi" (Cons. st., sez. V n. 40 del 10.01.2007)
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 23.07.2015 n. 10145 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAlla funzione di tutela del paesaggio è estranea ogni forma di attenuazione della tutela paesaggistica determinata dal bilanciamento o dalla comparazione con altri interessi, ancorché pubblici, che di volta in volta possono venire in considerazione: tale attenuazione, nella traduzione provvedimentale, condurrebbe illegittimamente a dare minor tutela, malgrado l’intensità del valore paesaggistico del bene, quanto più intenso e forte sia o possa essere l’interesse pubblico alla trasformazione del territorio.
Invero, il parere in ordine alla compatibilità paesaggistica non può che essere un atto strettamente espressivo di discrezionalità tecnica, dove l’intervento progettato va messo in relazione con i valori protetti ai fini della valutazione tecnica della compatibilità fra l’intervento medesimo e il tutelato interesse pubblico paesaggistico: valutazione che è istituzionalmente finalizzata a evitare che sopravvengano alterazioni inaccettabili del preesistente valore protetto.
Questa caratterizzazione tecnica del giudizio di compatibilità da parte degli organi del MIBAC (che concerne tutti gli elementi di impatto dell’intervento sul paesaggio: non solo localizzazione, densità e volumi ma anche e soprattutto linee, forme, materiali, ingombro, disposizione e così via) non viene meno –a pena di disattendere il contenuto e il particolare rilievo dell’art. 9 Cost.– in procedimenti semplificatori per opere considerate dalla legge di particolare significato, come quello dell’art. 1-sexies (Semplificazione dei procedimenti di autorizzazione per le reti nazionali di trasporto dell’energia e per gli impianti di energia elettrica di potenza superiore a 300 MW termici) d.l. 29.08.2003, n. 239 d.l. 29.08.2003, n. 239 (Disposizioni urgenti per la sicurezza [e lo sviluppo] del sistema elettrico nazionale e per il recupero di potenza di energia elettrica) come convertito con modificazioni dalla l. 27.10.2003, n. 290 (nella specie, il MIBAC, dopo aver dato parere negativo alla realizzazione di un elettrodotto, aveva rivisto il suo orientamento compiendo una non consentita attività di comparazione e di bilanciamento dell’interesse affidato alla sua cura -la tutela del paesaggio– con interessi pubblici di altra natura e spettanza –essenzialmente quelli sottesi alla realizzazione dell’elettrodotto e al trasporto dell’energia elettrica).

15. Nel merito l’appello merita accoglimento.
Risulta fondato, in particolare, il secondo motivo di appello con cui si deducono, sotto diversi profili, vizi di eccesso di potere e difetto di motivazione in relazione al provvedimento con il quale il Ministero per i beni e le attività culturali (nota prot. 6440 del 24.02.2011), mutando il precedente parere contrario della Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici del Friuli - Venezia Giulia (espresso nella nota prot. 10889 del 24.11.2010), ha espresso parere favorevole sul progetto di elettrodotto con l’unica condizione di spostare il tratto di elettrodotto previsto nell’area golenale del fiume Torre.
16. Giova ricostruire con maggiore dettaglio questa fase del procedimento su cui si appuntano le censure dei ricorrenti.
La Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici del Friuli - Venezia Giulia aveva inizialmente espresso parere contrario all’intervento nelle aree oggetto di tutela ai sensi degli articoli 136 e 142, comma 1, lett. c) del d.lgs. 22.01.2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio), rilevandone l’impatto negativo sul paesaggio consistente:
- nel deturpamento della scenografia di tratti di corridoi fluviali di elevato valore paesaggistico del torrente Comor, del fiume Torre, del fiume Isonzo nonché della Roggia di Udine e delle Roggia Mille acque con la irruzione nel campo visivo di sostegni e di cavi, che costituiscono elementi anomali, per consistenza ed altezza, rispetto alla matrice agricola e naturalistica del paesaggio e che, inoltre, in nove casi, avendo un’altezza superiore a 61 metri, dovrebbero, per rispettare le norme di sicurezza del volo a bassa quota, presentare una verniciatura bianca e arancione nel terzo superiore;
- in un rilevante esbosco di specie arboree di valore paesaggistico, oltre che naturalistico ed ecologico.
Sulla base di questi rilievi, la Soprintendenza aveva, quindi, proposto l’interramento dell’elettrodotto nelle fasce sottoposte a tutela paesaggistica.
Successivamente però, con l’atto impugnato (nota prot. 6440 del 24.02.2011), il Ministero per i beni e le attività culturali (di seguito anche solo MIBAC), “considerata l’impossibilità di realizzare l’elettrodotto in cavo [sotterraneo] nelle zone sottoposte a tutela paesaggistica, come chiarito dalla società Terna s.p.a.”, mutando avviso si esprimeva favorevolmente, ponendo come unica condizione che il tratto di elettrodotto del fiume Torre venisse spostato all’esterno della fascia di elevato valore paesaggistico.
17. Gli appellanti lamentano che questo mutamento di giudizio (non assistito da adeguata motivazione) si rivelerebbe contraddittorio ed irragionevole, ed evidenziano –criticando, sotto questo specifico profilo, la sentenza appellate anche per il vizio di omessa pronuncia rispetto alla censura proposta in primo grado– che il parere favorevole del Ministero, anche a prescindere dal ripensamento rispetto al precedente parere negativo, sarebbe, comunque, in sé affetto da vizi di sviamento di potere: infatti attraverso tale atto di assenso il MIBAC avrebbe illegittimamente subordinato il perseguimento dell’interesse pubblico primario (alla tutela paesaggistica) affidato alla sua cura alla realizzabilità comunque dell’opera, quasi che l’an del progetto non potesse essere nemmeno posto in discussione.
18. Il Collegio ritiene che, nei termini che seguono, sussistano i denunciati profili di sviamento di potere.
19. Alla funzione di tutela del paesaggio (che il MBAC qui esercita attraverso esprimendo il suo obbligatorio parere nell’ambito del procedimento di compatibilità ambientale) è estranea ogni forma di attenuazione della tutela paesaggistica determinata dal bilanciamento o dalla comparazione con altri interessi, ancorché pubblici, che di volta in volta possono venire in considerazione: tale attenuazione, nella traduzione provvedimentale, condurrebbe illegittimamente, e paradossalmente, a dare minor tutela, malgrado l’intensità del valore paesaggistico del bene, quanto più intenso e forte sia o possa essere l’interesse pubblico alla trasformazione del territorio.
Invero, anche nel procedimento in questione (circa il quale è il caso di rammentare il precedente di cui a Cons. Stato, VI, 10.06.2013, n. 3205) il parere del MIBAC in ordine alla compatibilità paesaggistica non può che essere un atto strettamente espressivo di discrezionalità tecnica, dove –similmente al parere dell’art. 146 d.lgs. 22.01.2004, n. 42- l’intervento progettato va messo in relazione con i valori protetti ai fini della valutazione tecnica della compatibilità fra l’intervento medesimo e il tutelato interesse pubblico paesaggistico: valutazione che è istituzionalmente finalizzata a evitare che sopravvengano alterazioni inaccettabili del preesistente valore protetto.
Questa regola essenziale di tecnicità e di concretezza, per cui il giudizio di compatibilità dev’essere tecnico e proprio del caso concreto, applica il principio fondamentale dell’art. 9 Cost., il quale fa eccezione a regole di semplificazione a effetti sostanziali altrimenti praticabili (cfr. Corte cost., 29.12.1982, n. 239; 21.12.1985, n. 359; 27.06.1986, n. 151; 10.03.1988, n. 302; Cons. Stato, VI, 18.04.2011, n. 2378). La norma costituzionalizza e al massimo rango la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione – e questo richiede, a opera dell’Amministrazione appositamente preposta, che si esprimano valutazioni tecnico-professionali e non già comparative di interessi, quand’anche pubblici e da altre amministrazioni stimabili di particolare importanza.
Questa caratterizzazione tecnica del giudizio di compatibilità da parte degli organi del MIBAC (che concerne tutti gli elementi di impatto dell’intervento sul paesaggio: non solo localizzazione, densità e volumi ma anche e soprattutto linee, forme, materiali, ingombro, disposizione e così via) non viene meno –a pena di disattendere il contenuto e il particolare rilievo dell’art. 9 Cost.– in procedimenti semplificatori per opere considerate dalla legge di particolare significato, come quello dell’art. 1-sexies (Semplificazione dei procedimenti di autorizzazione per le reti nazionali di trasporto dell'energia e per gli impianti di energia elettrica di potenza superiore a 300 MW termici) d.l. 29.08.2003, n. 239 d.l. 29.08.2003, n. 239 (Disposizioni urgenti per la sicurezza [e lo sviluppo] del sistema elettrico nazionale e per il recupero di potenza di energia elettrica) come convertito con modificazioni dalla l. 27.10.2003, n. 290, a tenore del cui comma 1 «L'autorizzazione alla costruzione e all'esercizio degli elettrodotti, degli oleodotti e dei gasdotti, facenti parte delle reti nazionali di trasporto dell'energia, è rilasciata dalle amministrazioni statali competenti mediante un procedimento unico secondo i principi di cui alla legge 07.08.1990, n. 241, entro il termine di sei mesi dalla data di presentazione della domanda».
La speciale concentrazione procedimentale, cioè, di questo e di analoghi procedimenti non comporta un’attenuazione della rilevanza della tutela paesaggistica perché questa si fonda su un espresso principio fondamentale costituzionale. Questa speciale disciplina incentrata sulla concentrazione procedimentale è volta a dare speditezza al confronto richiesto dall’approvvigionamento energetico e nello stesso confronto dialettico delle amministrazioni interessate ha il suo valore aggiunto. La semplificazione procedimentale persegue la speditezza in ragione delle necessità energetiche: ma si tratta di un effetto procedimentale e non di contenuti, perché non inverte il rapporto sostanziale tra interessi e non sottrae effettività (come farebbe se negasse la ricordata eccezione) a un principio fondamentale dell’ordinamento costituzionale (cfr. Cons. Stato, VI, 23.05.2012, n. 3039; 15.01.2013, n. 220).
Perciò, per quanto concerne il ruolo del MIBAC nel procedimento, le valutazioni di comparazione e ponderazione di interessi, proprie della discrezionalità amministrativa, restano del tutto estranee alla fattispecie di legge e, ove di fatto introdotte, rendono l’atto viziato per eccesso di potere. Come ben evidenziato in dottrina, la discrezionalità tecnica, a differenza di quella amministrativa, si concentra su un unico interesse, nel caso quello paesaggistico, attraverso la verifica in fatto della sua configurazione e trasformazione nel caso concreto.
Diversamente dalla discrezionalità amministrativa, la discrezionalità tecnica non può dar luogo ad alcuna forma di comparazione e valutazione eterogenea. Nell’esercizio della funzione di tutela spettante al MIBAC, l’interesse che va preso in considerazione è solo quello circa la tutela paesaggistica, il quale non può essere aprioristicamente sacrificato dal MIBAC stesso, nella formulazione del suo parere, in considerazione di altri interessi pubblici la cui cura esula dalle sue attribuzioni.
20. L’indeclinabilità della funzione pubblica di tutela del paesaggio per la particolare dignità data dall’essere iscritta dall’art. 9 Cost. tra i principi fondamentali della Repubblica, è stata del resto più volte affermata dalla giurisprudenza costituzionale (cfr., ad esempio, Corte cost., 27.06.1986, n. 151, 29.12.1982, n. 239; 21.12.1985, n. 359; 05.05.1986, n. 182; 10.10.1998, n. 302; 19.10.1992, n. 393; 12.02.1996, n. 2; 28.06.2004, n. 196; 29.102009, n. 272; 23.11.2011, n. 309) sia di questo Consiglio di Stato (cfr. ex multis Cons. Stato, Ad. plen., 14.12.2001, n. 9; VI, 03.07.2012, n. 3893; VI, 18.04.2011, n. 2378; 22.09.2014, n. 4775).;
21. Quanto sopra risulta patentemente leso nel procedimento oggetto del presente giudizio, in cui il MBAC –ponendo, per l’inequivoca logica interna al giudizio, la sua seconda valutazione in comparazione con altri interessi pubblici- si è spinto ultra vires rispetto al compito assegnatogli dalla legge e ha di fatto abdicato, sulla soverchiante base di un suo inammissibile bilanciamento con altri interessi, ad esercitare correttamente l’indeclinabile funzione di tutela di cui è esso per legge titolare.
Il Ministero invero, anziché occuparsi, come debito suo compito, di curare l’interesse paesaggistico (e di valutare, quindi, in termini non relativi ad altri interessi l’impatto paesaggistico dell’intervento), ha illegittimamente compiuto una non consentita attività di comparazione e di bilanciamento dell’interesse affidato alla sue cura (la tutela del paesaggio) con interessi pubblici di altra natura e spettanza (essenzialmente quelli sottesi alla realizzazione dell’elettrodotto e, dunque, al trasporto dell’energia elettrica). Non ad esso, ma ad altre Amministrazioni competeva esprimere, nel confronto dialettico proprio della conferenza di servizi, quelle valutazioni, indicandone le rispettive ragioni.
È patente che questa distorsione di fatto nel confronto dialettico istituzionalizzato –generata dall’introduzione di elementi spuri di ragionamento e giudizio- ne ha alterato la proporzione e la ragionevolezza, con l’effetto di squilibrare e viziare per inattendibilità gli atti finali che ne sono seguiti, poi fatti oggetto di impugnazione davanti al giudice amministrativo. Se il giudizio sull’impatto paesaggistico è negativo, il MIBAC, per quella che è la sua parte, non può, compiendo un’inammissibile scelta di merito fondata sull’esigenza di dare priorità ad altri e non suoi interessi, esprimere un parere sviato, per quanto condizionato al rispetto di alcune prescrizioni.
22. Rimane estranea alle valutazioni di cui sopra -che si incentrano sul contenuto che per legge deve avere il parere del MIBAC e che di loro assorbono il vizio in concreto rilevante negli atti impugnati–, e dunque al presente giudizio, la considerazione degli effetti di un ipotetico ortodosso confronto dialettico, che si svolga secondo le forme e le competenze di legge, con le Amministrazioni pubbliche portatrici di altri e opposti interessi. Vi provvedono le disposizioni che, anche mediante rinvio, regolano il procedimento in questione.
23. Qui è sufficiente rilevare l’evidenza dell’eccesso di potere che inficia il parere favorevole espresso dal MIBAC con la nota n. 38241 del 20.12.2010. In tale provvedimento, invero, il MIBAC, disattendendo la precedente posizione negativa espressa con il parere della Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici del Friuli - Venezia Giulia con nota prot.n. 10889 del 24.11.2010, fonda il mutamento di giudizio esclusivamente sulla “considerata impossibilità di realizzare l’elettrodotto in cavo [sotterraneo]”: con ciò muovendo dalla considerazione non già dello stretto interesse paesaggistico, ma dall’interesse, da esso stesso fatto superiore, alla realizzazione dell’opera: cosa che non è di sua cura.
In pratica violazione, quindi, della propria funzione, l’assunto fatto prioritario e sovrastante dallo stesso MIBAC della realizzazione dell’elettrodotto ha sviato il suo parere col mezzo di un inammissibile bilanciamento, indebitamente fatto intrinseco al parere medesimo anziché al successivo confronto dialettico: il che è andato in fatale detrimento della considerazione sul reale impatto paesaggistico dell’elettrodotto e delle relative incompatibilità. Perché un confronto dialettico -come quello della conferenza di servizi- possa essere corretto e attendibile, infatti, occorre che ciascuna delle parti amministrative chiamate a parteciparvi si riferisca in partenza a quanto per legge di propria competenza.
Sono state così semplicemente pretermesse e accantonate le ragioni ostative del precedente parere del 24.11.2010, dove il giudizio negativo (e la conseguente proposta di interrare l’elettrodotto nelle fasce sottoposte a tutela) si fondava su una pluralità di ragioni ostative consistenti in particolare nel “deturpamento della scenografica di tratti di corridoi fluviali di elevato valore paesaggistico”, e in un “rilevante esbosco di specie arboree di valore paesaggistico, oltre che naturalistico ed ecologico”. È sintomatico, al riguardo, che nessuna confutazione in fatto, come sarebbe nell’ambito proprio di un giudizio di discrezionalità tecnica, sia stato fatto in sede di questa pratica revocazione del precedente parere.
24. Non basta: la riscontrata impossibilità di soluzioni tecniche alternative non è stata oggetto di adeguata motivazione ad opera del parere, che sotto questo profilo si limita a richiamare e a recepire senz’altro le considerazioni svolte da Terna che ha proposto il progetto. Vizio, anche questo, sufficiente a concretare l’invalidità degli atti, perché sarebbe comunque stato obbligo del MIBAC svolgere la relativa indagine ed esternare le ragioni della sua specifica nuova valutazione.
Vale rammentare che, giusta il rammentato e noto precedente di cui a Cons. Stato, VI, 10.06.2013, n. 3205, è illegittima la determinazione di giudizio positivo di compatibilità, superando un precedente decreto in cui si evidenziava l’opportunità di “considerare l’opzione cavo interrato, al fine di non interferire con l’ambito paesaggistico ambientale”, senza una congrua motivazione né sulla necessità di determinarsi in modo diverso, né sull’impossibilità di perseguire soluzioni alternative di tracciato o la possibilità di parziale interramento della linea. Anche in quel caso f2 valutato che “l’esclusiva rilevanza attribuita alle ragioni di Terna, in assenza di qualsiasi considerazione atta a evidenziare i motivi per i quali queste debbano avere la prevalenza sulle esigenze di tutela del patrimonio culturale, del quale tuttavia si riconosce la compromissione, non è sufficiente a fondare un’adeguata motivazione circa il mutamento di parere, rispetto alla primitiva valutazione del progetto”.
25. Il procedimento che ha condotto ad esprimere la valutazione positiva di compatibilità ambientale e, successivamente, all’approvazione del progetto definitivo risulta, quindi, viziato in radice perché è mancata una logica ed attendibile acquisizione del fondamentale giudizio tecnico del MIBAC circa l’oggetto istituzionale della sua cura, pretermesso e sacrificato dalla stessa Amministrazione chiamata a occuparsi della sua tutela.
Insomma, lo sviamento che inficia il parere sul progetto di elettrodotto porta a rilevare che è mancato, nella sostanza, il razionale espletamento di una fase procedimentale obbligatoria.
26. Il mancato attendibile esercizio di un potere tecnico obbligatoriamente previsto nell’ambito del procedimento determina, seguendo anche i principi di cui a Cons. Stato, Ad. plen., 27.04.2015, n. 5, l’assorbimento degli altri motivi, stante anche la previsione di cui all’art. 34, comma 2, Cod. proc. amm. che non consente al giudice amministrativo di pronunciarsi rispetto a poteri non ancora esercitati.
27. Alla luce delle conclusioni che precedono, gli appelli vanno accolti e, per l’effetto, in riforma della sentenze appellate, vanno accolti, nei limiti indicati, i ricorsi proposti in primo grado dagli odierni appellanti (massima tratta da http://renatodisa.com - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 23.07.2015 n. 3652 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIADisciplina rifiuti, la competenza è dello Stato. Corte costituzionale.
L'ammissibilità in discarica dei rifiuti è riconducibile alla materia della «tutela dell'ambiente e dell'ecosistema», di competenza esclusiva dello Stato. È riservato allo Stato il potere di fissare livelli di tutela uniforme sull'intero territorio nazionale, ferma restando la competenza delle regioni alla cura di interessi funzionalmente collegati con quelli propriamente ambientali.

Questo è il principio espresso dalla Corte Costituzionale con la sentenza 23.07.2015 n. 180.
Pertanto, la disciplina statale costituisce, anche in attuazione degli obblighi comunitari, un livello di tutela uniforme e si impone sull'intero territorio nazionale, come un limite alla disciplina che le regioni e le province autonome dettano in altre materie di loro competenza, per evitare che esse deroghino al livello di tutela ambientale stabilito dallo Stato, ovvero lo peggiorino.
Nella specie, il dlgs n. 36 del 2003 ha provveduto a recepire la direttiva n. 1999/31/Ce in vista del più generale obiettivo di «assicurare un'elevata protezione dell'ambiente e controlli efficaci».
In tale decreto, oltre a stabilirsi, in linea con la citata direttiva, che «i rifiuti possono essere collocati in discarica solo dopo trattamento» intendendosi per «trattamento» tutti «i processi fisici, termici, chimici, o biologici, incluse le operazioni di cernita, che modificano le caratteristiche dei rifiuti, allo scopo di ridurne il volume o la natura pericolosa, di facilitarne il trasporto, di agevolare il recupero o di favorirne lo smaltimento in condizioni di sicurezza» (articolo ItaliaOggi del 29.07.2015).

PUBBLICO IMPIEGOCcnl, niente blocchi all'infinito. Il congelamento degli stipendi ha leso la libertà sindacale. La Consulta ha depositato le motivazioni della sentenza. I sindacati: subito i nuovi contratti.
«Il reiterato protrarsi della sospensione delle procedure di contrattazione economica altera la dinamica negoziale in un settore che al contratto collettivo assegna un ruolo centrale». Da qui l'illegittimità costituzionale della sequenza di norme che dal 2010 ha bloccato la contrattazione nazionale collettiva riguardante il lavoro pubblico, violando l'articolo 39, comma 1, della Costituzione e, dunque, le prerogative sindacali.

La Corte costituzionale ha depositato ieri le attesissime motivazioni della sentenza 23.07.2015 n. 178, che ha salvato il governo dall'obbligo di restituire ai dipendenti pubblici quanto perso per effetto dei blocchi alla contrattazione, ma lo obbliga a riaprire al più presto i tavoli negoziali.
La Consulta ha fatto salvi gli effetti pregressi dei vari blocchi succedutesi nel tempo, perché ha ritenuto coerenti con la pluriennalità dei bilanci pubblici una durata a sua volta pluriennale di una misura di contenimento della spesa pubblica, espressamente adottata per fare fronte a una situazione di emergenza finanziaria.
Il legislatore, dunque, ben poteva disporre un blocco della contrattazione prolungato, nell'ambito di un disegno sostanzialmente unitario di risanamento finanziario.
Le proroghe alla durata iniziale di tre anni del blocco, secondo la sentenza sono da considerare costituzionalmente legittime, in quanto funzionali a rafforzare nel tempo manovre di risparmio.
Tuttavia, secondo la Consulta, «se i periodi di sospensione delle procedure negoziali e contrattuali non possono essere ancorati al rigido termine di un anno, individuato dalla giurisprudenza di questa Corte in relazione a misure diverse e a un diverso contesto di emergenza (sentenza n. 245 del 1997, ordinanza n. 299 del 1999), è parimenti innegabile che tali periodi debbano essere comunque definiti e non possano essere protratti ad libitum».
La sentenza censura «il carattere ormai sistematico» del blocco della contrattazione, che è sconfinato «in un bilanciamento irragionevole tra libertà sindacale (art. 39, primo comma, Cost.), indissolubilmente connessa con altri valori di rilievo costituzionale e già vincolata da limiti normativi e da controlli contabili penetranti (artt. 47 e 48 del dlgs n. 165 del 2001), ed esigenze di razionale distribuzione delle risorse e controllo della spesa, all'interno di una coerente programmazione finanziaria (art. 81, primo comma, Cost.)». Sicché «il sacrificio del diritto fondamentale tutelato dall'art. 39 Cost., proprio per questo, non è più tollerabile».
La sentenza rileva che è stata l'entrata in vigore delle disposizioni della legge di stabilità per il 2015 a tendere «a rendere strutturali» i blocchi contrattuali introdotti «per effetto del dpr n. 122 del 2013 e della legge n. 147 del 2013», come dimostrato «dall'art. 1, comma 255, della legge n. 190 del 2014, che, fino al 2018, cristallizza l'ammontare dell'indennità di vacanza contrattuale ai valori del 31.12.2013».
Solo nel 2015, allora, «si è palesata appieno la natura strutturale della sospensione della contrattazione e può, pertanto, considerarsi verificata la sopravvenuta illegittimità costituzionale, che spiega i suoi effetti a séguito della pubblicazione di questa sentenza».
Ecco, dunque, perché la Consulta ha ritenuto di far valere l'incostituzionalità della reiterazione del blocco della contrattazione (derivante anche dalla violazione di una fitta elencazione di norme e accordi internazionali) solo per il futuro e non per il passato.
Ora, la palla passa al parlamento. La sentenza dà espressamente atto che «sarà compito del legislatore dare nuovo impulso all'ordinaria dialettica contrattuale, scegliendo i modi e le forme che meglio ne rispecchino la natura, disgiunta da ogni vincolo di risultato».
Le reazioni dei sindacati al deposito delle motivazioni della sentenza non si sono fatte attendere. Tutti chiedono al governo di riaprire immediatamente il tavolo contrattuale.
«Da una prima valutazione delle motivazioni della sentenza della Corte costituzionale, che ha dichiarato illegittimo il blocco dei contratti nella p.a., rivendichiamo l'apertura immediata del tavolo di contrattazione per il rinnovo dei contratti pubblici», hanno commentato i segretari generali di Fp Cgil (Rossana Dettori), Cisl Fp (Giovanni Faverin), Uil Fpl (Giovanni Torluccio) e Uilpa (Nicola Turco) sulle motivazioni della sentenza dell'Alta corte. «Il blocco di sei anni non è più tollerabile, per usare le stesse parole della Consulta, e rivendichiamo il pieno diritto al contratto, anche e soprattutto per il ruolo che autorevolmente la Corte ci riconosce. Quest'ultima ha infatti scritto nel suo dispositivo che il blocco sistematico della contrattazione sconfina in un bilanciamento irragionevole tra libertà sindacale ed esigenze di controllo della spesa».
«La Corte», proseguono i sindacati, «con parole nette e chiare, scrive che il sacrificio del diritto fondamentale tutelato dall'art. 39 Cost. non è più tollerabile. Noi lo diciamo da tempo mentre il governo ha irresponsabilmente aspettato che si pronunciasse la Corte». Tutti temi che il sindacato riproporrà mercoledì prossimo in occasione della manifestazione nazionale per il rinnovo dei contratti e «per una vera riforma della p.a.» (articolo ItaliaOggi del 24.07.2015).

APPALTI: Sulla finalità dell'informativa antimafia c.d. atipica.
L'informativa c.d. atipica, nel testo risalente all'art. 4, c.10, del d.lgs. n. 490 del 1994, ora tradotto nell'art. 84 del d.lgs. 159 del 2011, dà rilievo, agli effetti dell'adozione della misura di prevenzione, al riscontro di elementi significativi di tentativi di infiltrazione mafiosa.
La nozione di tentativo comporta che la situazione di condizionamento dell'impresa da parte della criminalità organizzata non debba essere in atto, ma che ciò possa avvenire con azioni dirette in modo non equivoco, allo scopo anzidetto, di cui emergano quantomeno elementi rivelatori anche se solo sul piano indiziario. Le cautele antimafia non obbediscono, infatti, a finalità di accertamento di responsabilità.
Esse possono muovere da un insieme di elementi e circostanze che, pur non dovendo necessariamente essere sostenute da rilevanze probatorie tipiche del diritto penale e del diritto processuale in genere, siano tali da formare un mosaico di condotte, intrecci, interferenze e contiguità che incidano sull'affidabilità dell'impresa che debba intrattenere rapporti economici con lo Stato o altri organismi di diritto pubblico.
L'innalzamento della soglia di anticipata tutela delle condizioni di sicurezza e ordine pubblico non esime, tuttavia, da una prudente, esatta ed esaustiva acquisizione e valutazione dei presupposti del provvedere, considerata anche l'incidenza della misura interdittiva sulla sfera di libertà e di iniziativa economica del destinatario.
Le conclusioni cui pervenga Autorità di pubblica sicurezza non si sottraggono al controllo esterno di legittimità, nei limiti del vizio di eccesso di potere nei profili dell'adeguatezza e della sufficienza dell'istruttoria, del corretto apprezzamento dei presupposti del provvedere, della ragionevolezza delle statuizioni adottate e della proporzionalità della scelta provvedimentale al fine di interesse pubblico perseguito (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 22.07.2015 n. 3636 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it)

EDILIZIA PRIVATA: E' illegittima la norma regolamentare comunale che obbliga alla presentazione della copia della documentazione dalla quale si rileva la regolarità con i tributi comunali significando che in mancanza di detta documentazione il permesso di costruire non potrà essere rilasciato.
Premesso che:

-
al giudice amministrativo è consentito disapplicare, ai fini della decisione sulla legittimità del provvedimento amministrativo, la norma secondaria di regolamento, qualora essa contrasti in termini di palese contrapposizione con il disposto legislativo primario, cui dovrebbe dare esecuzione;
- il giudice amministrativo, in applicazione del principio della gerarchia delle fonti, può valutare direttamente, attraverso lo strumento della disapplicazione del regolamento, il contrasto tra provvedimento e legge, eventualmente annullando il provvedimento a prescindere dell'impugnazione congiunta del regolamento,
nella fattispecie in esame sussiste il dedotto contrasto della citata prescrizione regolamentare con la disciplina di rango sovraordinato, rappresentata dal disposto di cui all’art. 12, comma 1, d.P.R. n. 380/2001, ai sensi del quale “il permesso di costruire è rilasciato in conformità alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente”.
L’amministrazione intimata infatti, introducendo un ulteriore presupposto per il rilascio del permesso di costruire, attinente peraltro ad un ordine di valutazioni e di interessi estraneo alla materia urbanistico-edilizia, ha palesemente violato la norma suindicata, piegando l’esercizio del potere de quo, in deroga allo schema legislativo, al perseguimento di interessi eterogenei rispetto a quelli tipici.

Tanto premesso, ritiene il Tribunale che possa prescindersi dalla verifica della fondatezza dell’eccezione di inammissibilità del ricorso e dei motivi aggiunti formulata dalla parte resistente, sulla scorta dell’omessa impugnazione della delibera consiliare n. 71/2011, laddove subordina l’esame dell’istanza di permesso di costruire alla sussistenza di una situazione di regolarità tributaria in capo al richiedente il titolo edilizio: impugnazione che, secondo il Comune di Fisciano, avrebbe dovuto essere proposta allorché la società ricorrente ha ricevuto la nota prot. n. 19513 del 29.10.2013, con la quale, richiamata la citata delibera, veniva richiesta dall’amministrazione “copia della documentazione dalla quale si rileva la regolarità con i tributi comunali significando che in mancanza di detta documentazione il permesso non potrà essere rilasciato”.
Evidenziato infatti che la suddetta delibera assume, in parte qua, carattere regolamentare, essendo diretta a fissare in via generale ed astratta, sebbene praeter legem, i presupposti in presenza dei quali è assentibile l’istanza di rilascio del permesso di costruire, ritiene il Tribunale che l’interesse della parte ricorrente, rivolto all’annullamento del provvedimento applicativo di diniego, possa trovare pieno soddisfacimento nell’esercizio del potere di disapplicazione, alla luce dell’insegnamento della più recente giurisprudenza (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 3623 del 14.07.2014: “al giudice amministrativo è consentito disapplicare, ai fini della decisione sulla legittimità del provvedimento amministrativo, la norma secondaria di regolamento, qualora essa contrasti in termini di palese contrapposizione con il disposto legislativo primario, cui dovrebbe dare esecuzione" (Cons. Stato, sez. VI, 29.05.2008, n. 2535; ma si veda anche, nello stesso senso, Cons. Stato, sez. VI, 03.10.2007, n. 5098: “il giudice amministrativo, in applicazione del principio della gerarchia delle fonti, può valutare direttamente, attraverso lo strumento della disapplicazione del regolamento, il contrasto tra provvedimento e legge, eventualmente annullando il provvedimento a prescindere dell'impugnazione congiunta del regolamento").
Sussiste invero, nella fattispecie in esame, il dedotto contrasto della citata prescrizione regolamentare con la disciplina di rango sovraordinato, rappresentata dal disposto di cui all’art. 12, comma 1, d.P.R. n. 380/2001, ai sensi del quale “il permesso di costruire è rilasciato in conformità alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente”.
L’amministrazione intimata infatti, introducendo un ulteriore presupposto per il rilascio del permesso di costruire, attinente peraltro ad un ordine di valutazioni e di interessi estraneo alla materia urbanistico-edilizia, ha palesemente violato la norma suindicata, piegando l’esercizio del potere de quo, in deroga allo schema legislativo, al perseguimento di interessi eterogenei rispetto a quelli tipici.
L’accertata illegittimità della norma regolamentare, posta a fondamento del provvedimento di diniego impugnato, non può che ridondare nella invalidità di quest’ultimo, che deve quindi essere annullato, in accoglimento dei relativi motivi aggiunti: può quindi prescindersi, perché irrilevante ai fini del decidere, dall’esaminare funditus la censura con la quale la parte ricorrente ha dedotto di essere pienamente in regola dal punto di vista tributario (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 22.07.2015 n. 1611 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

TRIBUTIRendite, il Comune può impugnare davanti ai giudici fiscali. Contenzioso. La Cassazione legittima gli enti.
Il Comune è legittimato a impugnare le rendite catastali presso il giudice tributario.
Lo ha deciso la Corte di Cassazione –Sezz. unite civili– con l’ordinanza 21.07.2015 n. 15201, delineando un cambio di indirizzo sulla partecipazione dell’ente alla procedura di accertamento della rendita.
In passato, negli accertamenti Ici, spesso i Comuni hanno impugnato alcune attribuzioni di rendite effettuate dall’ex agenzia del Territorio perché ritenute sperequate rispetto all’effettiva redditività del bene. Su questo tema, l’orientamento giurisprudenziale di legittimità era rivolto a escludere la partecipazione del Comune al contenzioso, precisando che appartiene alla giurisdizione amministrativa la controversia instaurata per far dichiarare illegittimi i provvedimenti di classamento di immobili che pregiudicano il suo diritto a imporre il pagamento dell’Ici.
L’ordinanza del 21 luglio scorso si concentra sull’esegesi dell’articolo 2, secondo comma, del Dlgs 546/1992 e in particolare sulla frase «controversie promosse dai singoli possessori». Per la Cassazione, in una lettura letterale, logica e sistematica, nonché costituzionalmente orientata di questa norma deve escludersi che quell’inciso possa avere la funzione di contribuire (unitamente al profilo oggettivo) a delimitare la giurisdizione del giudice tributario: aver precisato soggetto “promotore” e oggetto della lite non concorrono a quel fine.
Diversamente, il Comune non avrebbe alcuna possibilità di agire in giudizio a tutela del proprio interesse, e ciò in contrasto con l’articolo 24, comma primo, della Costituzione, oppure, mentre il contribuente può impugnare la rendita catastale ricorrendo al giudice tributario, il Comune deve invece rivolgersi al giudice amministrativo, con l’effetto di dilapidare un bene prezioso come la giurisdizione.
Si innesta, inoltre, l’effetto di compromettere la certezza e la stabilità delle situazioni giuridiche, nonché la stessa funzionalità del processo, potendo intervenire sulla stessa questione decisioni contrastanti, irrimediabili. Ciò in quanto la possibilità di giudicati contrastanti nel nostro ordinamento è considerata e “risolta” solo nell’ambito della medesima giurisdizione.
Pertanto, la Cassazione, escluso che l’inciso «promosse dai singoli possessori» sia idoneo a condizionare i limiti della giurisdizione tributaria, statuisce che rientrano in quella anche le ipotesi in cui la rendita o l’atto di classamento siano impugnate dal Comune e non (o non solo) dal contribuente.
Si apre quindi, dirompente, un panorama operativo del tutto nuovo che necessita di importanti chiarimenti preliminari circa le modalità di notifica degli accertamenti catastali, anche ai Comuni, e dei relativi ricorsi, proprio nell’ottica della certezza del diritto, invocata dalla Corte di Cassazione come una delle motivazioni a supporto della decisione contenuta nell’ordinanza
(articolo Il Sole 24 Ore del 24.07.2015).

TRIBUTIIl catasto ai giudici tributari. Competenza sulle cause su classamento e rendite. CASSAZIONE/ Il dietrofront della Suprema corte. Tribunali fuori dal gioco.
Le cause relative al classamento degli immobili e all'attribuzione delle rendite catastali sono competenza del giudice tributario. Anche quando a ricorrere nei confronti dell'amministrazione non è il contribuente, ma il comune nel cui territorio si trova il bene accatastato.
È questa la decisione assunta dalle Sezz. unite civili della Corte di Cassazione nell'
ordinanza 21.07.2015 n. 15201, che ribalta gli orientamenti del passato e le conclusioni del pg (che nella sua requisitoria si era espresso a favore della giurisdizione del giudice amministrativo).
Il regolamento preventivo di giurisdizione era stato presentato dalla Ctp Trento dopo che un municipio aveva impugnato nei confronti della provincia autonoma la nuova rendita catastale attribuita ad alcuni impianti per la produzione di energia elettrica.
I dubbi nascono in quanto l'articolo 2 del dlgs n. 546/1992, che definisce l'oggetto della giurisdizione tributaria, fa riferimento tra l'altro a «controversie promosse dai singoli possessori». Ma le sezioni unite escludono che ciò possa far venir meno la competenza del giudice tributario quando a ricorrere sia un soggetto (in questo caso il comune) che pur non possedendo l'immobile gode comunque della relativa legittimazione sostanziale, per esempio perché da quella rendita dipende il relativo incasso Imu e Tasi.
In passato gli Ermellini avevano individuato nel Tar l'organo competente a decidere sulle impugnazioni proposte da enti locali nei confronti dell'Agenzia del territorio (si veda la pronuncia delle sezioni unite n. 675/2000). «Tuttavia occorre evidenziare che la giurisprudenza di questo giudice di legittimità in materia è in rapida e continua evoluzione», spiega la nuova ordinanza, «e, non senza esitazioni, comincia a mostrare la consapevolezza sia del fatto che il comune in relazione al classamento e alla rendita catastale è portatore di un proprio interesse ad agire sia del fatto che l'impugnazione deve essere valutata nel medesimo processo e in relazione a tutti i potenziali interessati».
Pertanto, alla luce di «una lettura costituzionalmente orientata», viene ribadita la competenza di Ctp e Ctr sulle controversie catastali nelle quali ad agire in giudizio sia il comune e non (o non solo) il contribuente (articolo ItaliaOggi del 23.07.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI SERVIZILa revisione dei prezzi non applicabile a rinnovi. Tar Lazio su appalti servizi.
Negli appalti di servizi le controversie sulla revisione prezzi sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sia che la contestazione riguardi la spettanza della stessa, sia l'esatto suo importo: la revisione prezzi si applica alle proroghe contrattuali e non ai rinnovi.

