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AGGIORNAMENTO AL 28.08.2015 |
ã |
IN EVIDENZA |
Con l'AGGIORNAMENTO
AL 13.08.2015 abbiamo trattato il
seguente argomento: "Abuso
edilizio, vincolo paesaggistico sopravvenuto e
richiesta di sanatoria (ordinaria, ex art. 36 oppure
37 DPR n. 380/2001): occorre, o meno, presentare
la richiesta di accertamento della compatibilità
paesaggistica ex art. 167 d.lgs. 42/2004??"
Davamo conto, tra l'altro, di come tre Regioni fossero
allineate nel sostenere la tesi secondo la quale non
occorre presentare la richiesta di accertamento
compatibilità paesaggistica ex art. 167 D.Lgs.
42/2004.
Ebbene, navigando a destra e manca, abbiamo trovato una
"voce fuori dal coro" ossia un parere reso
dalla Regione Abruzzo -ad un comune- di seguito
riportato: |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Sanatoria opere edilizie abusive realizzate
prima dell’imposizione del vincolo paesistico ambientale,
richiesta di accertamento di conformità art. 36 D. P.R. n.
380/2001 e s.m.i. in epoca in cui l’area è ricompresa nel
vincolo di cui al D.Lgs. n. 42/2004 - Riscontro (Regione
Abruzzo,
nota 04.09.2014 n. 3814 di
prot. - tratto da www.regione.abruzzo.it). |
Comunque, un U.T.C. di è cortesemente prestato per
chiedere lumi -in alto loco- di come stiano
esattamente i termini della questione ... non appena
avremo novità Vi aggiorneremo.
28.08.2015 - LA SEGRETERIA PTPL |
UTILITA' |
EDILIZIA PRIVATA: Regola
tecnica orizzontale di prevenzione incendi, lo Speciale di
BibLus-net.
Pubblicata in Gazzetta la nuova regola tecnica orizzontale
di prevenzione incendi. Le principali novità da conoscere
nello Speciale di BibLus-net
E’ stato pubblicato sulla Gazzetta ufficiale n. 192 del
20.08.2015, Supplemento ordinario n. 51, il DM 03.08.2015
recante “Approvazione di norme tecniche di prevenzione
incendi, ai sensi dell’articolo 15 del decreto legislativo
08.03.2006, n. 139”.
Il decreto, che entrerà in vigore il 18.11.2015, costituisce
una regola tecnica orizzontale, ossia una regola tecnica che
uniforma i diversi aspetti della progettazione antincendio,
definendo criteri operativi e progettuali validi per diverse
attività.
Molte attività, infatti, non sono dotate di regola tecnica
verticale, rientrando nel gruppo delle attività non normate.
Per tali attività occorre seguire in linea di principio i
criteri generali di prevenzioni incendi, anche se negli anni
sono state fornite alcune linee guida e di indirizzo.
Il nuovo decreto fornisce per tali attività un vero e
proprio iter di progetto.
In questo articolo proponiamo ai nostri lettori uno Speciale
sulla nuova regola tecnica orizzontale di prevenzione
incendi, illustrando le principali novità introdotte dal DM
03.08.2015.
Lo speciale è così strutturato:
• Premessa
• Regola tecnica orizzontale
• Attività interessate
• Norme alternative
• Obiettivi del decreto
• Struttura del decreto
• Modalità operative
• Strategia antincendio – Reazione al fuoco: un esempio di
misura
• Attività non normate
• Attività normate
• Metodologia per l’ingegneria della sicurezza antincendio
(27.08.2015 - link a www.acca.it). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Pubblici spettacoli - Articoli 68, 69 e 80 del
TULPS ed applicabilità dell'istituto della SCIA
(Ministero dell'Interno, Dipartimento della Pubblica
Sicurezza,
nota 21.05.2015 n. 7764 di prot.). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
EDILIZIA PRIVATA:
D. Minussi,
Distanza fra costruzioni
(19.08.2015 - link a www.e-glossa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
V. Cingano,
Rimozione dei rifiuti e bonifica fra tutela della proprietà
e tutela dell’ambiente (29.07.2015 -
tratto da www.federalismi.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
A. Di Mario,
Il ritardo nel pagamento degli oneri di urbanizzazione tra
garanzie e sanzioni (Urbanistica e appalti n.
3/2015).
-----
Resta aperta la querelle giurisprudenziale sui rapporti
tra garanzia e sanzioni per il ritardo nel pagamento degli
oneri di urbanizzazione. La sentenza in commento si apprezza
perché supera l’orientamento secondo il quale la mancata
escussione della garanzia può escludere in toto le sanzioni.
Permangono opinioni diverse in merito all’applicazione delle
sanzioni per i ritardi superiori al primo. La sentenza in
commento rappresenta lo sforzo della Quinta Sezione del
Consiglio di Stato di rifondare il suo classico orientamento
più favorevole al privato. (... continua). |
CORTE DEI CONTI |
INCARICHI PROFESSIONALI - PUBBLICO IMPIEGO: Posizione Organizzativa.
Condanna per inutile conferimento di incarico di Posizione
Organizzativa a personale esterno.
I giudici contabili lombardi, pur verificando la conformità
alla legge del conferimento di incarico di Posizione
Organizzativa ad un soggetto esterno, dimostrano l'inutilità
delle funzione conferite, chiamano a rispondere del relativo
danno erariale, equivalenti alle spese inutilmente
sopportate, i soggetti che a vario titolo hanno partecipato
al citato conferimento dell'incarico.
In particolare sono
stati chiamati in ugual misura a rispondere del danno
erariale:
a) il Sindaco, in quanto partecipante in via
prevalente alla citata inutile nomina;
b) il Segretario
Comunale, per aver ricoperto il citato ruolo prima
dell'affidamento dell'incarico senza aver obiettano nulla
sulla sua inutilità;
c) il soggetto percettore
dell'incarico, in quanto in qualità di funzionario dell'ex Ages non poteva non sapere dell'inutilità dell'incarico che
gli veniva conferito.
Infine la parte restante del danno
erariale, pari al 10% delle somme inutilmente spese, è stata
attribuita ai componenti della Giunta Comunale per aver
adottato la deliberazione di conferimento dell'incarico.
Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Lombardia,
sentenza
27.07.2015 n. 134). |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Il giudizio civile (nella specie del
lavoro) e quello di responsabilità amministrativa esercitato
innanzi al giudice contabile si muovo su piani diversi,
essendo volti a regolare rapporti giuridici soggettivamente
e oggettivamente distinti aventi diversi parametri
normativi.
Il giudice civile conosce e valuta fatti afferenti al
rapporto tra l’ente pubblico ed i soggetti danneggiati, ed
il giudizio è funzionale all’accertamento della colpa
dell’ente nella sua struttura unitaria, indipendentemente
dalla valutazione della condotta dei singoli.
Il giudice contabile, diversamente, si pronuncia sui fatti
connessi al rapporto di servizio che vincola i dipendenti
pubblici all’ente, per cui il giudizio è finalizzato
all’accertamento della responsabilità personale (condotta,
violazione degli obblighi di servizio, caratterizzata da
dolo o colpa grave, efficienza causale nella determinazione
dell’evento dannoso):
salvo il caso in cui le ragioni del
credito erariale siano state già integralmente soddisfatte
in sede civile con l’accordo transattivo stipulato tra
l’amministrazione danneggiata ed il danneggiato, e
conseguente improcedibilità del giudizio contabile.
---------------
Dovendo il giudice contabile, al fine di addivenire ad una
sentenza di condanna nei confronti del soggetto convenuto in
giudizio individuare, tra gli altri elementi, la colpa grave
dell’agente pubblico, osserva il Collegio che nella specie
esso non si può ritenere sussistente.
Infatti a fronte della revoca della competenza delegata
originariamente dal sindaco in tema di incarichi
dirigenziali e dell’ordine comunicato al Direttore Generale
di procedere al riassetto dell’apparato organizzatorio del
comune con immediatezza, e con la
prospettazione di accertamento di eventuali responsabilità
penali nel caso di inottemperanza, non era ipotizzabile una
diversa condotta dal parte del convenuto, per cui allo
stesso non può essere imputata alcuna colpa grave.
La giurisprudenza contabile ha, infatti,
affermato che la sussistenza della colpa grave non può
essere affermata in astratto ma deve essere valutata in
concreto: infatti non ogni condotta divergente da quella
doverosa implica la colpa grave, ma solo quella
caratterizzata, nel caso concreto, dalla mancanza del
livello minimo di diligenza, prudenza o perizia dei
dipendenti, dal tipo di attività concretamente richiesto
all’agente.
L’elemento soggettivo, inoltre, si configura in una
situazione di macroscopica contraddizione tra il
comportamento tenuto dal pubblico operatore nella
circostanza e quello nella stessa imposto quale minimum del
composito dovere di diligenza derivante dal rapporto di
servizio che lega il soggetto alla Pubblica Amministrazione.
---------------
FATTO
La Procura contabile con atto introduttivo del giudizio
depositato il 14.03.2014 ha affermato la sussistenza
della responsabilità amministrativa del sig. L.T.,
all’epoca dei fatti Direttore Generale del Comune di Bagno a
Ripoli, per un importo pari a € 61.001,40 costituito da due
voci di danno:
a) € 39.769,96 che il Comune di Bagno a Ripoli aveva liquidato in esecuzione della sentenza del
Tribunale di Firenze - Sezione Lavoro n. 600 del 13.05.2008 a seguito del ricorso proposto dall’arch. Z.;
b) €
21.231,98 a titolo di compenso per l’attività di difesa che
il legale nominato dall’ente aveva svolto nel detto
giudizio.
La vicenda di cui è causa ha origine nell’incarico
dirigenziale a tempo determinato di Coordinatore dell’Area
funzionale 2 “Servizi al Territorio” conferito all’arch.
C.Z. (che all’epoca era funzionario tecnico
inquadrato nella cat. D del CCNL enti locali 31.03.1999),
con atti prot. n. 1638 del 31.12.2001, n. 256 del 04.03.2003 e n. 456 del 30.04.2003.
L’incarico dirigenziale era stato disposto dal Direttore
Generale, oggi convenuto in giudizio, a seguito della delega
esercitata nei suoi confronti dal sindaco del Comune di
Bagno a Ripoli con riferimento a quanto previsto dall’art.
50, comma 10, del TUEL 267/2000 per gli incarichi
dirigenziali e di collaborazione esterna.
Successivamente il sindaco, sig. L., revocava la
delega a suo tempo conferita al Direttore Generale, e nello
stesso tempo assegnava l’incarico dirigenziale delle aree
Servizi del Territorio, all’ambiente, di rete e
pianificazione urbanistica e gestione del territorio
all’ing. P. in luogo dell’arch. Z..
Nello stesso atto del 27.05.2003 il Sindaco dava mandato
al Direttore Generale ed al dirigente dell’area
programmazione ed organizzazione di disporre i necessari
provvedimenti affinché l’arch. Z., già incaricata della
direzione e coordinamento dell’area funzionale
pianificazione urbanistica e gestione del territorio, fosse
assegnata ad incarichi di progettazione di opere pubbliche.
La detta determinazione del sindaco era anticipata, via fax,
al direttore generale avv. T. e si ordinava di “dare
sollecita esecuzione ..ogni inadempimento sarà considerata
omissione di atti d’ufficio, passibile di conseguenze
penali”.
In esecuzione della disposizione del sindaco il Direttore
Generale con determinazione n. 574 del 30.05.2003
prevedeva:
a) la revoca del collocamento in aspettativa
senza assegni dell’arch. Z.;
b) il reintegro della
detta dipendente nel posto in dotazione organica prima
prevista (categoria professionale D4 – Funzionario
specialista in attività tecniche e progettuali);
c)
l’assegnazione all’interessata di funzioni di progettazione
di opere pubbliche.
La Procura contabile, attivava il giudizio di
responsabilità, vista la delib. consiliare del Consiglio
Comunale del Comune di Bagno a Ripoli n. 1467 del 04.11.2008 avente ad oggetto la legittimità del debito fuori
bilancio correlato all’esecuzione della sentenza n. 600/2008
emessa dal Tribunale di Firenze Sezione Lavoro sul ricorso
promosso dall’arch. Z..
Il giudice del Lavoro aveva ritenuto l’illegittimità del
provvedimento di revoca dell’incarico dirigenziale a tempo
determinato suddetto, nonché del provvedimento con cui si
riteneva non conferito l’incarico dirigenziale “specialista
della progettazione” (di cui alla determinazione
dirigenziale n. 630/2003 del 12.06.2003) e dichiarava
l’intervenuto demansionamento per il periodo maggio 2003–marzo 2004.
In data 01.07.2003 decedeva il sig. G.L.
sindaco pro-tempore del Comune di Bagno a Ripoli e con
successiva determinazione del 17.07.2003 il sig. T. prendeva atto della mancata sottoscrizione, da
parte della dell’arch. Z., dell’incarico di posizione
organizzativa relativa al ruolo di “specialista della
progettazione”.
La Procura contestava al sig. L.T. di aver
cagionato con la propria condotta, un danno evitabile al
Comune di Bagno a Ripoli, con invito a dedurre del 17.10.2013 e successivamente con atto di citazione in cui
confermava la sussistenza dei presupposti della
responsabilità amministrativa, non avendo il sig. T.
adottato un comportamento diligente con consapevole elusione
dei canoni di buona amministrazione e di sana gestione
dell’ente.
Con memoria del 27.11.2014 il legale difensore della
parte convenuta eccepiva:
a) l’assenza di colpa grave in capo al convenuto avendo
quest’ultimo adottato atti consequenziali alla decisione del
sindaco del 27.05.2003;
b) la non imputabilità al sig. L.T. della
responsabilità per la somma di € 21.231,98 che il Comune di
Bagno a Ripoli, su richiesta dell’avv. E.C.,
aveva liquidato a favore di quest’ultimo, in quanto il sig.
L.T., all’epoca della nomina dell’avv. C.,
non era più in servizio e, d’altro canto, esisteva una
convenzione stipulata (sin dal 2001) con i comuni di Fiesole
e Pontassieve per la gestione in forma associata dei servizi
legali, con la gestione di un Ufficio Legale avente la
funzione di supporto ai dirigenti/responsabili dei servizi
nella costituzione in giudizio.
Sicché la responsabilità per questa posta di danno erariale
doveva essere imputata al sindaco, alla giunta del Comune di
Bagno a Ripoli ed alla dott.ssa M.R..
Concludeva, la parte convenuta, per l’assoluzione da ogni
addebito e, in subordine, per una quota di responsabilità
ridotta unicamente per l’importo derivante dalla sentenza di
condanna del Tribunale di Firenze – Sezione Lavoro n. 600
del 13.05.2008.
Nella odierna udienza di discussione il Pubblico Ministero
chiedeva l’accoglimento della domanda introduttiva del
giudizio, mentre il legale difensore della parte convenuta
ribadiva quanto dedotto con atti defensionali; quindi dopo
le repliche e controrepliche la causa veniva introitata per
la decisione.
DIRITTO
La domanda attorea appare infondata e va rigettata con tutte
le conseguenze di legge.
La ricostruzione operata in sede di narrativa di fatto alla
luce delle considerazioni attoree e della parte convenuta
permettono di affermare che nel presente giudizio sia
assente l’elemento soggettivo da contestare al sig. L.T..
In particolare dalle risultanze processuali (cfr. atto del
Sindaco di Bagno a Ripoli del 27.05.2003) è emerso che
il sindaco dapprima aveva revocato la delega che aveva
conferito al direttore generale dell’ente per l’attribuzione
degli incarichi dirigenziali e quindi aveva affidato ad
altro soggetto (ing. F.P.), in luogo dell’arch. Z., l’incarico di dirigente delle aree “pianificazione,
urbanistica, gestione del territorio”.
In siffatto modo il sindaco, revocando la delega, era
ridivenuto titolare di una sua specifica competenza
assegnatagli dalla legge, ai sensi dell’art. 50, comma 10,
del T.U.E.L. D.Lgs. n. 267/2000 secondo cui “il sindaco ed
il presidente della provincia nominano i responsabili degli
uffici e dei servizi, attribuiscono e definiscono gli
incarichi dirigenziali e quelli di collaborazione esterna
secondo le modalità ed i criteri stabiliti dagli artt. 109 e
110, nonché dei rispettivi statuti e regolamenti comunali e
provinciali”.
Ridivenuto titolare della relativa competenza a determinare,
prima delegata all’odierno convenuto in giudizio, non solo
invitava il sig. T. a “disporre i necessari
provvedimenti”, ma ribadiva con indubitabile chiarezza
quanto voluto ribadendo “anticipo via fax copia mia
disposizione. Ordino dare sollecita esecuzione…. ogni
inadempimento sarà considerato omissione di atti d’ufficio,
passibile di conseguenze penali”.
In relazione alle volizioni del sindaco il sig. T.
provvedeva alle successive determinazioni:
a) n. 574 del
2003 con rideterminazione dell’inquadramento e delle
mansioni assegnate all’arch. Z.;
b) prot. n. 26142 del
17.07.2003 con cui si prendeva della mancata
accettazione, da parte dell’arch. Z., dell’incarico
della posizione organizzativa.
In questo contesto è stata emessa la sentenza del Tribunale
di Firenze – Sezione Lavoro, che dichiarava l’illegittimità
del provvedimento di revoca dell’incarico dirigenziale a
tempo determinato, l’intervenuto demansionamento dell’arch.
Z. per il periodo maggio 2003–marzo 2004, e
l’illegittimità del provvedimento del 17.07.2003 con cui
si riteneva non conferito l’incarico dirigenziale
“specialista della progettazione” con conseguente
risarcimento del danno e condanna alle spese legali in
ragione della metà.
Orbene in conseguenza di quanto statuito dal giudice del
lavoro la Procura contabile contesta il suddetto danno
erariale al sig. T. nelle poste e nelle misure
suddette.
Osserva il Collegio che il giudizio civile (nella specie del
lavoro) e quello di responsabilità amministrativa esercitato
innanzi al giudice contabile si muovo su piani diversi,
essendo volti a regolare rapporti giuridici soggettivamente
e oggettivamente distinti aventi diversi parametri
normativi.
Il giudice civile conosce e valuta fatti afferenti al
rapporto tra l’ente pubblico ed i soggetti danneggiati, ed
il giudizio è funzionale all’accertamento della colpa
dell’ente nella sua struttura unitaria, indipendentemente
dalla valutazione della condotta dei singoli.
Il giudice contabile, diversamente, si pronuncia sui fatti
connessi al rapporto di servizio che vincola i dipendenti
pubblici all’ente, per cui il giudizio è finalizzato
all’accertamento della responsabilità personale (condotta,
violazione degli obblighi di servizio, caratterizzata da
dolo o colpa grave, efficienza causale nella determinazione
dell’evento dannoso): cfr.,
ex plurimis, Sezione
giurisdizionale Regione Lazio 20.01.2006 n. 215 con
sull’assenza di efficacia vincolante o di alcuna preclusione
del giudizio civile di condanna della P.A. sul giudizio
contabile (cfr. Sezione giurisdizionale Regione Lombardia 01.02.2012 n. 63),
salvo il caso in cui le ragioni del
credito erariale siano state già integralmente soddisfatte
in sede civile con l’accordo transattivo stipulato tra
l’amministrazione danneggiata ed il danneggiato, e
conseguente improcedibilità del giudizio contabile.
Orbene dovendo il giudice contabile, al fine di addivenire
ad una sentenza di condanna nei confronti del soggetto
convenuto in giudizio individuare, tra gli altri elementi,
la colpa grave dell’agente pubblico, osserva il Collegio che
nella specie esso non si può ritenere sussistente.
Infatti a fronte della revoca della competenza delegata
originariamente dal sindaco in tema di incarichi
dirigenziali e dell’ordine comunicato al Direttore Generale
di procedere al riassetto dell’apparato organizzatorio del
comune di Bagno a Ripoli con immediatezza, e con la
prospettazione di accertamento di eventuali responsabilità
penali nel caso di inottemperanza, non era ipotizzabile una
diversa condotta dal parte del sig. T., per cui allo
stesso non può essere imputata alcuna colpa grave.
La giurisprudenza contabile ha, infatti, affermato che la
sussistenza della colpa grave non può essere affermata in
astratto ma deve essere valutata in concreto: infatti non
ogni condotta divergente da quella doverosa implica la colpa
grave, ma solo quella caratterizzata, nel caso concreto,
dalla mancanza del livello minimo di diligenza, prudenza o
perizia dei dipendenti, dal tipo di attività concretamente
richiesto all’agente: cfr. Sezione giurisdizionale Regione
Sicilia 05.03.2010 n. 471.
L’elemento soggettivo, inoltre, si configura in una
situazione di macroscopica contraddizione tra il
comportamento tenuto dal pubblico operatore nella
circostanza e quello nella stessa imposto quale minimum del
composito dovere di diligenza derivante dal rapporto di
servizio che lega il soggetto alla Pubblica Amministrazione:
cfr. Sez. I Centr. 07.07.1998 n. 219/A.
La insussistenza della responsabilità amministrativa per la
prima posta determina l’assenza di responsabilità anche per
la posta relativa alle spese legali sia per assenza
dell’elemento soggettivo che del nesso causale, ancor più
ove si consideri che il sig. T. all’epoca
dell’individuazione e della nomina dell’avv. C.,
difensore dell’arch. Z., non era più in servizio.
Va, pertanto, assolto da ogni addebito il sig. L.T.,
con spettanza del diritto al rimborso delle spese legali che
ha sostenuto per il presente giudizio e ciò nella misura
pari a € 500,00, oltre ad accessori di legge
(Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Toscana,
sentenza 11.05.2015 n. 86). |
QUESITI & PARERI |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/
Commistioni da evitare. Funzioni di governo e controllo
separate.
Deleghe ai consiglieri, poche le deroghe consentite dalla
legge.
Gli incarichi di delega conferiti ai consiglieri comunali
dal sindaco, per il loro contenuto, potrebbero essere
inficiati da vizi di legittimità qualora determinassero una
commistione tra funzioni di governo e funzioni di controllo
politico?
Risposta
Nell'ambito dell'autonomia statutaria dell'ente locale,
sancita dall'art. 6 del decreto legislativo n. 267/2000, è
ammissibile la disciplina di deleghe interorganiche, purché
il contenuto delle stesse sia coerente con la funzione
istituzionale dell'organo cui si riferisce.
Tale istituto è
disciplinato dello statuto del comune. Occorre considerare,
quale criterio generale, che il consigliere può essere
incaricato di studi su determinate materie, di compiti di
collaborazione circoscritti all'esame e alla cura di
situazioni particolari, che non implichino la possibilità di
assumere atti a rilevanza esterna, né di adottare atti di
gestione spettanti agli organi burocratici.
Il consigliere,
infatti, svolge la sua attività istituzionale, in qualità di
componente di un organo collegiale quale il consiglio, che è
destinatario dei compiti individuati e prescritti dalle
leggi e dallo statuto. Poiché il consiglio svolge attività
di indirizzo e controllo politico-amministrativo, ne
scaturisce l'esigenza di evitare una incongrua commistione
nell'ambito dell'attività di controllo. Tale criterio
generale può ritenersi derogabile solo in taluni casi
previsti dalla legge.
Il Tar Toscana, con decisione n.
1284/2004, ha respinto il ricorso avverso una norma
statutaria concernente la delega ai consiglieri di funzioni
sindacali in quanto la stessa escludeva implicitamente che
potessero essere delegati compiti di amministrazione attiva,
tali da comportare «... l'inammissibile confusione in capo
al medesimo soggetto del ruolo di controllore e di
controllato».
Inoltre il Consiglio di stato, con parere n.
4883/2011 reso in data 17.10.2012, ha ritenuto fondato un
ricorso straordinario al presidente della repubblica in
quanto l'atto sindacale impugnato, nel prevedere la delega
ai consiglieri comunali di funzioni di amministrazione
attiva, determinava «una situazione, perlomeno potenziale,
di conflitto di interesse». Come noto, l'ordinamento
vigente non prevede poteri ordinari di controllo di
legittimità sugli atti degli enti locali in capo
all'Amministrazione dell'Interno
(articolo ItaliaOggi del 21.08.2015). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/ Gruppo con unico componente.
Un consigliere provinciale uscito dal proprio gruppo
originario di appartenenza può aderire al gruppo misto,
formato da un unico componente?
Risposta
L'esistenza dei gruppi consiliari non è espressamente
prevista dalla legge, ma si desume implicitamente da quelle
disposizioni normative che contemplano diritti e prerogative
in capo ai gruppi o ai capigruppo (art. 38, comma 3, art.
39, comma 4, e art. 125 del decreto legislativo n. 267/2000).
La materia, pertanto, è regolata da apposite norme
statutarie e regolamentari, adottate dai singoli enti locali
nell'ambito dell'autonomia organizzativa dei consigli,
riconosciuta dall'art. 38 del citato Tuoel.
Nella
fattispecie in esame, lo statuto della provincia, dispone
che “i gruppi consiliari sono composti dagli eletti sotto lo
stesso contrassegno. I consiglieri che non intendano far
parte dei gruppi costituitisi ai sensi del periodo che
precede possono formare un nuovo gruppo che deve essere
composto da almeno due membri".
Nell'ambito della suddetta
fonte statutaria non si rinvengono norme riferite alla
ipotesi di costituzione del gruppo misto. Il regolamento sul
funzionamento del consiglio provinciale prevede la
possibilità per i consiglieri che non intendano più far
parte di un gruppo e di non aderire a ad altro gruppo
consiliare, di confluire nel gruppo misto, senza però dare
indicazione in ordine alla composizione numerica di
quest'ultimo.
Ciò posto, tale disposizione regolamentare
potrebbe essere interpretata quale previsione speciale,
dettata con puntuale riferimento alla fattispecie del
«gruppo misto» e, pertanto, non riconducibile alla normativa
dettata dello statuto provinciale riferito alle ipotesi di
costituzione di un nuovo gruppo consiliare diverso dal
misto. In assenza di disposizioni che escludano
espressamente la possibilità di istituire il gruppo misto
anche con la partecipazione di un unico componente, si
potrebbe accedere a un'interpretazione delle fonti di
autonomia locale orientata alla valorizzazione dei diritti
dei singoli di poter aderire ad un gruppo consiliare.
Occorre considerare che in linea generale il gruppo misto è
un gruppo consiliare con carattere residuale, nel quale
confluiscono i consiglieri, anche di diverso orientamento,
che non si riconoscono negli altri gruppi costituiti, o che
non possono costituire un proprio gruppo per mancanza delle
condizioni previste dallo statuto e dal regolamento e la cui
costituzione non può essere subordinata alla presenza di un
numero minimo di componenti.
Tuttavia, poiché la materia dei
«gruppi consiliari» è interamente demandata allo statuto ed
al regolamento sul funzionamento del consiglio, è in tale
ambito che devono trovare adeguata soluzione le relative
problematiche applicative. Spetta, infatti, alle decisioni
del consiglio provinciale, oltre che trovare soluzioni per
le singole questioni, valutare l'opportunità di adottare
apposite modifiche regolamentari che disciplinino anche le
ipotesi in argomento
(articolo ItaliaOggi del 21.08.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Personale degli enti locali. Incarico ex art. 110 TUEL.
La Corte dei conti, Sezioni riunite, ha
ritenuto applicabile anche agli enti locali quanto disposto
dall'art. 19, commi 6 e 6-bis, del d.lgs. n. 165/2001, in
materia di conferimento di incarichi dirigenziali a termine,
ritenendo ragionevole la percentuale massima dell'8 per
cento della dotazione organica dirigenziale.
Il Comune ha chiesto di conoscere se sia possibile
attribuire un incarico, ai sensi dell'art. 110, comma 2, del
TUEL, alla luce delle valutazioni espresse dalla Corte dei
conti, Sezioni riunite, con le pronunce n. 13 e 14
dell'08.03.2011.
L'Ente rappresenta di voler ricorrere a detto strumento per
l'attribuzione di un incarico di posizione organizzativa
relativa all'Area Servizi Pianificazione Territoriale e
Urbanistica, come derivante da una recente modifica della
struttura organizzativa comunale.
Preliminarmente si osserva che, trattandosi di un posto di
responsabile d'Area, sembra più pertinente il riferimento a
quanto disposto dal comma 1 del richiamato art. 110.
La predetta norma consente infatti agli enti locali di
prevedere nello statuto la possibilità di ricoprire i posti
di responsabile dei servizi o degli uffici, di qualifiche
dirigenziali o di alta specializzazione, mediante contratti
a tempo determinato, fermi restando i requisiti richiesti
dalla qualifica da ricoprire.
Come rilevato dalla Corte dei conti [1],
si specifica, in tale norma, che le figure apicali delle
strutture in cui è articolato l'ente locale possano avere
diversa qualificazione, con naturale riferimento, da un lato
alla dimensione della specifica struttura cui il soggetto è
preposto e, dall'altro lato, alla dimensione complessiva
dell'ente stesso.
Il comma in argomento non prevede altresì le limitazioni
quantitative al ricorso ad incarichi a contratto (per
ricoprire posti apicali previsti in pianta organica),
contenute invece nel comma 2 dell'articolo medesimo.
Il citato comma 2 dell'art. 110 contempla la possibilità,
negli enti in cui non è prevista la dirigenza, che il
regolamento sull'ordinamento degli uffici e dei servizi
stabilisca i limiti, i criteri e le modalità con cui possono
essere stipulati, al di fuori della dotazione organica, solo
in assenza di professionalità analoghe presenti all'interno
dell'ente, contratti a tempo determinato di dirigenti, alte
specializzazioni o funzionari dell'area direttiva. Tali
contratti sono stipulati in misura complessivamente non
superiore al 5 per cento della dotazione organica dell'ente
arrotondando il prodotto all'unità superiore, o ad una unità
negli enti con una dotazione organica inferiore alle 20
unità.
Come evidenziato dalla Corte dei conti [2],
'la disciplina contenuta nel secondo comma dell'art. 110
del TUEL appare riferibile ad una fattispecie del tutto
diversa da quella disciplinata dal comma precedente, in
quanto volta a sopperire [...] ad esigenze gestionali
straordinarie che, sole, determinano l'opportunità di
affidare funzioni, anche dirigenziali, extra dotationem e
quindi al di là delle previsioni della pianta organica
dell'ente locale che, invece, cristallizza il fabbisogno
ordinario di risorse umane.'
Con riferimento, in generale, all'attuale vigenza dell'art.
110 del d.lgs. n. 267/2000, dopo l'entrata in vigore del
d.lgs. n. 150/2009, la questione concernente nello specifico
l'affidamento di incarichi dirigenziali a contratto, dopo
vari e divergenti orientamenti interpretativi, è stata
esaminata dalle Sezioni riunite della Corte dei conti
[3] che ha
affrontato il problema della compatibilità dell'art. 110
medesimo con la nuova formulazione dell'art. 19 del d.lgs.
n. 165/2001.
In particolare, relativamente al comma 1 dell'art. 110 in
esame, le Sezioni riunite, ponendosi in linea con la più
recente giurisprudenza, anche costituzionale
[4], hanno
ritenuto che l'art. 19, commi 6 e 6-bis, del d.lgs. n.
165/2001 sia applicabile anche alle amministrazioni locali,
in quanto disposizione di principio e, come tale,
direttamente operativa per tutte le amministrazioni.
Inoltre (e questo è l'aspetto più significativo), è stato
ritenuto coerente con il sistema e, pertanto, ragionevole
estendere agli enti locali [5]
anche la restrittiva percentuale dell'8% della dotazione
organica dirigenziale per l'attivazione di incarichi
dirigenziali a tempo determinato, considerando che la
contrattazione collettiva di comparto non prevede la
distinzione tra dirigenza di prima e di seconda fascia e che
la percentuale più elevata del 10% è prevista per la
dirigenza statale di prima fascia.
Ciò premesso, al fine del conferimento dell'incarico
prospettato nel quesito (incarico che si configura quale
incarico di responsabile di specifica Area Tecnica), il
Comune potrà compiere le proprie discrezionali valutazioni,
nell'ambito della propria autonomia organizzativa,
considerati i riflessi applicativi delle citate pronunce
delle Sezioni riunite sulla disciplina dell'art. 110 del
TUEL [6],
sia, in concreto, partendo dal necessario presupposto della
previsione statutaria della possibilità di conferire tale
tipologia di incarico [7],
avuto riguardo alla specifica attività da espletare, e
tenuto conto delle proprie dimensioni e della dimensione
della specifica struttura cui sarà preposto il soggetto
incaricato.
In conclusione, la stipula di un contratto di natura
fiduciaria a tempo determinato, nei termini sopra esposti,
risulta essere tuttora possibile, nel rispetto dei limiti
delineati.
---------------
[1] Cfr. sez. reg. di controllo per la Lombardia, parere
n. 308/2010.
[2] Cfr. Corte dei conti, Sezioni riunite, deliberazione n.
14 dell'08.03.2011.
[3] Cfr. deliberazioni n. 13 e 14 dell'08.03.2011.
[4] Cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 324/2010.
[5] Sebbene la formulazione dell'art. 110, comma 1, del TUEL
non contenga alcuna limitazione percentuale.
[6] La modifica più rilevante da evidenziare è che comunque
va rispettata la percentuale massima definita dalla
normativa statale.
[7] L'art. 80, comma 2, del vigente Statuto dell'Ente
prevede espressamente tale possibilità (28.10.2011
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PUBBLICO IMPIEGO:
Contratto a tempo determinato per alta specializzazione, ex
art. 110, D.Lgs. 267/2000.
Preso atto della mancanza allo stato
attuale di un orientamento giurisprudenziale consolidato in
ordine alla vigenza dell'art. 110 del TUEL, successivamente
all'entrata in vigore del DLgs. 150/2009, e nel ravvisare
l'opportunità dell'attesa di una pronuncia delle sezioni
riunite della Corte dei Conti, cui la questione è stata
rimessa dalla sezione regionale FVG, pur esprimendosi nel
senso dell'applicabilità diretta della novella legislativa
alle autonomie locali, si rileva altresì l'orientamento
generale delle Associazioni Anci e Upi in termini di vigenza
dell'art. 110, del TUEL, ferma restando l'autonoma
valutazione di ciascun Ente al riguardo.
È altresì rimessa all'Ente, secondo l'orientamento della
magistratura contabile, la valutazione in concreto, ai fini
del conferimento di incarico con contratto a tempo
determinato a titolo di alta specializzazione, della
sussistenza del requisito dell'alta specializzazione, in
relazione alle specifiche attività da espletare.
L'assunzione a tempo determinato avviene, del resto,
nell'ambito di quanto disposto dalla normativa regionale,
relativamente alla previa verifica della possibilità di
esternalizzazione e nel rispetto dei limiti di spesa
previsti, derogabili per i comuni con popolazione fino a
5000 abitanti.
Con la nota indicata a riferimento il Comune ha proposto due
distinti quesiti; nell'informare il Comune che il quesito n.
1 è stato trasmesso per competenza al Servizio polizia
locale e sicurezza, con il presente parere si risponde al
quesito n. 2.
Il Comune riferisce di un posto previsto e vacante nella
propria dotazione organica di istruttore amministrativo,
cat. C, al servizio ufficio cultura e sport, non coperto da
alcuni anni e le cui mansioni sono state assicurate sino al
dicembre 2010 da una collaboratrice esterna.
Chiede, il Comune, la possibilità, nel rispetto della
qualifica da ricoprire, di far ricorso alla stipula di un
contratto pubblico a titolo di alta specializzazione, ex
art. 110, DLgs. 267/2000, TUEL, per ovviare ai limiti di
spesa per studi, incarichi e consulenze, posti dall'attuale
normativa nazionale e regionale.
In tema di assunzione con contratto di lavoro a tempo
determinato, nel caso di specie per la copertura dei posti
in dotazione organica a titolo di alta specializzazione, la
normativa da esaminare è la seguente.
Sul piano dell'ordinamento nazionale, viene in
considerazione l'art. 110, comma 1, del TUEL, il quale
consente agli Enti locali di prevedere nello Statuto la
possibilità di ricoprire i posti di responsabile di servizi
o uffici con qualifiche dirigenziali o di alta
specializzazione, mediante contratti a tempo determinato di
diritto pubblico.
Con riferimento all'attuale vigenza di tale norma,
successivamente all'entrata in vigore del D.Lgs. 150/2009,
che ha recato una significativa riforma delle modalità di
conferimento degli incarichi dirigenziali di cui all'art.
110 del TUEL, prevedendo una riduzione, rispetto a quanto
previsto dalla normativa vigente, delle quote percentuali di
dotazione organica entro cui è possibile il conferimento di
incarichi a soggetti estranei alla pubblica amministrazione,
si è acceso un vivace dibattito giurisprudenziale,
registrandosi due differenti avvisi da parte delle Sezioni
regionali della Corte dei Conti.
Da un lato, la Sezione regionale di controllo per la
Lombardia, con parere n. 308/2010 ha affermato l'attuale
vigenza della disciplina contenuta nell'art. 110 del TUEL,
riferita oltre che alle qualifiche dirigenziali, anche a
quelle di alta specializzazione. E questo, in considerazione
dell'autonomia organizzativa costituzionalmente riconosciuta
agli enti locali e dell'attuale assenza di un intervento
legislativo espresso di modifica, richiesto dalla clausola
di specialità di cui all'art. 1, comma 4, DLgs 267/2000 per
le deroghe al TUEL ad opera delle leggi della Repubblica.
Dall'altro, le Sezioni regionali di controllo per la Puglia
(deliberazione n. 44/2010) e il Veneto (deliberazione
231/2010) hanno invece ritenuto che le disposizioni di cui
all'art. 110, commi 1 e 2, del TUEL, non trovino più
applicazione, muovendo da diverse argomentazioni.
E dunque:
a) l'abrogazione dell'art. 110 in base al criterio
cronologico di cui all'art. 15 delle preleggi secondo cui
tra fonti dello stesso grado gerarchico, promulgate in tempi
successivi e regolanti la stessa materia, la legge
posteriore deroga la legge precedente;
b) l'operatività della modifica operata dalla novella
normativa di cui al D.Lgs. 150/2009 anche nell'ambito degli
enti locali in virtù dell'estensione dell'ambito soggettivo
a tutte le amministrazioni pubbliche di cui all'art. 1,
secondo comma, D.Lgs. 165/2001, tra le quali sono compresi
anche gli enti locali (art. 40, DLgs. 150/2009);
c) la riconducibilità della novella legislativa alla materia
di accesso al pubblico impiego, (art. 97, terzo comma,
Cost.) e dunque non inficiante l'autonomia regolamentare
degli Enti locali in materia di organizzazione (art. 117,
sesto comma, Cost.).
La Sezione regionale di controllo per la nostra regione FVG,
con delibera n. 342 del 15.12.2010, in considerazione dei
contrastanti avvisi da parte delle Sezioni regionali di
controllo, ha ritenuto di rimettere la questione alle
Sezioni Riunite, pur esprimendo delle considerazioni.
La Corte ha comunque espresso il proprio avviso circa
l'applicabilità della novella del 2009 anche alle autonomie
locali. Ha, infatti, evidenziato come l'intento del
legislatore di riforma sia stato quello di estendere la
nuova disciplina di definizione dei limiti percentuali di
conferimento degli incarichi a soggetti esterni alla
pubblica amministrazione anche agli enti locali al fine di
meglio rispondere al principio di buon andamento ed
imparzialità della pubblica amministrazione.
La Sezione regionale ha, inoltre, richiamato la posizione
della Corte Costituzionale in ordine alla riconducibilità
della disciplina degli incarichi esterni alla materia
dell'ordinamento civile di competenza esclusiva dello Stato
(art. 117, secondo comma, lett. l, Cost.), da cui consegue
l'applicazione della novella normativa di cui al D.Lgs.
150/2009 anche agli Enti locali della Regione FVG.
Si riportano, infine, le considerazioni delle Associazioni
Anci e Upi, (nota del 21.12.2010), le quali, nell'osservare
la mancanza allo stato attuale di un orientamento
giurisprudenziale consolidato, e nel far salve le autonome
valutazioni proprie di ciascun Ente, esprimono un
orientamento generale in termini di attuale vigenza
dell'art. 110, del TUEL.
A tal fine adducono più argomentazioni: la modifica della
disciplina degli incarichi non è stata qualificata dal
legislatore di riforma come materia esclusiva dello Stato,
non può dunque applicarsi direttamente alle Regioni ed
autonomie locali; l'art. 110 del TUEL non può ritenersi
implicitamente abrogato a ciò ostando la clausola di
specialità di cui all'art. 1, co. 4, del TUEL, sopra
richiamata; la novella del 2009 non ha finalità di
contenimento della spesa pubblica complessiva in quanto si
riferisce ad incarichi a contratto entro i limiti della
dotazione organica che non possono determinare alcuna
maggior spesa per l'Amministrazione.
Proseguono le Associazioni, muovendo dalla ratio
evidente della novella legislativa del 2009 di evitare che
le amministrazioni utilizzino in maniera eccessiva lo
strumento dell'incarico a termine, con l'affermare la
doverosità di ciascun Ente di recepire nel proprio
regolamento il principio di contenimento degli incarichi a
termine conferiti a soggetti esterni, definendolo in
percentuale rispetto alla dotazione organica dell'area
direttiva.
Ciò premesso, per completezza, venendo al contenuto della
norma in questione, l'art. 110 del TUEL prescrive
specificamente che la possibilità di conferire un incarico a
titolo di alta specializzazione sia espressamente prevista
nello statuto dell'Ente.
La norma indica altresì ai fini della sua concreta
applicazione il possesso del requisito dell'alta
specializzazione.
Al riguardo, appare di interesse quanto espresso dalla Corte
dei Conti nella pronuncia n. 702/2010, sezione regionale di
controllo per la Lombardia, dove si afferma che il requisito
dell'alta specializzazione deve essere individuato in
concreto dall'ente, in relazione alle attività da espletare
ed alle necessità funzionali da soddisfare. E se è evidente,
si legge nella pronuncia, che il requisito ordinario è
quello della laurea (richiesto per l'accesso dall'esterno
alla categoria D), trattandosi di un incarico di
responsabile di ufficio, tuttavia non può trascurarsi che,
in relazione a specifiche attività proprie
dell'organizzazione degli enti pubblici, soprattutto di
dimensioni minori, l'attività di specifici settori in
particolare quelli tecnici, può esser svolta da soggetti che
seppur privi di titolo di studio universitario, siano in
possesso del titolo di studio specificamente richiesto per
l'esercizio di una particolare attività, nonché di idonea e
documentata esperienza di settore (Corte dei Conti,
Lombardia, n. 702/2010).
Sul piano dell'ordinamento regionale, l'art. 13, co. 15,
L.R. 24/2009 (Legge Finanziaria 2010), nell'ambito delle
norme di contenimento della spesa pubblica, prevede che le
amministrazioni del comparto unico del pubblico impiego
regionale e locale di cui all'art. 127, L.R. 13/1998, prima
di procedere anche alle assunzioni di personale con
contratto di lavoro a tempo determinato verifichino la
possibilità e la convenienza di ricorrere ad appalti di
servizi o ad incarichi professionali.
In caso di esito negativo di detta verifica, la medesima
norma prevede al comma 16 la possibilità per gli esercizi
2010 e 2011 di assunzioni a tempo determinato nel limite di
spesa ivi indicato, ma derogabile per i comuni con
popolazione fino a 5.000 abitanti.
Ciò premesso, al fine del conferimento di incarico a titolo
di alta specializzazione, ex art. 110, del TUEL, il Comune,
nell'attesa opportuna di una definitiva pronuncia delle
Sezioni Riunite, potrà compiere le proprie autonome
valutazioni, nell'ambito della sua autonomia organizzativa,
sia in ordine all'applicabilità dell'art. 110 del TUEL, sia,
in concreto, in relazione alla sussistenza del requisito
dell'alta specializzazione, partendo dal necessario
presupposto della previsione statutaria della possibilità di
conferire tale tipologia di incarico, avuto riguardo alla
specifica attività da espletare, e tenuto conto delle
proprie dimensioni e della dimensione della specifica
struttura cui sarà preposto il soggetto incaricato.
In tal caso, muovendo da una lettura combinata della
normativa statale e regionale relativa alla stipula di
contratti a tempo determinato, il Comune potrà procedere
secondo quanto stabilito dalla finanziaria regionale 2010, e
dunque in deroga ai limiti di spesa previsti, in quanto
Comune con popolazione inferiore a 5.000 abitanti, e previa
verifica della possibilità e convenienza di ricorrere ad
appalti di servizi o ad incarichi professionali (08.03.2011
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PUBBLICO IMPIEGO:
Personale degli enti locali. Art. 110 del d.lgs. n.
267/2000 e art. 19 del d.lgs. n. 165/2001.
La Corte dei conti, sez. Lombardia,
ritiene che le disposizioni di cui all'art. 110 del TUEL
siano tuttora applicabili agli enti locali. Certa dottrina
però rileva come la richiamata norma risulti incompatibile
con la riforma della dirigenza pubblica introdotta dal
d.lgs. n. 150/2009.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine all'attuale
applicabilità agli enti locali, dopo l'intervento del d.lgs.
n. 150/2009 che ha modificato, tra l'altro, l'art. 19 del
d.lgs. n. 165/2001, dell'art. 110 del d.lgs. n. 267/2000, in
ordine alla possibilità di attribuire un incarico
dirigenziale a tempo determinato a proprio dipendente di
categoria D.
L'Ente chiede inoltre di conoscere se, volendo ricoprire con
concorso pubblico il posto di dirigente resosi vacante,
permanga comunque l'obbligo di ricorrere alla prioritaria
procedura di mobilità di comparto e se la spesa derivante da
detta assunzione debba essere contenuta nel limite di spesa
del 20% imposto dall'art. 13, comma 16, della L.R. n.
24/2009.
Preliminarmente, si osserva che sono di evidente rilevanza
le nuove disposizioni dettate dal d.lgs. n. 150/2009 in
materia di incarichi dirigenziali, che hanno modificato ed
integrato la disciplina contenuta nel d.lgs. n. 165/2001,
introducendo elementi di maggiore garanzia e trasparenza
nella regolazione dei sistemi di affidamento e di cessazione
degli incarichi medesimi, sia per quanto riguarda i
dirigenti a tempo indeterminato, che per quanto riguarda i
dirigenti a tempo determinato.
Con riferimento al novellato art. 19 del d.lgs. n. 165/2001,
si nota come, in vista della costruzione di un modello volto
a garantire imparzialità, oggettività e qualità delle
decisioni, vengano ridefiniti i criteri per l'attribuzione
degli incarichi e vengano introdotti significativi elementi
di pubblicità nella procedura di conferimento, con l'obbligo
di motivare i criteri di scelta.
In materia di incarichi dirigenziali attribuiti con
contratto a tempo determinato, disciplinati dall'art. 19,
comma 6, del d.lgs. n. 165/2001, la nuova formulazione della
norma dispone che tali incarichi sono conferiti, fornendone
esplicita motivazione, a persone di particolare e comprovata
qualificazione professionale, non rinvenibile nei ruoli
dell'amministrazione.
Premesso un tanto, la questione fondamentale da affrontare è
quella relativa all'incidenza di detta innovativa disciplina
sugli incarichi dirigenziali con contratto a tempo
determinato nei confronti degli enti locali.
Dal punto di vista normativo le disposizioni sulla
dirigenza, contenute nel capo II del d.lgs. n. 165/2001, per
le autonomie locali costituiscono, assieme al principio di
distinzione dei poteri, norme di principio, che non trovano
immediata applicazione, ma devono essere adeguate alla
specificità delle singole amministrazioni, le quali
esercitano, allo scopo, la propria potestà statutaria e
regolamentare, in virtù di quanto disposto dall'art. 27 del
medesimo decreto legislativo.
Per gli enti locali vigono norme speciali contenute nel
d.lgs. n. 267/2000 (nella fattispecie l'art. 110 sugli
incarichi a contratto) e, in virtù di quanto disposto
dall'art. 1, comma 4, del TUEL, le norme contenute in tale
provvedimento possono formare oggetto solo di modifica
espressa.
Pertanto, una dottrina prevalente [1],
considerato che non c'è stata alcuna espressa abrogazione
della suddetta norma da parte del d.lgs. n. 150/2009, né da
parte dell'art. 74 del medesimo, ritiene di dover escludere
le autonomie locali dall'applicabilità del nuovo art. 19 del
d.lgs. n. 165/2001.
I dubbi sulla diretta applicabilità insorgono però allorché,
ai sensi del novellato art. 19, comma 6-ter, del d.lgs. n.
165/2001, si stabilisce che il comma 6 ed il comma 6-bis
dell'articolo medesimo, si applicano a tutte le
amministrazioni pubbliche di cui all'art. 1, comma 2, del
decreto medesimo (enti locali compresi).
Sembrerebbe, quindi, che si possano applicare direttamente
alle autonomie locali quelle parti di disciplina che vanno
ad integrare il TUEL, quindi, in particolare, gli aspetti
correlati all'obbligo di motivare in modo esplicito le
ragioni per le quali si intenda attingere a professionalità
esterne, nonché la possibilità di ricorrere a tali incarichi
solo in assenza di uguali professionalità all'interno
dell'amministrazione.
Al riguardo, si consideri anche il tenore dell'art. 88 del
TUEL, che contiene un rinvio dinamico alle disposizioni del
d.lgs. n. 165/2001, ma -si potrebbe intendere- a
completamento della disciplina contenuta nel testo unico
sull'ordinamento locale stesso, senza possibilità di
sovrapposizioni tra le fonti.
Pertanto, la chiave di lettura delle norme in esame per le
autonomie locali potrebbe essere quella dell'adeguamento
dello statuto e del regolamento alla disciplina della
dirigenza (art. 111 del d.lgs. n. 267, nel rispetto dei
principi stabiliti sia nel capo III (dirigenza e incarichi)
del titolo IV del TUEL, sia nel capo II (dirigenza) del
titolo II del d.lgs. n. 165/2001. Questa conclusione
ermeneutica è rafforzata dal sopra richiamato art. 27 del
d.lgs. n. 165/2001, che non è stato assolutamente modificato
dal d.lgs. n. 150/2009 e che costituisce una norma speculare
all'art. 11 del TUEL.
Pertanto, sembra che queste norme siano necessarie e
sufficienti per costituire l'anello di congiunzione tra i
due ordinamenti in materia di dirigenza.
Alla luce del canone interpretativo sopra esposto, quindi,
si può dare applicazione alla riforma Brunetta con
riferimento all'art. 110 del d.lgs. n. 267/2000, il quale
disciplina particolari tipologie di incarichi a contratto e
consente agli enti locali di avvalersi di prestazioni a
tempo determinato per ricoprire i posti vacanti di dirigente
in dotazione organica e di prevedere posti extra dotazione
di natura dirigenziale.
In teoria il comma 1 dell'art. 110 consente agli enti locali
di organizzare l'intero assetto della dirigenza locale solo
con dirigenti a contratto di nomina fiduciaria, senza alcun
limite percentuale sulla dotazione organica.
In questo caso gli enti locali dovrebbero adeguare gli
statuti ed i regolamenti ai principi desumibili dalla
giurisprudenza costituzionale ed a quello di riduzione delle
quote percentuali della dotazione organica entro cui è
possibile il conferimento degli incarichi ai soggetti
estranei alla pubblica amministrazione [2].
Sarebbe auspicabile, ad ogni buon conto, un intervento
legislativo che apporti una modifica espressa a quelle parti
del TUEL che sono in contrasto con il d.lgs. n. 165/2001,
come modificato ed integrato dal d.lgs. n. 150/2009, come
rilevato anche dalla Corte dei conti, sezione regionale di
controllo per la Lombardia [3],
che si è espressa sulla 'sopravvivenza' dell'art. 110
del TUEL nei confronti degli enti locali, al fine di evitare
incertezze interpretative che possano creare prassi
applicative distorte. A tal proposito, la stessa Corte ha
richiamato l'attenzione degli enti locali ad un utilizzo
meditato e conforme alla buona gestione della possibilità di
ricorrere al conferimento di incarichi dirigenziali a
contratto a tempo determinato.
Le modifiche apportate dal d.lgs. n. 150/2009 -osserva la
predetta sezione della Corte dei conti- alla disciplina del
conferimento di incarichi dirigenziali a contratto
riconducono la normativa sulla dirigenza pubblica ai
principi generali di imparzialità e di buon andamento
dell'azione amministrativa più volte richiamati dalla
giurisprudenza costituzionale, ma, ad ogni buon conto, la
disciplina statale troverebbe necessariamente il proprio
limite nell'autonomia statutaria e regolamentare
costituzionalmente garantite, in materia, agli enti locali.
Pertanto, ad avviso della Corte, la disciplina contenuta
all'art. 110 del TUEL rientra nel particolare ambito di
autonomia di ciascun ente locale di provvedere alla propria
organizzazione amministrativa, che deve esplicitarsi in una
scelta autonoma, in primo luogo nello statuto e, quindi, nel
pertinente regolamento di organizzazione e della dirigenza.
Il testo dell'art. 110 TUEL, afferma la Corte, non è stato
espressamente modificato dal d.lgs. n. 150/2009 e, ai sensi
di quanto disposto dall'art. 74, comma 2, del decreto
medesimo, nei limiti dell'autonomia riconosciuta agli enti
locali, questi adegueranno i propri statuti e regolamenti ai
principi ivi enunciati, ferma restando l'immediata vigenza
delle disposizioni dichiarate applicabili anche agli enti
locali ed esplicitate nell'art. 74, comma 1, del d.lgs. n.
150/2009.
La Corte dei conti perviene al convincimento che, in forza
dell'autonomia organizzativa loro riconosciuta dalla
Costituzione, i Comuni, nei limiti di cui all'art. 110 TUEL,
possono disciplinare con le modalità più corrispondenti alla
singola realtà locale i propri Uffici e le tipologie di
incarichi da conferire ai dirigenti ad essi preposti.
In conclusione, la Corte dei conti, sezione Lombardia,
ritiene che le disposizioni di cui all'art. 110 TUEL siano
vigenti anche dopo l'entrata in vigore del d.lgs. n.
150/2009, che ha recato una significativa riforma delle
modalità e dei limiti di conferimento di incarichi
dirigenziali.
Ad ogni buon conto, non si può sottacere che certa dottrina
[4] non ha
condiviso le illustrate osservazioni della Corte dei conti,
evidenziando, invece, l'incompatibilità, con l'intervenuta
riforma della dirigenza pubblica, dell'articolo 110 del
d.lgs. 267/2000, che si porrebbe in evidente contrasto con
la novellazione dell'articolo 19 del d.lgs. n. 165/2001
(perché non richiede la motivazione espressa del ricorso a
dirigenti esterni; non contiene alcuna limitazione
percentuale alla possibilità di coprire la dotazione
organica dei dirigenti con assunzioni a tempo determinato;
permette, al comma 2, anche di assumere dirigenti oltre la
dotazione organica, con un sistema di limitazione
percentuale riferito non solo alla dotazione dei dirigenti,
ma anche dei funzionari).
Alla luce degli orientamenti non univoci sopra illustrati,
si ritiene, quindi, opportuno suggerire la massima prudenza,
agli enti locali, nel conferimento di incarichi dirigenziali
a contratto, rammentando, comunque, il rigoroso rispetto dei
principi enucleati dall'attuale art. 19, comma 6, del d.lgs.
n. 165/2001.
Per quanto concerne inoltre la possibilità di affidare ad un
proprio dipendente di categoria D un contratto a tempo
determinato dirigenziale, si osserva che certa dottrina
[5] ha
affermato (e le considerazioni espresse appaiono
condivisibili) che laddove l'assunzione riguardasse
personale privo di qualifica dirigenziale, il fenomeno
configurerebbe un'ascesa verticale, una novazione cioè del
rapporto di lavoro in una qualifica superiore. Il
commentatore sostiene, infatti, che: 'Risulta
assolutamente erroneo ritenere che l'incarico dirigenziale a
contratto a dipendenti privi di qualifica dirigenziale del
medesimo ente conferente non comporti una mutazione dello
status giuridico del destinatario, per di più rilevando che
ciò sarebbe confermato dalla posizione di questo in
aspettativa. In disparte ogni considerazione sulla
legittimità costituzionale, la razionalità e logicità di una
norma che consenta ad un medesimo dipendente di condurre due
rapporti lavorativi col medesimo ente: uno quiescente,
l'altro in categoria superiore, un'aberrazione paradossale
vera e propria [........] Nel caso dell'incarico
dirigenziale a contratto, il dipendente viene assunto come
dirigente. Cambia, dunque, il suo status giuridico: passa ad
un'altra area, ad un'altra modalità gestionale del rapporto,
ad altre funzioni e responsabilità. Si pone in essere,
dunque, il fenomeno della novazione del rapporto
contrattuale con l'acquisizione di una qualifica superiore
esattamente identico a quello della progressione verticale.
Ma il d.lgs. 150/2009 ha abolito in modo assoluto qualsiasi
possibilità di ascesa verticale dei dipendenti pubblici (di
ruolo o non di ruolo) attraverso sistemi di reclutamento non
aperti al pubblico, consentendo solo il concorso con riserva
di posti'.
Per quanto concerne l'ultima questione posta, se sia
obbligatoria la procedura di mobilità preliminare di
comparto unico anche per i posti vacanti dirigenziali e se,
per dette assunzioni, valga comunque il limite di spesa
imposto dall'art. 13, comma 16, della L. R. n. 24/2009, si è
provveduto a contattare il Servizio innovazione e politiche
del pubblico impiego, che ha dato risposta affermativa.
---------------
[1] Cfr. Silvano Marchigiani e Natalia Mancini, Incarichi
dirigenziali a contratto negli enti locali dopo la riforma
Brunetta, in Azienditalia/Personale n. 2/2010; Pasquale
Monea e Marco Mordenti, Nuove regole sugli incarichi
dirigenziali negli EE.LL. e nelle Regioni a Statuto
ordinario. La questione controversa degli incarichi a
termine dopo la riforma voluta da Brunetta, in LexItalia.it,
n. 4/2010; L'applicazione del decreto legislativo n.
150/2009 negli enti locali:le prime linee guida dell'Anci.
[2] Di orientamento nettamente opposto, invece, Luigi
Oliveri, D.lgs. 150/2009 e riforma della dirigenza: le non
condivisibili interpretazioni dell'ANCI, in LexItalia.it n.
2/2010.
[3] Cfr. parere n. 308 del 2010.
[4] Cfr. Luigi Oliveri, Disapplicato l'articolo 110, commi 1
e 2, del d.lgs. 267/2000. Deboli le motivazioni di
interpretazioni di 'compromesso', in LexItalia n. 4/2010.
[5] Cfr. Luigi Oliveri, D.lgs. 150/2009 e riforma della
dirigenza: le non condivisibili interpretazioni dell'ANCI,
in LexItalia.It, n. 2/2010 (15.09.2010 -
link a
www.regione.fvg.it). |
NEWS |
ATTI AMMINISTRATIVI:
I Tar
«entrano» in discoteca. Sospesi i divieti imposti dai
sindaci, ma individuati i limiti alle attività.
Provvedimenti d’urgenza. In estate i giudici amministrativi
mediano tra residenti, esercenti e avventori.
L’attività della
giustizia amministrativa è andata avanti anche in pieno
agosto, soprattutto su temi urgenti visto il periodo: in
zone turistiche -ad esempio- le discoteche generano forti
contrasti su orari e modalità di esercizio, nonché episodi
di forte impatto sociale. Rumori, parcheggi, controlli
all’interno degli esercizi sono problemi ricorrenti, che in
questa stagione hanno trovato risposte calibrate e rapide.
Sui livelli acustici, il Tar Salerno (decreto 19.08.2015 n.
501) ha sospeso un’ordinanza comunale che aveva disposto la
cessazione dell’attività di una discoteca, ma ha ordinato di
tarare l’impianto sonoro in maniera tale da non superare il
limite assoluto consentito in orario notturno per la
specifica classe di attività risultante da specifici piani.
Il Tar di Trieste (decreto 13.08.2015 n. 71) ha sospeso la
chiusura di una discoteca per 15 giorni, consentendo
l’ingresso ai soli maggiorenni previamente identificati con
fotocopia della carta d’identità.
A Bologna, il Tar (decreto 07.08.2015 n. 254) si è occupato
del provvedimento del questore di Rimini che ha disposto la
chiusura per 120 giorni della discoteca Cocoricò di Riccione
all’indomani della morte di un ragazzo nel locale: la
chiusura è stata confermata.
A Milano, il Tar (decreto 06.08.2015 n. 1047) ha invece
sospeso la chiusura di un locale disposta da un sindaco, ma
ha imposto il limite di orario di chiusura (alle 0,30),
ancor più breve per l’attività di vendita, in modo da
evitare che l’assembramento dei clienti, all’esterno, si
prolungasse oltre l’una. Il gestore dovrà poi pulire l’area
antistante l’esercizio, rimuovendo ogni tipo di materiale
proveniente dal locale e inibendo l’uso di ogni sua
struttura esterna oltre l’orario.
Queste pronunce, emesse a pochi giorni dai provvedimenti
delle autorità locali (sindaco, questore), esprimono il
potere di urgenza (articolo 56, Dlgs 104 del 2010) che
consente di ottenere un primo provvedimento in pochi giorni.
Ulteriore motivo d’interesse di questi interventi dei Tar
sono la possibilità di colloquio giudiziario con
l’amministrazione locale, escludendo contrapposizioni
frontali, ma rimodulando il provvedimento impugnato (in
genere, ordinanze sindacali) in modo da incidere con
adeguatezza sugli interessi coinvolti. La gestione delle
attività estive contrappone, infatti, diritti di particolare
spessore, quali quelli alla salute, all’ordine e alla
sicurezza pubblica, da coordinare con le attività economiche
e le attrattive turistiche.
Le pronunce dei giudici non sono quindi di mero accoglimento
o rigetto: mediando le contrapposte esigenze, i giudici
amministrativi comprimono, nella durata o nella latitudine
del divieto, i provvedimenti locali applicando il principio
di proporzionalità. Si individuano quindi i problemi (un
rumore eccessivo, la maleducazione agevolata da sedie e
tavolini rimasti utilizzabili fino al mattino) e si
suggerisce una soluzione.
Del resto, in numerosi altri settori i provvedimenti
amministrativi non si sovrappongono più, ma cooperano a
governare il problema: il disordine delle discoteche è
affrontato quindi con la stessa logica che ammette
continuità, con prescrizioni, alle imprese con problemi
antimafia, attuando la logica della continuità aziendale
presa a prestito dal diritto fallimentare (articolo Il Sole 24 Ore del
27.08.2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per gli
eventi non basta la Scia. Grandi locali e manifestazioni
vanno autorizzati per tempo.
Una circolare del Viminale limita la semplificazione. La
Scia resta per le piccole attività.
Niente Scia per le attività di
spettacolo. Per manifestazioni fieristiche, artistiche,
musicali e per i pubblici locali con capienza da 200 persone
in su ci vorrà il via libera di una commissione di
vigilanza.
La Scia, infatti, non può sostituire le verifiche della
commissione di vigilanza sui luoghi di spettacoli quantomeno
per eventi che superino le 24 ore. Uno snellimento
procedurale cui sarebbe preordinato l'applicazione
generalizzata della Scia, applicato agli eventi legati allo
spettacolo di qualsiasi dimensione ed entità, si tradurrebbe
di fatto nella rinuncia a comprovate garanzie di sicurezza.
Lo chiarisce il Ministero dell'Interno con la
nota 21.05.2015 n. 7764 di
prot.
del dipartimento della pubblica sicurezza, avente a oggetto
«pubblici spettacoli - artt. 68, 69 e 80 del Tulps e
applicabilità dell'istituto della Scia».
Il rilascio dell'autorizzazione di pubblica sicurezza ai
sensi dell'art. 80 rd 18.06.1931, n. 773 (Testo unico delle
leggi di pubblica sicurezza) presuppone poi la verifica
della solidità e della sicurezza degli edifici e l'esistenza
di uscite pienamente adatte allo sgombero, quindi, tale
titolo autorizzatorio non può essere surrogato a mezzo di
Scia.
La liberalizzazione delle attività economiche di cui
all'articolo 19 della legge n. 241 del 1990 non è
espressamente applicabile ai casi in cui, come nella specie,
è necessaria la valutazioni di interessi sensibili (quali la
sicurezza pubblica) in ordine ai quali è richiesto un
particolare schema procedimentale. Nella nota, il ministero
dell'interno risponde ad un quesito della regione Friuli
Venezia Giulia.
Quest'ultima suggeriva di poter sostituire il parere della
commissione di vigilanza sui luoghi di spettacoli sul
progetto, per locali o impianti fino a 200 persone, con
asseverazione di parte, e di applicare l'istituto della Scia
per tutti i procedimenti di rilascio della licenza di
spettacolo prevista dagli articoli 68 e 69 Tulps,
indipendentemente dalla capienza del locale o dell'impianto.
Contestata anche la tesi secondo la quale per eventi fino a
200 persone non sarebbe da tenere in alcun conto il limite
delle ore 24 ai fini della presentazione della Scia, secondo
la nuova versione dell'articolo 69 Tulps.
Dunque, niente segnalazione certificata di inizio attività,
o Scia per le autorizzazioni, o licenze di locali e attività
di spettacolo soggette all'agibilità di cui all'articolo 80
Tulps. Dello stesso parere anche il Consiglio di stato VI
sezione, che con la sentenza dell'08/07/2015 n. 3397
sostiene «Il rilascio dell'autorizzazione di pubblica
sicurezza ai sensi dell'art. 80 rd 18.06.1931, n. 773 (Testo
unico delle leggi di pubblica sicurezza) presuppone poi la
verifica della solidità e della sicurezza degli edifici e
l'esistenza di uscite pienamente adatte allo sgombero,
quindi, tale titolo autorizzatorio non può essere surrogato
a mezzo di Scia».
Inoltre, il presupposto per la sufficienza di una Scia,
sempre in virtù del citato articolo 19 della legge n. 241
del 1990, è la natura strettamente vincolata dell'atto
autorizzativo da essa sostituito, subordinatamente al mero
accertamento positivo dei presupposti e dei requisiti di
legge, laddove il parere delle commissione di vigilanza sui
luoghi di spettacoli, e le licenze di agibilità o di
esercizio che ne conseguono, presuppongono l'esercizio della
discrezionalità tecnica, commisurata a ciascuno specifico
locale o impianto
(articolo ItaliaOggi del
27.08.2015). |
VARI: Emergenze, chi forza la porta paga. Nel caso di pericolo
grave non si contesta la violazione di domicilio.
Gestire gli imprevisti. Dalla fuga di gas al corto circuito:
le conseguenze sul piano penale e civilistico.
In casa
d’altri si può entrare anche forzando la porta: ma solo se
per evitare pericoli gravi alle persone. Situazioni che
d’estate si verificano, con la chiusura di molti
appartamenti per lunghe settimane, dove si possono
verificare fughe di gas e corti circuiti.
Nel sistema giuridico italiano, che conferisce un’amplissima
serie di diritti ai proprietari, vi è l’impossibilità per
gli estranei di entrare nelle private abitazioni.
Naturalmente il sistema normativo pone svariate leggi a
tutela della casa e, in caso di effrazione o di accesso di
una persona senza il consenso del proprietario, prevede
l’applicazione del Codice penale con articolo 614:
introdursi «nell’abitazione altrui, o in un altro luogo di
privata dimora, o nelle appartenenze di essi, contro la
volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di
escluderlo».
Come tutte le regole, però, anche la norma sopra citata
prevede una serie di eccezioni motivate dall’esperienza e
dalla necessità di temperamenti alle leggi più tassative.
Si pensi al caso in cui, nel condominio, ci si accorga che
nell’appartamento contiguo i proprietari –ormai partiti per
le vacanze estive– abbiano dimenticato l’impianto del gas
aperto. Sarebbe paradossale infatti che tutto lo stabile
fosse tenuto a sopportare il rischio di una fuga di gas a
causa della tassativa inviolabilità dell’altrui dimora.
Il Codice penale, come anzidetto, prevede quindi un
importante temperamento rappresentato dall’articolo 54.
Detta norma, infatti, afferma che «non è punibile chi ha
commesso il fatto per esservi stato costretto dalla
necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un
danno grave alla persona».
Non sarà penalmente perseguibile, quindi, chi abbia sfondato
la porta del vicino e si sia introdotto nell’appartamento al
solo scopo di salvare la propria persona o altri da un danno
grave e incombente.
Inoltre, continua la norma, detto pericolo non deve essere
stato cagionato dalla stessa persona che viola il domicilio
altrui e tale danno deve essere tanto grave da giustificare
l’effrazione. Si può quindi affermare che, in caso vi sia un
grave pericolo per le persone derivante da un appartamento
sito nel condominio, allora i condòmini saranno legittimati
ad accedere allo stesso per metterlo in sicurezza, anche
senza il consenso del proprietario.
Naturalmente tutto ciò a patto che sussistano gli elementi
di urgenza, necessità, rischio per la vita umana e
impossibilità di diverso corso d’azione e salvo la necessità
di risarcire gli eventuali danni cagionati al proprietario.
Quella di avvertire le autorità della necessità di un
intervento urgente ed evitare di agire in prima persona
risulta, in ogni caso, la scelta migliore. Questo rimane il
corso d’azione più consigliabile perché il personale delle
unità di emergenza (carabinieri, pompieri o personale
sanitario) è assolutamente addestrato a rispondere a
emergenze in abitazione chiusa.
Occorre comunque sottolineare che in questi casi, anche se
l’irruzione sarà stata giustificata dallo stato di
necessità, l’agente sarà unicamente scagionato dalla
responsabilità penale, mentre resterà l’obbligo di natura
civilistica di risarcire l’eventuale danno causato al
proprietario (si pensi ad esempio alla rottura di un vetro o
allo sfondamento della porta d’ingresso).
L’articolo 2045 del Codice civile, infatti, chiaramente
afferma che «quando chi ha compiuto il fatto dannoso vi è
stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal
pericolo attuale di un danno grave alla persona e il
pericolo non è stato da lui volontariamente causato né era
altrimenti evitabile, al danneggiato è dovuta un’indennità,
la cui misura è rimessa all’equo apprezzamento del giudice»
(articolo Il Sole 24 Ore del
25.08.2015). |
EDILIZIA PRIVATA: Rischio
di corruzione in Scia. Dopo 18 mesi la segnalazione si
consolida per sempre.
In una norma della legge di riforma della p.a.
pericoli per l'azione amministrativa.
La riforma della pubblica amministrazione aumenta i rischi
di corruzione. Le modifiche apportate dall'articolo 6 della
legge 124/2015 alla disciplina della segnalazione
certificata di inizio attività e all'autotutela
amministrativa contenute nella legge 241/1990 possono creare
varchi molto ampi all'inquinamento dell'azione
amministrativa.
In sintesi, l'articolo 6 della legge delega di riforma della
p.a. per un verso ribadisce che le amministrazioni possono
inibire la prosecuzione delle attività produttive avviate
con la segnalazione certificata di inizio attività, oppure
sospenderla per 30 giorni con invito a conformarsi alle
prescrizioni imposte, entro il termine di 60 giorni.
La novità che innesca pericoli evidenti di corruzione è
contenuta nel comma 4 dell'articolo 19 della legge 241/1990,
novellato dall'articolo 6 della legge 124/2015, ove si
prevede: «decorso il termine per l'adozione dei
provvedimenti di cui al comma 3, primo periodo, ovvero di
cui al comma 6-bis, l'amministrazione competente adotta
comunque i provvedimenti previsti dal medesimo comma 3 in
presenza delle condizioni previste dall'articolo 21-nonies».
Occorre, allora verificare cosa dispone l'articolo 21-nonies
della legge 241/1990, anch'esso modificato al comma 1
dall'articolo 6 della legge Madia. Il nuovo testo dispone
che l'annullamento d'ufficio dei provvedimenti (e anche dei
provvedimenti tacitamente formatisi per iniziativa dei
privati, come le Scia) può essere disposto «entro un
termine ragionevole, comunque non superiore a 18 mesi».
Decorsi i 18 mesi, allora, la Scia si consolida e qualsiasi
atto di autotutela o di annullamento risulterebbe
illegittimo e addirittura fonte di risarcimento del danno.
L'amministrazione conserva il potere di annullare la Scia
anche oltre i 18 mesi dalla sua formazione solo se, ai sensi
dell'articolo 21-nonies, comma 2-bis, della legge 241/1990
(introdotto anch'esso dall'articolo 6 della legge 124/2015)
si accerti che la Scia si sia formata sulla base «di
false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni
sostitutive di certificazione e dell'atto di notorietà false
o mendaci per effetto di condotte costituenti reato,
accertate con sentenza passata in giudicato». Insomma,
le Scia, decorsi i 18 mesi, vengono sostanzialmente «blindate»
e solo una sentenza passata in giudicato (dunque dopo anni e
anni) potrebbe scardinare avvii di attività imprenditoriali
inficiati da dati o dichiarazioni illegittime, se non false.
Si comprende, dunque, come chi abbia intenzione di avviare
attività produttive anche al di fuori dei vincoli e limiti
imposti dalla legge abbia tutto l'interesse a che la p.a.
non svolga i controlli né entro i 60 giorni entro i quali
essi consentono un potere pieno di annullamento, né entro i
18 mesi successivi. Oggetto di un accordo corruttivo tra
portatori di interessi illeciti e p.a. potrebbe essere
semplicemente il non sottoporre a nessuna verifica le Scia,
così da farle consolidare.
In apparenza, simile accordo potrebbe non apparire illecito:
l'effetto di consolidamento del diritto è disposto dalla
legge. Occorre, tuttavia, ricordare che ai sensi
dell'articolo 2, comma 1, della legge 241/1990 le pubbliche
amministrazioni hanno il dovere di concludere ogni
procedimento amministrativo, anche quelli avvitati
d'ufficio, «mediante l'adozione di un provvedimento
espresso».
La Scia dovrebbe attivare un obbligo di avvio d'ufficio
delle procedure di verifica della loro regolarità, così da
portare al provvedimento espresso di presa d'atto della loro
regolarità.
Per prevenire un'inerzia strumentale alla blindatura delle
Scia, sarebbe necessario che i piani triennali
anticorruzione vietassero drasticamente il sistema del
decorso del termine, come modo ordinario di gestire le
procedure amministrative, e imponessero percentuali molto
elevate, se non proprio il 100%, delle verifiche
amministrative entro i termini dei 60 giorni.
In assenza di simili modalità cautelative, il breve termine
di 18 mesi entro il quale è legittimo adottare
l'annullamento d'ufficio si presta a utilizzi e ad accordi
illeciti molto pericolosi per la tenuta del sistema. La
velocizzazione delle procedure, insomma, mette a dura prova
la legalità dell'azione amministrativa e impone una nuova
impostazione del lavoro nella p.a., per evitare che
l'opportunità offerta ai privati di avere certezza sui tempi
dell'azione amministrativa si tramuti in falle operative,
tali da ledere non solo la legittimità dell'azione della
p.a., ma anche il fondamentale principio di concorrenza
leale nell'ambito dell'attività imprenditoriale
(articolo ItaliaOggi del
25.08.2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
Dal 19/11 l'antincendio cambia nei piccoli
alberghi.
Dal 19 novembre nuove regole tecniche per l'adeguamento
antincendio degli hotel. Le nuove disposizioni si
applicheranno alle attività ricettive turistico-alberghiere
tra 26 e 50 posti letto. I materiali dovranno avere adeguate
caratteristiche di reazione al fuoco e rispondere alle
caratteristiche del luogo di installazione. L'intera
struttura ricettiva, a eccezione delle aree a rischio, potrà
costituire un unico compartimento.
È con il decreto del ministro dell'interno 03.08.2015
recante «approvazione di norme tecniche di prevenzione
incendi, ai sensi dell'art. 15 del decreto legislativo
08.03.2006, n. 139» (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale
del 20.08.2015 n. 192) che vengono stabilite le regole per
l'adeguamento antincendio delle strutture alberghiere.
Le porte in tutti i locali in diretta comunicazione con le
vie di esodo o con spazi adiacenti e non separati dalle vie
di esodo, dovranno essere dotate di dispositivo di
autochiusura. La larghezza utile delle vie d'uscita dovrà
essere misurata deducendo l'ingombro di eventuali elementi
sporgenti, con esclusione dei maniglioni antipanico. Nel
sistema di vie d'uscita sarà vietato collocare specchi che
potranno tranne in inganno sulla direzione da seguire
nell'esodo. Le norme tecniche si potranno applicare alle
attività di nuova realizzazione ovvero a quelle esistenti
alla data del 19.11.2015.
In caso di interventi di ristrutturazione parziale ovvero di
ampliamento ad attività esistenti, le medesime norme
tecniche si potranno applicare a condizione che le misure di
sicurezza antincendio esistenti nella restante parte di
attività, non interessata dall'intervento, saranno
compatibili con gli interventi di ristrutturazione parziale
o di ampliamento da realizzare. Per gli interventi di
ristrutturazione parziale ovvero di ampliamento su parti di
attività esistenti le norme tecniche si applicheranno
all'intera attività
(articolo ItaliaOggi del
25.08.2015). |
ATTI
AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
Nuova
Pa al via con silenzio-assenso e autotutela.
Entro 30
giorni obbligo di risposta tra le amministrazioni -
Annullamenti di atti non oltre i 18 mesi.
Silenzio-assenso
tra amministrazioni, autotutela in tempi certi e consulenze
sì ma solo gratuite. Sono solo tre ma di impatto
notevolissimo le norme della legge di riforma della Pa che
entrano in vigore subito, cioè da venerdì prossimo. Le altre
-ben 18 innovazioni- verranno attuate strada facendo, in
un arco di tempo che si concluderà solo nel febbraio 2017,
data di scadenza dell’ultima delega, quella per il riordino
del pubblico impiego.
Da questa settimana, quindi, cambiano i rapporti tra le
pubbliche amministrazioni. Viene introdotto infatti un nuovo
meccanismo per il silenzio assenso (non valido per i
rapporti tra Pa e privati) sulle richieste di pareri e
nullaosta di qualsiasi tipo (compreso il cosiddetto concerto
sui decreti ministeriali), che diventa la regola nel dialogo
tra Pa (compresi i gestori di servizi pubblici).
Con tempi
certi e uguali per tutti: in pratica l’amministrazione invia
la richiesta di parere all’altro ente pubblico; da quando
viene ricevuta, scattano 30 giorni per rispondere. Un tempo
che può essere interrotto una sola volta, per integrazioni e
per un massimo di altri 30 giorni. Una volta trascorsa la
scadenza senza risposte, il silenzio viene appunto
interpretato come un sì.
Fanno eccezione le amministrazioni
cosiddette sensibili (Beni culturali e Salute) e quelle di
tutela ambientale, paesaggistica e culturale che hanno più
tempo -90 giorni- prima di vedere scattare il silenzio
assenso (sempre solo tra Pa). Una novità che ha suscitato
anche polemiche per il timore che le sovrintendenze non
riescano a far fronte alle richieste neanche in tre mesi.
L’altra disposizione subito operativa è quella
sull’autotutela, ovvero la possibilità riconosciuta a ogni
amministrazione pubblica di revocare un proprio atto se si
scopre che è illegittimo. Ebbene, finora l’annullamento era
possibile entro «un tempo ragionevole», indicazione
normativa che generava molta incertezza e discrezionalità.
Da venerdì prossimo subentra una data certa, anche questa
uguale per tutti: 18 mesi. Facciamo un esempio concreto: per
annullare in autotutela un permesso di costruire, ad
esempio, il Comune avrà 18 mesi dalla data del rilascio.
Trascorsi questi, il costruttore potrà stare tranquillo.
La
legge Madia (la 124/2015) ripristina fin da subito anche la
possibilità per le Pa di assegnare incarichi o consulenze a
pensionati pubblici o privati, che era stata del tutto
cancellata dal Dl 95/2012. I contratti di questo tipo sono
di nuovo ammessi, ma solo a titolo gratuito.
La road map
Per tutto il resto, la riforma sarà attuata in sei tappe, a
partire appunto,dall’entrata in vigore del 28 agosto (si
vedano le schede qui accanto). Il secondo passaggio chiave
sarà 90 giorni dopo (il prossimo 26 novembre), data entro
cui deve essere pronto il cosiddetto “decreto ghigliottina”
che farà pulizia delle norme rimaste inattuate dal 2011 a
oggi e non più utili.
Terzo appuntamento entro sei mesi (28.02.2016) con la delega per snellire la macchina della
trasparenza e le norme anti corruzione, che servirà anche a
fare finalmente chiarezza su chi deve applicare le sanzioni
agli enti che non pubblicano online le informazioni. Tappa
intermedia a otto mesi, poi, per il taglio dei costi delle
intercettazioni (da attuare entro aprile prossimo).
Ma il cuore della riforma Madia prenderà vita entro la
prossima estate (la data limite è il 28.08.2016, ma
alcune anticipazioni sono già allo studio). È concentrato
infatti nei 12 mesi dall’entrata in vigore il maggior numero
di decreti attuativi. A partire dall’(ennesima) riforma
della conferenza di servizi per le opere pubbliche (che non
sarà più sempre obbligatoria) fino alla cura dimagrante per
le camere di Commercio, al riordino delle Forze di polizia
(con il nuovo destino del corpo forestale) e al libretto
unico per auto e moto. Ultima tappa fra 18 mesi con la
riforma del pubblico impiego e dei meccanismi di accesso.
Per l’assetto definitivo della macchina dello Stato si
rischia comunque di attendere anche oltre i 18 mesi: per
tutti i decreti attuativi,infatti, il Governo avrà un
ulteriore anno a disposizione per eventuali correzioni (articolo Il Sole 24 Ore del
24.08.2015 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Arrivano
nuovi concorsi per valorizzare i migliori e sanzioni certe
ai fannulloni.
Il pubblico impiego.
Con la riforma
della Pa si riapriranno le occasioni di impiego nel settore
pubblico e che cosa cambierà per i fannulloni? Se con la
prossima legge di Stabilità non si faranno scelte diverse,
anche nel 2016 dovrebbe permanere il blocco del turn-over
deciso per facilitare la mobilità dei dipendenti delle
province. Mentre dal 2017 si dovrebbe tornare alla
possibilità, per ogni amministrazione, di reclutare otto
nuovi dipendenti ogni dieci cessazioni.
Nel frattempo la riforma dovrebbe cominciare a dare i suoi
frutti che, sul fronte di chi cerca un impiego pubblico,
riguardano soprattutto i concorsi. Nelle selezioni future
verranno valorizzate le esperienze professionali acquisite
nella Pa con un contratto precario, la conoscenza della
lingua inglese diventerà un titolo di merito valutabile
dalle commissioni giudicatrici e verrà cancellato il
requisito del voto minimo di laurea. Verrà inoltre
valorizzato il titolo di dottore di ricerca.
Il nuovo testo unico del pubblico impiego che sarà varato in
virtù della legge delega sarà accompagnato anche da norme
transitorie per favorire il reclutamento di chi ha vinto
vecchi concorsi nelle amministrazioni con graduatorie
aperte.
Il testo unico annunciato, che semplificherà le norme
sedimentate dal dlgs 165 del 2001 in poi, conterrà anche una
nuova disciplina del lavoro flessibile nel pubblico (che
teoricamente dovrebbe essere limitato a situazioni molto
particolari per evitare nuovo precariato) e con il
superamento delle vecchie dotazioni organiche dovrebbe
entrare in funzione una vera programmazione delle assunzioni
sulla base degli effettivi fabbisogni di ogni
amministrazione; un meccanismo che dovrebbe essere
facilitato da un sistema informativo nazionale attivato al
Dipartimento Funzione pubblica.
Novità in arrivo anche per i fannulloni o gli “esperti di
malattie del fine settimana”. La delega prevede
l’introduzione di norme più stringenti in materia di
responsabilità disciplinare con l’obiettivo di rendere certe
ed eseguite le sanzioni. Si tratta di misure di
semplificazione delle regole attuali che, come dimostrato i
dati Aran, non riescono a garantire un’esecutività in tempi
certi. Il tema delle sanzioni contro imboscati e fannulloni
è ritornato di forte attualità dopo lo scandalo delle
assenze di massa per malattia dei vigili di Roma in
occasione del Capodanno scorso.
La ministra Marianna Madia
aveva promesso che in futuro il sistema delle sanzioni
sarebbero diventato più efficace e ora lo strumento
normativo per farlo è arrivato. Nell’ambito della
riorganizzazione degli accertamenti medico-legali in caso di
assenza per malattia è stata fatto poi la scelta di
attribuire tutte le competenze all’Inps. Un altra mossa che
dovrebbe garantire più certezza nei controlli.
--------------
CONCILIAZIONE
Gli uffici pubblici si riorganizzano per far posto allo
smart-working
Il datore di
lavoro pubblico dei prossimi anni, se la sfida lanciata da
questa nuova riforma della Pa andrà in porto, potrebbe
contare su almeno un dieci per cento di dipendenti operativi
da postazioni remote. La delega prevede che le
amministrazioni si riorganizzino, nell’arco del prossimo
triennio, per garantire a chi lo vorrà forme di telelavoro e
di effettiva conciliazione dei tempi di vita e di impiego.
Non si tratta del primo tentativo in questa direzione ma la
novità della delega Madia è che vengono ora fissati degli
obiettivi quantitativi.
Inoltre l’adozione delle misure
organizzative e il raggiungimento degli obiettivi indicati
(10% dei dipendenti e non più 20% come era previsto in una
prima versione del testo) costituiranno oggetto di
valutazione «nell’ambito dei percorsi di misurazione della
performance organizzativa e individuale all’interno delle
amministrazioni pubbliche».
Insomma, l’iniziativa non
dovrebbe essere presa sottogamba dai dirigenti che dovranno
definire gli obiettivi sulla gestione del personale nel
triennio di sperimentazione. Mentre ai dipendenti e ai
funzionari che chiederanno di lavorare anche da casa in smart-working o
co-working verrà garantito che non subiranno
alcun tipo di penalizzazione «ai fini del riconoscimento
delle professionalità e delle progressioni di carriera». La
disposizione è prevista per tutte le amministrazioni, mentre
gli organi costituzionali, nell’ambito della loro autonomia,
potranno definire propri criteri per garantire forme di
conciliazione e telelavoro.
A questa novità della delega si coniuga quella che prevede
istituzione di una Consulta nazionale per garantire
l’effettiva integrazione delle persone con disabilità.
L’obiettivo è quello di rafforzare il monitoraggio sul
diritto al lavoro dei disabili nel settore pubblico (legge
12.03.1999, n. 68) e prevedere nuovi piani di espansione
e riorganizzazione.
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MOBILITÀ
I dipendenti della Repubblica trasferiti in base ai
fabbisogni.
È uno degli
obiettivi più ambiziosi della riforma Madia: consentire alle
amministrazioni pubbliche di programmare le assunzioni sulla
base degli effettivi fabbisogni (e non più delle vecchie
dotazioni organiche) e dare ai dipendenti e ai funzionari la
possibilità concreta di passare in mobilità volontaria da
un’amministrazione all’altra. Insomma arrivare davvero al
“dipendente della Repubblica” come è stato detto in qualche
slogan.
Il nodo da sciogliere (vedremo come nel decreto
legislativo) è proprio quello della definizione, sulla base
di criteri oggettivi, dei nuovi fabbisogni di personale di
un’amministrazione. Passaggio ineludibile per poi arrivare a
quello che consente la mobilità volontaria da un posto a un
altro (dove c’è un fabbisogno scoperto) senza che scatti il
veto dell’amministrazione di provenienza.
Il meccanismo, per ora molto futuribile, dovrebbe funzionare
tramite la pubblicazione di bandi di mobilità da parte delle
varie amministrazioni che vengono raccolti sul portale
istituito dal Dipartimento Funzione pubblica
(www.mobilità.gov.it). È qui che si dovrebbe determinare il
meccanismo di domanda/offerta capace di far funzionare
davvero la mobilità volontaria.
In attesa di vedere questo risultato il cantiere della
riforma Madia dovrà però smaltire ben altre procedure di
mobilità (in questo caso obbligatorie) che non saranno
semplicissime. Intanto c’è quella ancora apertissima legata
alla riduzione degli organici delle province e delle città
metropolitane, con circa 20mila dipendenti in soprannumero
dai quali si può solo sottrarre i circa 6mila dei centri per
l’impiego che passeranno alle Regioni.
A questo nodo se ne
aggiungerà un altro legato alle mobilità che si
determineranno con la chiusura di una serie di uffici
periferici dello Stato (le riorganizzazioni spaziano dalle
Prefetture alle Autorità portuali) e con gli accorpamenti
della Camere di Commercio da 105 a 60 (sono 10mila circa i
dipendenti di questi enti e delle società controllate). Si
tratta di operazioni complesse e straordinarie che verranno
gestite con ampie riorganizzazioni di apparati che potranno
determinare mobilità non volontarie anche oltre il limite di
50 chilometri previsto dal dl 90/2014.
L’altro nodo che si
dovrà affrontare -ma qui siamo fuori dalla Pa- riguarda la
gestione del personale delle società partecipate che
dovranno essere ridotte da 8mila circa a mille. In ballo ci
sono oltre 260mila dipendenti: gli esuberi dovranno essere
gestiti con ammortizzatori sociali in deroga. Si vedrà.
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TESTO UNICO
Licenziamenti e contratti: sintesi da fare tra privato e Pa.
Il capitolo
della delega Madia dedicato ai rapporti di lavoro non sembra
assumere la portata rivoluzionaria che invece caratterizza
il Jobs Act del settore privato ed i suoi decreti attuativi:
ad uno sguardo di insieme, l’orizzonte degli interventi per
la Pa appare contenuto, di portata correttiva rispetto
all’esistente, piuttosto che realmente modificativa. Il
Testo Unico sul lavoro alle dipendenze delle pubbliche
amministrazioni si dovrà infatti limitare alle modifiche
«strettamente necessarie per il coordinamento» formale e
sostanziale del materiale normativo esistente, «apportando
le modifiche strettamente necessarie per garantire la
coerenza giuridica, logica e sistematica», con «risoluzione
delle antinomie» ed «indicazione esplicita delle norme
abrogate».