Lo afferma il TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, con la sentenza 21.07.2015 n. 9945 che in primo luogo precisa come l'obbligo di revisione del prezzo di un appalto di durata su base periodica ha lo scopo di munire i contratti di forniture e servizi di un meccanismo che, a cadenze determinate, comporti la definizione di un «nuovo» corrispettivo per le prestazioni oggetto del contratto, conseguente alla dinamica dei prezzi registrata in un dato arco temporale.
La legge è quindi a vantaggio di entrambi i contraenti: l'appaltatore vede ridotta, anche se non eliminata, l'alea propria dei contratti di durata, mentre la stazione appaltante vede diminuito il pericolo di un peggioramento della qualità o quantità di una prestazione, divenuta per l'appaltatore eccessivamente onerosa o, comunque, non remunerativa.
Ciò premesso i giudici affermano che le controversie in tema di revisione prezzi sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sia che la contestazione riguardi la spettanza della stessa, sia l'esatto suo importo come quantificato dal concreto provvedimento. Rispetto invece alla richiesta di revisione dei prezzi per i periodi di proroga, la sentenza stabilisce che è necessario dapprima qualificare i contratti sottoscritti e qualificati come contratti di proroga. Infatti la revisione dei prezzi dei contratti della p.a. si applica soltanto alle proroghe contrattuali non anche ai rinnovi.
Il criterio distintivo tra rinnovo e proroga è indicato nell'elemento della novità: si può parlare di proroga solo nel caso in cui vi sia l'integrale conferma delle precedenti condizioni o con la modifica di alcune di esse in quanto non più attuali, con il solo effetto del differimento del termine finale del rapporto, il quale rimane per il resto regolato dall'atto originario. Anche la sola modifica del prezzo pone il contratto nella categoria del rinnovo (articolo ItaliaOggi del 31.07.2015).
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MASSIMA
Il Collegio –alla luce di tutti gli atti depositati- condivide completamente le considerazioni svolte da controparte.
In particolare, si precisa quanto segue:
-a) in punto di giurisdizione, ai sensi dell'art. 133, comma 1, lett. e.2), c.p.a. le controversie in tema di revisione prezzi sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sia che la contestazione riguardi la spettanza della stessa, sia l'esatto suo importo come quantificato dal concreto provvedimento applicativo (cfr., TAR Lecce sez. III 10.10.2013 n. 2111);
-b) l’istituto della revisione prezzi oggi è disciplinato dall’art. 115 del codice appalti (DLGS n. 163/2006).
Come noto,
la revisione prezzi si applica ai contratti di durata, trascorso un determinato periodo di tempo dal momento in cui è iniziato il rapporto, e fino a quando lo stesso rapporto, fondato su uno specifico contratto, non sia cessato ed eventualmente sostituito da un altro.
Con la previsione dell’obbligo di revisione del prezzo di un appalto di durata su base periodica il legislatore ha inteso munire i contratti di forniture e servizi di un meccanismo che, a cadenze determinate, comporti la definizione di un "nuovo" corrispettivo per le prestazioni oggetto del contratto, conseguente alla dinamica dei prezzi registrata in un dato arco temporale, con beneficio per entrambi i contraenti, in quanto incidente sull’equilibrio contrattuale.
Da un lato l’appaltatore vede ridotta, anche se non eliminata, l’alea propria dei contratti di durata, dall’altro la stazione appaltante vede diminuito il pericolo di un peggioramento della qualità o quantità di una prestazione, divenuta per l’appaltatore eccessivamente onerosa o, comunque, non remunerativa
(cfr., Tar Lazio–Roma sez. III-quater 18.03.2014 n. 2953).
-c) Rispetto invece alla richiesta di revisione dei prezzi per i periodi di proroga, è necessario dapprima qualificare i contratti sottoscritti e qualificati come contratti di proroga.
Infatti
la revisione dei prezzi dei contratti della PA si applica soltanto alle proroghe contrattuali non anche ai rinnovi.
Si intendono come rinnovi quei contratti successivi al contratto originario con cui, attraverso specifiche manifestazioni di volontà, è stato dato corso tra le parti a distinti, nuovi ed autonomi rapporti giuridici, ancorché di contenuto analogo a quello originario.
Il criterio distintivo tra rinnovo e proroga è indicato nell’elemento della novità: si può parlare di proroga solo nel caso in cui vi sia l'integrale conferma delle precedenti condizioni o con la modifica di alcune di esse in quanto non più attuali, con il solo effetto del differimento del termine finale del rapporto, il quale rimane per il resto regolato dall'atto originario.
Anche la sola modifica del prezzo pone il contratto nella categoria del rinnovo.
In questa ipotesi, (e in particolare quando il contratto rinnovato ha effettuato l’adeguamento del prezzo), non vi può essere spazio per la revisione del prezzo, perché con l’adeguamento del prezzo già si attua lo scopo della revisione prezzi.
In definitiva, se la fonte del rapporto cambia, per rinnovo o altro, l’appaltatore non potrà più invocare l’adeguamento dei prezzi, pur se la prestazione persiste nei termini precedenti: insomma, il rinnovo “comporta una nuova negoziazione con il medesimo soggetto, che può concludersi con l'integrale conferma delle precedenti condizioni o con la modifica di alcune di esse in quanto non più attuali … la proroga, invece, consiste nel solo effetto del differimento del termine finale del rapporto, il quale rimane per il resto regolato dall'atto originario"
(così, ex pluribus, C.d.S., III, 09.05.2012, n. 2682);
-d) nel caso di specie –alla luce degli atti depositati in giudizio e di tutte le precisazioni fornite dalla controparte– si versa indubbiamente in ipotesi di <rinnovo>.
Questo –in special modo– avuto riguardo alla modificazione soggettiva intervenuta in seno all’originaria ATI; al nuovo contratto n. 8769/2013; e alla autonoma determinazione dirigenziale n. 293/DIR10/2012 che lo ha preceduto.
Ad avviso del Collegio, si è trattato di rinnovo del contratto originario e non già di proroghe atteso che non vi è stato il mero spostamento in avanti del termine di scadenza del rapporto, bensì la rinegoziazione del complesso delle condizioni.
In ogni caso, vi è stata sempre un'istruttoria da parte dell’Amministrazione diretta a verificarne attualità e convenienza, nonché l’espressa adesione alla proposta della medesima Amministrazione da parte del contraente.
In sintesi, può senz'altro affermarsi che vi è stato un rinnovato esercizio dell'autonomia negoziale;
-e) vi è ancora da osservare che –nella specie– quando il Comune ha voluto adottare semplici atti di proroga lo ha fatto espressamente (cfr., atto aggiuntivo al primo contratto di appalto n. 6307/2007, recante la proroga fino al 05.12.2012).
In conclusione, stante la legittimità dell’operato della PA, la completezza dell’istruttoria svolta e l’adeguatezza della motivazione del provvedimento impugnato, il ricorso deve essere respinto.

EDILIZIA PRIVATAE' illegittima la determinazione dirigenziale recante l'ingiunzione di pagamento delle somme occorse per la demolizione d'ufficio di opere edilizie abusivamente realizzate, che non sia stata preceduta da una valutazione tecnico-economica della giunta municipale.
... per l'annullamento:
- del provvedimento prot. n. 36116 del 09.09.2008 recante ingiunzione al pagamento di euro 7.703,88 per le spese di demolizione di opere abusive realizzate dal ricorrente;
- della determina dirigenziale n. 828 del 21.07.2005 con cui è approvato il certificato di regolare esecuzione delle opere di demolizione e di ogni altro ad essi presupposto, collegato e consequenziale;
...
L’art. 41 del d.P.R. n. 380/2001, nel testo in vigore al tempo dell’adozione dell’ordinanza di demolizione stabilisce che “In tutti i casi in cui la demolizione deve avvenire a cura del comune, essa è disposta dal dirigente o dal responsabile del competente ufficio comunale su valutazione tecnico-economica approvata dalla giunta comunale”.
La disposizione risponde alle regole di trasparenza dell’azione amministrativa, insite nel principio di adeguata motivazione dei provvedimenti delle pubbliche autorità (art. 3 della L. n. 241/1990), riveniente dal più generale principio di buon andamento dei pubblici uffici (art. 97 Cost.), a tutela e garanzia degli amministrati.
Per come chiaramente è emerso dalla complessa istruttoria svolta, non risulta che la giunta municipale abbia espresso un giudizio di congruità della rilevante somma che il dirigente, successivamente, ha liquidato a carico del ricorrente per le spese della demolizione, nonostante un diverso preventivo richiamato nell’ordinanza di demolizione di importo di 2.000,00 euro più iva.
La giurisprudenza d’altro canto ha pacificamente affermato che è illegittima la delibera dirigenziale recante l'ingiunzione di pagamento delle somme occorse per la demolizione d'ufficio di opere edilizie abusivamente realizzate, che non sia stata preceduta da una valutazione tecnico-economica della giunta municipale (così Consiglio di Stato, sez. V, 02.11.2007 n. 5966, Tar Lazio–Roma, II-bis, n. 7887 dell’11/10/2011) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 21.07.2015 n. 3854 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Sull'istituto della concessione amministrativa e chiarimenti sui tratti distintivi della concessioni di servizi rispetto alla concessione di lavori pubblici.
Lo strumento privilegiato per l'affidamento di concessioni di lavori pubblici è quello della finanza di progetto.

L'istituto della concessione amministrativa, secondo il costante orientamento delle Sezioni unite della Cassazione, è connotato dalla permanenza nel corso del rapporto concessorio, e fino al suo scioglimento, degli stessi poteri pubblicistici dell'autorità concedente che hanno dato luogo alla relativa costituzione, benché questa si avvalga di moduli consensuali di stampo privatistico, da considerarsi comunque sempre in funzione sostitutiva dei primi.
Al fine di distinguere le figure di concessione di lavori pubblici e quella di pubblico servizio oltre al criterio della "prevalenza economica", deve essere svolta una valutazione di tipo funzionale, in virtù della quale deve optarsi per l'ipotesi della concessione di lavori pubblici "se la gestione del servizio è strumentale alla costruzione dell'opera, in quanto diretta a consentire il reperimento dei mezzi finanziari necessari alla realizzazione, mentre si versa in tema di concessione di servizi pubblici quando l'espletamento dei lavori è strumentale, sotto i profili della manutenzione, del restauro e dell'implementazione, alla gestione di un servizio pubblico il cui funzionamento è già assicurato da un'opera esistente".
Pertanto, in base al criterio funzionale, in caso di concessione di lavori l'attività di gestione dell'opera realizzata in esecuzione della stessa è strumentale a reperire le risorse necessarie a sostenerne il costo di costruzione. Nel caso inverso in cui i lavori abbiano la finalità di rendere possibile o a creare le condizioni per l'esercizio, o il miglior esercizio, del servizio pubblico, il contratto è qualificabile come concessione di servizi.
Quindi traslando queste coordinate di carattere generale al caso di specie, è indubbio che l'affidamento delle aree pubbliche di sosta in virtù di appositi provvedimenti concessori è strumentale alla gestione del servizio di riscossione dei "proventi dei parcheggi a pagamento" (art. 7, c. 7, del codice della strada), anch'essa affidato in concessione in luogo dell'esercizio diretto dello stesso da parte dell'ente comunale proprietario (ai sensi del successivo c. 8).
L'attività di riscossione è infatti l'unica economicamente valutabile in questa tipologia di concessione, dal momento che i proventi con essa ottenuti costituiscono l'unico cespite patrimoniale attraverso il quale il concessionario può conseguire il margine positivo di gestione del servizio. Per contro, con la gestione delle aree ed il mantenimento della loro funzionalità viene costituito in favore del concessionario il necessario titolo giuridico, opponibile ai terzi, mediante il quale questo è posto nelle condizioni di esercitare l'attività di interesse pubblico affidatagli dall'autorità concedente.
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Lo strumento privilegiato per l'affidamento di concessioni di lavori pubblici è quello della finanza di progetto (o project financing, ora disciplinato in via generale agli artt. 152 e ss. d.lgs. n. 152/2006). Attraverso il project financing le pubbliche amministrazioni, non in grado di finanziare la costruzione dell'opera, possono ricorrere a capitali di origine privata (e principalmente dalle banche).
A loro volta, in tanto i privati possono essere indotti a sovvenire investimenti di rilevante portata come quelli richiesti dalla costruzione di opere pubbliche o di pubblica utilità, e ad assumerne i rischi inerenti alla costruzione e gestione, in quanto il relativo progetto appaia in grado di autosostenersi sul piano economico, per la sua capacità di generare alla fine della durata prevista un margine gestionale positivo (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 21.07.2015 n. 3631 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it)

ATTI AMMINISTRATIVIGiudizi generici (spesso) ingiusti. Negligenza del magistrato sotto tiro.
Se il giudice di merito non tiene conto delle circostanze messe in luce dalla parte ricorrente, limitandosi a pronunciare in astratto e genericamente, questo è sintomatico di una possibile decisione ingiusta. La manifesta negligenza nella valutazione dei dati istruttori è oggetto di possibile rilievo in cassazione ai fini del controllo di legittimità.

Così ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. VI civile, con la sentenza 20.07.2015 n. 15175.
Al di là della specifica vicenda di merito, il principio generale, di ordine processuale, espresso dai giudici di legittimità attiene all'ammissibilità della censura in sede di cassazione, espressa «non già come valutazione della giustezza o meno della decisione, valutazione che non compete alla Corte, ma come indice della presenza di difetti sintomatici di una possibile decisione ingiusta», come quando la negligenza dell'esame degli elementi istruttori ha avuto un'incidenza causale sulla decisione con riferimento a un «punto decisivo», il cui corretto esame la decisione stessa avrebbe invece potuto cambiare.
Sono dunque rilevanti in tal senso quegli elementi non adeguatamente e specificamente considerati dal giudice del merito e capaci di generare una difettosa ricostruzione del fatto dedotto in giudizio, con conseguente legittima censura avente a oggetto il vizio motivazionale della sentenza. Anche dopo l'abrogazione del vizio di insufficiente motivazione è del resto possibile far valere il vizio di violazione della legge, quando una motivazione non è stata formulata affatto, oppure vi è una motivazione apparente, o una motivazione obiettivamente incomprensibile. In questi casi, infatti, il vizio di motivazione diventa un vero e proprio vizio di violazione della legge, che impone al giudice di motivare la sentenza.
Quanto poi al significato del concetto di omesso esame di un fatto storico decisivo per il giudizio, allorché il fatto storico sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, anche se poi la sentenza non ha dato conto di tutte le risultanze probatorie, l'omesso esame di elementi istruttori non integra di per sé vizio della sentenza (articolo ItaliaOggi del 23.07.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

TRIBUTILegittime le regole comunali sui canoni. Consiglio di Stato. Per le concessioni ai gestori dei servizi pubblici.
Sono legittimi i regolamenti comunali applicativi del canone di concessione previsto dall’articolo 27 del Codice della strada, posto a carico dei gestori di servizi pubblici (telecomunicazioni e acquedotto).
Lo ha chiarito il Consiglio di Stato -Sez. V- con sei ordinanze depositate il 16 luglio (ordinanza 16.07.2015 n. 3214, n. 3215, n. 3216, n. 3217, n. 3218, n. 3219), sospendendo l’efficacia di altrettante sentenze del Tar Milano che aveva annullato integralmente i regolamenti adottati dagli enti locali.
I giudici di Palazzo Spada confermano l’orientamento espresso con la sentenza 31.12.2014 n. 6459 (citata nelle sei ordinanze del 16 luglio), che aveva ritenuto applicabile il canone concessorio anche alle occupazioni dei sottoservizi telefonici e delle altre reti di telecomunicazione, finendo per conferire al prelievo in questione la patente di legittimità.
Tuttavia si è sviluppato un contenzioso di ampia portata, in prevalenza in Lombardia, che si è concluso in primo grado con l’annullamento dei regolamenti istitutivi del prelievo. Dall’inizio del 2015 sono state emesse ben 35 sentenze, da parte del Tar Lombardia (Milano e Brescia) e di altri Tar (L’Aquila e Catanzaro).
In particolare il Tar Milano, con le sue 25 sentenze del 2015 (l’ultima in ordine cronologico è la n. 1545 del 03.07.2015), ha censurato i regolamenti locali per diversi motivi, tra cui: l’importo del canone deve essere indicato nell’atto di autorizzazione o concessione; il comune non può determinare le tariffe in base all’estensione delle aree (adottando un solo criterio quantitativo); l’importo a titolo di Cosap-Tosap deve costituire la misura massima applicabile ed eventuali canoni devono essere detratti da tale misura massima; non è possibile prevedere un prelievo in presenza di una convenzione che aveva già previsto un corrispettivo per la stessa occupazione.
Tutti rilievi che non sembrano considerare l’ampia potestà regolamentare degli enti locali riconosciuta dal Consiglio di Stato con la sentenza n. 6459/2014. Decisione che, pur provenendo dal vertice della giustizia amministrativa, viene prima ignorata dal Tar Milano, poi ritenuta non in contrasto con le valutazioni effettuate in sede di esame delle censure proposte dal gestore del servizio (si veda la sentenza del Tar Milano 1007/2015), successivamente non condivisa e considerata «isolata nel panorama giurisprudenziale» (si veda Tar Milano n. 1410/2015).
Ora il Consiglio di Stato rimette in discussione l’orientamento contrario dei giudici di primo grado. Al momento quindi i comuni possono sperare in un’inversione di rotta da parte dei Tar oppure nel verdetto definitivo di Palazzo Spada, che dovrebbe chiudere la partita a favore degli enti locali (ove l’esito del giudizio cautelare venga confermato nel merito).
Si tratta peraltro di un contenzioso che si trascinerà ancora per diverso tempo, poiché riguardante richieste di pagamento almeno fino a tutto il 2015, quindi seguiranno altri ricorsi o giudizi di appello. Dal 2016 è invece prevista l’introduzione di un nuovo canone di concessione “unico”, che dovrebbe sostituire l’intero comparto dei tributi minori (imposta sulla pubblicità, Tosap, Cosap) e assorbire anche il canone del Codice della strada
(articolo Il Sole 24 Ore del 28.07.2015).

APPALTIRequisiti integrabili. Tar Campania su cessioni rami d'azienda.
È legittimo documentare i requisiti con riferimento alle referenze dell'impresa di cui si è acquisito o affittato il ramo di azienda e questo anche in assenza di apposita previsione nel bando di gara di appalto e senza necessità di formalizzare un contratto di avvalimento.

Lo afferma il TAR Campania-Napoli, Sez. VI,, con la sentenza 15.07.2015 n. 3790 in tema di documentazione dei requisiti di partecipazione a una gara.
I giudici in particolare hanno stabilito che al fine di integrare i requisiti di partecipazione ad una gara di appalto e a prescindere da un'espressa previsione del bando, sono certamente riconducibili al patrimonio di un'impresa i titoli posseduti da altro soggetto che gli abbia ceduto o affittato l'azienda o un suo ramo. Per il Tar, infatti, attraverso il contratto di cessione o di affitto, si determina il «subingresso del contraente in tutti i rapporti attivi e passivi del cedente o locatore ivi compresi i titoli e le referenze che derivano dallo svolgimento dell'attività svolta».
La precisazione rileva soprattutto con riguarda al contratto di affitto: «È applicabile», si legge nella sentenza, «al contratto di affitto il principio di diritto affermato a proposito della cessione di ramo d'azienda, ossia che sono riconducibili al patrimonio della società o dell'imprenditore cessionari i requisiti posseduti dal soggetto cedente, giacché essi devono considerarsi compresi nella cessione in quanto strettamente connessi all'attività propria del ramo ceduto».
Nel caso esaminato dai giudici la società che aveva partecipato alla gara era stata costituita un anno prima e i requisiti richiesti abbracciavano più anni, per cui il concorrente aveva fatto riferimento ai requisiti di altre imprese di cui aveva acquisito la disponibilità di rami di azienda.
Ovviamente è elemento essenziale che l'affitto o la cessione siano intervenuti prima dell'avvio della procedura di gara. Per questa ipotesi la sentenza specifica che l'integrazione dei requisiti mancanti scatta a prescindere da un'espressa previsione del bando e non era quindi necessario formalizzare un apposito contratto di avvalimento (articolo ItaliaOggi del 24.07.2015).
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MASSIMA
3.2 Quanto al requisito sub b), relativo alla “capacità tecnica” il costituendo raggruppamento temporaneo aggiudicatario ha allegato agli atti di gara, come prescritto dal bando, una dichiarazione sostitutiva del 19.02.2015 resa ai sensi dell’art. 47 del d.p.r. n. 445/2000 con cui R.G., nella veste di legale rappresentante della Mate soc. coop. capogruppo, e A.O., U.U. e R.T., quali mandanti e liberi professionisti, dichiaravano, sotto la propria rispettiva responsabilità: “che il raggruppamento temporaneo nel suo complesso possiede i requisiti minimi di idoneità tecnica ed economica di cui al punto L ivi riportando l’elencazione di ciascuno dei servizi di pianificazione urbanistica espletati dal G. quale progettista incaricato in un periodo compreso tra il 2009 ed il 2011 per un fatturato di € 369.075,74, e degli strumenti di pianificazione urbanistica comunale redatti dal Gerometta quale progettista incaricato, salvo il primo quale co-progettista, nel periodo compreso tra il 2008 ed il 2013 per vari Comuni di popolazione superiore a 20.000 abitanti".
Nella specie la ditta aggiudicataria, oltre la predetta autodichiarazione, ha altresì prodotto agli atti di gara una dichiarazione del 19.02.2015 a firma di R.G. quale legale rappresentante della Mate soc. coop. attestante che la predetta società, in forza di distinti contratti di affitto d’azienda stipulati con atti notarili del 30.12.2014, aveva affittato la società “Veneto progetti s.c.” –di cui il G. era legale rappresentante- con sede in San Vendemiano (Treviso) e la società Tecnicoop soc. coop. con sede in Bologna via ... n. 21, attestando altresì di allegare i detti contratti di affitto.
Come noto,
l’art. 2555 c.c. definisce l’azienda come il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa per cui essa ricomprende in sé sia i beni immateriali che quelli materiali, nonché tutti i rapporti giuridici inerenti l’esercizio dell’impresa, e dunque i contratti, i crediti ed i debiti.
Il contratto di affitto d’azienda è previsto dall’art. 2562 c.c. che opera un rinvio alla disposizione di cui all’art. 2561 c.c. stabilendo che all’affitto si applichino le disposizioni in tema di usufrutto d’azienda.
L’affittuario quindi vanta sui beni aziendali un diritto personale di godimento e i suoi poteri ed i suoi doveri corrispondono essenzialmente a quelli dell’usufruttario, sicché egli ha il potere di disporre dei beni aziendali nel rispetto del complessivo vincolo di destinazione. Nella sostanza, l’affitto di azienda è un contratto di locazione avente ad oggetto un bene produttivo, ossia l’azienda intesa come complesso organizzato di beni preordinati all’esercizio di una attività d’impresa.
L’affitto d’azienda oltre ad essere disciplinato dalle norme che regolano l’usufrutto di azienda, in forza del richiamo operato dall’art. 2562 del codice civile, è altresì regolato da alcune delle norme che regolano la cessione d’azienda. In particolare si applica all’affitto di azienda, per espresso richiamo, l’art. 2558 cc. che regola la successione nei contratti nel caso del trasferimento d’azienda. La norma prevede un’ipotesi di cessione del contratto, ricondotta alla legge che, al verificarsi di una vicenda successoria relativa all’azienda, prevede il subentro automatico dell’acquirente nei contratti stipulati per l’esercizio della stessa, così derogando alla disciplina generale in materia di cessione del contratto che, come noto, richiede per il perfezionamento della fattispecie il consenso del contraente ceduto (art. 1406 cc.).
In seguito all’affitto d’azienda il locatario ha quindi la facoltà di usufruire del patrimonio la cui disponibilità è stata trasferita, e quindi di comprovare i requisiti richiesti dal bando in sede di gara, poiché con la cessione dei contratti si perfeziona il passaggio della capacità economica e delle competenze possedute dall’affittante.

Ciò premesso, ritiene il Collegio che,
al fine di integrare i requisiti di partecipazione ad una gara di appalto ed a prescindere da un’espressa previsione del bando, sono certamente riconducibili al patrimonio di un’impresa i titoli posseduti da altro soggetto che gli abbia ceduto o affittato l’azienda o un suo ramo, in quanto detti contratti comportano il subingresso del contraente in tutti i rapporti attivi e passivi del cedente o locatore ivi compresi i titoli e le referenze che derivano dallo svolgimento dell'attività svolta. Infatti, è applicabile al contratto di affitto il principio di diritto affermato a proposito della cessione di ramo d’azienda, ossia che sono riconducibili al patrimonio della società o dell’imprenditore cessionari i requisiti posseduti dal soggetto cedente, giacché essi devono considerarsi compresi nella cessione in quanto strettamente connessi all'attività propria del ramo ceduto (Cons. Stato, sez. V, 10.09.2010, n. 6550).
Per l’ipotesi di cessione di ramo d’azienda (cui l’affitto è equiparato) avvenuta prima della partecipazione alla gara l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha osservato che: “
sebbene per suo tramite si realizzi una successione a titolo particolare, essa tuttavia assume una forma del tutto peculiare, consistente nel passaggio all'avente causa dell'intero complesso dei rapporti attivi e passivi nei quali l'azienda stessa o il suo ramo si sostanzia (tanto da farsi riferimento in giurisprudenza al concetto di trasferimento di universitas, v. Cass., 12.06.2007, n. 13765; Cass., 13.06.2006, n. 13676; Cass., 19.07.2000, n. 9460). Il che rende la vicenda ben suscettibile di comportare pur essa la continuità tra precedente e nuova gestione imprenditoriale”.
Nel caso in cui, come nella specie, l’affitto sia intervenuto prima dell’avvio della procedura di gara, sono certamente riconducibili al patrimonio della società o dell’imprenditore locatari prima della partecipazione alla gara di un’azienda i requisiti posseduti dal soggetto locatore, giacché essi devono considerarsi compresi nella cessione in quanto strettamente connessi all'attività propria del locatore, e pertanto possono integrare i requisiti di partecipazione ad una gara di appalto a prescindere da un'espressa previsione del bando.
Non può quindi sostenersi pertanto che l’aggiudicataria avrebbe dovuto dichiarare nella domanda di partecipazione, a pena di esclusione, l'intenzione di avvalersi dei requisiti acquisiti per effetto dell’affitto delle aziende stipulato a anteriormente alla procedura. Del resto l’art. 51 del d.lgs. 163 cit., nel disciplinare le vicende soggettive del candidato, dell’offerente e dell’aggiudicatario nella fase successiva all’avvio della procedura di gara prevede nei casi, tra l’altro, di cessione o affitto l’azienda o di un ramo di essa finanche la possibilità di sub ingresso del cessionario ad cedente subordinatamente all’accertamento del possesso dei requisiti di ordine generale e speciale.
Del resto al fine di assicurare la massima estensione dei principi comunitari e delle regole di concorrenza negli appalti di servizi o di servizi pubblici locali, per la comprova del requisito in parola il Codice dei contratti, al successivo comma 4-bis dello stesso art. 42 ammette finanche la possibilità di ricorrere a contratti di locazione finanziaria con soggetti terzi.

COMPETENZE PROGETTUALICatasto, chiarezza sulle competenze. La sentenza della consulta.
Con la sentenza 15.07.2015 n. 154 la Corte costituzionale ha dichiarato illegittima la disposizione di legge che amplia le competenze degli agrotecnici in materia catastale ed estimativa nel settore immobiliare (art. 26, comma 7-ter, dl 248/2007).
La questione di legittimità era stata sollevata dal Consiglio di stato nel 2014 in base a osservazioni di merito e di sostanza. Nella sostanza, il contrasto con l'art. 77, comma 2 della Costituzione perché inserita all'interno di un «Milleproroghe» in assenza dei requisiti di straordinarietà e urgenza (nelle parole della Corte «uso improprio, da parte del Parlamento, di un potere che la Costituzione attribuisce a esso»).
Nel merito, il contrasto con l'art. 3 della Costituzione nella parte in cui «verrebbe a incidere sulla leale concorrenza in danno alla categoria dei geometri, ad onta della comprovata e più adeguata preparazione di questi ultimi nella materia catastale».
«La sentenza», commenta Maurizio Savoncelli, presidente del Cngegl, «rimanda ai profili culturali che abilitano ciascuna Categoria a svolgere specifiche attività intellettuali. Nella fattispecie, il catasto ha carattere di materia principale nel curriculum formativo di ogni geometra, abilitandolo a una competenza professionale specifica, non posseduta da altre categorie» (articolo ItaliaOggi del 30.07.2015).

PUBBLICO IMPIEGOContratti, niente responsabilità ai sindacati.
Personale. Le Sezioni unite della Cassazione negano la possibilità di danno erariale in caso di integrativi illegittimi.

Con l'ordinanza 14.07.2015 n. 14689 le Sezz. unite civili della Corte di Cassazione escludono la responsabilità erariale per le organizzazioni sindacali che hanno firmato negli enti pubblici contratti integrativi illegittimi. Un tema, quello della responsabilità prodotta dai decentrati fuori norma, tornato di stretta attualità dopo che la Corte dei conti (sentenza 98/2015 della sezione giurisdizionale del Veneto, su cui si veda Il Sole 24 Ore del 5 luglio) ha negato che la sanatoria scritta all’articolo 4 del Dl 16/2014 cancelli anche il danno erariale.
Come la stessa Cassazione dà atto nell’incipit del suo argomentare, da tempo la giurisprudenza ha esteso il concetto di Pa, anche ai fini della responsabilità erariale, così da includervi tutti quei soggetti partecipi della gestione o comunque rappresentativi di interessi generali.
In questo contesto vanno innestate alcune pronunce della Corte dei conti (sezione giurisdizionale Lombardia, 10.03.2006 n. 172 e 14.06.2006 n. 372) che giungono ad affermare la corresponsabilità dei rappresentanti sindacali nella sottoscrizione di clausole contrattuali decentrate nulle per contrasto con quelle negoziali nazionali, di rango superiore, concorrendo con il loro apporto a danneggiare l’erario della singola amministrazione, almeno nei casi in cui le disposizioni ed i limiti dei contratti collettivi nazionali di comparto fossero di piana lettura e applicazione.
Nelle sue pronunce, però, la Corte ha quantificato la portata di questa corresponsabilità al solo fine di scomputarla da quella dei rappresentanti della Pa danneggiata.
Le Sezioni Unite escono dal solco tracciato dai giudici contabili, perché, ricordando che con la privatizzazione la disciplina del rapporto di lavoro è contrattualizzata e che i rapporti sindacali nel comparto pubblico sono ormai uniformi a quelli vigenti nell’impresa, secondo quanto espressamente previsto dagli articoli 2 e 40 del Dlgs 165/2001, chiariscono che i sindacalisti nello svolgimento della loro funzione non partecipano a quella pubblica, ma, anzi, se ne distaccano per natura in maniera completamente opposta, mirando a perseguire gli interessi dei lavoratori.
Quindi essi si sottraggono sia all’ambito dei soggetti assimilabili alla Pubblica amministrazione sia, conseguentemente, a quello della responsabilità e della giurisdizione contabile, anche qualora il loro operato concorra alla stipula di clausole contrattuali decentrate nulle per violazione di quelle di riferimento di portata collettiva nazionale.
Questo approdo giurisprudenziale tuttavia, pur non escludendo a rigore che la Corte dei conti valuti comunque la pressione del sindacato come un fattore riduttivo della colpa degli esponenti della parte pubblica, in concorrenza con altri elementi riscontrabili nel caso concreto e fatti valere dagli interessati in giudizio, non di meno potrebbe indurre i rappresentanti dell’amministrazione a una gestione più prudente delle trattative.
Nel caso del salario accessorio va ricordata anche la possibilità di avviare una disciplina unilaterale, secondo quanto previsto dall’articolo 40, comma 3-ter, del Dlgs 165/2001, quanto meno nelle more di un assestamento della giurisprudenza contabile in merito alla valenza da attribuire al sindacato ai fini del concorso di colpa e del corrispondente discarico della responsabilità contabile dei funzionari pubblici
 (articolo Il Sole 24 Ore del 22.07.2015).

VARI: Esami avvocati, non basta il voto in forma numerica.
Nell'esame di abilitazione alla professione di avvocato la valutazione in forma numerica è insufficiente.

Questo è quanto ha stabilito il TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, con la sentenza 14.07.2015 n. 9366 rivedendo il tradizionale orientamento.
Ad avviso del collegio, in assenza della predeterminazione normativa di un metodo, è possibile immaginare vari sistemi di motivazione del giudizio. Non è, però, ammissibile che sia sottratto a qualsiasi forma di esternazione e quindi di conoscibilità da parte del destinatario.
In considerazione dell'evoluzione dell'ordinamento in materia di esami di abilitazione alla professione di avvocato e in particolare della novella introdotta dall'art. 46, comma 5, della legge 31.12.2012, n. 247, che ha previsto il meccanismo basato sulle annotazioni dirette sull'elaborato da esaminare, deve ritenersi che il giudizio negativo in ordine alle prove scritte di tali esami di abilitazione non possa fondarsi sulla mera indicazione di un punteggio numerico, ma richieda anche, a pena di illegittimità, «che negli elaborati corretti sia presente una esternazione grafica o testuale della commissione esaminatrice, la quale possa fungere da tramite logico-argomentativo tra i criteri generali e l'espressione finale numerica del singolo giudizio». Deve, quindi, ritenersi illegittimo il giudizio negativo espresso in forma meramente numerica in ordine alle prove scritte qualora dagli atti non si riscontri alcuna espressione della commissione.
I giudici ricordano, infine, come l'obbligo di motivare i provvedimenti amministrativi è diretto a realizzare la conoscibilità, e quindi la trasparenza, dell'azione amministrativa, «ai quali va riconosciuto il valore di principi generali, diretti ad attuare sia i canoni costituzionali di imparzialità e buon andamento dell'amministrazione, sia la tutela di altri interessi costituzionalmente protetti, come il diritto di difesa nei confronti della stessa amministrazione».
L'obbligo di motivazione, quindi è radicato da un lato negli artt. 97 e 113 della Costituzione, in quanto costituisce corollario dei principi di buon andamento e d'imparzialità dell'amministrazione e, dall'altro, nell'articolo 24 della Costituzione, in quanto consente al destinatario del provvedimento, che ritenga lesa una propria situazione giuridica, di far valere la relativa tutela giurisdizionale (articolo ItaliaOggi Sette del 27.07.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - TRIBUTISpese compensate eccezionalmente e motivando. Contenzioso fiscale.
Si rafforza sempre più lo stop alle compensazioni a pioggia nel processo tributario. La vittoria non può mai tradursi di fatto in una sconfitta. È quello che accade se il giudice tributario compensa le spese di lite solo perché la causa è di valore modesto.
La compensazione deve essere un fatto eccezionale ed esige un'adeguata motivazione. Si lede, infatti, il diritto di agire in giudizio se la parte vittoriosa non recupera le spese sostenute. Inoltre, subisce un evidente danno se l'importo delle spese supera quello del pregiudizio economico che ha inteso evitare agendo in giudizio.

Questo importante principio è stato affermato dalla Corte di Cassazione, Sez. VI civile, con l'ordinanza 13.07.2015 n. 14550.
Per i giudici di legittimità, ove non sussista reciproca soccombenza, è legittima la compensazione delle spese processuali se concorrono «giusti motivi, esplicitamente indicati nella motivazione». Il giudice, però, non può motivare la compensazione delle spese in considerazione del «valore assai esiguo della causa». In questo modo la parte processuale vittoriosa viene penalizzata e di fatto rimane soccombente nel caso in cui «l'importo delle spese sia tale da superare quello del pregiudizio economico» che ha inteso evitare agendo in giudizio.
Del resto, la Cassazione si è già espressa più volte in tal senso (si veda ordinanza 766/2014), sostenendo che la condanna al pagamento delle spese processuali di chi soccombe nel giudizio tributario è una forma di tutela della parte vittoriosa, che ha fatto valere in sede giudiziale le proprie ragioni e ha tutto l'interesse a recuperare, in tutto o in parte, i costi sostenuti. La compensazione delle spese deve essere limitata a casi eccezionali e esige un'adeguata motivazione.
Quindi, il giudice tributario non può limitarsi nella sentenza a compensare in tutto o in parte le spese per giusti motivi. Si tratta di una formula criptica che viola il diritto di difesa perché non consente alle parti di esaminare le ragioni poste a base della decisione. Vero è che la soccombenza in giudizio del contribuente o del fisco non comporta l'automatica condanna a pagare le spese processuali.
Infatti, come posto in rilievo dalla commissione tributaria regionale di Milano, sezione XXX, con la sentenza 103/2013, la novità delle questioni trattate, la loro complessità o le contrastanti prese di posizione della giurisprudenza su determinate materie possono spingere una delle parti a proporre azione giudiziale e, in caso di esito negativo della causa, il giudice può decidere di non addebitare i costi del processo (articolo ItaliaOggi del 23.07.2015).

APPALTI SERVIZI: Agli affidamenti aventi ad oggetto le concessioni di servizi ex art. 30 D.Lgs. n. 163/2006 non si applicano, secondo un principio di "eterointegrazione", le disposizioni del Codice degli Appalti.
Non trovano in alcun modo diretta applicazione (secondo un principio di "eterointegrazione") le disposizioni del D.Lgs. n. 163/2006 (Codice degli Appalti), agli affidamenti aventi ad oggetto concessioni di servizi salvo che possano essere configurate esse stesse quali principi fondamentali generali relativi ai contratti pubblici e/o risultino diretta specificazione di detti principi, ovvero siano espressamente richiamate nel predetto art. 30 D.Lgs. n. 163/2006.
In particolare, nel caso di specie, non trova automatica e diretta applicazione la disciplina (di dettaglio) di cui all'art. 75 del D.Lgs. n. 163/2006, trattandosi di disposizione "preordinata alla costituzione di idonea garanzia per la valutazione dell'idoneità complessiva dell'offerta e rispetto alla quale non è possibile individuare alcuna correlazione con le previsioni richiamate dal c. 1 del citato art. 30 del codice dei contratti pubblici. Diversamente opinando, l'intero corpus del Codice sarebbe di fatto applicabile alle concessioni di servizi, rendendo del tutto superflui i precetti dettati nel citato art. 30".
Ciò, in ogni caso, non preclude la possibilità per le stazioni appaltanti, nell'ambito della discrezionalità loro riconosciuta, di fissare condizioni più stringenti per la partecipazione alle gare e, dunque, di "autovincolarsi", tramite il recepimento (non necessariamente a mezzo di esplicito richiamo della specifica disposizione, ma anche sostanzialmente e parzialmente) nella lex specialis di ulteriori norme del D.Lgs. n. 163/2006, in quanto il summenzionato art. 30 non obbliga, ma neanche vieta di applicare in tutto o in parte alle concessioni di servizi la disciplina codicistica dettata per gli appalti pubblici, purché compatibile con l'istituto, ed eventualmente con i necessari e/o opportuni adeguamenti (ad esempio, con riferimento alla cauzione provvisoria ed a quella definitiva, specificando il parametro rispetto al quale calcolarne l'importo ovvero mercé definizione dell'importo stesso).
Naturalmente, gli unici limiti da osservare sono quelli derivanti dal "rispetto dei principi desumibili dal Trattato e dei principi generali relativi ai contratti pubblici" di cui allo stesso art. 30, co. 3, D.Lgs. n. 163/2006, tra i quali i principi di proporzionalità, ragionevolezza ed adeguatezza. Laddove i suddetti principi risultino in concreto rispettati dalle prescrizioni della lex specialis, non si configura alcuna violazione del principio di tassatività delle cause di esclusione di cui all'art. 46, c. 1-bis D.Lgs. n. 163/2006 (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 13.07.2015 n. 2411 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it)

ENTI LOCALI - VARINessun divieto ai cani nelle spiagge libere. Tar del Lazio. Bocciato lo stop del Comune - Diverso il caso delle aree in concessione che sono pubblici esercizi.
Via libera ai cani sulle spiagge libere: lo sottolinea il TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, con la sentenza 10.07.2015 n. 9302.
Il Comune di Anzio, con specifica ordinanza, aveva vietato l’accesso sulle spiagge libere, senza tuttavia adottare una motivazione che giustificasse tale scelta.
Sul ricorso di un’associazione ambientalista, arriva ora la sentenza dei giudici amministrativi che ritiene illegittima l’ordinanza comunale, poiché manca una giustificazione a tale divieto e non sono specificate quali cautele di comportamento siano necessarie per la tutela dell’igiene delle spiagge o l’incolumità dei bagnanti. Sul punto è infatti necessario rispettare un principio di proporzionalità, che impone alla Pa di optare, tra più possibili scelte ugualmente idonee nel pubblico interesse, per quella meno gravosa per i destinatari del provvedimento. Evitando sacrifici inutili, la scelta di vietare l’ingresso agli animali sulle spiagge destinate alla libera balneazione, non deve risultare irragionevole e illogica, né irrazionale e sproporzionata.
Stesso principio è espresso dal Tar Reggio Calabria (28.05.2014 sentenza n. 2254/2014), con una pronuncia preceduta da un provvedimento urgente, emesso a pochi giorni di distanza dal ricorso, che sollecita le amministrazioni comunali ad individuare tratti di spiaggia libera dove consentire l’accesso ai conduttori di animali con disposizioni idonee a garantire decoro, igiene e pulizia.
Sul demanio marittimo, il Comune e la Capitaneria di porto possono emettere specifiche ordinanze: alcuni problemi si pongono per le spiagge in concessione, considerando le attività turistico-ricettive come pubblici esercizi. Le aree concesse a pubblici esercizi sono interdette ai cani se vi è specifica richiesta del gestore e presa d’atto dell’amministrazione. Anche tali aree hanno tuttavia deroghe nella zona di battigia, sulla quale –indipendentemente dai concessionari- operano le ordinanze comunali e della Capitaneria.
Infine, hanno voce anche le Regioni: in Friuli Venezia Giulia l’articolo 21 della Lr 20/2012 prevede l’accesso dei cani nelle spiagge libere, mentre l’eventuale utilizzo della battigia antistante le spiagge date in concessione è disciplinato nelle ordinanze dei Comuni. In Toscana (Lr 59/2009) l’articolo 19 conferma il libero accesso a spiagge pubbliche e il 20 consente che il responsabile del pubblico esercizio possa adottare misure limitative, comunicandole al sindaco.
In Emilia Romagna vige un principio diverso: i cani non hanno ingresso (ordinanza regionale balneare 1/2015) ma i concessionari demaniali possono chiedere con Scia (segnalazione al Comune) di individuare aree che accettano cani. Tutto ciò, con salvezza delle misure veterinarie (guinzaglio, museruola) dell’articolo 83 Dpr 320/1954 e dell’ordinanza Ministero Salute 28.08.2014, con le logiche eccezioni per i cani di ausilio ed accompagnamento
(articolo Il Sole 24 Ore del 23.07.2015).
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MASSIMA
III - Passando al merito del ricorso, il Collegio lo ritiene fondato e dunque da accogliersi.
La ricorrente deduce che l’ordinanza balneare gravata –in parte qua– irragionevolmente impone ai conduttori di animali il generalizzato divieto di accesso alle spiagge libere, in assenza di una motivazione che giustifichi tale scelta e senza specificare quali cautele comportamentali siano necessarie per la tutela dell’igiene delle spiagge, ovvero della incolumità dei bagnanti.
Deduce altresì il difetto di motivazione, la manifesta irragionevolezza e la violazione del principio di proporzionalità, circa il rapporto tra le esigenze pubbliche da soddisfare e l’incidenza sulle sfere giuridiche dei privati.
La totale assenza di motivazione, infatti, non consentirebbe di apprezzare se esso sia riferibile a ragioni riconducibili all’igiene dei luoghi ovvero alla sicurezza di chi frequenta le spiagge.
In ogni caso, la motivazione del provvedimento avrebbe dovuto contenere una specifica giustificazione delle misure adottate, che consentisse di verificare il rispetto del principio di proporzionalità, poiché l’Autorità comunale avrebbe dovuto individuare le misure comportamentali ritenute più adeguate, piuttosto che porre un divieto assoluto di accesso alle spiagge.
Di fatto tale limitazione alla libertà personale costituirebbe un limite non consentito alla libera circolazione degli individui.
La ricorrente evidenzia inoltre come l’ordinanza sarebbe in contrasto con i principi espressi in sede regionale.
Tali censure meritano accoglimento.
Il provvedimento impugnato è illegittimo per difetto di motivazione, come dedotto dalla ricorrente.
E tale vizio incide, altresì, sulla possibilità di supportare la ragionevolezza delle scelte operate dalla p.a., nella odierna fattispecie.
Il provvedimento impugnato è, altresì, illegittimo sotto il connesso profilo della violazione del principio di proporzionalità, che impone alla pubblica amministrazione di optare, tra più possibili scelte ugualmente idonee al raggiungimento del pubblico interesse, per quella meno gravosa per i destinatari incisi dal provvedimento, onde evitare agli stessi ‘inutili’ sacrifici.
La scelta di vietare l’ingresso agli animali –e, conseguentemente, ai loro padroni o detentori– sulle spiagge destinate alla libera balneazione, risulta irragionevole ed illogica, oltre che irrazionale e sproporzionata.

Né possono trovare condivisioni le argomentazioni di parte resistente, che comporterebbero, ove assecondate, una elusione delle indicazioni regionali ed una compressione generalizzata della posizione giuridica in esame senza un limite temporale.

EDILIZIA PRIVATANon esiste un tacito permesso di costruire.
Altro che silenzio-assenso dell'amministrazione. Va eseguito l'ordine di demolizione adottato dal Comune a carico del manufatto abusivo: nessun «tacito» permesso di costruire si può essere formato nelle more quando nell'istanza manca l'asseverazione di un tecnico abilitato che dichiari la conformità dell'opera agli strumenti urbanistici e alle norme edilizie, di sicurezza e ambientali.

Lo ricorda la sentenza 09.07.2015 n. 3650 del TAR Campania-Napoli, Sez. II.
Corretto equilibrio
Dovrà essere abbattuto il manufatto realizzato in un paesone dell'hinterland partenopeo: un immobile incorpora l'altro sulla stesso piano dell'edificio e scatta anche il cambio di destinazione perché alla fine dei lavori non è più un «locale attività» ma una vera e propria abitazione, in contrasto con la destinazione urbanistica che in zona prevede aree industriali.
Irrilevante la condotta inerte dell'ente locale rispetto all'istanza di permesso di costruire presentata a suo tempo dal privato, inutile invocare la legge regionale campana. In realtà è lo stesso testo unico dell'edilizia a disporre che la domanda di permesso di costruire sia corredata dall'asseverazione di un tecnico abilitato che certifichi come l'opera sia a norma.
E il professionista che dichiara il falso rischia sanzioni penali e disciplinari che da una parte responsabilizzano l'interessato e dall'altro garantiscono un corretto equilibrio fra le esigenze di semplificazione amministrativa e la lotta all'abusivismo edilizio e allo sviluppo selvaggio delle aree urbane. Al privato non resta che pagare le spese di giudizio (articolo ItaliaOggi del 23.07.2015).
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MASSIMA
Considerato:
- che il ricorrente impugna il provvedimento in epigrafe -recante l’ordine di demolizione di opere di ampliamento (mediante incorporazione di una parte di un altro locale allo stesso piano) e cambio di destinazione d’uso ad abitazione di un “locale attività” posto al secondo piano dell’edificio sito in Arzano alla via ... 22, realizzate in assenza di permesso di costruire ed in contrasto con la destinazione urbanistica di zona (D- zona industriale)– sostenendo che l’immobile è conforme ad una richiesta di permesso di costruire presentata, ai sensi della legge regionale n. 1/2011, in data 11.07.2012, sulla quale si sarebbe formato il silenzio-assenso;
- che il Comune si è difeso replicando che la formazione del silenzio assenso necessita che l’istanza sia completa di tutti gli indispensabili elementi tecnici di valutazione, di cui il ricorrente non ha fornito prova, e che, in particolare, sarebbe mancante la relazione di un tecnico abilitato attestante la conformità dell’opera allo strumento urbanistico vigente, quale requisito essenziale della domanda; soggiunge che la formazione del silenzio assenso è esclusa dalla legislazione regionale, la quale, in caso di inerzia, prevede l’intervento sostitutivo dell’ente competente;
Ritenuto il ricorso infondato, alla luce della giurisprudenza di questa stessa Sezione (sent. n. 6032 del 21.11.2014) secondo cui:
- in base all’art. 20, comma 1, del D.P.R. 380/2001, la domanda per il rilascio del permesso di costruire deve essere accompagnata «da una dichiarazione del progettista abilitato che asseveri la conformità del progetto agli strumenti urbanistici approvati ed adottati, ai regolamenti edilizi vigenti, e alle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia e, in particolare, alle norme antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie nel caso in cui la verifica in ordine a tale conformità non comporti valutazioni tecnico-discrezionali, alle norme relative all’efficienza energetica»;
- la veridicità dell’asseverazione è presidiata dall’irrogazione di sanzioni penali e disciplinari in caso di mendacio che responsabilizzano l’interessato, concorrendo a definire un equilibrio tra le esigenze della semplificazione amministrativa e la necessità di prevenire il pericolo di una più facile proliferazione degli interventi edilizi contrari alla strumentazione urbanistica ed alle altre normative di settore;
- la completa assenza di qualsiasi asseverazione del genere da parte del progettista abilitato esclude in radice la possibilità della formazione di un titolo abilitativo tacito sulla domanda della società istante, assorbendo ogni questione sulla compatibilità tra il regime semplificato dell’art. 20 del D.P.R. n. 380/2001 e la legislazione regionale;
Rilevato, infatti, che la copia dell’istanza di permesso di costruire agli atti del giudizio non è corredata da alcuna dichiarazione di un tecnico abilitato e che, neppure a fronte della specifica eccezione sollevata dal Comune, il ricorrente nulla ha obiettato o prodotto al riguardo;
Considerato inoltre, senza pregiudizio alcuno per il carattere conclusivo delle suesposte ragioni, che la Sezione ha chiarito che nella regione Campania l’istituto del silenzio-assenso non può trovare applicazione in presenza della normativa regionale (ll.rr. n. 19 del 28.11.2001 e n. 10 del 18.11.2004) che disciplina l’esercizio dell’intervento sostitutivo da parte dell’amministrazione competente, il cui tenore letterale porta a qualificare il comportamento inerte tenuto dal comune, non come assenso, ma come mero inadempimento (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. II, 11.10.2013, n. 4559).

EDILIZIA PRIVATALa prevalente giurisprudenza ritiene che le disposizioni di cui all'art. 9 l. 122/1989 abbiano carattere eccezionale, perseguendo esse la finalità di dare soluzione ai problemi relativi ai parcheggi nelle aree urbane.
Pertanto, l'operatività delle stesse (in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti) non può ritenersi estesa anche alle zone agricole. Ne consegue che la realizzazione di parcheggi in dette zone resta comunque soggetta alle ordinarie prescrizioni urbanistiche ed edilizie

20. Si può ora passare all’esame della prima parte del primo motivo, laddove i ricorrenti sostengono che, in base all’art. 9 della legge n. 122 del 1989, la possibilità di realizzare autorimesse interrate sarebbe sempre ammessa, anche in deroga alle previsioni degli strumenti urbanistici.
21. In proposito si osserva quanto segue.
22. Stabilisce l’art. 9, primo comma, della legge 10.03.1989, n. 122 (Disposizioni in materia di parcheggi, programma triennale per le aree urbane maggiormente popolate nonché modificazioni di alcune norme del testo unico sulla disciplina della circolazione stradale, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 15.06.1959, n. 393) che <<I proprietari di immobili possono realizzare nel sottosuolo degli stessi ovvero nei locali siti al piano terreno dei fabbricati parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari, anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti…>>.
23. Come si vede, la norma ammette effettivamente la possibilità di realizzare autorimesse interrate anche in deroga alle disposizioni contenute nei vigenti piani urbanistici.
24. Va però osservato che la prevalente giurisprudenza ritiene che le indicate disposizioni abbiano carattere eccezionale, perseguendo esse la finalità di dare soluzione ai problemi relativi ai parcheggi nelle aree urbane; e che, pertanto, l'operatività delle stesse non possa ritenersi estesa anche alle zone agricole. Ne consegue che la realizzazione di parcheggi in dette zone resta comunque soggetta alle ordinarie prescrizioni urbanistiche ed edilizie (cfr. TAR Campania Napoli, sez. II, 08.06.2009, n. 3134; TAR Veneto, sez. II, 06.09.2002, n. 5229).
25. Per queste ragioni, la doglianza in esame non può essere accolta (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 09.07.2015 n. 1590 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: In caso d'impugnazione di provvedimenti amministrativi fondati su una pluralità di ragioni, ciascuna delle quali di per sé idonea a supportare la parte dispositiva del provvedimento, è sufficiente che una sola di tali ragioni resista al vaglio giurisdizionale perché il provvedimento nel suo complesso resti indenne dalle censure articolate.
26. Con la seconda parte del primo motivo e con il secondo motivo, i ricorrenti contestano l’altra ragione ostativa al rilascio del permesso di costruire: l’inclusione dell’area in zona di classe 4.
27. L’esame di queste doglianze può essere tralasciato in quanto può farsi applicazione del consolidato insegnamento giurisprudenziale secondo cui, in caso d'impugnazione di provvedimenti amministrativi fondati su una pluralità di ragioni, ciascuna delle quali di per sé idonea a supportare la parte dispositiva del provvedimento, è sufficiente che una sola di tali ragioni resista al vaglio giurisdizionale perché il provvedimento nel suo complesso resti indenne dalle censure articolate (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 27.08.2014, n. 4386; id. 09.10.2013, n. 4969) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 09.07.2015 n. 1590 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

TRIBUTIScuole paritarie, per l’esenzione servono regole su misura.
Con due sentenze (sentenza 08.07.2015 n. 14225 e la successiva sentenza 08.07.2015 n. 14226) la Corte di Cassazione -Sez. V civile- ha accolto il ricorso con cui il comune di Livorno aveva chiesto il pagamento dell’Ici (anni 2004-2009) a due scuole gestite da istituti religiosi privi dei requisiti richiesti per l’esenzione.
La Cassazione conferma il principio per cui l’esenzione Ici prevista dalla legge 504/1992 «è subordinata alla compresenza di un requisito oggettivo» (lo svolgimento esclusivo nell’immobile di attività meritorie tra le quali l’insegnamento), «e di un requisito soggettivo, costituito dal diretto svolgimento di tali attività da parte di un ente pubblico o privato che non abbia come oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali». Sul requisito oggettivo, la Corte non ha ritenuto sufficientemente dimostrato che l’attività didattica dell’istituto religioso si svolgesse con modalità non commerciali.
Le sentenze –che dispongono la ripetizione del giudizio di merito e non determinano direttamente un nuovo e definitivo esito– possono riflettersi sull’applicazione delle agevolazioni Imu. Il regolamento ministeriale 200/2012, infatti, per le scuole prevede che la non commercialità dell’attività sia verificata tramite alcuni criteri ordinamentali e uno di tipo economico: che sia svolta «a titolo gratuito, o dietro versamento di corrispettivi di importo simbolico e tali da coprire solamente una frazione del costo effettivo del servizio».
Le argomentazioni delle sentenze non prendono in considerazione gli aspetti ordinamentali, mentre riguardo al criterio economico ritengono il corrispettivo pagato dagli utenti «fatto rivelatore dell’esercizio dell’attività svolta con modalità commerciali», indipendentemente dalla sua entità.
La commercialità dell’attività sottoposta a valutazione, insomma, va sempre riconosciuta quando c’è l’attitudine alla remunerazione dei fattori produttivi, essendo giuridicamente irrilevante lo scopo di lucro. Se questa impostazione è definitiva, non c’è dubbio che quasi tutte le attività scolastiche private, tanto più se svolte in regime “paritario” rispetto al sistema dell’istruzione pubblica, rientrino nei criteri di “commercialità”, che precludono l’esenzione Ici e Imu.
Il mantenimento del regime di favore per paritarie dovrà percorrere la strada della normativa speciale di settore, che forse dovrebbe comprendere tutte le scuole private e non solo quelle condotte da enti non commerciali, superando così il regime “interpretativo” adottato con il regolamento 200/2012. Potrebbe essere di supporto la legge 62/2001, che riconosce alle scuole paritarie “senza fini di lucro” le agevolazioni fiscali previste nel decreto 460/1997 sulle Onlus.
Diverse esenzioni e riduzioni, che però non menzionano la fiscalità immobiliare locale, lasciando ai Comuni la facoltà di intervenire. La dichiarata volontà politica di assicurare un trattamento fiscale di favore al settore scolastico privato, però, non può minare la certezza delle basi imponibili su cui i Comuni devono poter contare stabilmente, magari attraverso compensazioni
(articolo Il Sole 24 Ore dell'01.08.2015).

TRIBUTIScuole paritarie soggette all'Ici. Lo dice la Corte di Cassazione.
Le scuole paritarie gestite da un ente ecclesiastico sono soggette al pagamento dell'Ici se gli utenti pagano un corrispettivo, nonostante le rette richieste siano modeste e la gestione operi in perdita. L'attività didattica non si può ritenere svolta in forma non commerciale, ancorché si tratti di un ente religioso, poiché non è a titolo gratuito. Per integrare il fine di lucro è sufficiente che con i ricavi si tenda a perseguire il pareggio di bilancio.

È l'importante principio affermato dalla Corte di Cassazione, con la sentenza 08.07.2015 n. 14225 e la successiva sentenza 08.07.2015 n. 14226, con le quali ha anche respinto l'istanza di annullamento delle sanzioni tributarie irrogate dal comune di Livorno.
Per i giudici di piazza Cavour, l'attività didattica esercitata dall'ente religioso rientra tra quelle esenti, ma non è svolta in forma non commerciale. In realtà, per la scuola paritaria gli utenti «pagano un corrispettivo, che erroneamente il giudice di merito ritiene irrilevante ai fini Ici». «Altrettanto erroneamente il giudicante attribuisce rilevanza al fatto che la gestione operi in perdita». È da escludere, per la Cassazione, «che l'esenzione spetti sempre laddove l'ente si proponga finalità diverse dalla produzione di reddito». Manca il «carattere imprenditoriale dell'attività nel caso in cui essa sia svolta in modo del tutto gratuito». Mentre, «per integrare il fine di lucro è sufficiente l'idoneità, almeno tendenziale, dei ricavi a perseguire il pareggio di bilancio».
La Cassazione, con le pronunce in esame, ha inoltre respinto al mittente l'istanza di disapplicazione delle sanzioni, poiché ha ritenuto che non ci sia alcuna incertezza oggettiva sulla materia e che le nuove regole introdotte per l'Imu sull'esenzione per gli enti non commerciali hanno carattere innovativo e non interpretativo. Non a caso, con la sentenza n. 4342/2015 ha già chiarito che le disposizioni sull'Imu non sono applicabili anche all'Ici per l'esenzione degli immobili posseduti dagli enti non commerciali.
L'evoluzione della norma che riconosce i benefici fiscali per una parte dell'immobile, per esempio, non può avere effetti retroattivi. L'esenzione Ici prevista dall'articolo 7, comma 1, lettera i), del decreto legislativo 504/1992 era limitata all'ipotesi in cui gli immobili fossero destinati totalmente allo svolgimento di una delle attività elencate dalla norma (sanitarie, didattiche, ricettive, ricreative, sportive e così via) in forma non commerciale.
Le esenzioni per Imu e Tasi, invece, spettano se sugli immobili vengono svolte le suddette attività con modalità non commerciali, anche qualora l'unità immobiliare abbia un'utilizzazione mista. L'agevolazione, però, è limitata alla parte nella quale si svolge l'attività non commerciale, sempre che sia identificabile.
La porzione dell'immobile dotata di autonomia funzionale e reddituale permanente deve essere iscritta in catasto, con attribuzione della relativa rendita. Se non è possibile accatastarla autonomamente, l'esenzione spetta in proporzione all'utilizzazione non commerciale dell'immobile che deve risultare da apposita dichiarazione dell'ente interessato (articolo ItaliaOggi del 25.07.2015).

TRIBUTIParitarie, rischio stangata La retta fa scattare l'Imu. La cassazione: l'attività è commerciale.
Torna sulle scuole paritarie lo spettro dell'Ici. Nodo della questione: l'attività didattica considerata attività commerciale. Secondo la Corte di Cassazione l'immobile posseduto da un ente religioso e destinato all'esercizio di una scuola paritaria è potenzialmente soggetto all'Ici, perché la gestione di un istituto paritario si configura come un'attività commerciale. Ago della bilancia, secondo i giudici, la retta che le famiglie versano alla scuola paritaria.

La Corte di Cassazione -Sez. V civile- con la sentenza 08.07.2015 n. 14225 e la successiva sentenza 08.07.2015 n. 14226 interviene sul caso di un ente religioso proprietario dell'immobile adibito a scuola paritaria che aveva impugnato gli avvisi di accertamento del comune per il pagamento dell'Ici, chiedendo l'applicazione dell'esenzione prevista dal decreto legislativo 504 del 1992 (art. 7).
Esaminando l'evoluzione legislativa sul tema, da una parte l'ente sottolinea che l'art. 39 del decreto legge 223 del 2006 stabilisce l'esenzione dell'Ici per gli immobili debiti ad attività che non hanno esclusiva natura commerciale, dall'altra i giudici dichiarano che quell'articolo non è conforme alla disciplina comunitaria sul divieto di aiuti di Stato alle imprese. Sul caso concreto, poi, la Suprema Corte osserva la potenziale sussistenza di un'attività commerciale poiché gli utenti della paritaria pagano una retta per frequentarla. E respinge le obiezioni dell'ente riguardo la perdita nella gestione, perché «è irrilevante dal punto di vista giuridico lo scopo di lucro».
L'ente quindi dovrà pagare l'Ici ma, sentenziano i giudici, senza sanzioni vista l'obiettiva incertezza sull'applicazione delle legge. La sentenza è importante anche per le interpretazioni delle disposizioni sull'Imu. Secondo le istruzioni del Miur sulla compilazione del modello Imu Enc il carattere non commerciale dell'attività didattica si verifica nel momento in cui le rette degli utenti coprono solo una parte di tutto il costo del servizio.
Le stesse istruzioni però utilizzano come parametro di riferimento il costo medio per studente sostenuto dallo Stato per un alunno nelle proprie scuole, fissato dal ministero dell'economia: 5.739,17 euro per uno studente di scuole dell'infanzia, 6.634,12 nella primaria, 6.835,85 alle medie, 6.914,31 alla superiori.
Se il corrispettivo della paritaria non supera questo costo medio per alunno, l'immobile è esente dall'Imu per la parte della struttura destinata all'attività didattica. Questo però è in contrasto con la Cassazione (articolo ItaliaOggi del 21.07.2015).

TRIBUTI: Istituti scolastici religiosi, dovuta l'Ici. La Cassazione dà ragione al Comune.
La suprema Corte ha accolto il ricorso di Livorno: primo pronunciamento di questo tipo in Italia.

La Corte di Cassazione ha riconosciuto la legittimità della richiesta dell’Ici avanzata nel 2010 dal Comune di Livorno agli istituti scolastici del territorio gestiti da enti religiosi.
Con la sentenza 08.07.2015 n. 14225 e la successiva sentenza 08.07.2015 n. 14226, la suprema Corte, Sez. V civile, ha di fatto ribaltato quanto stabilito nei primi due gradi di giudizio, sentenziando che, poiché gli utenti della scuola paritaria pagano un corrispettivo per la frequenza, tale attività è di carattere commerciale, “senza che a ciò osti la gestione in perdita”.
In proposito il giudice di legittimità ha precisato che, ai fini in esame, è giuridicamente irrilevante lo scopo di lucro, risultando sufficiente l’idoneità tendenziale dei ricavi a perseguire il pareggio di bilancio.
E cioè, il conseguimento di ricavi è di per sé indice sufficiente del carattere commerciale dell’attività svolta.
Si ricorda che il contenzioso che vede contrapposti il Comune ed alcuni istituti scolastici paritari, è sorto nel 2010 a seguito della notifica da parte dell’ufficio Tributi di avvisi di accertamento per omessa dichiarazione e omesso pagamento dell’Ici, per gli anni dal 2004 al 2009.
In particolare gli importi relativi alle scuole “Santo Spirito” ed “Immacolata” sono pari a € 422.178,00.
Si ricorda che anche la Commissione Provinciale Tributaria di Livorno aveva stabilito che l'ICI fosse dovuta, respingendo i ricorsi degli istituti.
A questo punto, a seguito delle sentenze, si provvederà a notificare anche gli importi dovuti per le annualità 2010 e 2011, imponibili a fine Ici.
Come spiega l’ufficio Tributi, è da sottolineare che questo genere di pronunciamento da parte della Corte di Cassazione è il primo in Italia sul tema specifico.
Queste sentenze assumono, tra l’altro, rilievo ai fini dell’interpretazione delle disposizioni in materia di Imu, relativamente all’imposizione fiscale dall’anno 2012.
Grande soddisfazione perché si tratta del riconoscimento dell’ottimo lavoro svolto dagli uffici comunali i quali, con l’obiettivo di reperire risorse e lavorare per l’equità fiscale, da anni hanno avviato una linea tesa al recupero dell’elusione e dell’evasione fiscale.
La vicesindaco Stella Sorgente in proposito dichiara: “Abbiamo fatto degli incontri con le scuole interessate e l’ufficio tributi, nei quali era stata proposta un’ipotesi di conciliazione fra Comune e Istituti che sarebbe stata vantaggiosa per le scuole stesse, rispetto ad un’eventuale sentenza favorevole per il Comune da parte della Cassazione. Successivamente ci è stato comunicato dalle scuole stesse che avrebbero invece preferito attendere l'esito del giudizio in Cassazione.
L’Amministrazione comunale è stata ringraziata per il sincero atteggiamento di apertura e dialogo dimostrato, ma non è stata accettata la proposta fatta. Pertanto, adesso che la Cassazione si è espressa con le due sentenze, le scuole sono costrette a pagare l’intero importo, comprensivo delle relative sanzioni.
Ci fa piacere che questa sia la prima sentenza a livello nazionale che riguarda immobili di questa tipologia, destinati ad uso scolastico, affinché sia fatta definitivamente chiarezza sulla legittimità di tali pagamenti tributari da parte degli enti religiosi
” (commento tratto da www.comune.livorno.it).

EDILIZIA PRIVATAL'aver realizzato un pilastro in c.a. di diametro 0,40 per 0,40 h mt. 4 circa su plinto di fondazione di mt. 1,30 per 1,30 in sostituzione di un pregresso pilastro in ferro a sezione quadra di dimensioni inferiori ed un cornicione in c.a. lungo il perimetro del lastrico solare sporgente mt. 0,50 ed h mt. 0,45 risulta rientrare nel novero degli interventi qualificabili come manutenzione straordinaria, stante la preesistenza del pilastro in oggetto e del cornicione, dei quali è stata solo eseguita opera di rafforzamento e di rifacimento di parti ammalorate.
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C
onsiderato che non si tratta di opere eseguite in zona vincolata, deve ritenersi che le stesse non siano sussumibili nel concetto di ristrutturazione edilizia invocato dall’amministrazione comunale, ma rientrino esattamente nei lavori di manutenzione straordinaria.
In particolare, in riferimento a quanto previsto dal D.P.R. n. 380/2001 (art. 3, comma 1, lettere b e d), l'elemento che caratterizza la ristrutturazione rispetto alla manutenzione straordinaria è la prevalenza della finalità di trasformazione rispetto al più limitato scopo di rinnovare e sostituire parti anche strutturali dell'edificio specie ove risulti
,come nella specie, che le modifiche rispetto alle opere autorizzate siano tutte, nessuna esclusa, di minore entità e comunque giustificate da precise ragioni tecniche.
Il rinnovamento proprio della manutenzione straordinaria può comprendere anche innovazioni, ossia l'introduzione di elementi che modificano il precedente aspetto degli spazi e le relative funzionalità, laddove le stesse siano di carattere accessorio e minimale, mentre se le innovazioni seguono un disegno sistematico, il cui risultato oggettivo è la creazione di un organismo edilizio nell'insieme diverso da quello esistente, si ricade inevitabilmente nella ristrutturazione.
Come esposto nella parte narrativa il presente ricorso verte sulla legittimità dell’ordine di demolizione spedito dal Comune di Napoli alla ricorrente a fronte delle seguenti opere ritenute in difformità dalla DIA 2601/2007: pilastro in c.a. di diametro 0,40 per 0,40 h mt. 4 circa su plinto di fondazione di mt. 1,30 per 1,30 in sostituzione di un pregresso pilastro in ferro a sezione quadra di dimensioni inferiori; cornicione in c.a. lungo il perimetro del lastrico solare sporgente mt. 0,50 ed h mt. 0,45.
Le censure proposte meritano favorevole considerazione, atteso che quanto eseguito risulta rientrare nel novero degli interventi qualificabili come manutenzione straordinaria, stante la preesistenza del pilastro in oggetto e del cornicione, dei quali è stata solo eseguita opera di rafforzamento e di rifacimento di parti ammalorate. Il tutto come risulta dalla perizia giurata in atti depositata dalla ricorrente il 17.02.2009 (perizia giurata il 05.02.2009 dall’ing. B.V. e non contrastata da elementi di segno contrario).
In particolare lo stesso Comune di Napoli, nella memoria depositata il 23.02.2009 ed atti allegati, attesta che la difformità consiste nella circostanza che le dimensioni del vecchio pilastro erano inferiori, ma lo stesso risultava preesistente, e che il cornicione, pure preesistente, per effetto degli interventi, era sporgente 0,50 mt.. Ribadisce che nella DIA non si parla del plinto di fondazione del pilastro di mt. 1,30 per 1,30 e della sporgenza di 0,50 mt. del cornicione.
Alla stregua di tali elementi fattuali, e considerato che non si tratta di opere eseguite in zona vincolata, deve ritenersi che le stesse non siano sussumibili nel concetto di ristrutturazione edilizia invocato dall’amministrazione comunale, ma rientrino esattamente nei lavori di manutenzione straordinaria.
In particolare, in riferimento a quanto previsto dal D.P.R. n. 380/2001 (art. 3, comma 1, lettere b e d), l'elemento che caratterizza la ristrutturazione rispetto alla manutenzione straordinaria è la prevalenza della finalità di trasformazione rispetto al più limitato scopo di rinnovare e sostituire parti anche strutturali dell'edificio specie ove risulti ,come nella specie, che le modifiche rispetto alle opere autorizzate siano tutte, nessuna esclusa, di minore entità e comunque giustificate da precise ragioni tecniche.
Il rinnovamento proprio della manutenzione straordinaria può comprendere anche innovazioni, ossia l'introduzione di elementi che modificano il precedente aspetto degli spazi e le relative funzionalità, laddove le stesse siano di carattere accessorio e minimale, mentre se le innovazioni seguono un disegno sistematico, il cui risultato oggettivo è la creazione di un organismo edilizio nell'insieme diverso da quello esistente, si ricade inevitabilmente nella ristrutturazione.
Nel caso di specie appare configurabile il carattere ridotto delle contestate difformità dalla dia, consistenti nella base di fondazione del plinto che è stata giustificata dalla necessità di evitare corrosione a causa della ruggine e non si configura quale elemento autonomamente utilizzabile, né preordinato ad una trasformazione funzionale del pilastro stesso. Egualmente è a dirsi per la sporgenza del cornicione, atteso che la sua preesistenza rende conto della mancanza di innovazioni significative, e di trasformazioni funzionali degli elementi stessi.
Il gravato provvedimento è quindi illegittimo in quanto classifica le opere anzidette come intervento di ristrutturazione edilizia, rientrando le stesse nel novero della manutenzione straordinaria, e consistendo gli elementi contestati in difformità minime dai grafici della dia presentata nel 2007, che non alterano l’organismo edilizio. Sussiste pertanto la lamentata violazione degli artt. 3 , 22 e 37 del DPR 380/2001, non comportando le modeste difformità riscontrate il rilascio del permesso di costruire e tantomeno la sanzione demolitoria prevista per ben più gravi ipotesi di abusi.
Il ricorso va conclusivamente accolto con annullamento dei gravati atti.
Non può invece accogliersi la domanda risarcitoria, proposta genericamente solo nell’epigrafe del ricorso e non seguita da ulteriori specificazioni neppure in corso di causa, per cui la stessa risulta sfornita di prova non avendo parte ricorrente documentato l’entità del danno e le sua derivazione causale dall’illegittimità del provvedimento impugnato (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 03.07.2015 n. 3563 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTILa verifica non è obbligatoria sull’offerta a rischio di anomalia. Appalti. Controlli di congruità solo a certe condizioni.
Quando un’offerta non è rilevata come troppo bassa, la verifica di congruità prevista dal codice dei contratti come ulteriore strumento di analisi non è obbligatoria.

Il Consiglio di Stato, Sez. III, con la sentenza 03.07.2015 n. 3329 ha chiarito quali sono le condizioni di utilizzo della particolare verifica realizzabile dalle stazioni appaltanti sulle offerte (all’articolo 86, comma 3, del Dlgs 163/2006).
Nel caso analizzato, l’offerta dell’operatore economico oggetto del ricorso non rientrava in uno dei casi disciplinati dall’articolo 86, comma 2, del codice dei contratti, nei quali è prevista la verifica obbligatoria e l’amministrazione ha ritenuto di non dover procedere nella verifica facoltativa prevista dall’articolo 86, comma 3, del codice dei contratti pubblici.
Il Consiglio di Stato evidenzia che l’articolo 86 del codice dei contratti individua, nei commi 1 e 2, distinti criteri per l’individuazione delle offerte che si sospettino essere anomale, a seconda che il criterio di aggiudicazione sia quello del prezzo più basso, ovvero, come nella fattispecie, quello dell’offerta economicamente più vantaggiosa. Al comma 3, invece, con una clausola generale valida per entrambe le ipotesi, stabilisce poi che la stazione appaltante può procedere in ogni caso alla valutazione della congruità di ogni altra offerta che in base a elementi specifici appaia anormalmente bassa.
L’esercizio di tale facoltà comporta, pertanto, l’apertura di un subprocedimento in contraddittorio con il concorrente che ha presentato l’offerta ritenuta a rischio di anomalia.
Il supremo organo di giustizia amministrativa precisa tuttavia come la scelta della stazione appaltante di attivare il procedimento di verifica della congruità dell’offerta sia ampiamente discrezionale e possa essere sindacata, in conseguenza, davanti al giudice amministrativo solo in caso di macroscopica irragionevolezza o di decisivo errore di fatto.
Anche per la verifica di congruità (qualora l’amministrazione decida di avvalersene) il Consiglio di Stato rileva come le valutazioni debbano essere compiute in modo globale e sintetico, con riguardo alla serietà dell’offerta nel suo complesso e non con riferimento alle singole voci dell’offerta (collegandosi anche alla linea affermata di recente in altri interventi: sezione VI, Consiglio di Stato 2662/2015; sezione V 2274/2015, ).
Nella stessa sentenza i giudici amministrativi affrontano anche il tema del rispetto dei minimi salariali da parte dell’offerente, richiesto nelle gare con il prezzo più basso dal comma 3-bis dell’articolo 82 del codice, ribadendo come i valori del costo del lavoro risultanti dalle tabelle ministeriali non costituiscano un limite inderogabile, ma semplicemente un parametro di valutazione: l’eventuale scostamento di questi parametri dalle relative voci di costo non legittima di per sé un giudizio di anomalia.
In sede di valutazione di congruità delle offerte non possono non essere considerati aspetti particolari che riguardano le imprese: la stazione appaltante deve tenere conto anche delle possibili economie che le imprese possono conseguire (anche con riferimento al costo del lavoro), nel rispetto delle disposizioni di legge e dei contratti collettivi.
Pertanto, secondo il Consiglio di Stato un’offerta non può ritenersi anomala, ed essere esclusa da una gara, per il solo fatto che il costo del lavoro sia stato calcolato secondo valori inferiori a quelli risultanti dalle tabelle ministeriali o dai contratti collettivi: occorre, invece, una discordanza considerevole e palesemente ingiustificata
(articolo Il Sole 24 Ore del 20.07.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).
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MASSIMA
10.- In proposito, si deve preliminarmente osservare che, nella fattispecie, l’Amministrazione non ha ritenuto di dover attivare il procedimento di verifica di anomalia dell’offerta di Elisicilia.
L’offerta di Elisiscilia non rientrava, infatti, in uno dei casi, disciplinati dall’art. 86, comma 2, del codice dei contratti, nei quali è prevista la verifica obbligatoria e l’Amministrazione ha ritenuto di non dover procedere nella verifica facoltativa prevista dall’art. 86, comma 3, del codice dei contratti pubblici.
10.1.- Al riguardo si deve ricordare che
l’art. 86, del codice dei contratti individua, nei commi 1 e 2, distinti criteri per l’individuazione delle offerte che si sospetti essere anomale, a seconda che il criterio di aggiudicazione sia quello del prezzo più basso, ovvero, come nella fattispecie, quello dell’offerta economicamente più vantaggiosa.
Al comma 3, con una clausola generale valida per entrambe le ipotesi, stabilisce poi che la stazione appaltante può procedere in ogni caso alla valutazione della congruità di ogni altra offerta che in base ad elementi specifici appaia anormalmente bassa.

10.2.-
L’esercizio di tale facoltà comporta, pertanto, l’apertura di un subprocedimento in contraddittorio con il concorrente che ha presentato l’offerta ritenuta a rischio di anomalia.
10.3.-
La scelta dell’amministrazione di attivare il procedimento di verifica dell’anomalia dell’offerta è, tuttavia, ampiamente discrezionale e può essere sindacata, in conseguenza, davanti al giudice amministrativo solo in caso di macroscopica irragionevolezza o di decisivo errore di fatto.
La giurisprudenza ha anche chiarito che le valutazioni sul punto devono essere compiute dall’Amministrazione in modo globale e sintetico, con riguardo alla serietà dell’offerta nel suo complesso e non con riferimento alle singole voci dell’offerta (fra le più recenti: Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 2662 del 26.05.2015, Sezione V n. 2274 del 06.05. 2015).
11.- Facendo applicazione di tali principi, le censure sollevate da GSA sull’incongruità dell’offerta di Elisicilia devono essere respinte.
Gli elementi di asserita criticità dell’offerta di Elisicilia, indicati dall’appellante (nel terzo ed anche nel quarto motivo di appello), non sono, infatti, sufficienti a manifestare una chiara illogicità nella scelta compiuta dall’Amministrazione intimata di ritenere attendibile e congrua l’offerta di Elisicilia e di non procedere ad una specifica valutazione sulla sua possibile anomalia.
11.1. Invero, come emerge dagli atti, l’Amministrazione ha adeguatamente e compiutamente esaminato le offerte delle imprese partecipanti alla gara, anche ricorrendo agli approfondimenti necessari per la loro migliore disamina, ed ha, quindi, ritenuto l’offerta di Elisicilia, nel suo complesso e per l’importo indicato, congrua, attendibile e affidabile.
12.- Ciò chiarito,
non si può ritenere illegittima la scelta dell’Amministrazione di non sottoporre l’offerta di Elisicilia alla verifica dell’anomalia in relazione all’asserita difformità dalle tabelle ministeriali di riferimento posto che, come si è ricordato, la valutazione sulla serietà e congruità dell’offerta ha per oggetto l’offerta nel suo insieme e non riguarda i suoi singoli aspetti, e tenuto conto che la società Elisicilia, risultata aggiudicataria, aveva dato una chiara esposizione, anche nel dettaglio, dei costi per il personale che avrebbe sopportato per dare esecuzione all’appalto.
13.- Con riferimento poi al rispetto dei minimi stabiliti dalle tabelle ministeriali, si deve ricordare che
l’art. 86, comma 3-bis, del Codice dei contratti pubblici prevede che «nella predisposizione delle gare di appalto e nella valutazione dell'anomalia delle offerte nelle procedure di affidamento di appalti di lavori pubblici, di servizi e di forniture, gli enti aggiudicatori sono tenuti a valutare che il valore economico sia adeguato e sufficiente rispetto al costo del lavoro e al costo relativo alla sicurezza, il quale deve essere specificamente indicato e risultare congruo rispetto all'entità e alle caratteristiche dei lavori, dei servizi o delle forniture» e che, ai fini di tale disposizione, «il costo del lavoro è determinato periodicamente, in apposite tabelle, dal Ministro del lavoro e della previdenza sociale, sulla base dei valori economici previsti dalla contrattazione collettiva stipulata dai sindacati comparativamente più rappresentativi, delle norme in materia previdenziale ed assistenziale, dei diversi settori merceologici e delle differenti aree territoriali».
13.1.- Sul punto la giurisprudenza, anche di questa Sezione, ha ritenuto che
i valori del costo del lavoro risultanti dalle tabelle ministeriali non costituiscono tuttavia un limite inderogabile, ma semplicemente un parametro di valutazione della congruità dell'offerta, con la conseguenza che l'eventuale scostamento da tali parametri delle relative voci di costo non legittima di per sé un giudizio di anomalia (cfr., fra le tante, Consiglio di Stato, sez. III, n. 1743 del 02.04.2015, Sez. V, n. 3937 del 24.07.2014).
13.2.- Si è quindi affermato che
devono considerarsi anormalmente basse le offerte che si discostino in modo evidente dai costi medi del lavoro indicati nelle tabelle predisposte dal Ministero del lavoro in base ai valori previsti dalla contrattazione collettiva, in quanto i costi medi costituiscono non parametri inderogabili ma indici del giudizio di adeguatezza dell'offerta, con la conseguenza che è ammissibile l'offerta che da essi si discosti, purché lo scostamento non sia eccessivo e vengano salvaguardate le retribuzioni dei lavoratori, così come stabilito in sede di contrattazione collettiva.
13.3.- Questa Sezione ha peraltro di recente anche affermato che
non possono non essere considerati, in sede di valutazione delle offerte, aspetti particolari che riguardano le diverse imprese, con la conseguenza che, ai fini di una valutazione sulla congruità dell’offerta, la stazione appaltante deve tenere conto anche delle possibili economie che le diverse singole imprese possono conseguire (anche con riferimento al costo del lavoro), nel rispetto delle disposizioni di legge e dei contratti collettivi (Consiglio di Stato, sez. III, n. 1743 del 02.04.2015 cit.).
14.- In applicazione di tali principi,
un'offerta non può ritenersi anomala, ed essere esclusa da una gara, per il solo fatto che il costo del lavoro è stato calcolato secondo valori inferiori a quelli risultanti dalle tabelle ministeriali o dai contratti collettivi occorrendo, perché possa dubitarsi della sua congruità, che la discordanza sia considerevole e palesemente ingiustificata.
15.- Nella fattispecie, invece, Elisicilia ha fornito, come si è accennato, chiare indicazioni sulle modalità con le quali era stato determinato il costo del lavoro per il servizio in questione e, in base a tali indicazioni, l’Amministrazione ha ritenuto nel suo complesso l’offerta presentata seria e congrua.
16.- Per le ragioni che si sono esposte, non assumono poi un decisivo rilievo, ai fini di una valutazione sulla legittimità della scelta dell’Amministrazione, nemmeno le asserite incongruità riscontrate (rispetto all’offerta economica) in una parte dell’offerta tecnica contenente una tabella di riepilogo del personale, né la mancata previsione, nell’offerta economica, di personale inquadrato nel livello E, con mansioni di caposquadra, che è stata peraltro giustificata dalla resistente con una motivazione che non appare manifestamente illogica.
Infondata, anche nel merito, è poi la censura riguardante l’applicazione al servizio in esame delle disposizioni sul lavoro effemeridiale, con orario giornaliero di durata variabile in funzione del variare dell’ora del sorgere del sole e del tramonto.

ATTI AMMINISTRATIVI: Contributo unificato ko. Esenti anche i ricorsi al capo dello stato. Lo ha precisato il Cds analizzando l'art. 10 del dpr 115 del 2002.
Anche al ricorso straordinario al capo dello stato si applicano le esenzioni dal contributo unificato previste dall'art. 10 del dpr 30.05.2002 n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia) e la riduzione alla metà per le controversie in materia di pubblico impiego.