Se gli avverbi contano, non occorre dunque aspettarsi
dall’esercizio della delega uno stravolgimento degli assetti
regolativi esistenti, così come consolidatisi nelle riforme
del pubblico impiego, a partire dalla storica
“privatizzazione” del 1993. Tuttavia il progetto, che
appunto ha come base questa complessa quanto utile
operazione di drafting normativo (si pensi che, in alcuni
ambiti, le norme di riferimento hanno subìto in pochi anni
decine di interventi, alimentando il contenzioso e rendendo
di fatto impossibile la gestione), può svolgere un
contributo fondamentale verso uno degli obiettivi propri
anche del Jobs Act.
Si tratta di dare certezza normativa e
basi stabili ad un mercato del lavoro pubblico investito da
una lunga stagione di leggi e leggine, che hanno aumentato e
reso forse definitivo il distacco dal modello proprio e
caratterizzante della privatizzazione, che da sempre impone
un diritto del lavoro pubblico il più possibile coincidente
con quello privato.
Pur nel mandato circoscritto dal legislatore delegante, se
si guarda insieme alle operazioni di riforma in itinere per
i mercati del lavoro (privato e pubblico), si deve allora
porre con forza, e risolvere, il problema del coordinamento
reciproco. In che modo le norme della legge n. 183/2014 e
dei decreti attuativi si rapporteranno con la disciplina
vigente e futura del lavoro nelle Pa? Si tratta di norme
scritte per il solo settore privato o investono l’intero
universo del lavoro subordinato? È scontata la loro “non”
applicazione o è scontato il contrario? Quale sarà poi la
linea sindacale, visto che qui esistono ancora spazi per
rendere impermeabile il pubblico impiego dalle riforme
Renzi-Poletti, ma risulterà poi difficile spiegare ai
lavoratori dell’impresa perché i colleghi del settore
pubblico mantengono assetti differenziati.
Poiché il Jobs Act non si è preoccupato di sciogliere questi
nodi, salvo ambigui frammenti normativi del codice dei
contratti flessibili di cui al decreto 81/2015, tocca ora
alla legge Madia portare chiarezza applicativa, non foss’altro
che per cavare dall’impasse la magistratura del lavoro. I
temi più sensibili appaiono quelli delle tutele contro i
licenziamenti illegittimi e del corretto utilizzo dei
contratti flessibili.
Sul primo la delega Madia offre spazi
di intervento per rendere più semplice e spedito il
procedimento disciplinare: si dovrà però stabilire, appunto
in ragione del “coordinamento normativo”, se la tutela per
il licenziamento illegittimo è quella comune del lavoro
privato, nell’opzione fra legge Fornero e tutele crescenti,
oppure quella reintegratoria piena per ogni ipotesi di
invalidità del recesso, con un aggiornamento di legge del
vecchio art. 18 dello Statuto.
Sui contratti la linea di delega impone il contenimento del
ricorso alle tipologie flessibili, anche per prevenire il
precariato. La misura può essere favorita dal fondamentale
passaggio dell’eliminazione delle dotazioni organiche,
sostituite da una programmazione delle assunzioni che guardi
ai fabbisogni sfruttando realmente i processi di mobilità.
Si tratta però di dare corpo e sostanza alla giurisprudenza
comunitaria sull’utilizzo abusivo dei contratti flessibili:
ferma la possibilità di escludere la
conversione/stabilizzazione del rapporto, il tema è quello
della misura certa dell’indennizzo e della sua idoneità a
compensare il danno subito dall’interessato in mancanza di
conversione
(articolo Il Sole 24 Ore del
24.08.2015 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
I
percorsi per le assunzioni. Vincoli severi per il
riassorbimento dalle Province, deroghe per la scuola.
Personale. Le possibilità di intervento per le dotazioni
degli enti dopo la conversione in legge del Dl 78/2015.
Con la
conversione in legge del decreto legge 78/2015 si è conclusa
la mappa delle possibilità di assunzione per gli enti
locali. Le varie questioni rimaste in sospeso dopo l’entrata
in vigore dell’articolo 1, comma 424, della legge di
stabilità per l’anno 2015, trovano finalmente un po’ di
chiarezza anche grazie all’intervento della sezione
Autonomie della Corte dei conti sulle principali criticità
interpretative. È quindi il momento di tirare le somme.
La premessa obbligatoria a qualsiasi assunzione è la
verifica del rispetto del Patto di stabilità, dei tempi medi
dei pagamenti e del contenimento della spesa di personale ai
sensi dell’articolo 1, comma 557 e seguenti della legge
296/2006. Il Dl 78/2015 ha previsto, però, che il
riassorbimento dei dipendenti in soprannumero degli enti di
area vasta è possibile anche per gli enti che non hanno
rispettato il Patto di stabilità o i tempi medi dei
pagamenti.
A questo punto, per gli enti locali, si aprono due strade
alternative:
-
da una parte, è possibile procedere con autonome assunzioni
a tempo indeterminato, utilizzando le possibilità residue
egli anni precedenti. Questa azione è stata recentemente
convalidata dalla Corte dei conti, sezione Autonomie con la
Deliberazione numero 26/2015;
-
dall’altra parte, per quanto riguarda le uscite di
lavoratori degli anni 2014 e 2015, che generano opportunità
di assunzioni negli anni 2015 e 2016, gli enti sono
obbligati a destinare le risorse all’impiego dei vincitori
delle proprie graduatorie e alla ricollocazione dei
dipendenti di area vasta dichiarati in soprannumero. Per
questi anni, quindi, il turn-over non può essere toccato in
nessun modo, neppure con procedure di mobilità volontaria,
così come indicato dapprima dalla Funzione pubblica nella
circolare n. 1/2015 e confermato, successivamente, dai
magistrati contabili con la Deliberazione numero 19/2015
della sezione Autonomie.
Per quanto riguarda le possibili assunzioni relative al 2015
e 2016 è quindi vietato, per esempio, assumere i soggetti
idonei delle graduatorie, trasformare il rapporto di lavoro
da tempo parziale a tempo pieno, procedere alla
stabilizzazione del personale, attivare progressioni di
carriera e avviare procedure di mobilità volontaria da altri
enti (ex articolo 30 del decreto legislativo 165/2001).
Va ricordato che, in caso di assunzione di dipendenti di
province e città metropolitane, il turn-over può arrivare al
cento per cento della spesa dei rapporti di lavoro cessati
negli anni 2014 e 2015 e che la spesa dei dipendenti
trasferiti non grava sul calcolo delle spese di personale da
contenere nella media del triennio 2011-2013.
Possibili deroghe
La legge di conversione del Dl 78/2015, ha inoltre
introdotto, all’articolo 1, comma 424, della legge 190/2014,
una deroga. È infatti, fatta salva la possibilità di indire
concorsi per assumere a tempo indeterminato personale in
possesso dei necessari titoli di studio, per svolgere
funzioni fondamentali relative all’organizzazione e gestione
dei servizi educativi e scolastici, con esclusione del
personale amministrativo.
Questa deroga è ammessa in caso di
esaurimento delle graduatorie vigenti e di dimostrata
assenza, negli enti di area vasta, di figure professionali
in grado di assolvere a queste funzioni. La norma
sembrerebbe anche contemplare, in ogni caso, una verifica su
base nazionale dell’assenza di queste figure professionali:
ma su questo aspetto, l’Anci ha già avuto una conferma dal
ministro per la Semplificazione e la pubblica
amministrazione, Marianna Madia, per una lettura riferita
esclusivamente al territorio provinciale di appartenenza di
ciascun Comune.
Un’ulteriore possibilità di assunzione è concessa per i
dipendenti che, alla data di entrata in vigore del Dl
78/2015, si trovavano in posizione di comando o distacco da
un ente di area vasta a un ente locale. Una soluzione, però,
ammessa solo se l’ente di destinazione ha capienza nella
dotazione organica, nei limiti delle risorse finanziarie
disponibili a legislazione vigente, e comunque quando
risulti garantita la sostenibilità finanziaria, a regime,
della relativa spesa (articolo Il Sole 24 Ore del
24.08.2015). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Blocco
del turn-over per la polizia locale.
Sicurezza stradale. Per i nuovi agenti sono
possibili soltanto impieghi di tipo stagionale.
Gli enti locali non
possono assumere, a qualsiasi titolo e con qualunque
tipologia contrattuale, nelle funzioni di polizia locale,
fino a quando non vi sarà la totale ricollocazione dei
dipendenti della polizia provinciale dichiarati in
soprannumero. Sono fatte salve le assunzioni di agenti
stagionali disposte dalle amministrazioni, dall’entrata in
vigore del Dl 78/2015, ma per una durata massima di cinque
mesi nell’anno solare. Le modifiche introdotte dalla legge
di conversione offrono la possibilità di tirare le fila su
quali azioni sono concesse agli enti locali in materia di
personale.
Al di là delle assunzioni a tempo indeterminato, di quali
altre regole devono tenere conto gli operatori e gli
amministratori locali?
Il comma 424, della legge 190/2014, si riferisce
esclusivamente alla capacità di assunzione e, quindi,
solamente alle prestazioni di lavoro subordinato a tempo
indeterminato. La norma non intacca la possibilità di fare
ricorso alle prestazioni di lavoro flessibile, anche se, va
sottolineato, alle rigide condizioni previste dall’articolo
36, Dlgs 165/2001, ovvero in presenza di esigenze temporanee
o eccezionali.
Inoltre queste prestazioni possono essere
attivate solo nel rispetto del Patto di stabilità, della
riduzione delle spese di personale e della spesa sostenuta
nell’anno 2009 per le medesime finalità di lavoro
flessibile, ai sensi dell’articolo 9, comma 28, del Dl
78/2015.
Ci si è chiesti se anche gli incarichi dirigenziali (o di
responsabili di servizi) di cui all’articolo 110, del Dlgs
267/2000, rientrino nel blocco delle assunzioni. La risposta
è giunta dalla Corte dei conti, sezione Autonomie, che nella
Deliberazione numero 19/2015, ha stabilito l’estraneità di
questo istituto dalle limitazioni del comma 424.
Agli enti locali rimangono altre strade purché, ovviamente,
non eludano l’obbligo di ricollocazione dei dipendenti degli
enti di area vasta. Sono, infatti, sempre valide le
possibilità di utilizzare dipendenti di altre
amministrazioni attraverso l’istituto previsto dall’articolo
14 del Contratto nazionale di lavoro del 22.01.2004,
oppure di procedere con comandi e distacchi, ma sempre in
un’ottica di temporaneità in modo da non occupare posti di
dotazione organica destinati, invece, ai dipendenti di
province e città metropolitane.
Sembra un’ottima strada anche quella di anticipare le
manovre di ricollocazione con accordi/convenzioni per
l’utilizzo temporaneo dei dipendenti delle amministrazioni
provinciali; ma in questo caso è da verificare se poi il
portale informatico che incrocia domanda e offerta, sarà in
grado di gestire simili situazioni.
Nel campo della polizia locale, è altamente suggerita la
procedura dell’avvalimento, di cui al comma 427, della legge
di stabilità 2015.
Infine, la legge di conversione del Dl 78/2015 ha modificato
l’articolo 98 del Dlgs 267/2000, prevedendo la possibilità
di stipulare convenzioni per l’ufficio di segretario anche
tra Comuni e Provincia e tra Province (articolo Il Sole 24 Ore del
24.08.2015). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Ricollocazione privilegiata ma poco praticabile.
Riforma Delrio. Dagli enti di area vasta.
Dopo che il decreto legge
78/2015 ha dato la possibilità, agli enti locali, di
utilizzare anche i resti della «capacità assunzionale»
provenienti dal triennio 2011-2013, ha tenuto banco la
questione se queste risorse potessero essere utilizzate
liberamente oppure se anch’esse fossero vincolate alla
ricollocazione obbligatoria dei dipendenti in soprannumero
provenienti dalle Province e dalle Città metropolitane.
La parola fine sembra essere arrivata con la Deliberazione
n. 26/2015 della Sezione Autonomie della Corte dei Conti,
nella quale si prevede la possibilità di assumere a tempo
indeterminato utilizzando «la capacità assunzionale del 2014
derivante dalle cessazioni di personale nel triennio
2011-2013» (si veda l’altro articolo in questa stessa
pagina).
A questo punto, per gli enti locali, si apre un doppio
binario. Da una parte, le quote assunzionali calcolate sulle
cessazioni 2014 e 2015 (ovvero la capacità assunzionale
degli anni 2015 e 2016), sono vincolate alla ricollocazione
dei dipendenti degli enti di area vasta, mentre il turn-over
residuo è libero da vincoli.
Per procedere in quest’ultima direzione, è innanzitutto
necessario verificare l’ammontare dei resti, ricordando che
le percentuali in vigore, per i Comuni soggetti al Patto di
stabilità, erano le seguenti:
-
20% della spesa dei «cessati» nell’anno 2010;
-
40% della spesa dei «cessati» nell’anno 2011 e nell’anno
2012.
Dopo aver calcolato questo budget, vanno detratte tutte le
assunzioni effettuate che hanno già eroso la capacità
assunzionale. La quota rimanente è quella che la Corte dei
conti definisce «libera» e che non è vincolata al
riassorbimento dei dipendenti delle Province.
Problemi operativi
L’interpretazione dei giudici contabili lascia comunque
qualche perplessità. Innanzitutto, questa conclusione sembra
essere contraria con quanto indicato dalla Corte dei Conti
Sezione Autonomie nella Deliberazione n. 19/2015, con la
quale veniva sancito il principio che, in questo particolare
contesto, è necessario agire prevedendo la massima capacità
assunzionale verso i dipendenti degli enti di area vasta. Se
così fosse, anche il turn-over degli anni precedenti avrebbe
dovuto essere indirizzato a questa finalità.
In secondo luogo, vi è un problema operativo. Infatti,
ammettendo che davvero i Comuni possano procedere ad
assunzioni sulla base dei resti degli anni precedenti, prima
di espletare un concorso è comunque necessario procedere, ai
sensi dell’articolo 34-bis, del decreto legislativo
165/2001, alla verifica dei dipendenti in disponibilità
della pubblica amministrazione. Già questo è strano, se
pensiamo che agli enti locali, viene invece richiesto un
“obbligo di solidarietà” prima di tutto con i dipendenti
delle Province.
Ma non basta. Infatti, prima del concorso, è pure necessario
svolgere le procedure di mobilità volontaria di cui
all’articolo 30 del decreto legislativo 165/2001, procedure
che la stessa Corte dei Conti e la Funzione Pubblica hanno
affermato essere inconciliabili con il comma 424 della legge
190/2014, in quanto comunque limitano il trasferimento dei
dipendenti degli enti di area vasta.
Sembra proprio un cane
che si morde la coda e probabilmente si apre un ulteriore
varco interpretativo per i prossimi mesi (articolo Il Sole 24 Ore del
24.08.2015). |
APPALTI:
Centrali uniche avanti piano. Poche categorie previste e
confusione nei questionari.
APPALTI/ Partenza difficile per i 34 soggetti aggregatori
riconosciuti dall'Anac.
Pochi appalti per i soggetti aggregatori e rischio caos.
L'entrata a regime dell'idea di concentrare gli appalti
delle amministrazioni pubbliche in soli 34 enti mostra
subito i limiti operativi. Poche le categorie previste, e
quelle poche soprattutto in ambito sanitario. E indicazioni
molto superficiali, come nel caso del Veneto che chiede di
programmare l'appalto per i servizi di ristorazione, senza
specificare se si tratti di mense scolastiche, aziendali o
catering di rappresentanza.
In molti hanno considerato l'idea, disciplinata
dall'articolo 9 del dl 66/2014 e attuata dalla deliberazione
23.07.2015 dell'Autorità nazionale anticorruzione, come
l'uovo di Colombo: aggregare tutti gli acquisti della
pubblica amministrazione in pochi soggetti (in genere
stazioni uniche regionali, ma non mancano le città
metropolitane), per eliminare gran parte dei rischi di
corruzione connessi alle moltissime procedure di appalto
necessarie e ottenere anche prezzi migliori, grazie
all'allargamento delle commesse e alla standardizzazione dei
prezzi.
A ben vedere, questi obiettivi generali, meritori, saranno
conseguiti solo in parte. A molti è sfuggito che l'articolo
9, comma 3, del dl 66/2014 non obbliga affatto le
amministrazioni pubbliche a utilizzare in via esclusiva i
soggetti aggregatori per acquisire lavori, servizi e
forniture. La norma, in effetti, dispone che un tavolo dei
soggetti aggregatori individuerà «le categorie di beni e di
servizi nonché le soglie al superamento delle quali le
amministrazioni statali centrali e periferiche, a esclusione
di istituti e scuole di ogni ordine e grado, delle
istituzioni educative e delle istituzioni universitarie,
nonché le regioni, gli enti regionali, nonché loro consorzi
e associazioni, e gli enti del servizio sanitario nazionale
ricorrono a Consip spa o agli altri soggetti aggregatori di
cui ai commi 1 e 2 per lo svolgimento delle relative
procedure».
Dunque, le amministrazioni pubbliche saranno obbligate ad
avvalersi di Consip spa o dei soggetti aggregatori (si veda
tabella in pagina) solo per alcune categorie merceologiche e
solo per appalti al di sopra di un certo valore.
I 35 soggetti aggregatori riconosciuti dall'Anac hanno già
costituito il «tavolo tecnico» allo scopo di individuare i
fabbisogni di acquisto di beni, lavori e servizi delle
amministrazioni. E hanno elaborato un formulario, per
chiedere alle amministrazioni dei vari territori regionali
quali acquisizioni abbiano programmato per il 2015 e
ritengano di programmare per il 2016, indicando le categorie
merceologiche.
Guardando ai contenuti del questionario, salta all'occhio
come la concentrazione degli appalti sarà più di nome che di
fatto. Le categorie previste sono ben poche, prevalentemente
di ambito sanitario.
Dando una scorsa ai questionari, si evidenziano, poi, alcune
storture. Un dettaglio sulla tipologia delle acquisizioni si
riscontra esclusivamente appunto per le acquisizioni in
ambito sanitario. Vi sono, invece, molte voci assolutamente
generiche che, così come formulate, non consentono a ben
guardare nessuna programmazione: la regione Veneto, per
esempio, mediante il Crav (Centro regionale acquisti) chiede
di programmare l'appalto per «infrastrutture Ced» o per
«ristorazione». Si tratta di voci che richiederebbero, ai
fini di una programmazione, la disaggregazione in moltissime
altri prodotti: la «ristorazione», per esempio, qual è? La
mensa scolastica? La mensa aziendale? Il servizio di
catering per attività di rappresentanza?
I questionari, inoltre chiedono alle singole amministrazioni
di indicare il valore presunto delle acquisizioni che
ritengono di effettuare, e anche la durata dei contratti da
stipulare.
Si tratta di dati oggettivamente inutili, se i soggetti
aggregatori sono intenzionati a fare quel che la legge
richiede loro: cioè essenzialmente mettere a disposizione
degli enti contratti già disponibili, dopo aver effettuato
le gare d'appalto per individuare il contraente, perché gli
enti effettuino semplicemente gli ordinativi, scegliendo in
proposito le modalità più opportune: le convenzioni come da
tempo fa la Consip, o portali analoghi al Me.Pa. o i sistemi
dinamici di acquisizione.
La conoscenza del dettaglio della pianificazione del singolo
appalto e della durata ha un senso solo se il soggetto
aggregatore agisca come centrale di committenza,
esclusivamente incaricata di effettuare un singolo appalto
per conto della singola amministrazione. L'aggregazione
degli appalti, invece, presupporrebbe un massiccio
intervento nel mercato, intercettando il ventaglio più ampio
possibile (con capitolati dettagliati) di acquisizioni.
Il questionario riporta in grandissima parte acquisizione di
beni, per altro tutti o quasi già presenti nel Me.Pa., e
qualche servizio. Tra i quali il trasporto locale o la
raccolta e lo smaltimento dei rifiuti, per i quali
competenti, se si applicasse la legge Delrio, dovrebbero
essere le province
(articolo ItaliaOggi del 22.08.2015). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
Neo-attività con silenzio-assenso e limiti
all'autotutela p.a..
Certezza sulle regole da seguire per avviare un'attività
imprenditoriale. Individuando con precisione i procedimenti
per i quali serve la segnalazione certificata di inizio
attività (Scia), quelli per i quali vige il silenzio-assenso
e quelli per i quali serve autorizzazione espressa.
Comunicando ai soggetti interessati i tempi entro i quali si
forma il silenzio-assenso.
Questo è l'obiettivo della legge 07.08.2015, n. 124,
recante «deleghe al governo in materia di riorganizzazione
delle amministrazioni pubbliche» (pubblicata sulla Gazzetta
Ufficiale del 13.08.2015, n. 187).
Il testo affida al
governo oltre 15 deleghe da adottare entro termini che vanno
da 90 a 180 giorni e da 12 a 18 mesi. Tuttavia, ci sono
delle misure che si possono definire auto-applicative, come
la definizione di un meccanismo per il silenzio-assenso tra
amministrazioni con tempi certi, per cui dopo 30 giorni,
massimo 90, in caso di mancata risposta, si intende ottenuto
il via libera.
Nuove norme sul silenzio-assenso. L'articolo 3 della legge
della riforma della Pa, rubricato «silenzio-assenso tra
amministrazioni pubbliche e tra amministrazioni pubbliche e
gestori di beni o servizi pubblici» aggiunge alla legge n.
241/1990 l'articolo 17-bis, rubricato «silenzio-assenso tra
amministrazioni pubbliche e tra amministrazioni pubbliche e
gestori di beni o servizi pubblici».
Nei casi in cui è
prevista l'acquisizione di assensi, concerti o nulla osta
comunque denominati di amministrazioni pubbliche e di
gestori di beni o servizi pubblici, per l'adozione di
provvedimenti normativi e amministrativi di competenza di
altre amministrazioni pubbliche, le amministrazioni o i
gestori competenti sono tenuti a comunicare il proprio
assenso, concerto o nulla osta entro trenta giorni dal
ricevimento dello schema di provvedimento, corredato della
relativa documentazione, da parte dell'amministrazione
procedente.
Il termine è interrotto qualora
l'amministrazione o il gestore che deve rendere il proprio
assenso, concerto o nulla osta rappresenti esigenze
istruttorie o richieste di modifica, motivate e formulate in
modo puntuale nel termine stesso. In tal caso, l'assenso, il
concerto o il nulla osta è reso nei successivi trenta giorni
dalla ricezione degli elementi istruttori o dello schema di
provvedimento; non sono ammesse ulteriori interruzioni di
termini.
Autotutela. Ennesima modifica all'articolo 19 della legge n.
241/1990. Dovrà essere fissato un tempo massimo per il
potere di agire in autotutela da parte delle pubbliche
amministrazioni. L'amministrazione competente avrà 60 giorni
per intervenire in caso di Scia (30 giorni per la Scia
edilizia) successivamente potrà intervenire in autotutela
(al massimo entro 18 mesi) quando il provvedimento è
illegittimo. Dopo 18 mesi non si potrà più cambiare idea. Il
limite temporale non si applica se l'autotutela consegue a
fatti costituenti reati accertati con sentenze passate in
giudicato
(articolo ItaliaOggi del 21.08.2015). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Le
associazioni sono un flop. Aggregando i piccoli comuni i
costi si moltiplicano.
Fallimento certificato dalla Corte dei conti
nella relazione sulla gestione 2014.
La cooperazione intercomunale, così come attualmente
configurata dalla normativa vigente, proprio non funziona:
non solo non genera i tanto attesi risparmi, ma anzi impone
alla collettività ulteriori costi, scaricando sulle forme
associative le tensioni finanziarie degli enti partecipanti.
A certificare il fallimento dell'ormai datato progetto di
aggregazione dei piccoli comuni è la Corte dei conti, che
nella recente relazione sulla gestitone finanziaria 2014
degli enti locali ha fatto il punto sullo stato di
attuazione di una riforma avviata oltre 20 anni fa,
invitando il legislatore a correggere la rotta.
Ma su quale sia la strada giusta, fra i diretti interessati,
cioè i sindaci, ci sono visioni fortemente contrastanti.
È dal 1990 che si tenta di accorpare i comuni di minori
dimensioni, dapprima con un approccio volontaristico e
successivamente, diventando sempre più pressanti le esigenze
di contenimento della spesa pubblica, attraverso precisi
vincoli legislativi. Ma finora i risultanti sono quasi
nulli.
Ciò, scrivono i giudici contabili, a causa, da un
lato, delle ripetute proroghe dei termini entro cui attuare
le gestioni associate obbligatorie, ossia quelle imposte ai
comuni con meno di 5.000 abitanti (3.000 in montagna) per lo
svolgimento delle proprie funzioni fondamentali. Dall'altro,
dalla circostanza che il legislatore nazionale e le regioni
hanno ripetutamente modificato e integrato la normativa,
variando le funzioni da associare, le «soglie» relative alla
popolazione degli enti interessati e le modalità
procedimentale.
Tali continui ripensamenti, tuttavia, costituiscono solo
sintomi delle difficoltà registrate nella concreta
attuazione del percorso istituzionale normativamente
delineato, che necessiterebbe di «aggiustamenti», a partire
da un'approfondita analisi delle criticità e delle
resistenze finora riscontrate alle politiche di
«associazionismo» forzato
Se su tale diagnosi sono tutti concordi, sulla cura le
ricette sono molto diverse. La Corte dei conti,
naturalmente, non entra nel merito delle scelte politiche,
limitandosi a evidenziare la necessità di una maggiore
semplificazione e di più efficienti forme di incentivazione
finanziaria (ad esempio, da collegare ai risultati
concretamente conseguiti in termini di risparmi di spesa).
Ma cosa ne pensano i diretti interessati, ossia i sindaci?
Qui i punti di vista sono spesso distanti, se non
diametralmente opposti. Nell'ultima Conferenza nazionale dei
piccoli comuni, che si è svolta il mese scorso a Cagliari,
l'Anci ha proposto una disciplina nuova di zecca, che
preveda la «definizione di ambiti adeguati e omogenei entro
i quali realizzare processi di riorganizzazione territoriale
per rafforzare la rappresentanza degli enti, la capacità
progettuale, quella dell'offerta dei servizi ai cittadini e
alle imprese».
In tali ambiti, dovrebbe essere prevista la
gestione associata di non meno di tre funzioni fondamentali,
contro le 10 attualmente interessate dall'obbligo. Inoltre,
dovrebbero essere cancellate le soglie demografiche minime
dei nuovi soggetti (che oggi sono fissate a 10.000 abitanti
in pianura e a 3.000 in montagna) e che secondo i sindaci
rappresentano «un ostacolo alla costruzione di processi
associativi funzionali ed efficaci».
A ridisegnare la mappa della pa locale dovrebbe essere un
«Comitato permanente per il coordinamento dei processi di
riorganizzazione territoriale del sistema dei comuni»,
chiamato a chiudere i lavori entro 12 mesi
dall'insediamento. Nel frattempo, quindi, sarebbe giocoforza
prevedere una nuova proroga.
Ma non tutti sono d'accordo: di recente, ad esempio, la
Consulta Finanze dell'Anci Piemonte si è espressa in senso
fortemente contrario all'ennesimo differimento delle
scadenze, chiedendo anzi un rafforzamento degli obblighi
aggregativi per arrivare addirittura e sia pure gradualmente
verso la fusione. Una posizione, quest'ultima, decisamente
più rigorista di quella del nazionale, da sempre favorevole
al modello intermedio dell'unione di comuni.
La terza via è quella indicata dall'Anpci, che da sempre si
batte per vincoli più flessibili e quindi sostiene le più
agili convenzioni.
In tutto questo, chi si aspettava un'accelerazione del
processo, anche in un'ottica di spending review, è
destinato a rimanere nuovamente deluso
(articolo ItaliaOggi del 21.08.2015
- tratto da www.centrostudicni.it). |
GIURISPRUDENZA |
PUBBLICO IMPIEGO: Per
i vigili niente arresti «in trasferta». Penale. Limite
confermato anche in caso di pedinamento iniziato nel comune
di lavoro.
I vigili urbani, pur avendo funzioni di polizia
giudiziaria, non possono effettuare arresti fuori dal
territorio del Comune di appartenenza.
Un principio già
stabilito espressamente dall’articolo 57 del Codice di
procedura penale e ora ribadito dalla Corte di Cassazione,
Sez. III penale -con la
sentenza
21.08.2015 n. 35099- anche per il caso in cui
l’arresto “in trasferta” avvenga alla fine di un pedinamento
iniziato nel proprio territorio comunale.
La sentenza
evidenzia anche l’altro limite cui sono soggetti tutti gli
appartenenti ai corpi di polizia locale, cioè quello di
poter operare solo durante di servizio; va però aggiunto che
questo limite può non essere valido per le funzioni di
polizia stradale.
Il caso su cui ha deciso la Cassazione riguardava un vigile
arrestato dai suoi colleghi per truffa aggravata, perché
risultato assenteista. Per provare il reato, i colleghi si
sono appostati vicino all’apparecchio conta presenze del
comando, accertando che l’imputato aveva “strisciato”
regolarmente il suo badge ma poco dopo era uscito
dall’ufficio. Seguendolo, hanno documentato che era tornato
a casa, in un paese vicino. Lì lo hanno arrestato.
Un
arresto che, per il tipo di reato, era facoltativo (articolo
381 del Codice di procedura penale). Ma che è stato
dichiarato illegittimo proprio per questioni di competenza
territoriale. All’obiezione secondo cui l’arresto “in
trasferta” è reso possibile dalla legge sulla polizia locale
(la 65/1986, articolo 5) anche in flagranza, la Cassazione
risponde che il caso in questione è diverso: un pedinamento
organizzato e pianificato nei confronti di una persona che
esce tranquillamente dall’ufficio non è un inseguimento a un
criminale che scappa e che quindi diventa urgente catturare.
La sentenza -nel richiamare l’articolo 57, comma 2, lettera
b), del Codice di procedura penale- ricorda anche il limite
temporale delle funzioni di polizia giudiziaria dei vigili,
che coincide con il loro orario di servizio, mentre gli
appartenenti ai corpi dello Stato sono da considerare sempre
in servizio, anche fuori dall’orario in cui sono di turno.
Un principio che spesso viene seguito anche riguardo ai
servizi di polizia stradale espletati dai vigili. Ma ciò non
è affatto pacifico.
Infatti, un anno fa (sentenza sulla causa 6269/2011,
depositata il 29.07.2014), il Tribunale di Parma ha
riconosciuto valido l’accertamento di due infrazioni
(velocità pericolosa e invasione della corsia opposta)
effettuato da un vigile fuori servizio che si trovava come
passeggero su una vettura che stava per essere travolta da
quella del trasgressore.
Alla base di questa decisione c’è la semplice constatazione
che la legge 65/1986 non prevede esplicitamente limiti di
orario. Visto che essi sono stabiliti solo dall’articolo 57
del Codice di procedura penale e che questa norma tocca solo
l’«accertamento dei fatti di reato», non ci sono limiti per
le infrazioni stradali. O, perlomeno, per la loro grande
maggioranza, che ha natura di illecito amministrativo, non
penale.
Nella prassi seguita finora, invece, spesso si è ritenuto di
“assorbire” le funzioni di polizia stradale in quelle
di polizia giudiziaria. Quindi i vigili fuori servizio hanno
rinunciato a procedere o si sono visti annullare i verbali (articolo Il Sole 24 Ore del
22.08.2015). |
EDILIZIA PRIVATA: Questo
Tribunale in tema di abuso cd. risalente, ovvero commesso
molto tempo prima del provvedimento sanzionatorio, si
conforma all’orientamento più rigoroso, secondo il quale il
potere di applicare misure repressive in materia urbanistica
ed edilizia può essere esercitato in ogni tempo, senza
necessità, per i relativi provvedimenti, di motivare in modo
specifico in ordine alla sussistenza dell'interesse pubblico
a disporre una demolizione.
---------------
Il Tribunale non condivide l’orientamento più favorevole al
privato, espresso ad esempio da C.d.S. 883/2008, secondo il
quale invece “il lungo lasso di tempo trascorso dalla
commissione dell'abuso” e “il protrarsi dell'inerzia
dell'amministrazione preposta alla vigilanza” potrebbero
ingenerare un affidamento del privato, rispetto al quale
sussisterebbe un “onere di congrua motivazione” circa il
“pubblico interesse, evidentemente diverso da quello al
ripristino della legalità, idoneo a giustificare il
sacrificio del contrapposto interesse privato”.
A tale conclusione, infatti, questo Tribunale arriva
osservando principalmente, sulla scorta della citata
decisione C.d.S. 5509/2009, che di affidamento si potrebbe
parlare solo ove il privato avesse correttamente e in modo
compiuto reso nota la propria posizione alla p.a. e fosse
stato indotto da un provvedimento della stessa a ritenere la
legittimità del proprio operato, non già nel caso normale in
cui si commette un abuso a tutta insaputa della p.a.
medesima.
In tali termini il Tribunale non intende certo affermare che
il tempo decorso dalla commissione dell’abuso sia sempre e
comunque irrilevante; afferma invece che di regola non lo è,
perché andrebbe considerato solo quale elemento costitutivo
di un affidamento normalmente assente. E’ però altrettanto
chiaro, ed anzi discende per necessità dalla premessa
rigorosa che viene condivisa, che nel caso in qualche modo
eccezionale in cui l’affidamento sussista, allo stesso va
riconosciuta piena rilevanza.
3. Questo Tribunale, com’è noto, in tema di abuso cd.
risalente, ovvero commesso molto tempo prima del
provvedimento sanzionatorio, si conforma all’orientamento
più rigoroso, secondo il quale il potere di applicare misure
repressive in materia urbanistica ed edilizia può essere
esercitato in ogni tempo, senza necessità, per i relativi
provvedimenti, di motivare in modo specifico in ordine alla
sussistenza dell'interesse pubblico a disporre una
demolizione: così fra le molte C.d.S. sez. IV, 15.09.2009 n.
5509 e, nella giurisprudenza della Sezione, già TAR Brescia
sez. I 22.02.2010 n. 860.
4. Il Tribunale, corrispondentemente, non condivide
l’orientamento più favorevole al privato, espresso ad
esempio da C.d.S. sez. V 04.03.2008 n. 883, secondo il quale
invece “il lungo lasso di tempo trascorso dalla
commissione dell'abuso” e “il protrarsi dell'inerzia
dell'amministrazione preposta alla vigilanza” potrebbero
ingenerare un affidamento del privato, rispetto al quale
sussisterebbe un “onere di congrua motivazione” circa
il “pubblico interesse, evidentemente diverso da quello
al ripristino della legalità, idoneo a giustificare il
sacrificio del contrapposto interesse privato”.
5. A tale conclusione, infatti, questo Tribunale arriva
osservando principalmente, sulla scorta della citata
decisione C.d.S. 5509/2009, che di affidamento si potrebbe
parlare solo ove il privato avesse correttamente e in modo
compiuto reso nota la propria posizione alla p.a. e fosse
stato indotto da un provvedimento della stessa a ritenere la
legittimità del proprio operato, non già nel caso normale in
cui si commette un abuso a tutta insaputa della p.a.
medesima.
6. In tali termini, interessa ora notare, il Tribunale non
intende certo affermare che il tempo decorso dalla
commissione dell’abuso sia sempre e comunque irrilevante;
afferma invece che di regola non lo è, perché andrebbe
considerato solo quale elemento costitutivo di un
affidamento normalmente assente. E’ però altrettanto chiaro,
ed anzi discende per necessità dalla premessa rigorosa che
viene condivisa, che nel caso in qualche modo eccezionale in
cui l’affidamento sussista, allo stesso va riconosciuta
piena rilevanza
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 21.08.2015 n. 1105 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La semplice "ristrutturazione"
si verifica ove gli interventi, comportando modificazioni
esclusivamente interne, abbiano interessato un edificio del
quale sussistano e rimangano inalterate le componenti
essenziali, quali i muri perimetrali, le strutture
orizzontali, la copertura, mentre è ravvisabile la "ricostruzione"
allorché dell'edificio preesistente siano venute meno, per
evento naturale o per volontaria demolizione, dette
componenti, e l'intervento si traduca nell'esatto ripristino
delle stesse operato senza alcuna variazione rispetto alle
originarie dimensioni dell'edificio, e, in particolare,
senza aumenti della volumetria.
In presenza di tali aumenti,
si verte, invece, in ipotesi di "nuova costruzione",
come tale sottoposta alla disciplina in tema di distanze
vigente al momento della medesima.
---------------
La semplice constatazione dell'aumento di superficie e di
volumetria è quindi sufficiente a rendere l'intervento
edilizio non riconducibile al paradigma normativo della
ristrutturazione e all'esonero dall'osservanza delle
distanze legali previsto per detto tipo di interventi.
---------------
Qualora siano
venute meno, per eventi naturali o per demolizione, le
preesistenti strutture edilizie, si ha "mera
ricostruzione" se l'intervento si traduca nell'esatto
ripristino delle strutture precedenti, senza alcuna
variazione rispetto alle originarie dimensioni dell'edificio
e, in particolare, senza aumenti della volumetria né delle
superfici occupate in relazione alla originaria sagoma di
ingombro; in presenza di tali aumenti, si verte, invece, in
ipotesi di "nuova costruzione", come tale sottoposta
alla disciplina in tema di distanze vigente al momento della
medesima.
1. - Col primo motivo, assistito da quesito di diritto ex
art. 366-bis c.p.c., applicabile ratione temporis, i
ricorrenti lamentano la violazione degli artt. 31 legge n.
457/1978 dei punti 3.2.3. delle NTA del PRG del comune di
Omegna del 1989 e dell'art. 21 delle NTA del PRG del 2001.
Deducono al riguardo che la costruzione in oggetto, essendo
stata realizzata con un'eccedenza volumetrica del 30%
rispetto al pregresso, non è qualificabile né come
demolizione e ricostruzione, ai sensi delle NTA del 1989, né
come ristrutturazione edilizia, ai sensi dell'art. 21 NTA
del 2001, sicché essa non va esente dal rispetto delle
distanze dal confine, previsto per le nuovo costruzioni in
cinque metri tanto dalla precedente, quanto dall'attuale
disciplina urbanistica locale.
Richiama, a sostegno, la giurisprudenza amministrativa sul
concetto di ristrutturazione edilizia ai sensi dell'art. 31,
comma 1, lett. d), legge n. 457/1978, e ad ulteriore
conforto l'art. 3, comma 1, lett. d), del D.P.R. n.
380/2001, recante il T.U. delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia edilizia.
...
3. - Il primo motivo è fondato.
Il concetto normativo di ristrutturazione edilizia è
disciplinato dall'art. 31, 1° comma, lett. d) della legge n.
457/1978, applicabile ratione temporis alla
fattispecie (il D.P.R. n. 380/2001, recante il T.U. delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia
edilizia, è entrato in vigore il 30.06.2003), e in base al
2° comma dello stesso articolo tale norma prevale sulle
disposizioni degli strumenti urbanistici generali e dei
regolamenti edilizi (ferme restando le sole disposizioni e
competenze previste dalle leggi nn. 1089/1939 e 1497/1939 e
successive modificazioni ed integrazioni).
Esso è stato puntualizzato da questa Corte, da ultimo con
ordinanza 19.10.2011 n. 21578
S.U. civili, osservando che —anche alla luce dei criteri di
cui all'art. 31, primo comma lettera d), della legge
05.08.1978, n. 457— la semplice "ristrutturazione"
si verifica ove gli interventi, comportando modificazioni
esclusivamente interne, abbiano interessato un edificio del
quale sussistano e rimangano inalterate le componenti
essenziali, quali i muri perimetrali, le strutture
orizzontali, la copertura, mentre è ravvisabile la "ricostruzione"
allorché dell'edificio preesistente siano venute meno, per
evento naturale o per volontaria demolizione, dette
componenti, e l'intervento si traduca nell'esatto ripristino
delle stesse operato senza alcuna variazione rispetto alle
originarie dimensioni dell'edificio, e, in particolare,
senza aumenti della volumetria. In presenza di tali aumenti,
si verte, invece, in ipotesi di "nuova costruzione",
come tale sottoposta alla disciplina in tema di distanze
vigente al momento della medesima.
E detta pronuncia ha concluso, dunque, che
la semplice constatazione dell'aumento di superficie e di
volumetria è quindi sufficiente a rendere l'intervento
edilizio non riconducibile al paradigma normativo della
ristrutturazione e all'esonero dall'osservanza delle
distanze legali previsto per detto tipo di interventi.
Analogamente, questa Corte si era espressa con sentenza n.
3391/2009, nel senso che qualora siano
venute meno, per eventi naturali o per demolizione, le
preesistenti strutture edilizie, si ha "mera
ricostruzione" se l'intervento si traduca nell'esatto
ripristino delle strutture precedenti, senza alcuna
variazione rispetto alle originarie dimensioni dell'edificio
e, in particolare, senza aumenti della volumetria né delle
superfici occupate in relazione alla originaria sagoma di
ingombro; in presenza di tali aumenti, si verte, invece, in
ipotesi di "nuova costruzione", come tale sottoposta
alla disciplina in tema di distanze vigente al momento della
medesima.
Ed ancora, in precedenza, essa aveva affermato il medesimo
principio con le del tutto analoghe sentenze nn. 9637/2006 e
14128/2000.
3.1. - Principio da cui la Corte torinese si è discostata
sotto due profili.
In primo luogo, lì dove ha esaminato la questione
della riconducibilità della costruzione in oggetto alla
previsione della ristrutturazione edilizia, sulla base non
della disciplina legislativa ma di quella regolamentare,
assumendone i parametri dell'allineamento all'edificio
preesistente e della franchigia volumetrica del 30% in più
rispetto ad esso per effetto della sopraelevazione.
In secondo luogo, allorché, riscontrato il rispetto
del primo ma non anche del secondo parametro, ha escluso la
tutela ripristinatoria in quanto le norme locali che
vietavano d'incrementare volumi e superfici dei fabbricati
preesistenti non erano integrative dell'art. 873 c.c. in
materia di distanze.
Il che dimostra la sostanziale inutilità del ragionamento
giuridico svolto nella sentenza impugnata. Assunto
(erroneamente) a criterio decisivo il rispetto di norme
regolamentari non dirette (né comunque legittimate) a
integrare l'art. 873 c.c., è vano scrutinare se ed in qual
misura esse siano state osservate. Secondo la stessa logica
eletta, il giudizio di valore derivabile sarebbe stato in
ogni caso privo di effetti ai fini della domanda di condanna
alla rimessione in pristino.
Al contrario, applicata —come avrebbe dovuto essere
applicata— la predetta norma legislativa e non già quella
regolamentare, la semplice constatazione
dell'aumento plano-volumetrico rispetto al ricostruito
espunge l'opera in oggetto dall'ambito della
ristrutturazione edilizia, configurandola come nuova
costruzione. In presenza della quale si riespande la tutela
ripristinatoria, mediante demolizione o arretramento
(cfr. Cass. n. 7809/2014), non essendo
concesso ai regolamenti locali di incidere, neppure
indirettamente attraverso la previsione di soglie massime
d'incremento edilizio, sulle anzi dette nozioni normative e
sui rimedi esperibili nei rapporti interprivati.
4. - L'accoglimento del primo mezzo d'annullamento assorbe
l'esame del secondo motivo (Corte di Cassazione, Sez. II
civile,
sentenza 20.08.2015 n. 17043). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Danno esistenziale. I rumori degli animali non
sempre da risarcire.
Chi, ormai sepolto nei sonni inquieti della calura urbana,
non sogna di risvegliarsi dietro persiane socchiuse,
all’amichevole belato di pecore che passeggiano sul prato
verdeggiante?
Certamente non chi deve convivere con un
gregge nelle vicinanze, che con i campanacci a martello
assicura la sua presenza arcadica giorno e notte. Al punto
da ottenere che i bucolici quadrupedi vengano confinati in
recinti ad almeno 100 metri dalla sua abitazione, ma senza
vedersi riconoscere un risarcimento per il disturbo.
La Corte di Cassazione, Sez. III civile (sentenza
20.08.2015 n. 17013), ha così confermato una sentenza
del Tribunale di Arezzo, che obbligava i pastori a contenere
le esuberanze fonetiche dei loro animali all’interno di un
recinto a una certa distanza dalla casa di chi aveva fatto
loro causa, ma non a risarcire 10mila euro per il «danno
esistenziale».
Per la Cassazione, infatti, il nodo non è tanto sul tipo di
suono emesso, giacché il belato, universalmente considerato
evocativo di una pace che, addirittura, serve a conciliare
il sonno, favorito proprio dall’inesauribile conta dei
lanosi quadrupedi.
Piuttosto, i giudici precisano che in questo come in altri
tipi di disturbo, derivanti o meno da «immissioni» di
rumori, occorre che si verifichi un nesso diretto tra evento
e danno: «il risarcimento del danno non patrimoniale
richiede, in definitiva, la prova di una violazione che
abbia determinato in concreto una lesione la quale, andando
oltre la suddetta soglia di tollerabilità, ne rende
significativamente apprezzabile la portata». Prova che,
appunto, non era stata prodotta dai ricorrenti
(articolo Il Sole 24 Ore del
21.08.2015).
---------------
MASSIMA
2.1 Con il secondo motivo di ricorso R. e L. lamentano
-ex art. 360, 1^ co. nn. 3) e 5) cpc- l'erroneo rigetto da
parte della corte di appello, in riforma della prima
decisione, della loro domanda di risarcimento del danno;
posto che ancorché si ritenesse insussistente la prova di
una lesione psicofisica (danno biologico alla salute) per
effetto delle immissioni acustiche, la sussistenza di un
danno morale o esistenziale doveva invece ritenersi insita
nell'accertata lesione dei diritti costituzionali alla
libertà di spostamento; al tranquillo godimento del
domicilio; alla serena fruizione del tempo libero.
Sicché la prova della intollerabilità delle immissioni (così
come ritenuta anche dal giudice di appello) implicava di per
sé la prova del danno risarcibile.
§ 2.2 La doglianza non può trovare accoglimento, né sotto il
profilo della violazione normativa, né sotto quello della
carenza motivazionale.
Partendo da quest'ultimo aspetto, il
giudice di appello ha escluso che gli attori avessero
fornito la prova, su di essi gravante, non solo di un danno
alla loro integrità psicofisica, ma anche di un danno non
patrimoniale di natura esistenziale da inquinamento acustico
e da limitazione del movimento.
Riformando, sul punto, la prima decisione, il tribunale ha
infatti osservato che i testi sentiti avevano confermato la
sussistenza ed intollerabilità delle immissioni sonore
provenienti dal gregge al pascolo in prossimità
dell'abitazione degli attori, senza che da ciò si
deducessero tuttavia elementi utili alla dimostrazione di un
danno risarcibile; sicché gli appellati non
avevano, in definitiva, "offerto alcuna prova (né
articolato richieste in tal senso) idonea a documentare la
verificazione di un pregiudizio, derivante dalle lamentate
immissioni, alla loro vita quotidiana, con conseguente
impedimento o difficoltà nello svolgimento di attività che
ne costituivano parte integrante (in cui si sostanzia
propriamente il danno esistenziale) (...)"
(sent. pag. 6). Si tratta di un convincimento di merito qui
non sindacabile, risultando del resto ben chiaro dalla
motivazione censurata come il difetto di prova del danno non
patrimoniale abbia riguardato non tanto (o soltanto) il
quantum riconoscibile, bensì l'esistenza stessa (an
debeatur) del pregiudizio.
Parimenti destituita di fondamento è la censura di
violazione normativa, dal momento che i principi di diritto
richiamati dal giudice di appello trovano riscontro nella
ormai assodata giurisprudenza di legittimità.
Quanto, in particolare, al fatto che il danno ex art. 2059
cc -pur quando sia astrattamente riconoscibile- si atteggia
in ogni caso quale danno-conseguenza (v. note decisioni di
cui alle SSUU nn. 26972/3/4/5 del 2008); così da non potersi
ritenere in re ipsa, e richiedere invece la
comprovata sussistenza dei caratteri generali della gravità
della lesione e della apprezzabile serietà, comunque
valutata sul metro dei diritti costituzionali inviolabili,
del pregiudizio di cui si chieda il risarcimento (tra le
altre, da ultimo, Cass. n. 15240 del 03.07.2014; Cass. n.
17974 del 14.08.02014).
Alla luce di tali parametri -costituenti il punto di
equilibrio costituzionale tra il dovere di protezione e
solidarietà verso la vittima dell'illecito ed il generale
dovere di tolleranza nei rapporti sociali-
il risarcimento del danno non patrimoniale richiede, in
definitiva, la prova di una violazione che abbia determinato
in concreto una lesione la quale, andando oltre l suddetta
soglia di tollerabilità, ne renda significativamente
apprezzabile la portata e costituzionalmente meritevole il
ristoro.
Di tale orientamento non mancano
applicazioni proprio in tema di danno non patrimoniale da
immissioni intollerabili; essendosi in proposito affermato
che l'accertata esposizione ad immissioni sonore
intollerabili non costituisce di per sé prova dell'esistenza
di danno alla salute, la cui risarcibilità è subordinata
all'accertamento dell'effettiva esistenza di una lesione
fisica o psichica
(Cass. n. 25820 del 10/12/2009); e che il
danno non patrimoniale consistente nella modifica delle
abitudini di vita del danneggiato (alla quale si ricollega
la nozione di danno esistenziale) in conseguenza delle
immissioni non può essere risarcito in difetto di specifica
prospettazione e dimostrazione di un danno attuale e
concreto (Cass. n.
4394 del 20/03/2012).
Ora, nel caso in esame, il giudice di merito ha
correttamente escluso che la prova delle immissioni,
ancorché illegittime, concretasse la prova di un danno
risarcibile, non potendo quest'ultimo considerarsi in re
ipsa; né gli attori avevano allegato ed offerto di
provare (anche a mezzo di presunzioni) che, per effetto
delle immissioni sonore, essi avevano subito un
significativo mutamento delle loro condizioni ed abitudini
di vita, concretante un pregiudizio risarcibile.
Corretta, infine, deve ritenersi l'affermazione del
tribunale secondo cui la prova della
sussistenza di un danno risarcibile deve essere fornita
dalla parte pur in presenza di domanda di liquidazione
equitativa; ciò perché il potere giudiziale di liquidazione
equitativa ex articoli 1226 e 2056 cod. civ. non esonera la
parte dall'onere di provare il danno nella sua esistenza
ontologica, intervenendo unicamente nella determinazione
quantitativa del pregiudizio allorquando la prova diretta ed
analitica di quest'ultima risulti, per la peculiarità della
fattispecie, impossibile o particolarmente difficile. |
ATTI
AMMINISTRATIVI - INCARICHI PROGETTUALI: Il
progetto può avere omissis. Diritti d’autore. Se viene
chiesta la visione in un contenzioso.
L’opera d’ingegno del professionista va tutelata
e per questo l’esibizione a terzi dei suoi elaborati va
limitata.
Lo sottolinea la
sentenza
20.08.2015 n. 626 del TAR Marche, definendo il rapporto
tra diritto d’autore ed accesso agli atti custoditi pubblica
amministrazione.
Nel caso esaminato, un ente di bonifica aveva approfondito
alcuni fenomeni idraulici (impaludamento), giungendo a
conclusioni non condivise da uno dei proprietari delle aree
interessate. Ne è sorta una controversia, con richiesta di
visionare ed estrarre copia dello studio geologico;
richiesta accolta solo in parte.
Situazioni analoghe emergono con gli atti di pianificazione,
quando vi sono studi, ricerche e calcoli che possono
interessare più proprietà e quindi potenzialmente utili a
più professionisti. In questi casi occorre tutelare la
proprietà intellettuale, con le norme sul diritto d’autore e
del Codice civile (articolo 2575).
Per risolvere il caso, il Tar marchigiano ha quindi
consentito un accesso parziale, coprendo alcuni passi di
dettaglio della consulenza. Secondo i giudici, le norme
sulla proprietà intellettuale sono funzionali a garantire
gli interessi economici dell’autore, mentre la normativa
sull’accesso (legge 241/1990) è funzionale a garantire altri
interessi. E solo nei limiti di tali ultimi interessi va
consentita la visione e l'estrazione di copia. In altri
termini, né il diritto di autore né la proprietà
intellettuale precludono la riproduzione, ma va impedita la
riproduzione che consenta uno sfruttamento economico
dell’opera d’ingegno.
Ciò significa che, quando l’accesso agli atti non lede il
diritto all’uso economico esclusivo dell’opera, l’esibizione
va consentita, sia come visione sia come estrazione di
copia. Fermo restando che le informazioni possono essere
ottenute solo in correlazione con l’interesse fatto valere
per ottenere la copia. Appunto per garantire i diritti del
professionista, la copia può essere fornita coprendo o
estrapolando le parti, quali quelle dalle quali possa
desumersi il metodo di indagine seguito dal professionista.
Soluzioni analoghe con secretazione parziale sono già state
adottate nei procedimenti antitrust, nei quali va garantita
la riservatezza di informazioni di carattere personale,
commerciale, industriale e finanziario (ad esempio sul
commercio di cosmetici o di prodotti discografici, Consiglio
di Stato, sentenze 2513/2015 e 652/2001). Stesso
procedimento a livello comunitario, quando l’accesso è
limitato in caso di conflitti imprenditoriali su documenti
segreti (Corte di giustizia, sentenza sulla causa C-107/82-83, tra AEG e Telefunken; Tribunale Ce, T-30/91, 29.06.1995, sulla Solvay).
Identico principio di secretazione parziale è infine
adottato anche nelle gare di appalto (articolo 13, comma 5,
lettera a, del Dlgs 163/2006), quando il concorrente secondo
classificato contesti il pregio delle migliorie offerte dal
vincitore, e tenta di dimostrarne l’irrealizzabilità:
l’accesso va garantito perché necessario a fini difensivi,
ma non può violare segreti industriali.
Quindi (Tar Lazio,
sentenza 2064/2008) vi è accesso sui progetti di
realizzazione di una residenza per anziani, ma non (Tar
Marche sentenza 116/2015 e Milano 2857/2014) per conoscere
il know how o le modalità di funzionamento di alcune fontane
pubbliche date in appalto da un Comune (articolo Il Sole 24 Ore del
22.08.2015).
--------------
MASSIMA
II. Il ricorso è fondato.
A norma dell’art. 24 della legge n. 241/1990,
la natura di opera dell’ingegno dei documenti di cui
si chiede l’ostensione non rappresenta una causa di
esclusione dall’accesso.
La disciplina dettata a tutela del diritto
di autore e della proprietà intellettuale è funzionale a
garantire gli interessi economici dell’autore ovvero del
titolare dell’opera intellettuale, mentre la normativa
sull’accesso è funzionale a garantire altri interessi ed in
questi limiti va consentita la visione e l’estrazione di
copia (TAR Puglia
Bari, II, 13.02.2013, n. 217).
In altri termini, né il diritto di autore
né la proprietà intellettuale precludono la riproduzione
sic et simpliciter, ma solo la riproduzione che consenta
uno sfruttamento economico e, non essendo l’accesso lesivo
di tale diritto all’uso economico esclusivo dell’opera,
l’ostensione va consentita nelle forme richieste
dall’interessata (visione ed estrazione di copia), fermo
restando che delle informazioni ottenute dovrà essere fatto
un uso appropriato, ossia esclusivamente in maniera
funzionale all’interesse fatto valere con l’istanza di
accesso (che, per espressa allegazione della ricorrente, è
rappresentato dalla tutela della proprietà), in quanto ciò
costituisce non solo la funzione per cui è consentito
l’accesso stesso, ma anche il limite di utilizzo dei dati
appresi.
Peraltro, ad ulteriore garanzia dei diritti
del terzo, l’Amministrazione potrà consentire l’estrazione
di copia coprendo o estrapolando le parti dello studio
geologico da cui possa desumersi il metodo di indagine
seguito dal professionista, atteso che l’interesse della
ricorrente potrà ugualmente essere soddisfatto con l’accesso
pieno alla relazione conclusiva redatta dal geologo
all’esito delle indagini condotte. |
ATTI AMMINISTRATIVI: La
giurisprudenza sembra ormai consolidarsi sull’orientamento
secondo cui la mancata acquisizione dei pareri di regolarità
tecnica e contabile non comporta l'invalidità delle
deliberazioni della giunta o del consiglio comunale, ma la
loro mera irregolarità, atteso che la disposizione posta
dall'art. 49 del TUEL, ha l'unico scopo di individuare i
responsabili in via amministrativa e contabile delle
deliberazioni, ma senza che l'omissione del parere incida
sulla validità delle deliberazioni stesse.
4. Con il terzo motivo viene dedotta violazione dell’art. 49
del D.Lgs. n. 267/2000, poiché nella delibera di Consiglio
n. 42/2014 mancano i pareri di regolarità tecnica e
dell’Ufficio Urbanistica. Tale carenza comporta non solo
vizio del procedimento ma anche difetto istruttorio. Viene
inoltre dedotta violazione dell’art. 41 del Regolamento del
Consiglio Comunale, stante il mancato rispetto del termine
di 48 ore per porre a disposizione dei consiglieri tutta la
documentazione riguardante la proposta di deliberazione.
4.1 Anche tali censure vanno disattese.
4.2 Riguardo al primo profilo va osservato che, dopo un
primo orientamento conforme alla prospettazione di parte
ricorrente (cfr. ad es. TAR Piemonte, Sez. I, 12.10.2005 n.
2902), la giurisprudenza successiva sembra ormai
consolidarsi sull’orientamento contrario, secondo cui la
mancata acquisizione dei pareri di regolarità tecnica e
contabile non comporta l'invalidità delle deliberazioni
della giunta o del consiglio comunale, ma la loro mera
irregolarità, atteso che la disposizione posta dall'art. 49
del TUEL, ha l'unico scopo di individuare i responsabili in
via amministrativa e contabile delle deliberazioni, ma senza
che l'omissione del parere incida sulla validità delle
deliberazioni stesse (cfr. tra le ultime, Cons. Stato, Sez.
IV, 26.01.2012 n. 351; id. Sez. V, 21.08.2009 n. 5012; TAR
Liguria, Sez. I, 26.02.2014 n. 350; TAR Campania, Salerno,
Sez. II, 19.01.2012 n. 55; TAR Campania, Napoli, Sez. VII,
08.04.2011 n. 2002; TAR Calabria, Catanzaro, Sez. I, 25.03.2011
n. 401; TAR Lazio, Latina, Sez. I, 15.01.2008 n. 41).
Anche la giurisprudenza tributaria si è pronunciata nel
medesimo senso (cfr. Cass. Civile, Sez. Trib. 12.08.2004 n.
15639).
L’odierno Collegio non intravede quindi ragioni per
discostarsi da tale orientamento
(TAR Marche,
sentenza 20.08.2015 n. 623 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: E'
sempre possibile, per l’amministrazione, rivedere le proprie
scelte in materia urbanistica, essendo solo obbligata a
rendere una motivazione rinforzata e comparativa, tra
interesse pubblico e privato, quando le nuove valutazioni
incidono su aspettative dei privati particolarmente
qualificate, come, ad esempio, quelle sorte da impegni già
assunti dalla stessa amministrazione mediante approvazione
di piani attuativi o stipula di convenzioni.
---------------
Nel caso specifico non si verte, tuttavia, in tali
situazioni, ma in fattispecie meno garantita, poiché il
procedimento di approvazione del piano attuativo, in
variante al PRG, non si è mai concluso favorevolmente
(creando un’aspettativa qualificata nei termini sopra
indicati), ma ha visto il consenso dell’amministrazione
comunale espresso solo nella fase iniziale della procedura,
ovvero nell’adozione della proposta avanzata dal privato.
Se l’amministrazione ha il potere di cambiare opinione su
piani attuativi ormai approvati e convenzionati, non si
intravedono allora ragioni ostative affinché possa farlo
anche nel corso del procedimento.
Peraltro va osservato che se il procedimento in esame
risulta strutturato in più fasi autonome tra loro (adozione
e approvazione finale), ciò giustifica e ammette una
rivalutazione della proposta anche in fase conclusiva,
secondo uno schema assimilabile alla legittima revoca (in
questo caso non di atti amministrativi ma del precedente
consenso) per sopravvenuta rivalutazione dell’interesse
pubblico originario (art. 21-quinquies della Legge n.
241/1990).
5.
Con il quarto motivo viene dedotta violazione della L.r. n.
34/1992, nonché eccesso di potere per illogicità, incoerenza
e contraddittorietà dell’azione amministrativa.
In
particolare viene dedotto che il piano particolareggiato
aveva ottenuto per due volte il consenso del Consiglio
Comunale (adozione provvisoria e definitiva), oltre a tutti
i pareri favorevoli degli organi coinvolti nel procedimento
(Provincia, ASUR, Genio Civile), per cui l’approvazione
finale era atto dovuto e vincolato, senza possibilità di
ripensamenti di natura politico-amministrativa.
La doglianza
viene riproposta nella prima parte del motivo successivo (nr.
V), circa la pretesa violazione del legittimo affidamento
che il ricorrente aveva riposto nella positiva conclusione
della procedura.
Le censure non possono trovare condivisione.
Occorre innanzitutto richiamare il principio
giurisprudenziale secondo cui è sempre possibile, per
l’amministrazione, rivedere le proprie scelte in materia
urbanistica, essendo solo obbligata a rendere una
motivazione rinforzata e comparativa, tra interesse pubblico
e privato, quando le nuove valutazioni incidono su
aspettative dei privati particolarmente qualificate, come,
ad esempio, quelle sorte da impegni già assunti dalla stessa
amministrazione mediante approvazione di piani attuativi o
stipula di convenzioni (cfr., tra le tante, Consiglio Stato,
Sez. IV, 09.06.2008 n. 2837; id. 11.10.2007 n. 5357; 04.10.2007
n. 5210; 01.10.2007 n. 5058; 08.06.2007 n. 2999; 14.05.2007
n. 2411; TAR Sicilia, Palermo, Sez. III, 21.12.2012 n. 2757;
id. Sez. II, 10.12.2009, n. 1892; TAR Veneto, Sez. I,
12.12.2012 n. 1549; TAR Piemonte, Sez. I, 22.07.2011 n. 805;
TAR Lombardia, Brescia, Sez. II, 22.06.2009 n. 1245).
Nel caso specifico non si verte, tuttavia, in tali
situazioni, ma in fattispecie meno garantita, poiché il
procedimento di approvazione del piano attuativo, in
variante al PRG, non si è mai concluso favorevolmente
(creando un’aspettativa qualificata nei termini sopra
indicati), ma ha visto il consenso dell’amministrazione
comunale espresso solo nella fase iniziale della procedura,
ovvero nell’adozione della proposta avanzata dal privato.
Se l’amministrazione ha il potere di cambiare opinione su
piani attuativi ormai approvati e convenzionati, non si
intravedono allora ragioni ostative affinché possa farlo
anche nel corso del procedimento.
Peraltro va osservato che se il procedimento in esame
risulta strutturato in più fasi autonome tra loro (adozione
e approvazione finale), ciò giustifica e ammette una
rivalutazione della proposta anche in fase conclusiva,
secondo uno schema assimilabile alla legittima revoca (in
questo caso non di atti amministrativi ma del precedente
consenso) per sopravvenuta rivalutazione dell’interesse
pubblico originario (art. 21-quinquies della Legge n.
241/1990).
Resta pur sempre l’obbligo di motivazione, che il Consiglio
Comunale ha comunque formalmente assolto facendo proprie le
argomentazioni contenute nella ricordata nella nota
26.09.2014 prot. 14506 sottoscritta dal Sindaco e
dall’Assessore all’Urbanistica
(TAR Marche,
sentenza 20.08.2015 n. 623 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Senza il titolo abilitante salta la concessione.
È legittimo il doveroso diniego della concessione in
sanatoria di opere eseguite senza titolo abilitante, qualora
le stesse non risultino conformi tanto alla normativa
urbanistica vigente al momento della loro realizzazione
quanto a quella vigente al momento della domanda di
sanatoria.
Lo hanno ribadito i giudici della II Sez. del TAR
Lombardia-Milano con la
sentenza 13.08.2015 n. 1900.
Secondo i giudici amministrativi milanesi, anche in aderenza
a un ormai consolidato orientamento che tra spunto sia dalla
Corte costituzionale che dal Consiglio di stato, solo il
legislatore statale (con preclusione non solo per il potere
giurisdizionale, ma anche per il legislatore regionale:
Corte cost., 29.05.2013, n. 101) ha la facoltà di
prevedere i casi in cui può essere rilasciato un titolo
edilizio in sanatoria (avente anche una rilevanza estintiva
del reato già commesso), pertanto risulta coerente il
divieto legale di rilasciare una concessione (o il permesso)
in sanatoria, anche nel caso in cui dopo la commissione
dell'abuso vi sia una modifica favorevole dello strumento
urbanistico (si veda: Cons. stato, sez. V, 27.05.2014,
n. 2755).
È possibile rinvenire la ragionevolezza di tale
divieto dall'esigenza, presa in considerazione dalla legge,
di sfuggire alla situazione in cui il potere di
pianificazione possa essere strumentalizzato al fine di
rendere lecito ex post (e non punibile) ciò che risulta
illecito (e punibile) nonché è possibile cogliere una
finalità dissuasiva dall'intenzione di commettere abusi,
«poiché chi costruisce sine titulo è consapevole di essere
tenuto alla demolizione, anche in presenza di una
sopraggiunta modificazione favorevole dello strumento
urbanistico».
Inoltre, secondo i giudici lombardi, nel caso
in cui un'istanza di sanatoria vada a prevedere la
realizzazione di ulteriori interventi per rendere l'opera
conforme alle norme vigenti, sarà evidente una sorta di
insussistenza del requisito della conformità al momento
della richiesta di rilascio del titolo in sanatoria.
Pertanto, un eventuale provvedimento di sanatoria che
prevedesse l'esecuzione di tali ulteriori lavori sarebbe
quindi illegittimo, poiché l'articolo 36 del dpr n. 380 del
2001 non consente spazi interpretativi, nel senso che la
concessione in sanatoria è ammessa soltanto entro i limiti
delineati dal legislatore, senza alcuna possibilità di
estensione discrezionale da parte della p.a.
(articolo ItaliaOggi Sette del
24.08.2015). |
EDILIZIA PRIVATA: La
realizzazione di lavori abusivi senza titolo edilizio e
senza preventiva autorizzazione paesaggistica (quali lavori
di sistemazione e di pavimentazione delle aree esterne e la
sopraelevazione del muro divisorio e la realizzazione della
piscina, che hanno realizzato una duratura trasformazione
del suolo, in quanto tale, urbanisticamente rilevante)
comporta che l’ordine di demolizione e di messa in pristino
risulta una misura appropriata e vincolata al tipo di opere
compiute sine titulo.
---------------
La presentazione dell’istanza di accertamento di conformità
non produce conseguenze sulla legittimità dell’ordinanza di
demolizione ma solo sulla sua efficacia, destinata peraltro
a riespandersi ove il Comune respinga la domanda di
sanatoria.
Ne consegue che, in caso di accoglimento dell’istanza di
sanatoria, l’ordinanza di demolizione è automaticamente
travolta dalla contraria e positiva determinazione
dell’amministrazione circa l’assentibilità e la conformità
normativa e regolamentare dell’intervento.
In caso di rigetto, l’ordinanza di demolizione riacquista
efficacia.
Peraltro, il termine di 90 giorni per dare seguito alla
demolizione, comincia nuovamente a decorrere dalla
comunicazione del provvedimento di rigetto della domanda di
accertamento di conformità..
Osserva ancora il Collegio che, ai sensi dell’art. 36, comma
3, d.P.R. n. 380/2001, qualora il Comune non si pronunci
espressamente sull’istanza di accertamento di conformità
entro sessanta giorni dal suo ricevimento, la stessa
s’intende respinta. In altri termini, sulla domanda si forma
una fattispecie normativamente tipica di silenzio–rigetto
che l’interessato ha l’onere di impugnare mediante
proposizione di motivi aggiunti o ricorso autonomo.
---------------
L’indicazione e la specificazione dell’area da acquisire (in
caso di mancata demolizione abuso realizzato) non
costituisce requisito di legittimità dell’ordinanza di
demolizione ma è onere che contrassegna i provvedimenti
successivi.
---------------
Secondo orientamento ormai costante della giurisprudenza,
l’ordine di demolizione, in quanto atto dovuto e dal
contenuto rigidamente vincolato, presuppone un mero
accertamento tecnico sulla consistenza delle opere
realizzate e sul carattere abusivo delle stesse. A fronte di
questi presupposti, siffatto ordine non richiede la previa
comunicazione di avvio del procedimento.
---------------
La giurisprudenza predica la non necessità di motivazione
delle ordinanze di demolizione, in considerazione del loro
contenuto rigidamente vincolato e dal fatto che traggono
origine dal mero accertamento del carattere abusivo delle
opere.
Sul punto, questa Sezione ha da tempo affermato che i
provvedimenti repressivi, quali l’ordine di demolizione di
una costruzione abusiva, prescindono da qualsiasi
valutazione discrezionale dei fatti e sono subordinati al
solo verificarsi dei presupposti stabiliti dalla legge.
Ne consegue che, una volta accertata la consistenza
dell’abuso, non vi è alcun margine di discrezionalità per
l’interesse pubblico eventualmente collegato. Pertanto, i
provvedimenti repressivi che ordinano la demolizione di
manufatti abusivi non necessitano di congrua motivazione,
posto che l’attualità dell’interesse pubblico alla rimozione
dell’abuso è in re ipsa, consistendo nel ripristino
dell’assetto urbanistico violato.
L’ordinanza di demolizione è pertanto sufficientemente
motivata con la descrizione delle opere abusive, non
occorrendo ulteriore sviluppo motivazionale.
1.- Il ricorso è infondato
2.- Con la prima censura, la ricorrente deduce
l’illegittimità della misura demolitoria per violazione
dell’art. 31 d.p.r. 380/2001, poiché, a suo avviso, ove
l’opera dovesse essere effettivamente considerata abusiva,
l’amministrazione comunale avrebbe potuto semmai comminare
la più mite sanzione pecuniaria, in relazione all’entità
delle stesse consistenti in lavori di sistemazione e di
pavimentazione delle aree esterne.
La doglianza è infondata.
Le opere effettuate, come descritte dalla ricorrente
medesima, mostrano chiaramente che gli interventi effettuati
non hanno prodotto semplici strutture precarie, ma hanno
realizzato una duratura trasformazione del suolo, in quanto
tale urbanisticamente rilevante, almeno per quanto concerne
la sopraelevazione del muro divisorio e la realizzazione
della piscina.
Deve peraltro considerarsi che le opere effettuate, come
d’altronde spiega chiaramente l’ordinanza impugnata nella
parte motiva, sono situate in area vincolata ai sensi del d.lgs. n. 42/2004 (ex L. 1497/1939) nonché della legge
regionale n. 21 del 10.12.2003 (contenente le “Norme
urbanistiche per i comuni rientranti nelle zone a rischio
vulcanico dell’area vesuviana”) e che, pertanto, le stesse
“sono da considerarsi abusive perché realizzate in assenza
di autorizzazione paesaggistico-ambientale ai sensi
dell’art. 146 del D.Lgs. n. 42/2004, essendo l’intero
territorio del Comune di San Giuseppe Vesuviano sottoposto
alla tutela prevista dalla citata normativa, in virtù dei DD.MM. 06/10/1961.”.
Sicché l’ordine di demolizione e di messa in pristino
risulta una misura appropriata e vincolata al tipo di opere
compiute sine titulo.
3.- Con il secondo motivo, la ricorrente rileva che in data
02.07.2013 aveva presentato istanza di permesso di
costruire in sanatoria, ai sensi dell’art. 36 d.p.r. n.
380/2001.
Da ciò reclama “l’improduttività di effetti anche ex lege,
dell’impugnato provvedimento fino alla conclusione del
procedimento di cui all’istanza di concessione in
sanatoria”.
La censura è infondata.
Alla luce della pacifica giurisprudenza di questo TAR, più
volte condivisa anche da questa Sezione, la presentazione
dell’istanza di accertamento di conformità non produce
conseguenze sulla legittimità dell’ordinanza di demolizione
ma solo sulla sua efficacia, destinata peraltro a
riespandersi ove il Comune respinga la domanda di sanatoria
(TAR Campania, Napoli, Sez. II, 14.09.2009, n.
4961; Cons. di Stato, Sez. IV, 19.02.2008, n. 849 ord.;
più di recente questa Sezione 05.12.2012, n. 4941 e 17.05.2012, n. 2787).
Ne consegue che, in caso di accoglimento dell’istanza di
sanatoria, l’ordinanza di demolizione è automaticamente
travolta dalla contraria e positiva determinazione
dell’amministrazione circa l’assentibilità e la conformità
normativa e regolamentare dell’intervento.
In caso di rigetto, l’ordinanza di demolizione riacquista
efficacia (in tal senso, questa Sezione, 28.01.2013, n.
651; idem, 05.12.2012, n. 4941).
Peraltro, il termine di 90 giorni per dare seguito alla
demolizione, comincia nuovamente a decorrere dalla
comunicazione del provvedimento di rigetto della domanda di
accertamento di conformità (sempre questa Sezione, 22.02.2013, n. 1070).
Osserva ancora il Collegio che, ai sensi dell’art. 36, comma
3, d.P.R. n. 380/2001, qualora il Comune non si pronunci
espressamente sull’istanza di accertamento di conformità
entro sessanta giorni dal suo ricevimento, la stessa
s’intende respinta. In altri termini, sulla domanda si forma
una fattispecie normativamente tipica di silenzio–rigetto
che l’interessato ha l’onere di impugnare mediante
proposizione di motivi aggiunti o ricorso autonomo.
Nel caso in esame, l’istanza è stata presentata al Comune
intimato in data 02.07.2013 (protocollo dell’ente n.
2013-001976807 di pari data, di cui copia è allegata al
ricorso).
L’amministrazione non si è pronunciata; pertanto su di essa
si è ormai formato il silenzio–rigetto; quest’ultimo non
risulta impugnato, con conseguente stabilizzazione degli
effetti della precedente ordinanza di demolizione.
4.- Con altra censura la ricorrente lamenta l’illegittimità
dell’ordinanza contestata poiché la stessa non specifica
quale sia l’area di sedime che, in caso di inottemperanza,
sarebbe acquisita di diritto al patrimonio comunale, area
che, quindi “non risulta in alcun modo identificata e/o
identificabile” (ricorso, pag. 6).
Tale censura, oltre a non risultare pertinente al caso in
esame è comunque infondata.
Il Collegio osserva in primo luogo come l’ordinanza in
questione non faccia alcun riferimento all’acquisizione
gratuita in caso di inottemperanza; la stessa, infatti,
contiene l’avvertenza che, in assenza di demolizione,
decorsi 90 giorni dalla notifica, l’amministrazione
“procederà d’ufficio alla demolizione delle opere indicate
in premessa a cura del Comune con avvio della procedura di
ristoro delle spese sostenute a carico del responsabile
dell’abuso, tenuto al relativo pagamento, ai sensi dell’art.
31, c. 4, del D.P.R. n. 380/2001.”.
In caso d’inottemperanza è quindi prevista non
l’acquisizione ma la demolizione e la messa in pristino in
danno.
In secondo luogo, la giurisprudenza ha precisato sul punto
che l’indicazione e la specificazione dell’area da acquisire
non costituisce requisito di legittimità dell’ordinanza di
demolizione ma è onere che contrassegna i provvedimenti
successivi (TAR Puglia, Lecce, Sez. III, 07.04.2011,
n. 618; in terminis, TAR Campania, Salerno, Sez. I, 04.04.2011, n. 628, TAR Lombardia, Milano, Sez. IV,
09.03.2011, n. 644; più di recente, questa Sezione, 15.01.2013, n. 299).
Peraltro l’ingiunzione di ripristinare lo stato dei luoghi è
conseguente ai vincoli che gravano sull’area in questione,
tant’è che il provvedimento impugnato richiama espressamente
l’art. 167 del d.lgs. n. 42 del 2004.
---------------
6.- La ricorrente sviluppa anche argomenti in merito
all’eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 7,
l. n. 47/1985 nella parte in cui contempla, quale
conseguenza dell’inottemperanza alla demolizione, anche
l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale del suolo su
cui si erge la costruzione abusiva; sostiene al riguardo che
la costruzione ha una sua individualità giuridica distinta
da quella del suolo, non sussistendo un’inscindibile unità
costruzione/suolo che, al contrario, il legislatore sembra
avere presupposto nel momento in cui ha previsto
l’acquisizione del terreno al patrimonio del comune.
L’illustrata eccezione è inammissibile perché non indica
quale norma costituzionale sia stata violata e comunque non
appare rilevante nel caso in esame, atteso che l’ordinanza
di demolizione in questione dispone, in caso di
inottemperanza, non l’acquisizione al patrimonio comunale ma
la riduzione in danno. In ogni caso l'acquisizione gratuita
dell'area al patrimonio comunale quale sanzione per
l'inottemperanza all'ingiunzione di demolizione è stata
ritenuta immune da vizi di legittimità costituzionale (cfr.
Corte cost., 15/2/1991, n. 82).
7.- Con le ultime due censure la ricorrente lamenta
l’illegittimità dell’ordinanza impugnata perché con essa
l’amministrazione comunale non le avrebbe consentito di
partecipare al procedimento, onde acquisire tutti gli
interessi coinvolti; né la stessa è stata corredata di
adeguata motivazione delle ragioni giustificatrici
dell’ordine di demolizione impartito.
Anche tali censure si palesano infondate.
Invero, secondo orientamento ormai costante della
giurisprudenza, l’ordine di demolizione, in quanto atto
dovuto e dal contenuto rigidamente vincolato, presuppone un
mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere
realizzate e sul carattere abusivo delle stesse. A fronte di
questi presupposti, siffatto ordine non richiede la previa
comunicazione di avvio del procedimento (TAR Liguria,
Sez. I, 22.04.2011, n. 666; TAR Campania, Napoli,
Sez. IV, 10.08.2008, n. 9710; Idem 17.01.2007, n.
357; TAR Umbria, 05.06.2007, n. 499).
La Sezione ha di recente più volte confermato questo
indirizzo (cfr. 26.06.2013, n. 3328; 22.02.2013,
n. 1069).
Quanto all’ultima censura, la giurisprudenza predica la non
necessità di motivazione delle ordinanze di demolizione, in
considerazione del loro contenuto rigidamente vincolato e
dal fatto che traggono origine dal mero accertamento del
carattere abusivo delle opere.
Sul punto, questa Sezione ha da tempo affermato che i
provvedimenti repressivi, quali l’ordine di demolizione di
una costruzione abusiva, prescindono da qualsiasi
valutazione discrezionale dei fatti e sono subordinati al
solo verificarsi dei presupposti stabiliti dalla legge; ne
consegue che, una volta accertata la consistenza dell’abuso,
non vi è alcun margine di discrezionalità per l’interesse
pubblico eventualmente collegato. Pertanto, i provvedimenti
repressivi che ordinano la demolizione di manufatti abusivi
non necessitano di congrua motivazione, posto che
l’attualità dell’interesse pubblico alla rimozione
dell’abuso è in re ipsa, consistendo nel ripristino
dell’assetto urbanistico violato (Consiglio di Stato, Sez.
IV, 11.01.2011, n. 79; TAR Campania, Napoli, Sez. III,
26.09.2013, n. 4450; Idem 28.01.2013, n. 651).
L’ordinanza di demolizione è pertanto sufficientemente
motivata con la descrizione delle opere abusive, non
occorrendo ulteriore sviluppo motivazionale (TAR Lazio,
Sez. I, 08.06.2011, n. 5082)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 10.08.2015 n. 4231 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
TRIBUTI:
Più facile edificare anche con i vincoli.
La destinazione del terreno ad attrezzature pubbliche non
vale, di per sé, a escludere l'edificabilità, dovendo al
contrario ritenersi che le limitazioni e i vincoli contenuti
nel Prg denotino comunque una suscettibilità edificatoria.
In tema di imposte sui redditi non può escludersi
l'imponibilità delle plusvalenze da redditi diversi per la
sola circostanza che il terreno ceduto si trovi all'interno
di zona vincolata a un utilizzo meramente pubblicistico,
dovendosi avere riguardo alla destinazione effettiva
dell'area.
Così la Corte di Cassazione con la sentenza 07.08.2015 n.
16222.
Nel caso di specie la Ctr del Lazio aveva annullato l'avviso
di accertamento con cui era stata sottoposta a tassazione
una plusvalenza relativa al corrispettivo della vendita di
un immobile, rilevando che il contribuente aveva dimostrato,
con apposito certificato di destinazione urbanistica, che il
terreno non era edificabile.
L'Agenzia rilevava però che
proprio le limitazioni e i vincoli contenuti nel Prg
denotavano la natura edificatoria dell'area, anche in
considerazione del fatto che nel certificato erano ben
evidenziate le differenti sottozone per le quali era invece
esclusa ogni possibilità di edificazione.
La censura,
secondo i giudici di legittimità, era fondata, dato che le
limitazioni e i vincoli stabiliti nel Prg non risultavano
sufficienti a privare i terreni di potenzialità
edificatoria, visto che parte delle aree ricadevano nella
sottozona delle attrezzature pubbliche di interesse urbano
territoriale.
La Ctr, nel richiamare le risultanze del
certificato di destinazione urbanistica, aveva del resto
omesso di precisare se le limitazioni alla potenzialità
edificatoria del terreno si riferissero alla sola edilizia
residenziale, o ad ogni possibilità di sviluppo
edificatorio.
In tema di imposte sui redditi, peraltro, la
potenzialità edificatoria, desumibile oltre che dagli
strumenti urbanistici anche da altri elementi, certi e
obiettivi, che attestino una concreta attitudine dell'area
all'edificazione, è un elemento oggettivo idoneo a
influenzare il valore dei terreni e rappresenta un indice di
capacità contributiva ai sensi dell'art. 53 della
Costituzione
(articolo ItaliaOggi del 21.08.2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
Permessi di costruzione rilasciati a seguito di Piano
Attuativo convenzionato, la proroga triennale opera
automaticamente.
Il confronto testuale tra il comma 3 ed il comma 3-bis
dell’art. 30 del d.l. 69/2013 induce a ritenere, per il
secondo, che il legislatore non abbia prescritto la
ricorrenza di taluni presupposti per l’operatività della
proroga triennale: si tratta, in particolare, della “previa
comunicazione del soggetto interessato” e della condizione
che i termini iniziali e finali “non siano già decorsi al
momento della comunicazione dell’interessato”.
Pertanto, la più lunga proroga triennale dell’efficacia dei
permessi convenzionati opera automaticamente e risulta
ammissibile, ed anzi dovuta, anche qualora il termine
originario sia già venuto a scadenza.
---------------
Come è noto, nella responsabilità da provvedimento
illegittimo l’elemento della colpevolezza resta
presuntivamente ancorato alla illegittimità dell’atto, ma
nel contempo si ammette l’esimente dell’errore scusabile,
dando in tal senso rilevanza giustificativa all’oggettiva
incertezza della situazione di fatto o di diritto, dovuta a
complessità della situazione o a difficoltà interpretative
della norma da applicare o all’esistenza di contrasti
giurisprudenziali, tutti elementi che fanno venir meno la
riferibilità della violazione alla mancanza di diligenza
dell’amministrazione convenuta.
La M.C. s.r.l. ha invocato la proroga dei termini di inizio
e fine lavori ai sensi del comma 3-bis dell’art. 30 del d.l.
n. 69 del 2013 (nel testo modificato dalla legge di
conversione n. 98 del 2013). La norma disciplina
diversamente i presupposti della proroga di efficacia ex
lege, per i titoli edilizi rilasciati nell’ambito di
convenzioni di lottizzazione.
Ed infatti, il comma 3 dell’art. 30 dispone in via generale:
“Salva diversa disciplina regionale, previa comunicazione
del soggetto interessato, sono prorogati di due anni i
termini di inizio e di ultimazione dei lavori (…), come
indicati nei titoli abilitativi rilasciati o comunque
formatisi antecedentemente all’entrata in vigore del
presente decreto, purché i suddetti termini non siano già
decorsi al momento della comunicazione dell’interessato e
sempre che i titoli abilitativi non risultino in contrasto,
al momento della comunicazione dell’interessato, con nuovi
strumenti urbanistici approvati o adottati. È altresì
prorogato di tre anni il termine delle autorizzazioni
paesaggistiche in corso di efficacia alla data di entrata in
vigore della legge di conversione del presente decreto”;
il successivo comma 3-bis dell’art. 30, aggiunto in sede di
conversione, dispone più sinteticamente: “Il termine di
validità nonché i termini di inizio e fine lavori
nell’ambito delle convenzioni di lottizzazione di cui
all’articolo 28 della legge 17.08.1942, n. 1150, ovvero
degli accordi similari comunque nominati dalla legislazione
regionale, stipulati sino al 31.12.2012, sono prorogati di
tre anni”.
La seconda disposizione, che pure non brilla per chiarezza
(specialmente per l’incerto collegamento con il comma che
precede), deve necessariamente essere interpretata nel senso
di riconoscere una maggiore ampiezza alla proroga ex lege
dell’efficacia dei permessi rilasciati in attuazione di
convenzioni di lottizzazione comunque denominate, come nella
fattispecie controversa.
Per questi titoli, la ratio del trattamento ancor più
favorevole può essere individuata non soltanto nella
maggiore importanza e complessità degli interventi
costruttivi che solitamente rientrano nei piani attuativi,
ma anche nell’interesse pubblico a portare ad ultimazione il
complesso di opere (specialmente le urbanizzazioni primarie
e secondarie) in uno spazio temporale più lungo, tenendo
conto delle difficoltà in cui versano le imprese del settore
edilizio nell’attuale congiuntura economica.
Il confronto testuale tra il comma 3 ed il comma 3-bis
dell’art. 30 induce a ritenere, per il secondo, che il
legislatore non abbia prescritto la ricorrenza di taluni
presupposti per l’operatività della proroga triennale: si
tratta, in particolare, della “previa comunicazione del
soggetto interessato” e della condizione che i termini
iniziali e finali “non siano già decorsi al momento della
comunicazione dell’interessato”.
Pertanto, la più lunga proroga triennale dell’efficacia dei
permessi convenzionati opera automaticamente e risulta
ammissibile, ed anzi dovuta, anche qualora il termine
originario sia già venuto a scadenza.
Ciò premesso, il Comune di Castiglione Torinese ha
illegittimamente decretato la decadenza del permesso di
costruire n. 68/2008, senza tener conto della proroga
automatica del termine per l’inizio dei lavori fino al
29.09.2013 (doc. 11 di parte ricorrente, con fotografie
allegate).
Ne discende che il provvedimento comunale del 27.02.2014 è
illegittimo e va annullato, assorbita ogni ulteriore censura
ed escluso ogni interesse in ordine alla distinta questione
dell’efficacia dell’autorizzazione paesaggistica, sulla
quale il provvedimento impugnato nulla ha disposto (non
avendo il Comune competenza in materia).
2. Deve invece essere respinta la domanda di risarcimento
del danno, che la società ricorrente ha puntigliosamente
specificato nella memoria conclusiva.
Come è noto, nella responsabilità da provvedimento
illegittimo l’elemento della colpevolezza resta
presuntivamente ancorato alla illegittimità dell’atto, ma
nel contempo si ammette l’esimente dell’errore scusabile,
dando in tal senso rilevanza giustificativa all’oggettiva
incertezza della situazione di fatto o di diritto, dovuta a
complessità della situazione o a difficoltà interpretative
della norma da applicare o all’esistenza di contrasti
giurisprudenziali, tutti elementi che fanno venir meno la
riferibilità della violazione alla mancanza di diligenza
dell’amministrazione convenuta (cfr., tra molte: Cons.
Stato, sez. III, 10.07.2014 n. 3526; Id., sez. III,
06.05.2013 n. 2452; Id., sez. V, 17.02.2013 n. 798).
Difetta, nella specie, la colpa dell’amministrazione.
L’imperfetta formulazione dell’art. 30 del d.l. n. 69 del
2013, soprattutto in relazione al rapporto di specialità
intercorrente tra il comma 3 ed il comma 3-bis, costituisce
un’apprezzabile giustificazione dell’errore in cui è incorso
il Comune di Castiglione Torinese.
Non risulta, peraltro, che su tale profilo vi fossero già
indicazioni interpretative della giurisprudenza
amministrativa.
D’altronde, l’immediato accoglimento dell’istanza cautelare
ha scongiurato il protrarsi degli effetti lesivi del
provvedimento di decadenza, consentendo alla società
ricorrente di riprendere i lavori
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 31.07.2015 n. 1304 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: I
pareri di regolarità contabile previsti per l’adozione delle
delibere comunali prima dall’art. 53 della legge 08.06.1990
n. 142 e poi dall’art. 49 del T.U. 18.08.2000 n. 267 non
costituiscono requisiti di legittimità di queste ultime, in
quanto sono preordinati all’individuazione sul piano
formale, nei funzionari che li formulano, della
responsabilità eventualmente in solido con i componenti
degli organi politici in via amministrativa e contabile,
così che la loro eventuale mancanza –e anche il discostarsi
dal loro contenuto– costituisce una mera irregolarità che
non incide sulla legittimità e la validità delle
deliberazioni stesse.
Con il 12° motivo la ricorrente censura il fatto che il
Consiglio comunale avrebbe immotivatamente disatteso le
considerazioni del dirigente del servizio bilancio nel
parere reso da quest’ultimo.