Lo ha precisato il Consiglio di Stato, Sez. I con il parere 03.07.2015 n. 1958.
Secondo i giudici di palazzo Spada, chiamati a esprimersi in merito alle modalità applicative del contributo unificato per atti giudiziari, l'applicabilità delle esenzioni ex art. 10 si trae dal carattere generale delle disposizioni contenute nello stesso articolo, che valgono sia per i processi civili, sia per i processi amministrativi, sia per i processi tributari.
In assenza di altre specifiche disposizioni normative e in applicazione del principio «quod lex voluit dixit», è consequenziale che al ricorso straordinario debbano essere estese le regole generali per determinare la misura del contributo unificato in sede giurisdizionale, compresi i casi di esenzione previsti dall'art. 10 del T.u. Si può, quindi, a ragione ritenere che le esenzioni elencate nell'art. 10 del T.u. e qualsiasi altra disposizione dell'ordinamento che consenta in via generale l'esenzione dal contributo in esame siano applicabili anche al ricorso straordinario.
Non può essere condivisa, in questo contesto, l'interpretazione restrittiva fornita dall'ufficio del coordinamento legislativo-finanze del 05.11.2012 circa la non estensibilità al ricorso straordinario della riduzione alla metà del contributo unificato per le controversie in materia di pubblico impiego. Infatti, il comma 3 dell'art. 13 del T.u. assicura «un eguale trattamento alle controversie individuali di lavoro, che sono di competenza del giudice ordinario, e a quelle concernenti il pubblico impiego, la cui cognizione compete al giudice amministrativo», prevedendo per entrambe il dimezzamento del contributo unificato.
Infine, non pare applicabile al ricorso straordinario al capo dello stato l'istituto del patrocino a spese dello stato per i soggetti non abbienti: questa tipologia di ricorso, infatti, risulta un rimedio atecnico, che non richiede l'assistenza di un difensore, in quanto erede di un istituto risalente, riconducibile alla cosiddetta giustizia ritenuta amministrata dal sovrano che si poneva al disopra dell'ordinamento costituito.
In tale contesto, da un lato non sussistono i presupposti logici affinché lo stato si faccia carico del patrocinio dei ricorrenti per una domanda di giustizia che non richiede necessariamente l'assistenza legale, dall'altro, secondo la disciplina vigente recata dall'art. 11 del T.u., anche nel caso di ammissione al patrocinio la riscossione del contributo unificato risulta sospesa e prenotata a debito del ricorrente in attesa dell'esito del giudizio (articolo ItaliaOggi Sette del 27.07.2015).

EDILIZIA PRIVATALa disposizione di cui all’art. 12 del d.lgs. 42/2004 ha introdotto un vincolo culturale in forza di una presunzione di legge, superabile soltanto a seguito di una verifica negativa finalizzata all’esclusione dell’interesse culturale e -conseguentemente- al definitivo esonero dall’applicazione delle disposizioni di tutela dei beni culturali (art. 12, comma 4), anche in vista di una loro eventuale sdemanializzazione (art. 12, commi 5 e 6).
Diversamente, in caso di conferma dell’interesse culturale presunto, le cose di cui all’art. 10 del medesimo d.lgs. 42/2004 restano definitivamente sottoposte alle disposizioni di tutela del codice dei beni culturali, ai sensi dell’art. 12, comma 7.
Ciò posto, la norma invocata dall’Ente ricorrente (art. 27, comma 10, del d.l. n. 269/2003) a sostegno della tesi secondo cui la mancata conclusione del procedimento nel termine di 120 giorni equivale a verifica negativa, è stata definitivamente abrogata dall’art. 6, comma 1, lettera c), del d.lgs. 24.03.2006, n. 156.
Conseguentemente, in mancanza di una espressa disposizione volta ad attribuire valenza significativa al silenzio, vale il principio in base al quale il superamento del termine legale di 120 giorni per la conclusione del procedimento, ai sensi dell’art. 12, comma 10, del d.lgs. n. 42/2004, non comporta la consumazione del potere di vincolo, in tal modo non determinando alcun effetto viziante su provvedimento comunque adottato in ritardo.
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Le valutazioni in ordine all'esistenza di un interesse storico-artistico su un immobile, tali da giustificare l'apposizione del relativo vincolo, costituiscono espressione di un potere nel quale sono presenti sia momenti di discrezionalità tecnica, sia momenti di propria discrezionalità amministrativa.
Tale valutazione è espressione di una prerogativa esclusiva dell'amministrazione e può essere sindacata in sede giurisdizionale solo in presenza di profili di incongruità ed illogicità di evidenza tale da far emergere inattendibilità della valutazione tecnico-discrezionale compiuta da valutarsi nella sua portata complessiva, sicché, in presenza di valutazioni di interesse storico-artistico fondate su una pluralità di indici rivelatori, non è sufficiente che alcuni soltanto di essi palesino aspetti di particolare opinabilità per infirmare nel complesso la validità delle conclusioni raggiunte, ma è necessario che la sommatoria delle lacune individuate risulti di tale pregnanza da compromettere nel suo complesso l'attendibilità del giudizio espresso dall'organo competente.
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Quanto all’asserita violazione delle garanzie partecipative, essa non sussiste, dal momento che trattasi di un procedimento avviato su iniziativa di parte, della cui esistenza la ricorrente era perfettamente a conoscenza per poter partecipare; trattasi, peraltro, di un procedimento volto alla verifica dell’interesse culturale di un immobile conclusosi con un accertamento positivo, rispetto al quale non si intravvede alcun obbligo di preavviso, quest’ultimo necessario nell’ipotesi in cui debba provvedersi al rigetto di una istanza, nella fattispecie non sussistente.
Occorre infine precisare che l’omessa indicazione nel provvedimento del nominativo del responsabile del procedimento non costituisce motivo d'invalidità del provvedimento medesimo, posto che supplisce il criterio legale d'imputazione del ruolo al dirigente preposto all'Unità organizzativa competente.
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Parimenti destituita di fondamento è la censura con cui si lamenta la violazione dell’art. 14 del d.lgs. n. 42/2004, atteso che la comunicazione al proprietario possessore o detentore a qualsiasi titolo del bene, contente gli elementi di identificazione e di valutazione della cosa risultanti dalle prime indagini, l’indicazione degli effetti previsti dal comma 4, nonché l’indicazione del termine, comunque non inferiore a trenta giorni, per la presentazione di eventuali osservazioni, è prescritta dalla norma per la sola ipotesi in cui il procedimento per la dichiarazione dell'interesse culturale del bene medesimo è avviata dall’Amministrazione; nel caso di specie, come sopra precisato, il procedimento è stato avviato su iniziativa di parte.

I. L’Istituto Muzio Gallo è stato fondato nel 1945 quale Ente morale senza scopo di lucro per volere della contessa Ida Fregonara Gallo, in memoria del defunto consorte Muzio, ed è dotato di un proprio patrimonio immobiliare prevalentemente destinato agli scopi e alle attività dell’Ente medesimo.
Dal 2001, a seguito di privatizzazione, ha mutato la propria configurazione giuridica in fondazione, pur mantenendo inalterati gli scopi statutari originari.
Tra le proprietà della fondazione vi è un fabbricato ex colonico situato in località Campocavallo del Comune di Osimo, rispetto al quale, con istanza del 12.03.2014, indirizzata alla Direzione Regionale dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo delle Marche, l’Ente ha richiesto la verifica dell’interesse culturale ai sensi dell’art. 12 del d.lgs. n. 42/2004.
Con gli atti in questa sede impugnati l’Amministrazione ha concluso il procedimento dichiarando l’immobile in questione di interesse storico-artistico ai sensi dell’art. 10, comma 1, del d.lgs. n. 42/2004, con la conseguenza che esso è assoggettato al regime di tutela di cui al predetto decreto.
A sostegno del gravame parte ricorrente deduce:
1) violazione del termine di 120 giorni previsto dall’art. 12 del d.lgs. n. 42/2004 per la conclusione del procedimento, stante il disposto dell’art. 27, comma 10, del d.l. n. 269/2003, in base al quale la mancata comunicazione dell’esito della verifica nel termine di 120 giorni dalla ricezione della scheda equivale ad esito negativo della verifica stessa;
2) assenza e, comunque, carenza di motivazione sia con riferimento al decreto impugnato, sia con riferimento alla lettera di accompagnamento allo stesso;
3) violazione degli artt. 7, 8, 10 e 10 bis della legge n. 241/1990 e dell’art. 14 del d.lgs. n. 42/2004;
4) difetto di istruttoria, contraddittorietà dell’azione amministrativa, eccesso di potere per ingiustizia manifesta e sviamento;
5) violazione del principio di affidamento.
Si è costituito in giudizio, per resistere al ricorso, il Ministero per i Beni e le Attività Culturali.
Alla pubblica udienza del 04.06.2015 la causa è stata trattenuta in decisione.
II. Tanto premesso in fatto, si osserva in diritto quanto segue.
II.1. Il primo motivo di ricorso è infondato.
La disposizione di cui all’art. 12 del d.lgs. 42/2004 ha introdotto un vincolo culturale in forza di una presunzione di legge, superabile soltanto a seguito di una verifica negativa finalizzata all’esclusione dell’interesse culturale e -conseguentemente- al definitivo esonero dall’applicazione delle disposizioni di tutela dei beni culturali (art. 12, comma 4), anche in vista di una loro eventuale sdemanializzazione (art. 12, commi 5 e 6). Diversamente, in caso di conferma dell’interesse culturale presunto, le cose di cui all’art. 10 del medesimo d.lgs. 42/2004 restano definitivamente sottoposte alle disposizioni di tutela del codice dei beni culturali, ai sensi dell’art. 12, comma 7 (TAR Liguria, Genova, sez. I, 19.05.2014, n. 787).
Ciò posto, la norma invocata dall’Ente ricorrente (art. 27, comma 10, del d.l. n. 269/2003) a sostegno della tesi secondo cui la mancata conclusione del procedimento nel termine di 120 giorni equivale a verifica negativa, è stata definitivamente abrogata dall’art. 6, comma 1, lettera c), del d.lgs. 24.03.2006, n. 156.
Conseguentemente, in mancanza di una espressa disposizione volta ad attribuire valenza significativa al silenzio, vale il principio in base al quale il superamento del termine legale di 120 giorni per la conclusione del procedimento, ai sensi dell’art. 12, comma 10, del d.lgs. n. 42/2004, non comporta la consumazione del potere di vincolo, in tal modo non determinando alcun effetto viziante su provvedimento comunque adottato in ritardo (Cons. Stato, sez. VI, 30.06.2011, n. 3894).
II.2. Neppure sussiste il lamentato difetto istruttorio e di motivazione, atteso che i motivi posti a base del vincolo sono dettagliatamente esplicitati nella relazione storico artistica architettonica della Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici delle Marche datata 12.09.2014, inviata alla Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici delle Marche con nota prot. 14019 del 17.09.2014, ricevuta in data 19.09.2014 con protocollo n. 4951, espressamente richiamata nel decreto impugnato, da intendersi, per tale ragione, motivato per relationem.
In particolare, in detta relazione si evidenzia che l’immobile in questione conserva i caratteri architettonici costruttivi e gli elementi strutturali originali legati all’edilizia rurale tipica delle case coloniche marchigiane monofamiliari e possiede una significativa valenza antropologica che caratterizza lo scenario rurale delle Marche, che oggi si tende il più possibile a preservare.
Già tali argomentazioni appaiono sufficienti a giustificare la valutazione tecnico-discezionale dell’Amministrazione, a prescindere da qualsiasi ulteriore specificazione o istruttoria, atteso che gli elementi di interesse storico-architettonico evidenziati nella relazione sono ben riconoscibili ad un occhio esperto anche dalla sola consultazione della documentazione grafica e fotografica a corredo della pratica. Ad ogni modo, a conferma delle verifiche effettuate, la soprintendenza cita espressamente, in documenti pubblici, un sopralluogo del 12.09.2014, rispetto al quale la ricorrente lamenta l’inesistenza di un verbale o di qualsiasi altra prova, senza tuttavia fornire elementi di prova contraria idonei a smentire che dette verifiche in loco siano state effettivamente condotte.
In ogni caso, la giurisprudenza ha chiarito che “Le valutazioni in ordine all'esistenza di un interesse storico-artistico su un immobile, tali da giustificare l'apposizione del relativo vincolo, costituiscono espressione di un potere nel quale sono presenti sia momenti di discrezionalità tecnica, sia momenti di propria discrezionalità amministrativa. Tale valutazione è espressione di una prerogativa esclusiva dell'amministrazione e può essere sindacata in sede giurisdizionale solo in presenza di profili di incongruità ed illogicità di evidenza tale da far emergere inattendibilità della valutazione tecnico-discrezionale compiuta da valutarsi nella sua portata complessiva, sicché, in presenza di valutazioni di interesse storico-artistico fondate su una pluralità di indici rivelatori, non è sufficiente che alcuni soltanto di essi palesino aspetti di particolare opinabilità per infirmare nel complesso la validità delle conclusioni raggiunte, ma è necessario che la sommatoria delle lacune individuate risulti di tale pregnanza da compromettere nel suo complesso l'attendibilità del giudizio espresso dall'organo competente” (Cons. Stato, VI, 30.06.2011, n. 3894).
Nel caso in esame, il Collegio non ravvisa elementi di contraddittorietà o illogicità evidenti da dubitare della validità e attendibilità della complessiva valutazione posta in essere dall’Amministrazione, sicché, anche sotto tale profilo, l’atto impugnato si rivela immune dai vizi dedotti.
II.3. Quanto all’asserita violazione delle garanzie partecipative, essa non sussiste, dal momento che trattasi di un procedimento avviato su iniziativa di parte, della cui esistenza la ricorrente era perfettamente a conoscenza per poter partecipare; trattasi, peraltro, di un procedimento volto alla verifica dell’interesse culturale di un immobile conclusosi con un accertamento positivo, rispetto al quale non si intravvede alcun obbligo di preavviso, quest’ultimo necessario nell’ipotesi in cui debba provvedersi al rigetto di una istanza, nella fattispecie non sussistente.
Occorre infine precisare che l’omessa indicazione nel provvedimento del nominativo del responsabile del procedimento non costituisce motivo d'invalidità del provvedimento medesimo, posto che supplisce il criterio legale d'imputazione del ruolo al dirigente preposto all'Unità organizzativa competente (Cons. Stato, III, 24.09.2013, n. 4694).
II.4. Parimenti destituita di fondamento è la censura con cui si lamenta la violazione dell’art. 14 del d.lgs. n. 42/2004, atteso che la comunicazione al proprietario possessore o detentore a qualsiasi titolo del bene, contente gli elementi di identificazione e di valutazione della cosa risultanti dalle prime indagini, l’indicazione degli effetti previsti dal comma 4, nonché l’indicazione del termine, comunque non inferiore a trenta giorni, per la presentazione di eventuali osservazioni, è prescritta dalla norma per la sola ipotesi in cui il procedimento per la dichiarazione dell'interesse culturale del bene medesimo è avviata dall’Amministrazione; nel caso di specie, come sopra precisato, il procedimento è stato avviato su iniziativa di parte.
III. In conclusione, il ricorso è infondato e va respinto (TAR Marche, sentenza 03.07.2015 n. 568 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Obblighi verdi, delega ampia. Anche le piccole aziende possono ricorrere all'istituto. La Corte di cassazione rinnova i principi per il trasferimento di funzioni ambientali.
Delega di funzioni per l'adempimento degli obblighi ambientali adottabile anche da aziende di modeste dimensioni ed entità organizzativa.

Ad allargare i confini di applicazione dell'istituto è la Corte di Cassazione - Sez. II penale, che con sentenza 02.07.2015 n. 27862, ha superato l'orientamento che ne condizionava la validità alla sussistenza di esigenze legate alla complessità della struttura produttiva.
La pronuncia della Suprema corte. Con la sentenza in parola il giudice di legittimità ha, infatti, sottolineato come in materia ambientale per attribuirsi rilevanza di esimente penale all'istituto della delega di funzioni tra i requisiti di cui è necessaria la compresenza non è più richiesto che il trasferimento delle attività delegate debba essere giustificato dalle dimensioni dell'impresa o dalle esigenze organizzative della stessa.
Il nuovo principio di diritto dettato della Corte di cassazione è fondato sulla necessità logico-giuridica di assicurare coerenza applicativa dell'ordinamento. La Suprema corte precisa, infatti, come nell'attuale disciplina sulla sicurezza sul lavoro (rappresentata dal dlgs 81/2008) che ha regolamentato (con il suo articolo 16) l'istituto della delega di funzioni in materia non è contemplato tra i requisiti di efficacia quello della «necessità», ammettendo dunque essa delega anche in realtà aziendali di ridotta entità.
E, argomenta la Corte, poiché la disciplina prevenzionistica ha inevitabili punti di contatto con quella sulla tutela ambientale (nella quale, lo ricordiamo, una specifica delega non è espressamente disciplinata), in ossequio del principio di non contraddizione dell'ordinamento detta condizione non può che considerarsi inesistente anche in quest'ultima normativa.
Diversamente, avverte il giudice di legittimità, si avrebbe un'ingiustificata disparità di trattamento tra chi è delegato ad adempimenti ambientali e chi, invece è delegato ad adempimenti in materia antinfortunistica (incarichi, tra l'altro, molto spesso conferiti a un'unica persona fisica).
Le rinnovate condizioni della delega ambientale. Alla luce del rinnovato quadro giurisprudenziale in materia, la validità della delega di funzioni in campo ambientale appare dunque ora condizionata al rispetto dei seguenti requisiti: formalizzazione tramite atto scritto recante data certa, sia del conferimento che dell'accettazione; esistenza in capo al delegato di requisiti di professionalità ed esperienza per lo svolgimento delle specifiche funzioni; titolarità del delegato di tutti i poteri di organizzazione, gestione e controllo richiesti dalla natura delle attività da eseguire; autonomia di spesa necessaria all'espletamento dell'ufficio; adeguata e tempestiva pubblicità del conferimento dell'incarico.
La delega di funzioni, è bene ricordarlo, non esclude (come espressamente previsto dal dlgs 81/2008 per la sicurezza sul lavoro e come già confermato dalla precedente giurisprudenza anche in materia ambientale) l'obbligo di vigilanza del delegante sulla corretta esecuzione da parte del delegato delle funzioni trasferite (salvo, come più avanti specificato, la possibilità di scegliere particolari modalità per onorarlo).
Ancora, affinché la delega (a un dipendente aziendale come a un consulente esterno) abbia effettiva validità occorre altresì, in base ai più generali principi di diritto, che sia conferita dall'effettivo titolare della specifica posizione di garanzia da trasferire (ossia dal soggetto sul quale gravano ex legis gli obblighi ambientali sottesi). Infine, l'effetto esimente in capo al delegante sarà evidentemente relativo ai soli fatti illeciti eventualmente posti in essere dopo da data del conferimento della delega e sempre che egli non abbia successivamente interferito nell'attività del delegato.
Il sempre più stretto parallelismo giurisprudenziale tra le condizioni di delega formalizzate dal dlgs 81/2008 per la sicurezza sul lavoro e quelle non normativizzate per gli adempimenti ambientali spinge tuttavia ad interrogarsi se anche a questi ultimi appaia efficacemente applicabile la figura della sub-delega prevista dal comma 3-bis dell'articolo 16 del suddetto decreto legislativo, che ne consente una «di primo livello» qualora sia autorizzata dall'originario delegante e siano comunque rispettate tutte le previste condizioni di validità.
La delega nella gestione dei rifiuti. In relazione al campo ambientale, lo ricordiamo, la necessità di una valida delega nell'ambito aziendale si pone dal punto di vista operativo soprattutto in relazione alla delicata tenuta delle cd. «scritture ambientali», ossia registri di carico/scarico e formulario di trasporto rifiuti (secondo il regime tradizionale) e tracciamento Sistri (secondo il nuovo regime informatico, già operativo, ma sanzionabile solo dal prossimo 01.01.2016).
Con riferimento alla delega ambientale conferita a soggetti esterni alla compagine aziendale è altresì il caso di ricordare come i menzionati oneri di controllo e vigilanza sull'attività di terzi appaiono dallo scorso 04.07.2015 rafforzati dalla rinnovata definizione di produttore di rifiuti ex lettera f), comma 1, articolo 183 del dlgs 152/2006.
Dopo l'intervento effettuato dal decreto legge 04.07.2015 n. 92 sul Codice ambientale detta nozione risulta infatti ora comprendere oltre al «soggetto la cui attività produce rifiuti» anche la persona cui sia «giuridicamente riferibile detta produzione», ossia colui che ha affidato nel proprio interesse a terzi delle attività che comportano la generazione di residui.
La formalizzazione normativa della figura (di fonte giurisprudenziale) del «produttore giuridico» di rifiuti pone dunque ancor più l'accento sugli inderogabili obblighi di diligenza nella scelta di figure idonee e legittimate all'esercizio di determinate attività nonché sul monitoraggio del loro operato.
Delega e «responsabilità 231». È utile evidenziare come la valida delega ambientale, pur essendo titolo idoneo a sollevare da responsabilità penale il delegante, non costituisce di per sé sufficiente strumento per esimere invece la struttura aziendale dalla diversa responsabilità amministrativa prevista dal dlgs 231/2001 per gli illeciti commessi a vantaggio dell'organizzazione da propri soggetti apicali o da persone sottoposte alla direzione o vigilanza di questi (figure normalmente delegate, appunto, ad adempimenti ambientali).
Ai sensi del dlgs 231/2001 la responsabilità dell'Ente (sia persona giuridica o meno) può infatti essere utilmente arginata solo con la previa predisposizione e attuazione di un «modello organizzativo» idoneo a prevenire detti illeciti e la dimostrazione che i protocolli di sicurezza previsti siano stati fraudolentemente violati. E al fine di garantire la suddetta idoneità (esimente) a tale modello organizzativo è necessario che nello stesso trovino collocazione misure di controllo e verifica sia della legittimità che del corretto esercizio delle (eventuali) deleghe aziendali in essere.
Oltre a consentire l'individuazione dell'effettiva persona fisica responsabile del cd. «reato presupposto» (ossia dell'illecito contemplato dal dlgs 231/2001 che si riflette sull'ente) la puntale disciplina di tali deleghe nel «modello» (come espressamente richiesto dall'articolo 6 del suddetto provvedimento) consente infatti all'organizzazione sia di dimostrare la propria diligenza nella predisposizione dei protocolli preventivi sia di godere (come previsto specificamente anche dal dlgs 81/2008 in materia di sicurezza sul lavoro) della presunzione di assolvimento degli oneri di direzione e vigilanza da parte dei soggetti apicali sull'attività delle altre figure aziendali (articolo ItaliaOggi Sette del 20.07.2015).

EDILIZIA PRIVATAL’ordinanza di demolizione è sufficientemente motivata, ai sensi di quanto previsto dall’art. 3 della legge n. 241/1990, laddove faccia riferimento agli atti istruttori di accertamento dell’abuso, riportando i presupposti di fatto e le ragioni che hanno determinato l’ordinanza demolitoria, ovverosia la difformità delle opere riscontrate rispetto al titolo abilitativo, e facendo riferimento alle specifiche norme che prescrivono la sanzione adottata.
Inoltre, l'abusività di un'opera edilizia costituisce già di per sé presupposto per l'applicazione della prescritta sanzione demolitoria e, per costante giurisprudenza, la diffida a demolire manufatti abusivi è atto vincolato e come tale non necessita di una puntuale valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né di un bilanciamento di questo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né di una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione.
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Quanto all’intervenuto passaggio di un rilevante lasso di tempo, parte ricorrente fa, incongruamente, riferimento al lasso di tempo (circa quattro anni) intercorso tra il rilascio del permesso di costruire in sanatoria e l’adozione del provvedimento sanzionatorio.
Tale lasso di tempo, tuttavia, non ha alcuna valenza al fine di poter ingenerare un qualsiasi legittimo affidamento in capo al privato, in quanto ciò che eventualmente potrebbe, invia teorica, rilevare a questo scopo è il diverso lasso di tempo intercorso tra il momento di realizzazione dell’abuso (o del suo accertamento da parte dell’Amministrazione) e l’esercizio del potere sanzionatorio.
Né poi quattro anni appaiono, di fatto, un lasso di tempo sufficiente ad ingenerare un affidamento sul mancato esercizio del potere sanzionatorio, anche tenuto conto altresì che l’accertamento dell’abuso è stato frutto di autonomi accertamenti dell’amministrazione.
In ogni caso il Collegio aderisce a quel filone giurisprudenziale che si è più volte espresso, nel senso di non ammettere l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare, non potendo l'interessato dolersi del fatto che l'Amministrazione non abbia emanato in data antecedente i dovuti atti repressivi.
In particolare, nel caso di abusi edilizi vi è un soggetto che pone in essere un comportamento contrastante con le prescrizioni dell’ordinamento, che confida nell’omissione dei controlli o comunque nella persistente inerzia dell’amministrazione nell’esercizio del potere di vigilanza. In questi casi il fattore tempo non agisce qui in sinergia con l’apparente legittimità dell’azione amministrativa favorevole, a tutela di un’aspettativa conforme alle statuizioni amministrative pregresse.

2) Quanto al merito dell’impugnativa dell’ordinanza di demolizione, con il primo motivo di ricorso parte ricorrente ha dedotto la carenza di motivazione, il difetto di istruttoria per la mancata valutazione della sussistenza dell’interesse pubblico alla demolizione, tenuto altresì conto dell’intervenuto passaggio di quattro anni dal titolo in sanatoria.
Il motivo è infondato.
L’ordinanza di demolizione in questione risulta sufficientemente motivata, ai sensi di quanto previsto dall’art. 3 della legge n. 241/1990, facendo riferimento agli atti istruttori di accertamento dell’abuso, riportando i presupposti di fatto e le ragioni che hanno determinato l’ordinanza demolitoria, ovverosia la difformità delle opere riscontrate rispetto al titolo abilitativo, e facendo riferimento alle specifiche norme che prescrivono la sanzione adottata.
Inoltre, l'abusività di un'opera edilizia costituisce già di per sé presupposto per l'applicazione della prescritta sanzione demolitoria (Consiglio Stato, sez. V, 30.11.2000, n. 6357) e, per costante giurisprudenza, la diffida a demolire manufatti abusivi è atto vincolato (ex multis, C.d.S., VI, 28.06.2004, n. 4743; C.d.S., sez. V, 10.07.2003, n. 4107; TAR Campania Napoli, Sez. IV, 04.02.2003, n. 617; 15.07.2003, n. 8246) e come tale non necessita di una puntuale valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né di un bilanciamento di questo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né di una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione (Cons. Stato Sez. VI, 28.01.2013, n. 496; Cons. Stato Sez. IV, 28.12.2012, n. 6702).
Quanto all’intervenuto passaggio di un rilevante lasso di tempo, parte ricorrente fa, incongruamente, riferimento al lasso di tempo (circa quattro anni) intercorso tra il rilascio del permesso di costruire in sanatoria e l’adozione del provvedimento sanzionatorio.
Tale lasso di tempo, tuttavia, non ha alcuna valenza al fine di poter ingenerare un qualsiasi legittimo affidamento in capo al privato, in quanto ciò che eventualmente potrebbe, invia teorica, rilevare a questo scopo è il diverso lasso di tempo intercorso tra il momento di realizzazione dell’abuso (o del suo accertamento da parte dell’Amministrazione) e l’esercizio del potere sanzionatorio.
Né poi quattro anni appaiono, di fatto, un lasso di tempo sufficiente ad ingenerare un affidamento sul mancato esercizio del potere sanzionatorio, anche tenuto conto altresì che l’accertamento dell’abuso è stato frutto di autonomi accertamenti dell’amministrazione.
In ogni caso il Collegio aderisce a quel filone giurisprudenziale che si è più volte espresso (Cons. Stato, Sez. VI, 21.10.2013, n. 5088; Cons. Stato, Sez. VI, 04.10.2013, n. 4907), nel senso di non ammettere l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare (Cons. Stato Sez. VI, 28.01.2013, n. 496; Cons. Stato Sez. IV, 16.04.2012, n. 2185; Cons. Stato Sez. IV, 28.12.2012, n. 6702, Cons. Stato Sez. VI, 27.03.2012, n. 1813; Cons. Stato Sez. IV, 27.10.2011, n. 5758; Cons. Stato Sez. IV, 20.07.2011, n. 4403; Cons. Stato Sez. V, 27.04.2011, dalla n. 2497 alla n. 2527; Cons. Stato Sez. V, 11.01.2011, n. 79; TAR Lombardia Milano Sez. II, 08.09.2011, n. 2183; TAR Lazio Roma Sez. I-quater, 23.06.2011, n. 5582; TAR Campania Napoli Sez. III, 16.06.2011, n. 3211; TAR Campania Napoli Sez. VIII, 09.06.2011, n. 3029), non potendo l'interessato dolersi del fatto che l'Amministrazione non abbia emanato in data antecedente i dovuti atti repressivi (Cons. Stato, VI, 31.05.2013, n. 3010; Cons. Stato, VI, 11.05.2011, n. 2781).
In particolare, nel caso di abusi edilizi vi è un soggetto che pone in essere un comportamento contrastante con le prescrizioni dell’ordinamento, che confida nell’omissione dei controlli o comunque nella persistente inerzia dell’amministrazione nell’esercizio del potere di vigilanza. In questi casi il fattore tempo non agisce qui in sinergia con l’apparente legittimità dell’azione amministrativa favorevole, a tutela di un’aspettativa conforme alle statuizioni amministrative pregresse (Cons. Stato, Sez. VI, 21.10.2013, n. 5088; Cons. Stato, Sez. VI, 04.10.2013, n. 4907; Cons. Stato, IV, 04.05.2012, n. 2592) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 02.07.2015 n. 3490 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il prolungamento di un vano di 1,10 mt. in larghezza e mt. 8,40 in lunghezza al piano rialzato, costituisce una totale difformità rispetto all’autorizzato, nonché un intervento che, aumentando in modo non trascurabile la volumetria dell’immobile, necessitava del permesso di costruire, comportando la sua assenza unicamente la sanzione della riduzione in pristino.
Tale sanzione si presenta quale atto vincolato e nessuna rilevanza può avere il generico richiamo al principio di proporzionalità delle sanzioni amministrative.
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Parimenti infondato è il richiamo, anch’esso generico, all’art. 34, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001, sull’impossibilità di demolire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, in quanto la citata previsione del comma 2, dell’art. 34, si applica espressamente solo agli “interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire” mentre quello in questione è un intervento in totale difformità del permesso di costruire o con variazioni essenziali e, come tale è stato espressamente sanzionato ai sensi dell’art. 31 D.P.R. 380/2001 che non dà alcun rilievo all’impossibilità di demolire senza pregiudizio dell’assentito.
L’indicato art. 31, infatti, non contempla al riguardo l’irrogazione di una sanzione pecuniaria alternativa rispetto all’ingiunzione di demolizione e pertanto la stessa non può trovare applicazione rispetto agli interventi del tipo in esame.
Inoltre, in ogni caso, l'impossibilità tecnica di demolire il manufatto senza grave pregiudizio per l’assentito non incide sulla legittimità del provvedimento sanzionatorio, per cui la possibilità di non procedere alla rimozione delle parti abusive (quando ciò sia pregiudizievole per quelle legittime) costituisce solo un'eventualità della fase esecutiva, subordinato alla circostanza dell'impossibilità del ripristino dello stato dei luoghi.

3) Con il secondo motivo di ricorso parte ricorrente prende in esame le singole opere indicate nell’ordinanza di demolizione deducendo:
- che il prolungamento di un vano di 1,10 mt. in larghezza e mt. 8,40 in lunghezza al piano rialzato costituisce una difformità parziale non sanzionabile con una misura demolitoria ma semmai con una sanzione pecuniaria, invocando inoltre genericamente il principio di proporzionalità e l’art. 34, comma 2, del D.P.R. sull’impossibilità di demolire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità; e pecuniaria;
- la pensilina di circa mq. 30 per ricovero autovetture costituirebbe opera non soggetta la regime del permesso di costruire;
- il locale delle dimensioni di mt. 17,50 x 3,70 con altezza di mt. 3,30 sarebbe un volume tecnico non soggetto anch’esso al regime del permesso di costruire.
Le censure sono infondate.
Innanzitutto, le opere devono essere intese quale intervento unitario di modificazione dell’immobile in difformità rispetto all’autorizzato, per cui non è corretta l’impostazione tenuta nel ricorso di considerare i vari interventi atomisticamente, ovverosia quali opere autonome.
Nella questa corretta ottica unitaria, infatti, le opere realizzate costituiscono sicuramente un intervento che necessitava del permesso di costruire e realizzate in totale difformità rispetto all’autorizzato.
3.1) Ma anche intesi atomisticamente e considerati in modo autonomo, i suddetti interventi necessitavano del permesso di costruire e costituiscono una totale difformità rispetto all’autorizzato che giustifica l’ordine demolitorio adottato.
Il prolungamento di un vano di 1,10 mt. in larghezza e mt. 8,40 in lunghezza al piano rialzato, costituisce una totale difformità rispetto all’autorizzato, nonché un intervento che, aumentando in modo non trascurabile la volumetria dell’immobile, necessitava del permesso di costruire, comportando la sua assenza unicamente la sanzione della riduzione in pristino.
Tale sanzione si presenta quale atto vincolato e nessuna rilevanza può avere il generico richiamo al principio di proporzionalità delle sanzioni amministrative.
Parimenti infondato è il richiamo, anch’esso generico, all’art. 34, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001, sull’impossibilità di demolire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, in quanto la citata previsione del comma 2, dell’art. 34, si applica espressamente solo agli “interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire” mentre quello in questione è un intervento in totale difformità del permesso di costruire o con variazioni essenziali e, come tale è stato espressamente sanzionato ai sensi dell’art. 31 D.P.R. 380/2001 che non dà alcun rilievo all’impossibilità di demolire senza pregiudizio dell’assentito.
L’indicato art. 31, infatti, non contempla al riguardo l’irrogazione di una sanzione pecuniaria alternativa rispetto all’ingiunzione di demolizione (TAR Campania Napoli, sez. VII, 05.06.2008, n. 5244) e pertanto la stessa non può trovare applicazione rispetto agli interventi del tipo in esame.
Inoltre, in ogni caso, l'impossibilità tecnica di demolire il manufatto senza grave pregiudizio per l’assentito non incide sulla legittimità del provvedimento sanzionatorio, per cui la possibilità di non procedere alla rimozione delle parti abusive (quando ciò sia pregiudizievole per quelle legittime) costituisce solo un'eventualità della fase esecutiva, subordinato alla circostanza dell'impossibilità del ripristino dello stato dei luoghi (TAR Campania Napoli Sez. II, 10.01.2014, n. 186; TAR Campania Napoli Sez. III, 22.07.2013, n. 3786; TAR Campania Napoli Sez. VI, 20.06.2013, n. 3193) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 02.07.2015 n. 3490 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Gli interventi consistenti nell'installazione di tettoie o di altre strutture che siano comunque apposte a parti di preesistenti edifici come strutture accessorie di protezione o di riparo di spazi liberi (cioè non compresi entro coperture volumetriche previste in un progetto assentito) possono ritenersi sottratti al regime del permesso di costruire soltanto e nei limiti in cui la loro conformazione e le loro ridotte dimensioni rendano evidente e riconoscibile la loro finalità di arredo o di riparo e protezione (anche da agenti atmosferici) dell'immobile cui accedono.
Tali strutture non possono invece ritenersi installabili senza permesso di costruire allorquando abbiano dimensioni tali da arrecare una visibile alterazione del prospetto e della sagoma dell'edificio.
In quest’ultimo caso la realizzazione di una tettoia, indipendentemente dalla sua eventuale natura pertinenziale, è configurabile come intervento di ristrutturazione edilizia ai sensi dell'art. 3, comma 1, lettera d), del D.P.R. n. 380/2001, nella misura in cui realizza "l'inserimento di nuovi elementi ed impianti", ed è quindi subordinata al regime del permesso di costruire, ai sensi dell'articolo 10, comma primo, lettera c), dello stesso D.P.R. laddove comporti una modifica della sagoma o del prospetto del fabbricato cui accede.
La tettoia in esame, avendo dimensioni non trascurabili (mq. 30), era assoggettata al regime del permesso di costruire e pertanto l’ordine demolitorio adottato si palesa giustificato.

3.2) La realizzata pensilina di circa mq. 30 per ricovero autovetture costituisce anch’essa una totale difformità o, quantomeno, una variazione essenziale rispetto all’autorizzato e la sua realizzazione, anche autonomamente considerata, richiedeva il permesso di costruire.
A nulla vale la specificazione di parte ricorrente che la stessa è aperta da tutti e quattro i lati.
Il Collegio, aderisce alla giurisprudenza di questo TAR, formatasi sotto il regime di vigenza regime, applicabile ratione temporis al caso in esame, del testo del suddetto art. 10 prima della sua modifica ad opera D.L. 21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla L. 09.08.2013, n. 98.
Secondo tale orientamento giurisprudenziale gli interventi consistenti nell'installazione di tettoie o di altre strutture che siano comunque apposte a parti di preesistenti edifici come strutture accessorie di protezione o di riparo di spazi liberi (cioè non compresi entro coperture volumetriche previste in un progetto assentito) possono ritenersi sottratti al regime del permesso di costruire soltanto e nei limiti in cui la loro conformazione e le loro ridotte dimensioni rendano evidente e riconoscibile la loro finalità di arredo o di riparo e protezione (anche da agenti atmosferici) dell'immobile cui accedono. Tali strutture non possono invece ritenersi installabili senza permesso di costruire allorquando abbiano dimensioni tali da arrecare una visibile alterazione del prospetto e della sagoma dell'edificio (ex multis, TAR Campania Napoli, Sez. VII, 27.04.2001, n. 2313; TAR Campania Napoli, Sez. IV, 13.01.2011, n. 84).
In quest’ultimo caso la realizzazione di una tettoia, indipendentemente dalla sua eventuale natura pertinenziale, è configurabile come intervento di ristrutturazione edilizia ai sensi dell'art. 3, comma 1, lettera d), del D.P.R. n. 380/2001, nella misura in cui realizza "l'inserimento di nuovi elementi ed impianti", ed è quindi subordinata al regime del permesso di costruire, ai sensi dell'articolo 10, comma primo, lettera c), dello stesso D.P.R. laddove comporti una modifica della sagoma o del prospetto del fabbricato cui accede.
La tettoia in esame, avendo dimensioni non trascurabili (mq. 30), era assoggettata al regime del permesso di costruire e pertanto l’ordine demolitorio adottato si palesa giustificato (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 02.07.2015 n. 3490 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per volumi tecnici, ai fini dell'esclusione dal calcolo della volumetria ammissibile, devono intendersi i locali completamente privi di un’autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto destinati a contenere impianti serventi di una costruzione principale, per esigenze tecnico-funzionali della costruzione stessa e, in particolare, quei volumi strettamente necessari a contenere ed a consentire l'ubicazione di quegli impianti tecnici indispensabili per assicurare il comfort degli edifici, che non possano, per esigenze tecniche di funzionalità degli impianti, essere inglobati entro il corpo della costruzione realizzabile nei limiti imposti dalle norme urbanistiche.
Per l’identificazione della nozione di volume tecnico, va fatto riferimento a tre ordini di parametri: il primo, positivo, di tipo funzionale, dovendo avere un rapporto di strumentalità necessaria con l’utilizzo della costruzione; il secondo e il terzo negativi, ricollegati: - all’impossibilità di soluzioni progettuali diverse, nel senso che tali costruzioni non devono essere ubicate all’interno della parte abitativa; - a un rapporto di necessaria proporzionalità che deve sussistere fra i volumi e le esigenze edilizie completamente prive di una propria autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto destinate a contenere gli impianti serventi di una costruzione principale stessa.
In virtù di tale ricostruzione si è riconosciuto che i volumi tecnici degli edifici sono esclusi dal calcolo della volumetria a condizione che non assumano le caratteristiche di vano chiuso, utilizzabile e suscettibile di abitabilità.
Nel caso in cui un intervento edilizio sia di altezza e volume tale da poter essere destinato a locale abitabile, ancorché designato in progetto come volume tecnico, deve essere computato a ogni effetto, sia ai fini della cubatura autorizzabile, sia ai fini del calcolo dell’altezza e delle distanza ragguagliate all’altezza.
Non possono essere considerati volumi tecnici, ad esempio, i sottotetti degli edifici, quando sono di altezza tale da poter essere suscettibili d'abitazione o d'assolvere a funzioni complementari, quale quella ad esempio di deposito di materiali, le soffitte, gli stenditori chiusi e quelli «di sgombero», nonché il piano di copertura, impropriamente definito sottotetto, ma costituente in realtà, come nella specie, una mansarda in quanto dotato di rilevante altezza media rispetto al piano di gronda, un vano scala finalizzato non all'installazione ed all'accesso a impianti tecnologici necessari alle esigenze abitative, ma a consentire l'accesso da un appartamento ad una terrazza praticabile.
Allo stesso modo non può considerarsi un volume tecnico un locale sottotetto che abbia una rilevante altezza media rispetto al piano di gronda che sia collegato agli altri locali mediante una scala interna, dotato di una ampia finestra di aerazione e di una ulteriore apertura per accedere ad un terrazzo calpestabile e locali complementari all'abitazione, tra cui la mansarda (nonché la soffitta, gli stenditoi chiusi o di sgombero, ecc.).