L’argomento è palesemente contraddetto dalla consolidata
giurisprudenza amministrativa, per la quale i pareri di
regolarità contabile previsti per l’adozione delle delibere
comunali prima dall’art. 53 della legge 08.06.1990 n. 142 e
poi dall’art. 49 del T.U. 18.08.2000 n. 267 non
costituiscono requisiti di legittimità di queste ultime, in
quanto sono preordinati all’individuazione sul piano
formale, nei funzionari che li formulano, della
responsabilità eventualmente in solido con i componenti
degli organi politici in via amministrativa e contabile,
così che la loro eventuale mancanza –e anche il discostarsi
dal loro contenuto– costituisce una mera irregolarità che
non incide sulla legittimità e la validità delle
deliberazioni stesse (per tutte: Cons. Stato Se. V, n. 1663
dell’08.04.2014)
(TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza 29.07.2015 n. 968 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Allo
scopo di stabilire se un atto amministrativo sia meramente
confermativo (e perciò non impugnabile) ovvero di conferma
in senso proprio (e, quindi, autonomamente lesivo e da
impugnarsi nei termini), occorre verificare se l'atto
successivo sia stato adottato o meno senza una nuova
istruttoria e una nuova ponderazione degli interessi.
In particolare, non può considerarsi meramente confermativo
rispetto ad un atto precedente l'atto la cui adozione sia
stata preceduta da un riesame della situazione che aveva
condotto al precedente provvedimento, giacché solo
l’esperimento di un ulteriore adempimento istruttorio, sia
pure mediante la rivalutazione degli interessi in gioco e un
nuovo esame degli elementi di fatto e di diritto che
caratterizzano la fattispecie considerata, può dare luogo a
un atto propriamente confermativo in grado, come tale, di
dare vita ad un provvedimento diverso dal precedente e
quindi suscettibile di autonoma impugnazione.
Ricorre invece l’atto meramente confermativo quando
l’amministrazione, a fronte di un’istanza di riesame si
limita a dichiarare l'esistenza di un suo precedente
provvedimento senza compiere alcuna nuova istruttoria e
senza una nuova motivazione.
Al riguardo il Collegio ritiene di richiamare il consolidato
(e qui condiviso) orientamento secondo cui allo scopo di
stabilire se un atto amministrativo sia meramente
confermativo (e perciò non impugnabile) ovvero di conferma
in senso proprio (e, quindi, autonomamente lesivo e da
impugnarsi nei termini), occorre verificare se l'atto
successivo sia stato adottato o meno senza una nuova
istruttoria e una nuova ponderazione degli interessi.
In particolare, non può considerarsi meramente confermativo
rispetto ad un atto precedente l'atto la cui adozione sia
stata preceduta da un riesame della situazione che aveva
condotto al precedente provvedimento, giacché solo
l’esperimento di un ulteriore adempimento istruttorio, sia
pure mediante la rivalutazione degli interessi in gioco e un
nuovo esame degli elementi di fatto e di diritto che
caratterizzano la fattispecie considerata, può dare luogo a
un atto propriamente confermativo in grado, come tale, di
dare vita ad un provvedimento diverso dal precedente e
quindi suscettibile di autonoma impugnazione.
Ricorre invece l’atto meramente confermativo quando
l’amministrazione, a fronte di un’istanza di riesame si
limita a dichiarare l'esistenza di un suo precedente
provvedimento senza compiere alcuna nuova istruttoria e
senza una nuova motivazione (in tal senso –ex multis -:
Cons. Stato, IV, 12.02.2015, n. 758. In termini
analoghi: Sez. V, 05.12.2014, n. 6014; id., V, 18.10.2014,
n. 5006)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 27.07.2015 n. 3667 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIBVATA:
Il vincolo cimiteriale determina una situazione
di inedificabilità ex lege, suscettibile di venire rimossa
solo in ipotesi eccezionali e comunque solo per
considerazioni di interesse pubblico, in presenza delle
condizioni specificate nell'art. 338, quarto comma; ma non
per interessi privati, come ad esempio per legittimare ex
post realizzazioni edilizie abusive di privati, o comunque
interventi edilizi futuri, su un’area a tal fine
indisponibile per ragioni di ordine igienico-sanitario,
nonché per la sacralità dei luoghi di sepoltura, salve
ulteriori esigenze di mantenimento di un'area di possibile
espansione della cinta cimiteriale.
Pertanto, il procedimento attivabile dai singoli proprietari
all'interno della fascia di rispetto è in ogni caso soltanto
quello finalizzato agli interventi di cui all’articolo 338,
settimo comma, del citato Testo unico (recupero o cambio di
destinazione d'uso di edificazioni preesistenti); mentre
resta attivabile nel solo interesse pubblico -per i motivi
anzidetti- la procedura di riduzione della fascia
inedificabile in questione.
4.3.1. Ebbene,
fermo restando quanto appena osservato, si osserva comunque
che il motivo dinanzi richiamato sub iii) (si tratta del
motivo di diniego opposto dal Comune in relazione al vincolo
cimiteriale insistente sull’area) non può comunque trovare
accoglimento.
In punto di fatto si osserva che è pacifica l’esistenza su
una parte del compendio per cui è causa di un vincolo
cimiteriale ai sensi dell’articolo 338 del regio decreto n.
27.07.1034, n. 1265 (c.d. ‘Testo unico delle leggi
sanitarie’).
Risulta in atti che le iniziative attivate dall’odierno
appellante al fine di ottenere una nuova e diversa
perimetrazione della richiamata fascia di rispetto sino al
limite minimo dei 50 metri siano state respinte sia dal
TAR della Lombardia (sentenza n. 2035 del 2013), sia da
questo Consiglio di Stato (sentenza n. 1317/2014).
Ai fini della presente decisione appare dirimente richiamare
quanto già stabilito dalla Sezione con la sentenza da ultimo
richiamata.
Si è in tale occasione ribadito che, per consolidata
giurisprudenza, il vincolo cimiteriale determina una
situazione di inedificabilità ex lege, suscettibile di
venire rimossa solo in ipotesi eccezionali e comunque solo
per considerazioni di interesse pubblico, in presenza delle
condizioni specificate nell'art. 338, quarto comma; ma non
per interessi privati, come ad esempio per legittimare ex
post realizzazioni edilizie abusive di privati, o comunque
interventi edilizi futuri, su un’area a tal fine
indisponibile per ragioni di ordine igienico-sanitario,
nonché per la sacralità dei luoghi di sepoltura, salve
ulteriori esigenze di mantenimento di un'area di possibile
espansione della cinta cimiteriale (cfr. Cass., I, 23.06.2004, n. 11669; Cons. Stato, IV, 11.10.2006, n. 6064;
id., V, 29.03.2006, n. 1593; 03.05.2007, n. 1934 e 14.09.2010, n. 6671).
Pertanto, il procedimento attivabile dai singoli proprietari
all'interno della fascia di rispetto è in ogni caso soltanto
quello finalizzato agli interventi di cui all’articolo 338,
settimo comma, del citato Testo unico (recupero o cambio di
destinazione d'uso di edificazioni preesistenti); mentre
resta attivabile nel solo interesse pubblico -per i motivi
anzidetti- la procedura di riduzione della fascia
inedificabile in questione.
Non può, quindi, essere condivisa la tesi dell’appellante
secondo cui nelle aree sottoposte a vincolo cimiteriale
sarebbero in ogni caso ammessi gli interventi di edilizia
c.d. ‘libera’, ostandovi –anche in questo caso– la
previsione di cui al comma 1 dell’articolo 6 del d.P.R. 380
del 2001 il quale fa in ogni caso salve le preclusioni
rinvenienti “[da] altre normative di settore aventi
incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia (…)”
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 27.07.2015 n. 3667 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai sensi del comma 6 dell’articolo 31 dpr
380/2001, l’acquisizione coattiva è disposta in tutti i casi
di “interventi abusivamente eseguiti su terreni sottoposti,
in base a leggi statali o regionali, a vincolo di
inedificabilità” (si tratta di una previsione idonea a
ricomprendere anche l’intervento per cui è causa, realizzato
in violazione della disposizione di legge statale in tema di
rispetto del c.d. ‘vincolo cimiteriale’).
Non può essere condiviso l’argomento secondo cui il Comune
non potrebbe comunque procedere all’eventuale acquisizione
coattiva dell’area, non essendo identificabile quale
“amministrazion[e] cui compete la vigilanza sull’osservanza
del vincolo”. Al riguardo è appena il caso di richiamare i
generali compiti di vigilanza sull’attività
urbanistico-edilizia che spettano ai Comuni ai sensi del
comma 1 dell’articolo 27 del d.P.R. 380 del 2001, cit..
5. Ed ancora,
non può trovare accoglimento il motivo con cui (riproponendo
un analogo argomento già profuso in primo grado) il sig. A. ha lamentato l’illegittimità del provvedimento
comunale impugnato in primo grado per la parte in cui ha
preconizzato l’acquisizione dell’area al patrimonio del
Comune in caso di mancata ottemperanza all’ordine di
rimozione della pavimentazione per asserita violazione
dell’articolo 338 del ‘Testo unico delle leggi sanitarie’
del 1934, nonché per violazione dell’articolo 31 del d.P.R.
380 del 2001.
5.1. Al riguardo ci si limita ad osservare:
- che, ai sensi del comma 6 dell’articolo 31, cit.,
l’acquisizione coattiva è disposta in tutti i casi di
“interventi abusivamente eseguiti su terreni sottoposti, in
base a leggi statali o regionali, a vincolo di inedificabilità” (si tratta di una previsione idonea a
ricomprendere anche l’intervento per cui è causa, realizzato
in violazione della disposizione di legge statale in tema di
rispetto del c.d. ‘vincolo cimiteriale’;
- che non può essere condiviso l’argomento secondo cui il
Comune non potrebbe comunque procedere all’eventuale
acquisizione coattiva dell’area, non essendo identificabile
quale “amministrazion[e] cui compete la vigilanza
sull’osservanza del vincolo”. Al riguardo è appena il caso
di richiamare i generali compiti di vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia che spettano ai Comuni ai sensi del
comma 1 dell’articolo 27 del d.P.R. 380 del 2001, cit..
5.2. Naturalmente, stante la sospensione degli effetti della
sentenza di primo grado già disposta con l’ordinanza della
Sezione n. 3505/2014, il termine di novanta giorni di cui al
comma 3 dell’articolo 31 del d.P.R. n. 380, cit. decorrerà
dalla data in cui il signor A. acquisirà legale
conoscenza del contenuto della presente decisione.
6. Si osserva, infine, che non può trovare accoglimento il
motivo di appello con cui si è nuovamente lamentata la
violazione dell’articolo 10-bis della legge 07.08.1990,
n. 241 per avere l’amministrazione comunale omesso di
comunicare all’interessato il c.d. ‘preavviso di rigetto’
prima di adottare il provvedimento impugnato in primo grado.
6.1. Al riguardo ci si limita a richiamare il consolidato –e qui condiviso– orientamento secondo cui l’articolo
10-bis, cit. deve essere valutato dal Giudice avendo
riguardo al successivo articolo 21-octies relativo alla non
annullabilità degli atti per omessa comunicazione di avvio
(cui è da assimilare, ai fini che qui rilevano, il mancato
preavviso di rigetto) laddove l’amministrazione dimostri in
giudizio che il contenuto dispositivo dell’atto non avrebbe
potuto essere diverso da quello in concreto adottato (sul
punto –ex multis -: Cons. Stato, VI, 07.05.2015, n. 2298;
id., V, 24.03.2014, n. 1388; id., V, 20.02.2014, n.
824)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 27.07.2015 n. 3667 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Il
termine “opere di
urbanizzazione” indica l’insieme degli interventi necessari
a rendere una porzione di territorio idonea all’uso
insediativo previsto dagli strumenti urbanistici vigenti
ovvero a garantire l’uso futuro dei nuovi edifici realizzati
e la vita di relazione degli abitanti.
Le opere di urbanizzazione primaria -che rappresentano la
premessa indispensabile all’edificabilità dell’area e alla
possibilità che essa ospiti insediamenti abitativi o
produttivi- comprendono tutte le attrezzature a rete o
infrastrutture, necessarie per assicurare all’area medesima
l’idoneità insediativa in senso tecnico, cioè tutte quelle
attrezzature che rendono possibile l’uso degli edifici, tra
cui, ai fini che qui rilevano, le strade locali.
Le opere di urbanizzazione secondaria includono, invece,
tutte quelle attrezzature di carattere locale che rendono
l’insediamento funzionale per gli abitanti, garantendo la
vita di relazione.
---------------
Gli
impegni assunti in sede convenzionale non vanno riguardati
isolatamente, ma vanno rapportati alla complessiva remuneratività dell'operazione, che costituisce il reale
parametro per valutare l'equilibrio del sinallagma
contrattuale e, quindi, la sostanziale liceità degli impegni
stessi.
In altri termini, la causa della convenzione
urbanistica e cioè l'interesse che l'operazione contrattuale
è diretta a soddisfare, va valutata non con riferimento ai
singoli impegni assunti, ma con riguardo alla oggettiva
funzione economico-sociale del negozio, in cui devono
trovare equilibrata soddisfazione sia gli interessi del
privato che della pubblica amministrazione.
---------------
L'assunzione nell'ambito di una lottizzazione di
obbligazioni ulteriori rispetto a quelle espressamente
previste dalla legge, non può di per sé essere esclusa e
tantomeno automaticamente ricondotta a fenomeni estorsivi o
comunque di <costrizione> ... sicché non esiste
nell'ordinamento una norma generale che impedisca, in sede
di convenzione urbanistica, la libera erogazione di
ulteriori contribuzioni rispetto a quelle fissate dalla
legge che, quindi, costituiscono semplicemente il minimo
legale.
Gli accordi sostitutivi ex art. 11 legge 07.08.1990, n. 241,
al cui modello procedimentale vanno ricondotte le
convenzioni urbanistiche, consentono, infatti, di conseguire
un assetto di interessi diverso e più ampio di quello
conseguibile con il rilascio del provvedimento
amministrativo unilaterale, fermo restando, in ogni caso, la
sua finalizzazione alle esigenze di urbanizzazione
dell’area.
E’ da ritenersi, peraltro, pacifico che il Comune possa
richiedere e il lottizzante accettare la realizzazione di
opere eccedenti rispetto agli oneri di urbanizzazione
normativamente dovuti.
In giurisprudenza è stato, infatti, anche chiarito che “la
convenzione di lottizzazione rappresenta un istituto di
complessa ricostruzione, a causa dei profili di stampo
giuspubblicistico che si accompagnano allo strumento
dichiaratamente contrattuale (…) frutto dell'incontro di
volontà delle parti contraenti nell'esercizio dell'autonomia
negoziale retta dal codice civile.
Tale ricostruzione conserva la sua validità anche nelle
ipotesi (…) in cui alcuni contenuti dell'accordo vengono
proposti dall'Amministrazione in termini non modificabili
dal privato, essendo evidente che una tale evenienza non
esclude che la parte che abbia sottoscritto la convenzione,
conoscendone il contenuto, abbia inteso aderirvi e ne resti
vincolata, salvo il ricorso agli strumenti di tutela in caso
di invalidità del contratto”.
---------------
Nella fattispecie in esame, la puntuale e dettagliata
descrizione degli obblighi inerenti gli oneri di
urbanizzazione primaria, contenuta nelle convenzioni, induce
questo Collegio a ritenere che gli stessi siano il risultato
di una libera negoziazione tra le parti e non possano
ascriversi alla imposizione unilaterale del Comune, come,
invece, preteso dalle ricorrenti.
In tal senso depone, invero, non solo la sottoscrizione da
parte di tutti i lottizzanti della relazione illustrativa
allegata alla deliberazione consiliare n. 39/2000 (ovvero
l’atto in forza del quale è stata sottoscritta la prima
convenzione) ma anche la lunga “pausa di riflessione”
intercorsa tra l’adozione dei piani particolareggiati e la
stipula delle relative convenzioni, di cui si è già dianzi
detto, la chiara descrizione, contenuta nelle convenzioni
medesime, delle opere di urbanizzazione primaria che i
lottizzanti si sono impegnati a realizzare e cedere
gratuitamente al Comune, la precisa quantificazione del loro
importo complessivo, la precisazione che si tratta di opere
“interne alla lottizzazione” e, infine, la clausola,
contenuta all’art. 8, il quale -a proposito della piena ed
esatta esecuzione dei lavori e delle opere di cui all’art. 6
e della loro manutenzione, nonché a garanzia della cessione
delle relative aree– ha previsto la costituzione di
“cauzione", da svincolarsi solo “al collaudo finale delle
opere rispettive, di ogni singolo lotto”, fatto salvo
l’obbligo di integrarne il valore e/o di ricostruirla in
caso di avvenuto, totale o parziale, utilizzo a seguito di
inadempienze.
L’inequivoca volontà espressa dalle parti contraenti
appalesa, quindi, che i lottizzanti hanno inteso liberamente
assumere gli impegni patrimoniali previsti in convenzione,
anche se, per ventura, ritenuti maggiori e più onerosi
rispetto a quelli minimi astrattamente previsti dalla legge:
impegno questo che, come già dianzi evidenziato, rientra, in
ogni caso, nella piena disponibilità delle parti, posto che
la normativa vigente non esclude affatto che le parti
possano, per valutazioni di convenienza, regolare il
rapporto in termini diversi.
Pare, quindi, condivisibile e mutuabile l’osservazione del
Comune laddove richiama l’attenzione sul fatto che “la
previsione della convenzione urbanistica, assunta per mutuo
accordo tra le parti e non contrastante con alcuna
previsione normativa, ha carattere vincolante tra esse e non
può invocarsene la parziale nullità per la parte eccedente
le opere di urbanizzazione rispetto al minimo di legge,
pacificamente derogabile”.
Va, in primo luogo, rammentato che il termine “opere di
urbanizzazione” indica l’insieme degli interventi necessari
a rendere una porzione di territorio idonea all’uso
insediativo previsto dagli strumenti urbanistici vigenti
ovvero a garantire l’uso futuro dei nuovi edifici realizzati
e la vita di relazione degli abitanti.
Le opere di urbanizzazione primaria -che rappresentano la
premessa indispensabile all’edificabilità dell’area e alla
possibilità che essa ospiti insediamenti abitativi o
produttivi- comprendono tutte le attrezzature a rete o
infrastrutture, necessarie per assicurare all’area medesima
l’idoneità insediativa in senso tecnico, cioè tutte quelle
attrezzature che rendono possibile l’uso degli edifici, tra
cui, ai fini che qui rilevano, le strade locali.
Le opere di urbanizzazione secondaria includono, invece,
tutte quelle attrezzature di carattere locale che rendono
l’insediamento funzionale per gli abitanti, garantendo la
vita di relazione.
---------------
Con
specifico riguardo alla convenienza economica
dell’operazione deve, peraltro, evidenziarsi che in
giurisprudenza è stato condivisibilmente affermato che “gli
impegni assunti in sede convenzionale non vanno riguardati
isolatamente, ma vanno rapportati alla complessiva remuneratività dell'operazione, che costituisce il reale
parametro per valutare l'equilibrio del sinallagma
contrattuale e, quindi, la sostanziale liceità degli impegni
stessi. In altri termini, la causa della convenzione
urbanistica e cioè l'interesse che l'operazione contrattuale
è diretta a soddisfare, va valutata non con riferimento ai
singoli impegni assunti, ma con riguardo alla oggettiva
funzione economico-sociale del negozio, in cui devono
trovare equilibrata soddisfazione sia gli interessi del
privato che della pubblica amministrazione” (C.d.S., V, 26.11.2013, n. 5603).
Al di là delle considerazioni sin qui svolte sulla
qualificazione della strada oggetto di contestazione e sulla
liceità sostanziale complessiva degli impegni assunti, già
di per sé sufficienti ad appalesare l’infondatezza degli
assunti delle ricorrenti, risultano, comunque, condivisibili
le puntuali osservazioni proposte dalla difesa dell’ente
civico sulla derogabilità della quota di partecipazione dei
privati alle opere di urbanizzazione e sulla prevalenza del
profilo della libera negoziazione affermatasi nell’ambito
delle convenzioni di lottizzazione.
In giurisprudenza è stato, infatti, affermato che
“l'assunzione nell'ambito di una lottizzazione di
obbligazioni ulteriori rispetto a quelle espressamente
previste dalla legge, non possa di per sé essere esclusa e
tantomeno automaticamente ricondotta a fenomeni estorsivi o
comunque di <costrizione>” e che “(…) non esiste
nell'ordinamento una norma generale che impedisca, in sede
di convenzione urbanistica, la libera erogazione di
ulteriori contribuzioni rispetto a quelle fissate dalla
legge che, quindi, costituiscono semplicemente il minimo
legale” (C.d.S., V, 26.11.2013, n. 5603).
Gli accordi sostitutivi ex art. 11 legge 07.08.1990, n.
241, al cui modello procedimentale vanno ricondotte le
convenzioni urbanistiche, consentono, infatti, di conseguire
un assetto di interessi diverso e più ampio di quello
conseguibile con il rilascio del provvedimento
amministrativo unilaterale, fermo restando, in ogni caso, la
sua finalizzazione alle esigenze di urbanizzazione
dell’area.
E’ da ritenersi, peraltro, pacifico che il Comune possa
richiedere e il lottizzante accettare la realizzazione di
opere eccedenti rispetto agli oneri di urbanizzazione
normativamente dovuti.
In giurisprudenza è stato, infatti, anche chiarito che “la
convenzione di lottizzazione rappresenta un istituto di
complessa ricostruzione, a causa dei profili di stampo giuspubblicistico che si accompagnano allo strumento
dichiaratamente contrattuale (…) frutto dell'incontro di
volontà delle parti contraenti nell'esercizio dell'autonomia
negoziale retta dal codice civile.
Tale ricostruzione conserva la sua validità anche nelle
ipotesi (…) in cui alcuni contenuti dell'accordo vengono
proposti dall'Amministrazione in termini non modificabili
dal privato, essendo evidente che una tale evenienza non
esclude che la parte che abbia sottoscritto la convenzione,
conoscendone il contenuto, abbia inteso aderirvi e ne resti
vincolata, salvo il ricorso agli strumenti di tutela in caso
di invalidità del contratto” (C.d.S., IV, 28.07.2005, n.
4015; in termini C.d.S., IV, del 22.01.2013, n. 351).
Orbene, nella fattispecie in esame, la puntuale e
dettagliata descrizione degli obblighi inerenti gli oneri di
urbanizzazione primaria, contenuta nelle convenzioni del
2001 e 2004 (in entrambe agli artt. 5 e 6), induce questo
Collegio a ritenere che gli stessi siano il risultato di una
libera negoziazione tra le parti e non possano ascriversi
alla imposizione unilaterale del Comune, come, invece,
preteso dalle ricorrenti.
In tal senso depone, invero, non solo la sottoscrizione da
parte di tutti i lottizzanti della relazione illustrativa
allegata alla deliberazione consiliare n. 39/2000 (ovvero
l’atto in forza del quale è stata sottoscritta la prima
convenzione), ove, ai fini che qui rilevano, viene
specificato che le opere di urbanizzazione primaria sono
costituite dalla “viabilità di progetto via Oberdan – via
Belvedere” (vedi all. 1, pag. 21, sub pt. 3.6 – fascicolo
doc. Comune), ma anche la lunga “pausa di riflessione”
intercorsa tra l’adozione dei piani particolareggiati e la
stipula delle relative convenzioni, di cui si è già dianzi
detto, la chiara descrizione, contenuta nelle convenzioni
medesime, delle opere di urbanizzazione primaria che i
lottizzanti si sono impegnati a realizzare e cedere
gratuitamente al Comune, la precisa quantificazione del loro
importo complessivo, la precisazione che si tratta di opere
“interne alla lottizzazione” e, infine, la clausola,
contenuta all’art. 8, il quale -a proposito della piena ed
esatta esecuzione dei lavori e delle opere di cui all’art. 6
e della loro manutenzione, nonché a garanzia della cessione
delle relative aree– ha previsto la costituzione di
“cauzione", da svincolarsi solo “al collaudo finale delle
opere rispettive, di ogni singolo lotto”, fatto salvo
l’obbligo di integrarne il valore e/o di ricostruirla in
caso di avvenuto, totale o parziale, utilizzo a seguito di
inadempienze.
L’inequivoca volontà espressa dalle parti contraenti
appalesa, quindi, che i lottizzanti hanno inteso liberamente
assumere gli impegni patrimoniali previsti in convenzione,
anche se, per ventura, ritenuti maggiori e più onerosi
rispetto a quelli minimi astrattamente previsti dalla legge:
impegno questo che, come già dianzi evidenziato, rientra, in
ogni caso, nella piena disponibilità delle parti, posto che
la normativa vigente non esclude affatto che le parti
possano, per valutazioni di convenienza, regolare il
rapporto in termini diversi (cfr., CdS, Sez. V, 29.09.1999, n. 1209).
Pare, quindi, condivisibile e mutuabile l’osservazione del
Comune, laddove, pag. 10 della memoria depositata in data 08.05.2015, richiama l’attenzione sul fatto che “la
previsione della convenzione urbanistica, assunta per mutuo
accordo tra le parti e non contrastante con alcuna
previsione normativa, ha carattere vincolante tra esse e non
può invocarsene la parziale nullità per la parte eccedente
le opere di urbanizzazione rispetto al minimo di legge,
pacificamente derogabile”.
Per converso, sono prive di pregio le deduzioni difensive
dei ricorrenti, laddove pretendono di far discendere dalla
qualificazione della strada in questione in termini di
“opera di urbanizzazione primaria” l’impossibilità per esse
di sottrarsi al relativo onere, essendo evidente che la
libera negoziazione degli obblighi convenzionali non può
venir pregiudicata dall’eventuale impropria inclusione tra
le opere del tipo dianzi detto di un onere aggiuntivo
liberamente assunto.
In definitiva, le clausole convenzionali non sono affette da
alcuna nullità e costituiscono giustificazione idonea e
sufficiente per l’assunzione da parte dei lottizzanti degli
oneri per la realizzazione della strada di lottizzazione.
Ne deriva, l’insussistenza di valide ragioni giuridiche per
riconoscere, a qualsiasi titolo, il diritto delle medesime
ad ottenere in tutto o in parte il rimborso delle spese
conseguentemente sostenute e ciò anche in considerazione del
fatto che, come agevolmente si ritrae dalla lettura
dell’art. 6 della/e convenzione/i e dalle condivisibili
argomentazioni svolte dalla difesa del Comune, cui si
rinvia, la prestazione relativa alle “opere di
urbanizzazione primaria” individuate nella medesima norma è
stata concepita dalla parti contraenti quale prestazione “a
corpo” e non “a misura”, con conseguente irripetibilità
anche degli eventuali maggiori costi asseritamente
sostenuti, peraltro del tutto indimostrati
(TAR Friuli Venezia Giulia,
sentenza 23.07.2015 n. 354 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
normativa in tema di parcheggi costituisce un corpus di
regole speciali (art. 41-sexies della legge n. 1150/1942;
d.m. 1444/1968; art. 18 legge n. 765/1989; legge n.
122/1989) connotate da un evidente regime di favor,
strettamente connesse e funzionali per le amministrazioni
locali all’obiettivo di garantire ed assicurare alla
collettività un adeguato livello di standards
quali-quantitativi nell’ambito della predisposizione del
complesso sistema delle infrastrutture e dei servizi ai
cittadini.
---------------
Per tutti gli spazi a parcheggio, quale che sia la sorte del
vincolo pertinenziale di stampo privatistico rispetto alle
costruzioni servite, deve ritenersi indiscutibile la
permanenza e la inderogabilità del vincolo pubblicistico di
destinazione, quale connotazione necessaria dell'essere
quegli spazi funzionali al perseguimento di primarie
esigenze della collettività, legate alla stessa vivibilità
degli spazi urbani.
Ne consegue che in nessun caso potrebbe essere consentito il
cambio di destinazione d'uso in relazione agli immobili
predetti, dato che sarebbe contro ogni logica che il diverso
uso individuale possa prevalere sulla destinazione a
parcheggio che partecipa dei suddetti caratteri di rilevanza
pubblica.
Tale destinazione deve pertanto orientare, a guisa di vero e
proprio vincolo, l'azione della pubblica amministrazione dal
momento che consentire, per il tramite dell'autorizzazione
al cambio di destinazione d'uso, la sottrazione di spazi
destinati a garage realizzati grazie al meccanismo
derogatorio di legge dianzi brevemente descritto,
equivarrebbe certamente ad infrangere un vincolo di
inedificabilità.
3. La ricostruzione attorea non convince essendo basata su
un’erronea interpretazione della normativa in tema di
parcheggi che costituisce un corpus di regole speciali (art. 41-sexies della legge n. 1150/1942; d.m. 1444/1968;
art. 18 legge n. 765/1989; legge n. 122/1989) connotate da un
evidente regime di favor, strettamente connesse e funzionali
per le amministrazioni locali all’obiettivo di garantire ed
assicurare alla collettività un adeguato livello di standards quali-quantitativi nell’ambito della
predisposizione del complesso sistema delle infrastrutture e
dei servizi ai cittadini.
Tanto premesso la circostanza secondo cui il permesso di
costruire n. 15/2002 rilasciato per la costruzione delle due
autorimesse in questione sarebbe stato emesso a titolo
oneroso, e non avrebbe natura pertinenziale, non equivale a
ritenere per ciò solo sottratto il titolo edilizio al regime
di favor della normativa di settore predetto.
Ed infatti anche per i parcheggi non pertinenziali da
realizzarsi in aree libere nel sottosuolo o al pian terreno
di fabbricati l’art. 6, comma 2, della legge regionale
Campania n. 19/2001 prevede la possibilità di realizzarli “in
deroga” agli strumenti urbanistici vigenti.
Né alcun rilievo può attribuirsi alla circostanza secondo
cui il permesso di costruire sarebbe stato rilasciato “a
titolo oneroso” e non a titolo gratuito, dal momento che la
gratuità presuppone, innanzitutto, che si tratti di
autorimesse e parcheggi, realizzate in locali preesistenti o
totalmente al di sotto del piano di campagna naturale,
mentre nella specie le autorimesse sono state realizzate “ex
novo” ed il complesso immobiliare autorizzato non è
completamente interrato poiché con il permesso di costruire
n. 15 cit. oltre la costruzione delle due autorimesse è
stata altresì assentita la realizzazione di due sovrastanti
strutture a carattere smontabile complete di tettoie.
A ciò aggiungasi che per i parcheggi non connotati da
vincolo di pertinenzialità trova applicazione l’art. 41-quinquies, l. 17.08.1942, n. 1150 relativa agli spazi
per parcheggi da conteggiarsi ai fini della dotazione di
standard.
Per tale ragione non può validamente sostenersi che il
mutamento di destinazione d’uso avverrebbe nell’ambito della
medesima categoria omogenea, stante la peculiarità della
destinazione d’uso attribuita e del regime giuridico
agevolato cui è assoggettato il rilascio di titoli edilizi
per la realizzazione di autorimesse anche non pertinenziali
sulla cui base l’intervento assentito appare per lo più
sussumibile nell’ambito di una destinazione a “servizi” che
non di tipo produttivo commerciale.
Cionondimeno per tutti
gli spazi a parcheggio, quale che sia la sorte del vincolo pertinenziale di stampo privatistico rispetto alle
costruzioni servite, deve ritenersi indiscutibile la
permanenza e la inderogabilità del vincolo pubblicistico di
destinazione, quale connotazione necessaria dell'essere
quegli spazi funzionali al perseguimento di primarie
esigenze della collettività, legate alla stessa vivibilità
degli spazi urbani.
Ne consegue che in nessun caso potrebbe essere consentito il
cambio di destinazione d'uso in relazione agli immobili
predetti, dato che sarebbe contro ogni logica che il diverso
uso individuale possa prevalere sulla destinazione a
parcheggio che partecipa dei suddetti caratteri di rilevanza
pubblica. Tale destinazione deve pertanto orientare, a guisa
di vero e proprio vincolo, l'azione della pubblica
amministrazione dal momento che consentire, per il tramite
dell'autorizzazione al cambio di destinazione d'uso, la
sottrazione di spazi destinati a garage realizzati grazie al
meccanismo derogatorio di legge dianzi brevemente descritto,
equivarrebbe certamente ad infrangere un vincolo di
inedificabilità
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 22.07.2015 n. 3872 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Anche in presenza di un cambio di destinazione
d’uso che intervenga all’interno della medesima categoria
funzionale la giurisprudenza amministrativa lo ha ritenuto
urbanisticamente rilevante ogni qual volta esso abbia
comportato un aumento o un aggravamento del carico
urbanistico insistente sull’area.
Sicché, nei casi di stabile mutamento di utilizzazione
dell'immobile o di porzioni di esso, ascrivibili ad una
diversa e più onerosa classe contributiva, occorre garantire
un regime contributivo conforme alla nuova tipologia d’uso,
non potendo ammettersi che l’intervento si giovi del più
favorevole regime contributivo applicato per la destinazione
originaria.
4. Del resto pur a voler accedere alla tesi di parte
ricorrente circa l’ascrivibilità dell’autorimessa in
argomento alla destinazione d’uso commerciale non può
comunque predicarsi l’assunta omogeneità con la destinazione
ad attività di ristorazione e di accoglienza riconducibile
alla diversa categoria funzionale ricettiva come ora
disciplinata dalla lett. a) dell’art. 23-bis del t.u.ed.
inserito dall’art. 17 del d.l. c.d. sblocca Italia n. 133 del
12.09.2014 che ha introdotto la definizione di ”mutamento di
destinazione d’uso urbanisticamente rilevante” come quello
comportante il passaggio ad una diversa categoria funzionale
tra quelle ivi elencate laddove la categoria funzionale
“commerciale” è riportata alla lettera sub c) e quella
ricettiva alla diversa lettera sub b) [nella versione
applicabile ratione temporis anteriormente alle modifiche
apportate dalla legge di conversione n. 164/2014 che ha
disgiunto la destinazione turistico ricettiva sub a-bis)
dalla residenziale sub a)].
4.1 Peraltro anche in presenza di un cambio di destinazione
d’uso che intervenga all’interno della medesima categoria
funzionale la giurisprudenza amministrativa lo ha ritenuto
urbanisticamente rilevante ogni qual volta esso abbia
comportato un aumento o un aggravamento del carico
urbanistico insistente sull’area (cfr. Consiglio Stato,
sez. V, 29.01.2009 n. 498). Sicché, nei casi di stabile
mutamento di utilizzazione dell'immobile o di porzioni di
esso, ascrivibili ad una diversa e più onerosa classe
contributiva, occorre garantire un regime contributivo
conforme alla nuova tipologia d’uso, non potendo ammettersi
che l’intervento si giovi del più favorevole regime
contributivo applicato per la destinazione originaria (cfr. Tar Palermo sez. I 10.04.2015 n. 857).
5. Né sotto altro profilo può dirsi percorribile l’opzione
sulla cui base la modifica di destinazione in questione
intervenendo tra categorie omogenee non abbisognerebbe del
previo rilascio del permesso essendo assoggettabile a scia.
Al riguardo parte ricorrente non ha espressamente impugnato
la nota prot. 23544 dell’08.07.2014 con cui
l’amministrazione comunale le contestava l’insussistenza dei
requisiti e dei presupposti della scia preventivamente
presentata in data 04.06.2014. Sicché non può dolersi della
non assoggettabilità dell’intervento in oggetto a permesso
di costruire avendo prestato acquiescenza al predetto atto
anche tramite il successivo inoltro nel mese di agosto del
2014 dell’istanza di rilascio del permesso di costruire in
esame
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 22.07.2015 n. 3872 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI:
a) nel regime transitorio previsto dal comma 12,
prima parte, dell'art. 375 del d.P.R. n. 207 del 2010 per le
categorie non modificate dal nuovo regolamento, di validità
delle attestazioni rilasciate nella vigenza del d.P.R. n. 34
del 2000 “fino alla naturale scadenza prevista per ciascuna
di esse”, è applicabile l'onere di verifica triennale
imposto prima dall'art. 15-bis del d.P.R. n. 34 del 2000 e
poi dall'art. 77 del d.P.R. n. 207 del 2010;
b) nel regime transitorio dettato dall'art. 375, commi 13,
16 e 17, del d.P.R. n. 207 del 2010 e ss.mm.ii. per le
categorie "variate” non sussiste, durante il regime di
proroga, l'obbligo di verifica triennale, di cui agli artt.
15-bis del d.P.R. n. 34 del 2000 e 77 del d.P.R. n. 207 del
2010;
c) nelle gare di appalto per l’aggiudicazione di contratti
pubblici i requisiti generali e speciali devono essere
posseduti dai candidati non solo alla data di scadenza del
termine per la presentazione della richiesta di
partecipazione alla procedura di affidamento, ma anche per
tutta la durata della procedura stessa fino
all’aggiudicazione definitiva ed alla stipula del contratto,
nonché per tutto il periodo dell’esecuzione dello stesso,
senza soluzione di continuità.
...
7. - Con il primo quesito viene posto a questa
Adunanza Plenaria il problema se, nel regime transitorio
dettato dall’art. 357 del D.P.R. 05/10/2010, n. 207
(Regolamento di esecuzione ed attuazione del decreto
legislativo 12.04.2006, n. 163, recante «Codice dei
contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in
attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE») ed
in particolare per il caso di bandi di gara pubblicati
precedentemente alla data di entrata in vigore del
regolamento (la gara d'appalto de qua è stata indetta con
bando trasmesso alla G.U.U.E. il 28.03.2011 e pubblicato
sulla G.U.R.I. il 01.04.2011), le disposizioni di cui ai
commi 12, 13, 16 e 17 del citato art. 357, per le
attestazioni SOA rilasciate secondo la “vecchia”
normativa di cui al D.P.R. n. 34/2000 (delle quali le dette
norme transitorie prevedono un periodo di ultrattività, come
si vedrà differenziato a seconda che si tratti di
attestazioni relative a categorie variate o meno dal
regolamento stesso ed in particolare, per quanto rileva nel
presente giudizio, alla categoria variata OG11 ed alla
categoria non variata OG1), sia comunque necessario, per
usufruire della “prorogatio“ successiva all’entrata
in vigore del regolamento e per il periodo ivi considerato
in misura come s’è detto distinta tra categorie variate o
meno, il requisito della verifica triennale, come prescritta
prima dall’art. 15-bis del d.P.R. n. 34 del 2000 e poi
dall’art. 76 del d.P.R. n. 207 del 2010; se, in definitiva,
detto adempimento debba considerarsi “doveroso” o
meno nell’anzidetto periodo transitorio ai fini del valido
utilizzo delle attestazioni SOA.
Osserva anzitutto il Collegio che così dispongono le citate
disposizioni transitorie: “12. Le attestazioni rilasciate
nella vigenza del decreto del Presidente della Repubblica n.
34 del 2000 nelle categorie non modificate dal presente
regolamento hanno validità fino alla naturale scadenza
prevista per ciascuna di esse; gli importi ivi contenuti,
dal cinquecentoquarantaseiesimo giorno dalla data di entrata
in vigore del presente regolamento, si intendono sostituiti
dai valori riportati all'articolo 61, commi 4 e 5. Cessano
di avere validità a decorrere dal
cinquecentoquarantaseiesimo giorno dalla data di entrata in
vigore del presente regolamento le attestazioni relative
alla categoria OG 11 di cui all' allegato A del decreto del
Presidente della Repubblica n. 34 del 2000, nonché le
attestazioni relative alle categorie OS 7, OS 8, OS 12, OS
18, OS 21, di cui all' allegato A del decreto del Presidente
della Repubblica n. 34 del 2000, e alla categoria OS 2,
individuata ai sensi del decreto del Presidente della
Repubblica n. 34 del 2000 e rilasciata ai sensi del
regolamento di cui al decreto del Ministro per i beni e le
attività culturali 03.08.2000, n. 294, e successive
modificazioni, relative a imprese che hanno ottenuto, a
seguito della riemissione dei certificati di esecuzione dei
lavori ai sensi del comma 14-bis, l'attestazione nelle
corrispondenti categorie modificate dal presente regolamento
…
13. Le attestazioni relative alle categorie OG 10, OG 11, OS
7, OS 8, OS 12, OS 18, OS 20, OS 21, di cui all'allegato A
del decreto del Presidente della Repubblica 25.01.2000, n.
34, e OS 2, individuata ai sensi del decreto del Presidente
della Repubblica 25.01.2000, n. 34 , e rilasciata ai sensi
del D.M. 03.08.2000, n. 294 , come modificato dal D.M.
24.10.2001, n. 420 , la cui scadenza interviene nel periodo
intercorrente tra la data di pubblicazione del presente
regolamento e la data di entrata in vigore dello stesso, si
intendono prorogate fino alla data di entrata in vigore del
presente regolamento…
16. Per trecentosessantacinque giorni successivi alla data
di entrata in vigore del presente regolamento, i soggetti di
cui all' articolo 3 , comma 1, lettera b), ai fini della
predisposizione dei bandi o degli avvisi con cui si indice
una gara nonché in caso di contratti senza pubblicazione di
bandi o avvisi ai fini della predisposizione degli inviti a
presentare offerte, applicano le disposizioni del decreto
del Presidente della Repubblica 25.01.2000, n. 34 e le
categorie del relativo allegato A. Per
trecentosessantacinque giorni successivi alla data di
entrata in vigore del presente regolamento, ai fini della
partecipazione alle gare riferite alle lavorazioni di cui
alle categorie OG 10, OG 11, OS 7, OS 8, OS 12, OS 18, OS
20, OS 21, di cui all' allegato A del decreto del Presidente
della Repubblica 25.01.2000, n. 34, e OS 2 individuata ai
sensi del decreto del Presidente della Repubblica
25.01.2000, n. 34, e rilasciata ai sensi del D.M.
03.08.2000, n. 294 , come modificato dal D.M. 24.10.2001, n.
420, la dimostrazione del requisito relativo al possesso
della categoria richiesta avviene mediante presentazione
delle attestazioni di qualificazione rilasciate dalle SOA in
vigenza del decreto del Presidente della Repubblica
25.01.2000, n. 34 , purché in corso di validità alla data di
entrata in vigore del presente regolamento anche per effetto
della disposizione di cui al comma 13.
17. Le attestazioni di qualificazione rilasciate dalle SOA
relative alle categorie OG 10, OG 11, OS 2-A, OS 2-B, OS 7,
OS 8, OS 12-A, OS 12-B, OS 18-A, OS 18-B, OS 20-A, OS 20-B,
OS 21 e OS 35, di cui all' allegato A del presente
regolamento, possono essere utilizzate, ai fini della
partecipazione alle gare, a decorrere dal
trecentosessantaseiesimo giorno dalla data di entrata in
vigore del presente regolamento”.
Ciò posto, precisato che l'art. 1, comma 1, D.L. 06.06.2012,
n. 73 , convertito, con modificazioni, dalla L. 23.07.2012,
n. 119, ha prorogato di centottanta giorni i termini di cui
ai veduti commi 15, 16 e 17 e che non è contestato che il
bando della gara del cui esito qui si controverte ha fatto
regolare applicazione delle disposizioni del decreto del
Presidente della Repubblica 25.01.2000, n. 34 e delle
categorie del relativo allegato “A”, la risposta al primo
quesito posto dalla Sezione remittente mérita un
differenziato esame (che comporta, come si vedrà, un diverso
ésito), a seconda che si tratti della disciplina transitoria
dettata per le categorie non variate o di quella prevista
per le categorie variate ad opera del d.P.R. n. 207 del
2010.
7.1 - Invero, quanto alla prima, nel veduto quadro
normativo, una volta abrogato il decreto del Presidente
della Repubblica 25.01.2000, n. 34 “fermo quanto disposto
dall’articolo 357” (art. 358, comma 1, lett. d), del
d.P.R. n. 207/2010) con decorrenza dalla data di entrata in
vigore di quest’ultimo, non v’è dubbio, ad avviso del
Collegio, che, sulla base del chiaro disposto del primo
periodo del veduto comma 12 (“le attestazioni rilasciate
nella vigenza del decreto del Presidente della Repubblica n.
34 del 2000 nelle categorie non modificate dal presente
regolamento hanno validità fino alla naturale scadenza
prevista per ciascuna di esse …”), la conferma di
validità delle attestazioni in corso valga anche a
configurare un’implicita, ma inequivoca, applicabilità
dell’onere di verifica triennale, che medio tempore maturi,
richiesto sia dalla normativa previgente (art. 15-bis del
d.P.R. n. 34/2000), che dal nuovo testo regolamentare (art.
77 del d.P.R. n. 207/2010).
Se, infatti, le attestazioni rilasciate nella vigenza del
d.P.R. n. 34/2000 per le categorie non modificate dal “nuovo”
regolamento (ivi compresa, per quanto più da vicino riguarda
la fattispecie all’esame, la categoria “OG1”)
conservano la loro validità per l’intera originaria durata
della loro efficacia (cinque anni, ai sensi del primo
periodo del comma 5 dell’art. 15 del d.P.R. n. 34/2000),
tale norma transitoria, che si pone in palese linea di
continuità con la durata a regime prevista sia dalla “vecchia”
normativa che dalla “nuova” (v. il primo periodo del
comma 5 dell’art. 76 del d.P.R. n. 207/2010), dev’essere
interpretata nel senso che le imprese concorrenti devono
essere in grado di provare, ai fini della partecipazione
alla procedura selettiva per l’aggiudicazione di appalti di
lavori pubblici, il possesso dell’attestazione SOA richiesta
sia nel vecchio che nel nuovo regime con caratteri e
requisiti immutati, della cui persistente validità fino alla
naturale scadenza del quinquennio (sulla quale il
legislatore non è intervenuto innovativamente nemmeno per la
sola fase transitoria) costituisce pacificamente condizione
indefettibile, derivante per la fase transitoria dal
sottolineato integrale carattere di continuità tra “vecchio”
e “nuovo” regime, l’anzidetto onere di verifica
triennale, ch’è coessenziale alla durata quinquennale
dell’attestazione, al chiaro fine di prevenire ogni
diminuzione del livello qualitativo delle imprese in così
lungo periodo; livello, questo, i cui caratteri, come s’è
detto, restano immutati nel passaggio tra un regime e
l’altro, sì che non possono che restarne confermate le
garanzie all’uopo predisposte dal sistema (Cons. St., III,
12.11.2014, n. 5573; Cons. St., ad. plen., 18.07.2012, n.
27, secondo cui, tra l’altro, “fra i titoli da presentare
ai sensi dell’art. 11, c. 8, del d.lgs. n. 163 del 2006,
perché l’aggiudicazione sia efficace rientra anche
l’attestazione dell’esito positivo della verifica” in
questione).
Va peraltro precisato che una tale interpretazione delle
vedute disposizioni transitorie riguardanti le categorie non
modificate dal Regolamento del 2010, oltre a rispettare
l’evidente, già sottolineato, principio di continuità che
connota il passaggio della disciplina delle relative
attestazioni SOA dal d.P.R. n. 34/2000 al d.P.R. n.
207/2010, non mette in alcun modo a repentaglio:
- i principi di certezza del diritto e di buona fede ed
affidamento reciproco che devono improntare i rapporti tra
stazioni appaltanti ed operatori economici circa
l’individuazione della normativa applicabile alle gare
ricadenti in tale periodo transitorio, così come l’esigenza
sottolineata dall’Ordinanza di rimessione di esaustività del
“complesso delle regole destinate a presidiare la fase di
transizione dal vecchio al nuovo regime normativo”, dal
momento che l’univocità del bando nel prevedere classi e
categorie dei lavori con riferimento al DPR n. 34/2000
(sulla cui vigenza ed applicabilità alla procedura di gara
le concorrenti dovevano intendersi dunque espressamente
avvisate sin dalla sua indizione), nonché la conferma nel
periodo transitorio della “normale” durata
dell’efficacia delle attestazioni relative alle categorie
non modificate, non potevano indurre in dubbio i soggetti
interessati circa la normale “attrazione” nella
disciplina transitoria anche dell’onere di verifica
intermedia, che, quale componente essenziale della
fattispecie normativa della fissazione al quinquennio della
“naturale” durata dell’attestazione (Cons. St., ad.
plen., n. 27/2012, cit.), produce notoriamente
nell’ordinamento uno specifico effetto di determinazione
della validità o meno della stessa dopo il triennio dal
rilascio e dunque condiziona la stessa ininterrotta
efficacia quinquennale dell’attestazione.
Effetto, questo, che non può certo considerarsi sic et
simpliciter eliso sol perché la normale durata
quinquennale dell’attestazione viene qui in considerazione
in quanto confermata dalla norma transitoria, che, nella
misura in cui ha appunto mero carattere di conferma, non può
che ricomprendere tutti i caratteri del regime confermato;
il che non può sfuggire ad ogni operatore qualificato,
accorto e diligente, che deve seguire l’evoluzione normativa
delle regole che ne disciplinano l’attività secondo cànoni
di professionalità, responsabilità ed in definitiva di
riduzione del rischio derivante dal mancato adempimento di
oneri posti in realtà a tutela del corretto funzionamento
del complesso mercato ristretto di cui si tratta;
- l’esigenza di non gravare le imprese di oneri inutilmente
gravosi, atteso che, nel passaggio dalle “vecchie”
alle “nuove” disposizioni, la tempistica come sopra
disegnata della progressiva entrata a regime delle nuove
qualificazioni ai fini SOA per le categorie non modificate
dal nuovo regolamento lascia invariata sia la scadenza
finale che quella intermedia delle attestazioni rilasciate
anteriormente alla data della sua entrata in vigore, con
conseguente invarianza sia degli adempimenti che dei costi
di certificazione gravanti sulle imprese, che, pur libere di
dotarsi da subito di una nuova attestazione nel nuovo regime
(come nella fattispecie incontestatamente accaduto a seguito
di rilascio di una nuova attestazione con decorrenza di
validità dal 22.09.2011), possono utilizzare le
qualificazioni SOA rilasciate nella medesima categoria
secondo il previgente allegato “A” del DPR n. 34/2000 per
tutta la loro naturale durata, cui è riconnesso, come s’è
visto, ove ricorrente (come nella fattispecie all’esame, in
cui la data di scadenza del periodo triennale
dell’attestazione ex DPR n. 34/2000 era quella del
31.07.2011), l’onere di provvedere alla presentazione in
termini della domanda di verifica (come precisato dalla
ridetta decisione dell’Adunanza Plenaria n. 27/2012,
l'attestazione decade non soltanto se l'esito della verifica
è negativo, ma anche, ai sensi della normativa, se l'impresa
non vi si sottopone, come nella specie incontestatamente non
vi si è assoggettata, almeno sessanta giorni prima della
scadenza del triennio: comma 1 dell'art. 15-bis del d.P.R.
n. 34/2000, vigente al sessantesimo giorno antecedente al
31.07.2011);
- il corretto espletamento da parte delle SOA della
procedura di verifica triennale, che avrà riguardo, anche
durante il periodo transitorio di cui si tratta, ai
requisiti d’ordine generale, di capacità strutturale e di
congruità organizzativa dettati dal d.P.R. n. 207/2010, che,
una volta come s’è visto intervenuta l’abrogazione del
d.P.R. n. 34/2000 con decorrenza dall’08.06.2011, richiede,
per dette categorie, capacità organizzative ed esecutive in
tutto e per tutto invariate rispetto al sistema anteriore.
Alla luce delle considerazioni di cui sopra e della
documentazione in atti, nel caso all’esame risulta in
definitiva scoperto, quanto alla categoria OG1, il periodo
intercorso dal 31.07.2011 (data di scadenza del periodo di
verifica triennale del certificato ARTIGIANSOA, senza che
fosse stata presentata tempestiva istanza di verifica) al
22.09.2011 (data di efficacia ex nunc del nuovo
certificato rilasciato dalla AXSOA s.p.a.).
7.2 – A diversa conclusione deve pervenirsi quanto alla
disciplina transitoria che riguarda le categorie modificate
dal d.P.R. n. 207 del 2010, fra le quali la categoria “OG11”,
la cui attestazione è contemplata tra i requisiti di
partecipazione alla gara di cui qui si tratta.
Non è al riguardo anzitutto condivisibile l’assunto, secondo
cui la proroga legale nel periodo transitorio della
efficacia delle attestazioni rilasciate sotto il regime del
“vecchio” regolamento sia recata dal secondo periodo
del comma 12 dell’art. 357 più volte citato.
Tale disposizione (“cessano di avere validità a decorrere
dal cinquecentoquarantaseiesimo giorno dalla data di entrata
in vigore del presente regolamento le attestazioni relative
alla categoria OG 11 di cui all' allegato A del decreto del
Presidente della Repubblica n. 34 del 2000, nonché le
attestazioni relative alle categorie OS 7, OS 8, OS 12, OS
18, OS 21, di cui all'allegato A del decreto del Presidente
della Repubblica n. 34 del 2000, e alla categoria OS 2,
individuata ai sensi del decreto del Presidente della
Repubblica n. 34 del 2000 e rilasciata ai sensi del
regolamento di cui al decreto del Ministro per i beni e le
attività culturali 03.08.2000, n. 294, e successive
modificazioni, relative a imprese che hanno ottenuto, a
seguito della riemissione dei certificati di esecuzione dei
lavori ai sensi del comma 14-bis, l'attestazione nelle
corrispondenti categorie modificate dal presente regolamento”),
relativa sì alle categorie “variate” (tra cui la
categoria “OG11”), prevede piuttosto una scadenza
anticipata rispetto alla naturale scadenza quinquennale
delle attestazioni S.O.A. rilasciate nella vigenza del
d.P.R. n. 34 del 2000, quando siffatta scadenza si collochi
in un momento posteriore alla nuova “attestazione nelle
corrispondenti categorie modificate dal presente regolamento”,
che l’impresa potrà poi utilizzare “a decorrere dal
trecentosessantaseiesimo giorno dalla data di entrata in
vigore del presente regolamento” (comma 17; termine poi
prorogato di centottanta giorni); in tal senso, del resto, è
da leggersi, e da condividersi, il comunicato AVCP, con
relativa esemplificazione, del 22.07.2011.
Trattasi di indubbia situazione di svantaggio (e di stimolo
a dotarsi di attestazioni “aggiornate”) per le
imprese che versino in tale situazione, che trova comunque
la sua giustificazione logica e ragionevole nell’esigenza,
tipica di tutte le discipline transitorie, di introdurre uno
spartiacque tra la “vecchia” e la “nuova”
normativa, ancorandolo ad una data precisa, alla quale
fissare la scadenza della validità del possesso dei
requisiti ormai superati dal nuovo ordinamento; nel caso
della disciplina in esame, al fine di consentire un graduale
adeguamento delle attestazioni alla nuova disciplina dei
requisiti di qualificazione per l’esecuzione di lavori
pubblici.
La proroga legale della scadenza quinquennale delle
attestazioni in esame è piuttosto da individuarsi nel
disposto del secondo periodo del comma 16 dell’art. 357 in
considerazione, che, come s’è visto, dispone: “Per
trecentosessantacinque giorni successivi alla data di
entrata in vigore del presente regolamento, ai fini della
partecipazione alle gare riferite alle lavorazioni di cui
alle categorie OG 10, OG 11, OS 7, OS 8, OS 12, OS 18, OS
20, OS 21, di cui all' allegato A del decreto del Presidente
della Repubblica 25.01.2000, n. 34, e OS 2 individuata ai
sensi del decreto del Presidente della Repubblica
25.01.2000, n. 34, e rilasciata ai sensi del D.M.
03.08.2000, n. 294, come modificato dal D.M. 24.10.2001, n.
420, la dimostrazione del requisito relativo al possesso
della categoria richiesta avviene mediante presentazione
delle attestazioni di qualificazione rilasciate dalle SOA in
vigenza del decreto del Presidente della Repubblica
25.01.2000, n. 34, purché in corso di validità alla data di
entrata in vigore del presente regolamento anche per effetto
della disposizione di cui al comma 13” (l'art. 1, comma
1, del D.L. 06.06.2012, n. 73, convertito, con
modificazioni, dalla L. 23.07.2012, n. 119, ha poi prorogato
di centottanta giorni il termine ivi indicato ).
Orbene, siffatta disposizione non può esser letta, ad avviso
del Collegio, nel senso che, per le imprese per le quali la
scadenza triennale dell’attestazione intervenga tra la data
di pubblicazione del nuovo regolamento (v. comma 13) e
quella finale anzidetta di “utilizzabilità” delle
attestazioni rilasciate sotto il precedente regime, esse
siano comunque tenute all’obbligo di verifica triennale.
Se, invero, tale obbligo assolve alla funzione di accertare
la permanenza dei requisiti di qualificazione in capo
all'impresa certificata, onde garantirne l'effettivo
mantenimento fino alla scadenza del quinquennio di validità
della certificazione, osserva il Collegio che l'esigenza di
un controllo attorno all'effettiva permanenza dei requisiti
di qualificazione che avevano consentito l’iniziale rilascio
dell’attestazione non solo non è espressamente previsto
dalla norma di deroga all’ordinario periodo di validità
dell’attestazione (all’interno del quale esso rappresenta
come s’è visto condizione indefettibile della persistenza
della stessa fino alla naturale scadenza del quinquennio),
ma essa deve ritenersi esclusa dalla stessa locuzione “purché
in corso di validità alla data di entrata in vigore del
nuovo regolamento”; locuzione, questa, il cui unico
senso logico ( salvo volerla ritenere meramente pleonastica,
il che non risponde agli ordinari criteri di esegesi
interpretativa ) è quello di ritenere per disposto di legge
la permanenza dei requisiti per tutto il periodo
transitorio, visto che l’unica condizione apposta alla
proroga dell’efficacia dell’attestazione è quella della sua
“validità alla data di entrata in vigore” del
regolamento; donde la non applicabilità alle attestazioni
relative alle categorie variate dell’onere di verifica
triennale.
Del resto, ammesso che l’impresa avanzi in tale periodo
transitorio istanza di verifica dell’attestazione “in
corso di validità” (il che non è pacificamente avvenuto
nel caso di specie), la SOA non potrebbe fare applicazione
dei “vecchi” requisiti di qualificazione per effetto
dell’ormai intervenuta abrogazione delle relative
disposizioni del d.P.R. n. 34/2000 (non fatte salve nel
periodo transitorio, sì che non è più possibile in tale
periodo alcuna qualificazione sulla base delle “vecchie”
categorie di cui all’Allegato “A” al DPR medesimo) e non
potrebbe applicare i nuovi e diversi requisiti, di cui al
DPR n. 207/2010, che il legislatore, col disegno della fase
transitoria di cui si tratta, ha voluto che facessero
ingresso nell’ordinamento solo in un momento storico
successivo (chiaramente senza soluzione di continuità) a
quello di scadenza della fase stessa, com’è reso palese
anche dalla già veduta prescrizione, di cui al comma 17
dell’art. 357, relativa all’utilizzabilità delle nuove
attestazioni.
Ne consegue che, per le categorie non modificate dal nuovo
Regolamento, le attestazioni in corso di validità alla data
di entrata in vigore dello stesso possono essere validamente
utilizzate fino allo scadere del termine di cui al secondo
periodo del comma 16 dell’art. 357 del DPR n. 207/2010,
senza onere di verifica triennale in tale arco temporale.
7.3 – Conclusivamente, al primo quesito posto
dall’Ordinanza di rimessione deve essere data la seguente
soluzione:
a) nel regime transitorio previsto dal
comma 12, prima parte, dell'art. 375 del d.P.R. n. 207 del
2010 per le categorie non modificate dal nuovo regolamento,
di validità delle attestazioni rilasciate nella vigenza del
d.P.R. n. 34 del 2000 “fino alla naturale scadenza
prevista per ciascuna di esse”, è applicabile l'onere di
verifica triennale imposto prima dall'art. 15-bis del d.P.R.
n. 34 del 2000 e poi dall'art. 77 del d.P.R. n. 207 del
2010;
b) nel regime transitorio dettato dall'art. 375, commi 13,
16 e 17, del d.P.R. n. 207 del 2010 e ss. mm. ii. per le
categorie “variate” non sussiste, durante il regime
di proroga, l'obbligo di verifica triennale, di cui agli
artt. 15-bis del d.P.R. n. 34 del 2000 e 77 del d.P.R. n.
207 del 2010.
8. – Si può passare ora all’esame del secondo quesito
sollevato dall’Ordinanza stessa, che conserva la rilevanza
in essa sottolineata, alla luce del fatto che la riscontrata
carenza di continuità dell’attestazione del requisito di
qualificazione per la categoria “OG1” in capo
all’anzidetta ausiliaria è in grado di comportare o meno
l’esclusione dalla gara de qua del R.T.I. risultato
aggiudicatario a seconda della soluzione che venga data al
quesito medesimo.
Premesso, invero, che la menzionata ditta ausiliaria “ha
perso la qualificazione OG1 nel solo periodo intercorrente
tra il 31 luglio e il 22.09.2011 (e, quindi, in un segmento
temporale nel quale nella gara non è accaduto nulla di
rilevant)”, la Sezione remittente dubita che il
deficit di tale requisito in un segmento temporale
intermedio della procedura (diverso dai momenti nei quali
soli assumerebbe “rilievo il possesso dei requisiti di
partecipazione e di qualificazione”) possa comportare “la
necessaria esclusione dell’impresa, che lo ha
provvisoriamente perso, nonostante il suo possesso al
momento della domanda di partecipazione alla gara e
dell’aggiudicazione”; sì che, conclude, il temporaneo
deficit di uno o più requisiti in siffatto arco di tempo “dovrebbe
essere giudicato del tutto ininfluente sulla regolarità del
procedimento e sulla legittimità dell’aggiudicazione”.
Ritiene l’Adunanza Plenaria di dover ribadire la costante
giurisprudenza, anche di questa stessa Adunanza, che ha
affermato il principio generale, secondo cui il possesso dei
requisiti di ammissione si impone a partire dall'atto di
presentazione della domanda di partecipazione e per tutta la
durata della procedura di evidenza pubblica (cfr., fra le
tante, Cons. Stato, sez. IV, 18.04.2014, n. 1987; Cons.
Stato, sez. V, 30.09.2013, n. 4833 e 26.03.2012, n. 1732;
Cons. Stato, sez. III, 13.07.2011, n. 4225; Cons. Stato, Ad.
pl., 25.02.2014, n. 10; nn. 15 e 20 del 2013; nn. 8 e 27 del
2012; n. 1 del 2010).
Invero, per esigenze di trasparenza e di certezza del
diritto, che non collidono col pur rilevante principio del
favor partecipationis, la verifica del possesso, da
parte del soggetto concorrente (ancor prima che
aggiudicatario), dei requisiti di partecipazione alla gara
deve ritenersi immanente all’intero procedimento di evidenza
pubblica, a prescindere dalla indicazione, da parte del
legislatore, di specifiche fasi espressamente dedicate alla
verifica stessa, quali quelle di cui all’art. 11, comma 8,
ed all’art. 48 del D.Lgs. n. 163/2006.
Proprio perché la verifica può avvenire in tutti i momenti
della procedura (a tutela dell’interesse costante
dell’Amministrazione ad interloquire con operatori in via
permanente affidabili, capaci e qualificati), allora in
qualsiasi momento della stessa deve ritenersi richiesto il
costante possesso dei detti requisiti di ammissione; tanto,
vale la pena di sottolineare, non in virtù di un astratto e
vacuo formalismo procedimentale, quanto piuttosto a garanzia
della permanenza della serietà e della volontà dell’impresa
di presentare un’offerta credibile e dunque della sicurezza
per la stazione appaltante dell’instaurazione di un rapporto
con un soggetto, che, dalla candidatura in sede di gara fino
alla stipula del contratto e poi ancora fino all’adempimento
dell’obbligazione contrattuale, sia provvisto di tutti i
requisiti di ordine generale e
tecnico-economico-professionale necessari per contrattare
con la P.A.
Al riguardo va sottolineato che lo stesso legislatore
richiede la dimostrazione delle capacità tecniche (art. 42
del D.Lgs. n. 163/2006 ) ed economica e finanziaria (art. 41
del D.Lgs. n. 163/2006) alle imprese “concorrenti” e
tale qualità l’impresa mantiene indubbiamente per tutta la
durata della procedura, con correlato obbligo di
mantenimento (e di prova del possesso) del corrispondente
requisito richiestole.
D’altra parte, con specifico riferimento all’ambito dei
lavori pubblici, l’art. 92 del D.P.R. n. 207/2010, nel
prescrivere che “il concorrente singolo può partecipare
alla gara qualora sia in possesso dei requisiti
economico-finanziari e tecnico-organizzativi …”, dà
anch’esso rilievo ad un attributo dell’impresa (quello di “concorrente”)
e ad un’attività della stessa (quella di “partecipazione
alla gara”), che hanno un rilievo con tutta evidenza
dinamico, in quanto non si esauriscono in uno o più
specifici momenti, nei quali “soli”, secondo
l’Ordinanza di rimessione, “assume rilievo il possesso
dei requisiti di partecipazione e di qualificazione”;
mentre l’art. 50 dello stesso D.P.R. disciplina i “requisiti
economico-finanziari e tecnico-organizzativi di
partecipazione alla gara” sempre dando rilievo alla “partecipazione”,
che non si riduce certo a specifici passaggi del
procedimento di gara..
E tale specifico onere di continuità in corso di gara del
possesso dei requisiti, è appena il caso di rilevarlo, non
solo è del tutto ragionevole, siccome posto a presidio
dell'esigenza della stazione appaltante di conoscere in ogni
tempo dell’affidabilità del suo interlocutore “operatore
economico” (e dunque di poter monitorare stabilmente la
perdurante idoneità tecnica ed economica del concorrente),
ma è altresì non sproporzionato, essendo assolvibile da
quest’ultimo in modo del tutto agevole, mediante ricorso
all’ordinaria diligenza, che gli operatori professionali
devono tenere al fine di poter correttamente insistere e
gareggiare nel concorrenziale mercato degli appalti
pubblici; il che significa, per quanto qui ne occupa,
garantire costantemente la qualificazione loro richiesta e
la possibilità concreta della sua dimostrazione e verifica.
Diversamente ritenendo, del resto, la naturale flessibilità
temporale dei momenti della procedura che l’Ordinanza di
rimessione assume come “esclusivamente” rilevanti si
tradurrebbe nella assoluta aleatorietà della collocazione,
nell’arco temporale della procedura stessa, dei singoli
momenti, nei quali (“soli”) sarebbero richiesti il
possesso a pena di esclusione dei requisiti e la sua prova;
aleatorietà, questa, che, oltre a contrastare palesemente
con i principi indefettibili della trasparenza e della par
condicio che presiedono all’evidenza pubblica, finirebbe col
collidere con la stessa esigenza, sottolineata
dall’Ordinanza di rimessione in collegamento con il diritto
dell’Unione, di “un controllo ragionevole, trasparente e
proporzionato” in relazione a termini temporali, che la
qui assunta (o, meglio, confermata) interpretazione del
principio di continuità della sussistenza dei requisiti per
tutta la durata della procedura consente, invece, di
assicurare con caratteri di sufficiente certezza (quanto
meno in relazione alla univocità delle conseguenze della
perdita del requisito in qualunque momento della gara essa
si collochi) sia per la stazione appaltante che per gli
operatori concorrenti.
La qui prospettata inconfigurabilità di una qualsivoglia
soluzione di continuità in ordine al possesso dei requisiti
di partecipazione nel corso della procedura di gara tiene
poi anche conto del fatto, già accennato, che trattasi di
requisiti indispensabili per la stessa partecipazione alla
gara (la mancanza dei quali l’amministrazione appaltante può
in ogni momento accertare: Cons. St., V, 12.07.2010, n.
4477), del cui possesso, nel campo dei lavori pubblici,
l’attestazione SOA costituisce lo strumento necessario e
sufficiente, nonché esclusivo, di dimostrazione;
circostanza, questa, che vale ad escludere la stessa sua
pertinenza, come ventilata dall’Ordinanza di rimessione,
alla sola “fase dell’esecuzione dell’appalto”, dal
momento che il sistema di qualificazione di cui all’art. 40
del D.Lgs. n. 163/2006 ( nel pieno rispetto dei principi,
anche comunitari, di par condicio, massima partecipazione
alle procedure di evidenza pubblica e di capacità
tecnico-professionale ed economica degli operatori: v. artt.
45 e ss. della Dir. 31/03/2004, n. 2004/18/CE) richiede
indubbiamente la dimostrazione della qualificazione ad
effettuare i lavori (in termini di esperienze professionali
pregresse dell’operatore e di connotati attuali della sua
struttura organizzativa e della sua capacità economica,
elementi tutti “riassunti” dall’attestazione SOA)
quale requisito indispensabile per la stessa partecipazione
alla gara e dunque fin dal momento dell’ammissione alla
stessa e non certo a far tempo dal momento, eventuale e
successivo, dell’effettuazione concreta dei lavori a seguito
dell’aggiudicazione e del contratto (“la qualificazione
in una categoria abilita l’impresa a partecipare alle gare e
ad eseguire i lavori della propria classifica …”: art.
61, comma 2, del D.P.R. n. 207 del 2010).
Anche, peraltro, nella fattispecie all’esame, alla stregua
del dato sistematico enucleabile dalla disciplina di gara,
il requisito di cui si tratta costituisce invero il titolo
professionale minimo richiesto expressis verbis ai
fini della proficua ammissione e non certo una condizione da
soddisfare successivamente all’aggiudicazione per la
corretta esecuzione del contratto.
Né a diverse conclusioni è dato giungere, come pretenderebbe
nelle sue difese il R.T.I. controinteressato, sol perché si
tratta qui del possesso non dei requisiti generali e
speciali di partecipazione (nella specie attestati dalla
certificazione SOA) da parte del diretto concorrente, ma dei
requisiti richiesti in capo al soggetto indicato come “ausiliario”
dal concorrente stesso, sulla base delle norme in materia di
avvalimento, di cui all’art. 49 del codice dei contratti
pubblici.
A tal proposito, devesi sottolineare che, laddove il
concorrente non sia in possesso delle qualificazioni
necessarie per l’esecuzione in via autonoma delle
lavorazioni oggetto dell’appalto, la dichiarazione dello
stesso di volersi avvalere “dei requisiti di un altro
soggetto o dell’attestazione SOA di altro soggetto”
(comma 1 dell’art. 49, cit.) non vale certo ad escludere che
la stazione appaltante debba essere posta in condizione di
valutare, fin dall’ammissione alla gara e per tutta la
durata della procedura sulla base dei principi sopra
enunciati, l’idoneità dell’offerente all’aggiudicazione del
contratto, anche con riguardo ai requisiti (e dunque al
titolare degli stessi) oggetto di avvalimento.
In definitiva, dunque, un RTI (quale l’odierno
controinteressato), in caso di mancato autonomo possesso, da
parte della mandataria e delle mandanti, dei necessari
requisiti di qualificazione, deve necessariamente indicare
l’impresa ausiliaria, dei cui requisiti si avvalga (
allegando la documentazione, di cui al comma 2 dell’art. 49
cit.); e deve dimostrare il possesso, da parte di
quest’ultima, di tali requisiti e dunque, in caso di
attestazione di qualificazione SOA, di una attestazione
valida ed efficace per tutta la durata della procedura.
Al contrario, la pretesa possibilità che, in caso di ricorso
all’avvalimento, il concorrente possa acquisire (e
dimostrare il possesso) dei requisiti a gara conclusa, in
sede o quanto meno ai soli fini dell’esecuzione,
costituirebbe una precisa violazione delle norme sulla
qualificazione, che sono previste a pena di esclusione e
della parità di trattamento, in danno dei concorrenti più
diligenti.
In base ai canoni dell'imparzialità e della par condicio non
si può infatti consentire che vengano ammesse alla gara
offerte provenienti da soggetti sprovvisti dei requisiti,
che, in ragione della loro peculiare rilevanza sul piano
economico e tecnico, la legge prevede debbano essere "a
qualificazione obbligatoria"; la qualificazione,
insomma, deve essere valutata “in gara” (v. art. 88 del
D.P.R. n. 207/2010).
Ne consegue, sul piano dell’accertamento dei requisiti di
ordine generale e tecnico-professionali ed economici, una
totale equiparazione tra gli operatori economici offerenti
in via diretta e gli operatori economici in rapporto di
avvalimento e dunque, in definitiva, fra i primi e
l’imprenditore, che preferisca seguire la via del possesso
mediato ed indiretto dei requisiti di partecipazione ad una
gara.
Va pertanto escluso chi si avvale di soggetto ausiliario a
sua volta privo del titolo (Cons. St., IV, 19.03.2015, n.
1425).
Né appare rilevante il riferimento al costante indirizzo
giurisprudenziale, secondo cui, in caso di ricorso a tale
istituto (che ha una portata generale), è onere del
concorrente di dimostrare che l'impresa ausiliaria non si
impegna semplicemente a prestare il requisito soggettivo
richiesto, quale mero valore astratto, ma assume
l'obbligazione di mettere a disposizione dell'impresa
ausiliata, in relazione all'esecuzione dell'appalto, le
proprie risorse e il proprio apparato organizzativo, in
tutte le parti che giustificano l'attribuzione del requisito
di qualità (Cons. St., sez. III, 25.02.2014, n. 887;
07.04.2014, n. 1636; sez. IV, 16.01.2014, n. 135; sez. V,
20.12.2013, n. 6125; da ultimo, sez. V, 22.01.2015, n. 257)
e quindi, a seconda dei casi, mezzi, personale, prassi e
tutti gli altri elementi aziendali qualificanti, in
relazione all'oggetto dell'appalto (Cons. St., sez. III,
22.01.2014, n. 294).
Ed invero, se non v’è ragione di dubitare dell'ammissibilità
dell'avvalimento anche quanto alla certificazione SOA (del
resto espressamente prevista dal legislatore), la notazione,
più volte fatta dalla giurisprudenza, secondo cui la messa a
disposizione del requisito mancante non può risolversi nel
prestito di un valore puramente cartolare e astratto
(essendo invece necessario che dal contratto risulti
chiaramente l'impegno dell'impresa ausiliaria a prestare le
proprie risorse e il proprio apparato organizzativo in tutte
le parti che giustificano l'attribuzione del requisito di
qualità: a seconda dei casi, mezzi, personale, prassi e
tutti gli altri elementi aziendali qualificanti), non porta
certo alla possibilità di prescindere dalla necessità
preliminare della verifica della coerenza dell’offerta con i
requisiti di qualificazione e dunque della serietà ed
affidabilità dell’impresa concorrente (ed in via mediata
dell’impresa ausiliaria) sotto il profilo del possesso degli
stessi ai fini ed in sede di partecipazione al procedimento
di gara.
Quanto sopra considerato si rivela peraltro perfettamente
congruente con la normativa comunitaria sugli appalti
pubblici, ch’è volta nel suo complesso a far sì che la
massima concorrenza sia anche condizione per la più efficace
e sicura esecuzione degli appalti (Cons. St., VI,
13.06.2011, n. 3565), nel rispetto comunque ineludibile
delle garanzie di imparzialità, pubblicità e trasparenza
dell’azione amministrativa, che costituiscono principi
fondanti del diritto comunitario.
Tanto porta a ritenere non necessaria ed irrilevante la
presentazione sul punto, richiesta dal R.T.I.
controinteressato, di una questione pregiudiziale alla Corte
di Giustizia dell’Unione Europea, non esistendo dubbio
alcuno, ad avviso del Collegio, né sul fatto che, se secondo
lo stesso diritto comunitario finalità dell’avvalimento è
quella di fornire alle imprese la possibilità di ricorrere
ai requisiti di altri soggetti solo se ed in quanto da
questi autonomamente posseduti, nel caso di specie
l’ausiliaria dallo stesso individuata non ha posseduto (o
non ha dimostrato comunque di possedere), come sopra s’è
ampiamente visto, il richiesto requisito di qualificazione
(l’attestazione SOA per la categoria “OG1”, della
quale, per espressa disposizione normativa, è coessenziale
il momento della verifica) per l’intera procedura; né in
ordine alla evidente compatibilità col diritto comunitario
del predetto principio di continuità, alla luce in
particolare del disposto dell’art. 44 della Dir. 31/03/2004,
n. 2004/18/CE, che, nel subordinare l'aggiudicazione degli
appalti al “previo accertamento dell'idoneità degli
operatori economici non esclusi in forza degli articoli 45 e
46”, non limita detto accertamento ad alcuna specifica
fase del procedimento di gara.
In definitiva, quanto al secondo dei quesiti posti
dall’Ordinanza di rimessione, resta così confermata la
statuizione dell’Adunanza Plenaria 07.04.2011, n. 4, secondo
cui, “in materia di accertamento dei requisiti di ordine
speciale per il conseguimento degli appalti di lavori
pubblici, vige il principio secondo cui le qualificazioni
richieste dal bando debbono essere possedute dai concorrenti
non solo al momento della scadenza del termine per la
presentazione delle offerte, ma anche in ogni successiva
fase del procedimento di evidenza pubblica e per tutta la
durata dell'appalto, senza soluzione di continuità”.
Trattasi peraltro di affermazione che non si pone di certo
in contraddizione con quella, richiamata dall’Ordinanza di
rimessione, di cui al par. 59 della stessa sentenza (laddove
si premette che “nelle gare di appalto i requisiti
generali e speciali devono essere posseduti non solo alla
data di scadenza del bando, ma anche al momento della
verifica dei requisiti da parte della stazione appaltante e
al momento dell'aggiudicazione sia provvisoria che
definitiva”), rivelandosi l’individuazione di tali
momenti come meramente esemplificativa, come è ben
dimostrato dall’assenza in tale proposizione di qualsiasi
aggettivo od avverbio, che consenta di identificarli come i
“soli”, in cui assuma rilievo il possesso dei
requisiti di partecipazione.
Come chiarito dalla stessa Adunanza Plenaria n. 4/2011, il
principio che non ammette soluzioni di continuità nel
possesso (e nella sua dimostrazione) di detti requisiti
risponde “ad evidenti esigenze di certezza e di
funzionalità del sistema di qualificazione obbligatoria,
imperniato sul rilascio da parte degli organismi di
attestazione di certificati che costituiscono condizione
necessaria e sufficiente per l'idoneità ad eseguire
contratti pubblici”; e “pertanto, l'impresa che
partecipa alla procedura selettiva deve dimostrare di
possedere, dalla presentazione dell'offerta fino
all'eventuale fase di esecuzione dell'appalto, la
qualificazione tecnico-economica richiesta dal bando”.
8.1 - Conclusivamente, al secondo quesito posto
dall’Ordinanza di rimessione deve essere data la seguente
soluzione: nelle gare di appalto per
l’aggiudicazione di contratti pubblici i requisiti generali
e speciali devono essere posseduti dai candidati non solo
alla data di scadenza del termine per la presentazione della
richiesta di partecipazione alla procedura di affidamento,
ma anche per tutta la durata della procedura stessa fino
all’aggiudicazione definitiva ed alla stipula del contratto,
nonché per tutto il periodo dell’esecuzione dello stesso,
senza soluzione di continuità.
9. – Alla luce dei principi sopra enunciati (v. punti 7.3 e
8.1) la Sezione remittente, cui il giudizio viene restituito
ai sensi dell’art. 99, comma 4, c.p.a., deciderà il ricorso,
anche con riguardo alle preliminari questioni della
ammissibilità dell’atto di intervento dispiegato in grado di
appello, dell’ammissibilità del ricorso incidentale per la
prima volta proposto in primo grado in sede di riassunzione
del giudizio e del rapporto tra appello principale ed
appello incidentale alla stregua della Sentenza Corte di
Giustizia del 04.07.2013 nella causa n. 100/2012, così come
interpretata dall'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato
con la decisione n. 9 del 25.02.2014.
10. Spese al definitivo.
P.Q.M.
il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza
Plenaria), non definitivamente pronunciando sul ricorso in
epigrafe, enuncia i seguenti principi di diritto:
a) nel regime transitorio previsto dal
comma 12, prima parte, dell'art. 375 del d.P.R. n. 207 del
2010 per le categorie non modificate dal nuovo regolamento,
di validità delle attestazioni rilasciate nella vigenza del
d.P.R. n. 34 del 2000 “fino alla naturale scadenza
prevista per ciascuna di esse”, è applicabile l'onere di
verifica triennale imposto prima dall'art. 15-bis del d.P.R.
n. 34 del 2000 e poi dall'art. 77 del d.P.R. n. 207 del
2010;
b) nel regime transitorio dettato dall'art. 375, commi 13,
16 e 17, del d.P.R. n. 207 del 2010 e ss.mm.ii. per le
categorie "variate” non sussiste, durante il regime
di proroga, l'obbligo di verifica triennale, di cui agli
artt. 15-bis del d.P.R. n. 34 del 2000 e 77 del d.P.R. n.
207 del 2010;
c) nelle gare di appalto per l’aggiudicazione di contratti
pubblici i requisiti generali e speciali devono essere
posseduti dai candidati non solo alla data di scadenza del
termine per la presentazione della richiesta di
partecipazione alla procedura di affidamento, ma anche per
tutta la durata della procedura stessa fino
all’aggiudicazione definitiva ed alla stipula del contratto,
nonché per tutto il periodo dell’esecuzione dello stesso,
senza soluzione di continuità
(Consiglio di
Stato, Adunanza Plenaria,
sentenza 20.07.2015 n. 8 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - VARI:
Uffici
postali salvi. La crisi non basta per chiudere.
Tar
Friuli: Poste deve valutare i siti svantaggiati.
La crisi colpisce tutti e alle Poste le esigenze di spending
review non bastano per chiudere i due suoi uffici nelle
frazioni del comune di montagna: in base alle regole Ue un
servizio universale come quello per raccomandate e
bollettini di pagamento deve essere garantito contemperando
le legittime necessità di taglio dei costi delle imprese con
le condizioni orografiche delle zone svantaggiate. E non è
stata presa in considerazione la proposta di chiusura
alternata delle due sedi avanzata dall'amministrazione
locale.
È quanto emerge dalla
sentenza
15.07.2015 n. 332, pubblicata dalla I Sez. del TAR Friuli Venezia Giulia.
Istruttoria carente
Accolto il ricorso di uno dei comuni che furono devastati
dal terremoto del '76. Poste italiane spa può senz'altro
sopprimere gli uffici per risparmiare ma la chiusura deve
avvenire dopo aver comparato gli interessi in gioco e
necessita di un'adeguata motivazione.
Il richiamo al mero dato economico e ai criteri di distanze
indicati dal dm 07.10.2008 non bastano nella specie a
giustificare la decisione: si tratta infatti di criteri che
non possono essere considerati assoluti né di automatica
applicazione perché in base ai principi della direttiva
2008/6/Ce bisogna tenere conto della situazione geografica
di determinate zone, in modo da raggiungere un equilibrio e
un bilanciamento tra gli interessi degli utenti e quelli
dell'azienda.
Evidente, dunque, la carenza d'istruttoria e di motivazione
per il provvedimento delle Poste che ignorano la
controproposta proveniente dal comune. E pagano le spese di
giudizio
(articolo ItaliaOggi del
26.08.2015). |
VARI:
Patente. Tre rossi e si torna sui banchi.
Chi si fa immortalare per tre volte mentre attraversa
l'incrocio con il proprio veicolo nonostante il semaforo
rosso rischia di restare a piedi. Ovvero di ripetere almeno
l'esame di guida tornado sui banchi di scuola.
Lo ha chiarito il Consiglio di Stato, Sez. IV, con la
sentenza
14.07.2015 n. 3508.
Un automobilista negligente è stato pizzicato ripetutamente
in condotte di guida vietate con applicazione di tre
decurtazioni differenti di punti patente. Al ricevimento
dell'ordine di sottoporsi alla revisione della licenza si è
presentato all'esame senza riuscire a superarlo.
Contro la conseguente revoca della patente ha proposto
censure ai giudici amministrativi ma senza successo. L'art.
126-bis del codice stradale prevede espressamente l'obbligo
della revisione sia per i recidivi che per i conducenti
senza punti patente. Nel caso esaminato dal collegio
l'interessato è incorso in un anno in tre violazioni che
prevedono una decurtazione di almeno cinque punti ciascuna.
Per questo motivo è corretta l'intimazione alla revisione e
tutta la procedura conseguente. E non è plausibile
ipotizzare un esame di guida agevolato per i conducenti
senior
(articolo ItaliaOggi del 21.08.2015). |
APPALTI:
Serve il contraddittorio.
Per escludere imprese collegate.
L'esclusione da una gara per collegamento fra due imprese
non può essere disposta automaticamente ma deve conseguire a
un contraddittorio con le imprese.
È questo il principio
affermato dal TAR Piemonte, Sez. II, con la
sentenza
10.07.2015 n. 1214, rispetto all'esclusione disposta da una
stazione appaltante nei confronti di due imprese con la
motivazione che le rispettive offerte sarebbero state
imputabili a un unico centro decisionale e quindi in
violazione del principio di partecipazione contemporanea per
collegamento sostanziale.
Il Tar ha dichiarato illegittima l'esclusione in quanto
avvenuta «sulla base di indizi di collegamento (numerosi e
concreti), senza concedere la possibilità di presentare
deduzioni allo scopo di dimostrare l'ininfluenza della
situazione di collegamento sulla formulazione dell'offerta
economica».
In passato su questa materia si era espressa
anche la Corte di giustizia europea (sentenza 19.05.2009, C-538/2007), che dichiarava incompatibile la normativa
italiana con il diritto comunitario nella parte in cui essa
«vietava, in assoluto, la partecipazione alla medesima gara
d'appalto da parte di imprese che si trovassero in una
situazione di collegamento senza lasciare loro la
possibilità di dimostrare che il predetto rapporto non ha
influito, di fatto, sul rispettivo comportamento nell'ambito
della gara».
In aderenza a questa pronuncia il codice dei contratti fu
modificato disponendo che non più il solo controllo formale
fra imprese, bensì ogni situazione di controllo e
collegamento accompagnata da univoci elementi di prova che
dimostrino come le offerte siano riconducibili a un unico
centro decisionale potesse essere motivo di esclusione dopo
l'apertura delle buste contenenti l'offerta economica.
Per i giudici, quindi sotto il profilo procedimentale non è
più consentita l'esclusione automatica per collegamento
sostanziale ma occorre accertare se, in concreto, tale
situazione abbia influito o meno sul loro rispettivo
comportamento nell'ambito della gara, consentendo alle
imprese interessate di dimostrare nell'apposito
sub-procedimento di verifica l'insussistenza di rischi di
turbativa della selezione
(articolo ItaliaOggi del 21.08.2015).
---------------
MASSIMA
3. Nel merito, il primo motivo ha carattere assorbente
ed è fondato.
L’art. 38, primo comma – lett. m-quater), del Codice dei
contratti pubblici dispone che sono esclusi dalla
partecipazione alle procedure di affidamento di appalti i
soggetti “che si trovino, rispetto ad un altro
partecipante alla medesima procedura di affidamento, in una
situazione di controllo di cui all’art. 2359 del codice
civile o in una qualsiasi relazione, anche di fatto, se la
situazione di controllo o la relazione comporti che le
offerte sono imputabili ad un unico centro decisionale”.
In forza di tale disposizione, sono
sanzionate con l’esclusione dalla gara non solo le ipotesi
di collegamento formale tipizzate dall’art. 2359 cod. civ.,
ma anche le situazioni di cosiddetto collegamento
sostanziale le quali, attestando la riconducibilità dei
soggetti partecipanti alla selezione ad un unico centro
decisionale, possono mettere in pericolo il rispetto delle
regole generali di par condicio, segretezza delle offerte e
trasparenza della competizione. Il legislatore ha inteso
evitare il rischio di ammettere alla gara soggetti che, in
quanto legati da stretta e stabile comunanza di interessi,
non sono ritenuti capaci di formulare offerte caratterizzate
dalla necessaria indipendenza, serietà ed affidabilità.
Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza,
la riconducibilità delle offerte ad un unico centro
decisionale può essere affermata dalla stazione appaltante
solo in presenza di indizi gravi, precisi e concordanti.
Come è noto, la Corte di Giustizia ha avuto modo di
pronunciarsi sul previgente D.Lgs. n. 157 del 1995,
giudicando la normativa italiana in materia di appalti di
servizi incompatibile con il diritto comunitario, e
segnatamente con la Direttiva 1992/50/CE, nella parte in cui
vietava in assoluto la partecipazione alla medesima gara
d’appalto di imprese che si trovassero in una situazione di
collegamento: secondo la Corte, il diritto
comunitario osta ad una disposizione nazionale che, pur
perseguendo gli obiettivi legittimi di parità di trattamento
degli offerenti e di trasparenza nell’ambito delle procedure
di aggiudicazione degli appalti pubblici, stabilisca un
divieto assoluto, a carico di imprese tra le quali sussista
un rapporto di controllo o che siano tra loro collegate, di
partecipare in modo simultaneo e concorrente ad una medesima
gara d’appalto, senza lasciare loro la possibilità di
dimostrare che il rapporto suddetto non ha influito sul
rispettivo comportamento nell’ambito della gara
(Corte Giust. CE, sent. 19.05.2009, in C-538/07, Assitur
s.r.l.).
Il Codice dei contratti pubblici è stato prontamente
adeguato al principio affermato dalla Corte. L’art. 38,
primo comma – lett. m-quater) e secondo comma, del D.Lgs. n.
163 del 2006, come modificato dall’art. 3, secondo comma,
del D.L. n. 135 del 2009), contempla come
causa di esclusione non più il controllo formale ex se,
ma ogni situazione di controllo e collegamento, formale o
sostanziale, accompagnata da univoci elementi di prova che
le offerte siano riconducibili ad un unico centro
decisionale, prescrivendo altresì che la verifica e
l’eventuale esclusione siano disposte dalla stazione
appaltante solo dopo l’apertura delle buste contenenti
l’offerta economica.