3.3) Quanto al locale sul confine nord, delle dimensioni di mt. 17,50 e 3,70 con altezza di mt. 3,30, quest’ultimo, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente non può essere considerato un mero volume tecnico, attesa la sua caratteristica e consistenza.
Secondo quanto chiarito da giurisprudenza, difatti, per volumi tecnici, ai fini dell'esclusione dal calcolo della volumetria ammissibile, devono intendersi i locali completamente privi di un’autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto destinati a contenere impianti serventi di una costruzione principale, per esigenze tecnico-funzionali della costruzione stessa (Consiglio Stato, sez. IV, 04.05.2010 , n. 2565; TAR Sicilia-Palermo Sez. I - sentenza 09.07.2007, n. 1749; TAR Lombardia-Milano, Sez. II, 04.04.2002 n. 1337) e, in particolare, quei volumi strettamente necessari a contenere ed a consentire l'ubicazione di quegli impianti tecnici indispensabili per assicurare il comfort degli edifici, che non possano, per esigenze tecniche di funzionalità degli impianti, essere inglobati entro il corpo della costruzione realizzabile nei limiti imposti dalle norme urbanistiche (TAR Puglia-Lecce, Sez. III - sentenza 15.01.2005 n. 143; TAR Puglia-Bari sentenza n. 2843/2004).
Per l’identificazione della nozione di volume tecnico, va fatto riferimento a tre ordini di parametri: il primo, positivo, di tipo funzionale, dovendo avere un rapporto di strumentalità necessaria con l’utilizzo della costruzione; il secondo e il terzo negativi, ricollegati: - all’impossibilità di soluzioni progettuali diverse, nel senso che tali costruzioni non devono essere ubicate all’interno della parte abitativa; - a un rapporto di necessaria proporzionalità che deve sussistere fra i volumi e le esigenze edilizie completamente prive di una propria autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto destinate a contenere gli impianti serventi di una costruzione principale stessa (TAR Sicilia Palermo Sez. I, 09.07.2007).
In virtù di tale ricostruzione si è riconosciuto che i volumi tecnici degli edifici sono esclusi dal calcolo della volumetria a condizione che non assumano le caratteristiche di vano chiuso, utilizzabile e suscettibile di abitabilità (TAR Puglia Lecce, Sez. III, 15.01.2005 n. 143; TAR Puglia-Bari sentenza n. 2843/2004).
Nel caso in cui un intervento edilizio sia di altezza e volume tale da poter essere destinato a locale abitabile, ancorché designato in progetto come volume tecnico, deve essere computato a ogni effetto, sia ai fini della cubatura autorizzabile, sia ai fini del calcolo dell’altezza e delle distanza ragguagliate all’altezza (TAR Puglia-Bari sentenza n. 2843/2004).
Non possono essere considerati volumi tecnici, ad esempio, i sottotetti degli edifici, quando sono di altezza tale da poter essere suscettibili d'abitazione o d'assolvere a funzioni complementari, quale quella ad esempio di deposito di materiali (TAR Puglia-Lecce, Sez. III - sentenza 15.01.2005 n. 143), le soffitte, gli stenditori chiusi e quelli «di sgombero», nonché il piano di copertura, impropriamente definito sottotetto, ma costituente in realtà, come nella specie, una mansarda in quanto dotato di rilevante altezza media rispetto al piano di gronda (Consiglio Stato, sez. V, 04.03.2008, n. 918), un vano scala finalizzato non all'installazione ed all'accesso a impianti tecnologici necessari alle esigenze abitative, ma a consentire l'accesso da un appartamento ad una terrazza praticabile (TAR Campania Napoli Sez. III, 25.05.2010, n. 8748).
Allo stesso modo non può considerarsi un volume tecnico un locale sottotetto che abbia una rilevante altezza media rispetto al piano di gronda che sia collegato agli altri locali mediante una scala interna, dotato di una ampia finestra di aerazione e di una ulteriore apertura per accedere ad un terrazzo calpestabile (TAR Sicilia–Palermo Sez. I - sentenza 09.07.2007, n. 1749) e locali complementari all'abitazione, tra cui la mansarda (nonché la soffitta, gli stenditoi chiusi o di sgombero, ecc.) ( Cons. Stato, Sez. V, 13.05.1997, n. 483).
Nel caso di specie al locale in questione mancano del tutto le caratteristiche per essere considerato volume tecnico.
Non risulta, infatti, dimostrato un rapporto di strumentalità necessaria con l’utilizzo della costruzione, nel senso della sua unica finalità e stretta necessità di contenere impianti tecnici serventi una costruzione principale che non possano per esigenze tecniche essere inglobati entro il corpo della costruzione. Ed anzi dalla stessa ordinanza di demolizione risulta, in base alle risultanze istruttorie, che il locale ha alche finalità ulteriori, quali funzione di deposito e bagno, come peraltro è ragionevole presumere data l’ampiezza dello stesso.
Non è stato in alcun modo dimostrata l’impossibilità di soluzioni progettuali diverse comportanti l’ubicazione all’interno della parte abitativa.
Inoltre, lo stesso, per ampiezza e caratteristiche (vano chiuso, autonomamente utilizzabile e suscettibile di abitabilità) si palesa come idoneo ad assumere una propria autonomia funzionale e pertanto non può essere considerato volume tecnico.
Risulta, infine, irrilevante l’intervenuta presentazione da parte della ricorrente di una D.I.A. in sanatoria essendo gli interventi assoggettati al regime del permesso di costruire.
Le cesure formulate vanno pertanto rigettate.
4) Per le ragioni indicate il ricorso deve essere rigettato (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 02.07.2015 n. 3490 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Per l'attività di deposito temporaneo dei rifiuti all'interno dello stabilimento del produttore iniziale non sono necessarie le autorizzazioni e le iscrizioni previste dall'art. 183 del d.lgs. 152/2006.
Sul triennio da prendere in considerazione per verificare la sussistenza del requisito della capacità economico finanziaria di cui all'art. 41 del d.lgs. n. 163/2006.

Esula dalle attività assoggettate alle autorizzazioni e alle iscrizioni previste dall'art. 183 del d.lgs. 152/2006 l'attività di deposito temporaneo dei rifiuti all'interno dello stabilimento del produttore iniziale (allegato B della parte quarta del d.lgs. 152/2006 che esclude dalle operazioni di smaltimento "il deposito temporaneo, prima della raccolta nel luogo in cui sono prodotti i rifiuti").
Pertanto, nel caso di specie, inerente una gara indetta da una Azienda Ospedaliera per l'affidamento del servizio di pulizia delle aree esterne nonché delle aree a basso, medio, alto e altissimo rischio dell'Azienda Ospedaliera, correttamente la stazione appaltante non aveva indicato negli atti di gara la necessità in capo alle partecipanti delle autorizzazioni previste dal d.lvo n.152/2006 ai fini della preventiva effettuazione di operazione di gestione dei rifiuti, trattandosi di attività da espletare all'interno delle strutture del produttore iniziale.
Né il bando in tale fattispecie poteva considerarsi etero integrabile, tenuto conto dei principi fondamentali di certezza del diritto, lealtà, buona fede e tutela dell'affidamento, che impediscono di disporre in via giurisdizionale la esclusione di un concorrente da una gara pubblica per requisiti non prescritti dal bando di gara.
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Per la dimostrazione della capacità economico finanziaria di cui all'art. 41 del d.lgs. n. 163/2006 il triennio da prendere in considerazione per verificare la sussistenza del requisito è quello solare decorrente dal 1° gennaio e ricomprende i tre anni solari antecedenti la data del bando, in quanto la norma fa riferimento alla nozione di esercizio inteso come anno solare, mentre per la capacità tecnica e professionale di cui all'art. 42 "il triennio di riferimento è quello effettivamente antecendente la data di pubblicazione del bando e, quindi, non coincide necessariamente con il triennio relativo al requisito di capacità economico finanziaria" (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 02.07.2015 n. 3285 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it)

VARI: Il proprietario dell'auto non ha obbligo di ricordo.
Il proprietario di un automezzo non ha «l'obbligo di ricordare» chi sia stato il conducente dello stesso al momento dell'infrazione qualora questo sia particolarmente difficoltoso o addirittura impossibile. La conseguente dichiarazione alla prefettura, che deve comunque essere inoltrata, deve attestare tale impossibilità.

Lo afferma il giudice di pace di Messina con sentenza 02.07.2014 n. 2135/14, nella causa civile, promossa da un automobilista contro la prefettura di Messina. La sentenza, che risulta essere di indubbia utilità per molti automobilisti, è definitiva.
Raggiunto dal verbale con cui si contestava di non avere comunicato i dati personali e della patente di guida del conducente, il ricorrente, che nel frattempo aveva pagato i verbali pregressi, adiva il giudice di pace di Messina eccependo di avere tempestivamente comunicato alla competente prefettura di non ricordare chi fosse alla guida della sua autovettura al momento dell'infrazione, per cui chiedeva l'annullamento dei verbali in omaggio al principio per cui «a impossibilia nemo tenetur».
In tale dichiarazione, confermata poi nell'istruttoria del giudizio, il proprietario del mezzo affermava che l'auto veniva utilizzata dalla moglie, dai figli e dai collaboratori del suo studio commerciale. Si costituiva la prefettura con gli assunti di rito, deducendo la legittimità dei verbali e chiedendo il rigetto del ricorso. Il giudice di pace di Messina riteneva gli assunti della prefettura destituiti di fondamento in fatto e inattendibili in diritto.
Infatti, posta la causa in decisione, il Gdp di Messina diceva ammissibile il ricorso, fondato e per l'effetto lo accoglieva, argomentando che la normativa invocata dalla prefettura viola il principio per il quale è impossibile pretendere da alcuno una dichiarazione tendente, se del caso, alla propria incolpazione, con inversione dell'onere della prova (onere della prova che invece nella fattispecie afferisce proprio alla p.a.).
Chiarisce il Gdp che non è invocabile nessuno spirito collaborativo, dovendosi piuttosto tener conto dei principi costituzionali, come quello anzidetto, che sono cardini del diritto e che il giudicante può rilevare anche d'ufficio e che quindi appare conforme a legge ed è quindi da ritenersi che il proprietario del mezzo abbia, comunque adempiuto al «preteso» obbligo d'indicare il conducente. Così il Gdp ha annullato i verbali, condannando la prefettura alle spese del giudizio.
La sentenza si inquadra in un filone giurisprudenziale (espressamente richiamato: Corte cost. 534/1990; 517/1995; Cass. civ. sez. II del 20/01/2010 n. 927; Cass. 10/05/2010 n. 11283; Cass. ss. uu. del 30/09/2009 n. 20929) ormai prevalente secondo cui la p.a. deve provare la fondatezza dei suoi atti e che viene qui applicato in tema di decurtazione dei punti sulla patente, il cui automatismo viene meno (articolo ItaliaOggi Sette del 27.07.2015).

COMMERCIO - EDILIZIA PRIVATAAutorizzazioni preventive su medi e grandi esercizi. L’impatto giustifica la tutela dell’«interesse generale». Tar Venezia. Bocciato un ricorso che contestava la legittimità del «vincolo».
Fissare un’autorizzazione preventiva per le strutture commerciali di medie e grandi dimensioni a tutela della salute, dell’ambiente e dei consumatori non altera il confronto concorrenziale né viola i principi comunitari di libertà di insediamento, apertura e liberalizzazione delle attività economiche.

L’ha stabilito il TAR Veneto, Sez. III, nella sentenza 01.07.2015 n. 766, bocciando il ricorso di Federdistribuzione, a difesa delle imprese della distribuzione rappresentate, contro il regolamento sugli «indirizzi per lo sviluppo del sistema commerciale» (n. 1/2013) adottato dalla Regione Veneto per attuare la legge regionale in materia (n. 50/2012) già bocciata in parte dalla Corte costituzionale per altre ragioni (sentenza n. 251/2013).
Stando alle contestazioni, l’atto avrebbe violato i principi di libera prestazione di servizi e libertà di iniziativa economica garantiti dal Trattato Ue (articolo 56) e dalla Costituzione (articolo 41) poiché subordina l’esercizio delle grandi strutture con più di 1.500 metri quadri di superficie di vendita ad «autorizzazione commerciale» e «valutazione integrata degli impatti», ovvero ad un «un controllo pubblico, preventivo o successivo, a tutela dei motivi imperativi di interesse generale», dalla tutela dell’ambiente e della sanità pubblica a quella dei lavoratori e dei beni culturali.
Al contrario, il Tar ha affermato che «la realizzazione di una grande struttura di vendita ha un considerevole impatto sul territorio, condizionandone la destinazione e gli sviluppi futuri, circostanza quest’ultima che impone, di per sé, la necessità che i principi in materia di liberalizzazione del commercio siano contemperati dalla tutela di un interesse generale, evidentemente inciso dalla realizzazione di una struttura di una tale dimensione. Ne consegue la legittimità di un controllo preventivo, e quindi autorizzatorio».
Nel dettaglio, ha spiegato che «se è vero che a seguito della direttiva Bolkestein (2006/123/Ce, ndr) l’iniziativa economica non possa, di regola, essere assoggettata ad autorizzazioni e limitazioni (...) atti di programmazione aventi natura non economica (...) possono imporre limiti rispondenti ad esigenze annoverabili fra i motivi imperativi di interesse generale».
In base a tale principio -confermato da Corte di giustizia Ue (sentenza 24.03.2011, C-400/08) e Consulta (n. 104/2014)– tale regolamento è quindi legittimo poiché «non ha imposto limitazioni di tipo economico, ma si è limitata a porre una disciplina idonea a tutelare il territorio e l’ambiente urbano» e nel rispetto delle norme sulle liberalizzazioni che ammettono limiti per «interesse generale» (articoli 1 e 2, legge n. 27/2012) e di quelle per la crescita del Paese per cui gli enti locali possono porre tali restrizioni nell’insediamento di attività produttive e commerciali (comma 2, articolo 31, legge n. 214/2011, conversione Dl “Salva-Italia” n. 201/2011)
(articolo Il Sole 24 Ore del 30.07.2015).

CONDOMINIOLo scarico è sempre comune. Anche se c’è un distacco dal collegamento occorre pagare il rifacimento.
Obbligatorio contribuire al rifacimento della fogna, anche se non si è collegati. Per essere esclusi dalla partecipazione alle spese occorre fornire la prova, attraverso il titolo di proprietà, che l’impianto appartiene, in via esclusiva, ad altri condòmini.
Inutile chiamare in causa il principio che prevede il pagamento delle spese in funzione dell’utilizzo in quanto tale modalità di ripartizione (articolo 1123 Codice civile) trova applicazione solo nel caso di impianti di cui è previsto l’utilizzo separato da parte dei singoli condòmini.
A stabilirlo è stata la II Sez. civile della Corte di Cassazione, con la sentenza 30.06.2015 n. 13415.
Secondo la giurisprudenza, l’impianto fognario rientra tra i beni comuni indicati nell’articolo 1117 Codice civile (Cassazione 13160/1991) di cui il singolo condòmino è proprietario in proporzione al valore della proprietà esclusiva (valore in genere indicato nella Tabella millesimale A) pertanto, «le spese per la conservazione sono assoggettate alla ripartizione in misura proporzionale al valore delle singole proprietà» (Cassazione, 11423/1990).
Viene poi posto un quesito: le spese vanno divise in base all’articolo 1123 Codice civile in proporzione all’uso concreto del bene comune o in base al criterio generale di cui all’articolo 1117 Codice civile?
La Cassazione chiarisce che le spese devono essere suddivise in funzione della quota di partecipazione alla proprietà e non in funzione del concreto utilizzo degli impianti. L’articolo 1123 Codice civile trova applicazione in relazione alle «cose comuni suscettibili di destinazione al servizio dei condomini in misura diversa ovvero al godimento di alcuni condomini e non di altri» (Cassazione, 403/1999).
Il condòmino può evitare di concorrere alle spese solo sostenendo di non essere proprietario dell’impianto, neppure pro-quota, ma ciò è possibile solo esibendo un titolo. In altre parole, l’atto di acquisto dell’immobile deve specificare che l’impianto fognario è di proprietà esclusiva di altri condomini (Cassazione, sentenze 11391/2002 e 7449/1993)
(articolo Il Sole 24 Ore del 21.07.2015).

EDILIZIA PRIVATAGli atti di repressione degli abusi edilizi hanno natura urgente e strettamente vincolata (essendo dovuti in assenza di titolo per l’avvenuta trasformazione del territorio), con la conseguenza che, ai fini della loro adozione, non sono richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario e quindi non devono essere necessariamente preceduti dalla comunicazione di avvio del procedimento.
L’adozione di provvedimenti repressivi di abusi edilizi non deve essere preceduta dall’avviso di avvio del procedimento, trattandosi di provvedimenti tipici e vincolati, emessi all’esito di numero accertamento tecnico della consistenza delle opere realizzate e del carattere abusivo delle medesime.
Gli atti sanzionatori in materia edilizia, dato il loro contenuto vincolato si nell’an che nel quid, non devono essere preceduti dalla comunicazione di avvio del relativo procedimento ai sensi dell’art. 7, L. n. 241 del 1990 e non richiedono apporti partecipativi del soggetto destinatario. L’ordine di demolizione scaturisce dal mero fatto della commissione dell’abuso e, stante la sua natura vincolata, non deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento e non richiede una specifica motivazione né la valutazione sull’interesse pubblico, che è in re ipsa.
L’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l’ordinanza di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario dare notizia dell’avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell’atto.
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La giurisprudenza, onde evitare che inutili formalismi che possono andare a detrimento della celerità e speditezza dell’azione amministrativa è approdata al convincimento che: <<l’art. 21-octies, comma 2, L. n. 241 del 1990, come modificato dalla L. n. 13 del 2005 (il quale ormai pone in capo all’Amministrazione -e non al privato- l’onere di dimostrare, in caso di mancata comunicazione dell’avvio, che l’esito del provvedimento non poteva essere diverso) va interpretato nel senso che, onde evitare di gravare la P.A. di una probatio diabolica, il privato non può limitarsi a dolersi della mancata comunicazione di avvio, ma deve anche quantomeno indicare o allegare quali sono gli elementi conoscitivi che avrebbe introdotto nel procedimento ove avesse ricevuto la comunicazione. Solo dopo che il ricorrente ha adempiuto questo onere di allegazione (che la norma implicitamente pone a suo carico), la P.A. sarà gravata dal ben più consistente onere di dimostrare che, anche ove quegli elementi fossero stati valutati, il contenuto dispositivo del provvedimento non sarebbe mutato>>

Con la prima censura è dedotta la violazione dell’art. 7, L. 07.08.1990, n. 241 e succ, modd.; L. 28.01.1977, n. 10; L. 28.02.1985, n. 47; L. 23.12.1994, n. 724; art. 97 Cost.).
Secondo parti ricorrenti, nella specie, la comunicazione da loro ricevuta, non sarebbe adeguatamente motivata con gravissimo pregiudizio, in quanto non messi in condizione di contraddire sulla scelta sanzionatoria dell’Amministrazione, con riguardo al suo ambito di incidenza, alla concreta eseguibilità del provvedimento demolitorio (contenente al suo interno madornali errori che dimostrerebbero una totale disinformazione) ed alle connesse valutazioni delle sanzioni pecuniarie alternative.
La censura è infondata.
Al riguardo deve rammentarsi che l’orientamento giurisprudenziale in tema di comunicazione di avvio del procedimento è pressoché costante nel ritenere che: <<Gli atti di repressione degli abusi edilizi hanno natura urgente e strettamente vincolata (essendo dovuti in assenza di titolo per l’avvenuta trasformazione del territorio), con la conseguenza che, ai fini della loro adozione, non sono richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario e quindi non devono essere necessariamente preceduti dalla comunicazione di avvio del procedimento>> (TAR Campania, Napoli, sez. II, 15.01.2015, n. 233); <<L’adozione di provvedimenti repressivi di abusi edilizi non deve essere preceduta dall’avviso di avvio del procedimento, trattandosi di provvedimenti tipici e vincolati, emessi all’esito di numero accertamento tecnico della consistenza delle opere realizzate e del carattere abusivo delle medesime>> (TAR Lazio Roma, Sez. I, 30.12.2014, n. 13335); <<Gli atti sanzionatori in materia edilizia, dato il loro contenuto vincolato si nell’an che nel quid, non devono essere preceduti dalla comunicazione di avvio del relativo procedimento ai sensi dell’art. 7, L. n. 241 del 1990 e non richiedono apporti partecipativi del soggetto destinatario. L’ordine di demolizione scaturisce dal mero fatto della commissione dell’abuso e, stante la sua natura vincolata, non deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento e non richiede una specifica motivazione né la valutazione sull’interesse pubblico, che è in re ipsa>> TAR Campania, Sez. III 02.12.2014, n. 6302 e 09.12.214, n. 6425); <<L’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l’ordinanza di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario dare notizia dell’avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell’atto>> (TAR Campania Sez. VII, 05.12.2014, n. 6383).
Pur con tali premesse, tuttavia, nella fattispecie in esame il Comune -documentato dalla difesa resistente nella memoria del 10.02.2014- ha ritenuto di dover comunicare ad entrambi i ricorrenti l’avvio del procedimento (senza, però, che questi ultimi abbiano presentare memorie), ma, alla stregua della su riferita giurisprudenza, la censura è infondata atteso che un’eventuale inadeguatezza della comunicazione inviata, in ogni caso, non influisce sulla legittimità dell’impugnata ordinanza.
Inoltre la giurisprudenza, onde evitare che inutili formalismi che possono andare a detrimento della celerità e speditezza dell’azione amministrativa è approdata al convincimento che: <<l’art. 21-octies, comma 2, L. n. 241 del 1990, come modificato dalla L. n. 13 del 2005 (il quale ormai pone in capo all’Amministrazione -e non al privato- l’onere di dimostrare, in caso di mancata comunicazione dell’avvio, che l’esito del provvedimento non poteva essere diverso) va interpretato nel senso che, onde evitare di gravare la P.A. di una probatio diabolica, il privato non può limitarsi a dolersi della mancata comunicazione di avvio, ma deve anche quantomeno indicare o allegare quali sono gli elementi conoscitivi che avrebbe introdotto nel procedimento ove avesse ricevuto la comunicazione. Solo dopo che il ricorrente ha adempiuto questo onere di allegazione (che la norma implicitamente pone a suo carico), la P.A. sarà gravata dal ben più consistente onere di dimostrare che, anche ove quegli elementi fossero stati valutati, il contenuto dispositivo del provvedimento non sarebbe mutato>> (C di S., sez. V, 29.04.2009, n. 2737).
Orbene se, alla stregua di siffatta giurisprudenza, dolendosi per la mancata comunicazione di avvio del procedimento, il privato deve anche quantomeno indicare o allegare quali sono gli elementi conoscitivi che avrebbe introdotto nel procedimento ove avesse ricevuto la comunicazione, ciò a maggior ragione deve valere nel caso in cui -come nella specie- la comunicazione in parola vi sia stata (cfr. nota 21637 del 03.07.2013), ma il ricorrente lamenta che essa non sarebbe adeguatamente motivata con gravissimo pregiudizio nei suoi confronti, in quanto non messo in condizione di contraddire sulla scelta sanzionatoria dell’Amministrazione.
Nella fattispecie, non esplicitandosi lo specifico profilo di inadeguatezza della comunicazione inviata, non si mette il giudice in condizione di esaminare le ragioni per le quali la comunicazione de qua non sarebbe funzionale allo scopo per il quale essa è prevista (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 26.06.2015 n. 3405 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn caso di successione nel tempo di strumenti urbanistici generali, relativamente al rapporto fra opere abusive e la normativa urbanistica deve tenersi conto della c.d. coppia conformità, positivamente sancita dall’art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001, nella valutazione da effettuarsi in occasione della presentazione di istanza di accertamento di conformità, nel senso che condizione fondamentale per l’accoglimento della predetta istanza è che le opere siano conformi, sia con riferimento allo strumento urbanistico vigente all’atto della realizzazione delle opere per le quali si chiede la sanatoria, che con riferimento allo strumento urbanistico esistente all’atto della presentazione dell’istanza di sanatoria.
Ne consegue che secondo l’ordinamento positivo l’opera realizzata è da considerare illegittima e non sanabile (e, quindi, da eliminare), allorquando essa si presenta conforme allo strumento urbanistico vigente all’atto della valutazione dell’istanza di sanatoria, ma non altrettanto con riferimento allo strumento urbanistico vigente all’atto della sua realizzazione.

Con la seconda censura è dedotta la violazione di legge (L.R. Campania 21/2003; D.L. vo 42/2004; L. 17.08.1942, n. 1150), oltre alla Violazione Piano Regolatore Generale D.P.G.R. 29.12.1980, n. 14069 ed al Regolamento edilizio D.P.G.R. 29.11.1976, n. 4160.
La censura va disattesa.
Contrariamente a quanto erroneamente ritenuto dai ricorrenti, il Comune non pone in discussione che la realizzazione dell’immobile sia avvenuta previa rilascio di concessione edilizia e non fa derivare l’abusività dell’opera per la circostanza di non essere stata previo rilascio di adeguato titolo abilitativo, ma, sulla base del verbale redatto in data 28.06.2014, dal locale Comando di Polizia Municipale n. 135/2003/Ed, atto facente fede privilegiata, sino a querela di falso (cfr. C. di S., sez. V, 05.11.2010, n. 7770), ritiene che, in difformità con quanto previsto nella concessione n. 813/92, è stato realizzato un “Cambio di destinazione d’uso del piano a civile abitazione, precedentemente adibito a vano garage, mediante messa in opere di tramezzature interne e di tutte le componenti tecnico-idraulico ed elettriche ed il completo arredamento delle superfici abitative pari a mt. 12,00 x 13.00 ed altezza m. 3,00”, opere che, quindi, non risultano presidiate dall’appropriato titolo abilitativo.
Infatti la suddetta concessione edilizia abilitava i ricorrenti soltanto a costruire il manufatto nella conformazione planovolumetrica assentita e non certo a mutare la destinazione del piano seminterrato, precedentemente adibito a garage, in civile abitazione con la realizzazioni di ulteriori opere non previste nella suddetta concessione edilizia, peraltro in una zona classificata urbanisticamente come E1 agricola normale. Inoltre la legge regionale n. 21 del 2003 tende appunto ad escludere l'aumento dei volumi abitabili e dei carichi urbanistici nelle zone a rischio vulcanico dell'area Vesuviana, contemplando espressamente il divieto di ogni mutamento di destinazione d'uso che comporta l'utilizzo a scopo abitativo.
Le parti ricorrenti contestano siffatta destinazione ed a comprova di tanto asseriscono che fin dalla realizzazione dell’immobile lo hanno utilizzato a scopo abitativo-residenziale.
Tuttavia tali argomentazioni sono ultronee e inconferenti.
Nell’impugnato provvedimento si afferma che l'opera edile ricade in zona classificata urbanisticamente in E1 agricola normale, mentre parti ricorrenti soltanto apoditticamente, senza sul punto fornire alcuna prova, ad esempio esibendo un certificato di attuale destinazione urbanistica, asseriscono, fermamente, con il supporto della relazione tecnica allegata, che le opere realizzate dovrebbero urbanisticamente inquadrarsi, rispetto al vigente P.R.G., in zona B3 di “completamento delle frazioni”, rispetto al quale le predette opere risulterebbero compatibili.
In ogni caso la valutazione di compatibilità urbanistica delle opere ritenute abusive va operata sempre con riferimento (anche) alla strumentazione urbanistica vigente all’epoca di realizzazione dell’immobile.
Infatti, in caso di successione nel tempo di strumenti urbanistici generali, relativamente al rapporto fra opere abusive e la normativa urbanistica deve tenersi conto della c.d. coppia conformità, positivamente sancita dall’art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001, nella valutazione da effettuarsi in occasione della presentazione di istanza di accertamento di conformità, nel senso che condizione fondamentale per l’accoglimento della predetta istanza è che le opere siano conformi, sia con riferimento allo strumento urbanistico vigente all’atto della realizzazione delle opere per le quali si chiede la sanatoria, che con riferimento allo strumento urbanistico esistente all’atto della presentazione dell’istanza di sanatoria.
Ne consegue che secondo l’ordinamento positivo l’opera realizzata è da considerare illegittima e non sanabile (e, quindi, da eliminare), allorquando essa si presenta conforme allo strumento urbanistico vigente all’atto della valutazione dell’istanza di sanatoria, ma non altrettanto con riferimento allo strumento urbanistico vigente all’atto della sua realizzazione, come nel caso di specie, laddove nel Piano Regolatore Generale approvato con D.P.G.R. n. 14069 del 29.12.1980 la zona interessata dall’intervento era classificata urbanisticamente come E1, agricola normale e le previsioni urbanistiche contenute nel suddetto Piano Regolatore Generale ed invocate dai ricorrenti si rivelano, nel caso di specie, inapplicabili ed analogo discorso vale per le limitazioni d’uso del territorio, attuate con la Legge Regionale n. 21/2003, secondo i ricorrenti, ripetutamente violata dal Comune di Pompei, in uno alle altre leggi indicate nel secondo motivo di impugnazione (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 26.06.2015 n. 3405 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl Comune risulta avere correttamente valutato la tipologia delle opere, dalla cui abusività scaturisce con carattere vincolato l’ordine di demolizione, che in ragione di tale sua natura, non esige una specifica motivazione o la comparazione dei contrapposti interessi, né deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento.
Inoltre parti ricorrente esprimono perplessità sulla legittimità del censurato intervento repressivo, a distanza di circa venti anni dalla realizzazione dell’immobile, previa rilascio di regolare concessione edilizia, senza tener conto, però che, secondo condivisa giurisprudenza: <<In tema di attività sanzionatoria degli abusi edilizi, è irrilevante il decorso del tempo e l’eventuale affidamento riposto dal privato, che non può confidare sul mantenimento di una situazione contraria alla legge, non essendo inoltre richiesta una specifica motivazione né la valutazione sull’interesse pubblico, che è “in re ipsa”>>.
Ed, ancora: <<La norma di cui all’art. 27, D.P.R. n. 380 del 2001, tanto più quanto riferita alla repressione di abusi su beni vincolati, non appare contrastare con il principio di ragionevolezza in quanto l’esigenza di ripristinare i valori urbanistici e paesaggistici violati giustificano il ripristino anche a distanza di tempo. Per lo stesso motivo, non si ravvisa alcun contrasto con il principio dell’affidamento, stante la preminenza dell’esigenza del ripristino a fronte della permanenza della situazione di illecito e di pregnanza del bene tutelato>>.

Relativamente alla compatibilità paesaggistica delle opere realizzate che -secondo il C.T. di parti ricorrenti- non avrebbero modificato l’aspetto esterno del fabbricato, deducono i ricorrenti che il Comune di Pompei rientrerebbe nella perimetrazione del P.T.P. (Piano Territoriale Paesistico), con la conseguenza che non vi sarebbero delle prescrizioni specifiche da osservare, ribadendosi ancora una volta che le opere non avrebbero mai modificato l’aspetto esterno del fabbricato, rendendo inutile lo specifico parere della competente Soprintendenza.
La censura è generica ed inammissibile, in quanto, fermo restando che all’intervento in questione potrebbe implicare (anche) problematiche di carattere paesaggistico-ambientale che, tuttavia, non risultano esplicitate nell’impugnato provvedimento il quale si limita a richiamare il D.L.vo n. 42/2004, nell’impugnata ordinanza non si fa alcun cenno alla necessità di uno specifico parere della competente Soprintendenza, per modo che -contrariamente a quanto erroneamente rilevato dai ricorrenti- tale aspetto non rientra tra “le ragioni della notifica della impugnata ordinanza di demolizione”.
Analogamente estranea al presente giudizio, essenzialmente incentrato sui profili strettamente urbanistici del contestato intervento è l’asserzione, contenuta in gravame, secondo cui i volumi interrati o tecnici, rientrando nell’eccezione di cui agli all’art. 167, comma 4, lett. a), del D.L.vo n. 42/2004, sarebbero suscettibili di compatibilità paesaggistica. Vero è piuttosto che gli incrementi di superfici utili o volumi abusivamente realizzati sono comunque ostativi al rilascio di un’autorizzazione paesaggistica postuma.
Parti ricorrenti escludono l’esistenza di ogni abuso edilizio, anche alla stregua di molteplici sentenze della giurisprudenza amministrativa per le quali il semplice cambio di destinazione d’uso, effettuato senza opere evidenti, non implicherebbe necessariamente un mutamento urbanistico-edilizio del territorio comunale qualora non sconvolgerebbe l’area in cui l’intervento ricadrebbe, all’uopo richiamando specifica giurisprudenza.
Tuttavia, preso atto, dalla medesima documentazione esibita dai ricorrenti ed, in particolare dalle piantine catastali contenute nel progetto allegato all’istanza di concessione edilizia che i locali al piano seminterrato oggetto del provvedimento impugnati, non avevano ab origine natura residenziale, come si evince chiaramente dalla presenza di un unico ambiente privo di tramezzature e di locali per servizi igienico sanitari, nella fattispecie, deve ritenersi essersi avverato un non consentito cambio di destinazione urbanistica strutturale e non meramente funzionale accompagnato dalla realizzazione di opere per eliminare barriere architettoniche.
Peraltro le opere contestate delle quali se ne è ingiunta la demolizione non si limitano al mero abbattimento -OMISSIS-, ma sono consistite in un “cambio di destinazione d’uso del piano a civile abitazione, precedentemente adibito a vano garage, mediante messa in opere di tramezzature interne e di tutte le componenti tecnico, idrauliche ed elettriche”, oltre alla realizzazione di una “rampa di collegamento per persone diversamente abili”, interventi che -specie per quanto concerne il cambio di destinazione strutturale disciplinato da normative regionali che richiedono specifici titoli abilitanti e per quanto si dirà nella trattazione della successiva censura- vanno ben al di là del mero abbattimento -OMISSIS-, ai sensi dell’art. 1, comma 3, legge n. 31/1980.
Pertanto il Comune risulta avere correttamente valutato la tipologia delle opere, dalla cui abusività scaturisce con carattere vincolato l’ordine di demolizione, che in ragione di tale sua natura, non esige una specifica motivazione o la comparazione dei contrapposti interessi, né deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento (cfr., per tutte, Cons. Stato - Sez. V, 28.04.2014, n. 2196).
Inoltre parti ricorrente esprimono perplessità sulla legittimità del censurato intervento repressivo, a distanza di circa venti anni dalla realizzazione dell’immobile, previa rilascio di regolare concessione edilizia, senza tener conto, però che, secondo condivisa giurisprudenza: <<In tema di attività sanzionatoria degli abusi edilizi, è irrilevante il decorso del tempo e l’eventuale affidamento riposto dal privato, che non può confidare sul mantenimento di una situazione contraria alla legge, non essendo inoltre richiesta una specifica motivazione né la valutazione sull’interesse pubblico, che è “in re ipsa”>> (TAR Campania, Napoli, sez. III, 03.02.2015, n. 634); ed, ancora: <<La norma di cui all’art. 27, D.P.R. n. 380 del 2001, tanto più quanto riferita alla repressione di abusi su beni vincolati, non appare contrastare con il principio di ragionevolezza in quanto l’esigenza di ripristinare i valori urbanistici e paesaggistici violati giustificano il ripristino anche a distanza di tempo. Per lo stesso motivo, non si ravvisa alcun contrasto con il principio dell’affidamento, stante la preminenza dell’esigenza del ripristino a fronte della permanenza della situazione di illecito e di pregnanza del bene tutelato>> (TAR Campania, sez. IV, 08.09.2014, n. 4745).
Ne deriva l’infondatezza della censura (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 26.06.2015 n. 3405 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: In gara senza assumersi responsabilità.
La mancanza della dichiarazione di assunzione di responsabilità dell'impresa ausiliaria nei confronti dell'amministrazione appaltante non può costituire motivo di esclusione dalla gara.

È quanto hanno affermato i giudici della II Sez. del TAR Emilia Romagna-Bologna con la sentenza 26.06.2015 n. 626.
I giudici amministrativi bolognesi, hanno altresì considerato che, l'amministrazione appaltante risulti comunque garantita pleno iure relativamente all'adempimento delle obbligazioni assunte dalla concorrente e dall'impresa ausiliaria con l'aggiudicazione dell'appalto, dalla responsabilità solidale tra dette imprese espressamente prevista dall'art. 49, comma 4, del dlgs n. 163 del 2006. Trattandosi di obbligo chiaramente derivante ex lege, è evidente l'ultroneità della ricerca di un'ulteriore fonte dell'obbligo solidale.
Non può inoltre essere presa in considerazione parte della giurisprudenza (si vedano, ad esempio, Cons. stato sez. IV, 19/03/2015 n. 1425), poiché si occupa di casi in cui è stata omessa in toto la presentazione della dichiarazione dell'impresa ausiliaria ex art. 49, dlgs n. 163 del 2006.
I giudici amministrativi bolognesi sono stati chiamati ad esprimersi su un caso in cui A.T.I. avente Alfa srl quale capogruppo mandataria, concorrente che ha partecipato, classificandosi al secondo posto della graduatoria finale, alla gara pubblica a procedura aperta bandita dal comune per l'affidamento dei servizi integrati in materia di tutela della salute pubblica e della sicurezza nei luoghi di lavoro per il periodo quinquennale 2014–2019, chiedeva l'annullamento del provvedimento con il quale l'amministrazione comunale appaltante ha aggiudicato definitivamente la gara a Beta Gruppo srl.
La ricorrente impugnava, inoltre, l'atto di comunicazione della predetta aggiudicazione definitiva, nonché tutti i verbali di gara, limitatamente alle parti di essi che ammettono la concorrente Beta Gruppo srl alla gara e che valutavano non anomala l'offerta presentata dalla stessa, ivi incluso l'atto con cui il R.U.P. non ha rilevato detta anomalia dell'offerta.
La società instante chiedeva, inoltre, pronuncia dichiarativa dell'inefficacia del contratto di appalto, nonché pronuncia di condanna del Comune al risarcimento dei danni subiti dalla stessa a causa degli atti impugnati (articolo ItaliaOggi Sette del 20.07.2015).

APPALTITurba la libertà delle gare ciò che incide sul bando.
«I comportamenti che incidono sulla formazione del bando di gara che venga successivamente emesso, devono essere inquadrati nella fattispecie prevista dall'art. 353 c.p. (turbata libertà degli incanti), a nulla rilevando che gli stessi siano stati posti in essere nel periodo precedente all'introduzione dell'art. 353-bis c.p. (turbata libertà nel procedimento di scelta del contraente)».

Lo ha affermato la Corte di Cassazione, Sez. VI penale, con sentenza 25.06.2015 n. 26840.
Secondo la Cassazione non può essere stabilita l'irrilevanza, in via generale, delle condotte che precedono l'emissione del bando la cui finalità consiste in un illecito condizionamento, anche se poste in essere prima dell'entrata in vigore dell'art. 353-bis c.p., poiché non si può escludere che abbiano effettivamente inciso sulla formulazione del bando. Nell'ipotesi in cui la gara venga indetta, l'idoneità e l'incidenza del condizionamento deve essere valutata sulla base delle emergenze processuali del caso concreto.
Qualora «il bando venga emesso e risulti coerente con le manipolazioni contestate» si configura il reato previsto dall'art. 353 c.p. Nel caso in cui alle condotte di illecita interferenza non segua l'indizione di una gara o il bando non sia influenzato da tali pressioni, ricorre l'art. 353-bis c.p. che si configura a prescindere «dalla realizzazione del fine di condizionare le modalità di scelta del contraente».
Tale sentenza contrasta però con un'altra sentenza della Cassazione (27719/2013), che ha affermato che il reato di turbata libertà degli incanti non è configurabile neanche nella forma del tentativo prima che la procedura di gara abbia avuto inizio (articolo ItaliaOggi del 31.07.2015).
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MASSIMA
6. Il motivo relativo ai capi Ce D è infondato, nei termini che seguono.
L'art. 353-bis c.p. disciplina la turbata libertà del procedimento di scelta del contraente prima dell'eventuale gara. La norma è stata introdotta dal Legislatore, nel corso dell'iter che ha condotto alla legge n. 136 del 2010, al dichiarato scopo di prevedere espressamente la rilevanza penale delle condotte di turbamento (specificamente indicate) anche alla fase precedente la gara, preso atto che parte della giurisprudenza di questa Corte si andava apparentemente assestando in direzione diversa (Sez. 6 sent. 11005/09, 27719/13, 44896/14), nel senso di negare la rilevanza delle stesse, pur in termini di mero tentativo, in assenza del presupposto della gara.
L'art. 353-bis c.p. prevede così che, salvo che il fatto costituisca fatto più grave, abbia autonoma rilevanza penale la condotta di chiunque, alternativamente con violenza minaccia doni promesse collusioni o altri mezzi fraudolenti (i medesimi comportamenti considerati dalla fattispecie ex art. 353 c.p.), turba il procedimento amministrativo diretto a stabilire il contenuto del bando ovvero di altro atto equipollente, al fine di condizionarne le modalità di scelta del contraente da parte della pubblica amministrazione.
6.1 Come è stato evidenziato anche da pertinente relazione dell'Ufficio del Massimario, "
attraverso l'art. 353-bis c.p. si è inteso evitare ogni vuoto di tutela, incriminando anche quei tentativi di condizionamento 'a monte' degli appalti pubblici che risultino, ex post, inidonei ad alterare l'esito delle relative procedure. L'illecita interferenza nel procedimento amministrativo diretto a stabilire il contenuto del bando, finalizzata a condizionare le modalità di scelta del contraente (ad esempio, mediante la "personalizzazione' dei requisiti prescritti), determina, già di per sé sola, l'applicazione delle sanzioni penali".
Come è stato osservato anche dalla dottrina, in sintesi
il condizionamento del contenuto del bando è il fine dell'azione sicché il reato si consuma indipendentemente dalla realizzazione del fine: è quindi sufficiente che la correttezza della procedura amministrativa volta a predisporre il contenuto del bando (o dell'atto equipollente) sia messa concretamente in pericolo, in ciò consumandosi il suo 'turbamento'. Il quale appunto assume autonoma rilevanza penale quale che sia l'esito della procedura e, in particolare, anche quando poi in concreto non si pervenga ad alcuna 'gara' ovvero il contenuto del bando risulti concretizzato senza che le condotte di 'turbamento' abbiano avuto efficacia alcuna.
In definitiva,
nella consapevolezza che i beni ed interessi giuridici che meritano tutela nel contesto (sia quello della pubblica amministrazione ad individuare il contraente più competente alle condizioni economiche migliori; sia quello della tutela della libertà di iniziativa economica) sono lesi non solo da condotte successive a un bando il cui contenuto sia stato determinato nel pieno rispetto di tali beni e interessi giuridici, ma anche dalle condotte precedenti che abbiano influito sul contenuto o che potrebbero avere influenza, il Legislatore ha inteso anticipare la tutela penale rispetto al momento di effettiva indizione formale della 'gara' ed anche quando una procedura volta alla determinazione del bando (o di atto equivalente) sia stata svolta pur senza approdare a un positivo provvedimento formale.
Ciò, come osservato da autorevole dottrina, in un contesto di anticipazione della soglia della tutela a fasi dell'iter criminis anteriori alla consumazione dell'offesa finale, che caratterizza la frammentazione casistica del tentativo in autonome fattispecie di atti preparatori o prodromici, rispetto ad attività delinquenziali caratterizzate da forte complessità, in cui il pregiudizio finale si realizza a seguito di processi comportamentali estremamente articolati, cui possono concorrere plurimi soggetti e la cui efficacia causale è molto difficilmente riferibile a ciascun agente.
6.2 Con tali premesse, va qui richiamata parte della motivazione della sentenza Sez. 2 sent. 47444/14, i cui passaggi argomentativi sono integralmente condivisi: <<
Sviluppando il percorso interpretativo segnato da tali pronunce il collegio ritiene che non è possibile effettuare una valutazione generalizzata di irrilevanza penale dei comportamenti precedenti la emissione del bando quando questi siano orientati alla manipolazione dell'atto genetico della gara, a nulla rilevando che tali condotte risalgano al periodo precedente la introduzione dell'art. 353-bis c.p. e trovano il loro "unico" riferimento nell'art. 353 c.p.. Nulla esclude infatti che condotte manipolatrici precedenti all'emissione del bando ottengano il risultato di far venire alla luce un bando manipolato, viziando ab origine l'intero sviluppo della procedura.
Piuttosto che escludere la rilevanza penale delle condotte perturbatrici finalizzate alla manipolazione del bando, nei casi in cui la gara prenda avvio ed il bando venga effettivamente emanato, occorre invece valutare sulla base delle concrete emergenze processuali l'idoneità delle condotte contestate ad incidere sulla configurazione dell'atto genetico della gara. Sicché, anche nel periodo che precede l'introduzione dell'art. 353-bis c.p. gli atti volti ad orientare il bando per aderire alle caratteristiche dell'impresa che intende aggiudicarsi l'appalto possono essere considerate estranee all'area di applicazione dell'art. 353 cod. pen. solo qualora la gara non venga indetta o il bando non si presenti in concreto influenzato dai comportamenti contestati a produrre la turbativa.
Diversamente, se il bando viene emesso e risulta coerente con le manipolazioni contestate, il reato previsto dall'art. 353 c.p. deve considerarsi integrato in quanto la libertà di concorrenza che è il bene protetto, patisce un'evidente compressione essendo stato minato fin dalla fase precoce della individuazione dei requisiti per la partecipazione alla gara. Così perimetrata l'area di rilevanza dell'art. 353 c.p., ne segue che tutti i comportamenti manipolatori che non incidono sul bando possono essere inquadrati nell'area residuale individuata dall'art. 353-bis c.p..
In coerenza con tale impostazione la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che "il delitto di turbata libertà del procedimento di scelta del contraente, previsto dall'art. 353-bis c.p., è reato di pericolo, che si consuma indipendentemente dalla realizzazione del fine di condizionare le modalità di scelta del contraente, e per il cui perfezionamento, quindi, occorre che sia posta concretamente in pericolo la correttezza della procedura di predisposizione del bando di gara, ma non anche che il contenuto dell'atto di indizione del concorso venga effettivamente modificato in modo tale da interferire sull'individuazione dell'aggiudicatario", (fattispecie in cui la Corte ha ritenuto configurabili i gravi indizi di colpevolezza nei confronti del sindaco di un comune che aveva concorso a predisporre la bozza di un bando di gara con un imprenditore interessato all'aggiudicazione ed aveva poi ordinato, senza successo, al funzionario competente di recepirne i contenuti negli atti amministrativi necessari: Cass. sez. 6, n. 44896 del 22/10/2013 Rv. 257270).
3.2. Può essere pertanto individuato il seguente principio di diritto: i comportamenti che incidono sulla formazione del bando di gara che venga successivamente emesso, devono essere inquadrati nella fattispecie prevista dall'art. 353 c.p., a nulla rilevando che gli stessi sono stati posti in essere nel periodo precedente all'introduzione dell'art. 353-bis c.p., fattispecie che trova applicazione in relazione a tutti i comportamenti diretti alla manipolazione del bando di gara nei casi in cui questa non venga successivamente bandita
>>.
Il richiamo giova a definire anche l'odierno processo, perché questa Sezione giudica che analoga impostazione debba essere data al quesito, che il contrasto sul punto tra il GUP e il pubblico ministero ricorrente pone, dell'individuazione del momento in cui le condotte di turbamento che si verifichino prima del formale inizio della 'gara' assumono rilevanza penale.
Vi è infatti un evidente parallelismo tra le strutture dell'art. 353 c.p. e dell'art. 353-bis c.p.. La prima presuppone l'esistenza di una 'gara' (quindi di un bando o atto equipollente che l'abbia formalmente indetta determinandone l'ambito specifico); la seconda presuppone l'esistenza di un 'procedimento amministrativo' diretto a stabilire il contenuto del bando o dell'atto equipollente.
Vi sono pertanto due presupposti (la 'gara', il 'procedimento amministrativo'), in mancanza dei quali le condotte in ipotesi consumate, pur quando in sé corrispondenti alle tipologie indicate nelle due norme, non assumono rilevanza penale autonoma: ovviamente, in relazione a queste due fattispecie, potendo invece rilevare a dar conto dell'esistenza di diversi reati (ad esempio quello associativo o alcuno di quelli di corruzione).

6.3
Questo però non significa che in ogni caso le condotte corrispondenti alle tipologie descritte anche nell'art. 353-bis c.p. e consumate prima del procedimento amministrativo mai possano assumere rilievo penale. Invece (e riprendendo i segnalati e condivisi spunti argomentativi della richiamata sentenza 47444/14) sono penalmente irrilevanti (e con la precisazione appena chiarita: limitatamente alla configurabilità di questa specifica fattispecie incriminatrice) solo quelle condotte che siano poste in essere prima del procedimento amministrativo quando poi in concreto il procedimento neppure inizi.
Ma se il procedimento volto a stabilire il contenuto di bando/atto equipollente inizia, le condotte precedenti, finalizzate al suo turbamento e idonee allo scopo assumono autonoma rilevanza penale. E la conclusione si impone (ancora richiamando i passaggi argomentativi della sentenza 47444/14) perché se il procedimento iniziasse già inquinato nelle sue determinazioni da condotte riconducibili a quelle previste dall'art. 353-bis c.p. risulterebbe del tutto evidente la lesione in atto dei beni giuridici tutelati dalla norma.
In altri termini: è evidente che al 'bando-fotocopia' può benissimo corrispondere un 'procedimento amministrativo-fotocopia', a quello funzionale, ogni qualvolta questo inizi già contaminato nei suoi contenuti e nelle sue determinazioni da precedenti condotte riconducibili a quelle indicate dall'art. 353-bis c.p..
In questi termini l'intenzione del Legislatore si concretizza e sul piano sistematico si completa: tutte le condotte, riconducibili a quelle indicate dagli artt. 353 e 353-bis c.p., rilevano penalmente ai sensi di tali norme quando in concreto abbiano avuto incidenza effettiva sul bando o sulla gara, ovvero abbiano mirato a influire, già nel suo inizio, sullo svolgimento della procedura volta a giungere eventualmente a un bando/gara che pur non si sia conclusa.

EDILIZIA PRIVATA: E' inammissibile la cosiddetta sanatoria "giurisprudenziale" o "impropria".
Per costante giurisprudenza di legittimità, l'eventuale sopravvenienza di strumenti di pianificazione urbanistica che modifichino il preesistente regime edificatorio dei suoli non è fattore idoneo a rimuovere la illegittimità penale delle eventuali condotte già poste in essere in contrasto con la preesistente disciplina urbanistica.
Ha, infatti, chiarito questa Corte che in tema di reati urbanistici, la sanatoria degli abusi edilizi idonea ad estinguere il reato di cui all'art. 44 del dPR n. 380 del 2001, non ammettendo termini o condizioni, deve riguardare l'intervento edilizio nel suo complesso e può essere conseguita solo qualora ricorrano tutte le condizioni espressamente indicate dall'art. 36 del dPR cit. e, precisamente, la doppia conformità delle opere alla disciplina urbanistica vigente sia al momento della realizzazione del manufatto, che al momento della presentazione della domanda di sanatoria, dovendo escludersi la possibilità di una legittimazione postuma di opere originariamente abusive che, solo successivamente, in applicazione della cosiddetta sanatoria "giurisprudenziale" o "impropria", siano divenute conformi alle norme edilizie ovvero ai sopravvenuti strumenti di pianificazione urbanistica.
Ritenere, come parrebbe fare il ricorrente, che l'intervenuta modificazione degli strumenti urbanistici adottati in sede locale possa valere a recuperare a legittimità tutti i manufatti che, realizzati in contrasto con la disciplina vigente al momento della loro edificazione, si trovino per avventura ad essere conformi a quella sopravvenuta, equivarrebbe ad attribuire non al legislatore, tantomeno a quello nazionale, ma all'amministratore locale il potere (che, si badi, per essere legittimamente utilizzato dal legislatore nazionale deve essere dominato dal carattere della eccezionalità, come più volte sottolineato dalla Corte costituzionale) di adottare sostanziali misure di condono edilizio territorialmente circoscritte, i cui effetti, difficilmente preventivabili, sarebbero certamente pesantemente pregiudizievoli sull'ordinato assetto del territorio.

Quale ulteriore motivo di lagnanza il D. ha dedotto la ingiustificata protrazione del sequestro sull'intera area del complesso edilizio, evidenziandosi in tale modo l'evidente sproporzione fra gli effetti dell'atto impugnato e le sue finalità cautelari; d'altra parte, aggiungeva il ricorrente, la approvazione del nuovo PUG da parte del Comune di Porto Cesareo dovrebbe sicuramente incidere positivamente nel senso della revoca del sequestro stante la evidente manifestazione di volontà da parte del detto Comune di riconoscere, ex post, la conformità degli interventi realizzati alle nuove previsioni urbanistiche.
Ambedue le doglianze non appaiono condivisibili.
Con riferimento alla prima, osserva la Corte che, per costante giurisprudenza di legittimità, l'eventuale sopravvenienza di strumenti di pianificazione urbanistica che modifichino il preesistente regime edificatorio dei suoli non è fattore idoneo a rimuovere la illegittimità penale delle eventuali condotte già poste in essere in contrasto con la preesistente disciplina urbanistica.
Ha, infatti, chiarito questa Corte che in tema di reati urbanistici, la sanatoria degli abusi edilizi idonea ad estinguere il reato di cui all'art. 44 del dPR n. 380 del 2001, non ammettendo termini o condizioni, deve riguardare l'intervento edilizio nel suo complesso e può essere conseguita solo qualora ricorrano tutte le condizioni espressamente indicate dall'art. 36 del dPR cit. e, precisamente, la doppia conformità delle opere alla disciplina urbanistica vigente sia al momento della realizzazione del manufatto, che al momento della presentazione della domanda di sanatoria, dovendo escludersi la possibilità di una legittimazione postuma di opere originariamente abusive che, solo successivamente, in applicazione della cosiddetta sanatoria "giurisprudenziale" o "impropria", siano divenute conformi alle norme edilizie ovvero ai sopravvenuti strumenti di pianificazione urbanistica (Corte di cassazione, Sezione III penale, 18.11.2014, n. 47402; idem Sezione III penale, 21.06.2007, n. 24451).
D'altra parte la originaria illiceità degli interventi edilizi compiuti nel tempo all'interno del complesso turistico denominato Riva degli angeli è stata ampiamente testimoniata dalla sentenza di questa Corte, richiamata anche dalla difesa del D., con la quale è stata rigettata la impugnazione della ordinanza reiettiva del riesame ex art. 309 cod. proc. pen. del provvedimento di sequestro preventivo emesso dal Gip di Lecce; in quella sede, infatti, questa Corte ebbe a ritenere che "in buona sostanza, le opere realizzate dovevano ritenersi assolutamente incompatibili con la destinazione urbanistica della zona e, sin dall'origine, finalizzate a realizzare un ampio complesso residenziale che è stato abusivamente e progressivamente ampliato".
Ritenere, come parrebbe fare il ricorrente, che l'intervenuta modificazione degli strumenti urbanistici adottati in sede locale possa valere a recuperare a legittimità tutti i manufatti che, realizzati in contrasto con la disciplina vigente al momento della loro edificazione, si trovino per avventura ad essere conformi a quella sopravvenuta, equivarrebbe ad attribuire non al legislatore, tantomeno a quello nazionale, ma all'amministratore locale il potere (che, si badi, per essere legittimamente utilizzato dal legislatore nazionale deve essere dominato dal carattere della eccezionalità, come più volte sottolineato dalla Corte costituzionale: cfr. sentenze n. 196 del 2004 e n. 256 del 1996) di adottare sostanziali misure di condono edilizio territorialmente circoscritte, i cui effetti, difficilmente preventivabili, sarebbero certamente pesantemente pregiudizievoli sull'ordinato assetto del territorio (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 25.06.2015 n. 26715).

INCARICHI PROFESSIONALI: Per il compenso serve l'incarico. L'avvocato deve dimostrare il titolo.
Il compenso può essere richiesto dall'avvocato, solo se quest'ultimo dimostra l'avvenuto conferimento dell'incarico.

È quanto hanno affermato i giudici della II Sez. civile della Corte di Cassazione con la sentenza 24.06.2015 n. 13106.
Il thema decidendum
Un avvocato conveniva in giudizio i propri clienti, padre e figlio, per i quali aveva svolto un incarico stragiudiziale, denunciando il disinteresse dei clienti medesimi e chiedeva, quindi, la liquidazione dei compensi spettanti.
Il Tribunale adito rigettava le richieste di condanna.
La Corte d'appello confermava quanto pronunciato dal Tribunale, poiché da quanto portato in giudizio non si evinceva alcun conferimento di incarichi professionali all'avvocato.
Il ricorso in Cassazione: il conferimento dell'incarico.
L'avvocato ricorreva in Cassazione, che evidenziava come la decisione della Corte territoriale fosse logica e congruente nell'osservare come l'espletamento dell'attività professionale di cui il ricorrente chiedeva la remunerazione non trovava alcun fondamento, in termini di conferimento di incarico.
Appello e nuove prove
Nella medesima sentenza in commento, i giudici di piazza Cavour hanno ribadito che esiste il divieto di nuove prove in appello. L'avvocato affermava che il divieto di prove nuove in appello si applicherebbe solo alle prove costituende e non a quelle precostituite come nel caso di specie.
Si osserva che l'articolo 345 cpc, comma 3, nel subordinare l'ammissione di nuovi mezzi di prova in grado di appello alla condizione che il collegio li ritenga indispensabili ai fini della decisione ovvero, in via alternativa, che la parte dimostri di non averli potuti proporre in primo grado per causa ad essa non imputabile, stabilisce il principio dell'inammissibilità di mezzi di prova nuovi, cioè di mezzi di prova la cui ammissione non sia stata richiesta in precedenza.
Gli Ermellini hanno, altresì escluso, ogni differenza tra prove precostituite e prove costituende ai fini del divieto di cui all'art. 345 c.p.c. e, inoltre, nel caso di specie, l'eventuale lesione del diritto di difesa, lamentata dall'avvocato, non ha formato oggetto di appello (articolo ItaliaOggi Sette del 20.07.2015).

EDILIZIA PRIVATA: Sul potere comunale di limitare l'installazione degli impianti di distribuzione carburanti.
Il Collegio è consapevole dell’esistenza di un dibattito giurisprudenziale in ordine alla concreta portata applicativa dell’art. 2 del d.lgs. n. 32/1998, e ritiene di dovere aderire ad un’interpretazione di tale norma che non impedisca ai comuni l’esercizio di qualsiasi ulteriore potere pianificatorio, oltre alle facoltà di intervento ad esso consentite dal comma 1-bis della citata norma, che statuisce che “la localizzazione degli impianti di carburanti costituisce un mero adeguamento degli strumenti urbanistici in tutte le zone e sottozone del piano regolatore generale non sottoposte a particolari vincoli paesaggistici, ambientali ovvero monumentali e non comprese nelle zone territoriali omogenee A".
Invero, una lettura formalistica della previsione di cui al comma 1-bis risulterebbe di dubbia ammissibilità costituzionale, anche in considerazione del fatto che la stessa non risulta prevedere possibili limitazioni a tutela di interessi di sanitari ovvero di salubrità ambientale.
In tale ottica, la giurisprudenza ha chiarito che la normativa richiamata va letta "non certo nel senso di consentire un'immunità totale dall'applicazione delle ulteriori regole dettate in sede di pianificazione", ma come previsione di una astratta compatibilità funzionale degli impianti di carburante con le diverse parti del territorio comunale, ad eccezione di quelle comprese in zona territoriale omogenea A ovvero soggette a particolari vincoli paesaggistici, ambientali o monumentali (art. 2, comma 1-bis), con l'effetto che essi non devono di necessità essere collocati in zona territoriale omogenea a destinazione industriale.
Ciò non esclude tuttavia la permanenza di un potere di regolamentazione urbanistica in materia, “cosicché resta possibile opporre l'incompatibilità dell'intervento con le disposizioni edilizie del piano regolatore, le prescrizioni sulla sicurezza sanitaria, ambientale e stradale, le norme di tutela dei beni storici e artistici e le norme di indirizzo programmatico delle regioni; è infatti salva la potestà comunale di individuare le caratteristiche delle aree sulle quali possono essere realizzati tali impianti”.
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Nel caso di specie il potere pianificatorio dell’ente locale è stato utilizzato in modo irragionevole, poiché, a fronte del dato normativo sopra citato, è stata prevista dall’art. 47, comma 3, lett. b), del piano delle regole un’assoluta incompatibilità tra le aree destinate all’esercizio dell’attività agricola, esclusa una limitata fascia stradale, e la realizzazione di nuovi impianti per la distribuzione di carburanti, senza alcuna specificazione di quali sarebbero le disposizioni edilizie del piano regolatore, le prescrizioni sulla sicurezza sanitaria, ambientale e stradale, le norme di tutela dei beni storici e artistici o le norme di indirizzo programmatico delle regioni ostative alla suddetta installazione.
La norma del PGT citata non rispetta, pertanto, né il letterale disposto dell’art. 2, comma 1-bis del d.lgs. n. 32/1998, né un’interpretazione ragionevole dell’estensione di tale precetto in materia di adeguamento degli strumenti urbanistici, che implica, come detto, una compatibilità astratta dell’installazione di distributori di carburanti in tutte le zone del territorio comunale non rientranti nelle eccezioni espresse di legge o nei limiti individuati di volta in volta dall’amministrazione con riferimento ad interessi vitali da salvaguardare tramite lo strumento di pianificazione.
Nel caso di specie, come detto, l’autorizzazione è stata negata con riferimento ad un limite non rientrante nei suddetti parametri e dettato in modo assoluto e non motivato con riferimento ad una zona (zona agricola) astrattamente compatibile con l’installazione di impianti di distribuzione di carburanti.
Ne consegue che vanno annullati, in parte qua, in quanto illegittimi, sia il provvedimento di diniego impugnato che la norma del piano delle regole su citata, posto che su tale ultima disposizione è integralmente basata la motivazione dell’atto di diniego.

Il ricorso è fondato, sotto il profilo assorbente dell’illegittimità della norma del piano delle regole opposta dal comune di Busto Garolfo per rigettare l’istanza di rilascio dell’autorizzazione all’installazione di un nuovo impianto stradale di distribuzione di carburanti per autotrazione.
Il Collegio è consapevole dell’esistenza di un dibattito giurisprudenziale in ordine alla concreta portata applicativa dell’art. 2 del d.lgs. n. 32/1998, e ritiene di dovere aderire ad un’interpretazione di tale norma che non impedisca ai comuni l’esercizio di qualsiasi ulteriore potere pianificatorio, oltre alle facoltà di intervento ad esso consentite dal comma 1-bis della citata norma, che statuisce che “la localizzazione degli impianti di carburanti costituisce un mero adeguamento degli strumenti urbanistici in tutte le zone e sottozone del piano regolatore generale non sottoposte a particolari vincoli paesaggistici, ambientali ovvero monumentali e non comprese nelle zone territoriali omogenee A".
Invero, una lettura formalistica della previsione di cui al comma 1-bis risulterebbe di dubbia ammissibilità costituzionale, anche in considerazione del fatto che la stessa non risulta prevedere possibili limitazioni a tutela di interessi di sanitari ovvero di salubrità ambientale.
In tale ottica, la giurisprudenza ha chiarito che la normativa richiamata va letta "non certo nel senso di consentire un'immunità totale dall'applicazione delle ulteriori regole dettate in sede di pianificazione" (Cons. Stato, sez. 5^, 13.11.2009, n. 7096), ma come previsione di una astratta compatibilità funzionale degli impianti di carburante con le diverse parti del territorio comunale, ad eccezione di quelle comprese in zona territoriale omogenea A ovvero soggette a particolari vincoli paesaggistici, ambientali o monumentali (art. 2, comma 1-bis), con l'effetto che essi non devono di necessità essere collocati in zona territoriale omogenea a destinazione industriale. Ciò non esclude tuttavia la permanenza di un potere di regolamentazione urbanistica in materia, “cosicché resta possibile opporre l'incompatibilità dell'intervento con le disposizioni edilizie del piano regolatore, le prescrizioni sulla sicurezza sanitaria, ambientale e stradale, le norme di tutela dei beni storici e artistici e le norme di indirizzo programmatico delle regioni; è infatti salva la potestà comunale di individuare le caratteristiche delle aree sulle quali possono essere realizzati tali impianti” (così, da ultimo, Tar Liguria, sent. n. 188/2014).
Nel caso di specie, tuttavia, il potere pianificatorio dell’ente locale è stato utilizzato in modo irragionevole, poiché, a fronte del dato normativo sopra citato, è stata prevista dall’art. 47, comma 3, lett. b), del piano delle regole un’assoluta incompatibilità tra le aree destinate all’esercizio dell’attività agricola, esclusa una limitata fascia stradale, e la realizzazione di nuovi impianti per la distribuzione di carburanti, senza alcuna specificazione di quali sarebbero le disposizioni edilizie del piano regolatore, le prescrizioni sulla sicurezza sanitaria, ambientale e stradale, le norme di tutela dei beni storici e artistici o le norme di indirizzo programmatico delle regioni ostative alla suddetta installazione (cfr., negli stessi termini, Tar Sicilia, sede di Catania, sent. n. 390/2013).
La norma del PGT citata non rispetta, pertanto, né il letterale disposto dell’art. 2, comma 1-bis del d.lgs. n. 32/1998, né un’interpretazione ragionevole dell’estensione di tale precetto in materia di adeguamento degli strumenti urbanistici, che implica, come detto, una compatibilità astratta dell’installazione di distributori di carburanti in tutte le zone del territorio comunale non rientranti nelle eccezioni espresse di legge o nei limiti individuati di volta in volta dall’amministrazione con riferimento ad interessi vitali da salvaguardare tramite lo strumento di pianificazione.
Nel caso di specie, come detto, l’autorizzazione è stata negata con riferimento ad un limite non rientrante nei suddetti parametri e dettato in modo assoluto e non motivato con riferimento ad una zona (zona agricola) astrattamente compatibile con l’installazione di impianti di distribuzione di carburanti.
Ne consegue che vanno annullati, in parte qua, in quanto illegittimi, sia il provvedimento di diniego impugnato che la norma del piano delle regole su citata, posto che su tale ultima disposizione è integralmente basata la motivazione dell’atto di diniego.
Inammissibili sono, infine, le domande di annullamento degli altri atti impugnati, in quanto relative a meri atti endoprocedimentali (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 24.06.2015 n. 1463 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn materia edilizia è qualificabile pertinenza qualsiasi manufatto strumentale rispetto ad uno principale e di dimensioni modeste rispetto a quest'ultimo; più in particolare la pertinenza è configurabile quando vi è un oggettivo nesso funzionale e strumentale tra cosa accessoria e principale, cioè un nesso che non consenta altro che la destinazione della cosa ad un uso pertinenziale durevole, oltre che una dimensione ridotta e modesta del manufatto rispetto alla cosa cui esso inerisce.
Inoltre, a differenza della nozione di pertinenza di derivazione civilistica, ai fini edilizi il manufatto può essere considerato pertinenza quando non solo è preordinato ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale e funzionalmente inserito al suo servizio, ma è anche sfornito di un autonomo valore di mercato e non comporta un c.d. carico urbanistico.

8. Infondata è la censura, articolata nella prima parte del primo motivo di ricorso, con cui il ricorrente deduce il difetto di presupposti e il connesso di difetto di motivazione e di istruttoria, per essere la gravata ordinanza di demolizione riferita ad un manufatto di carattere pertinenziale, non qualificabile pertanto quale nuova costruzione e non sanzionabile ai sensi dell’invocato disposto dell’art. 31 D.P.R. 380/2001.
Va infatti rammentato che secondo la costante giurisprudenza “In materia edilizia è qualificabile pertinenza qualsiasi manufatto strumentale rispetto ad uno principale e di dimensioni modeste rispetto a quest'ultimo; più in particolare la pertinenza è configurabile quando vi è un oggettivo nesso funzionale e strumentale tra cosa accessoria e principale, cioè un nesso che non consenta altro che la destinazione della cosa ad un uso pertinenziale durevole, oltre che una dimensione ridotta e modesta del manufatto rispetto alla cosa cui esso inerisce; inoltre, a differenza della nozione di pertinenza di derivazione civilistica, ai fini edilizi il manufatto può essere considerato pertinenza quando non solo è preordinato ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale e funzionalmente inserito al suo servizio, ma è anche sfornito di un autonomo valore di mercato e non comporta un c.d. carico urbanistico” (da ultimo Consiglio di Stato sez. VI, 05/01/2015, n. 13).
Da ciò la non configurabilità del carattere pertinenziale del manufatto di cui è causa, non avendo parte ricorrente allegato i relativi presupposti, neppure indicando la destinazione del medesimo e le ragioni del suo asservimento al manufatto principale, sulla cui esistenza e consistenza del pari nulla ha allegato e provato.
Inoltre dal combinato disposto dell’art. 3, comma 1, lettera e.6), del D.P.R. n. 380/2001, che configura espressamente come interventi di nuova costruzione anche gli “interventi pertinenziali … che comportino la realizzazione di un volume superiore al 20% del volume dell'edificio principale”, con i successivi articoli 10, comma 1, lettera a), che subordina al rilascio del permesso di costruire gli interventi di nuova costruzione, e 31, comma 2, che prevede la sanzione della demolizione per gli interventi edilizi di nuova costruzione eseguiti in assenza del prescritto permesso di costruire, risulta che l’Amministrazione ha correttamente ordinato la demolizione delle opere abusive di cui trattasi, consistenti nella realizzazione di un manufatto fuori terra, perché la parte ricorrente non ha adeguatamente provato che il nuovo volume realizzato è inferiore al 20% del volume dell’edificio principale, la cui consistenza, come detto, non è stata neppure allegata.
Da ciò la piena applicabilità della sanzione demolitoria ex art. 31 D.P.R. 380/2001, dovendosi qualificare quale nuova costruzione ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. e)1, D.P.R. 380/2001 “la costruzione di manufatti edilizi fuori terra o interrati, ovvero l'ampliamento di quelli esistenti all'esterno della sagoma esistente, fermo restando, per gli interventi pertinenziali, quanto previsto alla lettera e.6”), secondo cui sono interventi di nuova costruzione “gli interventi pertinenziali che le norme tecniche degli strumenti urbanistici, in relazione alla zonizzazione e al pregio ambientale e paesaggistico delle aree, qualifichino come interventi di nuova costruzione, ovvero che comportino la realizzazione di un volume superiore al 20% del volume dell'edificio principale”.
Ciò in quanto, giova ripeterlo, parte ricorrente non ha in primo luogo provato trattarsi di manufatto di carattere pertinenziale -non avendo neppure indicato quale sarebbe il manufatto principale– ed in secondo luogo in quanto non ha provato che si tratti di pertinenza avente una consistenza volumetrica inferiore al 20% del manufatto principale, essendo comunque le pertinenze di maggiore consistenza asservite al regime delle nuove costruzioni (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 23.06.2015 n. 3321 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Presupposto per l’adozione dell’ordine di demolizione di opere abusive è soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza del prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo tale ordine un atto dovuto, esso è sufficientemente motivato con l’accertamento dell’abuso, e non necessita di una particolare motivazione in ordine all’interesse pubblico alla rimozione dell’abuso stesso -che è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell’assetto urbanistico violato- ed alla possibilità di adottare provvedimenti alternativi.
8.1. Né il manufatto in questione, in quanto di carattere autonomo e fuori terra, può essere annoverato fra gli interventi di ristrutturazione, dovendo comunque intendersi quali interventi di ristrutturazione, come evincibile a contrario dal cennato disposto dell’art. 3, comma 1, lett. e1), quelli eseguiti all’interno della sagoma di un preesistente edificio.
8.2. Da ciò la correttezza della sanzione demolitoria ex art. 31 D.P.R. 380/2001 e della motivazione e dell’istruttoria del gravato provvedimento, alla luce del costante orientamento in materia secondo cui “Presupposto per l’adozione dell’ordine di demolizione di opere abusive è soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza del prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo tale ordine un atto dovuto, esso è sufficientemente motivato con l’accertamento dell’abuso, e non necessita di una particolare motivazione in ordine all’interesse pubblico alla rimozione dell’abuso stesso -che è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell’assetto urbanistico violato- ed alla possibilità di adottare provvedimenti alternativi" (ex multis, TAR Campania Napoli, Sez. IV, 28.12.2009, n. 9638; Sez. VI, 09.11.2009, n. 7077; Sez. VII, 04.12.2008, n. 20987; Cons. Stato, Sez. IV, 27.04.2004, n. 2529) (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 23.06.2015 n. 3321 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa sola presentazione dell’istanza di accertamento di conformità è inidonea a determinare l’improcedibilità del ricorso avverso l’ingiunzione di demolizione, determinando la mera sospensione dell’efficacia dell’ordinanza di demolizione, che si consolida e riacquista efficacia a seguito del rigetto espresso o tacito, per formarsi del silenzio-rigetto al decorso del termine di sessanta giorni dalla presentazione dell’istanza, ex art. 36 D.P.R. 380/2001 sull’istanza medesima, senza che all’occorrenza sia necessaria l’adozione di una nuova ordinanza di demolizione (è stato anche affermato che “L'inutile decorso del prescritto termine comporta dunque, inesorabilmente, la reiezione dell'istanza del privato” e in mancanza di impugnativa del silenzio provvedimentale ovvero della prova di tale reazione processuale, l'atto tacito di rigetto della domanda di sanatoria si consolida e diviene inoppugnabile, con conseguente piena riespansione dell'efficacia dell'ingiunzione di demolizione, non occorrendo in alcun modo a tali effetti la reiterazione comunale dell'ordine demolitorio”).
Questo orientamento è stato del resto di recente condiviso anche dal Consiglio di Stato laddove il Supremo Consesso, esprimendosi in senso contrario a quanto ritenuto dal Tribunale amministrativo regionale per la Campania, ha affermato che “la consolidata giurisprudenza cui fa riferimento la sentenza impugnata si è formata in tema di condono edilizio, ossia di richiesta che trova il suo fondamento in una norma di carattere legislativo, che, innovando alla disciplina urbanistica vigente, consente, a determinate condizioni e per un limitato periodo di tempo, la sanatoria degli abusi commessi.

8. Preliminarmente va rilevato come la documentazione prodotta dalla parte in vista dell’udienza di discussione sia inidonea, da sola considerata, a determinare l’improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse, in quanto dalla medesima si evince il rilascio del solo titolo paesaggistico a sanatoria, ex art. 167 Dlgs. 42/2004 e non anche del consequenziale titolo edilizio, ex art. 36 D.P.R. 380/2001, per cui non può dirsi superata l’ordinanza contestata, adottata in relazione a lavori eseguiti in assenza di permesso di costruire in zona sottoposta a vincolo paesaggistico.
8.1. Ciò anche in quanto, secondo l’orientamento giurisprudenziale condiviso dalla Sezione, la sola presentazione dell’istanza di accertamento di conformità è inidonea a determinare l’improcedibilità del ricorso avverso l’ingiunzione di demolizione, determinando la mera sospensione dell’efficacia dell’ordinanza di demolizione, che si consolida e riacquista efficacia a seguito del rigetto espresso o tacito, per formarsi del silenzio-rigetto al decorso del termine di sessanta giorni dalla presentazione dell’istanza, ex art. 36 D.P.R. 380/2001 sull’istanza medesima, senza che all’occorrenza sia necessaria l’adozione di una nuova ordinanza di demolizione (ex multis TAR Campania, Napoli, VII, 28.10.2013, n. 4508 secondo cui “L'inutile decorso del prescritto termine comporta dunque, inesorabilmente, la reiezione dell'istanza del privato” (TAR Campania Napoli, sez. II, 13.12.2011, n. 5759) e in mancanza di impugnativa del silenzio provvedimentale ovvero della prova di tale reazione processuale, l'atto tacito di rigetto della domanda di sanatoria si consolida e diviene inoppugnabile, con conseguente piena riespansione dell'efficacia dell'ingiunzione di demolizione, non occorrendo in alcun modo a tali effetti la reiterazione comunale dell'ordine demolitorio (cfr. TAR Campania, Napoli, III, 07.11.2011, n. 5157)”).
Questo orientamento è stato del resto di recente condiviso anche dal Consiglio di Stato con sentenza n. 2307 del 06.05.2014, nella quale il Supremo Consesso, esprimendosi in senso contrario a quanto ritenuto dal Tribunale amministrativo regionale per la Campania, sezione VIII, 09.10.2013, n. 4525, ha affermato che “la consolidata giurisprudenza cui fa riferimento la sentenza impugnata si è formata in tema di condono edilizio (Cons. Stato VI, 26.03.2010, n. 1750), ossia di richiesta che trova il suo fondamento in una norma di carattere legislativo, che, innovando alla disciplina urbanistica vigente, consente, a determinate condizioni e per un limitato periodo di tempo, la sanatoria degli abusi commessi.
Quei principi non possono trovare applicazione al caso di specie, in cui il ricorrente ha formulato istanza ai sensi dell’art. 36 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, ossia ai sensi di una norma che, prevedendo quella che, sinteticamente, si definisce doppia conformità, limita la valutazione dell’opera sulla base di una disciplina preesistente.
Sostenere, come affermato dalla sentenza impugnata, che, nell’ipotesi di rigetto, esplicito o implicito, dell’istanza di accertamento di conformità, l’amministrazione debba riadottare l’ordinanza di demolizione, equivale al riconoscimento in capo a un soggetto privato, destinatario di un provvedimento sanzionatorio, il potere di paralizzare, attraverso un sostanziale annullamento, quel medesimo provvedimento.
La ricostruzione dell’intero procedimento nei termini suddetti non può essere effettuata in via meramente interpretativa, ponendosi essa al di fuori di ogni concezione sull’esercizio del potere, e richiede un’esplicita scansione legislativa, allo stato assente, in ordine ai tempi e ai modi della partecipazione dei soggetti del rapporto”.
9. Il ricorso va dunque esaminato nel merito (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 23.06.2015 n. 3320 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Secondo la giurisprudenza "Per eseguire interventi edilizi su immobili ricadenti in aree sottoposte a tutela paesaggistica è necessario acquisire il preventivo rilascio del parere favorevole dell'autorità preposta alla tutela del vincolo. Di contro, in mancanza di prova dell'avvenuto rilascio di tale parere, non può dirsi maturato il perfezionamento della denuncia di inizio attività per silentium. Ne discende che la stessa mancanza di un titolo abilitativo, valido ed efficace, svincola l'esercizio del potere repressivo dalla necessità di rimuovere (in autotutela) una situazione giuridica (id est abilitazione a realizzare i lavori denunciati) inesistente”.
Infatti, come noto, il nulla osta paesaggistico costituisce atto presupposto rispetto ai titoli edilizi (ivi compresa la d.i.a.) che devono pertanto considerarsi tamquan non esset in assenza del medesimo.

10. Il Collegio procederà allo scrutinio delle censure in ordine logico, con disamina prioritaria delle censure fondate sull’assenza dei presupposti e con accorpamento di quelle connesse.
Ciò posto, va esaminata prioritariamente la censura contenuta nella prima parte del primo motivo di ricorso, con cui parte ricorrente lamenta l’illegittimità dell’ordinanza impugnata sulla base del rilievo che in relazione agli interventi che ne erano oggetto aveva presentato D.I.A., sulla quale il Comune non era intervenuto né in via inibitoria, né un via di autotutela. Pertanto, nella prospettazione attorea, l’ordinanza di demolizione sarebbe illegittima per essere la D.I.A. di cui è causa perfettamente valida ed efficace.
La censura non merita accoglimento, in quanto come emerge dal chiaro tenore letterale dell’ordinanza gravata e non contestato da parte ricorrente, i lavori di cui è causa sono stati eseguiti in zona paesaggisticamente vincolata, per cui ai fini del perfezionamento della D.I.A. occorreva il previo rilascio del nulla osta paesaggistico, del resto richiesto dalla parte a sanatoria, come risulta dalla documentazione prodotta in vista dell’udienza di discussione.
Ed invero secondo la giurisprudenza (ex multis TAR Napoli (Campania) sez. VI, 20/03/2014, n. 1616) “Per eseguire interventi edilizi su immobili ricadenti in aree sottoposte a tutela paesaggistica è necessario acquisire il preventivo rilascio del parere favorevole dell'autorità preposta alla tutela del vincolo. Di contro, in mancanza di prova dell'avvenuto rilascio di tale parere, non può dirsi maturato il perfezionamento della denuncia di inizio attività per silentium. Ne discende che la stessa mancanza di un titolo abilitativo, valido ed efficace, svincola l'esercizio del potere repressivo dalla necessità di rimuovere (in autotutela) una situazione giuridica (id est abilitazione a realizzare i lavori denunciati) inesistente”.
Infatti, come noto, il nulla osta paesaggistico costituisce atto presupposto rispetto ai titoli edilizi (ivi compresa la d.i.a.) che devono pertanto considerarsi tamquan non esset in assenza del medesimo (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 23.06.2015 n. 3320 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Secondo costante orientamento giurisprudenziale, dal chiaro tenore letterale dell’articolo 36 del D.P.R. n. 380/2001 (che ha sostituito l’art. 13 della legge n. 47/1985) si desume che il rilascio del permesso di costruire in sanatoria consegue necessariamente ad un’istanza dell’interessato, mentre al Comune compete, ai sensi dell’art. 27, comma 1, del D.P.R. n. 380/2001, l’esercizio della vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia che si svolge nel territorio comunale.
Pertanto, una volta accertata l’esecuzione di opere in assenza del prescritto permesso di costruire, l’Amministrazione comunale deve senz’altro disporne la demolizione, non essendo tenuta a valutare preventivamente la sanabilità delle stesse.
Infatti presupposto per l’adozione dell’ordine di demolizione di opere abusive è soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza del prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo tale ordine un atto dovuto, esso è sufficientemente motivato con l’accertamento dell’abuso, e non necessita di una particolare motivazione in ordine all’interesse pubblico alla rimozione dell’abuso stesso -che è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell’assetto urbanistico violato- ed alla possibilità di adottare provvedimenti alternativi.