Sotto il profilo procedimentale, a seguito della pronuncia
della Corte di Giustizia, non è più
consentito alle stazioni appaltanti di sanzionare il
collegamento tra imprese mediante l’esclusione automatica
dalla procedura selettiva, ma occorre accertare se, in
concreto, tale situazione abbia influito o meno sul loro
rispettivo comportamento nell’ambito della gara, consentendo
alle imprese interessate di dimostrare nell’apposito
sub-procedimento l’insussistenza di rischi di turbativa
della selezione
(così, da ultimo: TAR Piemonte, sez. I, 06.03.2015 n. 430;
nel senso della necessità di un accertamento in
contraddittorio con le imprese concorrenti, si veda già: TAR
Lazio, sez. II, 08.05.2014 n. 4810; Cons. Stato, sez. IV,
25.01.2010 n. 247).
Nella seduta pubblica del 09.01.2015, il responsabile del
procedimento ha invece deliberato l’immediata esclusione
delle concorrenti T.G. s.r.l. ed I. s.r.l., ritenendo che le
rispettive offerte fossero imputabili ad un unico centro
decisionale, senza darne alcun preavviso e senza consentire
loro la presentazione di controdeduzioni entro un termine
breve compatibile con l’esigenza di celerità della gara.
Ad avviso del Collegio, il vizio del
contraddittorio non può essere degradato come inidoneo
all’annullamento dell’esclusione, in applicazione dell’art
21-octies, secondo comma, della legge n. 241 del 1990.
Infatti, al cospetto di una decisione della
stazione appaltante tipicamente discrezionale, quale quella
sulla effettiva incidenza della situazione di collegamento
sulla formulazione delle offerte, non incombe sulla
ricorrente l’onere di fornire la prova circa la rilevanza
del momento partecipativo, essendo invece vero il contrario.
Sul punto, l’amministrazione resistente non ha fornito in
modo convincente la prova, seppur in chiave necessariamente
prognostica, della inutilità a priori dell’apporto
partecipativo delle società escluse dalla gara.
Con specifico riguardo alla fattispecie di esclusione
disciplinata dall’art. 38, primo comma – lett. m-quater),
del Codice dei contratti pubblici, è ben
possibile che l’instaurazione del contraddittorio con i
soggetti interessati permetta di raggiungere una differente
valutazione degli indizi di collegamento.
Ad esempio, le imprese avrebbero potuto rendere
giustificazioni in ordine alla vicinanza dei ribassi
percentuali, alle somiglianze grafiche delle offerte, alle
date ed alle modalità di confezionamento e spedizione dei
plichi, alle date di effettuazione dei versamenti
obbligatori, alla condivisione dei soggetti emittenti delle
cauzioni provvisorie, e così via.
Come affermato da autorevole dottrina,
l’indefettibilità del contraddittorio discende, anche
nell’ambito delle gare d’appalto, dall’art. 47, par. 2,
della Carta dei diritti dell’Unione Europea, per effetto del
quale il diritto di ogni individuo di essere ascoltato prima
che nei suoi confronti venga adottato un provvedimento
individuale che gli rechi pregiudizio è stato elevato a
principio comunitario, quale parte integrante del “diritto
ad una buona amministrazione” ed in perfetta
corrispondenza con le garanzie discendenti dall’art. 6, par.
1, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
Con il conseguente necessario adeguamento, innanzitutto in
via di interpretazione conforme, delle norme di diritto
interno ed in particolare degli artt. 21-octies e 21-nonies
della legge n. 241 del 1990, nelle fattispecie in cui
l’amministrazione procedente non abbia rispettato gli
obblighi partecipativi.
La Corte europea, infatti, ha affermato che il necessario
svolgimento di un procedimento in contraddittorio presuppone
non soltanto la facoltà per l’interessato di accedere al
fascicolo, ma anche il dovere per l’autorità procedente di
dare comunicazione d’ufficio all’interessato degli elementi
fattuali e giuridici rilevanti per consentirgli un
contraddittorio effettivo, tale da poter influire sull’esito
della decisione: in tal senso, non è consentita la
violazione delle regole poste a garanzia dei soggetti
coinvolti nel procedimento, anche se, in ipotesi, tale
violazione non abbia influito in concreto sull’esito della
decisione amministrativa
(cfr. Corte europea dei diritti dell’uomo, sent. 25.07.2000,
Mattoccia; Id., sent. 05.10.2000, APEH Uldozotteinek
Szovetsege).
Né può dubitarsi, alla luce della consolidata giurisprudenza
della Corte, circa l’attinenza dei procedimenti di evidenza
pubblica per l’affidamento di appalti ai “diritti e
doveri di carattere civile” richiamati dall’art. 6, par.
1, della Convenzione (cfr., tra molte: Corte europea dei
diritti dell’uomo, sent. 10.07.1998, Tinnelly & Sons Ltd;
Id., sent. 21.09.2006, Arac; Id., sent. 11.12.2008,
Velted-98 AD). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Vantaggi economici ko per difetto di motivazione.
Il difetto di motivazione vizia i provvedimenti attributivi
di vantaggi economici della p.a., alla stregua della
violazione dell'art. 12 della legge n. 241/1990, che
prevede, al primo comma, che l'attribuzione di vantaggi
economici di qualunque genere a privati o a enti pubblici
sia subordinata alla predeterminazione di criteri e
modalità, cui le amministrazioni erogatrici debbano
attenersi.
Lo hanno ribadito i giudici della
I Sez. del TAR
Molise con la
sentenza
10.07.2015 n. 304.
Tale
principio, come evidenziato anche da un precedente indirizzo
giurisprudenziale (si veda: Tar Molise I, 24/10/2014 n.
561), ha l'evidente finalità di evitare ingiustificate
discriminazioni e per garantire la trasparenza dell'azione
amministrativa.
Nel caso sottoposto all'attenzione dei
giudici amministrativi molisani, poi, non erano neppure bene
esplicate le ragioni per le quali alcune opere erano state
considerate «cantierabili», ma escluse dai finanziamenti.
Anche tale aspetto, secondo i giudici del tribunale
amministrativo denota carenza o incongruità di motivazione.
Nello specifico, il presidente della Regione, nella qualità
di commissario delegato per la ricostruzione post-sisma
2002, con provvedimento prometteva al Comune un
finanziamento. Con successivo provvedimento riconosceva un
finanziamento ulteriore, ma tali promesse di finanziamenti
venivano largamente disattese, poiché la Regione, mediante
progressive rettifiche e rimodulazioni, decurtava, in modo
consistente, gli importi delle contribuzioni.
Le principali
ragioni di detti provvedimenti attenevano all'esigenza
sopravvenuta di recuperare risorse per finanziare «azioni di
sistema» dell'Agenzia regionale di protezione civile,
pertanto, il percorso logico seguito dall'Amministrazione
regionale nel rettificare o rimodulare i finanziamenti dei
programmi edilizi unitari (p.e.u.) proposti dai Comuni,
escludendone alcuni dai finanziamenti o dal riconoscimento
di «cantierabilità», non risultavano chiari, né evidenti.
Soprattutto, non era visibile né tracciabile la ragione (o
la pluralità di ragioni) per la quale il Comune si fosse
trovato a subire decurtazioni tanto consistenti dei
finanziamenti riconosciuti o promessi in origine
(articolo ItaliaOggi Sette del
24.08.2015).
---------------
MASSIMA
VI – I motivi dei tre gravami –con i quali s’impugna la
sequenza di atti regionali di revisione e rimodulazione del
riparto dei fondi post-sisma tra enti locali- sono
attendibili.
Il Presidente della Regione Molise, nella qualità di
Commissario delegato per la ricostruzione post-sisma 2002,
con provvedimento prot. n. 1340 del 6.2.2008, ha promesso al
Comune ricorrente un finanziamento complessivo di euro
33.750.431,60. Con il successivo provvedimento n. 515 del
29.1.2010, ha riconosciuto un finanziamento ulteriore di
euro 6.178.431,60.
Tali promesse di finanziamenti sono state largamente
disattese, poiché la Regione -con i provvedimenti qui
impugnati nel ricorso e nei duplici motivi aggiunti–
mediante progressive rettifiche e rimodulazioni, ha
decurtato, in modo consistente, gli importi delle
contribuzioni del cosiddetto “Percorso ricostruzione”,
destinando meno di 15 milioni di euro al Comune di
Ripabottoni.
Nella sostanza, il finanziamento si riduce a circa 5,5
milioni di euro, atteso che dei 15 milioni riconosciuti, 9,5
milioni sono stati già erogati con i decreti commissariali
nn. 153/2011 155/2011, 158/2011, 159/2011 e 136/2012. Ben 44
progetti di classe A, proposti dal detto Comune, per un
importo complessivo di euro 16.980.392,61, già programmati
per il finanziamento, sono stati stralciati dall’elenco dei
finanziamenti, redatto dall’Agenzia regionale della
protezione civile e approvato dalla Giunta regionale del
Molise, con più deliberazioni consecutive.
VII – Le principali ragioni di detti provvedimenti attengono
all’esigenza sopravvenuta di recuperare risorse per
finanziare “azioni di sistema” dell’Agenzia regionale
di protezione civile (A.r.p.a. Molise), nonché per erogare i
risarcimenti dei danni dovuti dal Comune di San Giuliano di
Puglia alle famiglie delle vittime dell’edificio scolastico
crollato il 31.10.2002 in quel Comune, a seguito del
passaggio in giudicato della sentenza di Cassazione, IV
sezione penale, 28.1.2010 n. 173.
Sennonché, il percorso logico seguito dall’Amministrazione
regionale nel rettificare o rimodulare i finanziamenti dei
programmi edilizi unitari (p.e.u.) proposti dai Comuni,
escludendone alcuni dai finanziamenti o dal riconoscimento
di “cantierabilità”, non sono chiari, né evidenti.
Soprattutto, non è visibile né tracciabile –dai documenti
esaminati– la ragione (o la pluralità di ragioni) per la
quale il Comune di Ripabottoni abbia subito decurtazioni
tanto consistenti dei finanziamenti riconosciuti o promessi
in origine, in misura più che proporzionale rispetto ad
altri enti locali ammessi al finanziamento, tra i quali vi è
la resistente Provincia di Campobasso.
Pertanto,
il difetto di motivazione vizia i
provvedimenti, alla stregua della violazione dell’art. 12
della legge n. 241/1990. Detta normativa, recante “provvedimenti
attributivi di vantaggi economici” prevede, al primo
comma, che l’attribuzione di vantaggi economici di qualunque
genere a privati o a enti pubblici sia subordinata alla
predeterminazione di criteri e modalità, cui le
amministrazioni erogatrici debbano attenersi. Ciò al fine di
evitare ingiustificate discriminazioni e per garantire la
trasparenza dell’azione amministrativa.
Neppure sono bene esplicate le ragioni per
le quali alcune opere sono considerate “cantierabili”,
ma sono escluse dai finanziamenti. Anche tale aspetto denota
carenza o incongruità di motivazione
(cfr.: Tar Molise I, 24.10.2014 n. 561). |
ATTI AMMINISTRATIVI: E'
stato riconosciuto che −in forza della generale previsione
dell’art. 50, comma 7, del d.lgs. n. 267 del 2000− il
sindaco può disciplinare gli orari delle sale giochi e degli
esercizi nei quali siano installate apparecchiature per il
gioco e che ciò può fare per esigenze di tutela della
salute, della quiete pubblica, ovvero della circolazione
stradale.
Già con sentenza n. 300/2011, la Corte Costituzionale ha
precisato che le norme che stabiliscono e contingentano il
gioco d’azzardo sono finalizzate a tutelare soggetti
ritenuti maggiormente vulnerabili, o per la giovane età o
perché bisognosi di cure di tipo sanitario o
socio-assistenziale, e a prevenire forme di gioco cosiddetto
compulsivo, nonché ad evitare effetti pregiudizievoli per il
contesto urbano, la viabilità e la quiete pubblica, sicché
non sono riferibili alla competenza legislativa statale in
materia di “ordine pubblico e sicurezza”, che attiene alla
prevenzione dei reati e al mantenimento dell’ordine
pubblico, inteso questo quale complesso dei beni giuridici
fondamentali e degli interessi pubblici primari sui quali si
regge la civile convivenza nella comunità nazionale.
Ne deriva che la disciplina in tema di sale da gioco non è
diretta a garantire l’ordine pubblico, in quanto gli
apparecchi da gioco sono considerati esclusivamente nel loro
aspetto negativo di strumenti di grave pericolo per la
salute individuale e il benessere psichico e socio-economico
della popolazione locale.
Benessere psico-fisico la cui tutela è sicuramente compresa
tra le attribuzioni dell’ente locale, non solo in base alla
generale previsione di cui all’art. 3 del d.lgs. n.
267/2000, ma anche in considerazione delle norme che
attribuiscono al Sindaco un potere di ordinanza a tutela
della salute dei cittadini, in caso di emergenze sanitarie,
ai sensi del medesimo art. 50 del TUEL.
Né rileva in senso contrario la circostanza che il Sindaco
abbia disciplinato, oltre all’orario di apertura e di
chiusura delle sale da gioco, anche gli orari di attivazione
degli apparecchi da gioco collocati in altre tipologie di
esercizi.
Invero, una volta messa in luce la correlazione tra il
potere in esame e le finalità di tutela anche della salute e
del benessere dei cittadini, è del tutto ragionevole
ritenere che la delimitazione degli orari possa essere
effettuata in maniera selettiva, ossia in relazione al tipo
di attività svolta all’interno dei pubblici esercizi,
delimitando l’orario di svolgimento delle singole attività,
come l’attivazione delle apparecchiature da gioco.
In quest’ottica il potere esercitato dal Sindaco nel caso
concreto trova preciso fondamento nell’art. 50, comma 7, del
d.lgs. n. 267/2000, interpretato in coerenza con i canoni
ermeneutici già evidenziati dalla giurisprudenza
amministrativa e valorizzati dalla giurisprudenza
costituzionale, con conseguente infondatezza della censura
di difetto di attribuzioni.
3.1. La Sezione si è già recentemente occupata della
questione relativa alla sussistenza o meno in capo al
Sindaco del potere di disciplinare gli orari di apertura
delle sale da gioco (v. TAR Lombardia–Milano, Sez. I,
n. 704/2015; id., Sez. IV, n. 995/2015).
3.2. Al riguardo si è rilevato che l’ordinanza sindacale in
questione si fonda su un titolo di competenza attribuito con
legge all’autorità emanante.
Il fondamento normativo del potere esercitato dal Comune di
Milano è costituito dall’art. 50 del d.lgs. n. 267/2000, ove
si assegna al Sindaco il compito di coordinare ed
organizzare, sulla base degli indirizzi espressi dal
Consiglio comunale e nell’ambito dei criteri eventualmente
indicati dalla Regione, gli orari degli esercizi
commerciali, dei pubblici esercizi e dei servizi pubblici,
al fine di armonizzare l’espletamento dei servizi con le
esigenze complessive e generali degli utenti.
3.3. Con particolare riferimento all’individuazione e
delimitazione dei poteri esercitabili dal Sindaco ai sensi
dell’art. 50, comma 7, del d.lgs. n. 267/2000, si registra
un’evoluzione giurisprudenziale.
3.4. Secondo un primo filone della giurisprudenza
amministrativa esulano dall’ambito di applicazione del
citato art. 50 “finalità di tutela della incolumità, salute,
della quiete pubblica, atteso che a fronte di tali esigenze
il sindaco può ricorrere soltanto al diverso potere di
ordinanza contingibile ed urgente, qualora ne sussistano gli
estremi (TAR Umbria, Sez. I, n. 119/2012; TAR Toscana,
Sez. II, n. 629/2012) fatti sempre salvi i poteri
sanzionatori di cui il Comune dispone nel caso di violazione
delle leggi o dei propri regolamenti” (TAR Lombardia–Milano, Sez. I, n. 1182/2013; cfr. anche TAR Lombardia–Milano, Sez. I, n. 2308/2012 e n. 2479/2013; TAR
Lombardia–Brescia, n. 1673/2012; TAR Piemonte, n.
513/2011; TAR Lombardia-Milano, Sez. III, ord. n.
1566/2011 e Sez. I, ord. n. 998/2012; TAR Piemonte, Sez. II, ord. n. 107/2012).
3.5. A tale orientamento se ne è contrapposto di recente un
altro, che appare in via di consolidamento a seguito
dell’ordinanza della Corte Costituzionale n. 220/2014.
Nella richiamata pronuncia, invero, la Corte Costituzionale
ha dichiarato inammissibile la questione di costituzionalità
sollevata dal TAR Piemonte con riguardo all’art. 50,
comma 7, del d.lgs. n. 267, nella parte in cui tale norma
non prevede che i poteri dalla stessa attribuiti al Sindaco
possano essere esercitati con finalità di contrasto del
fenomeno del gioco d’azzardo patologico (g.a.p.).
La Corte, sul punto, ha evidenziato che “l’evoluzione della
giurisprudenza amministrativa, sia di legittimità, sia di
merito, ha elaborato un’interpretazione dell’art. 50, comma
7, del d.lgs. n. 267 del 2000, compatibile con i principi
costituzionali evocati, nel senso di ritenere che la stessa
disposizione censurata fornisca un fondamento legislativo al
potere sindacale in questione”.
In tale direzione si collocano diverse pronunce, con le
quali “è stato riconosciuto che −in forza della generale
previsione dell’art. 50, comma 7, del d.lgs. n. 267 del 2000− il sindaco può disciplinare gli orari delle sale giochi e
degli esercizi nei quali siano installate apparecchiature
per il gioco e che ciò può fare per esigenze di tutela della
salute, della quiete pubblica, ovvero della circolazione
stradale” (cfr. C.d.S., sentenza n. 3271/2014; id.,
ordinanze nn. 2133 e 996 del 2014 e n. 2712/2013; TAR
Lombardia-Brescia, sentenza n. 1484/2012; TAR Campania,
sentenza n. 2976/2011; TAR Lazio, sentenza n. 5619/2010).
In quest’ottica, la Corte Costituzionale ha ritenuto
inammissibile la questione sollevata dal TAR Piemonte in
considerazione della “non adeguata utilizzazione dei poteri
interpretativi che la legge riconosce al giudice rimettente”
e della “mancata esplorazione di diverse, pur praticabili,
soluzioni ermeneutiche”, con ciò implicitamente invitando il
giudice a quo a “praticare” l’opzione interpretativa da essa
richiamata, onde evitare che la norma in questione possa
porsi in contrasto con i principi costituzionali.
3.6. Del resto, già con sentenza n. 300/2011, la Corte
Costituzionale ha precisato che le norme che stabiliscono e
contingentano il gioco d’azzardo sono finalizzate a tutelare
soggetti ritenuti maggiormente vulnerabili, o per la giovane
età o perché bisognosi di cure di tipo sanitario o
socio-assistenziale, e a prevenire forme di gioco cosiddetto
compulsivo, nonché ad evitare effetti pregiudizievoli per il
contesto urbano, la viabilità e la quiete pubblica, sicché
non sono riferibili alla competenza legislativa statale in
materia di “ordine pubblico e sicurezza”, che attiene alla
prevenzione dei reati e al mantenimento dell’ordine
pubblico, inteso questo quale complesso dei beni giuridici
fondamentali e degli interessi pubblici primari sui quali si
regge la civile convivenza nella comunità nazionale.
Ne deriva che la disciplina in tema di sale da gioco non è
diretta a garantire l’ordine pubblico, in quanto gli
apparecchi da gioco sono considerati esclusivamente nel loro
aspetto negativo di strumenti di grave pericolo per la
salute individuale e il benessere psichico e socio-economico
della popolazione locale.
Benessere psico-fisico la cui tutela è sicuramente compresa
tra le attribuzioni dell’ente locale, non solo in base alla
generale previsione di cui all’art. 3 del d.lgs. n.
267/2000, ma anche in considerazione delle norme che
attribuiscono al Sindaco un potere di ordinanza a tutela
della salute dei cittadini, in caso di emergenze sanitarie,
ai sensi del medesimo art. 50 del TUEL.
3.7. Né rileva in senso contrario la circostanza che il
Sindaco abbia disciplinato, oltre all’orario di apertura e
di chiusura delle sale da gioco, anche gli orari di
attivazione degli apparecchi da gioco collocati in altre
tipologie di esercizi.
Invero, una volta messa in luce la correlazione tra il
potere in esame e le finalità di tutela anche della salute e
del benessere dei cittadini, è del tutto ragionevole
ritenere che la delimitazione degli orari possa essere
effettuata in maniera selettiva, ossia in relazione al tipo
di attività svolta all’interno dei pubblici esercizi,
delimitando l’orario di svolgimento delle singole attività,
come l’attivazione delle apparecchiature da gioco.
3.8. In quest’ottica il potere esercitato dal Sindaco nel
caso concreto trova preciso fondamento nell’art. 50, comma
7, del d.lgs. n. 267/2000, interpretato in coerenza con i
canoni ermeneutici già evidenziati dalla giurisprudenza
amministrativa e valorizzati dalla giurisprudenza
costituzionale, con conseguente infondatezza della censura
di difetto di attribuzioni
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 08.07.2015 n. 1569 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: L’atto
dichiarativo di scadenza del piano di lottizzazione si
configura come un atto ricognitivo.
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La scadenza massima del piano di lottizzazione è di 10 anni,
ma la scadenza non preclude la realizzazione dei volumi
purché siano state realizzate le opere di urbanizzazione,
che nel caso invece non sono state affatto realizzate in
modo completo.
Per scrupolo di completezza si osserva comunque che l’atto
dichiarativo di scadenza del piano di lottizzazione si
configura come un atto ricognitivo. Va poi osservato come la
ditta non abbia mai chiesto una proroga della convenzione
intervenuta con il comune; in ogni caso la scadenza massima
del piano di lottizzazione è di 10 anni, ma la scadenza non
preclude la realizzazione dei volumi purché siano state
realizzate le opere di urbanizzazione, che nel caso invece
non sono state affatto realizzate in modo completo, come
ammette la stessa ricorrente.
Quanto poi al risarcimento del danno, a parte l’assoluta
genericità delle affermazioni di parte ricorrente, si
osserva che per essere risarcibile esso deve dipendere con
un diretto nesso di causalità dal provvedimento illegittimo
del comune. Nel caso in esame nessuna colpa è attribuibile
al Comune, il quale ha negato la proroga che la stessa
ricorrente, nella memoria depositata l’08.05.2015, a
pagina uno, afferma essere del tutto discrezionale.
Va poi osservato da un lato come il diniego della proroga
appare giustificato dall’imminente scadenza della
convenzione, e d’altro lato come, contrariamente a quanto si
assume in ricorso, la legge numero 98 del 2013 consentiva
una proroga delle convenzioni ma non del termine della
concessione edilizia. Inoltre la convenzione era comunque
cessata nel gennaio 2012 prima dell’entrata in vigore della
citata legge e infine la proroga doveva essere espressamente
richiesta.
Sulla base di quanto evidenziato emerge come il diniego di
proroga del Comune fosse pienamente giustificato; non
essendo quindi alcuna illegittimità imputabile al Comune,
non sussiste alcun nesso di causalità in riferimento ai
presunti e indimostrati danni subiti dalla ricorrente
(TAR Friuli Venezia Giulia,
sentenza 17.06.2015 n. 286 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Abusivismo. Irregolarità ignorata, box salvo.
Box e terrazza abusivi non si toccano, almeno per ora.
Possibile? Sì, se il proprietario dell'immobile non era a
conoscenza delle irregolarità del predecessore, che al
rogito dichiarò la conformità delle opere alla concessione
edilizia. Per dare il via alle ruspe il Comune deve motivare
l'interesse pubblico alla demolizione, anche nella zona
soggetta a vincolo.
È quanto emerge dalla
sentenza
08.06.2015 n. 1349, pubblicata dalla
I Sez. del TAR Campania-Salerno.
Accolto il ricorso del proprietario che risiede
nell'immobile da vent'anni. Il suo dante causa ha dato un
tetto ai posti auto scoperti ricavandone un box con tanto di
terrazza sopra. Ma, a quanto risulta, l'attuale titolare ha
sempre ritenuto leciti i lavori: la buona fede deve essere
confermata da quanto risulta agli atti della compravendita.
Le opere sono piuttosto risalenti e l'attuale proprietario
ha riposto un legittimo affidamento nella struttura
dell'immobile per com'è ora.
Trova ingresso la censura contro il provvedimento
dell'amministrazione secondo cui l'ordinanza viola le regole
sulle misure sanzionatorie in campo edilizio: non dà conto
dell'entità delle opere né della loro esatta qualificazione
giuridica.
Ciò non toglie che il Comune possa di nuovo esercitare il
potere repressivo
(articolo ItaliaOggi del 21.08.2015).
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MASSIMA
Come evidenziato dal Consiglio di Stato, Sez. IV, con la
sentenza n. 1016 del 04.03.2014,
nell’ipotesi in cui l’ordinanza ingiuntiva sia indirizzata
ad un soggetto che non è il diretto autore dell’opera ed
attinga un bene di realizzazione assai risalente, essa deve
menzionare le esigenze di pubblico interesse sottese alla
emanazione del provvedimento demolitorio.
Ebbene, i suindicati presupposti per imporre
all’amministrazione, nell’esercizio del suo potere
repressivo, uno specifico onere motivazionale sussistono
nella fattispecie in esame, allegando il ricorrente, senza
essere smentito dall’amministrazione comunale, il carattere
risalente delle opere (esistenti quantomeno a far data dal
09.03.1995, risultando menzionate nell’atto di compravendita
stipulato in pari data dal ricorrente e dal dante causa sig.
P.G.) e la sua buona fede (avendo il ricorrente acquistato
l’immobile facendo legittimo affidamento sulla dichiarazione
del dante causa in ordine alla conformità dei beni
compravenduti alla concessione edilizia n. 114 del
16.09.1986).
Né a diverse conclusioni potrebbe pervenirsi sulla scorta
del fatto, evidenziato dalla difesa comunale, che le opere
de quibus ricadono in area paesaggisticamente
tutelata (cd. Masso della Signora) ex d.m. 15.09.1971,
trattandosi di dato rilevante in sede di eventuale
riesercizio del potere repressivo, in occasione del quale
l’amministrazione ben potrà tenere conto, previa attenta
valutazione della consistenza delle opere abusive, della
effettiva incidenza delle stesse sui valori paesaggistici
tutelati e meritevoli di conservazione. |
EDILIZIA PRIVATA:
Sulla mega-antenna la parola allo Stato.
Sì alla mega-antenna per cellulari vicino a case, scuole,
ospedali e case di riposo. O meglio: non è il Comune che col
suo regolamento può intervenire sui valori di attenzione
invadendo il campo dello Stato, cui spetta legiferare in
materia. Ecco allora che è accolto il ricorso del big delle
telecomunicazioni contro il regolamento dell'ente locale che
vieta di installare praticamente ovunque le stazioni
radio-base che servono a far funzionare i telefonini: gli
impianti sono invece «compatibili con qualsiasi destinazione
urbanistica».
È quanto emerge dalla
sentenza
29.05.2015 n. 503, pubblicata dal TAR
Calabria-Reggio Calabria.
Sbaglia la compagnia telefonica quando sostiene che
l'amministrazione locale avrebbe bisogno del placet
della Regione nell'adottare il regolamento con tutte le
modifiche che ha introdotto sul piano urbanistico. In realtà
l'ente locale ha i poteri per disciplinare il corretto
insediamento territoriale degli impianti.
Il punto è che con il regolamento di «minimizzazione»
il Comune non può spingersi a porre divieti generalizzati
che puntano a tutelare la popolazione amministrata dai campi
magnetici: spetta infatti al legislatore nazionale indicare
obiettivi di qualità per le installazioni degli impianti con
criteri unitari da applicare uniformemente in tutta Italia.
Bisogna invece consentire dappertutto la copertura della
telefonia mobile: le mega-antenne devono infatti ritenersi «infrastrutture
primarie e impianti di interesse generale». Spese
compensate
(articolo ItaliaOggi del 21.08.2015). |
LAVORI PUBBLICI: SULLA DIFFERENZA TRA CONCESSIONE DI COSTRUZIONE E
CONTRATTO DI APPALTO.
Prima dell’entrata in vigore della L. n. 109/1994, la
concessione
di sola costruzione era un istituto distinto dall’appalto,
perché il concessionario non si assumeva la
sola obbligazione di compiere l’opera pubblica ma era
investito di poteri e facoltà tipiche dell’ente concedente,
quali la progettazione e la direzione dei lavori, la
sorveglianza
e la scelta degli appaltatori, incluse anche le
attività tecniche e amministrative, preparatorie e
funzionali,
come acquisizione di aree e autorizzazioni,
espletamento delle procedure espropriative.
All’esito dei due gradi di merito fu dichiarata risolta, per
inadempimento dell’Amministrazione concedente, una
convenzione stipulata tra un Comune e un’ATI relativa alla
costruzione di un’opera pubblica, nella specie costituita da
un tratto viario. La decisione fu assunta in ragione della
ritenuta
assimilabilità di tale convenzione a un appalto di
opere pubbliche: per il che fu dichiarata illegittima anche
la
sequenziale rescissione del rapporto, pronunciata da detto
ente in danno dell’impresa, perché il progetto esecutivo
predisposto dallo stesso Comune (e sulla scorta del quale
l’appalto era stato affidato) era deficitario, sicché era
sull’Ente
che dovevano ricaderne le conseguenze, quali i tempi
di sospensione dei lavori -i cui danni erano stati
richiesti
dall’appaltatore con tempestive riserve- e la revisione
prezzi
ai sensi dell’allora operante art. 33 della L. n. 41/1986.
Per la cassazione della sentenza il Comune ha proposto un
ricorso articolato in numerosi motivi in parte riuniti per
connessione
logica e giuridica, qui accolti.
La Suprema Corte anzitutto rileva la violazione della L. n.
1137/1929 essendosi addebitati erroneamente al Comune,
da parte della Corte territoriale, gli inadempimenti,
muovendo
dal presupposto che si trattasse d’un appalto di opere
pubbliche, a cui la L. n. 584/1977 aveva equiparato la
concessione di sola costruzione.
Di contro, detta
equiparazione
era limitata all’osservanza delle procedure di
aggiudicazione
richieste dalle Direttive CE. Ancora, osservandosi
che la L. n. 584/1977 (come del resto neppure il successivo
D.Lgs. n. 406/1991) non avesse modificato la differenza
strutturale tra i due istituti o mutato il contenuto della
concessione
di costruzione, istituto caratterizzato dall’assunzione
da parte del concessionario di poteri e ruolo propri
del concedente: fra essi, la progettazione dell’opera. Per
il
che, erroneamente, il Giudice di merito, ad avviso della
Corte di legittimità ha obliterato l’esame delle
disposizioni
della convenzione intercorsa, che appunto qualificavano il
rapporto come “concessione di costruzione” e ponevano
ogni obbligo di progettazione a carico del concessionario.
Circostanze, queste, ignorate sia nella determinazione
dell’onerosità
dei lavori da quest’ultimo lamentata, sia nelle
conseguenti responsabilità per non averli eseguiti a regola
d’arte. Ad avviso del Supremo Collegio, erroneamente la
Corte d’appello ha mosso dalla premessa che la concessione
di mera costruzione -contenuta nella convenzione stipulata
tra le parti- fosse equiparabile all’appalto ai sensi
della L. n. 584/1977 e che quindi, in conformità a
quest’ultimo
contratto, la stazione appaltante dovesse rispondere
delle deficienze della progettazione esecutiva e delle
attività
derivanti dalla stessa, a nulla rilevando il contrario
tenore
letterale della convenzione in merito a obbligazioni e
responsabilità
del concessionario.
In tal modo, i Giudici di merito hanno disatteso sia il
quadro
legislativo in allora vigente, sia i principi in proposito
affermati
dalla costante giurisprudenza di legittimità, per la
quale la concessione di sola costruzione, introdotta dalle
L.
n. 107/1919, n. 1657/1926 e n. 1137/1929 è istituto diverso
dall’appalto, perché il concessionario non assume la sola
obbligazione di compiere l’opera pubblica ma è investito di
poteri e facoltà propri dell’ente concedente, quali ad
esempio
la progettazione dell’opera o dei lavori, direzione degli
stessi, sorveglianza, scelta degli appaltatori (Cass.
4145/2003; 15687/2001).
In quest’ottica, l’ambito della
concessione di lavori è stato ampliato così da includere
ogni fase delle lavorazioni affidate al concessionario,
insieme
alla realizzazione dell’opera: sono incluse anche le
attività
tecniche e amministrative, preparatorie e funzionali alla
realizzazione (programmazione e progettazione dei lavori,
acquisizione di aree e autorizzazioni; espletamento delle
procedure espropriative; stipulazione degli appalti;
vigilanza
sull’andamento dei lavori e i collaudi) fino a comprendere
ogni compito, seppur atipico a quello di eseguire l’opera
ma non estraneo al contratto d’appalto (Cass., SS.UU., nn.
73/2000; 287 e 580/1999; 12622/1998).
Né tale distinguo è venuto meno con la L. n. 584/ 1977 o
con il successivo D.Lgs. n. 406/1991 che hanno equiparato
i due istituti soltanto “ai fini della presente legge”,
contenente
norme di adeguamento delle procedure di aggiudicazione
alle direttive comunitarie (Cass., SS.UU., nn.
12166/1993; 12966/1991; 12221/1990).
Tale disciplina è mutata solo dopo la L. n. 109/1994, che in
attuazione della Dir. 89/440/CEE ha disposto nell’art. 19
che “i lavori pubblici di cui alla presente legge possono
essere
realizzati esclusivamente mediante contratti di appalto
o di concessione di lavori pubblici” qualificando i primi
come
contratti a titolo oneroso conclusi in forma scritta e
aventi per oggetto anche la progettazione esecutiva e
l’esecuzione
dei lavori pubblici e contrapponendovi (al comma
2) le concessioni di lavori pubblici definite come contratti
“aventi a oggetto la progettazione definitiva, la
progettazione
esecutiva e l’esecuzione dei lavori pubblici, o di pubblica
utilità, e di lavori ad essi strutturalmente e direttamente
collegati, nonché la loro gestione funzionale ed economica”
(Cass., SS.UU., nn. 28804/2011; 19391/2012;
11022/2014).
Tuttavia nel caso in esame, osserva la Cassazione, il
Giudice
di merito ha accertato che al momento del bando di gara
vigevano le previgenti leggi sulla concessione di
costruzione,
in particolare la n. 584/1977, sicché le obbligazioni e le
responsabilità assunte dal concessionario dovevano essere
inserite nell’effettivo strumento giuridico di natura
pubblicistica di cui le parti avevano inteso avvalersi
(Cass.,
nn. 18611 e 19228/2008 che, sull’accertato presupposto
che la concessione di sola costruzione aveva comportato il
trasferimento al concessionario di poteri e facoltà
appartenenti
alla P.A., hanno ritenuto l’ATI a cui era stato delegato
il compimento delle espropriazioni responsabile unica -o
comunque corresponsabile unitamente all’Ente pubblico-
delle espropriazioni illegittime compiute in danno dei
proprietari
di terreni occupati per la realizzazione dell’opera
pubblica: in tal modo smentendo le contrarie conclusioni
della sentenza impugnata per cui il contenzioso sugli
espropri che aveva concorso a provocare le sospensioni
dei lavori, fosse imputabile alla P.A.
La Suprema Corte enuclea un altro profilo d’illogicità nel
fatto che il Giudice di merito, dopo aver dichiarato la
risoluzione
del contratto (così essendo già di per sé erroneamente
stata ritenuta la concessione) per inadempimento della
concedente nonché -in via automatica- l’illegittimità
della
rescissione pronunciata dalla P.A. (con riguardo agli
obblighi
del concessionario ritenuti inadempiuti) non ha tenuto
conto di detta statuizione, continuando invece la disamina
dei comportamenti tenuti dalle parti e individuando i
diritti
dell’impresa alla stregua di una permanente valenza ed
avvenuta
esecuzione del contratto; per cui ha valutato -sempre
al lume delle riferite erronee premesse- fondamento e
legittimità delle sospensioni dei lavori, tempestività e
consistenza
delle riserve apposte e perfino la decorrenza e il criterio
di determinazione della revisione prezzi asseritamente
dovuta, senza però individuarne la fonte, pur richiesta
dall’art.
33, comma 3, della ora abrogata L. n. 41/1986.
Di
contro, una volta che sia stata pronunciata la risoluzione
del contratto ex artt. 1453 o 1456 c.c., in forza della sua
operatività retroattiva stabilita dall’art. 1458 c.c., si
produce
per ciascuno dei contraenti e indipendentemente
dall’imputabilità
dell’inadempienza, rilevante ad altri fini, una totale restitutio in integrum sicché ogni effetto del negozio viene
meno e con ciò ogni diritto che ne sarebbero derivato e
che si considera come mai entrato nella sfera giuridica dei
contraenti stessi (Cass. nn. 3830/2013; 12468/2004;
7470/2001).
Con la conseguenza che, se l’asserito rapporto
negoziale è considerato tamquam non esset unitamente al
titolo giustificativo della loro attribuzione, non è
consentito
discutere dei diritti e delle obbligazioni delle parti
nascenti
dal contratto di cui è stata dichiarata la risoluzione, né
in
particolare dei crediti (anche risarcitori) e dei debiti
maturati
a favore dell’appaltatore in conseguenza della sua avvenuta
esecuzione, né tanto meno della loro fondatezza e
della loro reale consistenza sulla quale si è incentrata la
seconda
parte della sentenza in palese contrasto con quella
precedente: posto che le stesse presuppongono invece un
contratto di appalto (fino alla conclusione) valido ed
operante,
e che invece, intervenuta la sua caducazione giudiziale
la disciplina di detti diritti ed obblighi predisposta dalle
parti, nonché dei corrispettivi a ciascuna di esse
spettanti,
oggetto del giudizio, è sostituita con quella introdotta
dalla
ricordata norma dell’art. 1458 c.c. (Cass. nn. 8247/2009;
22521/2011; 15705/2013; 364/2014) (Corte
di
Cassazione, Sez. I civile,
sentenza 20.02.2015 n. 3455 - tratto da Urbanistica e
appalti n. 4/2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’esenzione dal rispetto delle distanze fra costruzioni di
cui all'art. 878 cod.civ. si applica anche ai muri di cinta
quando l'altezza sia superiore a tre metri.
L'esenzione dal rispetto delle distanze tra costruzioni,
prevista dall'art. 878 c.c., si applica sia ai muri di
cinta, qualificati dalla destinazione alla recinzione di una
determinata proprietà, dall'altezza non superiore a tre
metri, dall'emersione dal suolo nonché dall'isolamento di
entrambe le facce da altre costruzioni, sia ai manufatti
che, pur carenti di alcuni dei requisiti indicati, siano
comunque idonei a delimitare un fondo ed abbiano ugualmente
la funzione e l'utilità di demarcare la linea di confine e
di recingere il fondo.
Per "costruzione", dunque, si intende qualsiasi manufatto
dotato di stabilità, solidità ed immobilizzazione al suolo
che abbia caratteristiche comunque tali da non poter
rientrare nella qualifica di "muro di conta". Questi ultimi
infatti sono connotati dall'avere una altezza massima di tre
metri da misurarsi dal piano di campagna, altezza che, nella
fattispecie, risultava superata
(massima tratta da www.e-glossa.it).
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1.- Il primo motivo, lamentando violazione degli artt. 873 e
878 cod. civ., censura la decisione gravata che,
nell'escludere la natura di costruzione del muro realizzato
nella proprietà della ricorrente, non aveva tenuto conto che
si trattava di un muro di altezza superiore ai tre metri e
Che, come tale, non poteva qualificarsi come muro di cinta,
che non viene considerato al fine dell'osservanza delle
distanze legali.
2.- Il secondo motivo, lamentando violazione degli artt. 873
e 934 cod. civ., deduce che, una volta accertato che il
muro-costruzione era di proprietà della convenuta, perché
edificato all'interno della sua proprietà, non avrebbero
potuto trovare applicazione le norme sulle distanze legali
in relazione a un opera -la tettoia- che era stata
realizzata all'interno di costruzione preesistente.
3. - Il terzo motivo, lamentando violazione degli artt. 115,
2729 e 950 cod. civ., censura la sentenza impugnata laddove
avrebbe ritenuto che il muro de quo non sarebbe all'interno
della proprietà di essa ricorrente, facendo riferimento alle
mappe catastali, senza peraltro esaminarle in relazione agli
altri elementi probatori e in particolare quanto emerso
dalla descrizione compiuta dal consulente tecnico.
4.- Il quarto motivo denuncia sotto il profilo del vizio di
omessa o insufficiente motivazione le doglianze formulate
con il terzo motivo.
5.- I motivi -che, per la stretta connessione, possono
essere esaminati congiuntamente- sono infondati.
La sentenza, nel verificare l'inosservanza delle distanze
dal confine prescritte dallo strumento urbanistico locale
della tettoia edificata dalla convenuta, ha respinto la tesi
dell'appellante secondo cui la tettoia non sarebbe soggetta
al rispetto del distacco, in quanto collocata all'interno
del muro-costruzione di proprietà della stessa convenuta; al
riguardo i Giudici hanno escluso:
a) innanzitutto che fosse stata fornita la prova che detto
muro ricadesse all'interno della proprietà attorea;
b) in ogni caso, anche ove si fosse accolta tale tesi, che
lo stesso potesse essere considerato costruzione, dovendo
piuttosto qualificarsi come muro di cinta, attesa la
funzione di delimitazione dei fondi; pertanto, il manufatto
edificato all'interno avrebbe dovuto rispettare la distanza
dal confine.
Orbene, la decisione è corretta, posto che
un muro può essere qualificato come muro di cinta
quando ha determinate caratteristiche: destinazione a
recingere una determinata proprietà, altezza non superiore a
tre metri, emergere dal suolo ed avere entrambe le facce
isolate dalle altre costruzioni; in presenza di tali
caratteristiche è applicabile la disciplina prevista
dall'art. 878 cod. civ. e dalle norme di esso integrative,
in ordine all'esenzione dal rispetto delle distanze tra
costruzioni; tuttavia, tale normativa si applica anche nel
caso in cui si abbia un manufatto in tutto o in parte
carente di alcune di esse, purché sia idoneo a delimitare un
fondo e gli possa ugualmente essere riconosciuta la funzione
e l'utilità di demarcare la linea di confine e di recingere
il fondo (Cass.
8671/2001; 2940/1992).
Ne consegue che correttamente la sentenza impugnata ha
escluso che il muro de quo potesse essere considerato
costruzione al fine del calcolo delle distanze
(Corte
di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza
16.02.2015 n. 3037). |
PATRIMONIO: È il Comune l’unico responsabile del marciapiede.
Oneri. La competenza per danni e manutenzione.
Sono molti i
Comuni che hanno deliberato ordinanze con le quali
attribuiscono ai condòmini l’onere di curare la manutenzione
del tratto di marciapiede antistante lo stabile (soprattutto
l’onere di spargere sul marciapiede antistante ai palazzi il
sale nei periodi invernali), liberandosi così dalle spese di
gestione dei marciapiedi e dalla responsabilità in caso di
incidenti dovuti alla mancata o inesatta manutenzione. Ma
queste ordinanze non possono ribaltare sui condomìni le
responsabilità dei danni causati a terzi da mancata
manutenzione.
Il marciapiedi antistante al condominio, infatti, a
differenza dei cortili e degli spazi interni, è suolo
pubblico e quindi appartiene totalmente alla pubblica
amministrazione. Il decreto legislativo 285/1992 (codice della
Strada) definisce chiaramente il concetto di strada pubblica
e annovera i marciapiedi nel demanio.
L’articolo 3, numero 33, infatti, specifica che si intende
per marciapiede «parte della strada, esterna alla
carreggiata, rialzata o altrimenti delimitata e protetta,
destinata ai pedoni». Ed è quindi illegittimo che una
semplice ordinanza comunale deroghi a un decreto
legislativo.
In particolare, il Comune mantiene la proprietà del
marciapiedi anche per la porzione antistante allo stabile
condominiale e tale diritto di proprietà comprende l’onere
di effettuare le opere di manutenzione dovute e necessarie.
Non esiste quindi alcun obbligo in capo al condominio e al
suo amministratore di effettuare riparazioni o manutenzioni
per rendere sicuro o agibile il marciapiedi. Si può
affermare quindi che l’estensione del condominio arriva fino
alle proprie mura esterne (tranne che esiste un’area «di sedime» dell’edificio), e che il marciapiede antistante non
ne faccia parte.
Questa affermazione risulta cruciale, oltre che per le spese
di manutenzione già accennate, al fine di determinare chi
debba rispondere dei danni cagionati dal marciapiede.
Sul punto risulta chiara una sentenza emessa dalla IV Sez.
sez. civile del TRIBUNALE di Torino, che con
sentenza 05.12.2012 dirimeva
ogni dubbio in merito a queste problematiche.
Nel caso in oggetto un passante era scivolato sul
marciapiede a causa della neve accumulatasi, e aveva chiesto
un risarcimento al condominio antistante al camminamento.
Nell’atto di citazione la parte attrice aveva citato il
condominio, in persona del suo amministratore pro tempore,
ritenuto proprietario del marciapiede e quindi onerato dello
spargimento del sale.
La difesa del condominio era stata, principalmente, quella
di contestare la propria legittimazione a stare in giudizio.
Il legale dello stabile, infatti, aveva sottolineato come il
marciapiede fosse indiscutibilmente parte della strada e
quindi del demanio comunale. Di conseguenza, a prescindere
da eventuali ordinanze comunali di senso contrario, era lo
stesso Comune a doversi occupare della manutenzione della
carreggiata, compreso lo spargimento di sale in periodo
invernale. Il giudice ha dato ragione al condominio.
È infatti responsabile per i danni cagionati dalla cosa in
custodia colui che ha del bene la custodia, intesa come
potere di gestione. E, come chiarisce il Codice della
strada, «gli enti proprietari delle strade (...) provvedono:
a) alla manutenzione, gestione e pulizia delle strade, delle
loro pertinenze e arredo, nonché delle attrezzature,
impianti e servizi» (articolo Il Sole 24 Ore del
25.08.2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nell'ambito
delle opere edilizie, la semplice ristrutturazione si
verifica ove gli interventi, comportando modificazioni
esclusivamente interne, abbiano interessato un edificio del
quale sussistano (e, all'esito degli stessi, rimangano
inalterate) le componenti essenziali, quali i muri
perimetrali, le strutture orizzontali, la copertura, mentre
è ravvisabile la ricostruzione allorché dell'edificio
preesistente siano venute meno, per evento naturale o per
volontaria demolizione, dette componenti, e l'intervento si
traduca nell'esatto ripristino delle stesse operato senza
alcuna variazione rispetto alle originarie dimensioni
dell'edificio, e, in particolare, senza aumenti della
volumetria, né delle superfici occupate in relazione alla
originaria sagoma di ingombro.
In presenza di tali aumenti,
si verte, invece, in ipotesi di nuova costruzione, da
considerare tale, ai fini del computo delle distanze
rispetto agli edifici contigui come previste dagli strumenti
urbanistici locali, nel suo complesso, ove lo strumento
urbanistico rechi una norma espressa con la quale le
prescrizioni sulle maggiori distanze previste per le nuove
costruzioni siano estese anche alle ricostruzioni, ovvero,
ove una siffatta norma non esista, solo nelle parti
eccedenti le dimensioni dell'edificio originario.
Nozione, questa, che non muta ove si abbia riguardo alla
legge n. 457 del 1978, invocata dal ricorrente, atteso che
in proposito si è affermato che, "in
base all'art. 31, primo comma, lett. d), della legge
05.08.1978, n. 457, costituiscono ristrutturazioni edilizie,
con conseguente esonero dall'osservanza delle prescrizioni
sulle distanze per le nuove costruzioni, gli interventi su
fabbricati ancora esistenti e, dunque, su entità dotate
quanto meno di murature perimetrali, di strutture
orizzontali e di copertura, tali da assolvere alle loro
essenziali funzioni di delimitazione, sostegno e protezione
dell'entità stessa. Ne consegue che, pur non esulando dal
concetto normativo di ristrutturazione edilizia la
demolizione del fabbricato ove sia seguita dalla sua fedele
ricostruzione, ai fini della qualificazione di un intervento
ricostruttivo come ristrutturazione, da un lato, non è
sufficiente che un anteriore fabbricato sia fisicamente
individuabile in tutta la sua perimetrazione, essendo
indispensabile a soddisfare il requisito della sua esistenza
che non sia ridotto a spezzoni isolati, rovine, ruderi e
macerie, e, dall'altro, che la ricostruzione di esso, oltre
ad essere effettuata in piena conformità di sagoma, di
volume e di superficie, venga eseguita in un tempo
ragionevolmente prossimo a quello della avvenuta demolizione
per cause naturali od opera dell'uomo".
Invero, "in materia urbanistica tra gli
interventi di recupero del patrimonio edilizio esistente,
anche alla luce del disposto dell'art. 31 legge 05.08.1978,
n. 457, possono rientrare le sostituzioni di manufatti
precedenti con costruzioni completamente nuove, purché il
risultato finale, per quanto rimaneggiato ed in parte
ricostruito, conservi la struttura e la funzionalità
precedenti e non si tratti di un'opera del tutto nuova, sia
strutturalmente che funzionalmente. Detto accertamento è
compito del giudice dei merito e non è sindacabile in sede
di legittimità se congruamente motivato".
La semplice constatazione dell'aumento di
superficie e di volumetria è quindi sufficiente a rendere
l'intervento edilizio non riconducibile ai paradigma
normativo della ristrutturazione e all'esonero
dall'osservanza delle distanze legali previsto per detto
tipo di interventi.
Con il secondo motivo, il ricorrente denuncia violazione
dell'art. 31 della legge n. 457 del 1978 e dell'art. 58,
punto 4, delle NTA del PRG del Comune di Ruino.
Il ricorrente, sulla premessa che gli interventi di
ristrutturazione edilizia di cui alla citata legge possono
portare alla realizzazione di un organismo edilizia in tutto
o in parte diverso da quello preesistente, anche quanto alla
superficie e alla volumetria, e che il manufatto oggetto di
causa era un rustico in zona agricola e quindi una
infrastruttura produttiva, sostiene che la Corte d'appello
avrebbe errato a ritenere che il modestissimo ampliamento
della superficie non consentisse la qualificazione
dell'intervento come ristrutturazione e comunque a non
ritenere detto ampliamento ininfluente se rapportato alle
dimensioni dell'azienda agricola all'esercizio della quale
era destinato.
Il motivo è in parte manifestamente infondato e in parte
inammissibile.
La Corte d'appello ha da un lato ritenuto che la definizione
degli interventi edilizi contenuta nell'art. 31 della legge
n. 457 del 1978 non rilevasse nei rapporti tra privati,
essendo detta disposizione finalizzata a disciplinare i
rapporti tra privati e amministrazione; dall'altro, che
l'eccezione relativa all'applicabilità dell'art. 54 delle
norme tecniche introduceva una questione nuova e che
l'intervento edilizio non aveva interessato una struttura
produttiva.
Orbene, quanto al primo profilo, deve rilevarsi che "nell'ambito
delle opere edilizie, la semplice ristrutturazione si
verifica ove gli interventi, comportando modificazioni
esclusivamente interne, abbiano interessato un edificio del
quale sussistano (e, all'esito degli stessi, rimangano
inalterate) le componenti essenziali, quali i muri
perimetrali, le strutture orizzontali, la copertura, mentre
è ravvisabile la ricostruzione allorché dell'edificio
preesistente siano venute meno, per evento naturale o per
volontaria demolizione, dette componenti, e l'intervento si
traduca nell'esatto ripristino delle stesse operato senza
alcuna variazione rispetto alle originarie dimensioni
dell'edificio, e, in particolare, senza aumenti della
volumetria, né delle superfici occupate in relazione alla
originaria sagoma di ingombro. In presenza di tali aumenti,
si verte, invece, in ipotesi di nuova costruzione, da
considerare tale, ai fini del computo delle distanze
rispetto agli edifici contigui come previste dagli strumenti
urbanistici locali, nel suo complesso, ove lo strumento
urbanistico rechi una norma espressa con la quale le
prescrizioni sulle maggiori distanze previste per le nuove
costruzioni siano estese anche alle ricostruzioni, ovvero,
ove una siffatta norma non esista, solo nelle parti
eccedenti le dimensioni dell'edificio originario"
(Cass. n. 9637 del 2006; Cass. n. 19287 del 2009).
Nozione, questa, che non muta ove si abbia riguardo alla
legge n. 457 del 1978, invocata dal ricorrente, atteso che
in proposito si è affermato che, "in
base all'art. 31, primo comma, lett. d), della legge
05.08.1978, n. 457, costituiscono ristrutturazioni edilizie,
con conseguente esonero dall'osservanza delle prescrizioni
sulle distanze per le nuove costruzioni, gli interventi su
fabbricati ancora esistenti e, dunque, su entità dotate
quanto meno di murature perimetrali, di strutture
orizzontali e di copertura, tali da assolvere alle loro
essenziali funzioni di delimitazione, sostegno e protezione
dell'entità stessa. Ne consegue che, pur non esulando dal
concetto normativo di ristrutturazione edilizia la
demolizione del fabbricato ove sia seguita dalla sua fedele
ricostruzione, ai fini della qualificazione di un intervento
ricostruttivo come ristrutturazione, da un lato, non è
sufficiente che un anteriore fabbricato sia fisicamente
individuabile in tutta la sua perimetrazione, essendo
indispensabile a soddisfare il requisito della sua esistenza
che non sia ridotto a spezzoni isolati, rovine, ruderi e
macerie, e, dall'altro, che la ricostruzione di esso, oltre
ad essere effettuata in piena conformità di sagoma, di
volume e di superficie, venga eseguita in un tempo
ragionevolmente prossimo a quello della avvenuta demolizione
per cause naturali od opera dell'uomo"
(Cass. n. 22688 del 2009).
Invero, "in materia urbanistica tra gli
interventi di recupero del patrimonio edilizio esistente,
anche alla luce del disposto dell'art. 31 legge 05.08.1978,
n. 457, possono rientrare le sostituzioni di manufatti
precedenti con costruzioni completamente nuove, purché il
risultato finale, per quanto rimaneggiato ed in parte
ricostruito, conservi la struttura e la funzionalità
precedenti e non si tratti di un'opera del tutto nuova, sia
strutturalmente che funzionalmente. Detto accertamento è
compito del giudice dei merito e non è sindacabile in sede
di legittimità se congruamente motivato"
(Cass. n. 8733 del 2001).
La semplice constatazione dell'aumento di
superficie e di volumetria è quindi sufficiente a rendere
l'intervento edilizio non riconducibile ai paradigma
normativo della ristrutturazione e all'esonero
dall'osservanza delle distanze legali previsto per detto
tipo di interventi.
Per il primo profilo, quindi, il motivo è manifestamente
infondato (Corte di Cassazione, Sezz. unite civili,
ordinanza 19.10.2011 n. 21578). |
AGGIORNAMENTO AL 21.08.2015 |
ã |
IN EVIDENZA |
INCARICHI
PROFESSIONALI:
nulla di
nuovo sotto il sole ma, semplicemente,
vogliamo ricordarlo a
beneficio di quei dirigenti/apicali duri di comprendonio
(ancora molti, purtroppo) ovvero che
vogliono -imperterriti- assaporare forti emozioni
giocando alla "roulette russa" col proprio
portafoglio:
la Corte dei Conti, Sez. di controllo, "controlla"
la deliberazione/determinazione di incarico
professionale (all'esterno dell'ente) ed invia il
fascicolo ai "cugini" della porta accanto della Sez.
giurisdizionale (PROCURA!)
BUONA
LETTURA... e buona fortuna. |
La Corte dei Conti, Sez. di controllo, nel caso di
specie censura
l'operato del Comune laddove quest'ultimo incarica
un professionista esterno all'ente quale
responsabile dell'UTC anziché ricorrere alle
professionalità interne esistenti:
|
INCARICHI PROFESSIONALI: L'’amministrazione deve svolgere le sue
funzioni con la propria organizzazione e il proprio
personale; conseguentemente, il ricorso a rapporti di
collaborazione con “soggetti esterni è consentito solo nei
casi previsti dalla Legge, od in relazione ad eventi
straordinari, non sopperibili con la struttura burocratica
esistente”.
---------------
II) Il controllo delle sezioni regionali sulle singole
determinazioni di affidamento di incarichi a soggetti
esterni alle amministrazioni locali.
L’art. 1, comma 173, della legge 23.12.2005, n. 266, ha
previsto che gli atti di spesa relativi ai precedenti commi
9 (ndr:
studi ed incarichi di consulenza
conferiti a soggetti estranei all'amministrazione), 10
(ndr:
spese per relazioni pubbliche, convegni,
mostre, pubblicità e di
rappresentanza), 56
(ndr:
somme riguardanti indennità, compensi, retribuzioni
o altre utilità comunque denominate, corrisposti per
incarichi di consulenza) e 57
(ndr:
contratti di consulenza) di importo superiore a 5.000 euro devono
essere trasmessi alla competente sezione della Corte dei
conti per l'esercizio del controllo successivo sulla
gestione.
Questa Sezione ha già affermato che “l’accertamento
dell’illegittimità per il mancato rispetto di una o più dei
requisiti di legge (talora verificabile nei limiti di sindacabilità di scelte discrezionali) comporta da un lato
l’obbligo di rimuovere, ove possibile, l’atto con un
provvedimento di secondo grado e dall’altro la
responsabilità del soggetto che lo ha posto in essere”.
Si aggiunga che un utilizzo improprio delle collaborazioni
esterne per ricoprire uffici dell’ente è fonte di
responsabilità. Questo principio -affermato dalla
giurisprudenza contabile in materia di conferimento di
incarichi esterni nella P.A.- è stato recentemente fatto
proprio dal legislatore nell'articolo 22, comma 2, della
legge n. 69 del 2009, e poi dall'articolo 17, comma 27,
della legge n. 102 del 2009, che hanno novellato l’articolo
7, comma 6, del d.lgs. n. 165/2001.
Nel nuovo art. 7 T.U.
Pubbl. Imp., infatti, è stato previsto che il ricorso a
contratti di collaborazione coordinata e continuativa per lo
svolgimento di funzioni ordinarie o l'utilizzo dei
collaboratori come lavoratori subordinati è causa di
responsabilità amministrativa per il dirigente che ha
stipulato i contratti.
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Occorre indicare
quali sono in linea generale i presupposti di legittimità
per il conferimento di “incarichi esterni” (presupposti di
carattere sostanziale e procedimentale) che la Corte dei
Conti valuta nello svolgimento dell’attività di controllo
attribuitale dall’art. 1, comma 173, della legge 23.12.2005, n. 266.
Il nuovo testo del sesto comma dell’art. 7 T.U. Pubb. Imp.
qualifica
“come presupposti di legittimità tutti i requisiti già
ritenuti dalla giurisprudenza contabile necessari per il
ricorso ad incarichi di collaborazione o di studio”.
1) La rispondenza dell’incarico agli obiettivi
dell’amministrazione.
In merito a questo presupposto, questa
Sezione ha già chiarito che “il requisito della
corrispondenza della prestazione alla competenza attribuita
dall’ordinamento all’amministrazione conferente è
determinato dal poter ricorrere a contratti di
collaborazione autonoma solo con riferimento alle attività
istituzionali stabilite dalla legge o previste dal programma
approvate dal Consiglio dell’ente locale ai sensi dell’art.
42 del D.lvo 267/2000”.
2) L’inesistenza, all’interno della propria organizzazione,
della figura professionale idonea allo svolgimento
dell’incarico, da accertare per mezzo di una reale
ricognizione.
3) L’indicazione specifica dei contenuti e dei criteri per
lo svolgimento dell’incarico.
4) L’indicazione della durata dell’incarico.
5) La proporzione fra il compenso corrisposto all’incaricato
e l’utilità conseguita dall’amministrazione.
Sotto il
profilo della spesa è, tuttavia, doveroso ricordare che “il
comma 3 dell’art. 46 del D.L. 112/2008, unificando ai fini
dell’inserimento nel regolamento di cui all’art. 89 del D.lvo 267/2000 tutti gli incarichi di collaborazione
autonoma, ha eliminato l’obbligo di individuare nel
regolamento il livello massimo di spesa sostenibile per
taluni di essi, prevedendo invece la fissazione del limite
massimo annuale nel bilancio preventivo degli enti
territoriali. E’, pertanto, necessario accertare in sede di
conferimento degli incarichi l’esistenza di un apposito
stanziamento di spesa ed il rispetto del suo limite".
6) Il requisito della “comprovata specializzazione
universitaria”.
Le amministrazioni, per esigenze cui non
possono far fronte con personale in servizio, possono
conferire incarichi individuali (con contratti di lavoro
autonomo professionale, occasionale o di collaborazione
coordinata e continuativa) a esperti “di particolare e
comprovata specializzazione universitaria”.
7) Obbligo di motivazione della determina con cui viene
affidato l’incarico esterno.
Le Sezioni Riunite della Corte dei Conti
hanno già ricordato che “l’atto di incarico deve contenere
tutti gli elementi costitutivi ed identificativi previsti
per i contratti della Pubblica Amministrazione ed in
particolare oggetto della prestazione, durata dell’incarico,
modalità di determinazione del corrispettivo e del suo
pagamento, ipotesi di recesso, verifiche del raggiungimento
del risultato. Quest’ultima verifica è peraltro
indispensabile in ipotesi di proroga o rinnovo
dell’incarico. In ogni caso tutti i presupposti che
legittimano il ricorso alla collaborazione debbono trovare
adeguata motivazione nelle delibere di incarico”.
8) La valutazione del revisore o del collegio dei revisori
dei conti.
In numerose delibere le Sezioni Regionali di Controllo hanno
ribadito che le disposizioni della legge 311/2004
(finanziaria 2005) concernenti la valutazione dell’organo
interno di revisione, non sono state né abrogate
esplicitamente dalla finanziaria per l’anno 2006 né sono
incompatibili con la disciplina intervenuta successivamente,
pertanto tale obbligo permane.
L’obbligo di verifica da parte dell’organo di revisione
riguarda il singolo atto di spesa e assolve a finalità
nettamente distinte da quelle affidate al controllo sulla
gestione di pertinenza della magistratura contabile.
L’intervento del revisore contabile è necessario quale
titolare di funzioni di controllo interno all’ente e di
raccordo con gli organi di controllo esterno.
9) L’obbligo di seguire procedure comparative.
Ogni Amministrazione deve adottare e rendere pubbliche le
procedure comparative per il conferimento degli incarichi di
collaborazione (comma 6-bis, art. 7, D. Lg.vo n. 165/2001).
Tale obbligo è considerato dalla giurisprudenza
amministrativa un adempimento essenziale per la legittima
attribuzione di incarichi di collaborazione. Di fatto, però, la norma è stata disattesa dalla
maggior parte degli enti.
Una parte della Giurisprudenza amministrativa ha ricordato
che “l'affidamento di incarichi di consulenza e/o di
collaborazione da conferire a soggetti esterni alla Pubblica
amministrazione non può prescindere dal preventivo
svolgimento di una selezione comparativa adeguatamente
pubblicizzata”.
10) L’obbligo pubblicazione degli elenchi sul sito web
istituzionale.
La legge finanziaria per il 2008 modificando il comma 127,
art. 1, della legge n. 662/1996, impone alle amministrazioni
(anche gli enti locali) che si avvalgono di collaboratori
esterni o che affidano incarichi di consulenza per i quali è
previsto un compenso, di pubblicare sul proprio sito web i
relativi provvedimenti, con l’indicazione dei soggetti
percettori, della ragione dell’incarico e dell’ammontare
erogato.
---------------
III) Profili di non conformità a legge degli atti di
affidamento di incarico oggetto della presente
deliberazione.
Il comune,
mediante elusione, non ha rispettato il Patto di stabilità
per l’anno 2010 ed ha violato il
Patto di stabilità per l’anno 2011.
Il vigente Regolamento per l’affidamento di
incarichi individuali di collaborazione autonoma approvata
dalla Giunta Comunale stabilisce che “in caso di
mancato rispetto del Patto di stabilità, sussistendone
l’obbligo, non possono essere conferiti incarichi nell’anno
successivo”.
Si rileva quindi la mancanza del presupposto di legittimità
per l’affidamento di incarichi per gli esercizi 2012 e 2013,
in palese violazione del regolamento comunale.
Incarichi conferiti alla geom. T.A. per
attività inerenti l’edilizia privata ed urbanistica.
Le deliberazioni di giunta comunale
n. 35 del 31.01.2012 e n. 166 del 18.12.2012
con
le quali è stato affidato l’incarico di prestazione di opera
intellettuale alla geom. T.A. per attività
inerenti l’edilizia privata ed urbanistica presentano sia
vizi sostanziali sia vizi procedimentali; il comune, contravvenendo ai principi in precedenza esposti,
ha fatto ricorso all’istituto della collaborazione
professionale esterna in violazione di norme di legge,
atteso che la prestazione in questione si è sempre risolta,
nella sostanza, in una mera ridondanza delle mansioni che
avrebbe dovuto svolgere per dovere istituzionale un pubblico
impiegato alle dipendenze dell’amministrazione comunale.
Il lasso temporale in cui sono stati conferiti gli incarichi
alla professionista in questione, senza peraltro mai
valutare con tenore esplicito il buon esito del precedente
incarico ed il raggiungimento degli obiettivi prefissati,
si
è tradotto in una surrettizia instaurazione di un rapporto
di lavoro subordinato a tempo determinato in violazione del
principio dell’accesso concorsuale ai pubblici uffici.
Alla luce di quanto già esposto nella prima parte di questa
deliberazione, il comune ha violato le seguenti
norme di legge:
1. Violazione dell’art. 7 TUPI che impone lo svolgimento di
procedure comparative per l’affidamento di ogni incarico
esterno, salve le eccezioni previste.
Ogni Amministrazione deve adottare e rendere pubbliche le
procedure comparative per il conferimento degli incarichi di
collaborazione (comma 6-bis, art. 7, D.Lg.vo n. 165/2001).
Tale obbligo è considerato dalla giurisprudenza
amministrativa un adempimento essenziale per la legittima
attribuzione di incarichi di collaborazione. Infatti, “l'affidamento
di incarichi di consulenza e/o di collaborazione da
conferire a soggetti esterni alla Pubblica
amministrazione non può prescindere dal preventivo
svolgimento di una selezione comparativa
adeguatamente pubblicizzata”.
In proposito questa Sezione ribadisce che l’art. 7 TUPI che
impone l’espletamento di procedure comparative a prescindere
dall’importo pattuito. Detta regola trova solo tre tassative
eccezioni (“procedura comparativa andata deserta”; “unicità
della prestazione sotto il profilo soggettivo”; “assoluta
urgenza determinata dalla imprevedibile necessità della
consulenza in relazione ad un termine prefissato o ad un
evento eccezionale”).
Dunque, poiché nel caso di specie non
ricorre nessuna di queste tre ipotesi aventi carattere
eccezionale, questa Sezione ritiene che il comune, avendo proceduto all’affidamento diretto
dell’incarico, abbia violato il disposto dell’art. 7 TUPI
che impone l’espletamento di una procedura comparativa per
la selezione dell’affidatario di un incarico esterno.
2. Violazione dell’art. 7 TUPI in merito alla durata
dell’incarico e al contenuto delle mansioni affidate
esternamente.
Con riferimento all’indeterminatezza dell’oggetto della
prestazione, le osservazioni contenute nelle memorie
prodotte dall’amministrazione sono destituite di ogni
fondamento giuridico, posto che risulta per tabulas che
l’oggetto degli incarichi alla geom. T.A. sono
”le attività inerenti l’edilizia privata ed urbanistica”,
senza alcuna specificazione circa la specialità e la
contestualizzazione delle prestazioni, tale da dissimulare
nell’asserito incarico di collaborazione professionale
l’instaurazione surrettizia di un rapporto di lavoro
pubblico a tempo determinato in carenza di procedure
concorsuali o selettive dei possibili candidati.
Infine, si osserva che la durata del rapporto intercorso tra
il comune e la geom. T.A. (ovvero, primo incarico a
decorrere dal 2012 successivamente prorogato a tutto
il 2013) non risponde ai principi più volte ribaditi
dalla Magistratura contabile secondo cui
la durata dei contratti di
collaborazione (ex art. 7, c. 6, del d.lgs. n. 165/2001)
devono avere “natura temporanea, in quanto conferiti allo
scopo di sopperire ad esigenze di carattere temporaneo per
le quali l’amministrazione non possa oggettivamente fare
ricorso alle risorse umane e professionali presenti al suo
interno. Al riguardo, infatti, l’indirizzo giurisprudenziale
prevalente in materia considera l’incarico di collaborazione
coordinata e continuativa non rinnovabile e non prorogabile,
se non a fronte di un ben preciso interesse
dell’Amministrazione committente, adeguatamente motivato ed
al solo fine di completare le attività oggetto
dell’incarico, limitatamente all’ipotesi di completamento di
attività avviate contenute all’interno di uno specifico
progetto”.
Infatti, l’istituto giuridico della proroga deve
essere collegato alla possibilità che il progetto, per il
quale è stato conferito l’incarico, non venga portato a
compimento. La “proroga si configura, essenzialmente, come
spostamento in avanti del termine contrattuale, e, dunque,
come una sorta di ultra-attività del contratto originario”.
Nel caso di specie non è riscontrabile il presupposto di
eccezionalità, in quanto la necessità di un dipendente con
professionalità tecniche per l’ente locale rappresenta una
esigenza organizzativa che si configura come permanente.
Ne
consegue che l’ente locale conferente non può fare ricorso
all’affidamento di incarichi a soggetti estranei per lo
svolgimento di funzioni ordinarie, attribuibili a personale
che dovrebbe essere previsto in organico, altrimenti questa
esternalizzazione si tradurrebbe in una forma atipica di
assunzione, “con conseguente elusione delle disposizioni in
materia di accesso all’impiego nelle Pubbliche
amministrazioni, nonché di contenimento della spesa di
personale”.
In conclusione, l’amministrazione comunale deve attenersi
all’insegnamento delle Sezioni Riunite della Corte dei Conti: “fermo restando il
limite della spesa storica riferito al 2004, gli enti non
sottoposti alle regole del patto di stabilità possono
procedere, ai sensi del combinato disposto dei commi 557,
557-bis e 562 dell’art. 1 della legge 27.12.2006 n.
296 (legge finanziaria per il 2007) e dell’art. 76, comma 7,
del d.l. n. 112/2008, all’instaurazione in via temporanea ed
occasionale di rapporti di collaborazione coordinata e
continuativa o per programma anche se non vi siano state
corrispondenti cessazioni di rapporti di lavoro a tempo
indeterminato, a condizione che:
- detti rapporti di
collaborazione coordinata e continuativa o per programma
abbiano carattere temporaneo nelle more di un’adeguata
programmazione del personale e di una riorganizzazione degli
uffici in forma associata;
- l’esercizio di funzioni
pubbliche indefettibili venga assicurato, prioritariamente e
a regime, mediante la previsione in organico di adeguato e
qualificato personale;
- il ricorso a tali forme di
collaborazione non costituisca occasione di elusione dei
limiti di spesa previsti in tema di contenimento di spesa
pubblica, ed in particolare di incarichi di consulenza”.
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La Corte dei conti Sezione regionale di controllo per la
Lombardia
accerta che gli atti di affidamento di incarico
esterno del comune sopra individuati, non sono
conformi ai presupposti di legge come esposti in parte
motiva.
Dispone che la presente deliberazione sia trasmessa alla
Procura regionale della Corte dei conti per le
determinazioni di competenza.
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Le recenti novelle legislative che hanno inciso sulla
disciplina degli atti di affidamento delle consulenze da
parte degli enti locali sono accomunate da un indiscusso
principio ispiratore: l’amministrazione deve svolgere le sue
funzioni con la propria organizzazione e il proprio
personale; conseguentemente, il ricorso a rapporti di
collaborazione con “soggetti esterni è consentito solo nei
casi previsti dalla Legge, od in relazione ad eventi
straordinari, non sopperibili con la struttura burocratica
esistente” (in questo senso, si veda la
sentenza
20.03.2006 n. 122 della Corte
Conti, II sez. app.).
La crescita del fenomeno e l’utilizzo improprio delle
collaborazioni negli ultimi anni hanno spinto il Legislatore
ad intervenire in materia con disposizioni restrittive ai
fini del contenimento della spesa. Si vedano, ad esempio, le
disposizioni di cui agli artt. 34 della Legge 27.12.2002, n. 289, 3 della Legge 24.12.2003, n. 350 e 1,
commi 9 e 11 del decreto Legge 12.07.2004, n. 168,
convertito con Legge 30.07.2004, n. 191 (sostituite, a
decorrere dal 01.01.2005, dall’articolo 1, commi 11 e
42, della Legge 30.12.2004, n. 311) con l’introduzione
di fattispecie tipizzate di illecito amministrativo
contabile, per cui la violazione del disposto normativo
“costituisce illecito disciplinare e determina
responsabilità erariale”.
In questo contesto va inquadrata la funzione di controllo
esercitata dalle sezioni regionali della Corte dei conti
sugli atti di affidamento di consulenze esterne; funzione
che la magistratura svolge su due livelli, ovvero su
quello
più generale che investe l’esercizio della potestà
regolamentare dell’ente locale conferente, nonché su quello
più specifico che attiene la singola determina di
affidamento dell’incarico.
I) Il controllo della sez. regionale della Corte dei Conti
sui regolamenti adottati dagli Enti locali per l'affidamento
di incarichi di collaborazione autonoma.
Con riferimento all’attività di controllo che la Corte dei
Conti esercita a livello di regolamentazione adottata dagli
enti, in questa sede, è sufficiente ricordare che l’art. 3
della legge Finanziaria per l’anno 2008 (legge 24/12/2007 n.
244), come sostituito dall’art. 46, comma 3, D.L.
25.06.2008, n. 112 e relativa legge di conversione, al comma
56 recita che “con il regolamento di cui all'articolo 89 del
decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, sono fissati, in
conformità a quanto stabilito dalle disposizioni vigenti, i
limiti, i criteri e le modalità per l'affidamento di
incarichi di collaborazione autonoma, che si applicano a
tutte le tipologie di prestazioni. La violazione delle
disposizioni regolamentari richiamate costituisce illecito
disciplinare e determina responsabilità erariale. Il limite
massimo della spesa annua per incarichi di collaborazione è
fissato nel bilancio preventivo degli enti territoriali”. Il
successivo comma 57, poi, sancisce che “le disposizioni
regolamentari di cui al comma 56 sono trasmesse, per
estratto, alla sezione regionale di controllo della Corte
dei conti entro trenta giorni dalla loro adozione”.
Questa Sezione con
il
parere
11.03.2008 n. 37,
parere
06.11.2008 n. 224 e
parere
11.02.2009 n. 37
ha individuato alcuni principi che devono informare
le disposizioni regolamentari in materia (si vedano anche i
più recenti, Lombardia
parere 30.06.2010 n. 715 e
Lombardia
parere 22.10.2010 n. 967).
Nel caso di specie, tuttavia, la verifica di questa Sezione
si incentra sulle singole determinazioni di affidamento di
incarico esterno di cui si è detto in premessa;
conseguentemente, è opportuno soffermarsi sui presupposti di
carattere procedimentale e sostanziale che devono ricorrere
per qualificare come conforme alla disciplina la determina
in parola.
II) Il controllo delle sezioni regionali sulle singole
determinazioni di affidamento di incarichi a soggetti
esterni alle amministrazioni locali.
L’art. 1, comma 173, della legge 23.12.2005, n. 266, ha
previsto che gli atti di spesa relativi ai precedenti commi
9 (ndr:
studi ed incarichi di consulenza
conferiti a soggetti estranei all'amministrazione), 10
(ndr:
spese per relazioni pubbliche, convegni,
mostre, pubblicità e di
rappresentanza), 56
(ndr:
somme riguardanti indennità, compensi, retribuzioni
o altre utilità comunque denominate, corrisposti per
incarichi di consulenza) e 57
(ndr:
contratti di consulenza)
di importo superiore a 5.000 euro devono
essere trasmessi alla competente sezione della Corte dei
conti per l'esercizio del controllo successivo sulla
gestione.
La finalità di tale previsione normativa è
riconducibile all’accertamento, di tipo collaborativo, da
parte della Corte, dell’idoneità dell’attività
amministrativa posta in essere dagli enti locali a
raggiungere determinati risultati, attraverso una verifica
della sua efficacia, efficienza ed economicità, che non può
comunque prescindere da un riscontro della conformità della
stessa a norme giuridiche.
Questa Sezione ha già affermato che “l’accertamento
dell’illegittimità per il mancato rispetto di una o più dei
requisiti di legge (talora verificabile nei limiti di sindacabilità di scelte discrezionali) comporta da un lato
l’obbligo di rimuovere, ove possibile, l’atto con un
provvedimento di secondo grado e dall’altro la
responsabilità del soggetto che lo ha posto in essere” (Sez.
contr. Reg. Lombardia, n. 244/2008).
Si aggiunga che un utilizzo improprio delle collaborazioni
esterne per ricoprire uffici dell’ente è fonte di
responsabilità. Questo principio -affermato dalla
giurisprudenza contabile in materia di conferimento di
incarichi esterni nella P.A.- è stato recentemente fatto
proprio dal legislatore nell'articolo 22, comma 2, della
legge n. 69 del 2009, e poi dall'articolo 17, comma 27,
della legge n. 102 del 2009, che hanno novellato l’articolo
7, comma 6, del d.lgs. n. 165/2001.
Nel nuovo art. 7 T.U.
Pubbl. Imp., infatti, è stato previsto che il ricorso a
contratti di collaborazione coordinata e continuativa per lo
svolgimento di funzioni ordinarie o l'utilizzo dei
collaboratori come lavoratori subordinati è causa di
responsabilità amministrativa per il dirigente che ha
stipulato i contratti.
Prima di procedere alla verifica di conformità alla
disciplina giuridica vigente dell’incarico esterno conferito
dall’amministrazione comunale di Pontevico,
occorre indicare
quali sono in linea generale i presupposti di legittimità
per il conferimento di “incarichi esterni” (presupposti di
carattere sostanziale e procedimentale) che la Corte dei
Conti valuta nello svolgimento dell’attività di controllo
attribuitale dall’art. 1, comma 173, della legge 23.12.2005, n. 266.
Il nuovo testo del sesto comma dell’art. 7 T.U. Pubb. Imp.
(modificato dall’art. 3, comma 76, della l. n. 244/2007, poi
sostituito dall’art. 46, comma 1, d.l. n. 112/2008)
qualifica
“come presupposti di legittimità tutti i requisiti già
ritenuti dalla giurisprudenza contabile necessari per il
ricorso ad incarichi di collaborazione o di studio” (Sez.
Contr. Reg. Lombardia,
parere
06.11.2008 n. 224).
1) La rispondenza dell’incarico agli obiettivi
dell’amministrazione.
In merito a questo presupposto, questa
Sezione ha già chiarito che “il requisito della
corrispondenza della prestazione alla competenza attribuita
dall’ordinamento all’amministrazione conferente è
determinato dal poter ricorrere a contratti di
collaborazione autonoma solo con riferimento alle attività
istituzionali stabilite dalla legge o previste dal programma
approvate dal Consiglio dell’ente locale ai sensi dell’art.
42 del D.lvo 267/2000”
(Sez. contr. Reg. Lombardia,
parere
11.02.2009 n. 37, nonché Sez. Reg. Lombardia, n. 244/2008).
2) L’inesistenza, all’interno della propria organizzazione,
della figura professionale idonea allo svolgimento
dell’incarico, da accertare per mezzo di una reale
ricognizione.
3) L’indicazione specifica dei contenuti e dei criteri per
lo svolgimento dell’incarico.
4) L’indicazione della durata dell’incarico.
5) La proporzione fra il compenso corrisposto all’incaricato
e l’utilità conseguita dall’amministrazione.
Sotto il
profilo della spesa è, tuttavia, doveroso ricordare che “il
comma 3 dell’art. 46 del D.L. 112/2008, unificando ai fini
dell’inserimento nel regolamento di cui all’art. 89 del D.lvo 267/2000 tutti gli incarichi di collaborazione
autonoma, ha eliminato l’obbligo di individuare nel
regolamento il livello massimo di spesa sostenibile per
taluni di essi, prevedendo invece la fissazione del limite
massimo annuale nel bilancio preventivo degli enti
territoriali. E’, pertanto, necessario accertare in sede di
conferimento degli incarichi l’esistenza di un apposito
stanziamento di spesa ed il rispetto del suo limite”
(Sez. contr. Reg. Lombardia,
parere
11.02.2009 n. 37).
6) Il requisito della “comprovata specializzazione
universitaria”.
Le amministrazioni, per esigenze cui non
possono far fronte con personale in servizio, possono
conferire incarichi individuali (con contratti di lavoro
autonomo professionale, occasionale o di collaborazione
coordinata e continuativa) a esperti “di particolare e
comprovata specializzazione universitaria”.
7) Obbligo di motivazione della determina con cui viene
affidato l’incarico esterno.
Le Sezioni Riunite della Corte dei Conti (delibera
15.02.2005 n. 6/2005)
hanno già ricordato che “l’atto di incarico deve contenere
tutti gli elementi costitutivi ed identificativi previsti
per i contratti della Pubblica Amministrazione ed in
particolare oggetto della prestazione, durata dell’incarico,
modalità di determinazione del corrispettivo e del suo
pagamento, ipotesi di recesso, verifiche del raggiungimento
del risultato. Quest’ultima verifica è peraltro
indispensabile in ipotesi di proroga o rinnovo
dell’incarico. In ogni caso tutti i presupposti che
legittimano il ricorso alla collaborazione debbono trovare
adeguata motivazione nelle delibere di incarico”
(Sez. contr. Reg. Lombardia, n.
parere
11.02.2009 n. 37).
8) La valutazione del revisore o del collegio dei revisori
dei conti.
In numerose delibere le Sezioni Regionali di Controllo hanno
ribadito che le disposizioni della legge 311/2004
(finanziaria 2005) concernenti la valutazione dell’organo
interno di revisione, non sono state né abrogate
esplicitamente dalla finanziaria per l’anno 2006 né sono
incompatibili con la disciplina intervenuta successivamente,
pertanto tale obbligo permane (Corte Conti, sez. reg. contr.
Lombardia, delib. n. 231/2009/par. del 14.05.2009; Corte
Conti, sez. reg. contr. Lombardia,
parere 23.04.2010 n. 506; contra, ma con affermazione apodittica,
delibera in data 17.02.2006 della Sezione delle
Autonomie).
L’obbligo di verifica da parte dell’organo di revisione
riguarda il singolo atto di spesa e assolve a finalità
nettamente distinte da quelle affidate al controllo sulla
gestione di pertinenza della magistratura contabile.
L’intervento del revisore contabile è necessario quale
titolare di funzioni di controllo interno all’ente e di
raccordo con gli organi di controllo esterno (Corte Conti,
sez. reg. contr. Lombardia,
parere 23.04.2010 n. 506;
Sez. Contr. Reg. Piemonte,
col
parere 18.03.2010 n. 23).
9) L’obbligo di seguire procedure comparative.
Ogni Amministrazione deve adottare e rendere pubbliche le
procedure comparative per il conferimento degli incarichi di
collaborazione (comma 6-bis, art. 7, D. Lg.vo n. 165/2001).
Tale obbligo è considerato dalla giurisprudenza
amministrativa un adempimento essenziale per la legittima
attribuzione di incarichi di collaborazione (TAR Puglia n.
494/2007). Di fatto, però, la norma è stata disattesa dalla
maggior parte degli enti.
Una parte della Giurisprudenza amministrativa ha ricordato
che “l'affidamento di incarichi di consulenza e/o di
collaborazione da conferire a soggetti esterni alla Pubblica
amministrazione non può prescindere dal preventivo
svolgimento di una selezione comparativa adeguatamente
pubblicizzata” (Cons. St., sent. 28.05.2010, n. 3405).
10) L’obbligo pubblicazione degli elenchi sul sito web
istituzionale.
La legge finanziaria per il 2008 modificando il comma 127,
art. 1, della legge n. 662/1996, impone alle amministrazioni
(anche gli enti locali) che si avvalgono di collaboratori
esterni o che affidano incarichi di consulenza per i quali è
previsto un compenso, di pubblicare sul proprio sito web i
relativi provvedimenti, con l’indicazione dei soggetti
percettori, della ragione dell’incarico e dell’ammontare
erogato.
III) Profili di non conformità a legge degli atti di
affidamento di incarico oggetto della presente
deliberazione.
Preliminarmente occorre osservare che il comune di Pontevico,
mediante elusione, non ha rispettato il Patto di stabilità
per l’anno 2010 (così come accertato dalla deliberazione di
questa Sezione n. 409/2012/PRSE depositata il 25/09/2012,
con corredo sanzionatorio per l’anno 2013) ed ha violato il
Patto di stabilità per l’anno 2011 (delibera n. 293/2013/PRSE
depositata il 25/06/2013, con applicazione delle sanzioni
per l’anno 2012, susseguente la violazione).
Ciò premesso,
si evidenzia che il vigente Regolamento per l’affidamento di
incarichi individuali di collaborazione autonoma approvata
dalla Giunta Comunale di Pontevico con deliberazione n. 87
del 21.04.2009, che si applica a tutte le tipologie di
prestazioni, all’art. 2, punto 6), stabilisce che “in caso di
mancato rispetto del Patto di stabilità, sussistendone
l’obbligo, non possono essere conferiti incarichi nell’anno
successivo”.
Si rileva quindi la mancanza del presupposto di legittimità
per l’affidamento di incarichi per gli esercizi 2012 e 2013,
in palese violazione del regolamento comunale.
Incarichi conferiti alla geom. T.A. per
attività inerenti l’edilizia privata ed urbanistica.
Le deliberazioni di giunta comunale del comune di Pontevico
n. 35 del 31.01.2012 e n. 166 del 18.12.2012
con
le quali è stato affidato l’incarico di prestazione di opera
intellettuale alla geom. T.A. per attività
inerenti l’edilizia privata ed urbanistica presentano sia
vizi sostanziali sia vizi procedimentali; il comune di Pontevico, contravvenendo ai principi in precedenza esposti,
ha fatto ricorso all’istituto della collaborazione
professionale esterna in violazione di norme di legge,
atteso che la prestazione in questione si è sempre risolta,
nella sostanza, in una mera ridondanza delle mansioni che
avrebbe dovuto svolgere per dovere istituzionale un pubblico
impiegato alle dipendenze dell’amministrazione comunale.
Il lasso temporale in cui sono stati conferiti gli incarichi
alla professionista in questione, senza peraltro mai
valutare con tenore esplicito il buon esito del precedente
incarico ed il raggiungimento degli obiettivi prefissati,
si
è tradotto in una surrettizia instaurazione di un rapporto
di lavoro subordinato a tempo determinato in violazione del
principio dell’accesso concorsuale ai pubblici uffici.
Alla luce di quanto già esposto nella prima parte di questa
deliberazione, il comune di Pontevico ha violato le seguenti
norme di legge:
1. Violazione dell’art. 7 TUPI che impone lo svolgimento di
procedure comparative per l’affidamento di ogni incarico
esterno, salve le eccezioni previste.
Ogni Amministrazione deve adottare e rendere pubbliche le
procedure comparative per il conferimento degli incarichi di
collaborazione (comma 6-bis, art. 7, D.Lg.vo n. 165/2001).
Tale obbligo è considerato dalla giurisprudenza
amministrativa un adempimento essenziale per la legittima
attribuzione di incarichi di collaborazione (TAR Puglia n.
494/2007). Infatti, “l'affidamento di incarichi di
consulenza e/o di collaborazione da conferire a soggetti
esterni alla Pubblica amministrazione non può prescindere
dal preventivo svolgimento di una selezione comparativa
adeguatamente pubblicizzata” (Cons. St., sent. 28.05.2010, n. 3405).
In proposito questa Sezione ribadisce che l’art. 7 TUPI che
impone l’espletamento di procedure comparative a prescindere
dall’importo pattuito. Detta regola trova solo tre tassative
eccezioni (“procedura comparativa andata deserta”; “unicità
della prestazione sotto il profilo soggettivo”; “assoluta
urgenza determinata dalla imprevedibile necessità della
consulenza in relazione ad un termine prefissato o ad un
evento eccezionale”).
Dunque, poiché nel caso di specie non
ricorre nessuna di queste tre ipotesi aventi carattere
eccezionale, questa Sezione ritiene che il comune di Pontevico, avendo proceduto all’affidamento diretto
dell’incarico, abbia violato il disposto dell’art. 7 TUPI
che impone l’espletamento di una procedura comparativa per
la selezione dell’affidatario di un incarico esterno.
2. Violazione dell’art. 7 TUPI in merito alla durata
dell’incarico e al contenuto delle mansioni affidate
esternamente.
Con riferimento all’indeterminatezza dell’oggetto della
prestazione, le osservazioni contenute nelle memorie
prodotte dall’amministrazione sono destituite di ogni
fondamento giuridico, posto che risulta per tabulas che
l’oggetto degli incarichi alla geom. T.A. sono
”le attività inerenti l’edilizia privata ed urbanistica”,
senza alcuna specificazione circa la specialità e la
contestualizzazione delle prestazioni, tale da dissimulare
nell’asserito incarico di collaborazione professionale
l’instaurazione surrettizia di un rapporto di lavoro
pubblico a tempo determinato in carenza di procedure
concorsuali o selettive dei possibili candidati.