11. Infondate sono anche le censure, del pari vertenti sull’assenza dei presupposti (oltreché sull’assenza di istruttoria e di motivazione), articolate nel secondo e terzo motivo di ricorso, secondo cui il Comune non poteva ingiungere la demolizione senza previamente valutare la sanabilità delle opere di cui è causa (terzo motivo) in considerazione tra l’altro della loro legittimità urbanistica e paesaggistica (secondo motivo di ricorso).
Ed invero, secondo costante orientamento giurisprudenziale, dal chiaro tenore letterale dell’articolo 36 del D.P.R. n. 380/2001 (che ha sostituito l’art. 13 della legge n. 47/1985) si desume che il rilascio del permesso di costruire in sanatoria consegue necessariamente ad un’istanza dell’interessato, mentre al Comune compete, ai sensi dell’art. 27, comma 1, del D.P.R. n. 380/2001, l’esercizio della vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia che si svolge nel territorio comunale. Pertanto, una volta accertata l’esecuzione di opere in assenza del prescritto permesso di costruire, l’Amministrazione comunale deve senz’altro disporne la demolizione, non essendo tenuta a valutare preventivamente la sanabilità delle stesse (ex multis, TAR Campania Napoli, Sez. III, 27.09.2006, n. 8331; Sez. IV, 04.02.2003, n. 617).
Infatti presupposto per l’adozione dell’ordine di demolizione di opere abusive è soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza del prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo tale ordine un atto dovuto, esso è sufficientemente motivato con l’accertamento dell’abuso, e non necessita di una particolare motivazione in ordine all’interesse pubblico alla rimozione dell’abuso stesso -che è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell’assetto urbanistico violato- ed alla possibilità di adottare provvedimenti alternativi (ex multis, TAR Campania Napoli, Sez. IV, 28.12.2009, n. 9638; Sez. VI, 09.11.2009, n. 7077; Sez. VII, 04.12.2008, n. 20987) (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 23.06.2015 n. 3320 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Gli interventi che si vorrebbero classificare quali di risanamento conservativo o di manutenzione straordinaria poiché comportati cambio di destinazione d’uso, da agricola a civile abitazione di parte di un fabbricato rustico, già in parte adibito ad abitazione –con il connesso aumento del carico urbanistico– in quanto comportanti variazioni prospettiche, vanno invece (correttamente) qualificati quali interventi di ristrutturazione, necessitanti di permesso di costruire, come evincibile dal combinato disposto degli artt., vigenti ratione temporis, 3, comma 1, lett. d) D.P.R. 380/2001, secondo cui sono interventi di ristrutturazione “gli interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente” e 10 D.P.R. 380/2001, secondo il quale sono soggetti a permesso di costruire “c) gli interventi di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d'uso”.
Detta qualificazione dell’intervento prevarrebbe in ogni caso su quella diversa contenuta negli strumenti urbanistici, in quanto ai sensi del medesimo art. 3, comma 2, D.P.R. 380/2001 “Le definizioni di cui al comma 1 prevalgono sulle disposizioni degli strumenti urbanistici generali e dei regolamenti edilizi”.

12. Parimenti infondato è l’assunto, sotteso al primo e secondo motivo di ricorso, secondo il quale gli interventi di cui è causa andrebbero qualificati quali interventi di risanamento conservativo o di manutenzione straordinaria, assentibili tramite d.i.a. .
Ed invero gli interventi medesimi, in quanto comportati cambio di destinazione d’uso, da agricola a civile abitazione di parte di un fabbricato rustico, già in parte adibito ad abitazione –con il connesso aumento del carico urbanistico– in quanto comportanti variazioni prospettiche, vanno qualificati quali interventi di ristrutturazione, necessitanti di permesso di costruire, come evincibile dal combinato disposto degli artt., vigenti ratione temporis, 3, comma 1, lett. d) D.P.R. 380/2001, secondo cui sono interventi di ristrutturazione “gli interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente” e 10 D.P.R. 380/2001, secondo il quale sono soggetti a permesso di costruire “c) gli interventi di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d'uso”.
Detta qualificazione dell’intervento prevarrebbe in ogni caso su quella diversa contenuta negli strumenti urbanistici, in quanto ai sensi del medesimo art. 3, comma 2, D.P.R. 380/2001 “Le definizioni di cui al comma 1 prevalgono sulle disposizioni degli strumenti urbanistici generali e dei regolamenti edilizi”.
Peraltro gli interventi di cui è causa non potrebbero essere qualificati quali interventi di manutenzione straordinaria neanche ai sensi della più lata e sopravvenuta disciplina di cui all'art. 17, comma 1, lett. a), nn. 1) e 2), D.L. 12.09.2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla L. 11.11.2014, n. 164, che ha riscritto in parte qua l’art. 3 D.P.R. 380/2001 secondo il quale sono “b) "interventi di manutenzione straordinaria", le opere e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti anche strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici, sempre che non alterino la volumetria complessiva degli edifici e non comportino modifiche delle destinazioni di uso. Nell'ambito degli interventi di manutenzione straordinaria sono ricompresi anche quelli consistenti nel frazionamento o accorpamento delle unità immobiliari con esecuzione di opere anche se comportanti la variazione delle superfici delle singole unità immobiliari nonché del carico urbanistico purché non sia modificata la volumetria complessiva degli edifici e si mantenga l'originaria destinazione di uso”, ostando a tale qualificazione il realizzato cambio di destinazione d’uso.
Né, in considerazione del realizzato cambio di destinazione d’uso e delle variazioni prospettiche operate, l’intervento può essere ascritto alla categoria degli interventi di risanamento conservativo, dovendo considerarsi tali ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. c), D.P.R. 380/2001 “gli interventi edilizi rivolti a conservare l'organismo edilizio e ad assicurarne la funzionalità mediante un insieme sistematico di opere che, nel rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali dell'organismo stesso, ne consentano destinazioni d'uso con essi compatibili. Tali interventi comprendono il consolidamento, il ripristino e il rinnovo degli elementi costitutivi dell'edificio, l'inserimento degli elementi accessori e degli impianti richiesti dalle esigenze dell'uso, l'eliminazione degli elementi estranei all'organismo edilizio”).
13. Alla qualificazione dell’intervento di cui è causa quale intervento di ristrutturazione edilizia peraltro consegue la fondatezza della censura contenuta nella seconda parte del primo motivo di ricorso, secondo il quale il Comune non avrebbe potuto irrogare la sanzione demolitoria ai sensi dell’art. 31 D.P.R. 380/2001, prevista in relazione agli interventi di nuova costruzione e comportante acquisizione al patrimonio comunale in ipotesi di inottemperanza, ma avrebbe dovuto irrogare la sanzione demolitoria ai sensi del distinto disposto dell’art. 33 D.P.R. 380/2001.
13.1 Ciò risulta confermato dalla circostanza che il medesimo Comune, previo parere della Soprintendenza, abbia rilasciato il nulla osta paesaggistico ex post per l’intervento di cui è causa e lo abbia pertanto qualificato quale intervento assentibile ex post da un punto di vista paesaggistico, non comportante, in altri termini, aumento di volume e/o superficie, ex art. 167, comma 4, Dlgs. 42/2004. Ed invero lo stesso va qualificato quale intervento di ristrutturazione, con cambio di destinazione d’uso e variazioni prospettiche, ma senza aumento di superficie (determinando la sola trasformazione della superficie esistente in superficie residenziale) e di volume.
14. Il ricorso va dunque accolto sotto questo profilo (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 23.06.2015 n. 3320 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa mera presentazione dell'istanza di condono non autorizza la prosecuzione dei lavori abusivi a completamento delle opere oggetto della richiesta di sanatoria, le quali, fino al momento dell'eventuale accoglimento della domanda di condono, devono ritenersi comunque abusive" (è stato anche affermato che "laddove poi si tratti di opere eseguite in area vincolata occorre che venga acquisito il parere delle autorità competenti ai sensi dell'articolo 32 della stessa legge ed è inapplicabile il meccanismo del silenzio-assenso, alla luce delle disposizioni di cui alla legge summenzionata”).
La giurisprudenza ha pertanto ritenuto al riguardo che l’ingiunzione di demolizione è in tali ipotesi del tutto legittima atteso che “in presenza di manufatti abusivi non condonati né sanati, gli interventi ulteriori (sia pure riconducibili, nella loro oggettività, alle categorie della manutenzione straordinaria, del restauro e/o risanamento conservativo, della ristrutturazione, della realizzazione di opere costituenti pertinenze urbanistiche) ripetono le caratteristiche di illegittimità dell'opera principale, alla quale ineriscono strutturalmente, sicché non può ammettersi la prosecuzione dei lavori abusivi a completamento di opere che, fino al momento di eventuali sanatorie, devono ritenersi comunque abusive, con conseguente obbligo del Comune di ordinarne la demolizione. Ciò non significa negare in assoluto la possibilità di intervenire su immobili rispetto ai quali pende istanza di condono, ma solo affermare che, a pena di assoggettamento della medesima sanzione prevista per l'immobile abusivo cui ineriscono, ciò deve avvenire nel rispetto delle procedure di legge, ovvero segnatamente dell'art. 35, l. n. 47 del 1985".
Detta norma consente in presenza dei richiesti presupposti, fra i quali che si tratti di opere di cui all'art. 31, non comprese tra quelle indicate nell'art. 33 —queste non suscettibili di sanatoria in quanto incidenti su aree gravate da vincoli di inedificabilità assoluta— il completamento «sotto la propria responsabilità» di quanto già realizzato e fatto oggetto di domanda di condono edilizio «solo al decorso del termine dilatorio di trenta giorni dalla notifica al Comune del proprio intendimento, con allegazione di perizia giurata ovvero documentazione avente data certa in ordine allo stato dei lavori abusivi».

7. Ciò posto, va analizzata prioritariamente la censura riferita all’erronea applicazione dell’art. 31 D.P.R. 380/2001, laddove, secondo parte ricorrente, in relazione all’intervento sanzionato, in quanto configurabile quale opera di ristrutturazione, la sanzione demolitoria poteva essere applicata solo ai sensi dell’art. 33 D.P.R. 380/2001, non comportante la successiva acquisizione al patrimonio comunale in ipotesi di inottemperanza.
7.1 La censura è infondata, in quanto, come evincibile dalle premesse del provvedimento impugnato, le opere di cui è causa sono state realizzate in relazione ad un immobile sottoposto ad una pluralità di domande di condono non ancora definite, per cui deve ritenersi che le opere sanzionate con la gravata ordinanza, riferite ad un manufatto sub condono configurabile quale “nuova costruzione”, ripetano la medesima caratteristica d’illegittimità dell’opera principale alla quale accedono, e come tali siano sottoposte alla medesima sanzione.
Ed invero, secondo il costante orientamento giurisprudenziale di questo Tribunale “la mera presentazione dell'istanza di condono non autorizza la prosecuzione dei lavori abusivi a completamento delle opere oggetto della richiesta di sanatoria, le quali, fino al momento dell'eventuale accoglimento della domanda di condono, devono ritenersi comunque abusive" (TAR Campania Napoli, sez. VII, 03.11.2010, n. 22302; in senso analogo TAR Campania Napoli, sez. IV, 24.11.2009, n. 7961 secondo cui inoltre “laddove poi si tratti di opere eseguite in area vincolata” –come nella specie- “occorre che venga acquisito il parere delle autorità competenti ai sensi dell'articolo 32 della stessa legge ed è inapplicabile il meccanismo del silenzio-assenso, alla luce delle disposizioni di cui alla legge summenzionata”).
La giurisprudenza ha pertanto ritenuto al riguardo che l’ingiunzione di demolizione è in tali ipotesi del tutto legittima atteso che “in presenza di manufatti abusivi non condonati né sanati, gli interventi ulteriori (sia pure riconducibili, nella loro oggettività, alle categorie della manutenzione straordinaria, del restauro e/o risanamento conservativo, della ristrutturazione, della realizzazione di opere costituenti pertinenze urbanistiche) ripetono le caratteristiche di illegittimità dell'opera principale, alla quale ineriscono strutturalmente, sicché non può ammettersi la prosecuzione dei lavori abusivi a completamento di opere che, fino al momento di eventuali sanatorie, devono ritenersi comunque abusive, con conseguente obbligo del Comune di ordinarne la demolizione. Ciò non significa negare in assoluto la possibilità di intervenire su immobili rispetto ai quali pende istanza di condono, ma solo affermare che, a pena di assoggettamento della medesima sanzione prevista per l'immobile abusivo cui ineriscono, ciò deve avvenire nel rispetto delle procedure di legge, ovvero segnatamente dell'art. 35, l. n. 47 del 1985" (TAR Campania Napoli, sez. VI, 03.12.2010, n. 26788).
Detta norma consente in presenza dei richiesti presupposti, fra i quali che si tratti di opere di cui all'art. 31, non comprese tra quelle indicate nell'art. 33 —queste non suscettibili di sanatoria in quanto incidenti su aree gravate da vincoli di inedificabilità assoluta— il completamento «sotto la propria responsabilità» di quanto già realizzato e fatto oggetto di domanda di condono edilizio «solo al decorso del termine dilatorio di trenta giorni dalla notifica al Comune del proprio intendimento, con allegazione di perizia giurata ovvero documentazione avente data certa in ordine allo stato dei lavori abusivi» (TAR Campania Napoli, sez. VI, 12.11.2010, n. 24017; Tar Campania, Napoli, sez. VII , 08.04.2011, n. 1999).
7.2. Da ciò pertanto la non applicabilità della sanzione ex art. 33 D.P.R. 380/2001 riferita ad opere di ristrutturazione, la quale presuppone la legittimità dell’opera principale cui accedono le opere medesime, laddove nell’ipotesi di specie l’opera principale deve considerarsi abusiva fino alla definizione in senso positivo delle istanze di condono (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 23.06.2015 n. 3319 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: I) Presupposto per l’adozione dell’ordine di demolizione di opere abusive è soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza del prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo tale ordine un atto dovuto, esso è sufficientemente motivato con l’accertamento dell’abuso, e non necessita di una particolare motivazione in ordine all’interesse pubblico alla rimozione dell’abuso stesso -che è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell’assetto urbanistico violato- ed alla possibilità di adottare provvedimenti alternativi.
L’ordine di demolizione, pertanto, come tutti i provvedimenti sanzionatori edilizi, è un atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di questo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare.
Infatti, secondo la giurisprudenza, la natura interamente vincolata del provvedimento di demolizione esclude la necessaria ponderazione di interessi diversi da quelli pubblici tutelati e non richiede motivazione ulteriore rispetto alla dichiarata abusività;
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II) A fronte della motivazione in re ipsa che incontra l’ordine di demolizione all’esito dell’accertamento dell’abuso edilizio, il lasso temporale che fa sorgere l’onere di una motivazione rafforzata in capo all’amministrazione -ma sempre in presenza di circostanze eccezionali rigorosamente provate da chi le invoca- non è quello che intercorre tra il compimento dell’abuso e il provvedimento sanzionatorio ma quello che intercorre tra la conoscenza dell’illecito e il provvedimento sanzionatorio adottato.
In mancanza di conoscenza della violazione da parte dell’amministrazione non può consolidarsi in capo al privato alcun affidamento giuridicamente apprezzabile, il cui sacrificio meriti di essere adeguatamente apprezzato in sede motivazionale.
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III) Il Collegio ritiene che laddove, come nella specie, le opere abusive insistano su zona paesaggisticamente vincolata la prevalenza dell’interesse pubblico sull’interesse privato deve considerarsi in re ipsa, in considerazione del rilievo costituzionale del Paesaggio, ex art. 9, comma 2, Cost., assurgente a principio fondamentale, con conseguente primazia su gli altri interessi, pubblici e privati, del pari considerati dalla Costituzione, ma non annoverati fra i principi fondamentali (come afferma la Consulta, la demolizione si impone, nelle zone vincolate, stante la “straordinaria importanza della tutela «reale» dei beni paesaggistici ed ambientali”).
E' allora per tali ragioni che, “in relazione appunto ai vincoli paesaggistici, non possono trovare spazio applicativo i peculiari principi in base ai quali la giurisprudenza amministrativa ha individuato una posizione di affidamento tutelabile (quanto meno con il richiedersi nel provvedimento sanzionatorio una motivazione specifica, ulteriore rispetto a quella fondata sul mero perseguimento di un ripristino della legalità, in ordine alla necessità della demolizione dei manufatti e al connesso sacrificio dell'interesse privato) per colui che, pur avendo posto in essere abusi edilizi, abbia visto trascorrere un lungo lasso di tempo dalla loro commissione con inerzia dell'Amministrazione preposta alla vigilanza”.
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IV) Dal chiaro tenore letterale dell’articolo 36 del D.P.R. n. 380/2001 (che ha sostituito l’art. 13 della legge n. 47/1985) si desume che il rilascio del permesso di costruire in sanatoria consegue necessariamente ad un’istanza dell’interessato, mentre al Comune compete, ai sensi dell’art. 27, comma 1, del D.P.R. n. 380/2001, l’esercizio della vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia che si svolge nel territorio comunale.
Pertanto, una volta accertata l’esecuzione di opere in assenza del prescritto permesso di costruire, l’Amministrazione comunale deve senz’altro disporne la demolizione, non essendo tenuta a valutare preventivamente la sanabilità delle stesse.
Peraltro, l’istanza di accertamento di conformità ex art. 36 D.P.R. 380/2001 sarebbe comunque inammissibile in quanto le opere sanzionate non sarebbero comunque sanabili in difetto della necessaria autorizzazione paesaggistica, che, come noto, non può essere rilasciata ex post in relazione ad interventi, come nella specie, caratterizzati da aumento di volumetria e superficie, ex art. 167, comma 4, Dlgs. 42/2004.
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V) Parimenti infondata è la censura circa l’illegittimità dell’ordinanza di demolizione per mancata indicazione dell’area destinata ad essere acquisita in ipotesi di inottemperanza.
Infatti secondo una consolidata giurisprudenza, seguita dalla Sezione, nella motivazione dell’ordine di demolizione è necessaria e sufficiente l’analitica descrizione delle opere abusivamente realizzate, in modo da consentire al destinatario della sanzione di rimuoverle spontaneamente, mentre non è necessaria la descrizione precisa della superficie occupata e dell’area di sedime destinata ad essere gratuitamente acquisita al patrimonio comunale in caso di inottemperanza all’ordine di demolizione, perché tali elementi afferiscono all’eventuale successiva ordinanza di acquisizione al patrimonio comunale.

8. Le ulteriori censure, in quanto fondate sul difetto di istruttoria e di motivazione dell’ordinanza gravata, possono invece essere esaminate congiuntamente.
8.1 Le stesse si rilevano parimenti infondate.
La Sezione al riguardo facendo proprio il consolidato indirizzo giurisprudenziale concernente i punti controversi (cfr., fra le tante, Cons. Stato, sez. V, 09.09.2013, n. 4470; sez. VI, 05.08.2013, n. 4086; sez. II, 26.06.2013, n. 649/13; sez. VI, 04.03.2013, n. 1268; sez. IV, 15.02.2013, n. 915; sez. VI, 08.02.2013, n. 718; sez. IV, 02.02.2012, n. 615, Cass. pen., sez. fer., 01.09.2011, n. 33267; Cass. pen., sez. III, 26.06.2013, n. 42330; Consiglio di Stato, sez. V, sent. 28/04/2014 n. 2196) precisa quanto segue:
I) Presupposto per l’adozione dell’ordine di demolizione di opere abusive è soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza del prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo tale ordine un atto dovuto, esso è sufficientemente motivato con l’accertamento dell’abuso, e non necessita di una particolare motivazione in ordine all’interesse pubblico alla rimozione dell’abuso stesso -che è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell’assetto urbanistico violato- ed alla possibilità di adottare provvedimenti alternativi (ex multis, TAR Campania Napoli, Sez. IV, 28.12.2009, n. 9638; Sez. VI, 09.11.2009, n. 7077; Sez. VII, 04.12.2008 , n. 20987);
L’ordine di demolizione, pertanto, come tutti i provvedimenti sanzionatori edilizi, è un atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di questo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare.
Infatti, secondo la giurisprudenza (TAR Campania Napoli, Sez. VI, 05.04.2005, n. 3312 Cons. Stato, Sez. IV, 27.04.2004, n. 2529) la natura interamente vincolata del provvedimento di demolizione esclude la necessaria ponderazione di interessi diversi da quelli pubblici tutelati e non richiede motivazione ulteriore rispetto alla dichiarata abusività;
II) A fronte della motivazione in re ipsa che incontra l’ordine di demolizione all’esito dell’accertamento dell’abuso edilizio, il lasso temporale che fa sorgere l’onere di una motivazione rafforzata in capo all’amministrazione -ma sempre in presenza di circostanze eccezionali rigorosamente provate da chi le invoca (come non verificatosi nel caso di specie)- non è quello che intercorre tra il compimento dell’abuso e il provvedimento sanzionatorio ma quello che intercorre tra la conoscenza dell’illecito e il provvedimento sanzionatorio adottato; in mancanza di conoscenza della violazione da parte dell’amministrazione non può consolidarsi in capo al privato alcun affidamento giuridicamente apprezzabile, il cui sacrificio meriti di essere adeguatamente apprezzato in sede motivazionale;
III) peraltro il Collegio ritiene, rifacendosi al proprio orientamento giurisprudenziale che laddove, come nella specie, le opere abusive insistano su zona paesaggisticamente vincolata la prevalenza dell’interesse pubblico sull’interesse privato deve considerarsi in re ipsa, in considerazione del rilievo costituzionale del Paesaggio, ex art. 9, comma 2, Cost., assurgente a principio fondamentale, con conseguente primazia su gli altri interessi, pubblici e privati, del pari considerati dalla Costituzione, ma non annoverati fra i principi fondamentali. (Come afferma la Consulta, la demolizione si impone, nelle zone vincolate, stante la “straordinaria importanza della tutela «reale» dei beni paesaggistici ed ambientali” (cfr., C. Cost. ord.za 12/20.12.2007 nr. 439).
E' allora per tali ragioni che, “in relazione appunto ai vincoli paesaggistici, non possono trovare spazio applicativo i peculiari principi in base ai quali la giurisprudenza amministrativa (cfr. Cons. di Stato sez. IV, n. 2705 del 06.06.2008; Cons. di Stato sez. V, n. 883 del 04.03.2008; Cons. di Stato sez. IV, n. 2441 del 14.05.2007; Cons. di Stato sez. V, n. 247 del 12.03.1996; TAR Liguria n. 4127 del 31.12.2009; TAR Calabria Catanzaro n. 1026 del 06.10.2009; TAR Piemonte n. 2247 del 04.09.2009; TAR Campania Napoli n. 504 del 29.01.2009) ha individuato una posizione di affidamento tutelabile (quanto meno con il richiedersi nel provvedimento sanzionatorio una motivazione specifica, ulteriore rispetto a quella fondata sul mero perseguimento di un ripristino della legalità, in ordine alla necessità della demolizione dei manufatti e al connesso sacrificio dell'interesse privato) per colui che, pur avendo posto in essere abusi edilizi, abbia visto trascorrere un lungo lasso di tempo dalla loro commissione con inerzia dell'Amministrazione preposta alla vigilanza” (TAR Campania Napoli Sez. VII, Sent., 14.06.2010, n. 14156, cui si rinvia);
IV) Del tutto priva di pregio è la deduzione fondata sulla sanabilità delle opere di cui è causa, non avendo parte ricorrente dedotto né provato di avere presentato alcuna istanza di accertamento di conformità ex art. 36 D.P.R. 380/2001.
Pertanto alcun rilievo ha la deduzione che il provvedimento impugnato sia stato adottato senza una preventiva valutazione della sanabilità delle opere abusive.
Infatti dal chiaro tenore letterale dell’articolo 36 del D.P.R. n. 380/2001 (che ha sostituito l’art. 13 della legge n. 47/1985) si desume che il rilascio del permesso di costruire in sanatoria consegue necessariamente ad un’istanza dell’interessato, mentre al Comune compete, ai sensi dell’art. 27, comma 1, del D.P.R. n. 380/2001, l’esercizio della vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia che si svolge nel territorio comunale. Pertanto, una volta accertata l’esecuzione di opere in assenza del prescritto permesso di costruire, l’Amministrazione comunale deve senz’altro disporne la demolizione, non essendo tenuta a valutare preventivamente la sanabilità delle stesse (ex multis, TAR Campania Napoli, Sez. III, 27.09.2006, n. 8331; Sez. IV, 04.02.2003, n. 617).
Peraltro, l’istanza di accertamento di conformità ex art. 36 D.P.R. 380/2001 sarebbe comunque inammissibile in quanto le opere sanzionate non sarebbero comunque sanabili in difetto della necessaria autorizzazione paesaggistica, che, come noto, non può essere rilasciata ex post in relazione ad interventi, come nella specie, caratterizzati da aumento di volumetria e superficie, ex art. 167, comma 4, Dlgs. 42/2004.
V) Parimenti infondata è la censura circa l’illegittimità dell’ordinanza di demolizione per mancata indicazione dell’area destinata ad essere acquisita in ipotesi di inottemperanza.
Infatti secondo una consolidata giurisprudenza (ex multis, TAR Toscana Firenze, Sez. III, 06.02.2008, n. 117; TAR Campania Napoli, Sez. III, 17.12.2007, n. 16311), seguita dalla Sezione, nella motivazione dell’ordine di demolizione è necessaria e sufficiente l’analitica descrizione delle opere abusivamente realizzate, in modo da consentire al destinatario della sanzione di rimuoverle spontaneamente, mentre non è necessaria la descrizione precisa della superficie occupata e dell’area di sedime destinata ad essere gratuitamente acquisita al patrimonio comunale in caso di inottemperanza all’ordine di demolizione, perché tali elementi afferiscono all’eventuale successiva ordinanza di acquisizione al patrimonio comunale.
9. In considerazione dell’infondatezza di tutte le censure, il ricorso va rigettato (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 23.06.2015 n. 3319 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Nel procedimento amministrativo, la mancata comunicazione del preavviso di rigetto non comporta ex se l'illegittimità del provvedimento finale, in quanto la disposizione contenuta nell'art. 10-bis, l. 07.08.1990, n. 241 va interpretata alla luce del successivo art. 21-octies, comma 2, il quale, nell'imporre al giudice di valutare il contenuto sostanziale del provvedimento e di non annullare l'atto nel caso in cui le violazioni formali non abbiano inciso sulla legittimità sostanziale del medesimo, rende irrilevante la violazione delle norme sul procedimento o sulla forma dell'atto allorché il contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
Di qui l’infondatezza non solo dei primi due motivi di gravame, suscettibili di trattazione congiunta, ma anche del terzo, con il quale si lamenta il difetto partecipativo, nelle forme dell’obliterato art. 10-bis l. n. 241/1990, avendo tale censura carattere recessivo alla luce della inattitudine delle argomentazioni svolte dal ricorrente ad indurre decisioni di segno contrario rispetto a quella adottata dall’Amministrazione.
E’ opinione di questo Tribunale, infatti (sez. I 10.10.2014 n. 1719), che, nel procedimento amministrativo, la mancata comunicazione del preavviso di rigetto non comporta ex se l'illegittimità del provvedimento finale, in quanto la disposizione contenuta nell'art. 10-bis, l. 07.08.1990, n. 241 va interpretata alla luce del successivo art. 21-octies, comma 2, il quale, nell'imporre al giudice di valutare il contenuto sostanziale del provvedimento e di non annullare l'atto nel caso in cui le violazioni formali non abbiano inciso sulla legittimità sostanziale del medesimo, rende irrilevante la violazione delle norme sul procedimento o sulla forma dell'atto allorché il contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato
(TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 22.06.2015 n. 1416 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La Pa che ignora la mediazione rischia il danno erariale. Conciliazione. Il Tribunale di Roma.
La pubblica amministrazione che scelga di tenere una condotta «agnostica, immotivatamente anodina e deresponsabilizzata» rispetto ad una proposta conciliativa del giudice o all’invio in mediazione espone potenzialmente la stessa a danno erariale.
Perviene a queste conclusioni il TRIBUNALE di Roma (estensore Moriconi) con l'ordinanza 22.06.2015 riprendendo e rafforzando un orientamento espresso in controversie analoghe. L’obiettivo è evitare che le Pa ignorino gli strumenti conciliativi sia giudiziali sia stragiudiziali, sul presupposto che soltanto con una sentenza possano evitare potenziali rischi di danno erariale rispetto a eventuali accordi che definiscano consensualmente la lite, sia pur sulla base di una proposta giudiziale o di un percorso mediativo demandato dal giudice.
La controversia riguarda il risarcimento dei danni derivanti dal mancato corretto funzionamento dell’impianto di sollevamento delle acque reflue in occasione di forti piogge. Il consulente tecnico (Ctu) nominato dal tribunale ha stimato i danni in 60mila euro: dopodiché il giudice ha proposto in via conciliativa il versamento di 40mila euro e ha disposto anche lo svolgimento della mediazione, qualora le parti non dovessero giungere ad un accordo sulla base della proposta conciliativa.
E qui il giudice rimarca con forza che «l’eventuale deprecata scelta di una condotta agnostica, immotivatamente anodina e deresponsabilizzata dell’amministrazione pubblica potrebbe esporre a danno erariale sotto il profilo delle conseguenze del mancato accordo sulla proposta del giudice e/o dell’invio in mediazione comparativamente valutato rispetto al contenuto della sentenza. Conseguenze che, in relazione alle circostanze del caso concreto, sarebbe doveroso segnalare agli organi competenti (Corte dei Conti)».
Ciò non esclude secondo quanto chiarito nell’ordinanza anche la possibile valutazione della condotta processuale ai fini della condanna alle spese nel caso di proposta conciliativa della parte (articolo 91, comma 1, II parte, Codice di procedura civile) e della responsabilità aggravata (articolo 96, comma 3, Codice di procedura civile).
In relazione alla mediazione demandata l’ordinanza ribadisce inoltre che è richiesta l’effettiva partecipazione al procedimento, nel senso che le parti non debbono arrestarsi alla sessione informativa e che oltre agli avvocati difensori debbono essere presenti personalmente. Tant’è che la mancata partecipazione (o l’irrituale partecipazione) senza giustificato motivo, oltre a poter attingere, secondo una diffusa interpretazione giurisprudenziale, alla stessa procedibilità della domanda, è in ogni caso comportamento valutabile nel merito della causa
(articolo Il Sole 24 Ore del 27.07.2015).

URBANISTICALa decisone della Provincia di preservare gran parte del proprio territorio inedificato non costituisce di per sé atto di arbitraria compressione dei poteri e delle funzioni costituzionalmente attribuite ai comuni, i quali potranno comunque esercitare la propria potestà pianificatoria assecondando le direttive e le prescrizioni dettate dal PTCP a tutela dei suindicati valori.
Va poi osservato che, come ogni altra scelta pianificatoria, queste decisioni sono espressione dell'ampia discrezionalità tecnica di cui l’amministrazione dispone in materia e dalla quale discende la loro sindacabilità solo nei ristretti limiti costituiti dalla manifesta illogicità ed evidente travisamento dei fatti; e che, nel caso di specie, non sono stati evidenziati macroscopici profili di illogicità nelle scelte operate dalla Provincia, non apparendo, al contrario, illogica la decisione di porre rimedio all’eccessivo consumo di suolo ormai posto in essere in una parte del territorio provinciale.

18. In base all’art. 2, quarto comma, della legge della Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12, il piano territoriale regionale ed i piani territoriali di coordinamento provinciale hanno efficacia di orientamento, indirizzo e coordinamento, fatte salve le previsioni che ai sensi stessa legge-regionale n. 12 del 2005, abbiano efficacia prevalente e vincolante.
19. Come notato dalla dottrina, queste disposizioni hanno profondamente innovato l’impostazione propria della legge n. 1150 del 1942 (legge urbanistica) la quale prevedeva un sistema basato sul principio gerarchico, nel quale il piano collocato sul gradino inferiore della scala doveva attenersi rigidamente alle previsioni dei piani collocati ai livelli superiori e limitarsi a dare a questi specifica attuazione.
20. Il modello delineato dalla legge regionale è, come visto, del tutto diverso: salve particolari eccezioni, i piani collocati al livello superiore non sono gerarchicamente sovraordinati agli altri, ma dettano una disciplina di orientamento, indirizzo e coordinamento, che non può essere stravolta ma, in particolari casi, derogata dalla disciplina puntuale dettata dallo strumento di pianificazione contenete disposizioni di maggior dettaglio.
21. Peraltro, anche con riferimento al regime tracciato dalla legislazione statale (che come visto si ispira al principio di gerarchia), la Corte Costituzionale, con sentenza n. 83 dell’08.04.1997, aveva chiarito che, in applicazione degli artt. 5, 117 e 128 (oggi abrogato ma vigente all’epoca della decisione) della Costituzione, non è possibile, per gli enti infraregionali, dettare prescrizioni che azzerino il potere pianificatorio dei comuni, prevedendo procedimenti che non assicurino la partecipazione degli enti il cui assetto territoriale venga coinvolto. La partecipazione deve essere quindi assicurata e non può essere puramente nominale ma deve essere effettiva e congrua, nel senso che non potrebbero regioni e province disporre la trasformazione dei poteri comunali in ordine all'uso del territorio in funzioni meramente consultive prive di reale incidenza, o in funzioni di proposta o ancora in semplici attività esecutive.
22. Ritiene però il Collegio, che nel caso di specie, la Provincia di Monza e Brianza non abbia, con il proprio PTCP, arbitrariamente compresso il potere di pianificazione urbanistica spettante comuni.
23. L’individuazione delle AAS e delle aree da inserire nella rete verde di ricomposizione paesaggistica costituisce scelta che involge interessi di carattere sovracomule, ambientali e paesaggistici, la cui tutela è stata affidata dalla legge regionale n. 12 del 2005 -in ossequio ai principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza di cui all’art. 118, coma primo, della Costituzione- alla Regione e alle province. Questi interessi sono dunque presi in considerazione dagli strumenti di pianificazione territoriale approvati da tali enti (PTR e PTCP) e si sovrappongono agli interessi di carattere urbanistico la cui tutela è principalmente affidata ai comuni.
24. E’ pertanto del tutto fisiologico che i poteri in materia urbanistica, attribuiti ai comuni, trovino limite nelle prescrizioni dettate dagli atti di pianificazione emessi dagli enti infraregionali a tutela dei primari valori dell’ambiente e del paesaggio.
25. Ed è altrettanto fisiologico che, se ne ricorrono i presupposti, ampie porzioni del territorio provinciale siano prese in considerazione dalle suddette prescrizioni.
26. Ne consegue che la decisone della Provincia di Monza e Brianza di preservare gran parte del proprio territorio inedificato non costituisce di per sé atto di arbitraria compressione dei poteri e delle funzioni costituzionalmente attribuite ai comuni, i quali potranno comunque esercitare la propria potestà pianificatoria assecondando le direttive e le prescrizioni dettate dal PTCP a tutela dei suindicati valori.
27. Va poi osservato che, come ogni altra scelta pianificatoria, queste decisioni sono espressione dell'ampia discrezionalità tecnica di cui l’amministrazione dispone in materia e dalla quale discende la loro sindacabilità solo nei ristretti limiti costituiti dalla manifesta illogicità ed evidente travisamento dei fatti (ex plurimis Cons. Stato, sez. IV, 27.12.2007, n. 6686); e che, nel caso di specie, non sono stati evidenziati macroscopici profili di illogicità nelle scelte operate dalla Provincia, non apparendo, al contrario, illogica la decisione di porre rimedio all’eccessivo consumo di suolo ormai posto in essere in una parte del territorio provinciale (cfr. TAR Lombardia Milano, sez. II, 27.05.2014, n. 1355) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 19.06.2015 n. 1430 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn tema di ordine di demolizione di opere edilizie abusive, non occorre la comunicazione di avvio del procedimento ai sensi dell'art. 7 L. 07.08.1990 n. 241, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente vincolato, con riferimento al quale non sono richiesti apporti partecipativi del destinatario, tenendo presente che ciò che appare necessario è che al privato sia data la possibilità di partecipare a quelle attività di rilevamento fattuale che preludono alla valutazione circa l'adozione dell'ordine in parola.
9. L’appello principale è fondato nella misura in cui evidenzia l’erroneità della sentenza di primo grado che ha rilevato una lesione del diritto di partecipazione procedimentale dei destinatari del provvedimento impugnato che non risulta sussistente, né rilevante.
Occorre, al riguardo, rammentare l’orientamento di questo Consiglio (Cons. St., Sez. V, 09.09.2013, n. 4470; Id., Sez. II, 19.03.2008, n. 3702; Id., Sez. IV, 01.10.2007, n. 5049) secondo il quale: “In tema di ordine di demolizione di opere edilizie abusive, non occorre la comunicazione di avvio del procedimento ai sensi dell'art. 7 L. 07.08.1990 n. 241, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente vincolato, con riferimento al quale non sono richiesti apporti partecipativi del destinatario, tenendo presente che ciò che appare necessario è che al privato sia data la possibilità di partecipare a quelle attività di rilevamento fattuale che preludono alla valutazione circa l'adozione dell'ordine in parola”.
Nella fattispecie deve rilevarsi come gli atti istruttori prodromici all’adozione del provvedimento impugnato siano stati posti in essere nel contraddittorio con gli originari ricorrenti. Ed, infatti, i comproprietari (P.S. e M.S.) erano tutti edotti dell’apertura del procedimento ed hanno descritto qualità e natura degli abusi nell’esposto con il quale hanno chiesto l’intervento repressivo dell’amministrazione comunale dagli stessi firmato in data 06.06.2000, inoltre in data 27.07.2000 è stato fatto accertamento in loco dalla polizia municipale, ed in data 22.08.2000 Schiappa Luciano è stato individuato come autore degli abusi, il ché deve ritenersi abbia reso edotto anche quest’ultimo del procedimento in corso.
Ancora, la richiesta di completare l’accertamento del 27.07.2000 è stato comunicata anche all’altro comproprietario Giulio Scalfati.
Pertanto, gli appellanti incidentali sono stati messi nelle condizioni di partecipare al procedimento sfociato nell’atto impugnato, sicché la mancata adozione di un formale avviso di avvio del procedimento non ha impedito loro di prendere parte all’iter procedimentale e non vale ad inficiare la legittimità dell’ordinanza dirigenziale del 24.08.2000 (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 17.06.2015 n. 3051 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATADifetto secondario senza colpa. Cassazione. L’appaltatore non ha responsabilità se le porte si sono ossidate.
Secondo la Corte di Cassazione -Sez. II civile (sentenza 12.06.2015 n. 12186)- non è rinvenibile nessuna responsabilità, a carico dell'appaltatore che ha installato l'ascensore, se le porte dell'impianto si sono ossidate perché il vizio non riduce in modo apprezzabile la fruizione dell'impianto e il valore del bene stesso.
La sentenza si inserisce in un settore giurisprudenziale in continuo fermento. La Corte di Cassazione, nel caso di specie, ha rigettato il ricorso di un condominio, che ricorreva contro la decisione emessa dai giudici di merito, adducendo di non aver considerato l'ossidazione presente sulle porte dell'ascensore un «grave difetto dell'opera».
Il motivo della decisione è il seguente: «(…) anche un difetto di costruzione che incida su elementi accessori o secondari può rientrare nella previsione della norma citata, purché determini un apprezzabile diminuzione del valore del bene, una menomazione di esso, o incida sul godimento in modo considerevole o addirittura ne impedisca l'impiego», ma nel caso di specie la Cassazione precisa che «l'ossidazione presente sulle porte dell'ascensore non rappresenta di per sé un difetto di costruzione che possa incidere sulla funzionalità dell'impianto e quindi sul godimento del bene stesso».
I giudici di legittimità aderiscono a quanto osservato dalla Corte di appello la quale aveva avuto modo di precisare che: «fenomeni corrosivi di ossidazione delle porte dell'impianto non potevano annoverarsi nella categoria dei “gravi difetti” (…) perché lo stato in cui vertevano le porte descritte non incideva sulla funzionalità dell'impianto, né compromettevano la funzionalità o l'uso degli appartamenti cui esso accede». La Cassazione non imputa alcune responsabilità all'appaltatore e rigetta il ricorso del condominio
(articolo Il Sole 24 Ore del 28.07.2015).

APPALTIE noto al collegio che la giurisprudenza, in materia di costo del lavoro, è unanime nel ritenere derogabili i limiti tabellari specificati dall’Autorità ministeriale anche quando sia la stessa disciplina di gara a indicarli come non soggetti a ribasso.
Tuttavia, come affermato dalla stessa pronunzia allegata dalla ricorrente, lo scostamento deve essere puntualmente giustificato affinché “l'impresa possa dimostrare di poter sostenere (per tale voce) oneri inferiori in modo da compensare i costi previsti per le altre voci e così acquisire un utile (anche minimo) dall'esecuzione del servizio oggetto della gara”.
Nel caso di specie il minor importo veniva giustificato, sotto un primo profilo, sul presupposto che il coordinatore usufruirebbe delle ferie nel solo mese di agosto quando la struttura è chiusa e, pertanto, non verrebbero sostenuti costi per la sostituzione del medesimo; sotto altro profilo, allegando il basso tasso di assenteismo aziendale che consentirebbe, in deroga ai valori tabellari, di considerare un più elevato numero di ore annue lavorate pari a 1713.
Il motivo è infondato atteso che le giustificazioni della ricorrente non sono sufficienti a giustificare i livelli di costo indicati.
La circostanza che il coordinatore non fruirebbe di ferie nel corso degli 11 mesi di attività è, infatti, inidonea a giustificare l’allegato abbattimento dei costi poiché, a tacere del fatto che la possibilità di fruire una quota delle ferie nell’arco dei 12 mesi integra un diritto contrattualmente riconosciuto, le ferie, indipendentemente dal periodo nel quale vengono fruite, maturano nel corso dell’intero anno e, in quanto retribuite, integrano una voce di costo.

Con il primo motivo di ricorso, la ricorrente contesta il supporto motivazionale della patita esclusione nella parte in cui le viene contestata l’incongruità del costo orario del coordinatore per contrasto con gli importi previsti dalle tabelle ministeriali (€ 20,02 contro € 21,22) che la Stazione appaltante avrebbe erroneamente ritenuto inderogabili mentre, si afferma, la giurisprudenza amministrativa avrebbe riconosciuto la possibilità di derogare a detti livelli retributivi “quando risulti puntualmente giustificato” (Cons. Stato, Sez. VI, 21.07.2010, n. 4783).
La censura è infondata.
E noto al collegio che la giurisprudenza, in materia di costo del lavoro, è unanime nel ritenere derogabili i limiti tabellari specificati dall’Autorità ministeriale anche quando sia la stessa disciplina di gara a indicarli come non soggetti a ribasso.
Tuttavia, come affermato dalla stessa pronunzia allegata dalla ricorrente, lo scostamento deve essere puntualmente giustificato affinché “l'impresa possa dimostrare di poter sostenere (per tale voce) oneri inferiori in modo da compensare i costi previsti per le altre voci e così acquisire un utile (anche minimo) dall'esecuzione del servizio oggetto della gara” (Cons. Stato, Sez. III, 02.04.2015, n. 1743).
Nel caso di specie il minor importo veniva giustificato, sotto un primo profilo, sul presupposto che il coordinatore usufruirebbe delle ferie nel solo mese di agosto quando la struttura è chiusa e, pertanto, non verrebbero sostenuti costi per la sostituzione del medesimo; sotto altro profilo, allegando il basso tasso di assenteismo aziendale che consentirebbe, in deroga ai valori tabellari, di considerare un più elevato numero di ore annue lavorate pari a 1713.
Il motivo è infondato atteso che le giustificazioni della ricorrente non sono sufficienti a giustificare i livelli di costo indicati.
La circostanza che il coordinatore non fruirebbe di ferie nel corso degli 11 mesi di attività è, infatti, inidonea a giustificare l’allegato abbattimento dei costi poiché, a tacere del fatto che la possibilità di fruire una quota delle ferie nell’arco dei 12 mesi integra un diritto contrattualmente riconosciuto, le ferie, indipendentemente dal periodo nel quale vengono fruite, maturano nel corso dell’intero anno e, in quanto retribuite, integrano una voce di costo.
L’inattendibilità delle complessive difese della ricorrente sul punto emerge dalle giustificazioni rese in sede di contraddittorio laddove si afferma che “la cooperativa comunque applicherà al coordinatore il costo previsto dalla tabella de costo del lavoro della provincia di Piacenza. Ciò che cambia è il prezzo che verrà fatturato al Comune che è minore rispetto a quanto previsto…” .
In disparte ogni considerazione circa la singolarità dell’affermazione in base alla quale verrebbe sopportato un costo superiore a quello fatturato, non è fornita alcuna giustificazione circa la copertura di tale incremento di costo dato per certo dalla stessa ricorrente.
Priva di pregio é, inoltre, l’affermazione relativa al basso tasso di assenteismo aziendale che garantirebbe un più elevato numero di ore lavorate annue determinando un abbattimento del costo orario.
L’allegata favorevole statistica aziendale è, infatti, affermata ma non altrimenti documentata.
Deve ulteriormente respingersi l’affermazione in base alla quale la Stazione appaltante avrebbe fondato il proprio giudizio di anomalia unicamente sulla criticità testé esaminata poiché, come verrà d seguito argomentato, la Commissione ha valutato l’insostenibilità dell’offerta anche relativamente ad altri profili riferiti all’insufficienza dei costi allegati per le ulteriori figure professionali a far fronte al complesso dei progetti facenti parte dell’offerta (TAR Emilia Romagna-Parma, sentenza 10.06.2015 n. 173 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTITar Sicilia. Appalto salvo post-interdittiva alla mandataria.
Si va avanti con l'appalto vinto dall'Ati se l'interdittiva prefettizia colpisce la mandataria anche dopo il nuovo codice antimafia. E ciò perché il decreto legislativo 159/11 ha abrogato in modo esplicito tutte le norme incompatibili: deve quindi continuare a essere applicata la deroga al principio di immodificabilità dell'associazione temporanea d'impresa quando lo stop dell'autorità governativa colpisce non l'impresa mandante ma quella “delegata”.

Lo stabilisce la III Sez. del TAR Sicilia-Catania, Sez. III, con la sentenza 13.05.2015 n. 1267.
Vuoto escluso
Dovrà rassegnarsi la concorrente che ha perso la gara bandita dall'ospedale benché il prefetto di Milano abbia nel frattempo “appiedato” la cooperativa mandataria dell'Ati vincente. Non convince infatti l'interpretazione secondo cui l'articolo 95 del testo unico antimafia che blocca la mandante Ati colpita dall'informativa negativa prefettizia dovrebbe applicarsi anche al caso della mandataria raggiunta dall'interdittiva, altrimenti ne scaturirebbe un vuoto normativo.
Secondo i giudici, invece, la norma di cui articolo 37, comma 18, del decreto legislativo 163/2006 non è stata mai modificata rispetto al testo risultante dal primo correttivo al codice dei contratti (decreto legislativo 113/2007), nonostante le diverse modifiche successive allo stesso nuovo codice antimafia: se il legislatore avesse ritenuto superata la disposizione, «non avrebbe perso l'occasione per adeguarlo alla asserita nuova e diversa precettività».
Resta, dunque, la deroga al principio generale secondo cui Ati che vince non si cambia (articolo ItaliaOggi del 25.07.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).
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MASSIMA
La controversia in esame concerne la legittimità dell’attività posta in essere dalla Azienda intimata la quale in seguito al provvedimento interdittivo emesso dalla Prefettura di Milano nei confronti della Co.lo.coop ha deliberato la stipula del nuovo contratto, per la durata residua con lo stesso raggruppamento temporaneo di imprese risultato aggiudicatario, depurato dalla partecipazione della Co.lo.coop e integrato (per conservare la struttura associativa del contraente con altra impresa in possesso dei requisiti di qualificazione).
Ciò posto, come statuito dal C.G.A. nella citata ordinanza cautelare n. 623/2014, “il nodo della controversia consiste nello stabilire -alla luce del disposto dell’art. 95 del codice antimafia riferito alle mandanti- se l’attuale testo dell’art. 94 si pone in contrasto con l’art. 37, comma 18,del codice appalti”.
Secondo la difesa della ricorrente, con l’entrata in vigore dell'art. 94 del Codice antimafia, non troverebbe più applicazione l'art. 37, comma 18, del D.Lgs. n. 163/06 e ss.mm.ii., e ciò in quanto il predetto art. 94, diversamente dalla precedente normativa di cui al D.P.R. n. 252/1998, non prevederebbe più la facoltà ma l'obbligo per la Stazione appaltante di recedere dal contratto di appalto in corso stipulato con un impresa colpita da un'informativa prefettizia.
In sintesi, la norma sopravvenuta (art. 94 D.Lgs. 159/2011), asseritamente incompatibile con quella anteriore (art. 37, comma 18, D.Lgs. 163/2006, come modificata con il D.Lgs. 113/2007), ne determinerebbe l'abrogazione implicita.
Il Collegio ritiene di non condividere siffatta interpretazione delle citate disposizioni.
Ciò in quanto
il Codice antimafia (D.Lgs. n. 159/2011 e ss.mm.ii.) ha abrogato espressamente le precedenti disposizioni contenute in diversi testi normativi confluite nel predetto codice antimafia nonché altre disposizioni con esso incompatibili (e tra le disposizioni espressamente abrogate non figura l’art. 37, comma 18, del Codice dei contratti).
Pertanto, tale disposizione, che, com’è noto, detta una eccezione al principio generale di immodificabilità dell'ATI allorché l'impresa mandataria di un raggruppamento sia colpita da determinati eventi (tra cui una interdittivi prefettizia negativa), continua a trovare applicazione.
Infatti, nonostante le diverse novellazioni del Codice dei Contratti, successive al Codice antimafia (D.Lgs. 159/2011), la norma dell'art. 37, comma 18, D.Lgs. 163/2006 non è stata mai modificata rispetto al testo risultante dal D.Lgs. 113/2007 (c.d. primo correttivo al Codice dei contratti); laddove, per converso, se si fosse ritenuto che il testo del comma 18 dell'art. 37, cit., fosse stato superato, il Legislatore non avrebbe perso l'occasione per adeguarlo alla asserita nuova e diversa precettività.
Il Collegio inoltre ritiene di non doversi discostare dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato, secondo cui il comma 18 dell'art. 37, D.Lgs. n. 163/2006, così come risultante dalle modifiche apportate dal D.Lgs. n. 113/2007, costituisce una eccezione al principio generale di immodificabilità dell'ATI sancito dal coma 9 del medesimo art. 37; eccezione che, così come riconosciuto dal Supremo consesso della giustizia amministrativa, opera anche nelle ipotesi previste dalla normativa antimafia
(cfr. Cons. St., Sez. V, 02.03.2015, n. 986; Cons. Sez. V, 20.01.2015, n. 169).
Alla luce della richiamata giurisprudenza, dalla quale il Collegio non intende discostarsi,
non può essere accolta la tesi sostenuta dalla difesa della ricorrente secondo cui l'eccezione al principio di immodificabilità dell'ATI prevista dall'art. 37, comma 18, D.Lgs. n. 163/2006 non opererebbe nell'ipotesi in cui ad essere colpita dall'interdittiva prefettizia sia l'impresa mandataria.
A ciò si aggiunga che, come rilevato in sede cautelare, l'art. 94 del Codice antimafia non può che riguardare l’impresa singola, dovendosi dunque distinguere tra le ipotesi in cui l'interdittiva colpisca il soggetto singolo e la diversa ipotesi in cui l'interdittiva colpisca l'impresa capogruppo di un'ATI.
Nel primo caso, atteso che l'interdittiva riguarda l'unica e sola impresa che costituisce la parte appaltatrice (ossia senza interferenze con soggetti terzi estranei a dubbi antimafia), troverà applicazione il 2° comma dell'art. 94, D.Lgs. n. 159/2011 e ss.mm.ii. e, quindi, la Stazione appaltante dovrà procedere a recedere dal contratto, a meno che non ricorra una delle ipotesi derogatorie previste dal successivo comma 3 della norma in parola, le quali danno rilievo ad esigenze pratiche che si focalizzano precipuamente in capo alla stazione appaltante.
Nel secondo caso, invece, si pone l'esigenza di contemperare l'interesse della Stazione appaltante con quello degli altri soggetti (imprese mandanti) estranei alle problematiche antimafia che hanno interessato l'impresa mandataria e che sono in possesso dei requisiti necessari per proseguire nell'appalto; ed è proprio in tale ipotesi che trova applicazione il comma 18 dell'art. 37 del Codice dei contratti.

Destituite di fondamento risultano inoltre le censure afferenti alla pretesa natura unitaria ed inscindibile del contratto di appalto in caso di raggruppamento temporaneo di imprese, sicché, il recesso nei confronti del capogruppo opererebbe nei confronti di tutti gli altri soggetti mandanti, dovendosi al riguardo osservare che il raggruppamento di imprese non è un soggetto giuridico e nemmeno un centro di imputazione di atti e rapporti giuridici distinto ed autonomo rispetto alle imprese raggruppate; di talché nell'ambito dell'ATI, ciascuna impresa che la compone mantiene la propria identità.
Ne consegue che la stipula di un contratto di appalto con un’ATI non lega affatto la Stazione appaltante all’ATI (che non ha alcuna autonomia giuridica) ma a ciascuna delle imprese associate, le quali agiscono nei confronti della Committenza attraverso l'istituto del mandato con rappresentanza conferito alla capogruppo.
Pertanto,
laddove un determinato evento (come ad esempio un’interdittiva negativa) colpisca la società mandataria, alla luce del chiaro disposto dell'art. 37, comma 18, D.Lgs. n. 163/2006 e ss.mm.ii. lo stesso non si ripercuote sulla società mandante, la quale, pertanto, potrà continuare nell'appalto, allorché siano rispettate le condizioni dettate dalla suddetta disposizione speciale.
In altre parole,
in caso di interdittiva che colpisca l'impresa mandataria, la prosecuzione dell'appalto con l'impresa mandante non è affatto preclusa dall'art. 94, comma 2, D.Lgs. n. 159/2011, trovando applicazione al caso di specie la speciale disposizione contenuta nell'art. 37, comma 18, D.Lgs. n. 163/2006 e ss.mm.ii.

EDILIZIA PRIVATA: Ancora sull'indissolubilità del vincolo di cui all'art. 41-sexies della Legge urbanistica.
È nulla la vendita di un’abitazione quando il venditore ceda solo l’unità abitativa e non anche (quantomeno) il diritto d’uso del posto auto che si riserva in collegamento con la mansarda abusiva.
In materia edilizia l'art. 41-sexies della l. n. 1150/1942 pone un vincolo di destinazione obbligatorio tra spazi destinati a parcheggio e cubatura totale dell'edificio, con la conseguenza che in favore di tutti i condomini sorge un diritto reale d'uso sugli spazi anzidetti. Tale vincolo di destinazione, imposto dalla normativa di settore, viene eluso nel caso di alterazione dello standard urbanistico, effettuato mediante la realizzazione ex post di una unità immobiliare abusiva.
Ne consegue che deve essere annullata con rinvio la sentenza di merito che, dopo aver accertato che il contratto di compravendita non aveva trasferito la proprietà del posto auto unitamente a quella dell'appartamento, ha ritenuto che i venditori potessero legittimamente non trasferire il diritto reale d'uso del posto auto, stante la riserva dello stesso all'unità abitativa realizzata ex post nel locale mansarda, riconoscendo tuttavia che quest'ultimo costituisce un'unità immobiliare abusiva, così acclarando l'avvenuta alterazione del rapporto tra superficie di parcheggio e metri cubi di costruzione, in danno del diritto degli acquirenti dell'appartamento a fruire del posto auto, sotto forma di diritto reale d'uso, dovendo dunque ritenersi eluso il vincolo di destinazione imposto dalla normativa speciale richiamata
(Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 10.03.2015 n. 4733).

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Commento (di Daniele Minussi)
Nel caso in esame era stata realizzata da un condomino una mansarda abusiva ricavata nel sottotetto. Detto condomino, venduto l'appartamento di cui era titolare senza aver contestualmente ceduto anche il posto auto, era andato ad abitare nella mansarda, continuando a fruire del parcheggio originariamente acquistato unitamente all'unità abitativa di poi ceduta.
Chi aveva acquistato l'appartamento senza posto auto aveva successivamente agito per far dichiarare l'invalidità dell'atto, laddove non veniva trasferito anche il posto auto pertinenziale. La Corte d'Appello, sovvertendo il giudizio di primo grado, aveva dato torto all'attore sulla scorta del modo di disporre del più volte novellato art. 26 della l. 47/1985. Insomma: summum jus, summa iniuria.
Provvede a "riparare" la S.C. con la pronunzia in commento, rilevando come il nodo in realtà non consista nell'astratta previsione della norma citata, quanto piuttosto nel rilievo in base al quale la condotta abusiva di chi ebbe a realizzare la mansarda senza titolo autorizzativo, ha alterato l'originario rapporto planivolumetrico disciplinato dall'art. 41-sexies della legge 1150/1942.
Tale condotta antigiuridica non può non riverberarsi sulla conformità a legge della vendita dell'appartamento privo di posto auto eseguita da chi, illegittimamente, intende mantenere il diritto di parcheggio
(tratto da www.e-glossa.it).
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1. - Il ricorso è fondato.
1.1. - Con l'unico motivo è dedotta violazione dell'art. 41-sexies legge n. 1150 del 1942, introdotto dall'art. 18 della legge n. 765 del 1967.
Si assume che la realizzazione di una unità abitativa in assenza di concessione e di sanatoria, nella specie il vano sottotetto o mansarda, alla quale era stato destinato dai coniugi F.-Z. l'uso del posto auto avrebbe alterato lo standard urbanistico degli spazi destinati ad uso parcheggio, stabilito dall'art. 41-sexíes.
Il vincolo pubblicistico di servizio tra il fabbricato e l'area destinata a parcheggio risulterebbe eluso dal contratto di compravendita inter partes, in forza del quale il vincolo permarrebbe in quanto collegato ad una unità abitativa abusiva, in quanto tale precaria, potendo essere oggetto di demolizione ovvero riduzione in pristino.
2. - La doglianza è fondata.
2.1. - La fattispecie in esame è regolata, ratione temporis, dall'art. 41-sexies della legge n. 1152 del 1942, che pone un vincolo di destinazione obbligatorio tra spazi destinati a parcheggio e cubatura totale dell'edificio, e determina perciò il sorgere di un diritto reale d'uso sugli spazi predetti a favore di tutti i condomini (ex plurimis, Cass., sez. 2^, sentenze n. 21003 del 2008; n. 15509 del 2011; n. 28950 del 2011; n. 1214 del 2012).
2.2. - La Corte d'appello, dopo aver accertato che il contratto di compravendita non aveva trasferito la proprietà del posto auto unitamente a quella dell'appartamento, ha ritenuto che i venditori potessero legittimamente non trasferire il diritto reale d'uso del posto auto, stante la riserva dello stesso all'unità abitativa realizzata ex post nel locale mansarda.
Ma la stessa Corte d'appello ha riconosciuto che si trattava di unità immobiliare abusiva, così acclarando l'avvenuta alterazione del rapporto tra superficie di parcheggio e metri cubi di costruzione, in danno del diritto degli acquirenti dell'appartamento a fruire del posto auto, sotto forma di diritto reale d'uso.
Il vincolo di destinazione, Imposto dalla normativa speciale richiamata, risulta nella specie eluso mediante l'alterazione del precedente standard urbanistico, attuata con la realizzazione ex post di una unità immobiliare abusiva.
2.3. - La sentenza Impugnata deve quindi essere cassata e il giudice del rinvio, individuato in dispositivo, procederà all'applicazione del principio di diritto secondo cui costituisce violazione dell'art. 41-sexies della legge n. 1150 del 1942 l'alterazione del rapporto tra superficie di parcheggio e metri cubi di costruzione che si produce attraverso la realizzazione ex post di unità Immobiliari abusive
(Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 10.03.2015 n. 4733).

EDILIZIA PRIVATAStop alla fabbrica «dormitorio». Tar Toscana. Sulla destinazione d’uso le norme urbanistiche sono tassative.
Esaminando la vicenda di un capannone diviso con pareti in cartongesso dagli “inquilini cinesi”, il Tar Toscana ha affrontato i problemi legati al mutamento di destinazione degli edifici produttivi.
Dall’ordinaria iniziale destinazione artigianale, il capannone era stato suddiviso in due porzioni, una delle quali definita show room di capi di abbigliamento finiti, l’altra rimasta deposito e laboratorio con macchine per taglio e cucito.
La sanzione (obbligo di ripristino) disposta dal Comune di Prato rifletteva il mutamento di destinazione, che l’impresa riteneva possibile perché l’articolo 5, comma 8, della legge 433/1985 abilita le attività artigiane a vendere i propri manufatti nei locali di produzione o in quelli adiacenti. Secondo il TAR Toscana, Sez. III, sentenza 27.02.2015 n. 339, tuttavia, ciò non significa che si possa derogare alle norme urbanistiche che regolamentano le destinazioni d’uso ammissibili.
La sentenza non esamina la norma contenuta nel successivo articolo 6 del Dpr 380/2001 (modificato dall’articolo 17, comma 1, del Dl 133/2014, convertito dalla legge 164/2014), secondo il quale «fatte salve le prescrizioni degli strumenti urbanistici comunali, e comunque nel rispetto delle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia e, in particolare, delle norme antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienicosanitarie, di quelle relative all’efficienza energetica, nonché delle disposizioni contenute nel codice dei beni culturali e del paesaggio (...) sono eseguiti senza alcun titolo abilitativo (...)», (lettera e-bis) «le modifiche interne di carattere edilizio sulla superficie coperta dei fabbricati adibiti ad esercizio d’impresa ovvero le modifiche della destinazione d’uso dei locali adibiti ad esercizio d’impresa».
Questa norma, quando applicabile, va poi coordinata con quella che accorpa i vari tipi di destinazioni (articolo 23-ter Dpr 380/2001) distinguendo la destinazione produttiva e direzionale rispetto a quella commerciale, anche se attuata senza opere.
Anche tale seconda norma statale fa comunque salve le normative regionali. Di fatto, quindi, la liberalizzazione riguarda solo le previsioni più restrittive, quali per esempio quella che in un Comune turistico (Laigueglia) della zona delle “cinque terre” in Liguria, escludeva la possibilità che agenzie immobiliari aprissero uffici al piano terreno nel centro storico: il TAR Liguria, Sez. I (sentenza 02.04.2015 n. 349) annullò la norma urbanistica locale di dettaglio, precisando che non trova giustificazione un diverso trattamento tra agenzie immobiliari (non consentite in centro storico) e uffici, banche e pubblici esercizi (consentiti), posto che anche queste attività non risultano essere ricercate dai turisti dell’antico borgo.
Inoltre, i vincoli sulle destinazioni, come quelli sulle distanze, contrastano con gli sforzi compiuti dal legislatore per rendere conformi alle norme europee e statali quelle regionali o gli strumenti pianificatori di diverso livello
(articolo Il Sole 24 Ore del 30.07.2015).

EDILIZIA PRIVATA: Non è configurabile alcun affidamento giuridicamente tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente che non può di norma essere sanata dal mero trascorrere del tempo.
3. Con i secondi motivi aggiunti, il ricorrente deduce contro l’ordinanza di demolizione che l’intervento avrebbe carattere manutentivo e pertinenziale, non costituirebbe nuova costruzione, non comporterebbe aumenti di superficie utile e volume, non richiederebbe il permesso di costruire bensì la DIA a norma dell’art. 22 del d.P.R. n. 380 del 2001; il sottobalcone ed il vano di comunicazione sarebbero volumi tecnici; gli interventi contestati risalirebbero a molti anni addietro.
3.1. L’ingiunzione impugnata risulta consequenziale alla reiezione dell’accertamento di conformità urbanistica e di compatibilità paesaggistica di cui al precedente paragrafo 2.
Si tratta quindi di atto dovuto rispetto al quale vanno ribadite le considerazioni svolte nei paragrafi 2.1 e 2.2. Parimenti, va ribadita la funzionalità unitaria degli interventi che ne assorbono la intrinseca valutabilità atomizzata.
3.2. Giova altresì soggiungere che non è configurabile alcun affidamento giuridicamente tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente che non può di norma essere sanata dal mero trascorrere del tempo (cfr. Cons. St., sez. IV, 29/04/2014, n. 2228) (TAR Campania-Napoi, Sez. VII, sentenza 05.11.2014 n. 5703 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIOAl moroso non si può sospendere l’acqua. Una pronuncia che sembra in contrasto con la legge 220/2012 «salva» un condòmino in debito.
La riforma del condominio, legge 11.12.2012 n. 220, ha modificato, tra l’altro, il comma 3 dell’articolo 63 delle disposizioni di attuazione del Codice civile che prevedeva i casi in cui l’amministratore può sospendere i servizi ai condòmini in mora con i pagamenti delle spese condominiali.
Il nuovo testo dispone ora che «in caso di mora nel pagamento dei contributi che si sia protratta per un semestre, l’amministratore può sospendere il condòmino moroso dalla fruizione dei servizi comuni suscettibili di godimento separato».
La possibilità di sospensione del servizio è applicabile quindi al verificarsi contemporaneo delle seguenti condizioni: a) che ci sia una mora del condòmino; b) che la mora si sia protratta per almeno sei mesi; c) che il servizio da sospendere sia un servizio comune; d) che il servizio sia suscettibile di godimento separato.
Le ipotesi concrete che si possono fare sono comunemente quelle relative al servizio di fornitura di acqua ai singoli attraverso un unico contatore con contratto unico intestato al condominio, quello del servizio centralizzato di riscaldamento ed altri simili.
La nuova formulazione del testo dell’articolo 63 sembrava aver semplificato la procedura ampliando la possibilità di sospensione dei servizi al verificarsi delle sole condizioni indicate al comma 3.
Le varie ordinanze, salvo rarissime eccezioni, emesse dai tribunali a seguito di ricorsi presentati dagli amministratori di condominio, nelle ipotesi in cui non era possibile procedere alla chiusura del servizio senza accedere alla unità immobiliare privata, avevano confermato la pienezza di tale potere.
Ma con l’ordinanza 29.09.2014 n. 15600 il Tribunale di Brescia in sede collegiale ha negato all’amministratore il potere di sospendere l’erogazione dell’acqua al condòmino moroso con considerazioni che sembrerebbero in contrasto con un’interpretazione letterale del testo normativo.
Il Tribunale ha ritenuto che l’erogazione dell’acqua non possa essere sospesa nonostante la morosità in quanto: a) il servizio di fornitura attraverso un unico contratto condominiale non è un servizio erogato dal condominio, ma dalla società erogatrice, instaurandosi tra il condominio e l’ente «un contratto di mera intermediazione economica»; b) i condomini virtuosi possono evitare di farsi carico delle morosità stipulando contratti individuali autonomi diretti con l’ente fornitore; c) dalla mancata erogazione dell’acqua ne deriverebbe un pregiudizio diretto e immediato alle condizioni di vita e salute con pregiudizio di valori di rilievo costituzionale.
È chiaro che se tale interpretazione trovasse conferma in altre pronunce si renderebbe inutile la nuova formulazione dell’articolo 63 e la sua forza deterrente.
Ma la cosa ben più grave è il rischio, con risvolti penali, in cui incorrerebbe l’amministratore là dove, potendolo tecnicamente fare, procedesse direttamente alla sospensione del servizio.
La riforma del condominio, legge 11.12.2012 n. 220, ha modificato, tra l’altro, il comma 3 dell’articolo 63 delle disposizioni di attuazione del Codice civile che prevedeva i casi in cui l’amministratore può sospendere i servizi ai condòmini in mora con i pagamenti delle spese condominiali.
Il nuovo testo dispone ora che «in caso di mora nel pagamento dei contributi che si sia protratta per un semestre, l’amministratore può sospendere il condòmino moroso dalla fruizione dei servizi comuni suscettibili di godimento separato».
La possibilità di sospensione del servizio è applicabile quindi al verificarsi contemporaneo delle seguenti condizioni: a) che ci sia una mora del condòmino; b) che la mora si sia protratta per almeno sei mesi; c) che il servizio da sospendere sia un servizio comune; d) che il servizio sia suscettibile di godimento separato.
Le ipotesi concrete che si possono fare sono comunemente quelle relative al servizio di fornitura di acqua ai singoli attraverso un unico contatore con contratto unico intestato al condominio, quello del servizio centralizzato di riscaldamento ed altri simili.
La nuova formulazione del testo dell’articolo 63 sembrava aver semplificato la procedura ampliando la possibilità di sospensione dei servizi al verificarsi delle sole condizioni indicate al comma 3.
Le varie ordinanze, salvo rarissime eccezioni, emesse dai tribunali a seguito di ricorsi presentati dagli amministratori di condominio, nelle ipotesi in cui non era possibile procedere alla chiusura del servizio senza accedere alla unità immobiliare privata, avevano confermato la pienezza di tale potere.
Ma con l’ordinanza 29.09.2014 n. 15600 il Tribunale di Brescia in sede collegiale ha negato all’amministratore il potere di sospendere l’erogazione dell’acqua al condòmino moroso con considerazioni che sembrerebbero in contrasto con un’interpretazione letterale del testo normativo.
Il Tribunale ha ritenuto che l’erogazione dell’acqua non possa essere sospesa nonostante la morosità in quanto: a) il servizio di fornitura attraverso un unico contratto condominiale non è un servizio erogato dal condominio, ma dalla società erogatrice, instaurandosi tra il condominio e l’ente «un contratto di mera intermediazione economica»;
b) i condomini virtuosi possono evitare di farsi carico delle morosità stipulando contratti individuali autonomi diretti con l’ente fornitore;
c) dalla mancata erogazione dell’acqua ne deriverebbe un pregiudizio diretto e immediato alle condizioni di vita e salute con pregiudizio di valori di rilievo costituzionale.
È chiaro che se tale interpretazione trovasse conferma in altre pronunce si renderebbe inutile la nuova formulazione dell’articolo 63 e la sua forza deterrente.
Ma la cosa ben più grave è il rischio, con risvolti penali, in cui incorrerebbe l’amministratore là dove, potendolo tecnicamente fare, procedesse direttamente alla sospensione del servizio
(articolo Il Sole 24 Ore del 21.07.2015).

INCARICHI PROFESSIONALICorrispondenza tra legali sempre riservata.
È sempre riservata la corrispondenza tra avvocati. È comportamento disciplinarmente rilevante, infatti, produrre in giudizio una lettera ricevuta dal collega di controparte con una proposta transattiva.

Lo conferma il Consiglio nazionale forense, nella sentenza 10.06.2014 n. 92/14 pubblicata nei giorni scorsi sulla banca dati deontologica del Cnf.
Il precetto, del resto, è contenuto sia nel nuovo codice deontologico (art. 48), sia in quello precedente (art. 28), e secondo il Cnf non soffre alcuna eccezione. Il principio della riservatezza, infatti, rimarca la sentenza, riguarda non solo tutte le comunicazioni espressamente dichiarate riservate, ma anche le comunicazioni scambiate tra avvocati nel corso del giudizio, e quelle anteriori allo stesso, quando le stesse contengano espressioni di fatti, illustrazioni di ragioni e proposte a carattere transattivo, ancorché non dichiarate espressamente «riservate».
La norma deontologica, in particolare, mira a salvaguardare il corretto svolgimento dell'attività professionale, con il fine di non consentire che leali rapporti tra colleghi possano dar luogo a conseguenze negative nello svolgimento della funzione di difesa.
Secondo il Cnf, quindi, il divieto di produrre in giudizio la corrispondenza tra professionisti contenente proposte transattive assume la valenza «di un principio invalicabile di affidabilità e lealtà nei rapporti interprofessionali indipendentemente dagli effetti processuali della produzione vietata, in quanto la norma mira a tutelare la riservatezza del mittente e la credibilità del destinatario, nel senso che il primo, quando scrive a un collega di un proposito transattivo, non deve essere condizionato dal timore che il contenuto del documento possa essere valutato in giudizio contro le ragioni del suo cliente, mentre il secondo deve essere portatore di un indispensabile bagaglio di credibilità e lealtà» (articolo ItaliaOggi del 31.07.2015).
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MASSIMA
Avvocato - Norme deontologiche - Principi generali - Dovere di riservatezza - Dovere di colleganza -Proposta transattiva inviata via fax - Trascrizione parziale in atti del giudizio - Illecito deontologico - Sussiste.
Pone in essere un comportamento disciplinarmente rilevante il professionista che abbia trascritto nei propri atti i difensivi, anche se in forma incompleta, il contenuto di un fax pervenutogli dal legale di controparte, qualificato come "riservato e non producibile" e contenente proposte transattive.
Il divieto di produrre in giudizio la corrispondenza tra professionisti contenente proposte transattive, di cui all'art. 28 C.d.F, assume infatti la valenza di un principio invalicabile di affidabilità e lealtà nei rapporti interprofessionali indipendentemente dagli effetti processuali della produzione vietata, in quanto la norma mira a tutelare la riservatezza del mittente e la credibilità del destinatario, nel senso che il primo, quando scrive ad un collega di un proposito transattivo, non deve essere condizionato dal timore che il contenuto del documento possa essere valutato in giudizio contro le ragioni del suo cliente, mentre il secondo deve essere portatore di un indispensabile bagaglio di credibilità e lealtà che rappresenta la base del patrimonio di ogni avvocato.

ATTI AMMINISTRATIVIPer costante giurisprudenza, laddove le osservazioni presentate dai privati, ai sensi dell'art. 10-bis della l. 07.08.1990, n. 241, siano acquisite al procedimento e tenute presenti dall'Amministrazione ai fini del processo decisionale, non può riconoscersi alcun rilievo invalidante alla mancanza di una confutazione analitica dei singoli punti oggetto del contraddittorio, essendo sufficiente, ai fini della giustificazione del provvedimento adottato, la motivazione complessivamente e logicamente resa a sostegno dell'atto stesso.
4. Quanto alla denunciata omessa valutazione delle osservazioni presentate dopo la comunicazione del preavviso di rigetto, per costante giurisprudenza, laddove le osservazioni presentate dai privati, ai sensi dell'art. 10-bis della l. 07.08.1990, n. 241, siano acquisite al procedimento e tenute presenti dall'Amministrazione ai fini del processo decisionale, non può riconoscersi alcun rilievo invalidante alla mancanza di una confutazione analitica dei singoli punti oggetto del contraddittorio, essendo sufficiente, ai fini della giustificazione del provvedimento adottato, la motivazione complessivamente e logicamente resa a sostegno dell'atto stesso (Cons. di St., IV, 28.10.2013, n. 5189; TAR Piemonte, I, 27.06.2013, n. 846) (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 26.02.2014 n. 360 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASecondo la giurisprudenza penale, l'attività di demolizione e ricostruzione di un manufatto abusivo preesistente non può essere considerata quale ristrutturazione, costituendo al contrario una riattivazione dell'attività illecita originaria e configurandosi in tal caso il reato di cui all'art. 44, lett. b), D.P.R. n. 380 del 2001, pur in pendenza di una domanda di condono edilizio il cui procedimento non si sia ancora concluso.
Del resto, in pendenza di condono, le esigenze di tutela della proprietà legittimano solo interventi indispensabili alla tutela del manufatto, quali quelli di manutenzione, mentre l’intervento di demolizione e ricostruzione è sussumibile tra quelli di nuova costruzione ex art. 14, comma 2, L.R. 06.06.2008, n. 16.
A ciò si aggiunga che, secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, non è ammissibile il rilascio di una concessione in sanatoria, ex art. 13 L. n. 47 del 1985, relativa soltanto a parte degli interventi abusivi realizzati, ovvero parziale, o subordinata alla esecuzione di opere, atteso che ciò contrasta ontologicamente con gli elementi essenziali dell'accertamento di conformità, i quali presuppongono la già avvenuta esecuzione delle opere.
Si tratta di conclusioni che debbono valere –a più forte ragione– nel caso della sanatoria straordinaria, posto che anche l’art. 31 L. 47/1985 fa riferimento alle opere “ultimate” ed "eseguite”, e che, trattandosi di normativa eccezionale, essa soffre di un’interpretazione restrittiva.

Il ricorso è infondato.
1. Con il primo motivo di ricorso la ricorrente sostiene che il manufatto originario, per quanto interamente distrutto, sarebbe stato ricostruito –quantomeno per quanto riguarda il piano terra– con le stesse caratteristiche di quello originario, e che ella si era detta comunque disponibile a ricondurre il manufatto alla situazione originaria rimuovendo le opere eseguite in difformità, sicché il comune avrebbe dovuto quantomeno rilasciare una sanatoria parziale e condizionata.
Il motivo è infondato.
Giova premettere che è pacifico in punto di fatto che il manufatto originario è stato completamente distrutto e ricostruito, sicché è effettivamente venuto meno l’oggetto dell’istanza di condono edilizio.
Ciò posto, si osserva che, secondo la giurisprudenza penale, l'attività di demolizione e ricostruzione di un manufatto abusivo preesistente non può essere considerata quale ristrutturazione, costituendo al contrario una riattivazione dell'attività illecita originaria e configurandosi in tal caso il reato di cui all'art. 44, lett. b), D.P.R. n. 380 del 2001, pur in pendenza di una domanda di condono edilizio il cui procedimento non si sia ancora concluso (così Cass. Pen., III, 27.09.2006, n. 40189).
Del resto, in pendenza di condono, le esigenze di tutela della proprietà legittimano solo interventi indispensabili alla tutela del manufatto, quali quelli di manutenzione (TAR Liguria, I, 17.02.2010, n. 603), mentre l’intervento di demolizione e ricostruzione è sussumibile tra quelli di nuova costruzione ex art. 14, comma 2, L.R. 06.06.2008, n. 16.
A ciò si aggiunga che, secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale –anche della Sezione- non è ammissibile il rilascio di una concessione in sanatoria, ex art. 13 L. n. 47 del 1985, relativa soltanto a parte degli interventi abusivi realizzati, ovvero parziale, o subordinata alla esecuzione di opere, atteso che ciò contrasta ontologicamente con gli elementi essenziali dell'accertamento di conformità, i quali presuppongono la già avvenuta esecuzione delle opere (Cass. Pen., III, 14.06.2007, n. 23129; TAR Liguria, I, 29.05.2013, n. 848).
Si tratta di conclusioni che debbono valere –a più forte ragione– nel caso della sanatoria straordinaria, posto che anche l’art. 31 L. 47/1985 fa riferimento alle opere “ultimate” ed "eseguite”, e che, trattandosi di normativa eccezionale, essa soffre di un’interpretazione restrittiva.
2. Palesemente infondato è il secondo motivo, con il quale si lamenta che il provvedimento impugnato non terrebbe conto del parere espresso in data 02.10.1997 dalla commissione edilizia integrata, la quale avrebbe rinviato l’esame della pratica in attesa dell’approvazione di un piano urbanistico particolareggiato, piano mai presentato.
Difatti, l’affermata necessità della presentazione di un piano attuativo esteso a tutto il contesto presuppone comunque la persistenza dell’immobile oggetto dell’originaria istanza di condono, sicché la sua demolizione costituisce –come detto– autonomo e sufficiente motivo di diniego (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 26.02.2014 n. 360 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIOBalconi «aggettanti» proprietà esclusiva dell’appartamento. Parti comuni e private. Per la Cassazione.
Sui balconi la discussione è sempre aperta. Soprattutto perché, per la loro struttura, si compongono di una pluralità di elementi (piano di calpestio, soletta, frontalino, sottobalcone, intradossi eccetera) e assolvono una duplice funzione: costituiscono, infatti, una proiezione esterna dell’appartamento, perché tramite essi il condòmino può affacciarsi ed esplicare il suo diritto di veduta.
In questi casi ci si trova di fronte ai balconi «aggettanti» che per loro struttura sono sporgenti dalla facciate e quindi godono di una loro autonomia, perché possono sussistere indipendentemente dall’esistenza di altre tipologie di balconi. Ma sono anche parte integrante e strutturale della facciata, in quanto rappresentano un elemento decorativo ed estetico dello stabile.

Il tema dei balconi «aggettanti» è stato affrontato dalla Cassazione a seguito di una causa approdata al Giudice di Pace di Avellino, dove viene citato il proprietario per ottenere l’eliminazione delle infiltrazioni derivanti dal balcone di sua proprietà nonché il risarcimento per i danni subiti.
Il Giudice accoglie il ricorso e condanna il convenuto. Il soccombente ricorre al Tribunale di Avellino che rigetta le impugnazioni. Avverso detta pronuncia, il ricorrente deduceva il proprio difetto di legittimazione passiva, assumendo che le infiltrazioni lamentate sarebbero dipese dalla cattiva manutenzione di parti del balcone da considerarsi parti comuni.
Dall’analisi della perizia svolta dal Ctu, era emerso che la causa delle infiltrazioni era ascrivibile al «cattivo stato di manutenzione di finitura dell’estradosso delle solette del balcone (...) e dai correntini risultati ammalorati e sconnessi nella pavimentazione divelta e sconnessa in più punti». I giudici rammentano che, nel caso di specie, trattasi di una particolare tipologia di balconi cosiddetti aggettanti che, costituendo un prolungamento della corrispondente unità immobiliare, sono di proprietà esclusiva del proprietario di questa, dovendosi considerare comuni solo gli elementi decorativi delle parti frontale e inferiore del manufatto, qualora si inseriscano nella facciata di prospetto dell’edificio (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 30.04.2012 n. 6624).
I balconi aggettanti, quindi, costituendo un prolungamento dell’unità immobiliare, appartengono in via esclusiva al proprietario. Ne consegue l’esclusione dalla comproprietà condominiale e la loro appartenenza in via esclusiva ai proprietari delle relative unità abitative. Poiché viene esclusa la presunzione di condominialità, le opere di manutenzione dei balconi medesimi competono ai corrispondenti proprietari.
Tuttavia, ogni qual volta si interviene su di essi, per effettuare lavori di manutenzione, occorre preliminarmente discernere la rispettiva valenza strutturale da quella estetica ornamentale –ove sussistente– al fine di individuare esattamente i criteri di riparto della spesa anche tra condòmini
(articolo Il Sole 24 Ore del 21.07.2015).

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