Infine, si osserva che la durata del rapporto intercorso tra
il comune di Pontevico e la geom. T.A. (ovvero,
primo incarico a decorrere dal 2012 successivamente
prorogato a tutto il 2013) non risponde ai principi più
volte ribaditi dalla Magistratura contabile (ex multis
Sezione Centrale del controllo di legittimità sugli
atti del Governo e delle Amministrazioni dello
Stato,
delibera
13.01.2012 n. SCCLEG/1/2012/PREV e la
delibera
20.12.2011 n.
SCCLEG/24/2011/PREV) secondo cui
la durata dei contratti di
collaborazione (ex art. 7, c. 6, del d.lgs. n. 165/2001)
devono avere “natura temporanea, in quanto conferiti allo
scopo di sopperire ad esigenze di carattere temporaneo per
le quali l’amministrazione non possa oggettivamente fare
ricorso alle risorse umane e professionali presenti al suo
interno. Al riguardo, infatti, l’indirizzo giurisprudenziale
prevalente in materia considera l’incarico di collaborazione
coordinata e continuativa non rinnovabile e non prorogabile,
se non a fronte di un ben preciso interesse
dell’Amministrazione committente, adeguatamente motivato ed
al solo fine di completare le attività oggetto
dell’incarico, limitatamente all’ipotesi di completamento di
attività avviate contenute all’interno di uno specifico
progetto”.
Infatti, l’istituto giuridico della proroga deve
essere collegato alla possibilità che il progetto, per il
quale è stato conferito l’incarico, non venga portato a
compimento. La “proroga si configura, essenzialmente, come
spostamento in avanti del termine contrattuale, e, dunque,
come una sorta di ultra-attività del contratto originario”
(delibera
13.01.2012 n. SCCLEG/1/2012/PREV cit.).
Nel caso di specie non è riscontrabile il presupposto di
eccezionalità, in quanto la necessità di un dipendente con
professionalità tecniche per l’ente locale rappresenta una
esigenza organizzativa che si configura come permanente.
Ne
consegue che l’ente locale conferente non può fare ricorso
all’affidamento di incarichi a soggetti estranei per lo
svolgimento di funzioni ordinarie, attribuibili a personale
che dovrebbe essere previsto in organico, altrimenti questa
esternalizzazione si tradurrebbe in una forma atipica di
assunzione, “con conseguente elusione delle disposizioni in
materia di accesso all’impiego nelle Pubbliche
amministrazioni, nonché di contenimento della spesa di
personale” (Sezione Centrale del controllo di legittimità
sugli atti del Governo e delle Amministrazioni dello Stato,
delibera
13.01.2012 n. SCCLEG/1/2012/PREV).
In conclusione, l’amministrazione comunale deve attenersi
all’insegnamento delle Sezioni Riunite della Corte dei Conti
(delibera n. 20 del 04.04.2011): “fermo restando il
limite della spesa storica riferito al 2004, gli enti non
sottoposti alle regole del patto di stabilità possono
procedere, ai sensi del combinato disposto dei commi 557,
557-bis e 562 dell’art. 1 della legge 27.12.2006 n.
296 (legge finanziaria per il 2007) e dell’art. 76, comma 7,
del d.l. n. 112/2008, all’instaurazione in via temporanea ed
occasionale di rapporti di collaborazione coordinata e
continuativa o per programma anche se non vi siano state
corrispondenti cessazioni di rapporti di lavoro a tempo
indeterminato, a condizione che:
- detti rapporti di
collaborazione coordinata e continuativa o per programma
abbiano carattere temporaneo nelle more di un’adeguata
programmazione del personale e di una riorganizzazione degli
uffici in forma associata;
- l’esercizio di funzioni
pubbliche indefettibili venga assicurato, prioritariamente e
a regime, mediante la previsione in organico di adeguato e
qualificato personale;
- il ricorso a tali forme di
collaborazione non costituisca occasione di elusione dei
limiti di spesa previsti in tema di contenimento di spesa
pubblica, ed in particolare di incarichi di consulenza”.
Dunque, questa Sezione rileva che la criticità denunciata
dall’amministrazione comunale (carenza di dipendente con una
professionalità idonea a svolgere le attività legate al
settore edilizia privata ed urbanistica) non può essere
affrontata eludendo i vincoli di finanza pubblica in materia
di spesa per il personale e violando le norme
sull’affidamento all’esterno degli incarichi professionali
(art. 7 TUPI).
P.Q.M.
La Corte dei conti Sezione regionale di controllo per la
Lombardia accerta che gli atti di affidamento di incarico
esterno del comune di Pontevico sopra individuati, non sono
conformi ai presupposti di legge come esposti in parte
motiva.
Invita l’Amministrazione comunale ad adottare gli opportuni
provvedimenti per conformare la propria attività ai
presupposti normativi per l’affidamento dell’incarico nonché
ai principi di buon andamento di cui all’art. 97 Cost..
Dispone che la presente deliberazione sia trasmessa al
Presidente del Consiglio comunale e al Sindaco del comune di
Pontevico per quanto di competenza.
Dispone che la presente deliberazione sia trasmessa alla
Procura regionale della Corte dei conti per le
determinazioni di competenza
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
delibera 20.02.2014 n. 84). |
Conseguentemente ed inevitabilmente, la Corte dei Conti
-Sez. giurisdizionale- sanziona l'illegittimo
modus operandi di cui sopra:
|
INCARICHI PROFESSIONALI:
La colpevolezza degli Organi politici, che
hanno posto in essere provvedimenti ritenuti forieri di
danno, può non assurgere a gravità perseguibile, nel caso in
cui gli stessi abbiano adottato le contestate decisioni
sulla base del parere di un organo tecnico.
---------------
Il Collegio rileva la sussistenza di tutti gli elementi
costitutivi della responsabilità amministrativa nei
confronti degli odierni convenuti
giusti i profili di antigiuridicità delle condotte poste
in essere dagli stessi laddove si è contravvenuto alle
disposizioni del Regolamento del Comune il quale precisa che “in caso di
mancato rispetto del Patto di stabilità, sussistendone
l’obbligo, non possono essere conferiti incarichi nell’anno
successivo”.
---------------
Il caso in esame
risulta riconducibile al comma 1 dell’art. 110 dlgs n.
267/2000, riferendosi all’affidamento di un posto di
funzioni già previsto in pianta organica.
Infatti, la riconducibilità del caso di specie all’ipotesi
disciplinata al comma 1 dell’art. 110 del TUEL è peraltro
affermata nella stessa iniziale
delibera n. 167/2011 di conferimento dell’incarico alla Lo.
ove si precisa che “… si rende
necessario provvedere all’individuazione ed al conferimento
dell’incarico di responsabile dell’Area Tecnica”.
Pertanto, rientrando la fattispecie in
esame nell’ambito di applicazione del comma 1 dell’art. 110
TUEL, molteplici appaiono i profili di illegittimità che
hanno caratterizzato la condotta dei convenuti.
Comunque, anche prescindendo dal fatto che si applichi al
caso di specie il comma 1 e non il comma 2 dell’art. 110 del
TUEL, è indubbio che nell'individuazione
dei soggetti cui conferire un incarico ai sensi di tale
articolo di legge siano insuperabili i fondamentali canoni
di legittimità, imparzialità e buon
andamento, ai sensi dell'articolo 97 della Costituzione,
in ragione dei quali, pur essendo insiti in tali procedure
il carattere della discrezionalità ed un margine più o meno
ampio di fiduciarietà, è indispensabile che le
amministrazioni assumano la relativa determinazione con una
trasparente ed oggettiva valutazione della professionalità
del soggetto affidatario che non può basarsi su valutazioni
meramente soggettive, ma deve essere ancorata quanto più
possibile a circostanze oggettive.
L'esigenza di operare scelte discrezionali
ancorate a parametri quanto più possibili oggettivi e
riscontrabili evidenzia l'opportunità che le amministrazioni
si dotino preventivamente di un sistema di criteri generali
per l'affidamento, il mutamento e la revoca degli incarichi.
Ciò al fine di consolidare anche in questo ambito la
trasparenza e ridurre le possibilità di contenzioso.
Tale convincimento si fonda anche su costante giurisprudenza
della Corte Costituzionale
che ha espresso un chiaro orientamento
volto ad escludere l’esistenza di una “dirigenza di
fiducia” e dunque la possibilità di un’interpretazione
della normativa vigente nel senso di ammettere la scelta
discrezionale, senza limiti, dei soggetti esterni all’ente
cui conferire gli incarichi, nonché la necessità di forme di
pubblicità che assicurino la trasparenza, procedure
comparative anche non concorsuali, richiedendo quindi una
procedimentalizzazione dell’iter da seguire.
Con riferimento al caso di specie gli
odierni convenuti, ciascuno secondo il ruolo ricoperto
nell’adozione delle deliberazioni in argomento, hanno,
invece, determinato il conferimento diretto dell’incarico ad personam alla Lo., senza avere preventivamente fissato i
criteri per la selezione e valutazione dei curricula
dei potenziali aspiranti né adottato misure di pubblicità ma
effettuando tale scelta sulla base di una valutazione
personale ampiamente discrezionale.
Appare dunque, in assenza di idonea
motivazione, del tutto irragionevole, quasi al limite della
contraddittorietà, la scelta operata dal Sindaco e dalla
Giunta, con l’assistenza del Segretario comunale di affidare
ad un soggetto estraneo all’Amministrazione le funzioni di
Responsabile dell’Area Tecnica del Comune di Pontevico.
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L’ente locale conferente non può far ricorso
all’affidamento di incarichi a soggetti estranei per lo
svolgimento di funzioni ordinarie, attribuibili a personale
che dovrebbe essere previsto in organico, altrimenti questa
esternalizzazione si tradurrebbe in una forma atipica di
assunzione, con conseguente elusione delle disposizioni in
materia di accesso all’impiego nelle Pubbliche
amministrazioni, nonché di contenimento della spesa di
personale.
---------------
Si ritiene che il
comportamento tenuto da tutti i convenuti nell’odierno
giudizio sia particolarmente inescusabile e connotato da
colpa grave, alla luce dell’inequivoca normativa di
riferimento e della costante giurisprudenza della Corte
costituzionale e di questa Corte formatasi in materia di
conferimento di incarichi a soggetti estranei
all’Amministrazione.
Risulta di immediata percezione, infatti,
che il carattere indubbiamente fiduciario delle nomine non
può debordare nell’arbitrio ma deve comunque corrispondere a
dei canoni (sindacabili in questa sede) di ragionevolezza e
buona amministrazione.
Pertanto, anche ammettendo l’impossibilità,
indimostrata nell’odierno giudizio, di far fronte al
fabbisogno con professionalità interne, ipotizzate non
idonee, l’acquisizione dall’esterno di tali figure doveva
avvenire previa verifica delle professionalità disponibili,
condotta anche a seguito di idonea pubblicità.
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La rimanente quota del 10% di danno erariale addebitabile al Revisore dei
conti per il parere favorevole fornito ai sensi del comma 42
dell’art. 1 della legge n. 311/2004 sulla delibera n.
35/2012, dovrà restare a carico della collettività,
stante la mancata citazione nei confronti di questi ultimi.
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Passando ora al caso di specie va rilevato che il conflitto
esistente fra la posizione degli amministratori (Bo.,
Gu. e Fr.) rispetto a quella del Responsabile pro
tempore del Servizio Finanziario dell’Ente (Ma.), non è
solo “virtuale”, ma concreto ed è rilevabile dagli
atti del processo.
Infatti, ad esempio, nella delibera n. 5 del 10.01.2012, con
cui veniva prorogato l’incarico di Responsabile di P.O.
all’Arch. Lo. per il periodo gennaio-dicembre 2012, si
premette che tale decisione è stata adottata dopo aver “visto,
altresì, il parere favorevole espresso ai sensi dell’art. 49
del D.Lgs. 18.08.2000 n. 267, per quanto di competenza,
dalla dott.ssa Ma.St., in qualità di Responsabile
del Servizio Finanziario in ordine alla regolarità contabile
sulla proposta di deliberazione di cui all’oggetto”.
Tanto precisato, secondo consolidata giurisprudenza di
questa Corte, la colpevolezza degli Organi politici, che
hanno posto in essere provvedimenti ritenuti forieri di
danno, può non assurgere a gravità perseguibile, nel caso in
cui gli stessi abbiano adottato le contestate decisioni
sulla base del parere di un organo tecnico.
Pertanto, tenuto conto che la Ma., Responsabile del
Settore Finanziario, si è costituita congiuntamente ai
Membri della Giunta Comunale (Bo., Fr. e Gu.),
con unica memoria del medesimo difensore (Do.Be.),
il conflitto di interessi tra i convenuti appare evidente e
reale e ciò comporta –per pacifica e risalente
giurisprudenza– la nullità della costituzione in giudizio e
la conseguente contumacia dei convenuti (cfr. in proposito
Cass. Sez. III n. 2779/68).
Nel merito il Collegio deve per prima cosa precisare che
con
riguardo all’affidamento dell’incarico all’Architetto
An.Lo. si rileva che:
- tale incarico è stato affidato al menzionato Architetto
con delibera n. 167/2011 della Giunta comunale di Pontevico,
costituendo così per il periodo dal 29 agosto al 31.12.2011
“… in applicazione dell’art. 110, comma 2, del D.Lgs. n.
267/2000, un rapporto lavorativo a tempo determinato, di
diritto privato, al di fuori della dotazione organica,
consistente nell’attribuzione della responsabilità dell’Area
Tecnica …”, in conseguenza del fatto che l’Ingegnere
Em.Ro. aveva “… presentato formale rinuncia a
ricoprire …” tale area;
- il trattamento economico complessivo risulta pari ad “…
euro 1.300,00, riferito a n. 8 ore di servizio settimanale”,
oltre all’incremento “… nella misura del 4% a titolo di
contributo previdenziale e del 20% quale imponibile IVA”;
- tale delibera è stata emessa tenendo conto anche dei “…
pareri favorevoli espressi ai sensi dell’art. 49 del D.Lgs.
18.08.2000 n. 267, per quanto di competenza, dal Segretario
Comunale, in qualità di Responsabile dell’Area
Amministrativa e di Responsabile dell’Area Finanziaria …”
e dell’attestazione di copertura finanziaria rilasciata nel
caso di specie sempre dal Segretario Comunale;
- il provvedimento in esame è stato deliberato nella
riunione della Giunta Comunale del 16.08.2011 presieduta dal
Bo. nella sua qualità di Sindaco con voti favorevoli ed
unanimi espressi da quest’ultimo unitamente al Mi. ed
al Gu. (cfr. all. n. 1 del fascicolo della Procura);
- con successiva delibera n. 5/2012 l’incarico affidato alla
Lo. veniva prorogato per tutto l’anno 2012 stabilendo il
medesimo importo e le stesse ore settimanali già individuati
nella precedente delibera;
- in tale provvedimento si è tenuto conto anche del “…
parere favorevole espresso ai sensi dell’art. 49 del D.Lgs.
18.08.2000 n. 267, per quanto di competenza, dal Segretario
Comunale, in qualità di Responsabile dell’Area
Amministrativa in ordine alla regolarità tecnica sulla
proposta di deliberazione di cui all’oggetto …” e “…
della dott.ssa Ma.St., in qualità di Responsabile
del Servizio Finanziario in ordine alla regolarità contabile
sulla proposta di deliberazione di cui all’oggetto”;
- tale delibera è stata adottata nella riunione della Giunta
Comunale del 10.01.2012 presieduta dal Gu. nella
sua qualità di Vice Sindaco con voti favorevoli ed unanimi
espressi da quest’ultimo unitamente al Fr., al
Mi. ed al Re. (cfr. all. n. 2 del fascicolo
della Procura);
- con delibera n. 64/2012 è stato deciso che
per il periodo
intercorrente dal 1° aprile al 31.12.2012 l’orario di lavoro
settimanale della Lo. fosse aumentato da 8 a 12 con
conseguente aumento dell’importo mensile da corrispondere
per euro 2.400,00 oltre al 4% a titolo di contributo
previdenziale ed al 21% per IVA;
- in tale provvedimento si è tenuto conto anche del “…
parere favorevole espresso ai sensi dell’art. 49 del D.Lgs.
18.08.2000 n. 267, per quanto di competenza, dall’arch. Lo.An., Responsabile dell’Area Tecnica, in ordine alla
regolarità tecnica sulla proposta di deliberazione di cui
all’oggetto …” e “… della dott.ssa Ma.St.,
in qualità di Responsabile del Servizio Finanziario in
ordine alla regolarità contabile sulla proposta di
deliberazione di cui all’oggetto”;
- tale delibera è stata adottata nella riunione della Giunta
Comunale del 27.03.2012 presieduta dal Bo. nella sua
qualità di Sindaco con voti favorevoli ed unanimi espressi
da quest’ultimo unitamente al Fr., al Gu., al
Re. ed al Pi. (cfr. all. n. 3 del fascicolo della
Procura);
- infine, con delibera n. 165/2012 l’incarico della Loda
veniva prorogato per tutto il 2013 con le medesime
condizioni di tempo di impiego (12 ore settimanali) ed
economiche (euro 2.400,00
oltre al 4% a titolo di contributo previdenziale ed al 21%
per IVA), già individuate nella precedente delibera;
- anche in questo caso per la formazione di tale delibera
si
è tenuto conto sempre del “… parere favorevole espresso
ai sensi dell’art. 49 del D.Lgs. 18.08.2000 n. 267, per
quanto di competenza, dall’arch. Lo.An.,
Responsabile dell’Area Tecnica, in ordine alla regolarità
tecnica sulla proposta di deliberazione di cui all’oggetto …”
e “… della dott.ssa Ma.St., in qualità di
Responsabile del Servizio Finanziario in ordine alla
regolarità contabile sulla proposta di deliberazione di cui
all’oggetto”;
- tale delibera è stata adottata nella riunione della Giunta
Comunale del 18.12.2012 presieduta dal Bo. nella sua
qualità di Sindaco con voti favorevoli ed unanimi espressi
da quest’ultimo unitamente al Fr., al Mi., al Gu., al Re. ed al Pi. (cfr. all. n. 4 del
fascicolo della Procura).
Per quanto poi riguarda la posizione della Geometra Ti.Az. si rileva invece che:
- con delibera n. 35/2012 la Giunta comunale di Pontevico ha
affidato alla menzionata Geometra “… l’incarico di
prestazione d’opera intellettuale al fine dell’espletamento
delle attività legate al settore edilizia privata ed
urbanistica …” in considerazione del fatto che “il
dipendente Ing. Em.Ro. ha presentato domanda di
mobilità in data 30/01/2012”;
- il trattamento economico risulta pari ad euro 28,00
all’ora incluso IVA ed oneri previdenziali per n. 8 ore
settimanali;
- tale delibera è stata emessa tenendo conto anche dei “…
pareri favorevoli espressi ai sensi dell’art. 49 del D.Lgs.
18.08.2000 n. 267, per quanto di competenza, dal
Responsabile dell’Area Tecnica, arch. Lo.An. e dal
Responsabile dell’Ufficio Ragioneria, Ma. dott.ssa
St., in ordine –rispettivamente– alla regolarità
tecnica e contabile sulla proposta di deliberazione di cui
all’oggetto";
- il provvedimento in esame è stato deliberato nella
riunione della Giunta Comunale del 31.01.2012 presieduta dal
Bo. nella sua qualità di Sindaco con voti favorevoli ed
unanimi espressi da quest’ultimo unitamente al Fr., al Gu. ed al Re. (cfr. all. n. 5 del fascicolo della
Procura);
- da ultimo, con delibera n. 166/2012 l’incarico della
Az. veniva prorogato per tutto il 2013 con le medesime
condizioni di tempo di impiego (8 ore settimanali) ed
economiche (euro 28,00 all’ora incluso IVA ed oneri
previdenziali), già individuate nella precedente delibera;
- anche in questo caso per la formazione di tale delibera
si
è tenuto conto sempre dei “… pareri favorevoli espressi
ai sensi dell’art. 49 del D.Lgs. 18.08.2000 n. 267, per
quanto di competenza, dal Responsabile dell’Area Tecnica,
arch. Lo.An. e dal Responsabile dell’Ufficio
Ragioneria, Ma. dott.ssa St., in ordine
–rispettivamente– alla regolarità tecnica e contabile sulla
proposta di deliberazione di cui all’oggetto";
- tale delibera è stata adottata nella riunione della Giunta
Comunale del 18.12.2012 presieduta dal Bo. nella sua
qualità di Sindaco con voti favorevoli ed unanimi espressi
da quest’ultimo unitamente al Fr., al Mi., al Gu., al Re. ed al Pi. (cfr. all. n. 5.1 del
fascicolo della Procura).
Tanto premesso, per entrambe le posizioni sopra
dettagliatamente descritte
il Collegio rileva la sussistenza
di tutti gli elementi costitutivi della responsabilità
amministrativa nei confronti degli odierni convenuti.
Ora prima di esaminare distintamente per posizione (Lo. e Az.) i profili di antigiuridicità delle condotte poste
in essere dagli odierni convenuti va rilevato a fattor
comune che il Regolamento del Comune di Pontevico all’art.
2, punto 6) precisa che “in caso di
mancato rispetto del Patto di stabilità, sussistendone
l’obbligo, non possono essere conferiti incarichi nell’anno
successivo”.
Pertanto, considerato che l’incarico è stato affidato alla
Lo. il 29.08.2011 e alla Az. il 31.01.2012, poi
entrambi prorogati nelle successive annualità,
deve rilevarsi,
come peraltro evidenziato nella
delibera
20.02.2014 n. 83 e
nella
delibera 20.02.2014 n. 84 della Sezione
di Controllo per la Regione Lombardia “… la
mancanza del presupposto di legittimità per l’affidamento di
incarichi per gli esercizi 2012 e 2013, in palese violazione
del regolamento comunale” atteso che “… il comune di
Pontevico, mediante elusione, non ha rispettato il Patto di
stabilità per l’anno 2010 (così come accertato dalla
deliberazione di questa Sezione n. 409/2012/PRSE depositata
il 25/09/2012, con corredo sanzionatorio per l’anno 2013) ed
ha violato il Patto di stabilità per l’anno 2011 (delibera
n. 293/2013/PRSE depositata il 25/06/2013, con applicazione
delle sanzioni per l’anno 2012, susseguente la violazione)”.
Tanto precisato, con riguardo all’incarico affidato
all’Architetto Lo. deve evidenziarsi, ai fini del corretto
inquadramento della vicenda in esame, che l’art. 110, commi
1, 2 e 3 del TUEL, D.lgs. n. 267/2000 –nel testo precedente
le modifiche apportate dal D.L. 24.06.2014, n. 90– così
disponeva: "1. Lo statuto può prevedere che la copertura
dei posti di responsabili dei servizi o degli uffici, di
qualifiche dirigenziali o di alta specializzazione, possa
avvenire mediante contratto a tempo determinato di diritto
pubblico o, eccezionalmente e con deliberazione motivata, di
diritto privato, fermi restando i requisiti richiesti dalla
qualifica da ricoprire;
2. Il regolamento sull'ordinamento degli uffici e dei
servizi, negli enti in cui è prevista la dirigenza,
stabilisce i limiti, i criteri e le modalità con cui possono
essere stipulati, al di fuori della dotazione organica,
contratti a tempo determinato per i dirigenti e le alte
specializzazioni, fermi restando i requisiti richiesti per
la qualifica da ricoprire. Tali contratti sono stipulati in
misura complessivamente non superiore al 5 per cento del
totale della dotazione organica della dirigenza e dell'area
direttiva e comunque per almeno una unità. Negli altri enti,
il regolamento sull'ordinamento degli uffici e dei servizi
stabilisce i limiti, i criteri e le modalità con cui possono
essere stipulati, al di fuori della dotazione organica, solo
in assenza di professionalità analoghe presenti all'interno
dell'ente, contratti a tempo determinato di dirigenti, alte
specializzazioni o funzionari dell'area direttiva, fermi
restando i requisiti richiesti per la qualifica da
ricoprire. Tali contratti sono stipulati in misura
complessivamente non superiore al 5 per cento della
dotazione organica dell'ente arrotondando il prodotto
all'unità superiore, o ad una unità negli enti con una
dotazione organica inferiore alle 20 unità;
3. I contratti di cui ai precedenti commi non possono avere
durata superiore al mandato elettivo del sindaco o del
presidente della provincia in carica. Il trattamento
economico, equivalente a quello previsto dai vigenti
contratti collettivi nazionali e decentrati per il personale
degli enti locali, può essere integrato, con provvedimento
motivato della giunta, da una indennità ad personam,
commisurata alla specifica qualificazione professionale e
culturale, anche in considerazione della temporaneità del
rapporto e delle condizioni di mercato relative alle
specifiche competenze professionali. Il trattamento
economico e l'eventuale indennità ad personam sono definiti
in stretta correlazione con il bilancio”.
Alla luce del riportato testo normativo, appare ora
necessario esaminare le due distinte previsioni di cui al
primo ed al secondo comma del citato art. 110.
Il diverso ambito di applicazione delle due ipotesi,
oltre a risultare evidente dal dato letterale, riferendosi
un caso alla copertura di posti di responsabile di
area amministrativa “già in organico”, l’altro
ai contratti a tempo determinato stipulati “al di fuori
della dotazione organica”, è chiarito anche dalle
SS.RR. di questa Corte che in sede di controllo
(Del. nn. 12 e 13 del 2011) si sono
pronunciate in ordine alla diretta applicabilità agli enti
territoriali, limitatamente al conferimento degli incarichi
dirigenziali a contratto previsti dall’art. 110, comma 1,
TUEL, delle disposizioni contenute nell’art. 19, commi 6 e
6-bis, del d.lgs. 165/2011 ed hanno avuto modo di definire
quella al comma 2 come “una fattispecie del tutto diversa
da quella disciplinata dal comma precedente, in quanto volta
a sopperire, ad esigenze gestionali straordinarie che, sole,
determinano l’opportunità di affidare funzioni, anche
dirigenziali, extra ordinem e quindi al di là delle
previsioni della pianta organica dell’Ente locale”.
Tanto precisato, il caso in esame risulta più correttamente
riconducibile al comma 1 dell’art. 110, riferendosi
all’affidamento di un posto di funzioni già previsto in
pianta organica.
Infatti, la riconducibilità del caso di specie all’ipotesi
disciplinata al comma 1 dell’art. 110 del TUEL è peraltro
affermata –contraddittoriamente con le motivazioni delle
delibere sopra richiamate e con le prospettazioni difensive
opposte nell’odierno giudizio– nella stessa iniziale
delibera n. 167/2011 di conferimento dell’incarico alla Lo.
ove si precisa che “… si rende
necessario provvedere all’individuazione ed al conferimento
dell’incarico di responsabile dell’Area Tecnica”.
Pertanto, rientrando la fattispecie in
esame nell’ambito di applicazione del comma 1 dell’art. 110
TUEL, molteplici appaiono i profili di illegittimità che
hanno caratterizzato la condotta dei convenuti.
Comunque, anche prescindendo dal fatto che si applichi al
caso di specie il comma 1 e non il comma 2 dell’art. 110 del
TUEL, è indubbio che nell'individuazione
dei soggetti cui conferire un incarico ai sensi di tale
articolo di legge siano insuperabili i fondamentali canoni
di legittimità, imparzialità e buon
andamento, ai sensi dell'articolo 97 della Costituzione,
in ragione dei quali, pur essendo insiti in tali procedure
il carattere della discrezionalità ed un margine più o meno
ampio di fiduciarietà, è indispensabile che le
amministrazioni assumano la relativa determinazione con una
trasparente ed oggettiva valutazione della professionalità
del soggetto affidatario che non può basarsi su valutazioni
meramente soggettive, ma deve essere ancorata quanto più
possibile a circostanze oggettive.
L'esigenza di operare scelte discrezionali
ancorate a parametri quanto più possibili oggettivi e
riscontrabili evidenzia l'opportunità che le amministrazioni
si dotino preventivamente di un sistema di criteri generali
per l'affidamento, il mutamento e la revoca degli incarichi.
Ciò al fine di consolidare anche in questo ambito la
trasparenza e ridurre le possibilità di contenzioso.
Tale convincimento si fonda anche su costante giurisprudenza
della Corte Costituzionale
(sentenze n. 103 e 104 del 2007 e sentenza n. 161 del 2008)
che ha espresso un chiaro orientamento
volto ad escludere l’esistenza di una “dirigenza di
fiducia” e dunque la possibilità di un’interpretazione
della normativa vigente nel senso di ammettere la scelta
discrezionale, senza limiti, dei soggetti esterni all’ente
cui conferire gli incarichi, nonché la necessità di forme di
pubblicità che assicurino la trasparenza, procedure
comparative anche non concorsuali, richiedendo quindi una
procedimentalizzazione dell’iter da seguire.
Con riferimento al caso di specie gli
odierni convenuti, ciascuno secondo il ruolo ricoperto
nell’adozione delle deliberazioni in argomento, hanno,
invece, determinato il conferimento diretto dell’incarico ad personam alla Lo., senza avere preventivamente fissato i
criteri per la selezione e valutazione dei curricula
dei potenziali aspiranti né adottato misure di pubblicità ma
effettuando tale scelta sulla base di una valutazione
personale ampiamente discrezionale.
Appare dunque, in assenza di idonea
motivazione, del tutto irragionevole, quasi al limite della
contraddittorietà, la scelta operata dal Sindaco e dalla
Giunta, con l’assistenza del Segretario comunale di affidare
ad un soggetto estraneo all’Amministrazione le funzioni di
Responsabile dell’Area Tecnica del Comune di Pontevico.
Passando ora all’incarico affidato alla Az. è
sufficiente sul punto fare integrale richiamo agli
innumerevoli profili di illegittimità individuati dalla
delibera 20.02.2014 n. 84 della Sezione regionale di Controllo Lombardia
e condivisibilmente rilevati anche per l’incarico
alla Loda con la
delibera
20.02.2014 n. 83 sempre della stessa Sezione
regionale.
In particolare, in quella sede per entrambi gli incarichi è
stata eccepita la violazione dell’art. 7 TUPI nella parte in
cui “… impone lo svolgimento di procedure comparative per
l’affidamento di ogni incarico …” e relativamente “…
alla durata dell’incarico e al contenuto delle mansioni
affidate esternamente”.
Nello specifico per entrambe le posizioni è stato affermato
che “… non è riscontrabile il
presupposto di eccezionalità, in quanto la necessità di un
dipendente con professionalità tecniche per l’ente locale
rappresenta una esigenza organizzativa che si configura come
permanente. Ne consegue che l’ente locale conferente non può
far ricorso all’affidamento di incarichi a soggetti estranei
per lo svolgimento di funzioni ordinarie, attribuibili a
personale che dovrebbe essere previsto in organico,
altrimenti questa esternalizzazione si tradurrebbe in una
forma atipica di assunzione, con conseguente elusione delle
disposizioni in materia di accesso all’impiego nelle
Pubbliche amministrazioni, nonché di contenimento della
spesa di personale”
(cfr.
delibera
20.02.2014 n. 83
e
delibera 20.02.2014 n. 84 Sez. Regionale Controllo Lombardia).
Occorre ora valutare se le condotte finora descritte siano
frutto di comportamenti dolosi o gravemente colposi che
hanno prodotto danno all’erario comunale.
In proposito, si ritiene che il
comportamento tenuto da tutti i convenuti nell’odierno
giudizio sia particolarmente inescusabile e connotato da
colpa grave, alla luce dell’inequivoca normativa di
riferimento e della costante giurisprudenza della Corte
costituzionale e di questa Corte formatasi in materia di
conferimento di incarichi a soggetti estranei
all’Amministrazione.
Risulta di immediata percezione, infatti,
che il carattere indubbiamente fiduciario delle nomine non
può debordare nell’arbitrio ma deve comunque corrispondere a
dei canoni (sindacabili in questa sede) di ragionevolezza e
buona amministrazione.
Pertanto, anche ammettendo l’impossibilità,
indimostrata nell’odierno giudizio, di far fronte al
fabbisogno con professionalità interne, ipotizzate non
idonee, l’acquisizione dall’esterno di tali figure doveva
avvenire previa verifica delle professionalità disponibili,
condotta anche a seguito di idonea pubblicità.
In relazione alla sussistenza del danno e alla sua
quantificazione, secondo la Procura esso in fattispecie
consiste nella retribuzione lorda, pari ad euro 99.870,77,
che il Comune di Pontevico ha corrisposto complessivamente
alla Lo. e alla Az. per effetto del conferimento e
delle successive proroghe dei due incarichi.
Tale importo è stato addebitato agli odierni convenuti e per
la ripartizione delle relative quote ne sono stati
ipotizzati i criteri, come in fatto riportati.
Tutto ciò premesso, prima dell’individuazione della
percentuale di responsabilità dei convenuti, il Collegio
deve valutare la fondatezza dell’eccezione difensiva per cui
dal danno erariale, come prospettato dalla Procura, dovrebbe
essere detratta l’utilitas comunque conseguita
dall’Amministrazione comunale, ipotizzata in via subordinata
dai convenuti.
Nel caso specifico, considerato che nel loro complesso i due
incarichi consentivano di svolgere in sostanza le medesime
funzioni che l’Ing. Ro. svolgeva per dovere
istituzionale alle dipendenze dell’Amministrazione comunale
(prima della formale rinuncia di quest’ultimo a ricoprire la
P.O. dell’Area Tecnica e del suo trasferimento per mobilità
volontaria), ne deriva la ricorrenza dei presupposti per
riconoscere l’utilità delle attività comunque svolte in
esecuzione degli incarichi in esame a vantaggio del Comune
di Pontevico. Inoltre, poiché detta utilità è conseguenza
immediata e diretta dello stesso fatto causativo
dell'addebito contestato, la stessa deve considerarsi come
un vantaggio economicamente valutabile (cfr. Sez. Emilia
Romagna n. 874 del 19.03.2002 e n. 12 del 19.01.1998; Sez. III n. 126 dell’11.05.1998; Sez. Lombardia n. 1000 del
24.06.1998).
Tale utilità, si precisa tuttavia, non è idonea, come invece
vorrebbero le difese dei convenuti, ad elidere integralmente
il pregiudizio patrimoniale causato al Comune di Pontevico.
Di conseguenza, operando una valutazione equitativa delle
prestazioni svolte dall’Architetto Lo. e dalla Geometra Az. per l’Amministrazione danneggiata e tenuto conto
dei vantaggi da questa conseguiti in conseguenza degli
incarichi illegittimi, si ritiene equo determinare il danno
nell’importo complessivo di euro 30.000,00 comprensivo di
rivalutazione monetaria. Detto importo tiene conto delle
retribuzioni che in ogni caso il Comune avrebbe dovuto
erogare in favore del funzionario destinato a svolgere
quelle mansioni.
Pertanto, ferma restando la quantificazione generale del
danno così rideterminata, la ricostruzione sin qui svolta
induce a ritenere che, per quanto attiene al Sindaco Bo.,
il suo ruolo sia stato preminente rispetto agli altri
componenti della Giunta, avendo sia per la Lo. che per l’Az.
presieduto, votando in senso favorevole, le sedute che hanno
deliberato l’affidamento dei rispettivi incarichi; ad esso,
pertanto, deve essere imputato il 20% del danno anche in
considerazione del fatto che ha presieduto, votando sempre
in senso favorevole, anche le sedute di Giunta che hanno
prorogato tali incarichi ad eccezione di quella tenutasi in
data 10.01.2012 che ha visto la proroga dell’incarico
affidato alla Lo. per tutto il 2012 e per la quale è
risultato assente. Inoltre, si aggiunga anche il fatto che
sempre il Bo. ha firmato in rappresentanza del Comune di
Pontevico i disciplinari di incarico in esecuzione delle
delibere in esame.
Per quanto poi riguarda il Vice Sindaco Gu. (presente a
tutte le sedute che hanno dato luogo sia all’affidamento
degli incarichi sia ai successivi rinnovi e votante in
tutte, in senso favorevole) e l’Assessore Fr. (assente
solo nella seduta di Giunta del 16.08.2011 che ha
determinato con delibera n. 167/2011 il conferimento
dell’incarico alla Lo. e presente, nonché votante in senso
favorevole in tutte le altre sedute) il Collegio ritiene che
l’acritica ratifica delle decisioni portate all’attenzione
degli organi collegiali abbia contribuito al verificarsi del
pregiudizio accertato e debba essere sanzionata con
l’addebito rispettivamente del 10% al Gu. e del 5% al
Fr. del danno erariale così come sopra complessivamente
quantificato.
La rimanente quota del 15% addebitabile agli altri
componenti della Giunta regionale (Mi., Re. e
Pi.) presenti (in particolare solo Mi. per la
delibera n. 167/2011; Mi. e Re. per la delibera
n. 5/2012; Re. per la delibera n. 35/2012; Re. e
Pi. per la delibera n. 64/2012; Mi., Re. e
Pi. per la delibera 165/2012 e sempre Mi., Re. e Pi. per la delibera n. 166/2012) nelle
sedute in esame e votanti sempre in senso favorevole, dovrà
restare a carico della collettività, stante la mancata
citazione nei confronti di questi ultimi.
Sussiste altresì la specifica responsabilità sempre per
colpa grave del segretario comunale Lo. avendo questi
vistato tutti i disciplinari di incarico in esecuzione delle
delibere in trattazione e rilasciato:
- per la delibera n. 167/2011 (con cui è stato conferito per
la prima volta l’incarico alla Lo.) il parere favorevole
nella qualità sia di Responsabile dell’Area Amministrativa
che di quella Finanziaria, nonché l’attestazione di
copertura finanziaria;
- per la delibera n. 5/2012 il parere favorevole nella
qualità di Responsabile dell’Area Amministrativa.
Al segretario Lo. deve, quindi, essere imputata, anche
in considerazione della partecipazione attiva solo in due
delibere, una quota pari al 20% del danno riconosciuto.
Per quanto poi riguarda la Dott.ssa Ma. il Collegio
rileva che quest’ultima deve altresì rispondere sempre per
colpa grave avendo questi rilasciato:
- per la delibera n. 5/2012 il parere favorevole in qualità
di Responsabile del Sevizio Finanziario;
- per la delibera n. 35/2012 il parere favorevole in qualità
di Responsabile dell’Ufficio di Ragioneria;
- per la delibera n. 64/2012 il parere favorevole in qualità
di Responsabile del Servizio Finanziario;
- per la delibera n. 165/2012 il parere favorevole in
qualità di Responsabile del Servizio Finanziario;
- per la delibera n. 166/2012 il parere favorevole in
qualità di Responsabile dell’ufficio di Ragioneria.
Pertanto, alla Dott.ssa Ma., considerato il diffuso
apporto tecnico fornito, deve essere imputata una quota pari
al 20% del danno riconosciuto.
La rimanente quota del 10% addebitabile al Revisore dei
conti per il parere favorevole fornito ai sensi del comma 42
dell’art. 1 della legge n. 311/2004 sulla delibera n.
35/2012, dovrà altresì restare a carico della collettività,
stante la mancata citazione nei confronti di questi ultimi.
Di conseguenza il complessivo danno erariale, quantificato
in complessivi euro 30.000,00, deve così imputarsi:
- Bo. la somma di euro 6.000,00 (20% di euro 30.000,00);
- Gu. la somma di euro 3.000,00 (10% di euro
30.000,00);
- Fr. la somma di euro 1.500,00 (5% di euro 30.000,00);
- Lo. la somma di euro 6.000,00 (20% di euro 30.000,00);
- Ma. la somma di euro 6.000,00 (25% di euro 30.000,00).
La condanna alle spese segue la soccombenza anche per i
convenuti dichiarati contumaci, sulla base del consolidato
principio della Corte di Cassazione secondo cui “l’individuazione
del soccombente si fa in base al principio di causalità, con
la conseguenza che parte obbligata a rimborsare alle altre
le spese che hanno anticipato nel processo, è quella che,
col comportamento tenuto fuori del processo, ovvero col
darvi inizio o resistervi in forme e con argomenti non
rispondenti al diritto, ha dato causa al processo o al suo
protrarsi” (cfr. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 7182 del
30/05/2000 e recentemente Cass. Civ. Sez. VI Ordinanza n.
373 del 13.01.2015)
(Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Lombardia,
sentenza 04.08.2015 n. 142). |
21.08.2015 - LA SEGRETERIA
PTPL |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: Deve
darsi atto che in ordine alla vexata quaestio della sorte
del parere reso dalla Soprintendenza oltre il termine di cui
all’art. 146 d.lgs. n. 42/2004 (nella formulazione vigente,
ratione temporis acti, prima delle recenti modifiche
introdotte dall’articolo 25, comma 3 del decreto-legge
12.09.2014, n. 133 convertito con modificazioni dalla legge
11.11.2014, n. 164: ma si vedrà che, per quanto di
interesse, le considerazioni che seguono valgono anche, con
qualche integrazione e precisazione, in relazione allo jus
superveniens) non sussiste, in dottrina ed anche in
giurisprudenza, concordia di opinioni: onde sarà da
stigmatizzare che, su questione di tale importanza non meno
teorica che pratica, il Consiglio di Stato abbia, allo
stato, omesso la devoluzione alla cognizione della adunanza
plenaria, preferendo formalizzare il contrasto.
---------------
Merita puntualizzare come nel vigente quadro normativo, che
segnatamente attribuisce al previo parere della
Soprintendenza natura vincolante (art. 146, comma 5), la
Soprintendenza eserciti non più un sindacato di mera
legittimità (come previsto nel regime previgente ed ancora,
in prospettiva transitoria, dall'art. 159 D.Lgs. n. 42 del
2004) sull'atto autorizzatorio di base adottato dalla
Regione o dall'ente subdelegato, con il correlativo potere
di annullamento ad estrema difesa del vincolo, ma una
valutazione di “merito amministrativo”, espressione dei
nuovi poteri di cogestione del vincolo paesaggistico.
Per tal via, se ci si limita ad una prospettiva formalistica
si può ancora soggiungere che il parere vincolante abbia un
contenuto “sempre e soltanto valutativo e non volitivo e
decisionale”, restando come tale manifestazione di attività
propriamente consultiva e comportando un obbligo di
conformarsi ma non di attuare l’altrui volontà (con il che
–non potendo riguardarsi il provvedimento finale,
costitutivo degli effetti, quale meramente esecutivo del
parere– questo conserverebbe la sua autonomia, dovendo
nettamente distinguersi dagli atti della fase decisoria).
E però –se si guarda, con maggiore plausibilità, alla
sostanza e ci si muove, quindi, in prospettiva funzionale–
dovrà riconoscersi che il parere vincolante incide, in
generale, necessariamente e direttamente sul contenuto del
provvedimento, onde, lungi dal collocarsi nella fase
propriamente preparatoria, appartiene già al momento
decisionale: ed euristicamente apprezzabile si rivela, a tal
fine, l’evidenziazione di una (in certo senso autonoma) fase
c.d. predecisionale, tecnicamente distinta sia dalla fase
istruttoria che dal momento della giuridica e formale
costituzione degli effetti (in tali sensi, sostanzialmente,
Cons. Stato n. 2751/2015, che fa parola di funzione
consultiva congiunta ad una valenza sostanzialmente
codecisionale rispetto alla determinazione di autorizzazione
paesaggistica emanata dal Comune).
Se ne trae ragione –in conformità ad una tradizionale,
seppur non incontrastata, opinione dottrinaria– per bene
intendere come i pareri in questione (che non solo sono
obbligatori nell’an -e, dunque, tecnicamente vincolati-
perché, in base alla legge regolativa del procedimento e
nella prospettiva della doverosità dell’iniziativa
procedimentale, il responsabile è giuridicamente tenuto a
non ometterne la richiesta, ma sono parimenti obbligatori
nel quomodo, ed in questo senso appunto vincolanti, perché,
dal punto di vista degli effetti, l’autorità decidente è
altresì tenuta, sempre in base a quella legge, a recepirne
gli esiti nel formale provvedimento conclusivo) non possano
rientrare nell’ambito applicativo dell’art. 16 della l. n.
241/1990.
La sottrazione al regime del c.d. silenzio-facoltativo, in
definitiva, non discende, come talora si opina, dalla
circostanza che, sul piano testuale, l’art. 16 richiami solo
i pareri obbligatori e quelli facoltativi, senza appunto far
cenno a quelli vincolanti: si tratta, invero, come ognun
s’avvede, di rilievo di per sé destinato a provare troppo,
una volta chiarito che la distinzione tra pareri facoltativi
ed obbligatori si muove su una linea di demarcazione che
guarda alla doverosità della richiesta di consulenza,
disinteressandosi del consequenziale profilo effettuale:
onde, in buona sostanza, il silenzio della previsione
normativa è anodino, non legittimando l’argomentazione a
contrariis.
I pareri in questione restano, insomma, fuori dell’art. 16
non già perché (negativamente) la norma non li richiami, ma
perché (positivamente) richiama solo i pareri resi
nell’esercizio di attività (tecnicamente) consultiva (come
tale formalmente ausiliaria e funzionalmente neutra rispetto
agli interessi in gioco).
Se ne trae persuasiva conferma dal rilievo per cui
ricomprendere i pareri vincolati nella sfera di operatività
dell’art. 16 condurrebbe ad una insanabile contraddizione
logica, in quanto un parere definito per legge come
vincolante finirebbe di fatto col perdere tale sua
qualificazione se si riconoscesse all’amministrazione attiva
la possibilità di prescinderne (con il che, per un verso, si
finirebbe per annullare l’effetto dello spostamento, preteso
dalla legge, del potere decisorio dall’amministrazione
attiva a quella “consultiva” e, per altro verso, si
eliderebbe, in fatto, la logica per la quale, se il
legislatore ha previsto un determinato parere come
vincolante, ha evidentemente ritenuto quegli apprezzamenti
di cui l’atto “consultivo” è veicolo di emersione contenuto
essenziale, e come tale non eludibile, della decisione).
---------------
Allo stato, il Collegio ritiene preferibile l’orientamento
secondo cui il decorso del termine di 45 giorni non solo non
precluda alla Soprintentenza, fintantoché non sopravvenga la
decisione surrogatoria del Comune, di provvedere, ma neppure
sottragga al parere tardivo la sua ordinaria attitudine
vincolante.
2.- Con un primo motivo di doglianza, la ricorrente
criticamente assume che il gravato parere soprintendizio,
reso oltre il termine di quarantacinque giorni scolpito
all’art. 146 d.lgs. n. 42/2004, nella sua vigente
formulazione, non avrebbe potuto essere acquisito quale
vincolante l’Amministrazione comunale (che, su tale
presupposto, vi si era acriticamente adeguata), ma –in
quanto degradato a mera espressione di attività consultiva–
avrebbe al più, in quanto comunque adottato prima della
definitiva determinazione comunale, essere acquisito quale
(ordinario) parere non vincolante, a fronte del quale
sarebbe stato onere del Comune (specie a fronte delle
puntuali controdeduzioni formalizzate dalla ricorrente
all’esito del notificato preavviso di rigetto) di fornire
puntuale riscontro motivazionale, se del caso auspicabilmente discostandosene ove avesse condiviso le
argomentate ragioni di illegittimità.
2.1.- La censura non può essere condivisa.
In verità, deve darsi atto che in ordine alla vexata
quaestio della sorte del parere reso dalla Soprintendenza
oltre il termine di cui all’art. 146 d.lgs. n. 42/2004
(nella formulazione vigente, ratione temporis acti, prima
delle recenti modifiche introdotte dall’articolo 25, comma 3
del decreto-legge 12.09.2014, n. 133 convertito con
modificazioni dalla legge 11.11.2014, n. 164: ma si
vedrà che, per quanto di interesse, le considerazioni che
seguono valgono anche, con qualche integrazione e
precisazione, in relazione allo jus superveniens) non
sussiste, in dottrina ed anche in giurisprudenza, concordia
di opinioni: onde sarà da stigmatizzare che, su questione di
tale importanza non meno teorica che pratica, il Consiglio
di Stato abbia, allo stato, omesso la devoluzione alla
cognizione della adunanza plenaria, preferendo formalizzare
il contrasto.
La norma in questione, nella formulazione previgente,
prevedeva:
a) che il soprintendente rendesse il prescritto parere sulla
compatibilità paesaggistica del progettato intervento entro
il termine di quarantacinque giorni dalla ricezione degli
atti;
b) che il parere negativo fosse, in ogni caso, preceduto
dalla comunicazione agli interessati del preavviso di
provvedimento negativo ai sensi dell'articolo 10-bis della
legge 07.08.1990, n. 241;
c) che entro i venti giorni dalla ricezione,
l'amministrazione procedente (nel caso in esame, il Comune)
provvedesse “in conformità”.
Era, altresì, previsto che, decorso inutilmente il ridetto
termine di quarantacinque giorni senza che il Soprintendente
avesse reso il prescritto parere, l'Amministrazione
competente avrebbe potuto indire una conferenza di servizi,
che si pronunziasse entro il termine (dichiaratamente)
perentorio di quindici giorni (possibilità, questa, allo
stato preclusa dalle modifiche introdotte dal d.l. n.
133/2014, che hanno eliminato il richiamo al procedimento in
conferenza).
In ogni caso, decorsi inutilmente sessanta giorni dalla
ricezione degli atti da parte del soprintendente,
l'amministrazione competente “provvede sulla domanda di
autorizzazione”.
È, altresì, previsto che, ove l’Amministrazione procedente
non provveda nel ridetto termine di venti giorni,
l’interessato possa attivare la competenza surrogatoria
della Regione.
2.2.- Ciò posto, merita, anzitutto, puntualizzare, ai fini
di una puntuale risoluzione della lite, come, nel rammentato
quadro normativo, che segnatamente attribuisce al previo
parere della Soprintendenza natura vincolante (art. 146,
comma 5), la Soprintendenza eserciti non più un sindacato di
mera legittimità (come previsto nel regime previgente ed
ancora, in prospettiva transitoria, dall'art. 159 D.Lgs. n.
42 del 2004) sull'atto autorizzatorio di base adottato dalla
Regione o dall'ente subdelegato, con il correlativo potere
di annullamento ad estrema difesa del vincolo (su cui v.
Cons. Stato, ad. plen., 14.12.2001, n. 9), ma una
valutazione di “merito amministrativo”, espressione dei
nuovi poteri di cogestione del vincolo paesaggistico (cfr.
Cons. Stato, Sez. VI, 25.02.2013, n. 1129).
Per tal via, se ci si limita ad una prospettiva formalistica
(valorizzata, per esempio,
da Cass., sez. I, 27.06.2005, n. 13749 e da ultimo, con
maggior pertinenza, da Cons. Stato, sez. VI, 04.06.2015,
n. 2721) si può ancora soggiungere che il parere vincolante
abbia un contenuto “sempre e soltanto valutativo e non
volitivo e decisionale”, restando come tale manifestazione
di attività propriamente consultiva e comportando un obbligo
di conformarsi ma non di attuare l’altrui volontà (con il
che –non potendo riguardarsi il provvedimento finale,
costitutivo degli effetti, quale meramente esecutivo del
parere– questo conserverebbe la sua autonomia, dovendo
nettamente distinguersi dagli atti della fase decisoria).
E però –se si guarda, con maggiore plausibilità, alla
sostanza e ci si muove, quindi, in prospettiva funzionale–
dovrà riconoscersi che il parere vincolante incide, in
generale, necessariamente e direttamente sul contenuto del
provvedimento, onde, lungi dal collocarsi nella fase
propriamente preparatoria, appartiene già al momento
decisionale: ed euristicamente apprezzabile si rivela, a tal
fine, l’evidenziazione di una (in certo senso autonoma) fase
c.d. predecisionale, tecnicamente distinta sia dalla fase
istruttoria che dal momento della giuridica e formale
costituzione degli effetti (in tali sensi, sostanzialmente,
Cons. Stato n. 2751/2015, che fa parola di funzione
consultiva congiunta ad una valenza sostanzialmente
codecisionale rispetto alla determinazione di autorizzazione
paesaggistica emanata dal Comune).
Se ne trae ragione –in conformità ad una tradizionale,
seppur non incontrastata, opinione dottrinaria– per bene
intendere come i pareri in questione (che non solo sono
obbligatori nell’an
-e, dunque, tecnicamente vincolati- perché, in base alla
legge regolativa del procedimento e nella prospettiva della
doverosità dell’iniziativa procedimentale, il responsabile è
giuridicamente tenuto a non ometterne la richiesta, ma sono
parimenti obbligatori nel quomodo, ed in questo senso
appunto vincolanti, perché, dal punto di vista degli
effetti, l’autorità decidente è altresì tenuta, sempre in
base a quella legge, a recepirne gli esiti nel formale
provvedimento conclusivo) non possano rientrare nell’ambito
applicativo dell’art. 16 della l. n. 241/1990.
La sottrazione al regime del c.d. silenzio-facoltativo, in
definitiva, non discende, come talora si opina, dalla
circostanza che, sul piano testuale, l’art. 16 richiami solo
i pareri obbligatori e quelli facoltativi, senza appunto far
cenno a quelli vincolanti: si tratta, invero, come ognun
s’avvede, di rilievo di per sé destinato a provare troppo,
una volta chiarito che la distinzione tra pareri facoltativi
ed obbligatori si muove su una linea di demarcazione che
guarda alla doverosità della richiesta di consulenza,
disinteressandosi del consequenziale profilo effettuale:
onde, in buona sostanza, il silenzio della previsione
normativa è anodino, non legittimando l’argomentazione a contrariis.
I pareri in questione restano, insomma, fuori dell’art. 16
non già perché (negativamente) la norma non li richiami, ma
perché (positivamente) richiama solo i pareri resi
nell’esercizio di attività (tecnicamente) consultiva (come
tale formalmente ausiliaria e funzionalmente neutra rispetto
agli interessi in gioco).
Se ne trae persuasiva conferma (e, circolarmente, forte
argomento ex positivo jure a sostegno della argomentata
opzione dogmatica per la collocazione nella fase
predecisionale) dal rilievo per cui ricomprendere i pareri
vincolati nella sfera di operatività dell’art. 16
condurrebbe ad una insanabile contraddizione logica, in
quanto un parere definito per legge come vincolante
finirebbe di fatto col perdere tale sua qualificazione se si
riconoscesse all’amministrazione attiva
la possibilità di prescinderne (con il che, per un verso, si
finirebbe per annullare l’effetto dello spostamento, preteso
dalla legge, del potere decisorio dall’amministrazione
attiva a quella “consultiva” e, per altro verso, si
eliderebbe, in fatto, la logica per la quale, se il
legislatore ha previsto un determinato parere come
vincolante, ha evidentemente ritenuto quegli apprezzamenti
di cui l’atto “consultivo” è veicolo di emersione contenuto
essenziale, e come tale non eludibile, della decisione).
2.3.- L’inapplicabilità del regime del silenzio-facoltativo,
impone di porre su diverse basi la questione, oggetto di
controversia, del parere (segnatamente negativo) reso dalla
Soprintendenza successivamente al decorso del richiamato
termine di quarantacinque giorni (e, fino alla entrata in
vigore del d.l. n. 133/2014, successivamente all'indizione
da parte dell'amministrazione procedente, della speciale
conferenza di servizi di cui al previgente comma 8 dell’art.
146).
Sul tema sono astrattamente ipotizzabili tre opzioni
(esaminate, da ultimo, con copia di argomentazioni da Cons.
Stato, sez. VI, 27.04.2015, n. 2136, che nondimeno
attinge –peraltro in piena conformità alla tesi valorizzata
dalla odierna ricorrente– conclusioni non persuasive, dalle
quali ci si dovrà, per tal via, discostare):
a) in base a una prima opzione (seguita da numerose
pronunzie di prime cure, che muovono dalla ritenuta
perentorietà del termine de quo) in siffatte ipotesi
dovrebbe concludersi nel senso dell'intervenuta consumazione
del potere per l'organo statale di rendere un qualunque
parere (di carattere vincolante o meno): il parere tardivo
sarebbe, per l’effetto, nullo e, come tale, improduttivo di
effetti;
b) in base ad una seconda opzione (dovendosi, al contrario,
riconoscere carattere meramente ordinatorio al richiamato
termine, in assenza di una espressa e sicura comminatoria di
preclusione nel paradigma legale: arg. a contrario ex art.
167 d.lgs. n. 42/2004) dovrebbe concludersi nel senso della
(piena) permanenza in capo alla Soprintendenza del potere di
emanare un parere di carattere comunque vincolante (con il
che –per ovvie e consequenziali, ancorché di rado
esplicitate ad anche solo bene intese, ragioni di coerenza
sistematica– il potere di adottare comunque il
provvedimento, intestato all’Amministrazione procedente,
andrebbe riguardato, nella logica imposta dall’art. 97 Cost.
e del sotteso principio di legalità organizzativa, quale
manifestazione di apposita competenza surrogatoria);
c) in base a una terza opzione interpretativa (oggetto di
autorevoli auspici dottrinari e, appunto, di recenti
recepimenti pretori) nelle ridette ipotesi non potrebbe
escludersi in radice la possibilità per l'organo statale di
rendere comunque un parere in ordine alla compatibilità
paesaggistica dell'intervento; tuttavia il parere in parola
perderebbe il carattere di vincolatività (dovendo, per
l’effetto, acquisirsi in termini di parere meramente
obbligatorio, che, come tale, dovrebbe essere autonomamente
valutato dall'amministrazione deputata all'adozione
dell'atto autorizzatorio finale, non più in thesi
assoggettava al vincolo di conformazione).
2.3.1.- L’opzione sub a) (peraltro seguita, ancora di
recente ed ex aliis da TAR Lazio, Latina, sez. I, 29.06.2015, senza particolare motivazione e da TAR Napoli, sez. VII, 25.05.2015, n. 2879, che ha argomentato
essenzialmente dal confronto con l’art. 167 d.lgs. cit.) va
respinta.
A tal fine vale il richiamo alle conclusioni di Cons. Stato,
sez. VI, 04.10.2013, n. 4914 (in termini simili, cfr.
anche Cons. Stato, VI., 18.09.2013, n. 4656), che ha
argomentato (aderendo, in sostanza, alle posizioni della
tesi di cui supra sub b) nel senso che –nel caso di mancato
rispetto del termine fissato dall’art. 146, comma 5 (così
come, del resto, del termine fissato dall’art. 167, comma 5,
quest’ultimo espressamente qualificato “perentorio”– il
potere della Soprintendenza continua a sussistere (tanto che
un suo parere tardivo resta comunque disciplinato dai
richiamati commi 5 e mantiene la sua natura vincolante), ma
l’interessato può proporre ricorso al giudice
amministrativo, per contestare l’illegittimo
silenzio-inadempimento dell’organo statale: la perentorietà
del termine riguarderebbe, insomma, non la sussistenza del
potere o la legittimità del parere, ma (solo) l’obbligo di
concludere la fase del procedimento (obbligo che, se rimasto
inadempiuto, può essere dichiarato sussistente dal giudice).
La decisione, pur senza esplicitamente evocandolo, sembra
plausibilmente sottendere il (corretto) assunto della natura
propriamente (pre- o, semmai, co-)decisoria (id est:
provvedimentale e non consultiva) del parere vincolante in
questione (onde non a caso, sembra di dover soggiungere,
l’art. 146 cit. prefigura, nel contesto del relativo
procedimento, l’obbligo del preavviso di “provvedimento
negativo”, richiamando espressamente l’art. 10-bis della l.
n. 241/1990): dal che si trae l’argomentato corollario che
l’inerzia della Soprintendenza (qui, come –secondo deve
ritenersi, in prospettiva sistematica– in ogni altro caso
di parere legalmente vincolante) vada, per l’appunto,
qualificata in termini di silenzio-inadempimento (bensì violativo dell’obbligo di concludere il procedimento ex art.
2 l. n. 241/1990): il quale –in assenza di una ipotesi di
silenzio significativo– postula, per l’appunto, il
perdurante obbligo di provvedere.
La tesi –che esclude, in realtà, la natura decadenziale del
termine di quarantacinque giorni, tra l’altro interpretando
la qualificazione di “perentorietà” di cui all’art. 167 nel
senso “debole” della mera obbligatorietà– non appare
smentita dalla circostanza che (in disparte il riferimento
alla indizione della speciale conferenza di servizi di cui
alla previgente normativa) l’Amministrazione comunale
subdelegata debba, a termine vanamente elasso, provvedere
“comunque”.
È chiaro, invero, l’intento del legislatore di legittimare,
in prospettiva sostanzialmente devolutiva, il superamento
del silenzio della Soprintendenza, dal cui parere si potrà,
perciò, prescindere se non è reso nei termini. A dispetto
delle apparenza, tuttavia, la regola non ripete, per la
vicenda in esame, coerentemente alle esposte premesse di
sistema, il principio generale di cui all’art. 16 della l.
n. 241/1990: il c.d. silenzio-facoltativo (rectius, in
realtà: la possibile pretermissione del parere
obbligatoriamente richiesto ma non tempestivamente reso) si
riferisce, invero, ad attività propriamente consultiva, a
connotazione ausiliaria e servente. Nel caso di specie la
possibilità che l’amministrazione procedente decida e
concluda il procedimento “a prescindere” dal parere si
correla, invero, come vale ribadire, alla attribuzione di
apposita misura di competenza a connotazione surrogatoria,
nel rispetto del ripetuto canone di legalità organizzativa
di cui all’art. 97 Cost..
Deve, per l’effetto, ragionevolmente ritenersi, se si vuol
tenere saldo il “sistema”, che il “comunque” debba leggersi:
a) nel senso, di base, che l’amministrazione ad quem “debba”
provvedere, trattandosi, appunto, di attribuzione competenziale (idonea a scandire l’obbligo di definire il
procedimento ai sensi dell’art. 2 della l. n. 241/1990);
b)
nell’ulteriore senso che debba provvedere –anche qui a
differenza di quanto accade in materia di pareri
propriamente detti– senza possibilità (trattandosi di
evidente aggravio procedimentale) di valorizzare l’opzione
attendista in ordine al parere.
Di tal che, in buona e definitiva sostanza:
a)
l’inadempimento dell’obbligo, gravante sulla Soprintendenza,
di formalizzare il proprio parere legittimerà l’interessato
a dolersene in sede giurisdizionale, nelle forme del rito
avverso il silenzio di cui all’art. 117 c.p.a.;
b) l’inutile
decorso del termine de quo, peraltro, legittimerà l’autorità
procedente (nella specie, il Comune) a provvedere in via
autonoma, senza essere tenuta ad attendere il parere in
questione;
c) nondimeno, ove il parere, sia pur
tardivamente, intervenga prima che la valutazione di
compatibilità paesaggistica sia effettuata in via
surrogatoria, lo stesso non solo non potrà ritenersi tanquam
non esset (non avendo la Soprintendenza perduto, in
conseguenza del ritardo e dell’inadempimento, il
potere/dovere di provvedere), ma sarà ancora e pur sempre
vincolate (restando, quanto alla sua natura ed ai suoi
effetti, manifestazione di potere decisionale e
provvedimentale);
d) che, peraltro, la circostanza che anche
il Comune sia attributario della (sopravvenuta) competenza a
provvedere (in via sostitutiva), renderà obbligatoria per
quest’ultimo, anche in assenza del parere soprintendizio,
l’assunzione di decisione conclusiva (legittimandosi, per
tal via, ulteriore e distinto rimedio processuale, con il
quale l’interessato possa dolersi della inezia
nell’esercizio delle competenze surrogatorie).
2.3.2.- La terza opzione interpretativa (secondo la quale,
decorso il termine di quarantacinque giorni, il parere da
vincolante “degraderebbe” a meramente obbligatorio: onde,
per un verso, non sarebbe precluso alla Soprintendenza di
formularlo tardivamente, ma l’Amministrazione procedente
dovrebbe acquisirlo criticamente e motivatamente, potendovisi anche concretamente discostare) ha ricevuto
recenti ed argomentati consensi (cfr. ex multis TAR Campania
Napoli, sez. III, 22.04.2015, n. 2267 e soprattutto
Cons. Stato, sez. VI, 27.04.2015, n. 2136, in motivato
dissenso rispetto alle opzioni alternative).
La tesi (che recepisce autorevoli opinioni espresse in
dottrina in subiecta materia ed è stata talora anche accolta
da questo Tribunale: cfr. per esempio TAR Salerno, sez. I, 03.03.2015, n. 474) non merita, tuttavia, nonostante il
notevole sforzo argomentativo, di essere seguita.
Essa muove, anzitutto, dal richiamo del pregresso
orientamento che riconosceva carattere perentorio al termine
riconosciuto alla Soprintendenza per procedere
all'annullamento dell'autorizzazione paesaggistica reso
dall'amministrazione competente ai sensi dell'articolo 82
del d.P.R. 24.07.1977, n. 616 (in seguito: articolo 162
del decreto legislativo 29.10.1999, n. 490): e ciò nel
senso che l'evoluzione normativa, la quale ha trasformato
l'atto di controllo annullatorio in una forma di cogestione
del vincolo, non avrebbe, in realtà, inciso sulla
perentorietà del termine entro il quale l'atto di esercizio
del relativo potere può e deve essere adottato.
A sostegno del richiamo, si osserva che, nell'ambito di
entrambi i modelli normativi (quello pregresso basato su una
relazione di controllo e quello attuale basato su un modello
di sostanziale cogestione del vincolo), il legislatore
avrebbe, di fatto, inteso individuare un adeguato punto di
equilibrio fra:
a) l'esigenza di assicurare, da un lato, una
tutela pregnante a un valore di rilievo costituzionale quale
la tutela del paesaggio (e ciò attraverso il riconoscimento
all'organo statale di poteri, quale quello di annullamento e
in seguito quello di rendere un parere vincolante, di
assoluto rilievo nell'ambito della fattispecie autorizzatoria;
b) l'esigenza -parimenti di rilievo costituzionale-
di garantire, dall’altro, in massimo grado la certezza e la
stabilità dei rapporti giuridici, imponendo che i richiamati
poteri debbano essere esercitati in tutta la loro ampiezza
entro un termine certamente congruo ma allo stesso tempo
certo e non superabile.
L’assunto, per come valorizzato, prova troppo e pare
implausibilmente ispirato alla soverchia valorizzazione di
profili funzionali a dispetto di imprescindibili dati
strutturali: non gioverà, invero, insistere sul rilievo che,
nel nuovo regime normativo, i poteri attribuiti alla
Soprintendenza sono stati significativamente innovati,
sostituendo un meccanismo di mero controllo a posteriori di
legittimità (per sua natura assoggettato a termine
perentorio) con una attribuzione di un potere di valutazione
di merito, a connotazione propriamente “decisionale”. Una
assimilazione delle due distinte situazioni in termini di
“perentorietà” appare, per tal via, addirittura arbitraria.
La sentenza, peraltro, rinviene nella (previgente)
previsione della possibile indizione di una (speciale)
conferenza di servizi un indice normativo secondo cui, a
seguito del decorso del più volte richiamato termine per
l'espressione del parere vincolante (rectius: conforme) da
parte della Soprintendenza, l'organo statale non resterebbe
in assoluto privato della possibilità di rendere un parere;
tuttavia il parere in tal modo espresso perderà il proprio
valore vincolante e dovrà essere autonomamente e
motivatamente valutato dall'amministrazione preposta al
rilascio del titolo.
Opererebbe, per tal via, in subiecta materia una sorta di
climax inverso per ciò che riguarda la possibilità per
l'organo statale di incidere attraverso l'espressione del
proprio parere sugli esiti della vicenda autorizzato ria, e
ciò nel gradato senso per cui:
a) nel corso di una prima fase (per così dire: fisiologica),
che si esaurisce con il decorso del termine di
quarantacinque giorni, l'organo statale può, nella pienezza
dei suoi poteri di cogestione del vincolo, emanare un parere
vincolante dal quale l'amministrazione deputata all'adozione
dell'autorizzazione finale non potrà discostarsi (comma 8);
b) una volta decorso inutilmente il richiamato termine senza
che la Soprintendenza abbia reso il prescritto parere
(seconda fase), l'amministrazione procedente può (in realtà:
poteva, considerando il nuovo regime) indire una conferenza
di servizi, nel cui ambito l'organo statale poteva
semplicemente esprimere, inter alia, la propria “opinione”;
c) laddove poi l'inerzia della Soprintendenza si protragga
ulteriormente oltre il termine di sessanta giorni da quello
della ricezione della documentazione completa (terza fase),
l'amministrazione competente provvede (oggi: “comunque”)
sulla domanda di autorizzazione.
In sostanza, il legislatore avrebbe reso chiaro che
l'ulteriore, ingiustificabile decorso del tempo legittima
l'amministrazione competente all'adozione
dell'autorizzazione prescindendo in radice dal parere della
Soprintendenza (il quale, evidentemente, viene così a
perdere il proprio carattere di obbligatorietà e
vincolatività).
La tesi è piuttosto speciosa, ma non per questo persuasiva.
Ciò che non appare plausibile è l’assunto, che vi è
necessariamente sotteso, che il decorso del termine per
provvedere finisca per mutare la stessa natura del potere
attribuito alla Soprintendenza (che da decisionale e
provvedimentale si trasformerebbe in meramente ausiliario e
propriamente consultivo).
Non appare conferente il riferimento alla possibilità, tra
l’altro allo stato abrogata, di procedere alla facoltativa
indizione di una conferenza di servizi: e ciò se non altro
perché anche in sede di conferenza il regime del “parere” soprintendizio non avrebbe potuto essere, a tutto voler
concedere, diverso da quello, prefigurato in termini
generali agli artt. 14-ter e quater della l. n. 241/1990,
che sono ben lungi dal dequotare la volontà espressa
dall’organo statale a mero “parere” suscettibile di pur
acquisizione “istruttoria” (come, a tacer d’altro, dimostra
proprio il meccanismo preordinato al superamento del
“qualificato” dissenso).
L’argomento, insomma, può perfino essere ribaltato, essendo
curioso immaginare che –non potendosi dubitare che nel
contesto conferenziale la Soprintendenza agisse, per dir
così, nel pieno dei suoi poteri– la natura, la forza ed il
valore della valutazione di compatibilità paesaggistica
mutasse secundum eventum (mera consulenza, superabile con
adeguata motivazione, ove non fosse attivata la conferenza;
formale dissenso, per giunta qualificato, nel contesto del
facoltativo apprezzamento contestuale).
In ogni caso, resta la perplessità di fondo, che il decorso
del termine –idoneo, semmai ed in tesi astratta, a
giustificare una preclusione, in prospettiva decadenziale,
all’esercizio del potere– non è idoneo (quanto meno, si può
concedere, in mancanza di una espressa ed inequivoca
previsione di legge, in presenza della quale stet pro
ratione voluntas) a mutare la stessa natura del potere
(legittimamente) esercitato.
Piuttosto, in conclusione, dovrà pur soggiungersi che,
quanto meno con riferimento al regime attualmente vigente,
qualche perplessità sussiste in relazione al “vuoto
procedimentale” venutosi a creare tra il quarantacinquesimo
giorno (entro il quale la Soprintendenza è abilitata ad
esprimere il proprio rituale parere) ed il sessantesimo
giorno (che abilità il Comune a provvedere in via
sostitutiva): un “vuoto” per colmare il quale non sono, per
l’appunto mancati, in un tentativo “razionalizzate”,
opinioni intese, nella prospettiva di un “conferimento di
senso”, ad argomentare la “dequotazione” del potere
decisorio della Soprintendenza.
Nondimeno, è opinione del Collegio che, in difetto di men
sommario dato positivo, l’interprete debba piuttosto
prendere atto di un evidente difetto di coordinamento nelle
normative succedutesi nel tempo.
2.4.- Si possono trarre le conclusioni.
Allo stato, il Collegio ritiene preferibile l’orientamento,
sopra argomentato, secondo cui il decorso del termine di
quarantacinque giorni non solo non precluda alla
Soprintendenza, fintantoché non sopravvenga la decisione
surrogatoria del Comune, di provvedere, ma neppure sottragga
al parere tardivo la sua ordinaria attitudine vincolante.
Sotto questo rispetto, il contrario assunto di parte
ricorrente deve essere disatteso e la correlativa ragione di
doglianza respinta
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 09.07.2015 n. 1565 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E' noto come l’Amministrazione non possa denegare
l’autorizzazione paesaggistica limitando la sua valutazione
al mero riferimento ad un pregiudizio ambientale,
utilizzando espressioni vaghe o formule stereotipate, ma la
motivazione deve contenere una sufficiente esternazione
delle specifiche ragioni per le quali si ritiene che
un’opera non sia idonea ad inserirsi nell’ambiente,
attraverso l’individuazione degli elementi di contrasto;
occorre quindi un concreto ed analitico accertamento del
disvalore delle valenze paesaggistiche.
Il diniego deve essere assistito da una motivazione concreta
sulla realtà dei fatti e sulle ragioni ambientali ed
estetiche che sconsigliano alla Pubblica Amministrazione di
ammettere un determinato intervento: affermare che un
determinato intervento compromette gli equilibri ambientali
della zona interessata per le incongruenze fra tipologia e
materiali scelti e contesto paesaggistico senza nulla
aggiungere, non spiega alcunché sul futuro danno alle
bellezze ambientali che ne deriverebbe ed è un mero
postulato apodittico.
---------------
Quanto all’assunto secondo cui l’intervento progettato non
presenterebbe le caratteristiche del fabbricato rurale, vale
osservare come la Soprintendenza non possa limitarsi ad
asserire che l’intervento non presenta le caratteristiche
del fabbricato rurale, ma deve individuare concretamente per
quale motivo esso non presenti queste caratteristiche.
Del resto, in tema di autorizzazione paesaggistica relativa
ad un fabbricato rurale, la Soprintendenza deve appuntare la
propria attenzione sulla possibilità di rendere compatibile
il manufatto con il contesto ambientale, dettando a tal uopo
tutte le prescrizioni tecniche volte a rendere l'intervento
edilizio quanto più possibile coerente con la cornice
paesaggistica in cui è inserito, attesa la strumentalità
dell’intervento allo stesso paesaggio.
Nel parere impugnato, quindi, non solo non è dato
comprendere per quale motivo l’intervento non risponda alle
caratteristiche del fabbricato rurale, quanto poi questa
indicazione era ancor più necessaria nell’ottica di una
fattiva dialettica fra privato ed Amministrazione tenuto
conto che l’intervento era strumentale al bene tutelato
dalla stessa Amministrazione.
Peraltro, il rapporto fra le dimensioni del fabbricato
rurale progettato e la superficie del terreno, proprio in
ragione della strumentalità dell’intervento al paesaggio,
imponeva alla Soprintendenza di ricorrere ad argomenti di
carattere agroeconomico atti a dimostrare l’esiguità del
fondo rispetto alle esigenze di coltivazione, profili,
invece, del tutto assenti nel provvedimento impugnato.
---------------
Parimenti non supportato da adeguata motivazione è il
rilievo per cui l’intervento, incrementando la densità
edilizia, determinerebbe un’alterazione del rapporto fra la
superficie libera e quella edificata e l’asservimento
altererebbe l’equilibrio tra aree coltivate e fabbricati
elemento caratterizzante del paesaggio rurale.
Si tratta invero di formula apodittica, stereotipata oltre
che generica, e quindi inidonea a spiegare effettivamente le
ragioni del contrasto dell’intervento progettato con il bene
tutelato.
3.- Il ricorso appare, tuttavia, fondato, sotto il dedotto
profilo del difetto di motivazione.
Sotto un primo profilo, il parere negativo impugnato fa leva
sulla valorizzata circostanza secondo cui la superficie
reale del lotto sarebbe inferiore a quella catastale.
Si tratta, nondimeno, di assunto del tutto generico, in
quanto non è dato comprendere a quale stralcio di particella
si riferisca la Soprintendenza, atteso che l’intervento per
cui è causa riguardava solo la particella 623 del foglio 26
rispetto alla quale, come si evince dalla planimetria
catastale depositata in giudizio, non sussiste alcuno
stralcio.
Peraltro, la ricorrente, in sede di presentazione
dell’istanza, aveva riportato i dati circa la consistenza
dell’area (particella 623 del foglio 26) di mq. 1.219,00,
quale area libera sulla quale doveva eseguirsi l’intervento.
Ora, l’Amministrazione pur assumendo esattamente il dato
della superficie (nel punto in cui riporta l’esame della
documentazione) afferma che sull’area identificata esistono
altri fabbricati.
Tuttavia, nella rappresentazione grafica l’area risulta
totalmente libera, sicché non si comprende la fonte del
contrario assunto soprintendizio, e ciò tanto più che dalle
fotografie allegate all’istanza prodotta risulta palese come
sul terreno interessato non vi fossero ulteriori manufatti.
Peraltro, in ogni caso, va comunque soggiunto che, in via di
principio, “l’estensione del fondo interessato dal
progettato intervento non costituisce parametro
normativamente definito e rilevante, né in virtù della
legislazione in materia di tutela paesaggistico-ambientale,
né in ragione della disciplina urbanistica" (TAR
Campania, Salerno, sez. II, 01.08.2012, n. 1591).
Anche la ritenuta incompatibilità paesaggistica appare
affermata senza idoneo supporto giustificativo (in tesi
astratta correlato al puntuale apprezzamento delle concrete
caratteristiche progettuali dell’intervento programmato,
comparate al contesto di inserimento).
La Soprintendenza si è, invero, limitata ad addurre la
circostanza secondo cui il fabbricato, per dimensioni e
tipologia, non sarebbe paesaggisticamente compatibile.
Orbene è noto come l’Amministrazione non possa denegare
l’autorizzazione paesaggistica limitando la sua valutazione
al mero riferimento ad un pregiudizio ambientale,
utilizzando espressioni vaghe o formule stereotipate, ma la
motivazione deve contenere una sufficiente esternazione
delle specifiche ragioni per le quali si ritiene che
un’opera non sia idonea ad inserirsi nell’ambiente,
attraverso l’individuazione degli elementi di contrasto;
occorre quindi un concreto ed analitico accertamento del
disvalore delle valenze paesaggistiche.
Il diniego deve essere assistito da una motivazione concreta
sulla realtà dei fatti e sulle ragioni ambientali ed
estetiche che sconsigliano alla Pubblica Amministrazione di
ammettere un determinato intervento: affermare che un
determinato intervento compromette gli equilibri ambientali
della zona interessata per le incongruenze fra tipologia e
materiali scelti e contesto paesaggistico senza nulla
aggiungere, non spiega alcunché sul futuro danno alle
bellezze ambientali che ne deriverebbe ed è un mero
postulato apodittico (TAR Campania, Salerno, sez. II,
13.03.2014, n. 706; TAR Campania, Salerno, sez. I,
24.02.2014, n. 459; TAR Campania, Salerno, sez. II,
04.02.2014, n. 293; TAR Puglia, Lecce, sez. I, 24.07.2014,
n. 1956; TAR Umbria, sez. I, 14.05.2014, n. 322; TAR
Lazio, sez. II-bis, 06.11.2013, n. 9478; TAR Campania,
Napoli, sez. VII, 28.10.2013, n. 4792; TAR Campania,
Salerno, sez. II, 27.09.2012, n. 1783; TAR Piemonte, sez.
I, 20.11.2011, n. 1153; TAR Liguria, sez. I, 22.12.2008,
n. 2187).
In questi termini è evidente come la Soprintendenza non
poteva denegare l’intervento attraverso il generico richiamo
alle dimensioni ed alla tipologia ma avrebbe dovuto spiegare
in termini concreti quali profili dei due aspetti rendevano
l’intervento incompatibile con il vincolo.
Quanto all’assunto secondo cui l’intervento progettato non
presenterebbe le caratteristiche del fabbricato rurale, vale
osservare (cfr. TAR Salerno, sez. II, 23.11.2013, n.
2358) come, di nuovo, la Soprintendenza non possa limitarsi
ad asserire che l’intervento non presenta le caratteristiche
del fabbricato rurale, ma deve individuare concretamente per
quale motivo esso non presenti queste caratteristiche.
Del resto, in tema di autorizzazione paesaggistica relativa
ad un fabbricato rurale, la Soprintendenza deve appuntare la
propria attenzione sulla possibilità di rendere compatibile
il manufatto con il contesto ambientale, dettando a tal uopo
tutte le prescrizioni tecniche volte a rendere l'intervento
edilizio quanto più possibile coerente con la cornice
paesaggistica in cui è inserito, attesa la strumentalità
dell’intervento allo stesso paesaggio (C.d.S., sez. VI,
25.02.2013, n. 1117; TAR Campania, Salerno, sez. II,
23.11.2013, n. 2358).
Nel parere impugnato, quindi, non solo non è dato
comprendere per quale motivo l’intervento non risponda alle
caratteristiche del fabbricato rurale, quanto poi questa
indicazione era ancor più necessaria nell’ottica di una
fattiva dialettica fra privato ed Amministrazione tenuto
conto che l’intervento era strumentale al bene tutelato
dalla stessa Amministrazione.
Peraltro, il rapporto fra le dimensioni del fabbricato
rurale progettato e la superficie del terreno, proprio in
ragione della strumentalità dell’intervento al paesaggio,
imponeva alla Soprintendenza di ricorrere ad argomenti di
carattere agroeconomico atti a dimostrare l’esiguità del
fondo rispetto alle esigenze di coltivazione, profili,
invece, del tutto assenti nel provvedimento impugnato
(TAR Campania, Salerno, sez. II, 23.11.2013, n. 2358).
Parimenti non supportato da adeguata motivazione è il
rilievo per cui l’intervento, incrementando la densità
edilizia, determinerebbe un’alterazione del rapporto fra la
superficie libera e quella edificata e l’asservimento
altererebbe l’equilibrio tra aree coltivate e fabbricati
elemento caratterizzante del paesaggio rurale.
Si tratta invero (cfr. TAR Salerno, sez. I, 24.02.2014, n.
459; sez. II, 04.02.2014, n. 293; sez. I, 03.03.2015, n. 467) di
formula apodittica, stereotipata oltre che generica, e
quindi inidonea a spiegare effettivamente le ragioni del
contrasto dell’intervento progettato con il bene tutelato.
4.- Sulle esposte considerazioni, i ricorsi epigrafati
devono essere accolti, fatte salve le successive valutazioni
da esprimersi in sede di rinnovazione, in prospettiva
conformativa, del procedimento preordinato al rilascio della
autorizzazione paesaggistica
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 09.07.2015 n. 1565 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
EDILIZIA PRIVATA: G.U.
20.08.2015 n. 192, suppl. ord. n. 51, "Approvazione
di norme tecniche di prevenzione incendi, ai sensi
dell’articolo 15 del decreto legislativo 08.03.2006, n. 139" (Ministero
dell'Interno,
decreto 03.08.2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 34 del 19.08.2015, "Disposizioni
in merito alla disciplina per l’efficienza energetica degli
edifici e per il relativo attestato di prestazione
energetica a seguito della d.g.r. 3868 del 17.07.2015" (decreto
D.U.O. 30.07.2015 n. 6480). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - TRIBUTI:
G.U. 14.08.2015 n. 188, suppl. ord. n. 49/L, "Testo del
decreto-legge 19.06.2015, n. 78, coordinato con la legge di
conversione 06.08.2015, n. 125, recante: «Disposizioni
urgenti in materia di enti territoriali. Disposizioni per
garantire la continuità dei dispositivi di sicurezza e di
controllo del territorio. Razionalizzazione delle spese del
Servizio sanitario nazionale nonché norme in materia di
rifiuti e di emissioni industriali»".
---------------
Di particolare interesse si leggano:
• Art. 1. - Rideterminazione degli obiettivi del
patto di stabilità interno di Comuni, Province e Città
metropolitane per gli anni 2015-2018 e ulteriori
disposizioni concernenti il patto di stabilità interno
• Art. 4. -
Disposizioni in materia di personale
• Art. 5. -
Misure in materia di polizia provinciale
• Art. 7. -
Ulteriori disposizioni concernenti gli Enti locali
• Art. 7-bis.
- Assicurazione degli amministratori locali e rimborso delle
spese legali |
ATTI
AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI - PUBBLICO
IMPIEGO:
G.U. 13.08.2015 n. 187 "Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle
amministrazioni pubbliche"
(Legge 07.08.2015 n. 124).
---------------
Di particolare interesse si leggano:
• Art. 1. - (Carta della cittadinanza digitale)
• Art. 2. - (Conferenza di servizi)
• Art. 3. - (Silenzio assenso tra amministrazioni
pubbliche e tra amministrazioni pubbliche e gestori di beni
o servizi pubblici)
• Art. 4. - (Norme per la semplificazione e
l’accelerazione dei procedimenti amministrativi)
• Art. 5. - (Segnalazione certificata di inizio
attività, silenzio assenso, autorizzazione espressa e
comunicazione preventiva)
• Art. 6. - (Autotutela amministrativa)
• Art. 7. - (Revisione e semplificazione delle
disposizioni in materia di prevenzione della corruzione,
pubblicità e trasparenza)
• Art. 8. - (Riorganizzazione dell’amministrazione
dello Stato)
• Art. 10. - (Riordino delle funzioni e del
finanziamento delle camere di commercio, industria,
artigianato e agricoltura)
• Art. 11. - (Dirigenza pubblica)
• Art. 14. - (Promozione della conciliazione dei
tempi di vita e di lavoro nelle amministrazioni pubbliche)
• Art. 16. - (Procedure e criteri comuni per
l’esercizio di deleghe legislative di semplificazione)
• Art. 17. - (Riordino della disciplina del lavoro
alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche)
• Art. 18. - (Riordino della disciplina delle
partecipazioni societarie delle amministrazioni pubbliche)
• Art. 19. - (Riordino della disciplina dei servizi
pubblici locali di interesse economico generale)
• Art. 20. - (Riordino della procedura dei giudizi
innanzi la Corte dei conti)
• Art. 21. - (Modifica e abrogazione di disposizioni
di legge che prevedono l’adozione di provvedimenti
attuativi) |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 33 del 13.08.2015, "Approvazione
del formato per la fornitura dei dati per la mappatura
acustica ai sensi della deliberazione di Giunta regionale
19.06.2015 n. X/3735 con la quale è stato approvato lo
schema del protocollo d’intesa per l’adesione dei comuni al
macroagglomerato di livello regionale per gli adempimenti di
mappatura acustica" (decreto
D.S. 06.08.2015 n. 6704). |
QUESITI & PARERI |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/
Interpellanze senza limiti.
La prerogativa dei consiglieri è incomprimibile.
I componenti dell'assemblea devono evitare comportamenti non
corretti.
L'art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000 al comma 3
stabilisce il termine di 30 giorni per la risposta scritta
alle interpellanze presentate dai consiglieri comunali. Tale
termine può essere disatteso, a causa dell' elevato numero
di richieste, al fine di non compromettere l'attività
dell'ufficio? È possibile configurare un'ipotesi di finalità
emulativa nel caso in cui un consigliere presenti numerose
interpellanze a risposta scritta?
L'art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000 al comma 3
riconosce ai consiglieri comunali la facoltà di presentare
«interrogazioni e ogni altra istanza di sindacato
ispettivo», alle quali il sindaco o gli assessori da esso
delegati, devono dare risposta entro 30 giorni.
Le modalità della presentazione di tali atti e delle
relative risposte sono disciplinate dallo statuto e dal
regolamento consiliare.
Nel caso di specie, lo statuto del comune, ribadendo il
diritto in parola, rinvia al regolamento per il
funzionamento del consiglio la disciplina delle modalità per
la presentazione anche delle interpellanze.
Il citato regolamento conferma la facoltà dei consiglieri di
presentare le interpellanze, disciplinando tre forme di
risposta: a) in forma scritta, entro 30 giorni; b)
verbalmente in consiglio comunale; c) verbalmente nella
commissione consiliare permanente preposta. Secondo la norma
regolamentare, le risposte verbali sono soggette a tempi
limitati nell'ambito delle sedute di consiglio comunale e
delle commissioni permanenti; per le risposte scritte vige
il solo termine di 30 giorni come previsto dalla legge.
Né la legge né le disposizioni statutarie e regolamentari
del comune, pertanto, pongono dei limiti all'iniziativa di
interpellanza a risposta scritta da parte dei consiglieri.
In ogni caso, l'esercizio delle prerogative dei consiglieri
comunali (diritto di accesso, e diritto di presentare
interrogazioni, mozioni e ogni altra istanza di sindacato
ispettivo) non potrebbe subire limitazioni a causa di
difficoltà organizzative. Infatti, il Tribunale
amministrativo regionale per la Calabria (sezione seconda)
con sentenza n. 77 del 16/01/2014, ha osservato che «il
limite di natura organizzativa non può essere eccepito
dall'amministrazione a ragione del diniego dell'accesso,
proprio perché la difficoltà organizzativa rientra tra
quegli adempimenti a carico di ogni amministrazione pubblica
e quindi, ogni singola struttura dovrà dotarsi di tutti i
mezzi necessari all'assolvimento dei propri compiti (Cons.
stato, sez. V, sentenza n. 2716/2004)».
Tuttavia, la Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi, presso la presidenza del consiglio dei
ministri, con parere 10.12.2002, ha affermato che è
«generale dovere della pubblica amministrazione ispirare la
propria attività al principio di economicità che incombe non
solo sugli uffici tenuti a provvedere ma anche sui soggetti
che richiedono prestazioni amministrative, i quali, specie
se appartenenti alla stessa amministrazione, sono tenuti, in
un clima di leale cooperazione, a modulare le proprie
richieste».
Pertanto, nonostante la riconosciuta ampiezza del diritto in
parola, il consigliere è comunque soggetto al rispetto di
alcune forme e modalità dovendo contemperare le opposte
esigenze, vale a dire, da un lato le pretese conoscitive dei
consiglieri comunali e dall'altro le «evidenti esigenze
di funzionalità dell'amministrazione locale». Quindi,
anche alla luce della citata giurisprudenza, l'ente, in
assenza di disposizioni limitative, non può esimersi dal
fornire risposta alle interpellanze nei tempi previsti,
ferma restando l'esigenza di leale collaborazione da parte
dei consiglieri comunali, che con eventuali comportamenti
non corretti possono provocare disservizi
(articolo ItaliaOggi del 14.08.2015). |
CORTE DEI CONTI |
SEGRETARI COMUNALI: Danno
erariale in capo al segretario comunale ed al responsabile
del servizio finanziario.
Segretari comunali convenzionati: la
scure sui rimborsi delle spese di viaggio.
Euro 31.565,10, è questo
l'importo che il segretario convenzionato si era fatto
rimborsare per le spese di viaggio sostenute per i
trasferimenti dal luogo di propria residenza a quello della
sede di lavoro dal gennaio 2010 ad aprile 2012.
Un danno erariale contestato dalla Procura ed accertato
dalla Corte dei Conti, Sez. giurisdizionale per l'Emilia
Romagna che, con
sentenza 12.08.2015 n. 103, ha condannato il
segretario comunale.
Ad avviso del Collegio, l’articolo 45,
secondo comma, C.C.N.L. 16/05/2001, che testualmente recita
“al segretario titolare di segreteria convenzionate per
l’accesso alle diverse sedi, spetta il rimborso delle spese
di viaggio effettivamente sostenute e documentabili” va
inserito nella complessiva disciplina relativa al rimborso
delle spese di viaggio per i pubblici dipendenti.
Il rimborso delle spese di viaggio che può considerarsi
legittimamente rimborsabile riguarda solo gli spostamenti da
uno ad un altro dei comuni riuniti in convenzione, per
l’esercizio delle relative funzioni da parte del segretario
convenzionato.
Il Collegio chiarisce, sul punto, che non
depongono in senso diverso nessuno dei pareri resi
dall’Agenzia autonoma per la gestione dell’albo dei
segretari comunali e provinciali quale, ad esempio, il
parere del 21.04.2006 che prevede il rimborso delle spese di
viaggio sempre con riferimento a quelle relative agli
spostamenti tra i comuni convenzionati e chiarisce in modo
inequivocabile l’impossibilità di legittimi rimborsi per gli
spostamenti dalla residenza del segretario al comune
capofila e viceversa.
L’inciso che ammette il rimborso delle
spese di viaggio nel citato parere -precisa la Corte dei
Conti- fa riferimento alla possibilità del segretario
comunale di recarsi partendo dalla propria residenza prima
in un Comune non capofila della convenzione; in tale ipotesi
saranno rimborsabili le spese di viaggio non dalla residenza
al Comune non capofila, bensì solamente quelle relative alla
tragitto dal comune capofila al Comune non capofila
(commento tratto da www.ilquotidianodellapa.it).
---------------
MASSIMA
Il Collegio reputa che sia rinvenibile in
capo al segretario comunale, un’ipotesi di
responsabilità amministrativa, sussistendone tutti gli
elementi costitutivi.
E’ di tutta evidenza, la sussistenza del rapporto di
servizio del medesimo con l’amministrazione.
Ad avviso della Sezione, sussistono,
inoltre, il comportamento causativo di danno erariale nonché
il nesso causale tra comportamento e danno.
In particolare, risulta accertato agli atti che i rimborsi a
favore del segretario furono effettuati sulla base di
espresse richieste in tal senso da parte del convenuto per
tutto il periodo dal gennaio 2010 ad aprile 2012 e che la
liquidazione fu effettuata sulla base di un prospetto
riassuntivo sottoscritto congiuntamente dal segretario
C. e dalla responsabile del servizio finanziario M..
Sussiste, pertanto, ad avviso del Collegio,
il nesso di causalità tra l’esborso di denaro avvenuto da
parte del comune e la condotta del convenuto di proposizione
d’istanza di rimborso delle spese di viaggio per il tragitto
abitazione-luogo di lavoro.
In relazione all’elemento soggettivo, poi,
questa Sezione lo rinviene nella colpa grave in capo al
dott. C..
Secondo
l’orientamento consolidato della giurisprudenza della Corte
dei Conti, il concetto di colpa
grave va inquadrato nella nozione di colpa professionale di
cui all’art. 1176, 2° comma, c.c. e va inteso come
osservanza non già della normale diligenza del “bonus pater
familias”, bensì di quella particolare diligenza occorrente
con riguardo alla natura e alle caratteristiche di una
specifica attività esercitata.
Perché si abbia colpa grave non è
richiesto, perciò, che si sia tenuto un comportamento
assolutamente abnorme, ma è sufficiente che l’agente abbia
omesso di attivarsi come si attiverebbe, nelle stesse
situazioni, anche il meno provveduto degli esercenti quella
determinata attività. In altri termini, è ritenuto
sufficiente, per la sussistenza del suindicato grado di
colpa, che nella fattispecie l’agente abbia serbato comunque
un comportamento contrario a regole deontologiche
elementari.
---------------
Con riferimento al parere
dell’Agenzia autonoma per la gestione dell’albo dei
segretari comunali e provinciali
in data 21.04.2006, come correttamente riportato in
citazione, si statuisce che “ferma restando
l’esclusione del rimborso nelle ipotesi dello spostamento
dalla propria residenza al comune capofila e viceversa, al
pari del rimborso del percorso effettuato per raggiungere
dall’ultimo comune il proprio domicilio, si fa rilevare
quanto segue. È necessario considerare l’ipotesi in cui il
segretario organizzi la propria attività lavorativa in
maniera tale da raggiungere, in via primaria, un Comune
diverso da quello capofila della convenzione per motivi di
convenienza e per esigenze personali, con la conseguenza
che, in siffatto caso, si può giustificare la risoluzione
che prevede il rimborso delle spese di viaggio”.
In buona sostanza, quindi, tale parere
prevede il rimborso delle spese di viaggio sempre con
riferimento a quelle relative agli spostamenti tra i comuni
convenzionati e chiarisce in modo inequivocabile
l’impossibilità di legittimi rimborsi per gli spostamenti
dalla residenza del segretario al comune capofila e
viceversa. L’inciso che ammette il rimborso delle spese di
viaggio nel citato parere fa riferimento alla possibilità
del segretario comunale di recarsi partendo dalla propria
residenza prima in un Comune non capofila della convenzione;
in tale ipotesi saranno rimborsabili le spese di viaggio non
dalla residenza al Comune non capofila, bensì solamente
quelle relative alla tragitto dal comune capofila al Comune
non capofila.
Proprio l’espresso riferimento al parere dell’Agenzia
autonoma per la gestione dell’albo dei segretari comunali e
provinciali del 21.04.2006 nei provvedimenti di rimborso
delle spese di viaggio spettanti alla segretario comunale,
anche se limitatamente all’affermazione relativa al rimborso
delle spese di viaggio per raggiungere un Comune diverso da
quello capofila della convenzione per motivi di convenienza
e per esigenze personali, permette di concludere nel senso
che l’odierno convenuto Dott. C.,
non poteva non avere conoscenza, tenuto altresì conto della
propria qualifica professionale, della parte immediatamente
antecedente a quella riportata nella citata delibera la
quale, come già riportato, testualmente sancisce che resta
ferma “l’esclusione del rimborso dell’ipotesi dello
spostamento dalla propria residenza al comune capofila e
viceversa, al pari del rimborso del percorso effettuato per
raggiungere dall’ultimo comune il proprio domicilio……”.
Se ne conclude che tutti gli elementi richiamati permettono
di giudicare commessa con colpa grave la richiesta e
l’ottenimento del rimborso da parte del segretario comunale
delle spese di viaggio sostenute per il tragitto
abitazione-luogo di lavoro nel periodo intercorrente dal
gennaio 2010 al aprile 2012.
L’elemento soggettivo in relazione alla condotta del
convenuto integra, dunque, un’ipotesi di colpa grave.
---------------
Quanto sopra esposto
non può non valere anche nei confronti della
responsabile del servizio finanziario del
comune.
---------------
Con riguardo alla liquidazione del danno la Procura lo ha
individuato nella somma di euro 31.565,10, somma
corrispondente ai rimborsi asseritamente illeciti disposti a
favore della segretario comunale C..
Relativamente all’imputazione dell’obbligazione di
risarcimento del danno, il Pubblico Ministero ha ritenuto di
individuare nella percentuale dell’80% l’importo
addebitabile al dottor C., ravvisando nei suoi confronti la
violazione, quantomeno gravemente colposa, dei doveri di
comportamento nascenti dal rapporto di servizio con la
pubblica amministrazione e posti a tutela della legalità,
dell’economicità e del buon andamento dell’azione
amministrativa.
Ai fini dell’imputazione della restante parte
dell’obbligazione risarcitoria, pari al 20%, l’organo
requirente ha indicato nella signora P.M. l’ulteriore
responsabile del danno, poiché, nella sua qualità di
responsabile del servizio finanziario del comune di
Camugnano, avrebbe adottato i provvedimenti di liquidazione
sopra richiamati con somma imperizia e comportamento
gravemente negligente con riguardo all’esame dei loro
presupposti.
La procura ha individuato una ulteriore fattispecie di
responsabilità amministrativa, contestata alle convenute C.
e M., per la somma di euro 3000, quale compenso corrisposto
dal Comune di Castel di Casio a favore dell’avvocato OMISSIS
per il parere sulla legittimità dei rimborsi delle spese di
viaggio del segretario.
Tale incarico, secondo la ricostruzione di parte attrice, fu
affidato con determinazione n. 87 del 14.12.2011, dalla
dottoressa S.C., nella qualità di responsabile del I
servizio del comune di Castel di Casio; ad avviso del
Pubblico Ministero tale spesa risulterebbe inutile e
superflua, nonché assunta senza il rispetto dei parametri di
legittimità di cui all’articolo 7 del decreto legislativo
165 del 2001, in tema di incarichi esterni alla pubblica
amministrazione.
Inoltre, si rappresenta che il provvedimento di affidamento
intervenne successivamente al decreto del 17.05.2011 del
Presidente della Unità di Missione ed al parere del
21.04.2011 del Ragioniere Generale dello Stato, atti con i
quali, come sostiene parte attrice, sarebbe stato ribadito
che “nessun rimborso spetti per i tragitti
abitazione-luogo di lavoro e viceversa”.
Ancora, la Procura ha evidenziato che il provvedimento di
affidamento all’avvocato OMISSIS non riporterebbe alcunché
circa la preventiva verifica dell’impossibilità di poter far
fronte alle medesime esigenze con risorse interne.
Relativamente a tale ulteriore voce di danno patrimoniale,
il P.M. ha ritenuto che dovrebbe essere imputata alla
dottoressa S.C., che ha affidato direttamente l’incarico
all’avvocato OMISSIS, con la citata determinazione n.
87/2011 ed ha, poi, disposto la liquidazione del compenso,
violazione che si afferma essere gravemente colposa dei
limiti di legge sopra esposti.
...
I.- L’ ipotesi di danno erariale sottoposta al giudizio di
questa Corte è collegata alle condotte del dott. C., il
quale, in qualità di segretario convenzionato,
avrebbe chiesto e ottenuto dal comune capofila rimborsi
delle spese di viaggio sostenute per i trasferimenti dal
luogo di propria residenza a quello della sede di lavoro, e
della signora M., nella sua qualità di responsabile del
servizio finanziario del comune di Camugnano, la quale,
nell’esercizio della proprie funzioni, avrebbe adottato i
provvedimenti di liquidazione dei predetti rimborsi, nonché
della dottoressa C., la quale, nella qualità di
responsabile del I servizio del comune di Castel di
Casio, avrebbe affidato con determinazione n. 87 del
14/12/2011, un incarico a favore dell’avvocato OMISSIS, per
redigere il parere sulla legittimità dei rimborsi delle
spese di viaggio al segretario.
Il danno conseguente è stato quantificato, secondo la
prospettazione della Procura Regionale presso questa
Sezione, per i convenuti C. e M., nella somma complessiva di
euro 31.565,10, oltre rivalutazione monetaria interessi
legali dalla data di ciascun singolo esborso fino al
soddisfo e spese del presente procedimento, ripartito
nell’80% a carico del dottor C. e nel 20% a carico della
signora M., pari alla somma dei rimborsi disposti a favore
del C. dai provvedimenti elencati in citazione da gennaio
2010 ad aprile 2012; per la convenuta C. nella somma di euro
3000, oltre rivalutazione monetaria e interessi legali dalla
data del 13.06.2012 fino al soddisfo e spese del presente
procedimento, pari alla somma corrisposta dal comune di
Castel di Casio a favore dell’avv. OMISSIS, per il parere
formulato sulla legittimità dei rimborsi delle spese di
viaggio al segretario.
II- Passando al merito della causa, il Collegio intende
esaminare separatamente le posizioni dei convenuti.
Con riguardo al segretario comunale dottor C., la Sezione
deve soffermarsi sulla valutazione della sussistenza di
tutti gli elementi costitutivi della responsabilità in
relazione al giudizio instaurato nei confronti del
convenuto.
Il Collegio reputa che sia rinvenibile in
capo al segretario comunale, un’ipotesi di
responsabilità amministrativa, sussistendone tutti gli
elementi costitutivi.
E’ di tutta evidenza, la sussistenza del rapporto di
servizio del medesimo con l’amministrazione.
Ad avviso della Sezione, sussistono,
inoltre, per quanto esposto, il comportamento causativo di
danno erariale nonché il nesso causale tra comportamento e
danno.
In particolare, risulta accertato agli atti che i rimborsi a
favore del segretario furono effettuati sulla base di
espresse richieste in tal senso da parte del convenuto per
tutto il periodo dal gennaio 2010 ad aprile 2012 e che la
liquidazione fu effettuata sulla base di un prospetto
riassuntivo sottoscritto congiuntamente dal segretario
C. e dalla responsabile del servizio finanziario M..
Sussiste, pertanto, ad avviso del Collegio,
il nesso di causalità tra l’esborso di denaro avvenuto da
parte del comune di Camugnano e la condotta del convenuto di
proposizione d’istanza di rimborso delle spese di viaggio
per il tragitto abitazione-luogo di lavoro.
In relazione all’elemento soggettivo, poi,
questa Sezione lo rinviene nella colpa grave in capo al
dott. C..
Secondo
l’orientamento consolidato della giurisprudenza della Corte
dei Conti, il concetto di colpa grave va
inquadrato nella nozione di colpa professionale di cui
all’art. 1176, 2° comma, c.c. e va inteso come osservanza
non già della normale diligenza del “bonus pater familias”,
bensì di quella particolare diligenza occorrente con
riguardo alla natura e alle caratteristiche di una specifica
attività esercitata.
Perché si abbia colpa grave non è
richiesto, perciò, che si sia tenuto un comportamento
assolutamente abnorme, ma è sufficiente che l’agente abbia
omesso di attivarsi come si attiverebbe, nelle stesse
situazioni, anche il meno provveduto degli esercenti quella
determinata attività. In altri termini, è ritenuto
sufficiente, per la sussistenza del suindicato grado di
colpa, che nella fattispecie l’agente abbia serbato comunque
un comportamento contrario a regole deontologiche
elementari.
A tale proposito pare opportuno esaminare la posizione del
convenuto.
Svolgendo una ricostruzione della disciplina applicabile al
caso di specie, il Collegio intende chiarire, in primo
luogo, l’interpretazione del significato da attribuire
all’articolo 45 secondo comma C.C.N.L. 16/05/2001, che
testualmente recita “al segretario titolare di segreteria
convenzionate per l’accesso alle diverse sedi, spetta il
rimborso delle spese di viaggio effettivamente sostenute e
documentabili”.
Reputa la Sezione, che tale previsione debba essere
necessariamente inserita nella complessiva disciplina
relativa al rimborso delle spese di viaggio per i pubblici
dipendenti. A prescindere, infatti, dalla applicabilità o
meno, come sostenuto dal convenuto C., dell’articolo 10,
terzo comma, del D.P.R. 04.12.1997, n. 465, norma, comunque,
espressamente richiamata nelle premesse della convenzione
del 05/11/2009 tra il comune di Camugnano e il comune di
Castel di Casio, il rimborso delle spese di viaggio che può
considerarsi legittimamente rimborsabile riguarda solo gli
spostamenti da uno ad un altro dei comuni riuniti in
convenzione, per l’esercizio delle relative funzione da
parte del segretario convenzionato.
Il Collegio chiarisce, che non depongono in senso diverso
nessuno dei pareri citati da parte convenuta dell’Agenzia
autonoma per la gestione dell’albo dei segretari comunali e
provinciali.
Con riferimento, in primo luogo, al parere in data
21.04.2006, come correttamente riportato in citazione, si
statuisce che “ferma restando
l’esclusione del rimborso nelle ipotesi dello spostamento
dalla propria residenza al comune capofila e viceversa, al
pari del rimborso del percorso effettuato per raggiungere
dall’ultimo comune il proprio domicilio, si fa rilevare
quanto segue. È necessario considerare l’ipotesi in cui il
segretario organizzi la propria attività lavorativa in
maniera tale da raggiungere, in via primaria, un Comune
diverso da quello capofila della convenzione per motivi di
convenienza e per esigenze personali, con la conseguenza
che, in siffatto caso, si può giustificare la risoluzione
che prevede il rimborso delle spese di viaggio”.
In buona sostanza, quindi, tale parere
prevede il rimborso delle spese di viaggio sempre con
riferimento a quelle relative agli spostamenti tra i comuni
convenzionati e chiarisce in modo inequivocabile
l’impossibilità di legittimi rimborsi per gli spostamenti
dalla residenza del segretario al comune capofila e
viceversa. L’inciso che ammette il rimborso delle spese di
viaggio nel citato parere fa riferimento alla possibilità
del segretario comunale di recarsi partendo dalla propria
residenza prima in un Comune non capofila della convenzione;
in tale ipotesi saranno rimborsabili le spese di viaggio non
dalla residenza al Comune non capofila, bensì solamente
quelle relative alla tragitto dal comune capofila al Comune
non capofila.
Ancora, il parere in data 03.06.2008 dell’Agenzia dei
segretari comunali, citato nella comparsa di costituzione
del convenuto C., si riferisce al differente caso di un
segretario in disponibilità incaricato di reggenza o
supplenza, così come il successivo parere numero 284/2008.
Proprio l’espresso riferimento al parere dell’Agenzia
autonoma per la gestione dell’albo dei segretari comunali e
provinciali del 21.04.2006 nei provvedimenti di rimborso
delle spese di viaggio spettanti alla segretario comunale,
anche se limitatamente all’affermazione relativa al rimborso
delle spese di viaggio per raggiungere un Comune diverso da
quello capofila della convenzione per motivi di convenienza
e per esigenze personali, permette di concludere nel senso
che l’odierno convenuto Dott. C., non
poteva non avere conoscenza, tenuto altresì conto della
propria qualifica professionale, della parte immediatamente
antecedente a quella riportata nella citata delibera la
quale, come già riportato, testualmente sancisce che resta
ferma “l’esclusione del rimborso dell’ipotesi dello
spostamento dalla propria residenza al comune capofila e
viceversa, al pari del rimborso del percorso effettuato per
raggiungere dall’ultimo comune il proprio domicilio……”.
Se ne conclude che tutti gli elementi richiamati permettono
di giudicare commessa con colpa grave la richiesta e
l’ottenimento del rimborso da parte del segretario comunale
delle spese di viaggio sostenute per il tragitto
abitazione-luogo di lavoro nel periodo intercorrente dal
gennaio 2010 al aprile 2012.
L’elemento soggettivo in relazione alla condotta del
convenuto integra, dunque, un’ipotesi di colpa grave.
In relazione all’elemento del danno, la
Sezione reputa che nei confronti della convenuto vada,
infine, determinato, come correttamente ritenuto in atto di
citazione nell’80% dell’intero importo liquidato dal comune
di Camugnano in favore del segretario comunale, pari
complessivamente ad euro 31.565,10, senza esercizio del
potere riduttivo, tenuto conto del fatto che la condotta del
convenuto complessivamente pare finalizzato all’ottenimento
di un rimborso che non poteva non risultare quantomeno
incerto agli occhi di un operatore del diritto, senza tenere
nel adeguato conto l’interesse dell’amministrazione
comunale.
A nulla rileva il riferito deposito di una somma da parte
del convenuto, in quanto l’effettivo incasso da parte del
comune risulta sottoposto a condizione dell’ eventuale
condanna del segretario e, quindi, allo stato degli atti,
non concreto ed attuale.
Tale somma dovrà essere rivalutata dalla data dell’invito a
dedurre, se in possesso dei requisiti per la messa in mora,
fino al deposito della sentenza e andranno corrisposti
interessi legali sulla somma rivalutata da tale data fino
all’effettivo soddisfo.
L’ istanza della Procura va, pertanto, accolta nei confronti
del convenuto Dott. G.C., nei termini sopra esposti.
Le spese di giustizia seguono la soccombenza.
III.- Passando all’analisi della posizione della signora
P.M., la Sezione deve soffermarsi sulla valutazione della
sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della
responsabilità in relazione al giudizio instaurato nei
confronti del convenuta.
Il Collegio reputa che sia rinvenibile in
capo alla responsabile del servizio finanziario del
comune di Camugnano, un’ipotesi di responsabilità
amministrativa, sussistendone tutti gli elementi
costitutivi.
E’ di tutta evidenza, la sussistenza del rapporto di
servizio della medesima con l’amministrazione.
Ad avviso della Sezione, sussistono,
inoltre, per quanto esposto, il comportamento causativo di
danno erariale nonché il nesso causale tra comportamento e
danno.
In particolare, risulta accertato agli atti che i rimborsi a
favore del segretario furono effettuati sulla base di
provvedimenti di liquidazione del responsabile del servizio
finanziario del Comune di Camugnano, contenenti prospetti
riassuntivi sottoscritti congiuntamente dal segretario
comunale e dalla medesima signora M., e che i mandati di
pagamento sono tutti sottoscritti dalla convenuta M..
Sussiste, pertanto, ad avviso del Collegio, il nesso di
causalità tra l’esborso di denaro avvenuto da parte del
comune di Camugnano e la condotta della convenuta.
In relazione all’elemento soggettivo, poi,
questa Sezione lo rinviene nella colpa grave in capo alla
sig.ra M..
Secondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza
della Corte dei Conti, il concetto di colpa
grave va inquadrato nella nozione di colpa professionale di
cui all’art. 1176, 2° comma, c.c. e va inteso come
osservanza non già della normale diligenza del “bonus
pater familias”, bensì di quella particolare diligenza
occorrente con riguardo alla natura e alle caratteristiche
di una specifica attività esercitata.
Perché si abbia colpa grave non é richiesto, perciò, che si
sia tenuto un comportamento assolutamente abnorme, ma é
sufficiente che l’agente abbia omesso di attivarsi come si
attiverebbe, nelle stesse situazioni, anche il meno
provveduto degli esercenti quella determinata attività. In
altri termini, è ritenuto sufficiente, per la sussistenza
del suindicato grado di colpa, che nella fattispecie
l’agente abbia serbato comunque un comportamento contrario a
regole deontologiche elementari.
A tale proposito pare opportuno esaminare la posizione della
convenuta.
Si richiama la ricostruzione della disciplina applicabile al
caso di specie effettuata dal Collegio nella trattazione
relativa alla posizione del convenuto Dott. C..
Come per il segretario comunale, proprio l’espresso
riferimento al parere dell’Agenzia autonoma per la gestione
dell’albo dei segretari comunali e provinciali del
21.04.2006 nei provvedimenti di rimborso delle spese di
viaggio sottoscritti dalla convenuta, anche se in tali atti
viene riportata solo la parte relativa al rimborso delle
spese di viaggio per raggiungere un Comune diverso da quello
capofila della convenzione per motivi di convenienza e per
esigenze personali, permette di concludere nel senso che
l’odierna convenuta sig.ra M. non poteva non avere
conoscenza della parte immediatamente antecedente della
citata delibera la quale, come già riportato, testualmente
sancisce che resta ferma “l’esclusione del rimborso
dell’ipotesi dello spostamento dalla propria residenza al
comune capofila e viceversa, al pari del rimborso del
percorso effettuato per raggiungere dall’ultimo comune il
proprio domicilio……”.
Se ne conclude che tutti gli elementi
richiamati permettono di giudicare commessa con colpa grave
la sottoscrizione dei provvedimenti di rimborso delle spese
di viaggio effettuate dalla segretario comunale da gennaio
2010 ad aprile 2012, la sottoscrizione dei prospetti
riassuntivi delle spese sostenute e la sottoscrizione dei
mandati di pagamento.
L’elemento soggettivo in relazione alla condotta della
convenuta integra, dunque, un’ipotesi di colpa grave.
In relazione all’elemento del danno, la
Sezione reputa che nei confronti della convenuta vada,
infine, determinato, come correttamente ritenuto in atto di
citazione nell’20% dell’intero importo liquidato dal comune
di Camugnano in favore del segretario comunale, pari
complessivamente ad euro 31.565,10, senza esercizio del
potere riduttivo, tenuto conto della già ridotta percentuale
di danno addebitata alla signora M..
Tale somma dovrà essere rivalutata dalla data dell’invito a
dedurre, se in possesso dei requisiti per la messa in mora,
fino al deposito della sentenza e andranno corrisposti
interessi legali sulla somma rivalutata da tale data fino
all’effettivo soddisfo.
L’istanza della Procura va, pertanto, accolta nei confronti
della convenuta signora P.M., nei termini sopra esposti.
Le spese di giustizia seguono la soccombenza.
IV- Passando all’esame della posizione della dott.ssa S.C.,
il Collegio rileva come l’accertamento della sussistenza o
meno della colpa grave nel comportamento contestato alla
convenuta sia assorbente di tutte le altre questioni.
Si richiama il concetto di responsabilità
per colpa, già
riferito nei punti II e III che precedono.
Essa, come già esposto, sussiste solo nei limiti in cui sia
individuabile un comportamento non conforme al buon
andamento, cioè non adeguato ai fini dell’attività ed ai
criteri cui va uniformata. In sostanza, la colpa va valutata
in riferimento all’attività di cooperazione richiesta, cioè
come comportamento all’evidenza non adeguato a tali fini o a
tali criteri.
Solo allorché l’attività del pubblico
operatore si discosti ampiamente da tali indici di
adeguatezza sussiste perciò la responsabilità
amministrativa, che la legge 639/1996 ha collegato con
carattere di generalità all’elemento della colpa grave, la
quale secondo un’interpretazione giurisprudenziale ormai
consolidata si concreta in una negligenza inescusabile,
ovvero in una disattenzione macroscopica, in una marchiana
imperizia o irrazionale imprudenza.
Nella valutazione del comportamento concreto tenuto dalla
convenuta dott.ssa C. nella vicenda in esame, non ritiene il
Collegio di individuare le caratteristiche della negligenza
inescusabile ovvero della disattenzione macroscopica o della
marchiana imperizia.
Esaminando la posizione della convenuta, il Collegio reputa,
in proposito, che acquistino significato alcuni aspetti
emersi dall’esame dei fatti e che portano a considerare non
accoglibile la prospettazione di responsabilità fornita
dalla Procura regionale.
Innanzitutto, questa Sezione ritiene rilevante il fatto, che
la convenuta avrebbe disposto la contestata determinazione
n. 87 del 14/12/2011 di affidamento di un parere
all’avvocato OMISSIS con la plausibile intenzione di
accertare quale fosse la corretta interpretazione da fornire
alla materia del rimborso delle spese di viaggio al
segretario comunale. Altresì non pare, ad avviso del
Collegio che fossero mancanti i parametri legislativamente
previsti per il conferimento dell’incarico.
Di conseguenza emerge che il comportamento della convenuta
non è consistito in una negligenza inescusabile, ovvero in
una disattenzione o imperizia macroscopica, che, come
ricordato, integrano il concetto di colpa grave necessario,
secondo la legislazione vigente, per ritenere la sussistenza
di responsabilità.
L’istanza della Procura va pertanto rigettata rispetto alla
convenuta Dottoressa S.C.
Attesa la particolare complessità della questione,
sussistono i motivi per ritenere compensate le spese di
giustizia e le spese legali rispetto alla convenuta C..
P.Q.M.
La Corte dei Conti, Sezione giurisdizionale regionale per
l’Emilia-Romagna, definitivamente pronunciando assolve la
convenuta dott.ssa S.C. dagli addebiti contestatile e
condanna i convenuti dott. G.C. e sig.ra P.M. come
da richiesta in atto di citazione, con rivalutazione dalla
data dell’invito a dedurre, se in possesso dei requisiti per
la messa in mora, fino al deposito della sentenza e
interessi legali sulle somme rivalutate da tale data
l’effettivo soddisfo
(Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Emilia Romagna,
sentenza 12.08.2015 n. 103). |
SEGRETARI COMUNALI -
SICUREZZA LAVORO: Sulla
possibilità, o meno, di individuare il Segretario Comunale
quale "datore di lavoro".
Il
datore di lavoro nelle pubbliche amministrazioni può essere
un dirigente o un preposto ma, d’altro lato, non tutti i
dirigenti e non tutti i preposti sono, per ciò stesso,
datori di lavoro. Quest’ultima qualificazione, in
definitiva, non accede necessariamente alla qualifica di
“dirigente” e a quella di “preposto”.
Occorre che il “datore
di lavoro” sia specificamente individuato dall’organo di
vertice delle singole amministrazioni tra quei dirigenti o
quei preposti dotati di autonomi poteri decisionali e di
spesa, tenendo conto dell’ubicazione e dell’ambito
funzionale degli uffici nei quali viene svolta l’attività.
Ciascuna di queste figure è, del resto, destinataria di
specifiche funzioni e obblighi, con conseguenti
responsabilità.
Peraltro, a fronte della possibilità di
delegare e sub-delegare alcune delle funzioni proprie del
datore di lavoro (art. 16), nel rispetto di rigorosi
presupposti e formalità, non è attività delegabile la
valutazione di tutti i rischi con la conseguente
elaborazione del documento previsto dall’articolo 28, nonché
la designazione del responsabile del servizio di prevenzione
e protezione dai rischi.
---------------
Se può essere designato “datore di lavoro”
solo chi è dirigente o funzionario fornito di tutti i poteri
gestionali e di spesa autonomi, in tanto si può porre il
problema se è designabile il segretario comunale in quanto
si dia per verificato e accertato, nel concreto, che al
segretario comunale siano stati conferiti, se sono
conferibili, quei poteri autonomi di gestione e di spesa che
sono propri del dirigente.
In altre parole, la questione di
fondo non è se il segretario comunale possa essere designato
“datore di lavoro” ma, prima ancora, se e in che misura il
segretario comunale possa assumere le funzioni proprie e
piene del dirigente così da poter attrarre in questo ambito
funzionale anche le attribuzioni del datore di lavoro.
---------------
L’attribuzione della
qualifica di “datore di lavoro” in capo al segretario
comunale presuppone la mancanza di figure dirigenziali in
seno all’Ente o di funzionari che, pur non avendo la
qualifica dirigenziale, siano preposti ad un ufficio avente
autonomia gestionale e di spesa.
In tali fattispecie, nei limiti e con le cautele che si
impongono per la peculiarità della situazione, secondo le
considerazioni che precedono, il segretario comunale al
quale sia conferita con atto formale la titolarità effettiva
del potere gestionale adeguato alle sue competenze, con
attribuzione di poteri di spesa, può essere anche espressamente designato “datore
di lavoro”, ai fini e con le responsabilità di cui alla D.Lgs. n. 81/2008.
---------------
Con la nota in epigrafe il Sindaco del Comune di Pomarico
(MT) ha chiesto a questa Sezione di esprimere un
parere circa la possibilità di individuare nel Segretario
Comunale il “datore di lavoro”, ai sensi dell’art. 2
del D.Lgs.vo n. 81/2008, nell’ambito della normativa
sulla tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di
lavoro, soprattutto laddove, in luogo delle figure
dirigenziali mancanti, le posizioni apicali siano state
assegnate a responsabili di area e di posizione
organizzativa.
Chiede di sapere, inoltre, se tale attribuzione di
funzioni determini una maggiorazione della retribuzione di
posizione.
...
6. L’art. 3 della Direttiva 12/6/1989, n. 89/391/CEE (prima di una
serie di direttive riguardanti il miglioramento della
sicurezza e della salute dei lavoratori durante il lavoro)
definiva "datore di lavoro" qualsiasi persona, fisica o
giuridica, che fosse titolare del rapporto di lavoro con il
lavoratore e avesse la responsabilità dell’impresa e/o dello
stabilimento.
A sua volta, l’art. 2, lett. b), del D.Lgs.
626/1994, come sostituito dal D.Lgs. n. 242/1996, in
attuazione delle direttive comunitarie, specificava le
caratteristiche del datore di lavoro: tale è il soggetto
titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore o,
comunque, il soggetto che, secondo il tipo e
l’organizzazione dell'impresa, ha la responsabilità
dell’impresa stessa ovvero dell’unità produttiva, in quanto
titolare dei poteri decisionali e di spesa.
Dovendo, le
norme di tutela, applicarsi anche alle amministrazioni
pubbliche, con le eccezioni giustificate da specifiche
funzioni, il legislatore nazionale aggiungeva il seguente
periodo: “Nelle pubbliche amministrazioni di cui all' art.
1, comma 2, del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29,
per datore di lavoro si intende il dirigente al quale
spettano i poteri di gestione, ovvero il funzionario non
avente qualifica dirigenziale, nei soli casi in cui
quest'ultimo sia preposto ad un ufficio avente autonomia
gestionale”.
L’art. 30 (Disposizioni transitorie e finali)
stabiliva, ancora, che entro sessanta giorni dalla data di
entrata in vigore del decreto legislativo, gli organi di
direzione politica o, comunque, di vertice delle
amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1, comma 2, del
d.lgs. n. 29/1993 (allora vigente, oggi n. 165/2001),
avrebbero proceduto all’individuazione dei datori di lavoro,
di cui all’art. 2, comma 1, lettera b), secondo periodo,
tenendo conto dell’ubicazione e dell’ambito funzionale degli
uffici nei quali viene svolta l’attività.
L’art. 2, lett. b), del d.lgs. n. 81/2008, fondendo le
disposizioni precettive sopra riportate, ha individuato il
«datore di lavoro» nel contesto delle pubbliche
amministrazioni, nel “dirigente al quale spettano i poteri
di gestione, ovvero il funzionario non avente qualifica
dirigenziale, nei soli casi in cui quest'ultimo sia preposto
ad un ufficio avente autonomia gestionale, individuato
dall'organo di vertice delle singole amministrazioni tenendo
conto dell'ubicazione e dell'ambito funzionale degli uffici
nei quali viene svolta l'attività, e dotato di autonomi
poteri decisionali e di spesa. In caso di omessa
individuazione, o di individuazione non conforme ai criteri
sopra indicati, il datore di lavoro coincide con l'organo di
vertice medesimo”.
È questa la fonte oggi vigente cui
occorre prestare attenzione.
Le successive lettere d) ed e) del medesimo art. 2,
aggiungono ulteriori definizioni. È «dirigente» la persona
che, in ragione delle competenze professionali e di poteri
gerarchici e funzionali adeguati alla natura dell'incarico
conferitogli, attua le direttive del datore di lavoro
organizzando l’attività lavorativa e vigilando su di essa. È
«preposto» la persona che, in ragione delle competenze
professionali e nei limiti di poteri gerarchici e funzionali
adeguati alla natura dell’incarico conferitogli, sovrintende
alla attività lavorativa e garantisce l’attuazione delle
direttive ricevute, controllandone la corretta esecuzione da
parte dei lavoratori ed esercitando un funzionale potere di
iniziativa.
Particolarmente significative sono, poi, le sanzioni, anche
penali, che colpiscono le figure del datore di lavoro, del
dirigente e del preposto (artt. 55 e 56).
A chiusura del sistema, vale la pena aggiungere che l’art.
299 del d.lgs. n. 81/2008, ha stabilito che le posizioni di
garanzia relative ai soggetti di cui all’articolo 2, comma
1, lettere b), d) ed e), gravano altresì su colui il quale,
pur sprovvisto di regolare investitura, eserciti in concreto
i poteri giuridici riferiti a ciascuno dei soggetti ivi
definiti.
7. Mentre il D.Lgs. n. 626/1994 nulla diceva circa
l’individuazione del datore di lavoro, il D.Lgs. n.
242/1996, con riferimento alle amministrazioni pubbliche, ha
onerato sia gli organi di direzione politica che gli organi
comunque di vertice, di procedere a tale adempimento (art.
30). Con l’art. 2, lett. b), D.Lgs. n. 81/2008, che
rappresenta la vigente norma, è venuta meno la competenza
dell’organo di direzione politica mentre è rimasta quella
dell’organo di vertice, onerato di individuare,
conformemente ai criteri previsti, il “datore di lavoro”.
Non è compito di questa Sezione, per i limiti dell’attività
consultiva intestata sopra richiamati, entrare nel
dibattito, dottrinario e giurisprudenziale, se il datore di
lavoro, indipendentemente da un atto espresso dell’organo di
vertice politico dell’ente, si identifichi ex se nel
dirigente “al quale spettano i poteri di gestione”,
lasciando all’organo di vertice l’onere di identificare il
datore di lavoro nei soli casi in cui tale figura
dirigenziale non sia presente, come nel caso degli EE.LL. di
minori dimensioni; ovvero, se tale designazione occorra che
sia fatta in ogni caso, sicché, “in caso di omessa
individuazione, o di individuazione non conforme ai criteri
sopra indicati, il datore di lavoro coincide con l'organo di
vertice medesimo”.
Quel che sembra indiscutibile, sia che si acceda all’una o
all’altra soluzione, è che il “datore di lavoro” deve essere
fornito di tutti quei poteri gestionali autonomi che lo
contraddistinguono come tale e sui quali si radica la sua
responsabilità. In questo senso la norma è chiara nel
vincolare la idoneità e la “genuinità” della nomina alla
effettiva autonomia gestionale e di spesa in capo al
prescelto.
In altre parole, quale che sia la modalità e la fonte che lo
individua, deve escludersi che il datore di lavoro possa
essere solo il soggetto, dirigente o preposto, da
responsabilizzare senza, nel contempo, dotarlo di tutti quei
poteri gestionali e di spesa sui quali si fondano, nella
evidente intenzione del legislatore, le responsabilità che è
chiamato ad assumersi.
Ancor più chiaramente, proprio il
richiamato art. 299 del d.lgs. n. 81/2008, spiega che
l’organo di vertice dell’amministrazione pubblica non si
libera delle responsabilità conseguenti dall’essere, sia
pure in via residuale, il “datore di lavoro” se si limita ad
attribuire tale qualifica ad altro soggetto, rimanendo ad un
tempo egli il dominus effettivo dell’organizzazione
gestionale e di spesa. È, in altre parole, il criterio
dell’effettività sostanziale che prevale rispetto
all’individuazione per indici formali del datore di lavoro (vds.,
Cass. pen. n. 34804/2010).
8. Così strutturato il sistema della responsabilità è
coerente con l’attribuzione di effettivi poteri gestori. Da
un lato, responsabilizza solo coloro che hanno la concreta
possibilità di valutare i rischi e di assumere le decisioni
idonee a ridurlo. Dall’altro, rispetta l’ordinamento degli EE.LL. che, pur rinvenendo negli Statuti e nei Regolamenti
la disciplina delle funzioni dei dirigenti, subordina tali
atti normativi secondari al principio per cui la gestione
amministrativa, finanziaria e tecnica è attribuita ai
dirigenti mediante autonomi poteri di spesa, di
organizzazione delle risorse umane, strumentali e di
controllo. Sono questi, dunque, i medesimi poteri richiamati
dalla disposizione del D.Lgs. n. 81/2008 che rendono
effettiva, e non formale, la individuazione del datore di
lavoro.
Se poi, nella realtà del singolo Ente, i dirigenti, o quanti
svolgono in loro mancanza le funzioni dirigenziali, sono
privi del potere gestionale autonomo o di spesa, perché, ad
esempio, non sono stati loro assegnati gli obiettivi e gli
strumenti e le dotazioni per raggiungerli, è un problema
che, prima di tutto, potrebbe mettere in discussione
l’adeguatezza della individuazione del datore di lavoro
rispetto al paradigma normativo e al criterio
sostanzialistico sopra richiamato e, d’altro canto, potrebbe
incidere, in concreto, sul riparto delle responsabilità
connesse alla qualifica.
È da osservare, peraltro, che la presenza del datore di
lavoro non manleva di ogni responsabilità i soggetti
obbligati, da altre fonti normative, a intervenire. Ai sensi
dell’art. 18, commi 3 e 3-bis, gli “interventi strutturali e
di manutenzione necessari per assicurare, ai sensi del
presente decreto legislativo, la sicurezza dei locali e
degli edifici assegnati in uso a pubbliche amministrazioni o
a pubblici uffici, ivi comprese le istituzioni scolastiche
ed educative, restano a carico dell'amministrazione tenuta,
per effetto di norme o convenzioni, alla loro fornitura e
manutenzione. In tale caso gli obblighi previsti dal
presente decreto legislativo, relativamente ai predetti
interventi, si intendono assolti, da parte dei dirigenti o
funzionari preposti agli uffici interessati, con la
richiesta del loro adempimento all'amministrazione
competente o al soggetto che ne ha l'obbligo giuridico.
3-bis. Il datore di lavoro e i dirigenti sono tenuti altresì
a vigilare in ordine all'adempimento degli obblighi di cui
agli articoli 19, 20, 22, 23, 24 e 25, ferma restando
l'esclusiva responsabilità dei soggetti obbligati ai sensi
dei medesimi articoli qualora la mancata attuazione dei
predetti obblighi sia addebitabile unicamente agli stessi e
non sia riscontrabile un difetto di vigilanza del datore di
lavoro e dei dirigenti.”
9. Da quanto precede può trarsi una prima conclusione:
il
datore di lavoro nelle pubbliche amministrazioni può essere
un dirigente o un preposto ma, d’altro lato, non tutti i
dirigenti e non tutti i preposti sono, per ciò stesso,
datori di lavoro. Quest’ultima qualificazione, in
definitiva, non accede necessariamente alla qualifica di
“dirigente” e a quella di “preposto”. Occorre che il “datore
di lavoro” sia specificamente individuato dall’organo di
vertice delle singole amministrazioni tra quei dirigenti o
quei preposti dotati di autonomi poteri decisionali e di
spesa, tenendo conto dell’ubicazione e dell’ambito
funzionale degli uffici nei quali viene svolta l’attività.
Ciascuna di queste figure è, del resto, destinataria di
specifiche funzioni e obblighi, con conseguenti
responsabilità. Peraltro, a fronte della possibilità di
delegare e sub-delegare alcune delle funzioni proprie del
datore di lavoro (art. 16), nel rispetto di rigorosi
presupposti e formalità, non è attività delegabile la
valutazione di tutti i rischi con la conseguente
elaborazione del documento previsto dall’articolo 28, nonché
la designazione del responsabile del servizio di prevenzione
e protezione dai rischi (cfr. Cass. Penale, Sez. 4, 27.05.2015, n. 22415).
10. Dalla considerazione che precede può ulteriormente
argomentarsi che, se può essere designato “datore di lavoro”
solo chi è dirigente o funzionario fornito di tutti i poteri
gestionali e di spesa autonomi, in tanto si può porre il
problema se è designabile il segretario comunale in quanto
si dia per verificato e accertato, nel concreto, che al
segretario comunale siano stati conferiti, se sono
conferibili, quei poteri autonomi di gestione e di spesa che
sono propri del dirigente.
In altre parole, la questione di
fondo non è se il segretario comunale possa essere designato
“datore di lavoro” ma, prima ancora, se e in che misura il
segretario comunale possa assumere le funzioni proprie e
piene del dirigente così da poter attrarre in questo ambito
funzionale anche le attribuzioni del datore di lavoro.
11. Non rientra nel tema posto dal quesito in esame la
questione se il segretario comunale possa assumere anche, e
contemporaneamente, una funzione gestoria di livello
dirigenziale e se questa funzione sia compatibile con le
attribuzioni istituzionali che il segretario deve adempiere.
In questa sede ci si può solo limitare a offrire alcuni
spunti di riflessione sul tema.
11.1. In coerenza col principio già affermato dall’art. 3
del D.Lgs. n. 29/1993, poi trasfuso nell’art. 4 del D.Lgs.
n. 165/2001, è indiscusso che anche gli EE.LL. si
uniformano al principio per cui i poteri di indirizzo e di
controllo politico-amministrativo spettano agli organi di
governo, mentre la gestione amministrativa, finanziaria e
tecnica è attribuita ai dirigenti mediante autonomi poteri
di spesa, di organizzazione delle risorse umane, strumentali
e di controllo. In questo senso dispone l’art. 107 del TUEL
che assegna ai dirigenti la direzione degli uffici e dei
servizi secondo i criteri e le norme dettati dagli statuti e
dai regolamenti. Nei comuni privi di personale di qualifica
dirigenziale le funzioni di cui all'articolo 107, commi 2 e
3, possono essere attribuite, a seguito di provvedimento
motivato del sindaco, ai responsabili degli uffici o dei
servizi, indipendentemente dalla loro qualifica funzionale,
anche in deroga a ogni diversa disposizione.
Secondo l’art. 97, comma 2, del TUEL, il segretario comunale
svolge compiti di collaborazione e funzioni di assistenza
giuridico-amministrativa nei confronti degli organi
dell'ente in ordine alla conformità dell’azione
amministrativa alle leggi, allo statuto ed ai regolamenti.
Salvo il caso in cui sia stato nominato il Direttore
Generale (per i comuni con popolazione superiore a 100.000
abitanti), è al segretario che spetta, negli altri casi,
sovrintendere allo svolgimento delle funzioni dei dirigenti
e coordinarne l’attività. Il segretario inoltre (…) “d)
esercita ogni altra funzione attribuitagli dallo statuto o
dai regolamenti, o conferitagli dal sindaco o dal presidente
della provincia”.
11.2 Ora proprio la previsione dell’art. 97, comma 4,
lettera d), ha costituito argomento per sostenere la
possibilità di attribuire funzioni dirigenziali al
segretario comunale.
Ad esempio, nel parere del 09.10.2009,
reso dal Ministero dell’Interno, si legge che “tale norma,
come evidenziato anche nella circolare di questo Ministero
del 15.07.1997 n. 1/1997, citata dall’esponente, ha valenza
di clausola di salvaguardia ai fini del buon andamento della
macchina organizzativa, amministrativa e gestionale
dell’ente. Infatti, occorre rilevare che le assegnazioni di
ulteriori funzioni al segretario può avvenire solo nel
momento in cui l’ente locale risulti privo sia di personale
di qualifica dirigenziale sia di responsabili dei servizi,
ovvero qualora l’ente intenda fare una specifica scelta
gestionale in tal senso. Bisogna, difatti, rammentare che i
dirigenti -ovvero i dipendenti nominati responsabili degli
uffici e dei servizi- sono titolari delle funzioni loro
attribuite, risultando, quindi, residuale l’applicazione
della citata disposizione di cui al comma 4 lett. d)
dell’art. 97.
Ciò posto, poiché ai sensi dell’art. 89 del
D.lgs. 267/2000 l’ordinamento generale degli uffici e dei
servizi è coperto da riserva di tipo regolamentare, si deve
ritenere che l’eventuale attribuzione di specifiche funzioni
gestionali o di titolarità degli uffici o dei servizi al
segretario sia necessariamente da prevedere attraverso una
specifica disposizione regolamentare, previa un’attenta
verifica dell’assenza all’interno dell’ente di adeguate
figure professionali; mentre il conferimento delle funzioni,
riservato al Sindaco o al presidente della Provincia, non
può che essere temporaneo e limitato all’espletamento di una
prestazione nell’ambito di una funzione (ad esempio la
presidenza di una gara per temporanea assenza del
dirigente)”.
Rammenta, infine, il citato parere che le stesse
disposizioni contrattuali, contenute nell’art. 1 del CCNL
dei segretari comunali e provinciali del 22.12.2003,
stabiliscono che, relativamente agli incarichi per attività
di carattere gestionale, occorre che gli stessi siano
conferiti in via temporanea e dopo aver accertato
l’inesistenza delle necessarie professionalità all’interno
dell’Ente, anche in relazione al fatto che per l’esercizio
delle funzioni aggiuntive affidate al segretario è prevista
una maggiorazione della retribuzione di posizione in
godimento.
Fermo che, nel parere in questione, le funzioni aggiuntive
alle quali si collega la maggiorazione della retribuzione si
riferiscono all’attività gestoria attribuita e non alla
qualificazione di “datore di lavoro”, che neppure potrebbe
attribuirsi scissa dalla funzione gestoria piena,
a venire
in rilievo è la fonte normativa, che l’art. 97, comma 4,
lettera d), individua nello Statuto o nel Regolamento
dell’Ente, alla quale occorre fare esclusivo riferimento per
verificare la possibilità di attribuire al Segretario
comunale specifiche funzioni gestionali o la titolarità di
uffici o servizi. Occorre cioè che sia lo Statuto o il
Regolamento (sull’ordinamento degli uffici e dei servizi) a
prevedere la conferibilità al Segretario di dette funzioni
(sulla esclusione di una “incompatibilità” ex lege
all’assunzione di funzioni dirigenziali, vsd. Sezione
controllo per la Sardegna, delibera n. 28/2013).
Tale previsione, tuttavia, a parere di questa Sezione, non
potrebbe che essere residuale, per il caso in cui l’Ente non
rinvenga al proprio interno figure professionali adeguate
all’affidamento degli incarichi e delle funzioni. Si tratta,
in effetti, di una soluzione di estremo compromesso, volta a
mantenere ferma la funzionalità dell’Ente, soprattutto di
minori dimensioni, senza sacrificare, oltre la misura minima
consentita dalle circostanze, la distinzione che deve essere
mantenuta tra gli ambiti propri dell’attività gestoria e
quelli propri del sistema dei controlli interni all’ente
medesimo, controlli che hanno visto il segretario comunale
assumere, di recente, un ruolo sempre più centrale. In altre
parole, la evoluzione della normativa in tema di controlli
interni e di contrasto alla corruzione sembra esercitare una
forza di attrazione delle funzioni del segretario comunale,
già in origine prevalentemente di coordinamento e di
assistenza, verso un’area caratterizzata da funzioni più
spiccatamente di garanzia e di controllo interno, che
finiscono per relegare al margine la possibilità di un
coinvolgimento di tale figura professionale nell’attività
gestoria piena.
In questo senso, se è vero che il citato art. 97 del TUEL
non esclude che il segretario comunale possa esercitare ogni
altra funzione attribuitagli dallo statuto o dai
regolamenti, o conferitagli dal sindaco, è anche vero che è
lo stesso articolo ad affermare, poco prima, l’esigenza di
disciplinare i rapporti tra il segretario e il direttore
generale, ove nominato, secondo l'ordinamento dell'ente e
“nel rispetto dei loro distinti ed autonomi ruoli”.
Del resto, rispetto a una sorta di generica idoneità del
segretario ad assumere funzioni dirigenziali giova osservare
che il nuovo articolo 49, comma 2, del TUEL, così come
riscritto dal D.L. 174/2012, introduce il principio per cui
la funzione eventualmente conferita al segretario deve
essere adeguata alle sue competenze. Ed infatti, su ogni
proposta di deliberazione sottoposta alla Giunta e al
Consiglio che non sia mero atto di indirizzo, è richiesto il
parere di regolarità tecnica al responsabile del servizio
interessato, che se ne assume la responsabilità
amministrativa e contabile.
In sostanza, il segretario
comunale è chiamato, in assenza del responsabile del
servizio, a rendere il parere di regolarità tecnica solo se
ha le competenze adeguate a quel servizio. Se ciò è vero per
il rilascio del parere, vera è anche la conclusione che non
ogni servizio potrebbe essere affidato alla direzione del
segretario comunale, ma solo quel servizio adeguato alle sue
competenze. Sembra infatti contraddittorio ammettere che
possa affidarsi al segretario la responsabilità di un
servizio per il quale lo stesso segretario, mancando di
adeguata competenza, non potrebbe neppure rendere il parere
di regolarità tecnica previsto dal citato art. 49 TUEL.
Ed ancora, secondo l’art. 147-bis, commi 2 e seg., anche
esso introdotto dal citato D.L. n. 174/2012, il controllo di
regolarità amministrativa è assicurato, nella fase
successiva all’adozione dell’atto, per le determinazioni di
impegno di spesa, i contratti e gli altri atti
amministrativi, scelti secondo una selezione casuale
effettuata con motivate tecniche di campionamento, “sotto la
direzione del segretario”.
Le risultanze del controllo di
cui al comma 2 sono, poi, trasmesse periodicamente, a cura
del segretario, ai responsabili dei servizi, unitamente alle
direttive cui conformarsi in caso di riscontrate
irregolarità, nonché ai revisori dei conti e agli organi di
valutazione dei risultati dei dipendenti, come documenti
utili per la valutazione, e al consiglio comunale. Ora,
se
anche non si può ritenere l’attività di controllo qui
descritta senz’altro incompatibile con quella di
responsabile delle medesime attività gestionali svolte, non
di meno, sempre per i comuni di minori dimensioni e con
minori risorse da destinare alle funzioni di controllo
interno, è da ritenere una anomalia il fatto che
l’ordinamento consenta di unificare in capo al medesimo
soggetto le funzioni di controllo e di gestione.
12. Ora, tornando al tema del parere, si ritiene di poter
affermare, in via conclusiva, che l’attribuzione della
qualifica di “datore di lavoro” in capo al segretario
comunale presuppone la mancanza di figure dirigenziali in
seno all’Ente o di funzionari che, pur non avendo la
qualifica dirigenziale, siano preposti ad un ufficio avente
autonomia gestionale e di spesa.
In tali fattispecie, nei limiti e con le cautele che si
impongono per la peculiarità della situazione, secondo le
considerazioni che precedono, il segretario comunale al
quale sia conferita con atto formale la titolarità effettiva
del potere gestionale adeguato alle sue competenze, con
attribuzione di poteri di spesa (Cass. Pen. Sez. VI,
07.10.2004), può essere anche espressamente designato “datore
di lavoro”, ai fini e con le responsabilità di cui alla D.Lgs. n. 81/2008 (Corte dei Conti, Sez. controllo
Basilicata,
parere 29.07.2015 n. 50). |
PUBBLICO IMPIEGO:
L’espletamento delle mansioni superiori, anche in costanza
oggettiva di carenza di organico, sono fonte di danno
erariale.
L’art. 52 del D.Lgs.
30.03.2001 n. 165 prevede che per
obiettive esigenze di servizio il prestatore di lavoro può
essere adibito a mansioni proprie della qualifica
immediatamente superiore:
a) nel caso di vacanza di posto in organico, per non più di
sei mesi, prorogabili fino a dodici qualora siano state
avviate le procedure per la copertura dei posti vacanti come
previsto al comma 4;
b) nel caso di sostituzione di altro dipendente assente con
diritto alla conservazione del posto, con esclusione
dell’assenza per ferie, per la durata dell’assenza.
Nell’ordinamento dei pubblici dipendenti
contrattualizzati vige –ai sensi dell’art. 29 del D.Lgs. n.
29 del 1993 e successive modifiche, poi sostituto dall’art.
52 del D.Lgs. n. 165 del 2001– il divieto di assegnazione di
mansioni superiori al di fuori delle ipotesi tassativamente
previste dalla legge, con nullità degli atti di conferimento
illegittimi.
Sicché il dott. R.G., assegnando alla
sig.ra A.M.I. le mansioni superiori, ha violato disposizioni
normative imperative.
La condotta posta in essere nella specie
appare connotata da colpa grave, in quanto realizzata in
violazione di norme chiare, espressione di regole
consolidate da diversi anni e di principi costantemente
applicati dalla giurisprudenza, che non potevano essere
legittimamente ignorati o disapplicati dal dirigente senza
la violazione dei canoni di minima diligenza che lo stesso
era tenuto ad adottare nell’esercizio delle proprie funzioni.
Il menzionato comportamento si pone come
antecedente causale ed immediato del danno subito
dall’Amministrazione, consistente nelle differenze
retributive pagate in conseguenza delle sentenze del giudice
ordinario e delle spese corrisposte in sede giudiziale.
In conseguenza dell’illegittimo
svolgimento di mansioni superiori la giurisprudenza
considera come danno le relative differenze retributive,
costituendo le stesse una spesa disutile per
l’Amministrazione, ed esclude che possa essere corrisposto
in compensazione l’arricchimento dell’Amministrazione.
---------------
Osserva il Collegio che
inizialmente va ribadito l’ambito normativo in cui ha
operato l’odierno convenuto in giudizio.
L’art. 52 del D.Lgs. 30.03.2001 n. 165 -norme generali
sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle
Amministrazioni Pubbliche, e nello specifico, la disciplina
delle mansioni- prevede che “per
obiettive esigenze di servizio il prestatore di lavoro può
essere adibito a mansioni proprie della qualifica
immediatamente superiore: a) nel caso di vacanza di posto in
organico, per non più di sei mesi, prorogabili fino a dodici
qualora siano state avviate le procedure per la copertura
dei posti vacanti come previsto al comma 4; b) nel caso di
sostituzione di altro dipendente assente con diritto alla
conservazione del posto, con esclusione dell’assenza per
ferie, per la durata dell’assenza"
(comma 2).
“Si considera svolgimento di mansioni superiori, ai fini
del presente articolo, soltanto l’attribuzione in modo
prevalente, sotto il profilo qualitativo, quantitativo e
temporale, dei compiti propri di dette mansioni” (comma
3)….. “al di fuori delle ipotesi di cui al comma 2, è
nulla l’assegnazione del lavoratore a mansioni proprie di
una qualifica superiore, ma al lavoratore è corrisposta la
differenza di trattamento economico con la qualifica
superiore. Il dirigente che ha disposto l’assegnazione
risponde personalmente del maggior onere conseguente, se ha
agito con dolo o colpa grave” (comma 5).
Le prescrizioni normative costituiscono espressione di un
principio del nostro ordinamento che vieta in linea generale
l’assegnazione di mansioni superiori nel pubblico impiego,
ad eccezione di tassative ipotesi.
In tal senso la Corte di Cassazione - Sez. Lavoro 24.10.2008
n. 25761 ha statuito che nell’ordinamento
dei pubblici dipendenti contrattualizzati vige –ai sensi
dell’art. 29 del D.Lgs. n. 29 del 1993 e successive
modifiche, poi sostituto dall’art. 52 del D.Lgs. n. 165 del
2001– il divieto di assegnazione di mansioni superiori al di
fuori delle ipotesi tassativamente previste dalla legge, con
nullità degli atti di conferimento illegittimi.
Sicché il dott. R.G., assegnando alla
sig.ra A.M.I. le mansioni superiori, ha violato disposizioni
normative imperative.
La condotta posta in essere nella specie
appare connotata da colpa grave, in quanto realizzata in
violazione di norme chiare, espressione di regole
consolidate da diversi anni e di principi costantemente
applicati dalla giurisprudenza, che non potevano essere
legittimamente ignorati o disapplicati dal dirigente senza
la violazione dei canoni di minima diligenza che lo stesso
era tenuto ad adottare nell’esercizio delle proprie funzioni
(cfr. Corte conti Sez. II Centr. 20.03.2006 n. 126 e Sezione
giurisdizionale Regione Puglia 22.07.2010 n. 475).
Il menzionato comportamento si pone come
antecedente causale ed immediato del danno subito
dall’Amministrazione, consistente nelle differenze
retributive pagate in conseguenza delle sentenze del giudice
ordinario e delle spese corrisposte in sede giudiziale.
In conseguenza dell’illegittimo svolgimento
di mansioni superiori la giurisprudenza considera come danno
le relative differenze retributive, costituendo le stesse
una spesa disutile per l’Amministrazione, ed esclude che
possa essere corrisposto in compensazione l’arricchimento
dell’Amministrazione
(cfr. Sez. II Centr. 01.02.2010 n. 20 e 05.07.2002 n. 225).
Ne deriva che sussistono tutti i presupposti per affermare
la responsabilità amministrativa.
In ordine alla quantificazione del danno questo magistrato
contabile ha il potere–dovere di ridurre, secondo il proprio
apprezzamento, il quantum di danno da porre a carico del
pubblico funzionario autore di condotte illecite; cfr.,
ex plurimis, Sez. I centr. 05.10.2001 n. 291.
Nell’estrema complessità dell’organizzazione amministrativa
pubblica sussistono corresponsabilità di altri soggetti non
convenibili o non convenuti nel giudizio di responsabilità
amministrativa, sicché è necessario operare una ripartizione
del danno tra questi fattori estrinseci, al fine di
stabilire quanta parte di esso debba restare a carico
dell’Amministrazione e quanto debba essere addebitato al
convenuto: cfr. Sezione giurisdizionale di Appello Sicilia
14.02.2013 n. 46.
La norme che disciplinano la situazione, artt. 82 e 83 del
r.d. 18.11.1923 n. 2440, prevedono che del danno “ciascuno
risponde per la parte che vi ha presa”, e che la
condanna va pronunciata “valutate le singole
responsabilità”. Per cui il potere riduttivo è mezzo di
adeguamento della condanna alla parte di responsabilità che
è imputabile al condannato, tenuto debito conto della
complessità dell’organizzazione e del modo di operare della
Pubblica Amministrazione.
Nel caso specifico le situazioni oggettive, ovvero il
contesto ambientale in cui ha dovuto operare il convenuto
–visto il relativo organico presente di fatto nell’apparato
organizzatorio- a parere del Collegio, consentono una
quantificazione dell’ammontare del danno pari al 50% della
richiesta attorea, e quindi pari a € 4.100,00.
Sulle somme su cui si è pronunciata la sentenza di condanna
è, altresì, dovuto, vertendosi nella specie di obbligazione
originariamente pecuniaria -e quindi di debito di valuta–
con decorrenza, dal 1° gennaio successivo all’esborso, il
maggior importo tra interessi legali e rendimento medio
netto dei titoli di Stato con scadenza non superiore a
dodici mesi (cfr. Cass. SS.UU. n. 19499/2008 e Sez. II n.
12828 del 2009) fino alla pubblicazione della presente
sentenza.
Dalla pubblicazione della sentenza spettano gli interessi
legali sino al soddisfo
(Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Toscana,
sentenza 03.03.2014 n. 34). |
NEWS |
APPALTI:
Controlli
antimafia sui familiari. Le verifiche in impresa estese ai
conviventi dei manager.
La legge 121/2015 amplia la portata degli
accertamenti, anche a chi vive all'estero.
Estese le verifiche antimafia a tutti i
familiari conviventi dei titolari di incarichi rilevanti
nell'impresa, a prescindere dal dato della loro residenza in
Italia. Dal 25 agosto 2015 la verifica antimafia è estesa a
tutti i familiari conviventi anche se residenti all'estero.
Con l'eliminazione del presupposto della residenza in Italia
si è determinato un ampliamento delle categorie di soggetti
sottoposti alla verifica.
Conseguentemente, anche se residenti all'estero, dovrà
essere acquisita la documentazione antimafia anche dei
familiari conviventi maggiorenni del titolare e del
direttore tecnico dell'impresa individuale, del legale
rappresentante e dei componenti del consiglio di
amministrazione delle società di capitali e delle società
cooperative, del socio di maggioranza di società di capitali
con un numero di soci fino a 4, del socio, in caso di
società di capitali con socio unico, di tutti i soci delle
società semplici e in nome collettivo, dei soci
accomandatari delle società in accomandita semplice.
Tutto questo lo ha previsto la legge 06.08.2015, n. 121
(pubblicata in Gazzetta Ufficiale 10.08.2015, n. 184) che
modifica il comma 3, articolo 85, del codice antimafia,
sopprimendo le parole «che risiedono nel territorio dello
stato».
Dovrà essere acquisita la documentazione antimafia anche dei
familiari conviventi maggiorenni dei rappresentanti in
Italia delle società estere con sede secondaria nel
territorio dello stato, dei rappresentanti delle imprese che
costituiscono il raggruppamento temporaneo di imprese, dei
membri del collegio sindacale o dei soggetti che svolgono
compiti di vigilanza di qualsiasi associazione o società,
dei soci persone fisiche che detengono una partecipazione
alla società superiore al 2%, nonché dei direttori generali
e dei soggetti responsabili delle sedi secondarie o delle
stabili organizzazioni in Italia, di società concessionarie
nel settore dei giochi pubblici.
Si osserva che la soppressione del requisito della residenza
nel territorio nazionale lascia comunque inalterato il
presupposto della convivenza. Le verifiche antimafia,
dunque, andranno effettuate nei confronti dei familiari di
tali soggetti che siano maggiorenni e conviventi con
l'interessato. La certificazione antimafia serve a società
imprese, per partecipare ad appalti pubblici, forniture e
servizi pubblica amministrazione. La certificazione
antimafia non va richiesta per i contratti di importo non
superiore a 150.000 euro al contrario la comunicazione è
obbligatoria per la stipula dei contratti di importo
superiore a 150.000 euro e inferiore alla soglia
comunitaria.
L'informazione è obbligatoria per la stipula di contratti di
importo pari o superiore alla soglia comunitaria e per
l'autorizzazione di subcontratti di importo superiore a
150.000 euro. La certificazione informazione antimafia ha
una validità di 12 mesi dalla data dell'acquisizione,
termine inteso non dalla data di rilascio del benestare da
parte del prefetto, bensì dall'acquisizione da parte
dell'amministrazione in base alla verifica dei requisiti
inseriti nella banca dati.
La validità annuale dell'informazione, permane tale se non
vi sono state variazioni nell'assetto societario o nella
gestione, dei legali rappresentati. Qualora vi sia una delle
suddette variazioni, entro 30 giorni dall'evento che ha
modificato l'assetto societario, si ha l'obbligo di
trasmettere al prefetto, che ha rilasciato l'informazione
antimafia, copia degli atti dai quali risulta la variazione
relativa ai soggetti destinatari di verifiche antimafia
(articolo ItaliaOggi del 20.08.2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti, obblighi per una platea più ampia.
Dal 15 agosto sono cambiate le definizioni di «produttore
iniziale di rifiuti» e di «deposito temporaneo». La nozione
di «produttore di rifiuti» (articolo 183, comma 1, lettera
f, dlgs 152/2006) si amplia ricomprendendo anche il soggetto
al quale sia giuridicamente riferibile la produzione dei
rifiuti.
Le maggiori novità si registrano
riguardo il «deposito temporaneo». Si estende la definizione
ricomprendendo oltre al raggruppamento dei rifiuti, anche
«il deposito preliminare alla raccolta ai fini del trasporto
dei rifiuti in un impianto di trattamento».
Tutto questo è contenuto nella legge del 06.08.2015 125
(pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 14.08.2015 n. 188)
di conversione al decreto-legge 19.06.2015, n. 78
(cosiddetto decreto enti territoriali).
La legge n. 125 del 2015 riproduce quanto già era stato
stabilito dal dl n. 92/2015 in materia di rifiuti che non
verrà più convertito in legge. La definizione di «produttore
di rifiuti» ex art. 183, lett. f), viene ampliata tramite
l'introduzione di un nuovo inciso: «Il soggetto la cui
attività produce rifiuti (produttore iniziale) e il soggetto
al quale sia giuridicamente riferibile detta produzione o
chiunque effettui operazioni di pretrattamento, di
miscelazione o altre operazioni che hanno modificato la
natura o la composizione di detti rifiuti (nuovo
produttore)».
L'ampliamento della nozione di «produttore di
rifiuti» ha un nuovo impatto su un piano concreto
comportando anche un possibile cambio di indirizzo
interpretativo giurisprudenziale. Dal 15 agosto per
produttore di rifiuti deve intendersi non soltanto il
soggetto dalla cui attività materiale sia derivata la
produzione dei rifiuti ma anche il soggetto al quale sia
giuridicamente riferibile detta produzione.
Quindi nel caso
dei rifiuti da costruzione e di demolizione il «produttore
dei rifiuti» non è solo il demolitore edile che
materialmente produce detti rifiuti ma anche il proprietario
dell'edificio oggetto dei lavori di ristrutturazione
pesante. Anche la definizione di «raccolta» ex art. 183,
lett. o) è stata oggetto di modifica venendo ora
identificata come «il prelievo dei rifiuti, compresi la
cernita preliminare e il deposito preliminare alla raccolta,
ivi compresa la gestione dei centri di raccolta di cui alla
lettera “mm”, ai fini del loro trasporto in un impianto di
trattamento».
Sono stati, dunque, aggiunti i termini
«preliminare alla raccolta» dopo il termine «deposito». Tale
modifica va letta in collegamento con quella apportata alla
nozione di «deposito temporaneo».
Per «deposito temporaneo»
ex art. 183, lett. b), ora si deve intendere: «Il
raggruppamento dei rifiuti e il deposito preliminare alla
raccolta ai fini del trasporto di detti rifiuti in un
impianto di trattamento, effettuati, prima della raccolta,
nel luogo in cui gli stessi sono prodotti, da intendersi
quale l'intera area in cui si svolge l'attività che ha
determinato la produzione dei rifiuti o, per gli
imprenditori agricoli di cui all'articolo 2135 del codice
civile, presso il sito che sia nella disponibilità giuridica
della cooperativa agricola, ivi compresi i consorzi agrari,
di cui gli stessi sono soci»
(articolo ItaliaOggi del 19.08.2015). |
ENTI
LOCALI: Retromarcia
sul taglio delle società pubbliche.
La norma ghigliottina è stata in parte
sterilizzata con il dl 78.
Un passo avanti e due indietro sulla riduzione delle società
pubbliche. Mentre la legge “Madia” rilancia il progetto, il
decreto “enti locali” depotenzia ulteriormente l'obbligo di
dimagrimento previsto da quasi otto anni e finora rimasto inattuato.
È dal 2007, infatti (con l'art. 3, commi 27-32,
della legge 244), che alle p.a. è imposto il divieto di
detenere e l'obbligo di alienare o comunque dismettere le
partecipazioni non strettamente necessarie per il
perseguimento delle proprie finalità istituzionali. A
rigore, il loro mantenimento, così come l'assunzione di
nuove partecipazioni, avrebbe dovuto essere autorizzato
dall'organo competente, con delibera motivata in ordine alla
sussistenza dei richiamati presupposti.
Tale disciplina è finita nel dimenticatoio fino al 2013,
quando il comma 569 della legge 147 ha definito un nuovo
termine per la sua attuazione (inizialmente 30 aprile, poi
31.12.2014), decorso il quale le partecipazioni non
necessarie avrebbero dovuto cessare di produrre ogni effetto
per essere liquidate in denaro entro i successivi 12 mesi
Una norma “ghigliottina”, che avrebbe dovuto, da un lato,
privare gli enti delle prerogative loro spettanti in qualità
di soci, dall'altro imporre alle società un obbligo di
liquidazione ad un valore determinato in base ai criteri
stabiliti all'art. 2437-ter, comma 2, cc..
La vigenza di tale
meccanismo era stata confermata anche dall'art. 23 del dl
66/2014, che allo stesso tempo lo aveva rafforzato
affiancandogli un programma straordinario di
razionalizzazione affidato direttamente al commissario alla
spending review. Il cd piano Cottarelli non è mai decollato,
ma è servito a fare luce sulle dimensioni del fenomeno
(circa 10 mila società censite) e sul sostanziale fallimento
di tutti i tentativi di ridurle.
La norma ghigliottina è sopravvissuta anche alla legge di
stabilità 2015 (190/2014, commi 611-612), che ha aggiunto un
ulteriore tassello, imponendo a ciascuna amministrazione di
varare un proprio piano di razionalizzazione delle
partecipazioni: anche tali norme, peraltro, hanno avuto
scarsa attuazione, come recentemente rivelato dalla Corte
dei conti, che ha misurato un tasso di adesione inferiore al
50%.
Da ultimo, è intervenuto il dl 78/2015, convertito in
legge 125/2015, che all'art. 7, comma 8-bis, ha dettato una
norma di interpretazione autentica del comma 569, che
rischia di depotenziarlo ulteriormente: la ghigliottina non
scatta per le partecipazioni di cui i piani
razionalizzazione presentati in base alla legge 190/2014
abbiano confermato il mantenimento. Inoltre, è stata
aggiunta una precisazione per cui “il provvedimento di
cessazione della partecipazione societaria appartiene, in
ogni caso, all'assemblea dei soci” di cui non è chiara la
portata, ma che evidentemente rende meno automatica la
cessazione delle partecipazioni fuori legge.
A questo punto,
le residue speranze di riduzione a non più di mille delle
società pubbliche sono riposte sulla legge 124/2015 di
riforma della pa.. Per cui però occorrerà attendere i
decreti attuativi
(articolo ItaliaOggi del 18.08.2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Raccolta
rifiuti senza Aia. In salvo l'attività delle ditte di
smaltimento.
Il decreto enti locali consente il recupero a chi è ancora
senza il placet.
Salve molte imprese dedite all'attività di recupero e
smaltimento dei rifiuti. Le aziende specializzate nello
smaltimento dei rifiuti possono continuare a svolgere la
proprie attività nonostante la mancata conclusione da parte
della p.a. dell'iter di concessione dell'Autorizzazione
integrata ambientale (Aia).
Tutto questo grazie alla legge 125 del 06.08.2015
(pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 14.08.2015 n.
188) di conversione al decreto legge 19.06.2015, n. 78
con cui il governo ha evitato il rischio (dal 7 luglio)
blocco delle nuove installazioni per mancata conclusione da
parte della p.a. dell'iter di approvazione
dell'Autorizzazione unica integrata.
La legge n. 125 del
2015 riproduce quanto già era stato stabilito dal dl n.
92/2015 in materia di Aia (si veda ItaliaOggi del 07.07.2015).
L'allarme del possibile blocco per le imprese di
rifiuti è stato lanciato dalle associazioni Fise Assoambiente (igiene ambientale, raccolta e smaltimento
rifiuti) e Fise Unire (recupero dei rifiuti), che hanno più
volte sollecitato il ministero dell'ambiente a porre rimedio
alla situazione, che rischiava di avere conseguenze
gravissime su tutto il sistema industriale italiano.
Ricordiamo che con il dlgs del 04.03.2014 n. 46 è stata
recepita nel nostro ordinamento la direttiva europea sulle
emissioni industriali.
Con il provvedimento del 2014 veniva fissato al 07.07.2015
il termine entro cui la pubblica amministrazione è tenuta a
rilasciare l'Autorizzazione integrata ambientale, richiesta
entro il 7 settembre scorso dalle imprese incluse (in base
alle nuove disposizioni) tra le attività soggette alla
prevenzione e riduzione integrate dell'inquinamento. Oltre a
ciò il legislatore nazionale ha previsto la sospensione
dell'esercizio dell'impianto in attesa che si perfezioni il
procedimento istruttorio, se questo non è concluso entro il
7 luglio.
Le imprese, quindi, pur avendo rispettato la scadenza del
settembre 2014 per la presentazione della domanda di
Autorizzazione integrata ambientale, si sarebbero trovate
obbligate a bloccare la propria attività nel caso di ritardi
nel rilascio del provvedimento da parte delle autorità
competenti. Le imprese che rischiavano il blocco non erano
quelle già sottoposte ad Aia ma quelle che dovevano
ottenerla per la prima volta. L'autorità competente conclude
i procedimenti avviati in esito alle istanze di
Autorizzazione integrata ambientale, entro il 07.07.2015.
In ogni caso, nelle more della conclusione dei procedimenti
le installazioni possono continuare l'esercizio in base alle
autorizzazioni previgenti, se del caso opportunamente
aggiornate a cura delle autorità che le hanno rilasciate
(articolo ItaliaOggi del 18.08.2015). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Rimborsabili le spese legali all’amministratore prosciolto.
Enti
locali. Questione risolta con la conversione del Dl 78/2015.
La questione dei
rimborsi delle spese legali per gli amministratori locali
trova una soluzione legislativa nella legge di conversione
del decreto legge n. 78 (“enti locali”) dando, da un
lato, una risposta alle pressanti attese da parte degli
amministratori e confermando, dall’altro, la tesi di quelle
Sezioni della Corte dei conti (Sezione Giurisdizionale
Basilicata con la sentenza n. 165/2012) che, pur con qualche
voce dissonante, a più riprese ne avevano esclusa la
rimborsabilità in via interpretativa, sulla scia della
decisione della Corte costituzionale n. 197/2000 e delle
sentenze della Corte di Cassazione, l’ultima delle quali la
n. 5264 del 17.03.2015.
Secondo la giurisprudenza costituzionale e della Cassazione
il diritto al rimborso delle spese legali relative ai
giudizi di responsabilità civile, penale o amministrativa a
carico di dipendenti di amministrazioni statali o di enti
locali per fatti connessi all’espletamento del servizio o
comunque all’assolvimento di obblighi istituzionali,
conclusi con l’accertamento dell’esclusione della loro
responsabilità, non compete all’assessore comunale, né al
consigliere comunale o al sindaco, non essendo configurabile
tra costoro (i quali operano nell’amministrazione pubblica
ad altro titolo) e l’ente un rapporto di lavoro dipendente,
non potendo estendersi nei loro confronti la tutela prevista
per i dipendenti, né trovare applicazione la disciplina
privatistica in tema di mandato.
La nuova norma, invece, prevede che il rimborso delle spese
legali per gli amministratori locali sia ammissibile, nel
caso di conclusione del procedimento con sentenza di
assoluzione o di emanazione di un provvedimento di
archiviazione nonché in presenza dei seguenti requisiti: a)
assenza di conflitto di interessi con l’ente amministrato;
b) presenza di nesso causale tra funzioni esercitate e fatti
giuridicamente rilevanti; c) assenza di dolo o colpa grave.
Per la verità, con riferimento ai giudizi innanzi alla Corte
dei conti, già l’articolo 3, comma 2-bis, del decreto legge
23.10.1996 n. 543, prevedeva «in caso di definitivo
proscioglimento ai sensi di quanto previsto dal comma 1
dell’articolo 1 della legge 14.01.1994 n. 20, le spese
legali sostenute dai soggetti sottoposti al giudizio della
Corte dei conti sono rimborsate dall’amministrazione di
appartenenza».
Successivamente, l’articolo 10-bis, comma 10, del decreto
legge 30.09.2005 n. 203, ha statuito che: «le
disposizioni dell’articolo 3, comma 2-bis, del decreto legge
23.10.1996, n. 543, si interpretano nel senso che il giudice
contabile, in caso di proscioglimento nel merito, e con la
sentenza che definisce il giudizio, ai sensi e con le
modalità di cui all’articolo 91 del Codice di procedura
civile, liquida l'ammontare degli onorari e dei diritti
spettanti alla difesa del prosciolto, fermo restando il
parere di congruità dell’Avvocatura dello Stato da esprimere
sulle richieste di rimborso avanzate all’amministrazione di
appartenenza».
Ora, con l’attuale intervento del legislatore è estesa la
rimborsabilità delle spese legali per gli amministratori
locali anche ai processi civili, amministrativi e penali,
nel limite massimo dei parametri stabiliti dal decreto di
cui all’articolo 13, comma 6, della legge n. 247/2012 e
fatto salvo il divieto di nuovi o maggiori oneri per la
finanza pubblica principio sul quale occorrerà meglio
soffermarsi lasciando quanto meno intendere l’obbligo di
prevedere specifiche poste di bilancio annuali. Resterà da
vedere quale sarà lo spartiacque temporale.
A prima vista l’intervento legislativo pone al centro della
decisione della Pa la «conclusione del procedimento con
sentenza di assoluzione o di emanazione di un provvedimento
di archiviazione» e probabilmente e a questo dato
temporale che le amministrazioni dovranno cristallizzare le
proprie decisioni.
Infine rimane ancora irrisolto il problema degli
amministratori regionali, per i quali le singole leggi
regionali non abbiano disposto in tal senso (articolo Il Sole 24 Ore del
17.08.2015). |
CONDOMINIO:
Pianerottoli, cortili, terrazze e parcheggi a prova di
privacy.
Rassegna delle principali norme del dlgs n. 196/2003 in
ambito condominiale.
Condominio a prova di privacy. Con la legge n. 220/2012 il
legislatore ha dimostrato di avere a cuore il rispetto delle
corrette modalità di trattamento dei dati personali della
compagine condominiale.
Sono, infatti, numerose le
disposizioni della legge di riforma che applicano i principi
del dlgs n. 196/2003 in ambito condominiale, contribuendo a
riaccendere i riflettori su un argomento che, a torto, viene
molto spesso misconosciuto dagli amministratori
condominiali.
In queste pagine, si mettono in evidenza i più
importanti punti di ricaduta in ambito condominiale della
normativa di cui al c.d. Codice privacy.
Il ruolo dell'amministratore nel trattamento dei dati
personali dei condomini. Poiché, come è noto, il condominio
non ha una propria personalità giuridica, come tale distinta
da quella dei singoli condomini, risulta impossibile
qualificarlo quale titolare del trattamento dei dati
personali della compagine condominiale. I singoli condomini,
di conseguenza, non possono che essere riconosciuti,
reciprocamente, quali contitolari dei predetti dati
personali. Questi ultimi, così come condividono tra loro
l'utilizzo delle parti comuni dell'edificio, allo stesso
modo risultano contitolari del trattamento dei dati che
afferiscono al condominio.
Ogni condomino ha quindi il
diritto di venire a conoscenza e trattare i dati personali
degli altri comproprietari, ovviamente per finalità
riconducibili alla disciplina dettata dagli artt. 1117 ss.
c.c. e dalle relative disposizioni di attuazione. Da un
punto di vista di fatto è però innegabile che sia
l'amministratore a compiere la maggior parte delle
operazioni di trattamento dei dati personali relativi alla
gestione del condominio. È, infatti, quest'ultimo a
redigere, a conservare e a tenere aggiornata l'anagrafe
condominiale introdotta dalla legge n. 220/2012 e a
utilizzarla per le convocazioni assembleari e per le altre
comunicazioni ai condomini (ivi incluso l'importante aspetto
del recupero degli oneri condominiali non pagati).
È sempre
l'amministratore, in nome e per conto dei condomini, a
gestire i rapporti con i terzi, dai fornitori ai dipendenti
del condominio, fino alla pubblica amministrazione e
all'autorità giudiziaria. Di conseguenza non si può non
concludere che anche l'amministratore debba essere a sua
volta qualificato come titolare del trattamento dei dati
condominiali.
Tuttavia, poiché, come è evidente, sussiste
una netta differenza di ruolo tra i singoli condomini (tra
loro contitolari del trattamento) e l'amministratore (legato
a questi ultimi da un rapporto contrattuale di mandato), lo
stesso non può che essere qualificato come titolare autonomo
e non come contitolare (assieme ai condomini) del
trattamento, salva comunque la possibilità che l'assemblea
lo designi quale responsabile (esterno), impartendogli le
necessarie istruzioni alle quali lo stesso dovrà
scrupolosamente attenersi.
---------------
Videosorveglianza sì, ma condizionata.
Una delle novità contenute nella legge di riforma del
condominio n. 220 del 2012 è stata quella che ha legittimato
l'installazione di impianti di videosorveglianza sulle parti
comuni e che ha specificato il procedimento necessario per
adottare tale soluzione. In precedenza la videosorveglianza
in ambito condominiale non aveva una normativa specifica e
aveva addirittura condotto alcuni giudici a negare la
possibilità delle videoriprese.
È stato quindi stabilito che
le deliberazioni concernenti l'installazione di impianti
volti a consentire la videosorveglianza possono essere
approvate dall'assemblea con un numero di voti che
rappresenti la maggioranza degli intervenuti e almeno la
metà del valore dell'edificio (art. 1136, comma 2, c.c.).
L'assemblea quindi può certamente deliberare di introdurre
nuovi impianti volti a garantire i beni (comuni e
individuali), ma anche l'incolumità degli stessi condomini o
loro familiari.
Nel votare la delibera l'assemblea deve
comunque operare per il solo raggiungimento delle finalità
di tutela delle persone e dei beni comuni e non avere di
mira altri obiettivi che, viceversa, renderebbero il
trattamento dei dati intrinsecamente illegittimo (si pensi
alla concorrente normativa sui c.d. atti emulativi, ovvero
su quelle attività poste in essere all'unico o prevalente
scopo di arrecare fastidio a terzi). In casi del genere,
come anche nel caso in cui l'assemblea decidesse di non
porre in essere gli adempimenti previsti dalla legge, la
delibera favorevole all'installazione dell'impianto, anche
se approvata con la maggioranza di legge, potrebbe risultare
invalida.
L'amministratore di condominio, munito della
deliberazione assembleare, è quindi tenuto ad adottare le
cautele previste dal provvedimento generale dell'Autorità
garante in materia di videosorveglianza dell'08.04.2010.
In particolare è tenuto ad affiggere un cartello informativo
in un luogo visibile e aperto al pubblico (si tratta di un
facsimile che rappresenta il disegno di una telecamera e che
contiene un'informativa semplificata e che si può scaricare
dal sito www.garanteprivacy.it). L'avviso deve comunque
essere integrato con almeno un'altra informativa
circostanziata che informi circa le finalità delle riprese e
l'eventuale conservazione delle immagini, da collocarsi
sempre in un luogo di pubblico accesso, per esempio
all'ingresso della portineria.
Nel caso in cui si decida di
conservare le immagini riprese dal sistema di
videosorveglianza (scelta che richiede l'implementazione di
un'organizzazione specifica da parte dell'amministratore)
occorre stabilire i tempi minimi di conservazione delle
immagini (consentita, in ogni caso, per un massimo di 24
ore) e individuare il personale abilitato a visionarle con
atto di nomina di responsabile e incaricato del trattamento.
In questo caso occorre inoltre anche chiedere al Garante la
verifica preliminare dell'impianto qualora si ricada in uno
dei casi particolari previsti dal provvedimento generale.
L'inosservanza degli adempimenti, oltre all'eventuale
invalidità della delibera assembleare, può condurre a
responsabilità amministrative e perfino penali in capo
all'amministratore condominiale, oltre che esporre i
condomini a richieste di risarcimento da parte di soggetti
danneggiati. I singoli condomini possono liberamente
installare telecamere a uso privato nell'ambito della
proprietà esclusiva e delle relative pertinenze ma, in
questo caso, il raggio visuale dell'impianto deve essere
limitato al perimetro delle stesse. In caso contrario, come
recentemente ribadito dalla Corte di giustizia europea
(sent. 11/12/2014) il titolare del trattamento è tenuto a
rispettare i medesimi adempimenti.
La sentenza ha confermato
quanto previsto dal provvedimento generale dell'Autorità
garante del 2010, chiarendo che le videoriprese del
proprietario di casa possono considerarsi di utilizzo
personale (e dunque esenti dagli obblighi di legge) soltanto
ove l'angolo visuale delle riprese sia limitato agli spazi
di pertinenza esclusiva, con esclusione delle parti comuni
(e/o di proprietà altrui).
---------------
Numeri di telefono e indirizzi e-mail da
usare secondo proporzionalità.
I dati personali che l'amministratore può trattare
indipendentemente dal consenso dei condomini interessati
sono in primo luogo rappresentati dai rispettivi dati
anagrafici, necessari per la gestione e l'amministrazione
delle parti comuni, e quindi: nome e cognome; luogo e data
di nascita; residenza e/o domicilio (città, via e numero
civico); codice fiscale o partita Iva; qualità di
proprietario o usufruttuario o titolare di altro diritto
reale o personale di godimento (uso, abitazione, locazione,
comodato ecc.); quote millesimali di comproprietà dei beni
comuni ed eventuali ulteriori informazioni necessarie al
calcolo delle spese condominiali; dati catastali delle unità
immobiliari di proprietà esclusiva (si tratta, in ogni caso,
di dati provenienti da pubblici registri).
Un discorso a
parte va fatto per quanto riguarda l'utilizzo del numero di
telefono e dell'indirizzo di posta elettronica dei
condomini. Per quanto riguarda il primo, l'Autorità garante
ha sempre negato che l'amministratore potesse disporne senza
il consenso dell'interessato, qualora lo stesso non
risultasse nemmeno dagli elenchi pubblici (circostanza da
escludere in ogni caso per quanto riguarda le utenze
mobili).
Si tratta, tuttavia, di un'informazione di indubbia
utilità ai fini della gestione del condominio e nulla vieta
di ottenere dai singoli condomini l'autorizzazione
all'utilizzo del proprio numero telefonico, per esempio in
occasione della compilazione dell'anagrafe condominiale. In
ogni caso, come evidenziato dall'Autorità garante, occorre
che l'amministratore, nel fare uso del recapito telefonico
dei condomini, tenga sempre ben presente il principio di
proporzionalità tra i rispettivi e a volte contrastanti
interessi della gestione delle parti comuni e della
riservatezza dei privati.
Così, se può apparire giustificato
utilizzare il numero telefonico in casi di necessità e
urgenza (per esempio per evitare una situazione di pericolo
o di danno incombente), può viceversa risultare eccessivo
contattare un condomino per il disbrigo di una pratica di
amministrazione per così dire ordinaria. In tutti i casi
l'utenza telefonica del condomino non può essere comunicata
dall'amministratore a terzi estranei alla compagine
condominiale (ivi inclusi i fornitori del condominio).
Discorso analogo si può fare per quanto riguarda l'indirizzo
di posta elettronica per così dire semplice. La posta
elettronica certificata, al contrario, risulta ora da
elenchi pubblici e, quel che più rileva, è stata
espressamente individuata dal legislatore quale mezzo per
l'invio degli avvisi di convocazione delle assemblee
condominiali, in alternativa alla raccomandata cartacea, al
fax e alla consegna a mani. Per questo motivo si ritiene che
l'amministratore, almeno per la finalità di cui alla
disposizione or ora citata, sia in ogni caso autorizzato a
utilizzare detto recapito anche senza il consenso del
condomino interessato. Nei limiti dei principi di pertinenza
e di non eccedenza rispetto alle finalità del trattamento,
l'amministratore può inoltre trattare anche i dati sensibili
e giudiziari dei condomini, qualora gli stessi siano
necessari alla gestione del condominio.
Si pensi, per esempio, al caso in cui l'assemblea debba
deliberare l'abbattimento delle c.d. barriere
architettoniche, che rendono difficoltoso l'accesso a un
condomino diversamente abile, o si debbano acquisire
informazioni sui carichi pendenti di persone che potrebbero
essere assunte alle dipendenze del condominio, oppure quando
si debbano trattare i dati sanitari di terzi estranei alla
compagine condominiale che abbiano subito danni nelle parti
comuni.
---------------
Dati, sicurezza su due vie.
L'amministratore generalmente non fa altro che adempiere a
disposizioni di legge o assolvere a obblighi inerenti al
mandato ricevuto dall'assemblea condominiale. In relazione a
queste attività il più delle volte non occorre che questi
raccolga il consenso dei condomini. Trattamenti di questo
genere sono, infatti, sottratti all'obbligo di acquisizione
preventiva del consenso, ai sensi dell'art. 24 del dlgs n.
196/2003 (salvo che si tratti di dati sensibili). Anche se
il consenso dei condomini non è generalmente richiesto per
lo svolgimento delle attribuzioni proprie
dell'amministratore, l'adempimento principale e
irrinunciabile nei confronti dei propri amministrati è
comunque rappresentato dalla comunicazione dell'informativa
di cui all'art. 13 del predetto decreto legislativo.
L'informativa può essere fornita ai condomini con
comunicazione una tantum. Si pensi all'ipotesi di
un'informativa inserita nella bacheca condominiale o
inserita nel verbale assembleare. Nel nuovo condominio
telematico, inoltre, la messa online di un sito internet
condominiale può rappresentare un'altra efficace soluzione
per portare a conoscenza dei propri amministrati le regole
del trattamento dei propri dati personali. I medesimi doveri
di rilascio dell'informativa e di acquisizione del consenso
si pongono poi nei confronti di tutti gli altri soggetti con
i quali l'amministratore deve interfacciarsi nella gestione
del condominio (dipendenti del condominio e fornitori) e
della propria organizzazione aziendale (si veda la tabella
in pagina).
A detti obblighi si aggiungono quelli ulteriori relativi
alla nomina quali responsabili o incaricati del trattamento
dei soggetti che possono venire a conoscenza dei dati
personali trattati dall'amministratore nello svolgimento del
proprio incarico, al riscontro alle istanze di accesso degli
interessati (che vogliano sapere se e come i propri dati
siano trattati dall'amministratore condominiale o intendano
modificarli o rettificarli) e all'adozione delle necessarie
misure si sicurezza.
Più nello specifico, il sistema delle misure di sicurezza
messo a punto dal Codice privacy si sviluppa su due piani
concorrenti tra loro: quello delle misure minime e quello
delle misure idonee. Innanzi tutto i dati personali oggetto
di trattamento devono, infatti, essere custoditi e
controllati, in modo da ridurre al minimo i rischi di
distruzione o perdita, anche accidentale, degli stessi, di
accesso non autorizzato o di trattamento non consentito o
non conforme alle finalità della raccolta. Quanto sopra deve
essere messo in pratica in relazione alle conoscenze
acquisite in base al progresso tecnico nel momento in cui
avvengono le operazioni di trattamento, nonché alla natura
dei dati personali e alle specifiche caratteristiche del
trattamento.
Per quanto riguarda i trattamenti effettuati con strumenti
elettronici è necessario adottare le seguenti misure minime
di sicurezza: autenticazione informatica, adozione di
procedure di gestione delle credenziali di autenticazione e
utilizzo di un sistema di autorizzazione, aggiornamento
periodico dell'individuazione dell'ambito del trattamento
consentito ai singoli incaricati e addetti alla gestione o
alla manutenzione degli strumenti elettronici, protezione
degli strumenti elettronici e dei dati rispetto a
trattamenti illeciti di dati, ad accessi non consentiti e a
determinati programmi informatici, adozione di procedure per
la custodia di copie di sicurezza e il ripristino della
disponibilità dei dati e dei sistemi
(articolo ItaliaOggi Sette del 17.08.2015). |
ENTI LOCALI - VARI: Ztl, mini-ingresso per affari non è previsto dalla legge.
Non è possibile attivare abbonamenti brevi per regolare
l'accesso degli operatori economici nelle zone a traffico
limitato delle città. L'unica alternativa praticabile nel
rispetto della normativa consiste nell'individuare delle
fasce orarie di libero transito per tutti.
Lo ha chiarito il Ministero dei trasporti con il parere
27.05.2015 n. 2531 di prot..
Il comune di Modena ha richiesto
chiarimenti sulla possibilità di utilizzare i tradizionali
varchi di controllo per l'accesso alla ztl al fine di
gestire degli abbonamenti a tempo da distribuire agli
interessati, previo corrispettivo. A parere del ministero
questa pratica, pur se tecnicamente possibile, non è
contemplata dalla normativa. Specifica infatti il parere
centrale che il dpr 250/1999 che disciplina gli accessi alle
zone a traffico limitato permette la gestione dei dati solo
in caso di infrazione.
In buona sostanza secondo una interpretazione rigorosa i
dati delle targhe dei veicoli non si possono usare a
piacimento del comune. Meglio individuare delle fasce orarie
per permettere agli operatori economici di entrare
liberamente nel centro storico della città per coltivare i
propri interessi
(articolo ItaliaOggi Sette del 17.08.2015). |
ENTI LOCALI - VARI: Niente
droni sugli assembramenti di persone.
Regolamento dell'ente nazionale per l'aviazione civile.
L'uso dei droni in zone critiche è particolarmente
regolamentato e in ogni caso richiede operatori istruiti e
autorizzati. Ma è sempre vietato sorvolare cortei,
manifestazioni sportive e gruppi di persone. Dal 01.07.2016 poi anche questi sistemi saranno dotati di una sorta di
scatola nera.
Lo ha evidenziato l'Ente nazionale per l'aviazione civile
con il
regolamento 16.07.2015 edizione n. 2.
L'uso dei mezzi aerei
a pilotaggio remoto è ormai una pratica comune e condivisa
in ogni ambito operativo. Questi strumenti di volo però sono
considerati dalle normative internazionali come aeromobili
soggetti quindi alla regolamentazione aeronautica. L'impiego
di questi strumenti, compresi gli aeromodelli, è stato
quindi disciplinato dai singoli stati membri ed in Italia è
stato adottato il regolamento del 16.12.2013,
aggiornato il 16.07.2015.
Restano esclusi dalla
disciplina i voli in spazi chiusi e quelli di stato,
specifica innanzitutto il regolamento. I droni, meglio
classificati con la sigla Sapr, si differenziano tra leggeri
(fino a 25 kg) e pesanti (fino a 150 kg). Dal 01.07.2016
in aggiunta alla tradizionale targhetta di identificazione
questi sistemi dovranno essere dotati di una scatola nera in
grado di trasmettere in dati e registrare gli stessi. Per
condurre i Sapr occorre un titolo di pilotaggio ad hoc,
specifica l'Enac, ed indossare un giubbotto ad alta
visibilità con l'identificativo del pilota.
Per
l'effettuazione delle operazioni ritenute critiche occorre
l'autorizzazione preventiva dell'Ente nazionale per
l'aviazione civile. In ogni caso è sempre vietato il sorvolo
di assembramenti di cittadini, cortei, manifestazioni
sportive o musicali e delle aree dove di verifichino
concentrazioni inusuali di persone.
Particolarmente
semplificato l'uso dei droni più leggeri, anche in zone
considerate normalmente critiche. Per i Sapr leggerissimi,
fino a 0,3 kg, non è richiesto neppure l'attestato di
pilota. Per l'uso di qualunque drone è però necessario aver
stipulato una polizza di responsabilità civile, specifica
l'Enac.
Per quanto riguarda gli aeromodelli le regole sono
più semplici ed eventualmente differenziate luogo per luogo
(articolo ItaliaOggi Sette del 17.08.2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
Tempi
certi per contestare la Scia. Verifica dei requisiti entro
60 giorni e autotutela non oltre 18 mesi.
Pubblica amministrazione. La legge 124/2015, in vigore dal
28 agosto, rende più semplice avviare un’attività.
Con la semplificazione delle procedure
il legislatore ha eliminato del tutto (con la Scia) o
ridotto (con il silenzio-assenso) il tempo di attesa per
avviare un’attività economica ma, timoroso di lasciare
troppa libertà ai privati, ha accresciuto le possibilità per
gli enti pubblici competenti di reprimere, senza limiti di
tempo, eventuali errori o abusi.
In particolare finora due sono le criticità insuperabili:
l’imprenditore è obbligato a interpretare le disposizioni
che fissano i requisiti per svolgere le attività economiche
che sono spesso ambigue e complesse anche per i funzionari
pubblici; gli enti destinatari della Scia possono
controllare e intervenire per sospendere o vietare
l’attività in qualsiasi tempo, qualora ritengano che non vi
siano i requisiti specifici, anche se il segnalante è in
buona fede.
L’articolo 6 della riforma della pubblica amministrazione
(legge 124/2015 che entrerà in vigore il 28 agosto)
introduce nella legge 241/1990 alcune modifiche, di
immediata applicazione, che rendono meno rischioso, per chi
deve utilizzare la Scia, l’inizio dell’attività perché
limita i poteri di controllo dell’ente che la riceve.
La riforma, sostituendo anzitutto i commi 3 e 4
dell’articolo 19, elimina alcune ambiguità della procedura.
Dopo aver confermato che l’ente destinatario della Scia deve
verificare l’esistenza dei requisiti previsti entro 60
giorni dalla sua ricezione, precisa che entro tale termine
(considerato perentorio) l’ente ha due obblighi alternativi
se verifica la carenza anche di un solo requisito:
- deve vietare la prosecuzione dell’attività e provvedere
alla rimozione degli eventuali effetti dannosi, qualora sia
impossibile mettersi in regola;
- qualora la regolarizzazione sia possibile, l’ente deve
decidere solo la sospensione dell’attività invitando a
prendere le misure correttive entro un termine non inferiore
ai trenta giorni; in caso di mancato adempimento l’attività
rimane vietata.
Questa procedura riguarda tutte le attività economiche,
comprese quelle che potrebbero danneggiare l’ambiente, la
salute, il patrimonio artistico.
Ma per il segnalante i rischi maggiori sorgono quando l’ente
non effettua il controllo entro i 60 giorni. Con le
precedenti normative l’ente poteva intervenire per bloccare
l’attività in ogni tempo avvalendosi del potere di
annullamento d’ufficio degli atti illegittimi (articolo
21-nonies della legge 241/1990).
L’articolo 6 innova questa disposizione. L’attività iniziata
con la Scia, dopo i 60 giorni, potrà essere vietata con
l’autotutela a due condizioni:
- vi sono ragioni di interesse pubblico che prevalgono sugli
interessi del segnalante o dei controinteressati;
- se il divieto è adottato entro «un termine ragionevole»
e comunque non superiore a 18 mesi dalla Scia.
La novità più rilevante sta nel fatto che dopo 18 mesi non è
più possibile contestare la Scia, ma questo limite non vale
se il segnalante ha rilasciato dichiarazioni false,
accertate con sentenza passata in giudicato.
Una importante agevolazione è inoltre assicurata
dall’abrogazione del comma 2 dell’articolo 21 della legge
241/1990. Finora chi inviava una Scia carente dei requisiti
previsti dalle norme di settore veniva punito anche con le
sanzioni (di solito pecuniarie) previste dalle norme
speciali. Ora le sanzioni sono il divieto o la sospensione
e, solo in caso di dichiarazioni false, anche le sanzioni
penali.
Il rischio dell’autotutela, ora limitato nel tempo, sarà
ridimensionato quando saranno emanati i decreti legislativi
previsti dall’articolo 5 della riforma della Pa che dovranno
individuare quattro categorie di procedimenti per iniziare
una attività: la Scia, il silenzio-assenso, la comunicazione
preventiva e l’autorizzazione preventiva.
Per ciascuno dei primi tre, i decreti dovranno precisare le
regole generali, le modalità di presentazione, i contenuti
standard, gli effetti legali. Alcune espressioni non sono
chiare ma è evidente l’obiettivo: dare certezze a chi
utilizza le nuove procedure di semplificazione.
Se si vuole sollevare l’imprenditore dai rischi connessi sia
al controllo effettuato entro i sessanta giorni, sia a
quello successivo in autotutela, occorre imporre
l’attuazione effettiva dell’articolo 7 (diritto
all’informazione) della direttiva 2006/123/Ce sui servizi
che obbliga le autorità competenti degli Stati membri a
garantire agli imprenditori, e ai cittadini destinatari
delle loro attività, che ne facciano richiesta, informazioni
sul modo in cui i requisiti, le procedure e le formalità per
accedere a una attività «vengono generalmente
interpretati e applicati» dai vari enti, con la
raccomandazione che siano fornite in «un linguaggio
semplice e comprensibile».
Questa disposizione europea è recepita all’articolo 26 della
legge 50/2010, però è applicabile solo per le pratiche
gestite dagli Sportelli unici attività produttive, che solo
in casi rarissimi l’hanno applicata (articolo Il Sole 24 Ore del
15.08.2015). |
ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO -
SEGRETARI COMUNALI: Riforma Madia, ora si parte.
Entro 90 giorni dlgs per abrogare le leggi non più attuabili.
Con la pubblicazione della delega in G.U. al via la tabella
di marcia per l'attuazione.
La riforma Madia partirà dal taglio (o dalla modifica) delle
leggi inutili o non ancora attuate. Entro fine novembre
arriverà il primo provvedimento attuativo della legge delega
che dovrà individuare le disposizioni che andranno incontro
ad abrogazione espressa, non essendoci più le condizioni per
l'emanazione dei relativi provvedimenti attuativi, e le
norme non ancora attuate che verranno modificate proprio al
fine di favorirne l'attuazione.
Con la pubblicazione della legge delega (legge 07.08.2015
n.124) sulla Gazzetta Ufficiale n. 187 di ieri, è
ufficialmente partito il conto alla rovescia per
l'emanazione dei decreti legislativi.
Dopo i tradizionali 15
giorni di vacatio legis, la legge entrerà in vigore il 28
agosto a quel punto si avvierà la fase attuativa. Primo
appuntamento, il dlgs di riordino della normativa successiva
al 31.12.2011 che dovrà essere emanato entro 90 giorni
dall'entrata in vigore della legge 124, quindi entro fine
novembre.
Sei mesi. Entro sei mesi dall'entrata in vigore della
delega, e quindi entro fine febbraio 2016, dovrà essere
emanato il provvedimento attuativo che taglia del 50% i
tempi dei procedimenti relativi alle grandi opere (rilevanti
insediamenti produttivi e opere di interesse generale). Non
si tratterà però di un decreto legislativo, bensì di un
regolamento da emanare ai sensi della legge 400/1988.
La stessa tempistica è prevista per il (o i) dlgs correttivi
della legge 33/2013 sugli obblighi di pubblicità e
trasparenza da parte delle pubbliche amministrazioni.
Otto mesi. Entro otto mesi dall'entrata in vigore dovrà
arrivare il decreto attuativo sulla razionalizzazione delle
spese da parte della p.a. che conterrà, tra le altre cose,
anche il taglio del 50% dei costi delle intercettazioni da
realizzare attraverso tariffari e costi standard.
Dodici mesi. La regola generale dei 12 mesi per
l'approvazione dei decreti attuativi varrà per la maggior
parte delle deleghe previste dalla legge. Dalle norme sulla
cittadinanza digitale (wi-fi free negli uffici pubblici,
banda ultralarga, software open source, Pin unico, sistema
Spid ecc.) a quelle sullo snellimento delle procedure della
conferenza di servizi, dalla Scia alle norme sulla
riorganizzazione dello stato (con l'istituzione del numero
unico europeo 112 per le emergenze), dal taglio delle
prefetture a quello delle camere di commercio (che dovranno
ridursi dalle attuali 105 a 60), fino alla tanto attesa
riforma della dirigenza pubblica (con il ruolo unico, gli
incarichi a termine, la licenziabilità e l'abolizione della
figura dei segretari comunali).
Entro un anno dovranno
essere emanati anche i decreti sul riordino delle
partecipate (con i compensi degli amministratori legati ai
risultati e l'obbligo di mettere in liquidazione la società
dopo un certo numero di bilanci in perdita) e dei servizi
pubblici locali di interesse generale. Senza dimenticare la
riscrittura dei giudizi davanti alla Corte dei conti che si
compirà sempre entro un anno dall'entrata in vigore della
delega.
Diciotto mesi. Bisognerà attendere il 2017 perché vedano la
luce i decreti di riforma del pubblico impiego con le nuove
norme sui concorsi che prevedono l'accertamento della
conoscenza dell'inglese, la soppressione del requisito del
voto minimo di laurea, la riduzione dei termini di validità
delle graduatorie, il ricambio generazionale ecc.
Non necessiteranno, invece, di alcuna attuazione, in quanto
immediatamente in vigore, le modifiche alla legge 241/1990 che
introducono il principio del silenzio-assenso (entro 30
giorni elevabili a 90 in materia ambientale) e
dell'autotutela, esercitabile tramite revoca da parte della
p.a., fino a un massimo di 18 mesi di tempo dall'adozione
del provvedimento (anche se questo si è formato a seguito di
silenzio-assenso)
(articolo ItaliaOggi del 14.08.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO: Polizia provinciale, congelata la mobilità verso i municipi.
Mobilità dei dipendenti dei corpi di polizia provinciale
verso i comuni congelata, finché province e regioni non
prendano l'iniziativa di attuare le previsioni della legge
di conversione del decreto legge enti locali (dl n. 78/2015,
la cui legge di conversione sarà pubblicata oggi in Gazzetta
Ufficiale).
Ma il sistema dell'avvalimento può superare l'impasse.
Perché i comuni possano assumere mediante mobilità i
componenti dei corpi di polizia provinciale occorre che si
verifichino due presupposti preliminari e si segua
unicamente la strada della mobilità gestita attraverso
l'applicativo online mobilita.gov.it.
Il primo presupposto è l'obbligo in capo alle province di
determinare quali e quanti dipendenti dei corpi di polizia
saranno da adibire alle funzioni fondamentali. Questo
adempimento è fondamentale: infatti, i dipendenti dei corpi
provinciali assegnati alle funzioni fondamentali, destinati
a restare nelle competenze delle province, sostanzialmente
saranno sottratti alla sovrannumerarietà e al trasferimento
verso altri enti. Dunque, le province sono chiamate ad agire
in fretta per impostare i criteri necessari a far scegliere
quali dipendenti dei corpi saranno destinati a rimanere e
quali altri saranno da trasferire.
Il secondo presupposto sono le leggi regionali di riordino
delle funzioni provinciali. Le regioni sono chiamate entro
il 31.10.2015 a dire la parola definitiva sulle
funzioni non fondamentali delle province, per scegliere
quali prendere per sé e quali altre destinare ai comuni. Le
leggi regionali, allora, sono indispensabili per comprendere
come ricollocare i componenti dei corpi di polizia
provinciale non assegnati alle funzioni fondamentali. Essi
potrebbero andare tutti, infatti, in regione, se le leggi
regionali decidessero di acquisire le funzioni di vigilanza,
per esempio, di natura ambientale.
In assenza dei provvedimenti provinciali e delle leggi
regionali, dal primo novembre in avanti, tutti i dipendenti
dei corpi provinciali sarebbero destinati a trasferirsi
presso i comuni, per espletare le funzioni di polizia
comunale.
I trasferimenti, come rilevato prima, potranno avvenire solo
ed esclusivamente in applicazione del decreto di regolazione
della mobilità del personale provinciale in sovrannumero, di
recente approvato dal governo ma ancora senza l'approvazione
della Conferenza stato-regioni.
Attualmente, dunque, mancano sia i presupposti, sia lo
strumento applicativo per la mobilità dei vigili
provinciali.
Né i comuni potrebbero legittimamente attivare avvisi di
mobilità esclusivamente loro riservati. Non solo perché
l'articolo 5 del dl 78/2015 come modificato dalla legge di
conversione sul punto è molto chiaro nel considerare
possibile solo la mobilità trame applicativo internet, ma
soprattutto perché contiene una norma di diritto
transitorio.
Il comma 4 dell'articolo 5 stabilisce espressamente che
nelle more dell'emanazione del decreto di disciplina della
mobilità del personale provinciale, province e comuni
possono concordare con i comuni del territorio modalità di
avvalimento immediato del personale provinciale da
trasferire, in applicazione dell'articolo 1, comma 427,
della legge 190/2014.
Dunque, in attesa dei presupposti richiesti dal decreto enti
locali, i comuni potrebbero fare fronte ai propri fabbisogni
stabili di agenti di polizia comunale, stipulando con le
province o le città metropolitane convenzioni, con le quali
concordare come selezionare i componenti dei corpi
provinciali da adibire alle funzioni di polizia comunale dei
quali avvalersi. Con la convenzione di avvalimento, i
dipendenti provinciali o delle città metropolitane, pur
mantenendo il rapporto di lavoro con gli enti di
provenienza, passerebbero alle dipendenze funzionali dei
comuni, che si accollerebbero gli oneri dei trattamenti
economici.
L'avvalimento, dunque, anticiperebbe gli effetti della
mobilità attualmente congelata e risulterebbe comunque utile
anche agli enti di area vasta, perché consentirebbe loro di
alleggerirsi del peso della spesa del personale dei corpi di
polizia provinciale assegnati ai comuni, sulla base delle
convenzioni
(articolo ItaliaOggi del 14.08.2015). |
GIURISPRUDENZA |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Il bar
della movida anche se rumoroso non commette reato. Quiete
pubblica. Sanzione per chi supera i limiti.
Escluso il reato di disturbo alla quiete pubblica
per il bar della movida che supera i limiti imposti dalla
legge. Se il gestore è autorizzato a fare musica fino a
tarda notte la sola pena prevista è la sanzione
amministrativa, perché la sua attività va considerata come
esercizio di un mestiere rumoroso.
La Corte di Cassazione, Sez. III penale, con la
sentenza 18.08.2015 n. 34920
distrugge il sogno di tanti cittadini di vedere duramente
punito chi li costringe a stare svegli fino all’alba.
La Suprema corte precisa, infatti, che quando l’uso degli
strumenti musicali è strettamente connesso e necessario
all’attività che ha avuto il via libera delle autorità, lo
sforamento dei limiti massimi o differenziali di emissione
del rumore fa scattare il solo illecito amministrativo
previsto dall’articolo 10, comma secondo, della legge
26.10.1995 n. 447.
Il Codice penale entra in gioco con l’articolo 659, comma
primo, che prevede l’arresto fino a tre mesi o l’ammenda
solo quando i rumori molesti provengono non dagli strumenti
“sdoganati” ma sono il risultato di altre azioni non
necessarie o non attinenti con il genere di lavoro che ha
avuto il nulla osta amministrativo.
La norma penale è composta poi anche da un secondo comma che
si applica, come precisa la Suprema corte, quando la
violazione contestata riguarda specifiche disposizioni di
legge o prescrizioni dell’Autorità che regolano l’esercizio
del mestiere rumoroso, diverse da quelle relative ai valori
limite di emissioni sonore stabilite con criteri dettati
dalla legge 447 del 1995.
Nel caso esaminato nulla di tutto questo era accaduto. E la
Cassazione dà partita vinta al gestore del bar che aveva
fatto ricorso contro la condanna inflitta dalla Corte
d’appello in sintonia con il Tribunale. A denunciare il
superamento dei decibel consentiti dopo le 20, erano stati
gli abitanti dell’appartamento posto proprio sopra il bar
dove avvenivano le feste danzanti. Valori fissati in 5
decibel durante il giorno e in 3 decibel di notte.
Per la Cassazione si trattava però di una condanna ingiusta
anche a prescindere dall’applicazione dell’”esimente”
del mestiere rumoroso. I giudici di merito si erano,
infatti, limitati –sottolinea la Suprema corte– ad affermare
che le immissioni erano tali per entità e caratteristiche
accertate da disturbare un numero indeterminato di persone,
senza provare, al di là di ogni ragionevole dubbio, che i
rumori potessero essere uditi, anche potenzialmente, da più
abitanti del palazzo o della zona.
Al contrario dagli atti emergeva che le lagnanze provenivano
solo dai condomini che occupavano la casa immediatamente
sopra il bar, mentre gli altri non erano stati neppure
sentiti (articolo Il Sole 24 Ore del
19.08.2015).
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MASSIMA
In ogni caso, deve anche evidenziarsi che dalle sentenze
di merito non si riesce a comprendere bene quale sia
l'ipotesi di reato per la quale l'imputato è stato
condannato.
Con il capo di imputazione si richiamava, oltre all'art. 659
cod. pen., anche il DPCM 14.11.1997, e si contestava
all'imputato di avere cagionato, mediante l'esercizio nel
suo bar di attività di musica in tempo di notte proveniente
dall'esecuzione di attività danzante all'interno del locale,
emissioni rumorose superiori ai limiti consentiti dal DCMP
14.11.1997. Sostanzialmente, dunque, si contestava il
superamento dei limiti indicati dal decreto presidenziale.
La sentenza dì primo grado, poi, ha indubbiamente basato
l'affermazione dì responsabilità soprattutto sulla
circostanza che —secondo gli accertamenti eseguiti dall'ARPA
nell'aprile del 2010- l'attività del bar provocava
(all'epoca) un rumore che superava il limite differenziale
massimo stabilito dall'art. 6 del DPCM 01.03.1991 (5 db
diurno e 3 db notturno) e comunque provocava
nell'appartamento sito al primo piano dello stesso stabile
in cui è ubicato il bar, il superamento dei limiti massimi
assoluti di sera dopo le ore 20:00, arrivando con la musica
fino a 68,5 dB con le finestre aperte ed a 46,5 dB con le
finestre chiuse. La sentenza della corte d'appello di Milano
si basa in sostanza sullo stesso fondamento, avendo
affermato che la prova della responsabilità si desumerebbe,
oltre ogni ragionevole dubbio, dal fatto che l'imputato non
aveva dimostrato che «gli accorgimenti adottati fossero
idonei a ricondurre le emissioni nei limiti di legge».
Se però così è, allora —al di là di quanto già osservato
sulla palese inversione dell'onere della prova- l'ipotesi di
reato accertata e ritenuta dai giudici del merito è
indubitabilmente quella di cui al secondo comma dell'art.
659 cod. pen., il quale punisce con la sola ammenda «chi
esercita una professione o un mestiere rumoroso contro le
disposizioni della legge o le prescrizioni dell'Autorità».
Nella specie, appunto, l'imputato avrebbe esercitato il
mestiere rumoroso di esercizio di un bar -autorizzato
all'uso, anche di notte, di apparecchi acustici per la
diffusione di musica- contro le disposizione di legge e le
prescrizioni del DPCM 01.03.1991, superando sia i limiti
differenziali sia i limiti assoluti ivi indicati. Dalle
sentenze di merito, infatti, non emerge alcuna prova che i
rumori molesti provenienti dal bar avessero altra e diversa
origine se non quella, evidenziata dalle sentenze stesse, di
una ritenuta illegittima utilizzazione degli strumenti di
diffusione sonora, ai quali il bar era autorizzato anche di
notte, oltre i limiti (differenziali ed assoluti) previsti
dagli atti autorizzativi e dal DPCM del 1991.
Va invero ribadito il principio che i
rumori molesti provenienti da un bar integrano la
fattispecie di cui all'art. 659, secondo comma, quando
provengano da attività strettamente connesse e necessarie
all'esercizio del bar stesso. In particolare, pertanto,
l'attività di un bar regolarmente autorizzato dall'autorità
amministrativa a rimanere aperto fino a tarda notte ed
all'uso di strumenti musicali e di diffusione sonora, deve
essere classificata come esercizio di un «mestiere
rumoroso», proprio perché in tal caso l'utilizzazione
degli strumenti musicali e di diffusione acustica deve
considerarsi strettamente connesso ed indispensabile
all'esercizio dell'attività autorizzata
(cfr. Sez. I, 26.02.2008, n. 11310, Fresina, Rv 239165).
Deve ricordarsi, infatti, che, secondo la giurisprudenza di
questa Corte, l'art. 659 cod. pen. prevede due autonome
fattispecie di reato configurate rispettivamente dal
primo e dal secondo comma.
L'elemento che le differenzia è rappresentato dalla fonte
del rumore prodotto, giacché ove esso
provenga dall'esercizio di una professione o di un mestiere
rumorosi la condotta rientra nella previsione del secondo
comma del citato articolo per il semplice fatto della
esorbitanza rispetto alle disposizioni di legge o alle
prescrizioni dell'autorità, presumendosi la turbativa della
pubblica tranquillità.
Qualora, invece, le vibrazioni sonore non
siano causate dall'esercizio della attività lavorativa,
ricorre l'ipotesi di cui al primo comma dell'art. 659 cod.
pen., per la quale occorre che i rumori superino la normale
tollerabilità ed investano un numero indeterminato di
persone, disturbando le loro occupazioni o il riposo
(Sez. I, 17.12.1998, n. 4820/1999, Marinelli, m. 213395, in
un caso di emissioni rumorose provocate non dall'attività di
una discoteca, bensì dall'impianto di condizionamento); «L'art.
659 cod. pen. prevede due distinte ipotesi di reato:
quello contenuto nel primo comma ha ad oggetto il
disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone e
richiede l'accertamento in concreto dell'avvenuto disturbo;
mentre quello previsto nel secondo comma riguardante
l'esercizio di professione o mestiere rumoroso, prescinde
dalla verificazione del disturbo, essendo tale evento
presunto "iuris et de iure" ogni volta che l'esercizio del
mestiere rumoroso si verifichi fuori dai limiti di tempo, di
spazio e di modo imposti dalla legge, dai regolamenti o da
altri provvedimenti adottati dalle competenti autorità»
(Sez. I, 12.06.2012, n. 39852, Minetti, m. 253475).
Ciò rilevato, deve però anche ricordarsi che la
giurisprudenza più recente ha peraltro precisato che «L'inquinamento
acustico conseguente all'esercizio di mestieri rumorosi, che
si concretizza nel mero superamento dei limiti massimi o
differenziali di rumore fissati dalle leggi e dai decreti
presidenziali in materia, integra l'illecito amministrativo
di cui all'art. 10, comma secondo, della legge 26.10.1995 n.
447 (legge quadro sull'inquinamento acustico) e non la
contravvenzione di disturbo delle occupazioni o del riposo
delle persone (art. 659, comma secondo, cod. pen.)»
(Sez. I, 13.11.2012, n. 48309, Carrozzo, Rv. 254088); e che
«In tema di disturbo delle occupazioni e
del riposo delle persone, la condotta costituita dal
superamento dei limiti di accettabilità di emissioni sonore
derivanti dall'esercizio di professioni o mestieri rumorosi
non configura l'ipotesi di reato di cui all'art. 659, comma
secondo, cod. peri., ma l'illecito amministrativo di cui
all'art. 10, comma secondo, della legge 26.10.1995 n. 447
(legge quadro sull'inquinamento acustico), in applicazione
del principio di specialità contenuto nell'art. 9 della
legge 24.11.1981 n. 689»
(Sez. III, 31.01.2014, n. 13015, Vazzana. Rv. 258702).
In conclusione, deve confermarsi il principio più
recentemente affermato (cfr. Sez. III, 18.09.2014, n. 42026,
Claudino, Rv. 260658; Sez. III, 21.01.2015, n. 5735, Giuffrè,
Rv. 261885), precisandolo nel senso che in
tema di disturbo delle occupazioni e del riposo delle
persone, l'esercizio di una attività o di un mestiere
rumoroso, integra:
A) l'illecito amministrativo di cui all'art. 10, comma
secondo, della legge 26.10.1995, n. 447, qualora si
verifichi il superamento dei limiti, massimi o
differenziali, di emissione del rumore fissati dalle leggi e
dai provvedimenti amministrativi;
B) il reato di cui al comma primo dell'art. 659, cod. peni,
qualora i rumori idonei a turbare la quiete pubblica
provengano da condotte che eccedano le normali attività di
esercizio, ossia non siano strettamente connessi o necessari
all'esercizio dell'attività autorizzata;
C) il reato di cui al comma secondo dell'art. 659 cod. pen.,
qualora siano violate specifiche disposizioni di legge o
prescrizioni della Autorità che regolano l'esercizio del
mestiere o della attività, diverse da quella relativa ai
valori limite di emissione sonora stabiliti in applicazione
dei criteri di cui alla legge n. 447 del 1995
(cfr. Sez. III, 18.09.2014, n. 42026, Claudino, Rv. 260658;
Sez. III, 21.01.2015, n. 5735, Giuffrè, Rv. 261885).
Più in particolare, va affermato il principio che
l'attività di un bar regolarmente autorizzato
dall'autorità amministrativa a rimanere aperto fino a tarda
notte ed all'uso di strumenti musicali e di diffusione
sonora, va classificata come esercizio di un «mestiere
rumoroso», in quanto l'uso di tali strumenti è
strettamente connesso e necessario all'esercizio
dell'attività autorizzata, con la conseguenza che il
superamento, mediante gli strumenti stessi, dei limiti
massimi o differenziali di emissione del rumore integra
l'illecito amministrativo di cui all'art. 10, comma secondo,
della legge 26.10.1995, n. 447.
Qualora invece, nel caso in esame, il giudice del merito
avesse ritenuto che i rumori provenissero non dagli
strumenti musicali o di diffusione sonora o comunque da
altre condotte non necessarie e strettamente connesse
all'esercizio dell'attività autorizzata e che, di
conseguenza, fossero idonei ad integrare il reato di cui al
primo comma dell'art. 659 cod. pen., va rilevato che nella
sentenza impugnata non si rinviene alcuna motivazione
(congrua ed adeguata) non solo su quale sarebbe la fonte
diversa ed ulteriore di tali rumori, ma nemmeno sugli
elementi costitutivi della fattispecie di cui all'art. 659,
primo comma, cod. pen..
Secondo la giurisprudenza, invero, per
integrare il reato di cui all'art. 659, primo comma, è
necessario che il fastidio non sia limitato agli
appartamenti attigui alla sorgente rumorosa
(Sez. III, 13.05.2014, n. 23529, Ioniez, Rv. 259194),
o agli abitanti dell'appartamento sovrastante o
sottostante alla fonte di propagazione
(Sez. I, 14.10.2013, n. 45616, Virgillito, Rv. 257345),
occorrendo invece la prova che la propagazione delle
onde sonore sia estesa quanto meno ad una consistente parte
degli occupanti l'edificio, in modo da avere una diffusa
attitudine offensiva ed una idoneità a turbare la pubblica
quiete.
Difatti, «la rilevanza penale
della condotta produttiva di rumori, censurati come fonte di
disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone,
richiede l'incidenza sulla tranquillità pubblica, in quanto
l'interesse tutelato dal legislatore è la pubblica quiete,
sicché i rumori devono avere una tale diffusività che
l'evento di disturbo sia potenzialmente idoneo ad essere
risentito da un numero indeterminato di persone, pur se poi
concretamente solo taluna se ne possa lamentare»
(ex plurimis, Sez. I, 29.11.2011, n. 47298, Tori, Rv.
251406; Sez. III, 27.01.2015, n. 7912, Contino).
La sentenza impugnata, invece, si è limitata soltanto a
ritenere accertato il superamento dei limiti di immissione,
peraltro in modo assolutamente incongruo perché
l'accertamento al quale si riferisce riguardava il diverso
reato giudicato con la sentenza emessa il 13.07.2011 e la
cui permanenza era cessata in tale data. Dalla sentenza
impugnata, invece, non risultano accertamenti di superamento
dei limiti in riferimento alle emissioni sonore posteriori a
detta data ed oggetto del presente giudizio.
La sentenza impugnata, inoltre, si limita ad affermare che «non
può dubitarsi della idoneità delle immissioni, per l'entità
e le caratteristiche accertate, a disturbare un numero
indeterminato di persone». Si tratta però di una
affermazione meramente apodittica e congetturale sia perché
le caratteristiche accertate riguardavano immissioni diverse
da quelle oggetto del presente procedimento e sia comunque
perché non viene spiegato sulla base di quali concreti
elementi si è ritenuto provato, al di là di ogni ragionevole
dubbio, che i rumori avessero una tale diffusività che
l'evento di disturbo fosse potenzialmente idoneo ad essere
risentito da un numero indeterminato di persone.
Al contrario, dalle sentenze di merito sembrerebbe emergere
solo la prova che i rumori abbiano recato disturbo
unicamente agli abitanti dell'appartamento immediatamente
sovrastante il bar, ossia che si fosse in presenza di una
fattispecie avente carattere civilistico e non anche penale.
Dalla sentenza impugnata invero non risulta alcuna prova che
altri soggetti si siano lamentati o che i rumori (successivi
al 14.07.2011) siano stati percepiti anche da abitanti in
appartamenti diversi da quello immediatamente sovrastante,
ed anzi nemmeno risulta che costoro siano stati sentiti.
La sentenza impugnata deve dunque essere annullata con
rinvio ad altra sezione della corte d'appello di Milano, che
si atterrà ai principi di diritto dianzi indicati.
Gli altri motivi restano assorbiti. |
EDILIZIA PRIVATA: L'ordine
di demolizione conseguente all'accertamento della natura
abusiva delle opere realizzate, come tutti i provvedimenti
sanzionatori edilizi, è un atto dovuto: l'ordinanza va
emanata senza indugio e, in quanto tale, non deve essere
preceduta dalla comunicazione di avvio del procedimento,
trattandosi di una misura sanzionatoria per l'accertamento
dell'inosservanza di disposizioni urbanistiche, secondo un
procedimento di natura vincolata tipizzato dal legislatore e
rigidamente disciplinato, che si ricollega ad un preciso
presupposto di fatto, cioè l'abuso, di cui peraltro
l'interessato non può non essere a conoscenza, rientrando
direttamente nella sua sfera di controllo.
Il ricorso è infondato.
Per costante giurisprudenza l'ordine di demolizione
conseguente all'accertamento della natura abusiva delle
opere realizzate, come tutti i provvedimenti sanzionatori
edilizi, è un atto dovuto: l'ordinanza va emanata senza
indugio e, in quanto tale, non deve essere preceduta dalla
comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi di una
misura sanzionatoria per l'accertamento dell'inosservanza di
disposizioni urbanistiche, secondo un procedimento di natura
vincolata tipizzato dal legislatore e rigidamente
disciplinato, che si ricollega ad un preciso presupposto di
fatto, cioè l'abuso, di cui peraltro l'interessato non può
non essere a conoscenza, rientrando direttamente nella sua
sfera di controllo (cfr. da ultimo Cons. Stato III,
14/05/2015 n. 2411)
(TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater,
sentenza 14.08.2015 n. 10831 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Qualsiasi
intervento edilizio implicante un incremento di superficie o
un mutamento di sagoma o di destinazione d'uso devono
essere, in ogni caso, preceduti dall'acquisizione del
relativo titolo edilizio, ravvisabile nel cosiddetto
permesso di costruire.
Difatti, gli interventi edilizi che alterano, anche sotto il
profilo della distribuzione, l'originaria consistenza fisica
di un immobile e comportano l'inserimento di nuovi impianti
e la modifica e ridistribuzione dei volumi, non si
configurano né come manutenzione straordinaria, né come
restauro o risanamento conservativo, ma rientrano
nell'ambito della ristrutturazione edilizia; il rinnovo
degli elementi costituitivi dell'edificio ed una alterazione
dell'originaria fisionomia e consistenza fisica
dell'immobile sono infatti da considerarsi incompatibili con
i concetti di manutenzione straordinaria e di risanamento
conservativo, che presuppongono la realizzazione di opere
che lascino inalterata la struttura dell'edificio e la
distribuzione interna della sua superficie.
Nel caso di specie, l’intervento realizzato non si risolve
nella mera distribuzione diversa degli ambienti interni, ma
ha implicato modifiche della sagoma e del prospetto
dell’edificio attraverso aperture e modifiche delle finestre
preesistenti; cosicché l’intervento edilizio, considerato
nella sua inevitabile complessità, non poteva ritenersi
assentibile mediante d.i.a. ed il ricorrente avrebbe dovuto
munirsi di permesso di costruire.
Legittimamente dunque l’amministrazione comunale ha adottato
la sanzione prevista dall’art. 33 e non quella di cui
all’art. 37 del d.p.r. 380/2001.
Il ricorso è infondato.
Inoltre va ricordato il costante insegnamento
giurisprudenziale del giudice amministrativo, secondo cui
qualsiasi intervento edilizio implicante un incremento di
superficie o un mutamento di sagoma o di destinazione d'uso
devono essere, in ogni caso, preceduti dall'acquisizione del
relativo titolo edilizio, ravvisabile nel cosiddetto
permesso di costruire. Difatti, gli interventi edilizi che
alterano, anche sotto il profilo della distribuzione,
l'originaria consistenza fisica di un immobile e comportano
l'inserimento di nuovi impianti e la modifica e
ridistribuzione dei volumi, non si configurano né come
manutenzione straordinaria, né come restauro o risanamento
conservativo, ma rientrano nell'ambito della
ristrutturazione edilizia; il rinnovo degli elementi
costituitivi dell'edificio ed una alterazione
dell'originaria fisionomia e consistenza fisica
dell'immobile sono infatti da considerarsi incompatibili con
i concetti di manutenzione straordinaria e di risanamento
conservativo, che presuppongono la realizzazione di opere
che lascino inalterata la struttura dell'edificio e la
distribuzione interna della sua superficie (ex multis,
C. Stato Sez. V, 17.07.2014, n. 3796).
Nel caso di specie, l’intervento realizzato non si risolve
nella mera distribuzione diversa degli ambienti interni, ma
ha implicato modifiche della sagoma e del prospetto
dell’edificio attraverso aperture e modifiche delle finestre
preesistenti; cosicché l’intervento edilizio, considerato
nella sua inevitabile complessità, non poteva ritenersi
assentibile mediante d.i.a. ed il ricorrente avrebbe dovuto
munirsi di permesso di costruire.
Legittimamente dunque l’amministrazione comunale ha adottato
la sanzione prevista dall’art. 33 e non quella di cui
all’art. 37 del d.p.r. 380/2001
(TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater,
sentenza 14.08.2015 n. 10831 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Gli
effetti giuridici, sostanziali e processuali, della domanda
devoluta al giudice privo di giurisdizione si conservano nel
giudizio proseguito davanti al giudice munito di
giurisdizione, in forza degli art. 24, 111 e 113 cost.,
quando la domanda, proposta tempestivamente innanzi al
giudice privo di competenza giurisdizionale, sia
tempestivamente riassunta innanzi al giudice fornito di
giurisdizione; ed invero, siccome chiarito anche dal giudice
delle leggi, la funzione di rendere praticabile la "translatio
iudicii" con la conservazione degli effetti della domanda
proposta al giudice risultato privo di giurisdizione, non
può ritenersi affidata ad un ricorso proponibile in ogni
tempo e, quindi, anche anni dopo il manifestarsi del
conflitto.
Di conseguenza il termine perentorio per la riassunzione,
per le fattispecie antecedenti alla disciplina legislativa
sulla "translatio iudicii" di cui all'art. 59, l. 18.06.2009
n. 69, deve individuarsi, facendo applicazione, in via
analogica dell'art. 50 c.p.c. che, nella versione "ratione
temporis" vigente, prevedeva un termine di sei mesi dalla
comunicazione dell'ordinanza che dichiara l'incompetenza del
giudice adito.
Con ricorso notificato in data 10.03.2009 i ricorrenti
impugnano il provvedimento indicato in epigrafe con il quale
è stata determinata in Euro 516,00 la sanzione
amministrativa dovuta per l’istallazione di due
condizionatori senza aver presentato la prescritta D.I.A.
L’impugnazione, già proposta davanti al Tribunale civile di
Civitavecchia, è stata traslata davanti a questo Giudice a
seguito della dichiarazione di difetto di giurisdizione in
capo al giudice ordinario secondo la sentenza n. 168/2009
del Tribunale di Civitavecchia.
Con il ricorso si assume in primo luogo l’estraneità della
società ricorrente e di A.M. rispetto al fatto contestato,
che non sarebbe loro imputabile essendo l’installazione dei
condizionatori riferibile ad epoca precedente
l’acquisizione, da parte dei predetti, della disponibilità
dell’immobile.
Si deduce poi difetto di motivazione, difetto dei
presupposti, illogicità, sviamento, violazione della legge
689/1981, considerato il tempo trascorso dalla realizzazione
dell’abuso, asseritamente in data precedente all’anno 1993,
quindi addirittura in epoca precedente all’entrata in vigore
del dpr 380/2001, dell’art. 22 TUE e della legge 662/1996.
Inoltre, secondo i ricorrenti, sarebbe maturata la
prescrizione della sanzione ex art. 28 delle legge 689/1981.
Si è costituito in giudizio il Comune di Civitavecchia per
resistere al gravame.
Alla pubblica udienza del giorno 21.05.2015 la causa è stata
trattenuta dal Collegio per la decisione nel merito.
Preliminarmente il Tribunale osserva che gli effetti
giuridici, sostanziali e processuali, della domanda devoluta
al giudice privo di giurisdizione si conservano nel giudizio
proseguito davanti al giudice munito di giurisdizione, in
forza degli art. 24, 111 e 113 cost., quando la domanda,
proposta tempestivamente innanzi al giudice privo di
competenza giurisdizionale, sia tempestivamente riassunta
innanzi al giudice fornito di giurisdizione; ed invero,
siccome chiarito anche dal giudice delle leggi, la funzione
di rendere praticabile la "translatio iudicii" con la
conservazione degli effetti della domanda proposta al
giudice risultato privo di giurisdizione, non può ritenersi
affidata ad un ricorso proponibile in ogni tempo e, quindi,
anche anni dopo il manifestarsi del conflitto; di
conseguenza il termine perentorio per la riassunzione, per
le fattispecie antecedenti alla disciplina legislativa sulla
"translatio iudicii" di cui all'art. 59, l. 18.06.2009
n. 69, deve individuarsi, facendo applicazione, in via
analogica dell'art. 50 c.p.c. che, nella versione "ratione
temporis" vigente, prevedeva un termine di sei mesi dalla
comunicazione dell'ordinanza che dichiara l'incompetenza del
giudice adito.
Nel caso di specie il difetto di giurisdizione è stato
dichiarato dal Tribunale di Civitavecchia con sentenza in
data 05.02.2009, mentre il ricorso impugnatorio davanti a
questo Giudice è stato notificato in data 10.03.2009, cosicché
può essere ritenuto tempestivo rispetto al termine sopra
menzionato
(TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater,
sentenza 14.08.2015 n. 10826 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: E'
indifferente ai fini della legittimità della misura
sanzionatoria adottata l'individuazione dell'effettivo
responsabile dell'abuso, perché le sanzioni pecuniarie di
cui all'art. 10 della legge n. 47/1985 e norme successive,
per il loro carattere ripristinatorio (e non punitivo),
hanno natura reale e ben possono essere comminate nei
confronti di coloro che, a vario titolo, hanno la
disponibilità dell’immobile, ovvero a carico del
proprietario, a prescindere da ogni verifica
sull’imputabilità del fatto, già in ragione della omessa
adozione di iniziative volte al ripristino della legalità
violata.
---------------
L'ordinamento non assoggetta ad un regime di prescrizione
l'esercizio dei poteri di controllo e di sanzione da parte
delle amministrazioni competenti in materia
urbanistico-edilizia e paesistica: di modo che
l'accertamento dell'illecito amministrativo
urbanistico-edilizio e paesaggistico, nonché applicazione
delle relative sanzioni, possono intervenire anche dopo il
decorso di un rilevante lasso temporale dalla consumazione
dell'abuso, al quale deve riconoscersi natura permanente,
con la conseguenza che esso cessa soltanto dopo la materiale
esecuzione della sanzione.
Con ricorso notificato in data 10.03.2009 i ricorrenti
impugnano il provvedimento indicato in epigrafe con il quale
è stata determinata in Euro 516,00 la sanzione
amministrativa dovuta per l’istallazione di due
condizionatori senza aver presentato la prescritta D.I.A.
...
Nel merito il ricorso è infondato.
In primo luogo il Collegio osserva che è indifferente ai
fini della legittimità della misura sanzionatoria adottata
l'individuazione dell'effettivo responsabile dell'abuso,
perché le sanzioni pecuniarie di cui all'art. 10 della legge
n. 47/1985 e norme successive, per il loro carattere ripristinatorio (e non punitivo), hanno natura reale e ben
possono essere comminate nei confronti di coloro che, a
vario titolo, hanno la disponibilità dell’immobile, ovvero a
carico del proprietario, a prescindere da ogni verifica
sull’imputabilità del fatto, già in ragione della omessa
adozione di iniziative volte al ripristino della legalità
violata.
Va poi ricordato che l'ordinamento non assoggetta ad un
regime di prescrizione l'esercizio dei poteri di controllo e
di sanzione da parte delle amministrazioni competenti in
materia urbanistico-edilizia e paesistica: di modo che
l'accertamento dell'illecito amministrativo
urbanistico-edilizio e paesaggistico, nonché applicazione
delle relative sanzioni, possono intervenire anche dopo il
decorso di un rilevante lasso temporale dalla consumazione
dell'abuso, al quale deve riconoscersi natura permanente,
con la conseguenza che esso cessa soltanto dopo la materiale
esecuzione della sanzione (cfr. di recente Consiglio di
Stato , sez. V, 08/04/2014 n. 1650)
(TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater,
sentenza 14.08.2015 n. 10826 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Climatizzatori esterni con obbligo di «Scia». Edilizia. Il
Tar Lazio conferma la sanzione comunale.
Con la stagione estiva spuntano condizionatori e
problemi di compatibilità edilizia e ambientale.
Se ne è occupato il TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater,
con la
sentenza 14.08.2015 n. 10826
relativa ad una galleria d’arte che aveva installato due
apparecchiature esterne, subendo una sanzione dal Comune di
Civitavecchia. La sanzione, di 516 euro, è stata confermata
dal Tar con affermazioni utili anche al sopravvenire del
decreto Sblocca Italia (Dl 133/2014).
I climatizzatori
(Consiglio di Stato, 4744/2008), costituiscono impianti
tecnologici e pertanto, se collocati all’esterno dei
fabbricati, rientrano tra gli interventi edilizi soggetti a
segnalazione certificata di inizio di attività (Scia:
articoli 3, comma 1, lett. b, e 22 del Dpr 380/2001).
Recenti agevolazioni, escludendo anche la Scia, si applicano
nel caso di “edilizia libera”, e cioè per le pompe di
calore aria-aria di potenza termica utile nominale inferiore
a 12 kW (articolo 6, comma 1, lett. a del Dpr 380 citato,
modificato dal Dl 133/2014).
Con o senza Scia, occorre tuttavia sempre (articolo 6, comma
1, del Dpr 380/2001) la conformità alle prescrizioni degli
strumenti urbanistici e dei regolamenti edilizi, oltre che
il rispetto delle altre normative di settore aventi
incidenza sulla disciplina dell’attività costruttiva. Via
libera ai condizionatori, quindi, ma con rispetto delle
norme antisismiche, di sicurezza, antincendio,
igienico-sanitarie, sull’efficienza energetica, nonché delle
disposizioni contenute nel codice dei beni culturali e del
paesaggio (Dlgs 42/2004).
Ne consegue che un intervento eseguito in zona con vincolo
paesaggistico (o nei centri storici), esige comunque il
nulla osta dell’autorità preposta alla tutela del vincolo,
per fortuna ottenibile in sanatoria (articolo 167, comma 4,
del Dlgs 42/2004).
Affrontando il problema dei condizionatori, la Cassazione
penale (952/2015) ha infatti sottolineato che
l’installazione di tali impianti da parte di un esercizio
commerciale (sala giochi) in un’area sottoposta a vincolo
paesaggistico genera responsabilità penale per violazione
del Dlgs 42/2004 (per alterazione estetica) e del TU
edilizia (articolo 44) qualora si violi un regolamento
locale.
E non è tutto, perché vi sono anche i problemi relativi al
rumore, che espone ad un diverso regime di sanzioni a
seconda che (Cassazione penale 7912/2015) il condizionatore
d’aria sia utile all’esercizio di un mestiere rumoroso o sia
indipendente da tale specifica attività: nel primo caso vi
sarà una sanzione amministrativa, nel secondo una sanzione
penale se si eccede la normale tollerabilità e si disturbano
quiete e riposo (articolo Il Sole 24 Ore del
20.08.2015). |
EDILIZIA PRIVATA: Non
vi è dubbio che l’installazione di condizionatori, che
incida sul prospetto dell’immobile, costituisca attività
edilizia soggetta a d.i.a. (ora s.c.i.a.) dovendo risultare
conforme alle prescrizioni degli strumenti urbanistici e dei
regolamenti edilizi.
Legittimamente dunque l’amministrazione ha proceduto ad
irrogare la sanzione ex art. 37 del dpr 380/2001 (e di cui
alla corrispondente fattispecie della legge 47/1985) in
relazione ad attività edilizia eseguita in assenza di alcun
titolo abilitativo benché soggetta al regime della d.i.a..
Con ricorso notificato in data 10.03.2009 i ricorrenti
impugnano il provvedimento indicato in epigrafe con il quale
è stata determinata in Euro 516,00 la sanzione
amministrativa dovuta per l’istallazione di due
condizionatori senza aver presentato la prescritta D.I.A.
...
Nel merito il ricorso è infondato.
...
Del resto, l’asserita risalenza delle opere contestate
all’anno 1993 costituisce affermazione di parte ricorrente
non assistita da alcun principio di prova, a fronte delle
risultanze del verbale redatto dalla Polizia Municipale in
atti; mentre non vi è dubbio che l’installazione di
condizionatori, che incida sul prospetto dell’immobile,
costituisca attività edilizia soggetta a d.i.a. (ora s.c.i.a.) dovendo risultare conforme alle prescrizioni degli
strumenti urbanistici e dei regolamenti edilizi.
Legittimamente dunque l’amministrazione ha proceduto ad
irrogare la sanzione ex art. 37 del dpr 380/2001 (e di cui
alla corrispondente fattispecie della legge 47/1985) in
relazione ad attività edilizia eseguita in assenza di alcun
titolo abilitativo benché soggetta al regime della d.i.a..
Il provvedimento impugnato appare quindi correttamente ed
adeguatamente motivato, anche in considerazione della natura
vincolata degli atti repressivi degli abusi edilizi
(TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater,
sentenza 14.08.2015 n. 10826 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sull'attuale
proprietario incolpevole del realizzato abuso edilizio
compiuto 20 anni prima e sull'ingenerato affidamento
rispetto al tempo trascorso..
Risulta fondato il motivo di ricorso con cui si lamenta il
difetto di motivazione in relazione all’affidamento
ingenerato rispetto al tempo trascorso dalla data di
realizzazione delle opere abusive contestate, ancor più in
considerazione del fatto che la società odierna appellante è
certamente estranea alla realizzazione delle opere abusive,
avendo acquistato in buona fede in epoca successiva l’area
interessata dall’abuso.
In ordine alla necessità che in alcune situazioni
eccezionali, l’Amministrazione abbia l’obbligo di motivare
l’ordine di riduzione in pristino di opere abusivamente
realizzate, per dare conto dell’affidamento ingeneratosi in
capo al proprietario di buona fede in conseguenza del
decorso del tempo, devono richiamarsi i principi
recentemente affermati dalla Quarta Sezione di questo
Consiglio di Stato.
Di regola, come è noto, la abusività dell’opera, in sé e per
sé legittima il successivo, conseguente provvedimento di
rimozione dell’abuso. Esso è, di regola, atto dovuto e
prescinde dall’attuale possesso del bene e dalla coincidenza
del proprietario con il realizzatore dell’abuso medesimo.
La abusività dell’opera è una connotazione di natura reale:
“segue” l’immobile anche nei successivi trasferimenti del
medesimo.
Diversamente opinando, sarebbe sufficiente l’alienazione
dell’immobile abusivo, successivamente alla perpetrazione
dell’abuso, per eludere le esigenze di tutela dell’ordinato
sviluppo urbanistico, del “governo del territorio” e
dell’ambiente che sono sottese all’ordine di rimozione.
Si rammenta in proposito il costante e condivisibile
orientamento di questo Consiglio di Stato, dal quale non si
ravvisa in via generale motivo per discostarsi, secondo il
quale le sanzioni in materia edilizia sono legittimamente
adottate nei confronti dei proprietari attuali degli
immobili, a prescindere dalla modalità con cui l’abuso è
stato consumato.
In casi-limite, però, può pervenirsi a considerazioni
parzialmente difformi; ciò può avvenire in casi in cui sia
pacifico: che l’acquirente ed attuale proprietario del
manufatto, destinatario del provvedimento di rimozione non è
responsabile dell’abuso; che l’alienazione non sia avvenuta
al solo fine di eludere il successivo esercizio dei poteri
repressivi; che tra la realizzazione dell’abuso, il
successivo acquisto, e più ancora, l’esercizio da parte
dell’autorità dei poteri repressivi sia intercorso un lasso
temporale ampio.
In simile evenienza, nel palese stato di buona fede del
privato, l’amministrazione deve motivare in ordine alla
sussistenza di sì rilevanti esigenze pubblicistiche, tali da
far ritenere recessivo lo stato di buona fede dell’attuale
proprietario dell’abuso.
9. L’appello merita accoglimento.
10. Come già rilevato in sede cautelare, risulta fondato il
motivo di ricorso con cui si lamenta il difetto di
motivazione in relazione all’affidamento ingenerato rispetto
al tempo trascorso dalla data di realizzazione delle opere
abusive contestate, ancor più in considerazione del fatto
che la società odierna appellante è certamente estranea alla
realizzazione delle opere abusive, avendo acquistato in
buona fede in epoca successiva l’area interessata
dall’abuso.
11. In ordine alla necessità che in alcune situazioni
eccezionali, l’Amministrazione abbia l’obbligo di motivare
l’ordine di riduzione in pristino di opere abusivamente
realizzate, per dare conto dell’affidamento ingeneratosi in
capo al proprietario di buona fede in conseguenza del
decorso del tempo, devono richiamarsi i principi
recentemente affermati dalla Quarta Sezione di questo
Consiglio di Stato (cfr., in particolare, Cons. Stato, sez.
IV, 04.03.2014, n. 1016 e la giurisprudenza ivi richiamata).
12. Di regola, come è noto, la abusività dell’opera, in sé e
per sé legittima il successivo, conseguente provvedimento di
rimozione dell’abuso. Esso è, di regola, atto dovuto e
prescinde dall’attuale possesso del bene e dalla coincidenza
del proprietario con il realizzatore dell’abuso medesimo.
La abusività dell’opera è una connotazione di natura reale:
“segue” l’immobile anche nei successivi trasferimenti
del medesimo.
Diversamente opinando, sarebbe sufficiente l’alienazione
dell’immobile abusivo, successivamente alla perpetrazione
dell’abuso, per eludere le esigenze di tutela dell’ordinato
sviluppo urbanistico, del “governo del territorio” e
dell’ambiente che sono sottese all’ordine di rimozione.
Si rammenta in proposito il costante e condivisibile
orientamento di questo Consiglio di Stato, dal quale non si
ravvisa in via generale motivo per discostarsi, secondo il
quale le sanzioni in materia edilizia sono legittimamente
adottate nei confronti dei proprietari attuali degli
immobili, a prescindere dalla modalità con cui l’abuso è
stato consumato.
13. In casi-limite, però, può pervenirsi a considerazioni
parzialmente difformi; ciò può avvenire in casi in cui sia
pacifico: che l’acquirente ed attuale proprietario del
manufatto, destinatario del provvedimento di rimozione non è
responsabile dell’abuso; che l’alienazione non sia avvenuta
al solo fine di eludere il successivo esercizio dei poteri
repressivi; che tra la realizzazione dell’abuso, il
successivo acquisto, e più ancora, l’esercizio da parte
dell’autorità dei poteri repressivi sia intercorso un lasso
temporale ampio.
In simile evenienza, nel palese stato di buona fede del
privato, l’amministrazione deve motivare in ordine alla
sussistenza di sì rilevanti esigenze pubblicistiche, tali da
far ritenere recessivo lo stato di buona fede dell’attuale
proprietario dell’abuso.
14. Tale situazione certamente ricorre nel caso di specie.
Possono, infatti, ritenersi documentate o, comunque,
incontestate le seguenti circostanze:
- le coperture dei campi da tennis in esame sono state
realizzate tra la fine del 1983 e il 1989;
- l’odierna appellante è proprietaria dell’area,
destinataria del provvedimento di rimozione, non è
responsabile dell’abuso, in quanto le opere contestate sono
stare realizzate dal primo affittuario del Circolo Tennis
Aeroporto;
- tra la realizzazione dell’abuso e l’esercizio da parte
dell’autorità dei potere repressivi è intercorso un arco
temporale di oltre vent’anni;
- l’odierna appellate versa rispetto alla realizzazione
delle opere abusive in uno stato di buona fede.
Sussiste, quindi, il vizio di eccesso di potere per difetto
di motivazione.
14. L’appello proposto dalla Società A.T. s.p.a. deve, in
conclusione, essere accolto. Per l’effetto, in riforma della
sentenza appellata, deve accogliersi il ricorso di primo
grado, nei sensi specificati in motivazione
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza
14.08.2015 n. 3933 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Deve
escludersi la possibilità che l’opera abusivamente
realizzata possa essere sanata sulla base del solo riscontro
della conformità agli strumenti urbanistici vigenti.
Ed invero, secondo il consolidato orientamento della
giurisprudenza, al quale la Sezione pienamente aderisce, “è
legittimo il doveroso diniego della concessione in sanatoria
di opere eseguite senza titolo abilitante, qualora le stesse
non risultino conformi tanto alla normativa urbanistica
vigente al momento della loro realizzazione quanto a quella
vigente al momento della domanda di sanatoria.
Infatti, solo il legislatore statale (con preclusione non
solo per il potere giurisdizionale, ma anche per il
legislatore regionale: Corte Cost., 29.05.2013, n. 101) può
prevedere i casi in cui può essere rilasciato un titolo
edilizio in sanatoria (avente anche una rilevanza estintiva
del reato già commesso) e risulta del tutto ragionevole il
divieto legale di rilasciare una concessione (o il permesso)
in sanatoria, anche quando dopo la commissione dell’abuso vi
sia una modifica favorevole dello strumento urbanistico”.
Secondo quanto rilevato dalla giurisprudenza, la
ragionevolezza di tale divieto discende dall’esigenza, presa
in considerazione dalla legge, di evitare che il potere di
pianificazione possa essere strumentalizzato al fine di
rendere lecito ex post (e non punibile) ciò che risulta
illecito (e punibile) e, inoltre, di dissuadere
dall’intenzione di commettere abusi, poiché chi costruisce
sine titulo è consapevole di essere tenuto alla demolizione,
anche in presenza di una sopraggiunta modificazione
favorevole dello strumento urbanistico.
---------------
Secondo quanto chiarito dalla giurisprudenza, anche della
Sezione, con orientamento che il Collegio ritiene di dover
fare proprio e ribadire, laddove un’istanza di sanatoria
preveda la realizzazione di ulteriori interventi per rendere
l’opera conforme alle norme vigenti, è palese
l’insussistenza del requisito della conformità al momento
della richiesta di rilascio del titolo in sanatoria.
Un provvedimento di sanatoria che prevedesse l’esecuzione di
tali ulteriori lavori sarebbe quindi illegittimo, poiché
l’articolo 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 non consente spazi
interpretativi, nel senso che la concessione in sanatoria è
ammessa soltanto entro i limiti delineati dal legislatore,
senza alcuna possibilità di estensione discrezionale da
parte della p.a..
11.1 Ora, a fronte di tali dati, non possono trovare
accoglimento le censure formulate dalla parte, e con le
quali essa invoca la possibilità di ottenere l’assenso al
progetto, in quanto sostanzialmente “nuovo” e
comportante solo una “sanatoria parziale”, che
sarebbe giustificata dall’asserita conformità delle opere
allo strumento urbanistico vigente.
Deve anzitutto rilevarsi che correttamente l’Amministrazione
ha richiamato, nel provvedimento impugnato, il contenzioso
che ha interessato l’immobile oggetto dell’intervento,
ritenendo inammissibile l’istanza di Com. Univ., in quanto
avente in parte ad oggetto le stesse opere già realizzate.
La circostanza che tali opere siano già esistenti e abbiano
carattere abusivo non può, infatti, essere ulteriormente
messa in discussione.
11.2 Ciò posto, il provvedimento è pure correttamente
motivato nella parte in cui esclude la possibilità di
ottenere la parziale sanatoria del manufatto, attraverso la
presentazione di un nuovo progetto, che però tende a
conservare alcune delle opere abusivamente realizzate, in
assenza del requisito della c.d. “doppia conformità”,
prescritto dall’articolo 36 del d.P.R. n. 380 del 2001.
Contrariamente a quanto affermato dai ricorrenti, deve
infatti escludersi la possibilità che l’opera abusivamente
realizzata possa essere sanata sulla base del solo riscontro
della conformità agli strumenti urbanistici vigenti.
E invero, secondo il consolidato orientamento della
giurisprudenza, al quale la Sezione pienamente aderisce, “è
legittimo il doveroso diniego della concessione in sanatoria
di opere eseguite senza titolo abilitante, qualora le stesse
non risultino conformi tanto alla normativa urbanistica
vigente al momento della loro realizzazione quanto a quella
vigente al momento della domanda di sanatoria (Cons. St.,
Sez. V, 17.03.2014, n. 1324; Sez. V, 11.06.2013, n. 3235;
Sez. V, 17.09.2012, n. 4914; Sez. V, 25.02.2009, n. 1126;
Sez. IV, 26.04.2006, n. 2306). Infatti, solo il legislatore
statale (con preclusione non solo per il potere
giurisdizionale, ma anche per il legislatore regionale:
Corte Cost., 29.05.2013, n. 101) può prevedere i casi in cui
può essere rilasciato un titolo edilizio in sanatoria
(avente anche una rilevanza estintiva del reato già
commesso) e risulta del tutto ragionevole il divieto legale
di rilasciare una concessione (o il permesso) in sanatoria,
anche quando dopo la commissione dell’abuso vi sia una
modifica favorevole dello strumento urbanistico” (così
Cons. Stato, Sez. V, 27.05.2014, n. 2755).
Secondo quanto rilevato dalla giurisprudenza, la
ragionevolezza di tale divieto discende dall’esigenza, presa
in considerazione dalla legge, di evitare che il potere di
pianificazione possa essere strumentalizzato al fine di
rendere lecito ex post (e non punibile) ciò che
risulta illecito (e punibile) e, inoltre, di dissuadere
dall’intenzione di commettere abusi, poiché chi costruisce
sine titulo è consapevole di essere tenuto alla
demolizione, anche in presenza di una sopraggiunta
modificazione favorevole dello strumento urbanistico (Cons.
Stato, Sez. V, 17.03.2014, n. 1324, e Id., n. 2755 del 2014,
cit.).
11.3 Parimenti corretta è da ritenere l’affermazione,
contenuta nel provvedimento impugnato, secondo la quale “la
sanatoria di quanto realizzato è fattibile mediante una
previsione di opere da eseguirsi e pertanto non sussiste il
requisito della doppia conformità”. I ricorrenti
osservano, al riguardo, che “Il Comune sembra (...)
ritenere che la doppia conformità in effetti esista, sia
pure con la realizzazione delle opere previste in progetto”
(v. p. 17 del ricorso), e traggono da ciò argomento per
affermare la contraddittorietà del giudizio di
inammissibilità del progetto.
Al riguardo, occorre ricordare che, secondo quanto chiarito
dalla giurisprudenza, anche della Sezione, con orientamento
che il Collegio ritiene di dover fare proprio e ribadire,
laddove un’istanza di sanatoria preveda la realizzazione di
ulteriori interventi per rendere l’opera conforme alle norme
vigenti, è palese l’insussistenza del requisito della
conformità al momento della richiesta di rilascio del titolo
in sanatoria. Un provvedimento di sanatoria che prevedesse
l’esecuzione di tali ulteriori lavori sarebbe quindi
illegittimo, poiché l’articolo 36 del d.P.R. n. 380 del 2001
non consente spazi interpretativi, nel senso che la
concessione in sanatoria è ammessa soltanto entro i limiti
delineati dal legislatore, senza alcuna possibilità di
estensione discrezionale da parte della p.a. (Cons. Giust.
Amm. Regione Siciliana, 15.10.2009, n. 941; TAR Lombardia,
Milano, Sez. II, 22.11.2010, n. 7311).
Queste considerazioni sono integralmente applicabili nel
caso di specie, non potendovi ostare la circostanza che
l’istanza della Società ricorrente sia stata formalmente
presentata come avente ad oggetto un nuovo intervento,
invece che come domanda di accertamento di conformità.
Rileva, infatti, il dato sostanziale, correttamente
evidenziato nel provvedimento impugnato, che il progetto
presentato miri a conservare una parte delle opere già
abusivamente realizzate.
11.4 In conclusione, deve quindi ribadirsi l’infondatezza
del secondo motivo di ricorso
(TAR Lombardia-MIlano, Sez. II,
sentenza 13.08.2015 n. 1900 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
Secondo il consolidato orientamento della
giurisprudenza, le garanzie partecipative hanno valore
necessariamente sostanziale, per cui la relativa omissione
rileva solo quando si verifica l’effettiva frustrazione
della possibilità per l’interessato di sottoporre
all’amministrazione dati di fatto o di diritto idonei ad
incidere sulla determinazione finale.
In tale prospettiva, si è condivisibilmente ritenuto che la
violazione dell'articolo 10-bis della legge n. 241 del 1990
non produca ex se l'illegittimità del provvedimento finale,
dovendo la disposizione sul preavviso di rigetto essere
interpretata comunque alla luce del successivo art.
21-octies, comma 2, il quale impone al giudice di valutare
il contenuto sostanziale del provvedimento e di non
annullare l'atto nel caso in cui le violazioni formali non
abbiano inciso sulla legittimità sostanziale del medesimo.
13. Venendo, quindi,
al primo motivo di ricorso deve parimenti rilevarsene
l’infondatezza.
E invero, secondo il consolidato orientamento della
giurisprudenza, le garanzie partecipative hanno valore
necessariamente sostanziale, per cui la relativa omissione
rileva solo quando si verifica l’effettiva frustrazione
della possibilità per l’interessato di sottoporre
all’amministrazione dati di fatto o di diritto idonei ad
incidere sulla determinazione finale (cfr., tra le ultime,
TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, 21.04.2015, n. 995).
In tale prospettiva, si è condivisibilmente ritenuto che la
violazione dell'articolo 10-bis della legge n. 241 del 1990
non produca ex se l'illegittimità del provvedimento
finale, dovendo la disposizione sul preavviso di rigetto
essere interpretata comunque alla luce del successivo art.
21-octies, comma 2, il quale impone al giudice di valutare
il contenuto sostanziale del provvedimento e di non
annullare l'atto nel caso in cui le violazioni formali non
abbiano inciso sulla legittimità sostanziale del medesimo (C.G.A.
Regione Siciliana 16.04.2013, n. 409; Cons. Stato, Sez. VI,
07.05.2015, n. 2298).
Nel caso di specie, l’esito del procedimento era vincolato,
poiché –alla luce di quanto sopra esposto– l’Amministrazione
non avrebbe potuto assumere alcuna altra determinazione, una
volta appurato che il progetto presentato da Com. Univ.
consisteva in una parziale sanatoria di opere già
realizzate, in assenza del requisito della “doppia
conformità”.
Nessun utile contributo avrebbe, quindi, potuto apportare la
Società al fine di orientare diversamente l’esito dell’iter
avviato a seguito della sua istanza
(TAR Lombardia-MIlano, Sez. II,
sentenza 13.08.2015 n. 1900 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Si
può dare per acquisito in giurisprudenza che le
irregolarità, l’insufficienza e la stessa inesistenza della
cauzione provvisoria non possono dar luogo ad esclusione
dalla gara, ma solo ad un “soccorso istruttorio”.
11.3. Considerazioni
analoghe possono essere fatte anche per il rinnovo tardivo
della cauzione provvisoria.
Si può dare per acquisito in giurisprudenza che le
irregolarità, l’insufficienza e la stessa inesistenza della
cauzione provvisoria non possono dar luogo ad esclusione
dalla gara, ma solo ad un “soccorso istruttorio”.
Peraltro, quando è stata pronunciata l’aggiudicazione
definitiva, il rinnovo della cauzione era stato già
effettuato – mentre quando è stata pronunciata
l’aggiudicazione provvisoria la cauzione originaria non era
ancora scaduta benché il r.u.p. ne avesse già sollecitato il
rinnovo.
Pertanto l’Azienda committente non ha avuto bisogno di
ricorrere al “soccorso istruttorio” in quanto la
cauzione era stata già regolarizzata
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 11.08.2015 n. 3918 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E' legittima l'ordinanza comunale di demolizione
di un fabbricato in legno autorizzato a titolo precario
nell'anno 1979/1980 per esigenze temporanee funzionali
all’attività elicica (di allevamento delle lumache).
Invero, il mantenimento di tali opere oltre il termine
assentito, peraltro destinandole ad attività estranee a
quelle dell’allevamento delle lumache espressamente
menzionate nel titolo edilizio, le ha private di un valido
titolo abilitativo, con la conseguenza che ciò che è
sanzionato con il provvedimento impugnato non è la mancanza
originaria di un titolo edilizio, ma l’assenza della sua
validità che deriva dalla mancata rimozione delle opere
divenute ormai abusive alla scadenza del termine indicato.
Inoltre, l'ordinanza de qua menziona espressamente oltre
all’assenza di un valido titolo edilizio, anche la mancanza
dell’autorizzazione paesaggistica quale motivo che
giustifica la demolizione del manufatto abusivamente
mantenuto oltre al termine indicato nel titolo, dato che era
la precarietà finalizzata all’attività colturale limitata
nel tempo ad aver a suo tempo giustificato la non necessità
dell’autorizzazione paesaggistica.
La Società ricorrente espone di svolgere attività agricola e
di aver acquistato nel 2007 alcuni terreni nel Comune di
Cortina d’Ampezzo, in località Brite de Val, e che su uno di
questi vi è un fabbricato in legno la cui realizzazione è
stata autorizzata con provvedimenti prot. n. 15049 del 18.12.1979, e n. 91 del 15.05.1980, senza il rilascio
dell’autorizzazione paesaggistica, nonostante sulla zona
sussista un vincolo paesaggistico, perché il Sindaco di
allora, stante il carattere precario dell’opera, non l’ha
ritenuta necessaria.
Il manufatto infatti, come risulta dal titolo edilizio
rilasciato nel 1979 (cfr. doc. 2 allegato al ricorso), era
stato realizzato per esigenze temporanee funzionali
all’attività elicica (di allevamento delle lumache).
A seguito di un sopralluogo, rilevata la presenza di un
edificio in legno, privo di un valido titolo edilizio e di
autorizzazione paesaggistica, in area classificata di
pericolosità idrogeologica “P4 - molto elevata”, il Comune
con ordinanza n. 184 prot. 8854 dell’11.05.2015, ha
ordinato la demolizione della costruzione ed il ripristino
dello stato dei luoghi.
...
Il ricorso è infondato e deve essere respinto.
La censura di cui al primo motivo, con la quale il
ricorrente lamenta che l’Amministrazione non avrebbe potuto
disporre la demolizione delle opere senza prima rimuovere
gli effetti dell’originario titolo edilizio è priva di
fondamento.
Infatti l’originario titolo edilizio era stata rilasciato
“in precario” e in quanto funzionale all’attività elicica, e
consentiva pertanto solo la realizzazione delle opere per un
periodo di tempo limitato.
Il mantenimento di tali opere oltre il termine assentito,
peraltro destinandole ad attività estranee a quelle
dell’allevamento delle lumache espressamente menzionate nel
titolo edilizio, le ha private di un valido titolo
abilitativo, con la conseguenza che ciò che è sanzionato con
il provvedimento impugnato non è la mancanza originaria di
un titolo edilizio, ma l’assenza della sua validità che
deriva dalla mancata rimozione delle opere divenute ormai
abusive alla scadenza del termine indicato (cfr. Tar
Piemonte, Sez. I, 05.12.2012, n. 1289; Tar Piemonte,
Sez. II, 15.04.2010 n. 1892; Consiglio di Stato, Sez. V,
03.10.1995, n. 1372).
Pertanto il Comune ha correttamente disposto la demolizione
del manufatto.
Quanto esposto comporta la reiezione anche del secondo
motivo, perché il provvedimento, contrariamente a quanto
dedotto, non è privo di motivazione.
Infatti menziona espressamente oltre all’assenza di un
valido titolo edilizio, anche la mancanza
dell’autorizzazione paesaggistica quale motivo che
giustifica la demolizione del manufatto abusivamente
mantenuto oltre al termine indicato nel titolo, dato che era
la precarietà finalizzata all’attività colturale limitata
nel tempo ad aver a suo tempo giustificato la non necessità
dell’autorizzazione paesaggistica.
In definitiva il ricorso e la domanda di risarcimento, per
la quale difetta in primo luogo il requisito
dell’ingiustizia del danno, devono essere respinti (TAR
Veneto, Sez. II,
sentenza 10.08.2015 n. 917 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
In base a un consolidato orientamento, è
ravvisabile l'ipotesi di lottizzazione abusiva soltanto
quando sussistono elementi precisi ed univoci da cui possa
ricavarsi oggettivamente l'intento di asservire
all'edificazione un'area non urbanizzata; pertanto, ai fini
dell'accertamento della sussistenza del presupposto di cui
all’articolo 18 della l. 28.02.1985, n. 47 (in seguito:
articolo 30 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380).
Pertanto, al fine di poter affermare l’esistenza di
un’ipotesi di lottizzazione abusiva (nel caso in esame, di
tipo c.d. ‘materiale’) è necessario acquisire un sufficiente
quadro indiziario dal quale sia possibile desumere in
maniera non equivoca la destinazione a scopo edificatorio
degli atti posti in essere, con conseguente giustificazione
del provvedimento repressivo a fronte della dimostrazione
della sussistenza di elementi precisi e univoci.
1. Giunge alla decisione del Collegio l’appello proposto da
una società attiva nel settore della riqualificazione
ambientale avverso la sentenza del TAR della Lombardia con
cui è stato respinto il ricorso avverso il provvedimento con
cui il Comune di Luisago (CO):
- aveva contestato una lottizzazione abusiva (asseritamente
consistita nella trasformazione di una discarica dismessa in
campo da golf);
- aveva ingiunto la rimozione di alcuni manufatti realizzati
sine titulo sull’area;
- aveva preavvisato l’appellante che, in caso di mancata
rimozione, avrebbe proceduto ad acquisire i manufatti e
l’area di sedime al patrimonio comunale.
...
3. Nel merito,
l’appello in epigrafe è fondato.
3.1. In particolare il Collegio ritiene meritevoli di
accoglimento il terzo e il quarto motivo di appello con cui
–sia pure attraverso angoli visuali parzialmente
differenziati– la società appellante ha contestato la
sussistenza degli elementi e dei presupposti perché si
potesse considerare concretata un’ipotesi di lottizzazione
abusiva ai sensi dell’articolo 30 del d.P.R. 380 del 2001.
3.2. Si osserva al riguardo che, in base a un consolidato
orientamento, è ravvisabile l'ipotesi di lottizzazione
abusiva soltanto quando sussistono elementi precisi ed
univoci da cui possa ricavarsi oggettivamente l'intento di
asservire all'edificazione un'area non urbanizzata;
pertanto, ai fini dell'accertamento della sussistenza del
presupposto di cui all’articolo 18 della l. 28.02.1985, n.
47 (in seguito: articolo 30 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380).
Pertanto, al fine di poter affermare l’esistenza di
un’ipotesi di lottizzazione abusiva (nel caso in esame, di
tipo c.d. ‘materiale’) è necessario acquisire un
sufficiente quadro indiziario dal quale sia possibile
desumere in maniera non equivoca la destinazione a scopo
edificatorio degli atti posti in essere, con conseguente
giustificazione del provvedimento repressivo a fronte della
dimostrazione della sussistenza di elementi precisi e
univoci (in tal senso –ex multis-: Cons. Stato, V,
27.03.2013, n. 1809; in termini analoghi: Cons. Stato, V,
03.08.2012, n. 4429).
3.3. A loro volta, i primi Giudici hanno correttamente
richiamato l’orientamento secondo cui, affinché si
concretizzi l’illecito della lottizzazione abusiva in senso
materiale, è sufficiente la realizzazione di qualsiasi tipo
di opere in concreto idonee a stravolgere l’assetto del
territorio preesistente e quindi, in ultima analisi, a
determinare sia un concreto ostacolo alla futura attività di
programmazione (che viene posta di fronte al fatto
compiuto), sia un carico urbanistico aggiuntivo che
necessità di adeguamento degli standard.
Tuttavia, nonostante i primi Giudici abbiano preso le mosse
dall’enunciazione di consolidati principi di diritto, sono
nondimeno pervenuti a conclusioni non condivisibili in
relazione alle concrete vicende di causa
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza
07.08.2015 n. 3911 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’installazione di una sbarra metallica, per la
sua entità e tipologia, deve ricondursi negli interventi di
«manutenzione ordinaria» per i quali non è richiesto alcun
titolo abilitativo.
... per la riforma della sentenza 26.05.2014, n. 5554 del
Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, Roma,
Sezione I-quater;
...
1.– La A.i. s.p.a., proprietaria di un immobile adibito ad
ufficio sito in una strada privata, ha installato, con due
paletti in ferro, una sbarra di metallo.
Il Comune di Roma, con determinazione 14.05.2009, n. 1067,
ha contestato l’abusività dell’intervento perché realizzato
senza che la società abbia presentato la dichiarazione di
inizio attività e ha, conseguentemente, irrogato, previa
richiesta di determinazione della somma dovuta all’Agenzia
del territorio competente, la sanzione pecuniaria di euro
44.412,00.
La società ha impugnato la suddetta determinazione innanzi
al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio,
deducendo la violazione:
i) degli articoli 2, 3 e 10-bis della legge 07.08.1990 n.
241, nonché eccesso di potere, per non avere
l’amministrazione comunale tenuto conto della richiesta di
autorizzazione che la società aveva presentato in data
09.06.2003;
ii) dell’art. 22 del decreto del Presidente della Repubblica
06.06.2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni
legislative e regolamentari in materia edilizia) e dell’art.
19 della legge n. 241 del 1990, in quanto l’istallazione di
una sbarra metallica rientrerebbe nell’ambito dell’attività
edilizia libera;
iii) degli articoli 22 e 37 del d.p.r. n. 380 del 2001, per
erroneità nella determinazione dell’entità della sanzione da
corrispondere.
2.– Il Tribunale amministrativo, con sentenza 26.05.2014, n.
5554, ha rigettato il ricorso, ritenendo che, venendo in
rilievo interventi consistenti nella «delimitazione
dell’ultimo tratto di strada con sbarra in ferro bloccata
con lucchetti di sicurezza e fissata al suolo a mezzo di
pali murati, con lo scopo di realizzare un parcheggio
privato», sarebbe necessario il titolo edilizio
richiesto dal Comune.
3.– La ricorrente in primo grado ha proposto appello
rilevando come lo scopo della sbarra fosse esclusivamente
quello di «controllare l’accesso e la sosta di terzi»
nella propria proprietà, come risulterebbe anche dalla
richiesta di autorizzazione all’istallazione presentata
dalla società stessa nel 2003. Si è, inoltre, fatta valere
l’erroneità della sentenza per la mancata pronuncia in
ordine agli altri motivi del ricorso introduttivo del
giudizio che vengono riproposti in appello.
...
5.– L’appello è fondato.
6.– Il d.p.r. n. 380 del 2001, nell’individuare le forme di
intervento pubblico richieste ai fini dell’effettuazione di
interventi edilizi sul territorio, distingue tra: i)
interventi per i quali non è necessario ottenere un titolo
abilitativo venendo in rilievo una attività edilizia libera
(art. 6); ii) interventi subordinati al rilascio di un
permesso di costruire (art. 10); iii) interventi subordinati
a denuncia di inizio attività (art. 22).
Nell’ambito dell’attività edilizia libera l’art. 6 indica «gli
interventi di manutenzione ordinaria».
7.– Nel caso in esame risulta che l’appellante ha
installato, nel terreno di propria proprietà, una sbarra
metallica.
Tale tipologia di intervento, per la sua entità e tipologia,
deve ricondursi in quelli di «manutenzione ordinaria»
per i quali non è richiesto alcun titolo abilitativo (cfr.
Cons. Stato, sez. VI, 20.11.2013, n.5513). A ciò si aggiunga
che la società aveva comunque chiesto, nel 2003,
l’autorizzazione all’istallazione della predetta sbarra
senza che il Comune avesse mai adottato alcun provvedimento.
Né ad una diversa conclusione può giungersi in ragione della
finalità, valorizzata nella sentenza impugnata, di
realizzare un parcheggio. Questo dato non è stato, infatti,
oggetto di puntuale dimostrazione da parte delle autorità
preposte alla vigilanza del territorio.
E’ bene aggiungere che qualora la società dovesse
effettivamente provvedere a cambiare destinazione all’area
il Comune rimane titolare dei poteri di controllo e
sanzionatori previsti dalla legge di disciplina della
materia
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza
07.08.2015 n. 3898 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sale giochi, gli enti espropriano.
Immobili confiscabili se i proprietari sono rimasti inerti.
Cds: la mancata impugnazione dell'ordine di ripristino
preclude il ricorso contro la confisca.
Il comune può espropriare l'immobile dato in locazione da un
privato a una sala giochi se la presenza di slot machine e
videolottery non è consentita dal regolamento comunale e i
proprietari non hanno ottemperato all'ordinanza di
ripristino dello stato dei luoghi. Questa inerzia, da parte
dei proprietari, di fronte all'ordine comunale di
demolizione delle opere abusive (atto presupposto rispetto
all'acquisizione dell'immobile nel patrimonio dell'ente)
rende inammissibile il successivo ricorso contro il
provvedimento di «esproprio».
È quanto deciso dal Consiglio
di Stato -Sez. VI- nella
sentenza
07.08.2015 n. 3897.
I giudici di palazzo Spada hanno confermato la sentenza di
primo grado del Tar Emilia-Romagna (sezione di Parma) che a
sua volta aveva dichiarato inammissibile il ricorso per le
stesse ragioni, ossia per la mancata impugnazione
dell'ordinanza comunale di ripristino dei luoghi da parte
dei proprietari. I quali, secondo il Tar, non potevano
difendersi osservando che gli abusi erano stati commessi
dalla società locataria dell'immobile. Infatti, hanno
osservato i giudici del Tar, «l'estraneità del proprietario
rispetto agli abusi del conduttore può ritenersi solo quando
questi si sia attivato per impedire o eliminare l'abuso». E
il principio è stato ribadito dal Consiglio di stato.
Il fatto. Nel caso di specie, l'immobile (158 mq al piano
terra di un fabbricato di sei piani), destinato a pubblico
esercizio, era stato locato per somministrazione di bevande
e sala giochi, ma successivamente il comune di Reggio Emilia
aveva espresso dubbi sulla compatibilità edilizia delle videolottery con la variante del regolamento edilizio che
impediva di collocare le apparecchiature nelle vicinanze di
residenze e istituti scolastici. Di qui l'ordinanza di
ripristino dei luoghi che però veniva impugnata solo dalla
società conduttrice ma non dai proprietari dell'immobile con
la conseguente acquisizione del bene al patrimonio del
comune.
La decisione. «Nella fattispecie», scrivono i giudici di
palazzo Spada, «la comunicazione di avvio del procedimento è
stata notificata sia alla società locataria che ai
proprietari», i quali però non hanno ritenuto di depositare
alcuna memoria difensiva con la conseguenza che per loro
l'ordinanza di ripristino è divenuta inoppugnabile. Ne
consegue, osserva il Cds, che i proprietari non possono ora
eccepire eccezioni quali «la precedenza della locazione
rispetto alla variante di regolamento edilizio, la
sproporzione della sanzione comminata per l'abusività
edilizia rispetto al caso dell'installazione di macchine da
videogiochi, la illogicità della disposizione
regolamentare», e così via perché la sede naturale per
proporre tali doglianze sarebbe stata l'impugnativa
dell'ordinanza comunale.
Né, ha proseguito il Supremo consesso amministrativo, i
proprietari possono ora dichiararsi estranei agli abusi
commessi dal locatario se non hanno dimostrato «un
comportamento attivo, tale da estrinsecarsi in diffide o
altre iniziative di carattere ultimativo, anche sul piano
della risoluzione contrattuale, nei confronti del
conduttore, autore dell'illecito edilizio».
«Al contrario»,
conclude il Cds, «un comportamento meramente passivo di
adesione alle iniziative comunali, con mere dichiarazioni o
affermazioni solo di dissociazione o manifestazioni di
intenti, senza alcuna attività materiale o almeno giuridica
di attivazione diretta ad eliminare l'abuso (per esempio,
risoluzione giudiziaria per inadempimento, diffida ad
eliminare l'abuso, attività di ripristino, a maggior ragione
se l'ordine non viene contestato), non sono sufficienti a
dimostrare l'estraneità del proprietario, in quanto,
altrimenti, la tutela degli abusi rimarrebbe inefficace»
(articolo ItaliaOggi del 13.08.2015).
---------------
MASSIMA
A prescindere dall’esame dei rilievi di inammissibilità
dell’appello, lo stesso è infondato, non essendo riuscito a
sovvertire -in realtà neanche potendo contestare più di
tanto, attesa l’evidenza della circostanza- la pronuncia del
giudice di primo grado che, chiaramente, ha sottolineato
come la impugnativa dell’atto di
acquisizione, in relazione alle proposte censure, sia
inammissibile, in caso di mancata impugnazione dell’atto
presupposto, consistente nell’ordine di ripristino e
demolizione, comunicato sia al conduttore che al
proprietario.
Nella fattispecie, in fatto, la comunicazione di avvio del
procedimento è stata notificata sia alla società locataria
che ai proprietari; i proprietari non hanno ritenuto di
depositare alcuna memoria difensiva, a differenza di quanto
fatto dalla locataria; l’ordinanza di ripristino è stata
impugnata soltanto dalla società locataria e quindi è
divenuta inoppugnabile per i proprietari; tali aspetti di
fatto, ben evidenziati dalla difesa comunale, non sono
contestati dalla parte appellante.
Le censure svolte avverso l’atto di acquisizione non
censurano tale atto, in sé considerato, per vizi autonomi,
ma contestano aspetti che avrebbero dovuto essere dedotti
con impugnativa avverso gli atti presupposti, nella parte in
cui viene contestata la precedenza della locazione rispetto
alla variante di regolamento edilizio, la sproporzione della
sanzione comminata per l’abusività edilizia rispetto al caso
della installazione di macchine da videogiochi, la
illogicità della disposizione regolamentare.
In sostanza, va confermata la sentenza, che ha dichiarato
l’inammissibilità del ricorso in quanto, in relazione alle
censure proposte fin dal primo grado, non è stata impugnata
l’ordinanza di demolizione, presupposta rispetto all’atto di
acquisizione e qualificante le (qui in sostanza contestate)
natura e configurabilità dell’illecito, in guisa tale da
divenire incontestabili se non impugnato l’atto (ordinanza)
che ne conteneva, appunto, l’accertamento.
Per completezza -pur rilevando ancora una volta come le
doglianze di parte appellante si siano appuntate solo
avverso l’acquisizione– si osserva che,
anche rispetto alla tesi della estraneità del proprietario
incolpevole rispetto agli abusi commessi dal locatario, la
giurisprudenza della Sezione ha chiarito come sia necessario
che questi provi la intrapresa di iniziative che, oltre a
rendere palese la sua estraneità all’abuso, dimostri anche
un comportamento attivo, da estrinsecarsi in diffide o altre
iniziative di carattere ultimativo, anche sul piano della
risoluzione contrattuale, nei confronti del conduttore
autore dell’illecito edilizio.
Al contrario, un comportamento meramente
passivo di adesione alle iniziative comunali, con mere
dichiarazioni o affermazioni solo di dissociazione o
manifestazioni di intenti, senza alcuna attività materiale o
almeno giuridica di attivazione diretta ad eliminare l’abuso
(per esempio, risoluzione giudiziaria per inadempimento,
diffida ad eliminare l’abuso, attività di ripristino, a
maggior ragione se l’ordine non viene contestato), non sono
sufficienti a dimostrare l’estraneità del proprietario, in
quanto, altrimenti, la tutela degli abusi rimarrebbe
inefficace (così,
tra varie, Cons. Stato, VI, 04.05.2015, n. 2211). |
EDILIZIA PRIVATA: La
impugnativa dell’atto di acquisizione al patrimonio comunale
(di immobile a seguito di abuso edilizio) è inammissibile in
caso di mancata impugnazione dell’atto presupposto,
consistente nell’ordine di ripristino e demolizione,
comunicato sia al conduttore che al proprietario.
---------------
Anche rispetto alla tesi della estraneità del proprietario
incolpevole rispetto agli abusi commessi dal locatario, la
giurisprudenza della Sezione ha chiarito come sia necessario
che questi provi la intrapresa di iniziative che, oltre a
rendere palese la sua estraneità all’abuso, dimostri anche
un comportamento attivo, da estrinsecarsi in diffide o altre
iniziative di carattere ultimativo, anche sul piano della
risoluzione contrattuale, nei confronti del conduttore
autore dell’illecito edilizio.
Al contrario, un comportamento meramente passivo di adesione
alle iniziative comunali, con mere dichiarazioni o
affermazioni solo di dissociazione o manifestazioni di
intenti, senza alcuna attività materiale o almeno giuridica
di attivazione diretta ad eliminare l’abuso (per esempio,
risoluzione giudiziaria per inadempimento, diffida ad
eliminare l’abuso, attività di ripristino, a maggior ragione
se l’ordine non viene contestato), non sono sufficienti a
dimostrare l’estraneità del proprietario, in quanto,
altrimenti, la tutela degli abusi rimarrebbe inefficace.
... per la riforma della sentenza breve del TAR
EMILIA-ROMAGNA - SEZ. STACCATA DI PARMA: SEZIONE I n.
70/2014, resa tra le parti, concernente acquisizione al
patrimonio comunale di un immobile a seguito di un abuso
edilizio.
...
A prescindere dall’esame dei rilievi di inammissibilità
dell’appello, lo stesso è infondato, non essendo riuscito a
sovvertire -in realtà neanche potendo contestare più di
tanto, attesa l’evidenza della circostanza- la pronuncia del
giudice di primo grado che, chiaramente, ha sottolineato
come la impugnativa dell’atto di acquisizione, in relazione
alle proposte censure, sia inammissibile, in caso di mancata
impugnazione dell’atto presupposto, consistente nell’ordine
di ripristino e demolizione, comunicato sia al conduttore
che al proprietario.
Nella fattispecie, in fatto, la comunicazione di avvio del
procedimento è stata notificata sia alla società locataria
che ai proprietari; i proprietari non hanno ritenuto di
depositare alcuna memoria difensiva, a differenza di quanto
fatto dalla locataria; l’ordinanza di ripristino è stata
impugnata soltanto dalla società locataria e quindi è
divenuta inoppugnabile per i proprietari; tali aspetti di
fatto, ben evidenziati dalla difesa comunale, non sono
contestati dalla parte appellante.
Le censure svolte avverso l’atto di acquisizione non
censurano tale atto, in sé considerato, per vizi autonomi,
ma contestano aspetti che avrebbero dovuto essere dedotti
con impugnativa avverso gli atti presupposti, nella parte in
cui viene contestata la precedenza della locazione rispetto
alla variante di regolamento edilizio, la sproporzione della
sanzione comminata per l’abusività edilizia rispetto al caso
della installazione di macchine da videogiochi, la
illogicità della disposizione regolamentare.
In sostanza, va confermata la sentenza, che ha dichiarato
l’inammissibilità del ricorso in quanto, in relazione alle
censure proposte fin dal primo grado, non è stata impugnata
l’ordinanza di demolizione, presupposta rispetto all’atto di
acquisizione e qualificante le (qui in sostanza contestate)
natura e configurabilità dell’illecito, in guisa tale da
divenire incontestabili se non impugnato l’atto (ordinanza)
che ne conteneva, appunto, l’accertamento.
Per completezza -pur rilevando ancora una volta come le
doglianze di parte appellante si siano appuntate solo
avverso l’acquisizione– si osserva che, anche rispetto alla
tesi della estraneità del proprietario incolpevole rispetto
agli abusi commessi dal locatario, la giurisprudenza della
Sezione ha chiarito come sia necessario che questi provi la
intrapresa di iniziative che, oltre a rendere palese la sua
estraneità all’abuso, dimostri anche un comportamento
attivo, da estrinsecarsi in diffide o altre iniziative di
carattere ultimativo, anche sul piano della risoluzione
contrattuale, nei confronti del conduttore autore
dell’illecito edilizio.
Al contrario, un comportamento meramente passivo di adesione
alle iniziative comunali, con mere dichiarazioni o
affermazioni solo di dissociazione o manifestazioni di
intenti, senza alcuna attività materiale o almeno giuridica
di attivazione diretta ad eliminare l’abuso (per esempio,
risoluzione giudiziaria per inadempimento, diffida ad
eliminare l’abuso, attività di ripristino, a maggior ragione
se l’ordine non viene contestato), non sono sufficienti a
dimostrare l’estraneità del proprietario, in quanto,
altrimenti, la tutela degli abusi rimarrebbe inefficace
(così, tra varie, Cons. Stato, VI, 04.05.2015, n.2211)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza
07.08.2015 n. 3897 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L’esclusione da una gara d’appalto consegue ad
ogni qualsivoglia dichiarazione non veritiera resa
dall’operatore economico, a prescindere dal dolo o dalla
colpa grave, non residuando margini di discrezionalità in
capo alla stazione appaltante.
La necessità dell’esclusione si ricava, infatti, da una
lettura comparata dell’art. 38 codice appalti con l’art. 75
d.P.R. 28.12.2000, n. 445, secondo cui «il dichiarante
decade dai benefici eventualmente conseguenti al
provvedimento emanato sulla base della dichiarazione non
veritiera».
La norma menzionata pone in stretta correlazione la non
veridicità del contenuto della dichiarazione con i benefici
eventualmente conseguenti al provvedimento emanato sulla
base della medesima dichiarazione.
Nel caso in esame, il beneficio derivante da una
dichiarazione sostitutiva sui requisiti minimi richiesti nel
bando, da parte di un concorrente, è connesso alla sua
domanda di partecipazione alla gara: pertanto, la decadenza
da tale beneficio comporta necessariamente l’esclusione dei
concorrente.
Inoltre, l’art. 75 d.P.R. n. 445/2000 non richiede alcuna
valutazione, da parte della stazione appaltante, circa il
dolo o la colpa grave del dichiarante, poiché la non
veridicità di quanto autodichiarato rileva sotto un profilo
oggettivo e conduce alla decadenza dei benefici ottenuti con
l’autodichiarazione non veritiera, indipendentemente da ogni
indagine della pubblica amministrazione sull’elemento
soggettivo del dichiarante.
Inoltre, deve esser ribadito il carattere di «ordine
pubblico-economico» delle disposizioni di cui all’art. 38,
con la conseguente impossibilità di integrazione postuma
della mancata dichiarazione del pregiudizio penale e
l’ulteriore conseguenza dell’esclusione dalla gara.
Ancora di recente, la Sezione ha ribadito che nelle gare
pubbliche la completezza e la veridicità (sotto il profilo
della puntuale indicazione di tutte le condanne riportate)
della dichiarazione sostitutiva di notorietà ex art. 38,
d.lgs. 12.04.2006, n. 163, rappresentano lo strumento
indispensabile, adeguato e ragionevole, per contemperare i
contrapposti interessi in conflitto, quello dei concorrenti
alla semplificazione e all'economicità del procedimento di
gara (a non essere, in particolare, assoggettati ad una
serie di adempimenti gravosi, anche sotto il profilo
strettamente economico, come la prova documentale di stati e
di qualità personali, che potrebbero risultare inutili o
ininfluenti) e quello pubblico, delle amministrazioni
appaltanti, di poter verificare con immediatezza e
tempestività se ricorrono ipotesi di condanne per reati
gravi che incidono sulla moralità professionale, potendo
così evitarsi ritardi e rallentamenti nello svolgimento
della procedura ad evidenza pubblica di scelta del
contraente, così realizzando quanto più celermente possibile
l'interesse pubblico perseguito con la gara di appalto.
---------------
Alla stregua dei consolidati principi in tema di
dichiarazione dei requisiti per la partecipazione a gare
d'appalto:
a) la valutazione della gravità delle condanne riportate dai
concorrenti e la loro incidenza sulla moralità professionale
spetta esclusivamente alla stazione appaltante e non già ai
concorrenti, i quali sono tenuti ad indicare tutte le
condanne riportate, non potendo essi operare alcun filtro,
ciò implicando un giudizio meramente soggettivo
inconciliabile con la ratio della norma;
b) la completezza e la veridicità (sotto il profilo della
puntuale indicazione di tutte le condanne riportate) della
dichiarazione sostitutiva di notorietà rappresentano lo
strumento indispensabile, adeguato e ragionevole, per
contemperare i contrapposti interessi in conflitto, quello
dei concorrenti alla semplificazione e all'economicità del
procedimento di gara (a non essere, in particolare,
assoggettati ad una serie di adempimenti gravosi, anche
sotto il profilo strettamente economico, come la prova
documentale di stati e di qualità personali, che potrebbero
risultare inutili o ininfluenti) e quello pubblico, delle
amministrazioni appaltanti, di poter verificare con
immediatezza e tempestività se ricorrono ipotesi di condanne
per reati gravi che incidono sulla moralità professionale,
potendo così evitarsi ritardi e rallentamenti nello
svolgimento della procedura ad evidenza pubblica di scelta
del contraente, così realizzando quanto più celermente
possibile l'interesse pubblico perseguito con la gara di
appalto, così che la sola mancata dichiarazione dei
precedenti penali o di anche solo taluno di essi,
indipendentemente da ogni giudizio sulla loro gravità, rende
legittima l'esclusione dalla gara;
c) anche in assenza di un'espressa comminatoria nella lex
specialis, stante la eterointegrazione con la norma di
legge, l'inosservanza dell'obbligo di rendere al momento
della presentazione della domanda di partecipazione le
dovute dichiarazioni previste dall'art. 38 del D.lgs. n. 163
del 2006 comporta l'esclusione del concorrente, senza che
sia consentito alla stazione appaltante disporne la
regolarizzazione o l'integrazione, non trattandosi di
irregolarità, vizio o dimenticanza di carattere puramente
formale;
d) in caso di mancata dichiarazione di precedenti penali non
può operare il principio del c.d. falso innocuo, laddove si
tratti di assenza di dichiarazioni previste dalla legge e
dal bando di gara a pena di esclusione, con la precisazione
che solo se la dichiarazione sia resa sulla base di modelli
predisposti dalla stazione appaltante ed il concorrente
incorra in errore indotto dalla formulazione ambigua o
equivoca del bando non può determinarsi l'esclusione dalla
gara per l'incompletezza della dichiarazione resa;
e) quanto all'estinzione del reato (che consente di non
dichiarare l'emanazione del relativo provvedimento di
condanna), essa sotto il profilo giuridico non è automatica
per il mero decorso del tempo, ma deve essere formalizzata
in una pronuncia espressa del giudice dell'esecuzione
penale, che è l'unico soggetto al quale l'ordinamento
attribuisce il compito di verificare la sussistenza dei
presupposti e delle condizioni per la relativa declaratoria,
con la conseguenza che, fino a quando non intervenga tale
provvedimento giurisdizionale, non può legittimamente
parlarsi di «reato estinto».
---------------
L'esclusione di un'impresa dalla procedura di aggiudicazione
di un appalto pubblico per la mancata allegazione della
dichiarazione attestante l'assenza di procedimenti o
condanne penali a carico del direttore tecnico, prevista
dall'art. 38 d.lgs. n. 163-2006, cosiddetto codice dei
contratti pubblici, è legittima e compatibile con la
direttiva appalti n. 2004/18/CE (rilevante ratione temporis
in questo giudizio), e l'esclusione non può nemmeno essere
evitata con la produzione della documentazione in un momento
successivo.
Il principio di parità di trattamento e l'obbligo di
trasparenza, infatti, obbligano l'Amministrazione ad
escludere dall'appalto un operatore che non abbia comunicato
un documento o una informazione la cui produzione era
prevista a pena di esclusione.
2. Ritiene il
Collegio, nel merito, che l’appello sia infondato.
Occorre, infatti, osservare che l’esclusione da una gara
d’appalto consegue ad ogni qualsivoglia dichiarazione non
veritiera resa dall’operatore economico, a prescindere dal
dolo o dalla colpa grave, non residuando margini di
discrezionalità in capo alla stazione appaltante.
La necessità dell’esclusione si ricava, infatti, da una
lettura comparata dell’art. 38 codice appalti con l’art. 75
d.P.R. 28.12.2000, n. 445, secondo cui «il
dichiarante decade dai benefici eventualmente conseguenti al
provvedimento emanato sulla base della dichiarazione non
veritiera».
La norma menzionata pone in stretta correlazione la non
veridicità del contenuto della dichiarazione con i benefici
eventualmente conseguenti al provvedimento emanato sulla
base della medesima dichiarazione.
Nel caso in esame, il beneficio derivante da una
dichiarazione sostitutiva sui requisiti minimi richiesti nel
bando, da parte di un concorrente, è connesso alla sua
domanda di partecipazione alla gara: pertanto, la decadenza
da tale beneficio comporta necessariamente l’esclusione dei
concorrente.
Inoltre, l’art. 75 d.P.R. n. 445/2000 non richiede alcuna
valutazione, da parte della stazione appaltante, circa il
dolo o la colpa grave del dichiarante, poiché la non
veridicità di quanto autodichiarato rileva sotto un profilo
oggettivo e conduce alla decadenza dei benefici ottenuti con
l’autodichiarazione non veritiera, indipendentemente da ogni
indagine della pubblica amministrazione sull’elemento
soggettivo del dichiarante (cfr., per tutte, Consiglio di
Stato, sez. VI, 06.04.2010, n. 1909).
Inoltre, deve esser ribadito il carattere di «ordine
pubblico-economico» delle disposizioni di cui all’art. 38,
con la conseguente impossibilità di integrazione postuma
della mancata dichiarazione del pregiudizio penale e
l’ulteriore conseguenza dell’esclusione dalla gara (cfr.,
per tutte, Consiglio di Stato, sez. V, 10.05.2012, n.
2702).
Ancora di recente, la Sezione (cfr. Consiglio di Stato, sez.
V, 03.12.2014, n. 5972) ha ribadito che nelle gare
pubbliche la completezza e la veridicità (sotto il profilo
della puntuale indicazione di tutte le condanne riportate)
della dichiarazione sostitutiva di notorietà ex art. 38,
d.lgs. 12.04.2006, n. 163, rappresentano lo strumento
indispensabile, adeguato e ragionevole, per contemperare i
contrapposti interessi in conflitto, quello dei concorrenti
alla semplificazione e all'economicità del procedimento di
gara (a non essere, in particolare, assoggettati ad una
serie di adempimenti gravosi, anche sotto il profilo
strettamente economico, come la prova documentale di stati e
di qualità personali, che potrebbero risultare inutili o
ininfluenti) e quello pubblico, delle amministrazioni
appaltanti, di poter verificare con immediatezza e
tempestività se ricorrono ipotesi di condanne per reati
gravi che incidono sulla moralità professionale, potendo
così evitarsi ritardi e rallentamenti nello svolgimento
della procedura ad evidenza pubblica di scelta del
contraente, così realizzando quanto più celermente possibile
l'interesse pubblico perseguito con la gara di appalto.
3. Pertanto, alla stregua dei consolidati principi in tema
di dichiarazione dei requisiti per la partecipazione a gare
d'appalto (come da ultimo puntualizzati in Consiglio di
Stato, sez. V, 05.09.2014, n. 4528):
a) la valutazione della gravità delle condanne riportate dai
concorrenti e la loro incidenza sulla moralità professionale
spetta esclusivamente alla stazione appaltante e non già ai
concorrenti, i quali sono tenuti ad indicare tutte le
condanne riportate, non potendo essi operare alcun filtro,
ciò implicando un giudizio meramente soggettivo
inconciliabile con la ratio della norma (ex pluribus, Cons.
St., sez. V, 17.06.2014, n. 3092; 24.03.2014, n.
1428; 27.01.2014, n. 400; 06.03.2013, n. 1378; sez. IV, 22.03.2012, n. 1646; 19.02.2009, n. 740);
b) la completezza e la veridicità (sotto il profilo della
puntuale indicazione di tutte le condanne riportate) della
dichiarazione sostitutiva di notorietà rappresentano lo
strumento indispensabile, adeguato e ragionevole, per
contemperare i contrapposti interessi in conflitto, quello
dei concorrenti alla semplificazione e all'economicità del
procedimento di gara (a non essere, in particolare,
assoggettati ad una serie di adempimenti gravosi, anche
sotto il profilo strettamente economico, come la prova
documentale di stati e di qualità personali, che potrebbero
risultare inutili o ininfluenti) e quello pubblico, delle
amministrazioni appaltanti, di poter verificare con
immediatezza e tempestività se ricorrono ipotesi di condanne
per reati gravi che incidono sulla moralità professionale,
potendo così evitarsi ritardi e rallentamenti nello
svolgimento della procedura ad evidenza pubblica di scelta
del contraente, così realizzando quanto più celermente
possibile l'interesse pubblico perseguito con la gara di
appalto (Cons. St., sez. V, 1378 del 06.03.2013; sez. VI,
10.12.2012, n. 6291; sez. III, 17.08.2011, n.
4792), così che la sola mancata dichiarazione dei precedenti
penali o di anche solo taluno di essi, indipendentemente da
ogni giudizio sulla loro gravità, rende legittima
l'esclusione dalla gara (Cons. St., sez. IV, 28.03.2012,
n. 1646; sez. VI, 02.05.2012, n. 2597);
c) anche in assenza di un'espressa comminatoria nella lex
specialis, stante la eterointegrazione con la norma di
legge, l'inosservanza dell'obbligo di rendere al momento
della presentazione della domanda di partecipazione le
dovute dichiarazioni previste dall'art. 38 del D.lgs. n.
163 del 2006 comporta l'esclusione del concorrente, senza
che sia consentito alla stazione appaltante disporne la
regolarizzazione o l'integrazione, non trattandosi di
irregolarità, vizio o dimenticanza di carattere puramente
formale (Cons. St., sez. III, 02.07.2013, n. 3550; 14.12.2011, n. 6569);
d) in caso di mancata dichiarazione di precedenti penali non
può operare il principio del c.d. falso innocuo, laddove si
tratti di assenza di dichiarazioni previste dalla legge e
dal bando di gara a pena di esclusione (Cons. St., sez. V,
27.12.2013, n. 6271), con la precisazione che solo se
la dichiarazione sia resa sulla base di modelli predisposti
dalla stazione appaltante ed il concorrente incorra in
errore indotto dalla formulazione ambigua o equivoca del
bando non può determinarsi l'esclusione dalla gara per
l'incompletezza della dichiarazione resa (Cons. St., sez, III,
04.02.2014, n. 507);
e) quanto all'estinzione del reato (che consente di non
dichiarare l'emanazione del relativo provvedimento di
condanna), essa sotto il profilo giuridico non è automatica
per il mero decorso del tempo, ma deve essere formalizzata
in una pronuncia espressa del giudice dell'esecuzione
penale, che è l'unico soggetto al quale l'ordinamento
attribuisce il compito di verificare la sussistenza dei
presupposti e delle condizioni per la relativa declaratoria,
con la conseguenza che, fino a quando non intervenga tale
provvedimento giurisdizionale, non può legittimamente
parlarsi di «reato estinto» (ex multis, Cons. Stato, sez. V,
17.06.2014, n. 3092; 13.12.2012, n. 6393; 24.03.2011, n. 1800).
4. Infine, l'esclusione di un'impresa dalla procedura di
aggiudicazione di un appalto pubblico per la mancata
allegazione della dichiarazione attestante l'assenza di
procedimenti o condanne penali a carico del direttore
tecnico, prevista dall'art. 38 d.lgs. n. 163/2006,
cosiddetto codice dei contratti pubblici, è legittima e
compatibile con la direttiva appalti n. 2004/18/CE
(rilevante ratione temporis in questo giudizio), e
l'esclusione non può nemmeno essere evitata con la
produzione della documentazione in un momento successivo
(cfr. Corte di Giustizia UE, sez. X, 06.11.2014, n.
42/2013).
Il principio di parità di trattamento e l'obbligo di
trasparenza, infatti, obbligano l'Amministrazione ad
escludere dall'appalto un operatore che non abbia comunicato
un documento o una informazione la cui produzione era
prevista a pena di esclusione.
Infine, non può ritenersi fondata la doglianza relativa alla
circostanza che la stazione appaltante abbia aggiudicato
altre gare alla ricorrente senza rilevare la condanna emersa
a carico del direttore tecnico nella procedura, atteso che
sono irrilevanti in questa sede le vicende che hanno
riguardato la partecipazione ad altre gare: da esse non può
certo dedursi un legittimo affidamento alla partecipazione
alla gara qui in contestazione
(Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 07.08.2015 n. 3884 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
E' legittima la clausola,
contenuta in atti di indizione di procedure di affidamento
di appalti pubblici, che preveda l'escussione della cauzione
provvisoria anche nei confronti di imprese non risultate
aggiudicatarie, ma solo concorrenti, in caso di riscontrata
assenza del possesso dei requisiti di carattere generale di
cui all'art. 38 del codice dei contratti pubblici, approvato
con d.lgs. 12.04.2006, n. 163.
- Considerato che, stante il rigetto dell’appello principale
(e anche della correlata istanza risarcitoria, che non ha
alcun fondamento), deve essere valutato quello incidentale
proposto da Consip s.p.a. limitatamente all’annullamento
della nota del 18.09.2014 di escussione della
cauzione provvisoria.
- Considerato che la nota de qua, di escussione della
cauzione provvisoria, appare del tutto coerente con il
principio stabilito da Consiglio di Stato, ad. plen.,
10.12.2014 n. 34, dove si è affermata la legittimità della
clausola, contenuta in atti di indizione di procedure di
affidamento di appalti pubblici, che preveda l'escussione
della cauzione provvisoria anche nei confronti di imprese
non risultate aggiudicatarie, ma solo concorrenti, in caso
di riscontrata assenza del possesso dei requisiti di
carattere generale di cui all'art. 38 del codice dei
contratti pubblici, approvato con d.lgs. 12.04.2006, n. 163.
- Considerato che, pertanto, la pronuncia del TAR si è posta
in contrasto con l’orientamento affermatosi, seppur
successivamente, in giurisprudenza e deve quindi essere
annullata, con accoglimento dell’appello incidentale (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 04.08.2015 n. 3857 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
La scansione dei tempi
verificatisi non appare irragionevole, quanto meno riguardo
alla fase di espletamento della gara in senso stretto (dal
14.02.2013, giorno dell’insediamento della commissione di
gara, al 14.05.2013, data dell’aggiudicazione provvisoria).
Peraltro, proprio questa è la fase che viene in
considerazione quando si afferma che le garanzie di
imparzialità, pubblicità, trasparenza e speditezza
dell'azione amministrativa postulano che le sedute di una
commissione di gara debbano ispirarsi al principio di
concentrazione e continuità.
Discende da questa premessa la conclusione che, di regola,
la valutazione delle offerte tecniche ed economiche debba
avvenire in una sola seduta, senza soluzione di continuità,
al fine di scongiurare possibili influenze esterne ed
assicurare l'assoluta indipendenza di giudizio dell'organo
incaricato della valutazione stessa.
Nel caso di specie, d’altronde, occorreva anche tenere conto
dell’esigenza di procedere alla verifica dell’anomalia
dell’offerta, cioè della necessità di svolgere un incombente
che -anche per la mancanza di limitazioni prefissate al
potere di verifica della stazione appaltante- può condurre
ad una dilatazione della tempistica di espletamento delle
operazioni di gara, senza che tale evento possa implicare
illegittimità della procedura.
Una volta conclusa la fase della valutazione e dunque con
l’aggiudicazione provvisoria, in ogni caso, quel principio
cessa di avere rilievo.
1. Il primo motivo
dell’appello censura la violazione del principio di
concentrazione e continuità delle operazioni della gara,
bandita il 18.12.2012 e conclusasi con l’aggiudicazione
definitiva solo l’08.05.2014.
Sebbene tendenziale, tale principio potrebbe essere derogato
solo per ragioni oggettive, insussistenti nella fattispecie.
Inoltre, il decorso del tempo avrebbe reso parzialmente
inutile il servizio aggiudicato, posto che -a seguito di una
procedura indetta dall’Area Vasta Tarantina, di cui fa parte
il Comune di Pulsano- il 02.05.2013 (cioè quasi alla vigilia
dell’aggiudicazione provvisoria del successivo 14 maggio)
sarebbe stato stipulato un contratto per l’affidamento del
servizio di attuazione del progetto di sviluppo del sistema
di e-government regionale, dal contenuto in buona parte
comprensivo delle prestazioni dedotte nell’appalto
controverso. Infine, all’interno del periodo indicato (il
28.06.2013), l’amministratore unico della C. sarebbe
stato sottoposto a custodia cautelare perché imputato di
reati commessi nell’espletamento della gara d’appalto per il
servizio di riscossione dei tributi nel Comune di
Marignanella.
1.2. Il motivo è infondato.
A parte il carattere eminentemente tendenziale del principio
che viene evocato, la scansione dei tempi non appare
irragionevole, quanto meno riguardo alla fase di
espletamento della gara in senso stretto (dal 14.02.2013,
giorno dell’insediamento della commissione di gara, al
14.05.2013, data dell’aggiudicazione provvisoria).
Peraltro, proprio questa è la fase che viene in
considerazione quando si afferma che le garanzie di
imparzialità, pubblicità, trasparenza e speditezza
dell'azione amministrativa postulano che le sedute di una
commissione di gara debbano ispirarsi al principio di
concentrazione e continuità.
Discende da questa premessa la conclusione che, di regola,
la valutazione delle offerte tecniche ed economiche debba
avvenire in una sola seduta, senza soluzione di continuità,
al fine di scongiurare possibili influenze esterne ed
assicurare l'assoluta indipendenza di giudizio dell'organo
incaricato della valutazione stessa (cfr. da ultimo Cons.
Stato, sez. V, 22.01.2015, n. 257).
Nel caso di specie, d’altronde, occorreva anche tenere conto
dell’esigenza di procedere alla verifica dell’anomalia
dell’offerta della C., cioè della necessità di
svolgere un incombente che -anche per la mancanza di
limitazioni prefissate al potere di verifica della stazione
appaltante (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 24.08.2011, n. 4801)-
può condurre ad una dilatazione della tempistica di
espletamento delle operazioni di gara, senza che tale evento
possa implicare illegittimità della procedura (cfr. Cons.
Stato, sez. IV, 22.11.2013, n. 5542).
Una volta conclusa la fase della valutazione e dunque con
l’aggiudicazione provvisoria, in ogni caso, quel principio
cessa di avere rilievo.
Nessuno può negare che, nella vicenda controversa, la fase
successiva (dall’aggiudicazione provvisoria a quella
definitiva) si sia sicuramente dilatata per motivi che non è
dato conoscere (il Comune è rimasto assente in appello e non
sembra avere specificamente controdedotto sul punto in primo
grado).
Tuttavia, se questa protrazione potrà essere un indice di
amministrazione non particolarmente rapida ed efficiente,
essa non ha alterato l’esito dell’aggiudicazione
provvisoria. Il che dimostra che nessuna indebita influenza
esterna si può essere esercitata sugli organi della gara e
che il ritardo non ha comunque leso alcun interesse della
società appellante.
Censurando poi una presunta interferenza con un diverso, ma
analogo appalto, l’appellante fa valere un interesse
pubblico e non proprio. Da ciò l’inammissibilità della
doglianza.
Infine, la questione della restrizione in carcere
dell’amministratore unico della società aggiudicataria è
inconferente, poiché l’appellante non ha inteso far valere
-come motivo di gravame- la perdita di un requisito
soggettivo della società vincitrice, tale da precludere
l’aggiudicazione definitiva (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 04.08.2015 n. 3851 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE PROGETTUALI: Periti agrari esclusi dalle competenze forestali.
Periti agrari esclusi dalle competenze in materia forestale.
Gli interventi di miglioramento boschivo, infatti, non si
inseriscono in una attività diretta alla produzione. Solo in
questo specifico caso, infatti, può essere ammesso
l'intervento dei periti agrari.
A stabilirlo, la
sentenza
03.08.2015 n. 3816 del
Consiglio di Stato -Sez. III- che ha dato vita a un tira e
molla tra il Collegio nazionale degli agrotecnici e degli
agrotecnici laureati e l'Ordine nazionale dei dottori
agronomi e dottori forestali.
Diatriba che, nei giorni
scorsi, ha portato a un botta e risposta tra le categorie
tramite comunicati stampa. Ad avviso degli agronomi,
infatti, gli interventi di natura boschiva spettano loro in
via esclusiva insieme ai forestali mentre, ad avviso degli
agrotecnici, la competenza non deve essere intesa in senso
esclusivo essendo competenti per materia anche gli
agrotecnici.
Ad avviso di questi ultimi, infatti, sono da
ritenersi «prive di fondamento le rivendicazioni di
esclusive professionali in materia di forestazione avanzate
dall'Ordine degli agronomi, sulla scorta della sentenza del
Consiglio di stato n. 3816/2015. Tale sentenza, infatti», si
legge nella nota diffusa dal Collegio nazionale, «ha sancito
l'incompetenza in materia di forestazione dei Periti agrari,
arrivando ad una conclusione ovvia, posto che i Periti
agrari non hanno specifiche competenze forestali declinate
nel loro ordinamento professionale al contrario degli
agrotecnici e agrotecnici laureati».
Di diverso avviso,
invece, l'Ordine nazionale dei dottori agronomi e forestali
secondo cui, in base a quanto espresso dal Consiglio di
stato, la competenza debba essere intesa come esclusiva.
«Nel panorama delle professioni che hanno competenze in
materia ambientale e paesaggistica o territoriale,
unicamente i dottori agronomi e dottori forestali annoverano
la competenza nel settore selvicolturale (ovvero in materia
boschiva e forestale) la quale, pertanto», ha concluso il Conaf, «come confermato dal Cds
è di natura esclusiva»
(articolo ItaliaOggi del 15.08.2015).
---------------
MASSIMA
6.- Pervenendo al merito, occorre premettere che
l’iniziativa comunale di cui si controverte consiste nella “ricostruzione
del potenziale forestale ed interventi preventivi”, si
pone nel quadro della “Misura 226 Ricostituzione del
potenziale forestale e interventi preventivi” del P.S.R.
2007/2013 e, più precisamente, della “Azione 226.1 -
Interventi di gestione selvicolturale finalizzati alla
prevenzione degli incendi”.
Nel definire le “motivazioni e logica dell’intervento”,
la detta misura 226 precisa che “In un contesto
internazionale che mette al centro dell’azione ambientale il
contrasto ai cambiamenti climatici, la lotta all’avanzamento
dei processi di desertificazione, la tutela della
biodiversità, la difesa del suolo dai dissesti
idrogeologici, assume carattere preminente la
‘conservazione’ del patrimonio forestale quale azione di
sistema che nel suo complesso riunisce tutti gli obiettivi
citati.
Conservare le risorse forestali significa soprattutto
lavorare sul concetto di ‘prevenzione’, adottando le
iniziative più efficaci affinché il rischio di
danneggiamento diminuisca e contemporaneamente il sistema si
presenti nelle migliori condizioni fisico-strutturali per
affrontare l’evento negativo. Tuttavia conservare significa
anche ‘recuperare’ e ‘ricostituire’ nel più breve tempo il
potenziale danneggiato, favorendo e supportando i processi
naturali di ripresa del sistema.
La conservazione delle risorse forestali passa attraverso la
valutazione dell’interazione della copertura vegetale
rispetto al sistema acqua-suolo, la mitigazione dei fattori
di pressione antropica, la salvaguardia delle condizioni
fitosanitarie. Per pianificare una buona prevenzione del
patrimonio forestale occorre quindi adottare interventi
mirati che, integrandosi fra loro, siano finalizzati a
combattere gli incendi boschivi, il dissesto idrogeologico e
le principali fitopatie”.
7.- Va ancora premesso che, secondo
l’ordinamento della professione di perito agrario, competono
a tale professionista, tra l’altro, “la progettazione, la
direzione ed il collaudo di opere di miglioramento fondiario
e di trasformazione di prodotti agrari e relative
costruzioni, limitatamente alle medie aziende, il tutto in
struttura ordinaria …”
(l’art. 2, co. 1, lett. b, della legge 28.03.1968 n. 434,
come sostituito dall’art. 2, l. 21.02.1991 n. 54).
L’ordinamento della professione di dottore agronomo e di
dottore forestale attribuisce ai medesimi “le attività
volte a valorizzare e gestire i processi produttivi
agricoli, zootecnici e forestali, a tutelare l'ambiente e,
in generale, le attività riguardanti il mondo rurale”;
in particolare “lo studio, la progettazione, la direzione
… delle opere di trasformazione e di miglioramento
fondiario, nonché delle opere di bonifica e delle opere di
sistemazione idraulica e forestale, di utilizzazione e
regimazione delle acque e di difesa e conservazione del
suolo agrario …”, nonché “lo studio, la
progettazione, la direzione … di opere inerenti ai
rimboschimenti, alle utilizzazioni forestali, alle piste da
sci ed attrezzature connesse, alla conservazione della
natura, alla tutela del paesaggio ed all'assestamento
forestale” (art. 2, co. 1, lett. b e c, della legge
07.01.1976 n. 3, come sostituito dall’art. 2, l. 10.02.1992
n. 152)
8.- Ciò posto, sia pure in tema di tariffa professionale del
perito, la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato,
condivisa dal Collegio in assenza di ragioni di dissenso, ha
affermato che, alla stregua delle
rispettive discipline professionali, ad entrambe le
categorie dei periti agrari e dei dottori agronomi
o forestali è affidabile la cura di boschi e/o foreste “allorché
contenuti in aziende agrarie fino alla soglia di quelle
medie”, onde la competenza in materia “rimane per
i periti limitata … alla gestione, stima, consulenza …
dei boschi, purché inseriti, da solo (se di superficie
ristretta) o insieme ad altre colture, in un’azienda agraria
di dimensioni piccole o anche medie … in funzione non
ambientale, ma solo produttiva e nei limiti in cui la
coltivazione … non presenti difficoltà insostenibili per la
cultura astrattamente riconoscibile” ai periti agrari,
precisandosi peraltro come “la conferma della medesima
tariffa non equivale ad una sicura attribuzione di
competenza per gli appartenenti ogni volta che si debba
trattare della cura o della piantagione di un bosco”
(cfr. Cons. St., sez. IV, 30.07.1996 n. 915, richiamata da
entrambi i contendenti).
In altri termini, in materia di interventi
boschivi il discrimine tra le competenze del perito
agrario e quelle del dottore agronomo o forestale
sta, oltre che nel dato quantitativo, in quello qualitativo
determinato dalle finalità degli interventi stessi, potendo
il primo professionista occuparsene solo se produttivi e
spettando in via esclusiva al secondo se intesi “a
tutelare l’ambiente” nei suoi vari aspetti, ivi
compresa, in particolare, la “conservazione della natura”. |
EDILIZIA PRIVATA: La
proposta di variazione della strumento urbanistico assunta
dalla Conferenza dei servizi (nell'ambito di un procedimento
SUAP) non è vincolante per il Consiglio comunale, il quale
deve autonomamente valutare se aderire o meno ad essa,
potendo motivatamente disattendere la proposta stessa.
---------------
Come chiarito dalla Giurisprudenza, l'istituto del preavviso
di rigetto, di cui all'art. 10-bis, l. 07.08.1990 n. 241, ha
lo scopo di far conoscere alle P.A., in contraddittorio
rispetto alle motivazioni da essa assunte in base agli esiti
dell'istruttoria espletata, le ragioni fattuali e giuridiche
dell'interessato che potrebbero contribuire a far assumere
agli organi competenti una diversa determinazione finale
derivante, appunto, dalla ponderazione di tutti gli
interessi in campo; con la conseguente illegittimità del
provvedimento di diniego la cui motivazione sia arricchita
di ragioni giustificative diverse e ulteriori rispetto a
quelle preventivamente sottoposte al contraddittorio
procedimentale attraverso la comunicazione dei motivi
ostativi all'accoglimento dell'istanza del privato.
Infatti, anche se non deve sussistere un rapporto di
identità tra il preavviso di rigetto e la determinazione
conclusiva del procedimento, né una corrispondenza puntuale
e di dettaglio tra il contenuto dei due atti, ben potendo la
pubblica amministrazione ritenere, nel provvedimento finale,
di dover meglio precisare le proprie posizioni giuridiche,
occorre però che il contenuto sostanziale del provvedimento
conclusivo di diniego si inscriva nello schema delineato
dalla comunicazione ex art. 10-bis, l. n. 241 del 1990,
esclusa ogni possibilità di fondare il diniego definitivo su
ragioni del tutto nuove, non enucleabili dalla motivazione
dell'atto endoprocedimentale, dato che altrimenti
l'interessato non potrebbe interloquire con
l'amministrazione anche su detti profili differenziali né
presentare le proprie controdeduzioni prima della
determinazione conclusiva dell'ufficio.
E salvo che il provvedimento finale si discosti dalla
motivazione contenuta nel preavviso solo in funzione
dell'esigenza di replicare alle osservazioni presentate dal
privato, ma non è questo il caso in esame, caratterizzato
dal fatto che il Comune, a seguito del ricevimento delle
controdeduzioni degli interessati, ha abbandonato i profili
di cui al preavviso di rigetto (tranne uno, che verrà
esaminato infra) e fondato il diniego su ragioni del tutto
nuove e diverse.
Né può condividersi la prospettazione del Comune, secondo il
quale ai sensi dell'art. 21-octies della stessa legge non
potrebbe comunque pervenirsi all'annullamento del
provvedimento, il contenuto del quale non sarebbe potuto
essere diverso da quello in concreto adottato.
Contrariamente a quanto sostenuto dal Comune, l’elusione
dell’art. 10-bis, l. n. 241 del 1990, nel caso in questione,
incide sulla validità dell'atto conclusivo del procedimento,
avendo determinato un deficit istruttorio e considerato che
il contenuto del provvedimento in contestazione avrebbe
potuto essere diverso da quello in concreto adottato,
laddove le ricorrenti avessero potuto presentare
osservazioni, come è risultato palese dall’esame sia dei
motivi di ricorso che delle osservazioni contenute nella
consulenza di parte depositata in esito alla verificazione
disposta da questa Sezione, ove le Società ricorrenti hanno
allegato circostanze idonee a confutare le eccezioni del
Comune e che non hanno potuto incolpevolmente sottoporre
all'Amministrazione a tempo debito.
L’art. 10-bis in esame mira, infatti, ad instaurare un
contraddittorio a carattere necessario tra la P.A. e il
cittadino ed assolve anche ad una finalità deflattiva del
contenzioso, evitando che si sposti nel processo ciò che
dovrebbe svolgersi nel procedimento, come di fatto accaduto
nel caso in questione.
---------------
L’art. 5 del D.P.R. 20.10.1998, n. 447 (sostituito
dall’articolo 8 del d.p.r. n. 160 del 2010, nei termini di
cui all’articolo 12 del medesimo d.p.r.) dispone che ove il
progetto sia in contrasto (come nel caso di specie) con lo
strumento urbanistico, ma sia conforme con la normativa
ambientale, sanitaria e di sicurezza del lavoro, il
responsabile del procedimento, in base al disposto degli
artt. 1 e 5 del D.P.R. 20.10.1998 n. 447, recante il
regolamento per la semplificazione dei procedimenti di
localizzazione degli impianti produttivi, possa convocare
una conferenza di servizi per le conseguenti decisioni, che
costituiscono proposta di variante allo strumento
urbanistico e sulle quali si pronuncia il Consiglio
comunale.
La Giurisprudenza ha reiteratamente interpretato tale
normativa nel senso che, nell’ipotesi di ampliamento di un
insediamento produttivo preesistente, la necessità di
variare lo strumento urbanistico deve essere valutata in
relazione al progetto presentato, cioè tenendo conto della
circostanza che trattasi di un progetto di ampliamento di un
insediamento produttivo già operante, sicché l’area da
destinare all’ampliamento della relativa attività non può
essere ricercata altrove, ma deve evidentemente trovarsi in
stabile e diretto collegamento con quella dell’insediamento
principale e da ampliare.
I. Con il primo motivo di ricorso le società ricorrenti
lamentano che, ai sensi dell’articolo 8, comma 1, del d.p.r.
numero 160 del 2010, una volta che la conferenza dei servizi
sia pervenuta alla deliberazione finale, con conseguente
trasmissione della stessa al competente Consiglio Comunale,
non è possibile riaprire la fase istruttoria, che, nella
configurazione della disposizione richiamata (così come
della norma preesistente di cui all’articolo 5 del d.p.r.
numero 447 del 1998), finalizzata alla velocizzazione
dell’iter procedimentale, deve svolgersi all’interno della
conferenza dei servizi.
La censura (sebbene supportata in punto di fatto dalla
considerazione che l’istruttoria è stata riaperta mediante
l’emanazione di un ulteriore parere da parte del competente
ufficio -che aveva già istruito il progetto e si era già
espresso favorevolmente in sede di conferenza dei servizi-
motivato dall’avvenuto avvicendamento delle persone fisiche
titolari degli uffici dell’Ente: si veda il secondo
capoverso del parere numero 1117 del 09.05.2013) non può
essere esaminata, attesa la fondatezza dell’eccezione di
tardività contenuta nelle difese del Comune.
Infatti, la decisione di riaprire l’istruttoria è stata
assunta con la Delibera Commissariale n. 3 del 09.05.2013,
il cui termine impugnatorio di giorni sessanta è scaduto
(non il 30.07.2013, come sostenuto dal Comune, non potendosi
fare decorrere il termine di decadenza dalla mera
pubblicazione dell’atto, essendo l’Amministrazione tenuta
alla notifica individuale, ma da quest’ultima data del
03.06.2013, nella quale la Delibera Commissariale n. 3
risulta pervenuta alle ricorrenti, secondo quanto da queste
ultime affermato nelle controdeduzioni trasmesse il
02.07.2013 al Comune, allegate alla deliberazione numero
52/2013, documento numero 4 della produzione del Comune di
Mascali) il 18.09.2013; sicché, avuto riguardo alla data di
notificazione del ricorso (03-04.12.2013) quest’ultimo è
effettivamente tardivo rispetto l’impugnazione della
Delibera Commissariale n. 3/2013, con la conseguente
inoppugnabilità della decisione di riaprire l’istruttoria.
Per completezza, deve comunque rilevarsi che la proposta di
variazione della strumento urbanistico assunta dalla
Conferenza dei servizi non è vincolante per il Consiglio
comunale, il quale deve autonomamente valutare se aderire o
meno ad essa (cfr. Consiglio di Stato, sentenza 19.10.2007
n. 5471), potendo motivatamente disattendere la proposta
stessa.
II. Il Collegio prende in esame il secondo motivo di
ricorso, con il quale si lamenta l’illegittima divergenza
tra le motivazioni a corredo della deliberazione numero
52/2013 e quelle contenute nel preavviso di rigetto, e ne
ravvisa la fondatezza.
I rilievi di cui al parere numero 1117 del 09.05.2013 erano
i seguenti:
1- insussistenza dei presupposti di cui all’articolo 8,
comma 1, del d.p.r. numero 160 del 2010, in quanto il
programma di fabbricazione del comune di Mascali
individuerebbe sufficienti aree destinate ad insediamenti
produttivi;
2- insussistenza dei presupposti di cui all’articolo 8,
comma 1, del d.p.r. numero 160 del 2010, in quanto lo
stabilimento esistente sarebbe in contrasto con le
previsioni dello strumento urbanistico perché oggetto di
precedenti concessioni edilizie in sanatoria;
3- l’ampliamento richiesto non sarebbe di modeste
dimensioni, raddoppiando la cubatura esistente;
4- l’intervento richiesto verrebbe realizzato in un centro
abitato.
Su tali rilievi si è svolto il contraddittorio con le ditte
istanti, le quali, a seguito della comunicazione del 30
maggio 2013 da parte del Comune, trasmettevano articolate
controdeduzioni, poi allegate all’atto conclusivo del
procedimento.
Quest’ultimo, tuttavia, costituito dalla deliberazione
numero 52/2013, nella motivazione a supporto del diniego di
approvazione del programma ha mantenuto solo la prima delle
argomentazioni di cui al parere 1117/2013, abbandonando le
altre ed introducendo per la prima volta nuove eccezioni:
- l’ampliamento richiesto comporterebbe l’avvio di
un’attività pericolosa per la salute, trattandosi della
produzione di lastre di vetro;
- tale attività non potrebbe essere ubicata in prossimità
del centro abitato;
- le emissioni sonore non rispetterebbero i limiti imposti
dalla normativa sull’inquinamento acustico;
- gli standards urbanistici di cui all’articolo 5 del
decreto ministeriale numero 1444/1968 non sarebbero
rispettati.
Risulta pertanto comprovata la divergenza tra le motivazioni
comunicate alle ditte richiedenti con la nota del
30/05/2013, avente forma e sostanza di preavviso di rigetto,
in quanto volta ad attivare il prescritto (dall’art. 10-bis
L. n. 241/1990) contraddittorio con gli istanti, ed il
provvedimento finale di diniego, che si regge su motivazioni
in buona parte diverse ed introdotte solo nel provvedimento
conclusivo stesso, quindi eludendo la ratio dell’art.
10-bis citato.
Infatti, come chiarito dalla Giurisprudenza, l'istituto del
preavviso di rigetto, di cui all'art. 10-bis, l. 07.08.1990
n. 241, ha lo scopo di far conoscere alle P.A., in
contraddittorio rispetto alle motivazioni da essa assunte in
base agli esiti dell'istruttoria espletata, le ragioni
fattuali e giuridiche dell'interessato che potrebbero
contribuire a far assumere agli organi competenti una
diversa determinazione finale derivante, appunto, dalla
ponderazione di tutti gli interessi in campo (tra le più
recenti TAR Campania, sez. VI Napoli, 10/04/2015 n. 2054);
con la conseguente illegittimità del provvedimento di
diniego la cui motivazione sia arricchita di ragioni
giustificative diverse e ulteriori rispetto a quelle
preventivamente sottoposte al contraddittorio procedimentale
attraverso la comunicazione dei motivi ostativi
all'accoglimento dell'istanza del privato.
Infatti, anche se non deve sussistere un rapporto di
identità tra il preavviso di rigetto e la determinazione
conclusiva del procedimento, né una corrispondenza puntuale
e di dettaglio tra il contenuto dei due atti, ben potendo la
pubblica amministrazione ritenere, nel provvedimento finale,
di dover meglio precisare le proprie posizioni giuridiche,
occorre però che il contenuto sostanziale del provvedimento
conclusivo di diniego si inscriva nello schema delineato
dalla comunicazione ex art. 10-bis, l. n. 241 del 1990,
esclusa ogni possibilità di fondare il diniego definitivo su
ragioni del tutto nuove, non enucleabili dalla motivazione
dell'atto endoprocedimentale, dato che altrimenti
l'interessato non potrebbe interloquire con
l'amministrazione anche su detti profili differenziali né
presentare le proprie controdeduzioni prima della
determinazione conclusiva dell'ufficio (TAR Liguria, sez. I
di Genova, 25/02/2015 n. 232).
E salvo che il provvedimento finale si discosti dalla
motivazione contenuta nel preavviso solo in funzione
dell'esigenza di replicare alle osservazioni presentate dal
privato (TAR Lombardia, sez. IV di Milano, 30/10/2014 n.
2589), ma non è questo il caso in esame, caratterizzato dal
fatto che il Comune, a seguito del ricevimento delle
controdeduzioni degli interessati, ha abbandonato i profili
di cui al preavviso di rigetto (tranne uno, che verrà
esaminato infra) e fondato il diniego su ragioni del tutto
nuove e diverse.
Né può condividersi la prospettazione del Comune, secondo il
quale ai sensi dell'art. 21-octies della stessa legge non
potrebbe comunque pervenirsi all'annullamento del
provvedimento, il contenuto del quale non sarebbe potuto
essere diverso da quello in concreto adottato.
Contrariamente a quanto sostenuto dal Comune, l’elusione
dell’art. 10-bis, l. n. 241 del 1990, nel caso in questione,
incide sulla validità dell'atto conclusivo del procedimento,
avendo determinato un deficit istruttorio e considerato che
il contenuto del provvedimento in contestazione avrebbe
potuto essere diverso da quello in concreto adottato,
laddove le ricorrenti avessero potuto presentare
osservazioni, come è risultato palese dall’esame sia dei
motivi di ricorso che delle osservazioni contenute nella
consulenza di parte depositata in esito alla verificazione
disposta da questa Sezione, ove le Società ricorrenti hanno
allegato circostanze idonee a confutare le eccezioni del
Comune e che non hanno potuto incolpevolmente sottoporre
all'Amministrazione a tempo debito.
L’art. 10-bis in esame mira, infatti, ad instaurare un
contraddittorio a carattere necessario tra la P.A. e il
cittadino ed assolve anche ad una finalità deflattiva del
contenzioso, evitando che si sposti nel processo ciò che
dovrebbe svolgersi nel procedimento, come di fatto accaduto
nel caso in questione.
Infatti, avuto riguardo sia agli esiti della verificazione
che alle ulteriori circostanze addotte dalle Società
ricorrenti in sede di consulenza di parte, va sottolineato
che la contiguità tra il lotto di terreno e gli insediamenti
residenziali previsti nel programma di fabbricazione e già
edificati, rilevata dall’Organismo incaricato della
verificazione, era già stata presa in esame in sede di
conferenza dei servizi e ritenuta non ostativa; e d’altra
parte, appare significativa la circostanza, evincibile dalla
relazione di verificazione, secondo la quale lo stesso
Comune aveva stabilito di destinare l’area interessata
dall’insediamento delle ricorrenti a zona “D” nella proposta
del nuovo piano regolatore generale adottata dal Consiglio
Comunale nel 2007 (avendo, evidentemente, valutato
compatibili insediamenti industriali di qualsiasi tipologia
con la contiguità all’abitato), risultando, sotto tale
profilo, irrilevante la circostanza che la Regione Siciliana
non abbia approvato lo strumento urbanistico in questione.
D’altra parte, la questione circa la natura dell’attività
destinata ad essere svolta nel capannone (se si tratti di
produzione di lastre di vetro, come sostiene il Comune,
ovvero semplicemente di lavorazione di lastre, con la
conseguente ascrivibilità o meno dell’attività tra le
industrie insalubri), addotta quale nuova motivazione
(rispetto il preavviso di rigetto) nell’atto di diniego
impugnato, avrebbe dovuto essere opportunamente approfondita
in sede di contraddittorio con le Società istanti e non
certo nel corso del presente giudizio.
Allo stesso modo, per quanto attiene il rilievo ostativo
ricondotto dal Comune all’impatto acustico ambientale, che
avrebbe violato la normativa di riferimento, la relazione di
verificazione ha consentito di accertare che, al contrario,
i valori indicati nella relazione prodotta dalle ricorrenti
rientrano nei limiti previsti dal D.P.C.M. del 01.03.1991.
Non può, d’altra parte, tenersi conto del parere, espresso
dall’Organismo incaricato della verificazione, circa
l’inattendibilità dei risultati scaturiti dall’elaborazione
dei dati nella relazione in questione: in primo luogo,
perché non si tratta di questione introdotta nella
motivazione dell’atto impugnato; in secondo luogo perché, a
maggior ragione rispetto quanto già sopra precisato, si
tratta di materia nella quale deve essere correttamente
instaurato il contraddittorio con i richiedenti, i quali ben
potrebbero integrare la relazione con gli elementi mancanti
ed indicati dal Verificatore a pagina 15 (lettere a, b e c)
della verificazione.
Al riguardo, infatti, occorre sottolineare che il
verificatore ha espresso i propri dubbi circa
l’attendibilità della relazione unicamente per profili di
incompletezza nella descrizione dell’attività lavorativa
(lett. a), nell’allegazione della mappa acustica elaborata
dal software utilizzato dal tecnico (lett. b) e
nell’indicazione del tipo di software utilizzato (lett. c),
tutte carenze integrabili ed insuscettibili di condurre,
senza previa instaurazione del contraddittorio, al rigetto
dell’istanza.
Quanto, infine, alla questione relativa alla sufficienza
delle aree per standard urbanistici, in esito alla
verificazione è risultato che il progetto prevede aree in
misura più che sufficiente a garantire gli standards di cui
all’articolo 5 del decreto ministeriale numero 1444/1968
(pagina 18 della relazione di verificazione), sebbene
l’Organismo incaricato della verificazione abbia ritenuto
che la localizzazione delle aree non assicuri la possibilità
di un uso pubblico, disconoscendosi, da parte del
Verificatore, che il progetto in questione possa essere
qualificato come un insediamento chiuso ad uso collettivo,
disciplinato dall’articolo 15 della legge regionale numero
71/1978, nel qual caso le aree risulterebbero correttamente
localizzate.
Anche in questo caso, sarebbe stato necessario instaurare il
contraddittorio con gli interessati, consentendo agli stessi
di far valere le argomentazioni trasfuse nella consulenza di
parte, ove è stato dedotto che il progetto soddisfa i
contenuti di un piano di lottizzazione, si compone degli
elaborati necessari per un piano di lottizzazione secondo le
prescrizioni del regolamento edilizio del Comune intimato,
soddisfa quanto l’articolo 9 della legge regionale numero 71
del 1978 richiede quale contenuto necessario dei piani di
lottizzazione, nonché quanto richiede la circolare
dell’Assessorato Regionale Territorio e Ambiente numero 2
del 03.02.1979, ha previsto altresì la convenzione di cui
all’articolo 14 della legge regionale numero 71 del 1978.
D’altra parte, gli istanti hanno altresì elencato gli atti
adottati dalle Amm.ni coinvolte a vario titolo nell’esame
della pratica, atti che hanno assolto alle prescrizioni
relative all’istruttoria del piano di lottizzazione, e hanno
prodotto alcuni precedenti provvedimenti emessi dall’
Assessorato Regionale Territorio e Ambiente su progetti di
impianti produttivi, sia di nuova installazione che per
ampliamenti, nei quali è stato applicato l’articolo 15 della
legge regionale numero 71 del 1978 indipendentemente dal
fatto che il progetto fosse stato presentato come piano di
lottizzazione o meno.
Ora, la questione se il progetto presentato dalle ricorrenti
costituisca o meno (per contenuti, elaborati progettuali,
istruttoria) uno strumento attuativo al quale trovi
applicazione l’articolo 15 della legge regionale numero 71
del 1978 è questione sulla quale sarebbe stato necessario
instaurare il contraddittorio con le imprese richiedenti,
non potendosi spostare tale dibattito nell’odierna sede
giurisdizionale.
Ne consegue l’illegittimità in parte qua dell’atto
impugnato.
III. La terza censura (relativa all’unico motivo a supporto
del diniego impugnato esternato nel preavviso di rigetto e
riprodotto nell’atto finale) è fondata.
Come si rileva dalla delibera impugnata n. 52 del 2013, la
Commissione straordinaria con i poteri del Consiglio
comunale ha ritenuto di non procedere alla variante perché
il P. di F. prevede aree idonee ad allocare insediamenti
produttivi, circostanza questa confermata in sede di
verificazione; secondo le ricorrenti però non si è tenuto
conto della circostanza che le ZTO “D” non consentirebbero
(atteso la relativa ubicazione) l’ampliamento dell’impianto
preesistente, sicché il Comune avrebbe dovuto istruire la
pratica in relazione allo specifico progetto presentato,
pena la vanificazione della ratio dell’articolo 8 del
d.p.r. n. 160 del 2010, che è quella di favorire lo sviluppo
degli investimenti anche mediante l’ampliamento degli
impianti produttivi esistenti.
Il Collegio ritiene corretta la ricostruzione operata dalle
ricorrenti.
L’art. 5 del D.P.R. 20.10.1998, n. 447 (sostituito
dall’articolo 8 del d.p.r. n. 160 del 2010, nei termini di
cui all’articolo 12 del medesimo d.p.r.) dispone che ove il
progetto sia in contrasto (come nel caso di specie) con lo
strumento urbanistico, ma sia conforme con la normativa
ambientale, sanitaria e di sicurezza del lavoro, il
responsabile del procedimento, in base al disposto degli
artt. 1 e 5 del D.P.R. 20.10.1998 n. 447, recante il
regolamento per la semplificazione dei procedimenti di
localizzazione degli impianti produttivi, possa convocare
una conferenza di servizi per le conseguenti decisioni, che
costituiscono proposta di variante allo strumento
urbanistico e sulle quali si pronuncia il Consiglio
comunale.
La Giurisprudenza ha reiteratamente interpretato tale
normativa nel senso che, nell’ipotesi di ampliamento di un
insediamento produttivo preesistente, la necessità di
variare lo strumento urbanistico deve essere valutata in
relazione al progetto presentato, cioè tenendo conto della
circostanza che trattasi di un progetto di ampliamento di un
insediamento produttivo già operante, sicché l’area da
destinare all’ampliamento della relativa attività non può
essere ricercata altrove, ma deve evidentemente trovarsi in
stabile e diretto collegamento con quella dell’insediamento
principale e da ampliare (cfr. TAR Abruzzo, Sezione I di
Pescara, sentenze 07.11.2013 n. 525 e 20.05.2004 n. 453; TAR
Lazio, Sezione I di Latina, 04.11.2013, n. 824; TAR
Lombardia, sez. II di Milano, 28.12.2009 n. 6222; TAR
Veneto, sez. II di Venezia, 11.07.2008 n. 1993).
Ne consegue l’illegittimità (anche in tale parte) della
deliberazione n. 52/2013 impugnata, che dev’essere pertanto
annullata
(TAR Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza
30.07.2015 n. 2103 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
VARI:
Punti patente, ricorsi antirevisione al Gdp.
Tutti i provvedimenti sanzionatori previsti dal codice
stradale sono di competenza del giudice di pace. Anche la
decurtazione di punteggio e la conseguente sospensione della
licenza per azzeramento del credito disponibile.
Lo ha confermato la Corte di Cassazione, Sezz. unite civili,
con la
sentenza 24.07.2015 n. 15573.
La revisione della patente per esaurimento punti è un
provvedimento vincolato che viene adottato dalla
motorizzazione all'esito delle vicende stradali.
Nel caso
esaminato dal collegio un utente stradale ha proposto
ricorso contro questa severa determinazione punitiva ma il
giudice di pace ha dichiarato il proprio difetto di
giurisdizione e il tribunale ha confermato questa decisione.
A parere dei giudici del palazzaccio però la competenza in
caso di ricorso resta in capo al giudice ordinario.
A
differenza della revisione per dubbi sui requisiti tecnici
prevista dall'art. 128 Cds, infatti, la revisione prevista
dall'art. 126-bis Cds è un atto dovuto. Per questo motivo il
ricorso non è di competenza del tar ma del giudice di pace
(articolo ItaliaOggi Sette del 17.08.2015). |
VARI:
Multe, la
delazione non aspetta. Non basta il ricorso al giudice per
tacere alla polizia.
La Corte di cassazione ribadisce la procedura
sulla decurtazione di punti dalla patente.
L'automobilista che riceve una multa per posta con
decurtazione di punteggio e propone ricorso al giudice di
pace deve comunque rispondere tempestivamente all'invito
alla delazione della polizia. La sorte della prima
infrazione non condiziona infatti il destino
dell'intimazione e in caso di mancata comunicazione dei dati
del conducente scatterà una seconda multa molto salata.
Lo ha ribadito la Corte di Cassazione, Sez. II civile, con la
sentenza
23.07.2015 n. 15542.
Un utente stradale ha
ricevuto la notifica di una violazione del codice stradale
con conseguente intimazione alla comunicazione dei dati per
la decurtazione di punti patente. Contro questo primo
verbale l'interessato ha proposto ricorso al giudice di pace
disinteressandosi di comunicare alla polizia i dati del
conducente. Al ricevimento della seconda multa per mancata
delazione l'automobilista si è rivolto nuovamente al
magistrato onorario e al tribunale che hanno rigettato le
censure.
La cassazione nonostante le diverse indicazioni del
ministero dell'interno ha confermato questa interpretazione.
La pendenza del ricorso sulla prima multa non deve
interferire con l'indagine volta ad identificare l'effettivo
trasgressore. Innanzitutto il termine assegnato al
proprietario del veicolo per comunicare i dati del
conducente decorre non dalla definizione del procedimento di
opposizione avverso il verbale di accertamento dell'illecito
presupposto, ma dalla richiesta rivolta al proprietario
dall'organo di polizia.
Non convince neppure, prosegue la
sentenza, il richiamo alle indicazioni fornite dalla
Consulta nella sentenza n. 27/2005 circa il fatto che il
proprietario non è tenuto a rilevare i dati dell'effettivo
conducente prima della definizione dei ricorsi
giurisdizionali o amministrativi contro il verbale.
Va
infatti aggiunto, prosegue il collegio, che neppure
l'eventuale annullamento del verbale di contestazione
dell'infrazione presupposta comporta esclusione della
sanzione prevista dall'art. 180 Cds, comma 8, attesa
l'autonomia delle due infrazioni. Su questa linea si attesta
anche la recente sentenza della Cassazione sez. VI- 2 n.
20974/2014, conclude il collegio
(articolo ItaliaOggi Sette del 17.08.2015). |
APPALTI: L’affidamento
dell’esame delle schede tecniche e dei campioni ai
componenti (del seggio di gara) aventi una specifica
competenza professionale è giustificato, purché la decisione
finale, sulla base dell’esposizione e della valutazione
delle risultanze dell’istruttoria, sia compiuta dal collegio
nella sua interezza.
---------------
Sebbene le garanzie di imparzialità, pubblicità, trasparenza
e speditezza dell'azione amministrativa postulino che le
sedute di una commissione di gara debbano ispirarsi al
principio di concentrazione e continuità, tale principio è
soltanto tendenziale ed è suscettibile di deroga, potendo
verificarsi situazioni particolari che obiettivamente
impediscono l’espletamento di tutte le operazioni in una
sola seduta o in poche sedute ravvicinate.
---------------
Quanto alle paventate conseguenze del notevole lasso di
tempo intercorso tra l’apertura delle buste contenenti le
offerte tecniche e la definitiva attribuzione dei punteggi,
senza che siano state indicate le modalità di conservazione
dei plichi e senza che sia stata giustificata la ragione del
lungo periodo di tempo impiegato, il Collegio sottolinea
che, in assenza di disposizioni espresse circa le modalità
di conservazione dei plichi tra una seduta e l’altra, la
mancata indicazione nei verbali di operazioni singolarmente
svolte -quali tra l'altro l’identificazione del soggetto
responsabile della custodia dei plichi, il luogo di custodia
e le eventuali misure atte a garantire la integrale
conservazione dei plichi stessi- non costituisce causa di
illegittimità del procedimento, salvo che non sia provato -o
siano quanto meno forniti adeguati e ragionevoli indizi- che
la documentazione di gara sia stata effettivamente
manipolata negli intervalli tra un'operazione e l'altra.
22. Nell’ambito del VI motivo, viene riproposta anche una
censura che non ha attinenza specifica con la valutazione
dell’offerta dell’appellante, ma che, se fondata, avrebbe
comportato l’integrale annullamento delle operazioni di
valutazione effettuate dalla Commissione.
L’appellante lamenta che la Commissione giudicatrice non
abbia operato come un collegio perfetto, in quanto la
valutazione delle offerte tecniche sarebbe stata demandata a
quattro componenti (tra i commissari incaricati della
valutazione, dalla lettura del verbale n. 3, non figura il
presidente), non essendo peraltro possibile sapere chi abbia
effettivamente esaminato le schede tecniche ed i campioni, e
non essendo state menzionate nei verbali le concrete
modalità adottate dai singoli componenti o dai gruppi di
lavoro per espletare l’attività valutativa, né le
valutazioni dei singoli campioni in concreto effettuate.
Inoltre, i commissari hanno impiegato dieci mesi per la
valutazione, in violazione dei principi di continuità e
concentrazione delle operazioni di gara, non sono state
verbalizzate le cautele adottate per la conservazione e la
custodia in sicurezza delle offerte nel corso del
procedimento; detta omissione è ascrivibile, a dire
dell’appellante, alla anomalia dell’esame demandato a soli
quattro componenti, che verosimilmente vi hanno proceduto
singolarmente; e spiegherebbe il mancato ritrovamento delle
due mascherine per il lotto n. 2, e della scheda tecnica per
il lotto n. 1, oltre che delle salviette dei camici.
22.1. Il Collegio osserva che nulla consente di affermare
che la valutazione non sia stata condivisa dall’intera
Commissione.
L’affidamento dell’esame delle schede tecniche e dei
campioni ai componenti aventi una specifica competenza
professionale è giustificato, purché la decisione finale,
sulla base dell’esposizione e della valutazione delle
risultanze dell’istruttoria, sia compiuta dal collegio nella
sua interezza (cfr. Cons. Stato, III, n. 1368/2011).
E nulla nel caso in esame conduce a ritenere che tale
momento collegiale sia mancato, risultando l’attribuzione
dei punteggio e l’elaborazione dei relativi tabulati
riferite alla intera Commissione (cfr. verbale n. 5, per il
lotto n. 1, e verbale n. 10 per il lotto n. 2).
Inoltre, sebbene le garanzie di imparzialità, pubblicità,
trasparenza e speditezza dell'azione amministrativa
postulino che le sedute di una commissione di gara debbano
ispirarsi al principio di concentrazione e continuità, tale
principio è soltanto tendenziale ed è suscettibile di
deroga, potendo verificarsi situazioni particolari che
obiettivamente impediscono l’espletamento di tutte le
operazioni in una sola seduta o in poche sedute ravvicinate.
Nel caso in esame, le operazioni di valutazione si sono
protratte a lungo, per il lotto n. 2, dal 12.04.2012
(apertura buste offerte tecniche – verbale n. 3) al
17.12.2012 (attribuzione punteggi – verbale n. 10), ma va
considerata la numerosità dei campioni e delle schede da
valutare e la sosta estiva con correlata fruizione delle
ferie da parte dei commissari (cfr. verbale n. 8, seduta di
aggiornamento del 09.07.2012).
Quanto alle paventate conseguenze del notevole lasso di
tempo intercorso tra l’apertura delle buste contenenti le
offerte tecniche e la definitiva attribuzione dei punteggi,
senza che siano state indicate le modalità di conservazione
dei plichi e senza che sia stata giustificata la ragione del
lungo periodo di tempo impiegato, il Collegio sottolinea
che, in assenza di disposizioni espresse circa le modalità
di conservazione dei plichi tra una seduta e l’altra, la
mancata indicazione nei verbali di operazioni singolarmente
svolte -quali tra l'altro l’identificazione del soggetto
responsabile della custodia dei plichi, il luogo di custodia
e le eventuali misure atte a garantire la integrale
conservazione dei plichi stessi- non costituisce causa di
illegittimità del procedimento, salvo che non sia provato -o
siano quanto meno forniti adeguati e ragionevoli indizi- che
la documentazione di gara sia stata effettivamente
manipolata negli intervalli tra un'operazione e l'altra
(cfr. Cons. Stato, V, n. 257/2015; n. 5060/2014; n.
2444/2014; n. 1668/2014). Tali elementi non si riscontrano
nel caso in esame
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 23.07.2015 n. 3649 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI: Offerte, conta la convenienza.
Tar Lombardia sulle aggiudicazioni.
È legittimo il diniego di aggiudicazione dell'appalto se
l'offerta viene valutata non conveniente o non idonea dalla
stazione appaltante.
Lo afferma il TAR Lombardia-Milano,
Sez. I, con la
sentenza 23.07.2015 n. 1802.
La questione riguardava un concorrente che era stato escluso
dalla procedura ad evidenza pubblica, dopo essersela
provvisoriamente aggiudicata, perché la stazione appaltante,
nell'esercizio dei suoi poteri di controllo ai sensi degli
articoli 12, comma 1, e 81, comma 3, del codice dei contratti
pubblici, aveva ritenuto che l'offerta non avrebbe garantito
la buona esecuzione del contratto nel suo complesso.
Riguardando l'appalto lavori di manutenzione ordinaria del
verde pubblico comunale, l'amministrazione aveva ritenuto
insufficiente, oltre che in contrasto con lo schema di
contratto, il numero di giornate lavorative per operaio
indicate dalla ricorrente al fine di adempiere agli obblighi
contrattuali. Da qui il ricorso dell'escluso che lamentava
l'illegittimità dell'esclusione.
I giudici danno ragione alla stazione appaltante fissando
alcuni principi di interesse per quel che riguarda
l'esercizio della discrezionalità amministrativa.
In particolare, la sentenza afferma che l'amministrazione ha
il potere di non procedere all'aggiudicazione anche nel caso
in cui l'offerta dell'aggiudicataria provvisoria risulti non
conveniente o non idonea in relazione all'oggetto del
contratto. Se è vero, infatti, che l'articolo 81 del codice
attribuisce, letteralmente, tale potere soltanto per il caso
in cui tutte le offerte non siano convenienti o idonee, «è
altresì vero che i principi di buon andamento ed economicità
dell'azione amministrativa devono consentire
un'interpretazione della disposizione in esame che ne salvi
l'applicabilità anche quando solo alcune delle offerte
(nella specie, quella dell'aggiudicataria provvisoria) non
sia idonea o conveniente».
Per i giudici questo potere resta immutato anche laddove non
siano stati espressamente previsti negli atti di gara
criteri specifici di valutazione della convenienza-idoneità
dell'offerta; le norme attributive di facoltà o di obblighi
contenute nella disciplina degli appalti pubblici integrano
i singoli bandi di gara e sono da considerarsi, per questo,
conoscibili a priori dai concorrenti alla procedura pubblica
(articolo ItaliaOggi del 14.08.2015).
---------------
MASSIMA
Nel merito, peraltro, i provvedimenti impugnati sono
legittimi, nei sensi e termini già espressi in fase
cautelare, cui occorre soggiungere le seguenti
considerazioni, anche alla luce della disposta
verificazione.
Invero,
la ricorrente è stata esclusa dalla
procedura ad evidenza pubblica, dopo essersela
provvisoriamente aggiudicata, perché la stazione appaltante,
nell’esercizio dei suoi legittimi poteri di controllo ex
art. 12, comma 1, e 81, comma 3, del d.lgs. n. 163/2006, ha
ritenuto che l’offerta non avrebbe garantito la buona
esecuzione del contratto nel suo complesso.
Nello specifico, trattandosi di prestazione di lavori di
manutenzione ordinaria del verde pubblico comunale,
l’amministrazione ha ritenuto insufficiente, oltre che in
contrasto con l’art. 7 dello schema di contratto allegato
alla lettera di invito, il numero di giornate lavorative per
operaio indicate dalla ricorrente al fine di adempiere agli
obblighi contrattuali.
In particolare, la stazione appaltante ha evidenziato come
fortemente anomala la circostanza per cui la previsione
d’impiego degli operai forniti da V. fosse rimasta immutata
nonostante l’estensione contrattuale, avvenuta a seguito dei
chiarimenti richiesti dalla stazione appaltante, dei singoli
rapporti lavorativi dal 31 marzo al 31.12.2013.
Il Collegio ritiene che l’amministrazione
abbia il potere di non procedere all'aggiudicazione anche
nel caso in cui l’offerta dell’aggiudicataria provvisoria
risulti non conveniente o non idonea in relazione
all'oggetto del contratto, dovendosi valorizzare a tali fini
il disposto di cui all’art. 81, comma 3, del codice dei
contratti pubblici.
Se è vero infatti che detta norma
attribuisce, letteralmente, tale potere soltanto per il caso
in cui tutte le offerte non siano convenienti o idonee, è
altresì vero che i principi di buon andamento ed economicità
dell’azione amministrativa devono consentire
un’interpretazione della disposizione in esame che ne salvi
l’applicabilità anche quando solo alcune delle offerte
(nella specie, quella dell’aggiudicataria provvisoria) non
sia idonea o conveniente.
Tale potere,
ritiene il Collegio, resta immutato anche
laddove non siano stati espressamente previsti nella lex
specialis di gara criteri specifici di valutazione della
convenienza/idoneità dell’offerta, in quanto per consolidato
orientamento giurisprudenziale le norme attributive di
facoltà o di obblighi contenute nella disciplina degli
appalti pubblici integrano i singoli bandi di gara e sono da
considerarsi, per tale motivo, conoscibili a priori dai
concorrenti alla procedura pubblica.
Nel caso di specie, d’altra parte, non ci si trova in
presenza di un’esclusione in senso tecnico della ricorrente
dalla gara –per violazione di una norma del bando o di legge
da ritenersi essenziale–, bensì al cospetto di un
annullamento dell’aggiudicazione parziale (che, vale la pena
ricordarlo, ha per sua natura carattere di non stabilità),
con successiva aggiudicazione definitiva ad altro
concorrente, sul cui conto, per inciso, sono state svolte le
medesime verifiche, in termini di convenienza/idoneità
dell’offerta, già compiute sull’offerta della originaria
aggiudicataria provvisoria.
Premesso ciò, e accertata la sussistenza in astratto del
potere esercitato dall’amministrazione, occorre verificare
se in concreto la valutazione nel merito operata
dall’amministrazione sia esente da evidenti illogicità.
Il Collegio concorda, sul punto, con le conclusioni
raggiunte dall’ing. E.R., tecnico incaricato dal
Provveditorato interregionale alle opere pubbliche per la
Lombardia e la Liguria per l’esecuzione della disposta
verificazione, ritenendo tali conclusioni condivisibili sia
sotto il profilo della coerenza e logicità del ragionamento
effettuato, sia sotto il profilo della correttezza del
metodo applicativo utilizzato.
Nello specifico, il verificatore,
nella sua relazione integrativa depositata in data
30.03.2015, ha precisato che, in relazione
alla superficie complessiva su cui operare il taglio del
manto erboso oggetto del singolo lotto di gara (lotto B), e
applicando i valori dei rendimenti giornalieri in termini di
mq tagliati per squadra tipo, sarebbero state necessarie
299,58 giornate/uomo per la corretta esecuzione dei lavori,
a fronte delle 129,96 giornate/uomo che aveva offerto V.
sulla base del personale in forza alla stessa e sulla base
dei particolari contratti di prestazione stipulati con
ciascuna unità di personale.
Il verificatore ha pertanto confermato
l’assunto secondo cui la forza-lavoro offerta dalla
ricorrente sarebbe stata largamente insufficiente a
garantire una corretta esecuzione del contratto da
stipulare, con conseguente non convenienza o comunque
inidoneità, rispetto all’oggetto dell’appalto, dell’offerta
stessa.
La valutazione dell’amministrazione, che
peraltro risulta logicamente coerente con l’anomalia di
un’estensione contrattuale dei rapporti lavorativi di nove
mesi che non aveva comportato un corrispondente ampliamento
della previsione d’impiego, è dunque da considerarsi
corretta, o quanto meno non manifestamente illogica.
I tre motivi articolati nel ricorso introduttivo da V.,
tutti imperniati sulla contrarietà della disposta esclusione
alla lex specialis o comunque ai principi di buon
andamento, correttezza e non discriminazione dell’attività
amministrativa, sono dunque da ritenersi infondati.
Analogamente, sono da respingere anche le
doglianze introdotte con i motivi aggiunti, in quanto le
dedotte violazioni dell’art. 79, quinto comma, del d.lgs. n.
163 del 2006 e dell’art. 3 della L. n. 241/1990 afferiscono
ad oneri di tempestiva ed esaustiva comunicazione della
disposta aggiudicazione definitiva, il cui mancato rispetto
non inficia, per giurisprudenza consolidata, la legittimità
del provvedimento impugnato. |
TRIBUTI: La rendita catastale va motivata.
Le Entrate non possono limitarsi a indicare nuovi valori.
Ctr lombarda: con la modifica dei dati proposti dal
contribuente va spiegato il perché.
L'attribuzione da parte dell'ufficio di una rendita
catastale diversa da quella proposta dal contribuente va
sempre e obbligatoriamente motivata. Anche se il fabbricato
in oggetto è di categoria D che, come tale, è sottoposto
alla proposta di attribuzione di rendita catastale avanzata
dal contribuente con la procedura Docfa.
Per questa tipologia di immobili infatti, è prevista una
motivazione meno specifica rispetto a quelli di categoria
diversa, ma l'obbligo di motivazione dell'accertamento non
può certamente ritenersi soddisfatto con la semplice
indicazione dei dati catastali e della classe che, ritenuta
adeguata, viene attribuita dall'ufficio impositore.
È questa la motivazione della sentenza 23.07.2015 n. 3460 con la quale la commissione tributaria regionale di
Milano, sezione staccata di Brescia, ha accolto l'appello
proposto dal contribuente dichiarando illegittimo l'avviso
di accertamento emesso dall'Agenzia del territorio.
Il caso
Oggetto del contendere la modifica da parte dell'ufficio
impositore del classamento catastale e della rendita
rispetto a quanto proposto dal contribuente con la suddetta
procedura telematica.
Contro l'accertamento il contribuente eccepiva il difetto di
motivazione presso la commissione provinciale rilevando
altresì l'erroneità del classamento operato dall'ufficio.
Per i giudici del primo grado l'accertamento doveva
ritenersi comunque motivato. Gli elementi sui quali lo
stesso era fondato erano infatti ben noti al contribuente
perché basati sulla procedura Docfa che proprio quest'ultimo
aveva attivato. Questa decisione non aveva affatto convinto
il contribuente che contro la stessa proponeva appello
presso la commissione regionale della Lombardia.
La decisione della Ctr
Nell'appello il contribuente ribadiva il difetto di
motivazione dell'avviso di accertamento affermando,
contrariamente a quanto sostenuto nella sentenza di primo
grado, che dai dati dichiarati attraverso la procedura di
classamento e attribuzione di rendita Docfa, non è possibile
riuscire a comprendere per quali ragioni l'ufficio abbia
riclassificato il bene immobile (da categoria E3 a D1).
Per i giudici della regionale lombarda l'assegnazione della
classe catastale costituisce il parametro sulla base del
quale viene identificato il grado di produttività o di
redditività dell'unità immobiliare che come tale deve essere
eseguita in base a elementi estrinseci o ubicazionali del
fabbricato.
Rifacendosi al consolidato orientamento giurisprudenziale in
materia la regionale ritiene che l'avviso di accertamento
debba contenere, a pena di nullità, il requisito della
motivazione la cui funzione è quella di indicare «i
presupposti e le ragioni giuridiche che determinano la
decisione dell'amministrazione».
La motivazione deve essere
inoltre tale da poter consentire al contribuente l'esercizio
del diritto di difesa e pertanto, in materia di classamento
di immobili a destinazione ordinaria, non può limitarsi a
contenere l'indicazione della consistenza, della categoria e
della classe attribuita dall'ufficio, ma deve anche
chiaramente specificare «a pena di nullità a quale
presupposto la modifica debba essere associata»
(articolo ItaliaOggi del 15.08.2015). |
EDILIZIA PRIVATA: Ai
fini del perfezionamento del condono edilizio di cui alla
legge 724/1994, il limite volumetrico di 750 metri cubi
previsto dall'art. 39, comma 1, è applicabile a tutte le
opere, senza alcuna distinzione tra residenziali e non
residenziali.
1. Il ricorso è infondato.
Il primo motivo di ricorso concerne l'applicabilità o meno
del limite volumetrico di 750 metri cubi di cui alla legge
724/1994 anche agli immobili aventi destinazione non
residenziale.
La Legge 23.12.1994, n. 724, recante «Misure di
razionalizzazione delle finanza pubblica»,
nell'introdurre il secondo condono edilizio, prevedendo
l'applicabilità delle disposizioni di cui ai capi IV e V
della legge 28.02.1985, n. 47 come ulteriormente modificate
dalla stessa legge, alle opere abusive ultimate entro il
31.12.1993, ha stabilito anche (art. 39, comma 1), quale
ulteriore condizione rispetto al limite temporale, che la
sanatoria poteva riguardare quegli immobili che non avessero
comportato un ampliamento del manufatto superiore al 30 per
cento della volumetria della costruzione originaria ovvero,
indipendentemente dalla volumetria iniziale, un ampliamento
superiore a 750 metri cubi, specificando ulteriormente che
tali disposizioni trovavano applicazione anche per le opere
abusive realizzate entro il termine predetto relative a
nuove costruzioni non superiori ai 750 metri cubi per
singola richiesta di concessione edilizia in sanatoria.
La Circolare del Ministero dei Lavori Pubblici n. 2241/UL
del 17/06/1995, richiamata in ricorso, ha affermato che il
limite volumetrico per l'ammissibilità della sanatoria
si applicherebbe alle costruzioni abusive a carattere
residenziale e non a quelle destinate ad altri usi, in
quanto l'art. 39 stabilisce, nel comma 16, che «all'oblazione
calcolata ai sensi del presente articolo continuano ad
applicarsi le riduzioni di cui all'articolo 34, terzo,
quarto e settimo comma della legge 28.02.1985, n. 47,
ovvero, anche in deroga ai limiti di cubatura di cui al
comma 1 del presente articolo, le riduzioni di cui al
settimo comma dello stesso articolo 34», il quale
riguarda le modalità di calcolo dell'importo dell'oblazione
per gli immobili non residenziale in rapporto alla loro
superficie o alla loro destinazione.
Ad ulteriore sostegno di tale interpretazione, che la
ricorrente condivide, viene richiamata in ricorso una
decisione di questa Sezione (Sez. 3, n. 9598 del 09/02/2012,
Buondonno, Rv. 252364), ove si è affermato, riproponendo la
medesime argomentazioni riportate nella circolare e con
specifico richiamo alla legge 724/1994, che dal dal
combinato disposto dell'art. 39, comma 16, della legge
medesima e dell'art. 34, comma 7, legge 47/1985 il limite
volumetrico dei 750 mc. si applica solo alle costruzioni
residenziali.
Una simile conclusione, tuttavia, non è condivisibile.
2. Per ciò che concerne la circolare, va preliminarmente
ribadito quanto già affermato con riferimento ad analogo
provvedimento del 2005, relativo al condono edilizio del
2003 (circolare ministeriale n. 2699 del 07.12.2005) e,
cioè, che la circolare interpretativa è
atto interno alla P.A., che si risolve in un mero ausilio
ermeneutico e non esplica alcun effetto vincolante non solo
per il giudice penale, ma anche per gli stessi destinatari,
poiché non può comunque porsi in contrasto con l'evidenza
del dato normativo
(Sez. 3, n. 25170 del 13/06/2012, La Mura, Rv. 252771; Sez.
3, n. 6619 del 07/02/2012, Zampano, Rv. 252541).
3. Per ciò che concerne, invece, il richiamo alla precedente
pronuncia di questa Sezione, osserva il Collegio che le
conclusioni cui la stessa è pervenuta non possono essere qui
recepite, in quanto fondate su una lettura della legge
724/1994 che, sebbene condivisa, in alcuni casi, anche dalla
giurisprudenza amministrativa, si fonda su un orientamento
che gli stessi giudici amministrativi hanno ormai
abbandonato e dal quale si è anche motivatamente discostata,
con argomentazioni pienamente condivisibili, anche la
giurisprudenza civile di questa Corte.
In particolare, il Consiglio di Stato
(Sez. V n. 3098 del 23/06/2008), oltre ad
escludere ogni efficacia vincolante della circolare
ministeriale, ha posto l'attenzione su un dato rilevante,
rappresentato dal tenore letterale dell'art. 39, comma 1,
legge 724/1994, il quale, nell'individuare gli immobili
oggetto di sanatoria, non opera alcuna distinzione in
relazione alla destinazione degli stessi, ammettendo il
superamento del limite volumetrico solo nel caso di
annullamento della concessione edilizia.
I giudici amministrativi, inoltre, hanno
pure rilevato che la possibilità di pagare l'oblazione anche
con riferimento a cubature maggiori, in relazione ad
immobili con destinazione non residenziale, si giustifica
esclusivamente per il fatto che, in tal modo, si può
determinare l'estinzione di alcuni reati edilizi, secondo
quanto stabilito dall'art. 38, comma 2, della legge 47/1985,
contenuto nel capo IV della legge stessa, che l'art. 39,
comma 1, legge 724/1994 richiama e che, pervenendo a diverse
conclusioni, gli abusi relativi ad immobili non residenziali
dovrebbero ritenersi sanabili indipendentemente dalla
volumetria ed in contrasto con quanto stabilito, sempre in
materia di condono, anche da provvedimenti legislativi
successivi (art.
32, comma 25, del D.L. 30.9.2003).
In altra decisione, sempre il Consiglio di
Stato (Sez. V n.
4416 del 17/09/2008), ha rilevato come non
possa ammettersi un condono privo di limiti quantitativi,
ricordando come la Corte Costituzionale
(28.07.1995, n. 416; 12.09.1995, n. 427; 23.07.1996, n. 302;
17.07.1996, n. 256) abbia posto in evidenza
come le norme sul condono abbiano carattere del tutto
eccezionale e siano, pertanto, particolarmente soggette al
limite di ragionevolezza) e che la esclusione di ogni limite
quantitativo alla condonabilità degli edifici industriali
trasformerebbe l'art. 39 della legge 724/1994 da
disposizione di eccezione a disposizione di rottura
incondizionata del controllo edilizio passato.
4. La lettura delle disposizioni richiamate
offerta dal giudice amministrativo pare al Collegio
pienamente condivisibile.
Sarebbe del tutto irragionevole, infatti,
ritenere indiscriminatamente condonabili gli immobili a
destinazione non residenziale, spesso di rilevante impatto
sul territorio, sotto diversi profili, ponendo invece limiti
rigorosi in termini di volumetria per quelli ad uso
abitativo e non si spiegherebbe, inoltre, per quale motivo
una simile distinzione non sia stata operata dal legislatore
direttamente nel primo comma dell'art. 39, prevedendo,
invece, tale distinguo attraverso un involuto riferimento
nelle disposizioni riguardanti il calcolo dell'oblazione.
Invero, avuto riguardo al tenore letterale delle
disposizioni richiamate, è evidente che
l'art. 39, comma 1, pone il limite volumetrico per tutte le
opere abusive, indipendentemente dalla loro destinazione,
mentre il comma 16 del medesimo articolo, il quale a sua
volta richiama l'art. 34, comma 7, legge 47/1985, disciplina
esclusivamente il calcolo dell'oblazione e la deroga alla
volumetria è giustificata dai motivi indicati dalla
giurisprudenza amministrativa e dei quali si è detto in
precedenza.
A conclusioni analoghe è pervenuta, come si è già accennato,
una decisione della Prima Sezione Civile di questa Corte
(Sez. 1, Sentenza n. 4640 del 26/02/2009, Rv. 607037) nella
quale si è osservato come «la dizione
adoperata dal primo comma del più volte menzionato art. 39,
e la manifesta intenzione ivi espressa dal legislatore di
porre un limite inderogabile, di carattere generale, alla
sanabilità degli abusi edilizi, ricollegando detto limite
all'oggettiva entità dell'abuso e, di conseguenza,
all'entità della lesione da esso inferta ai valori espressi
dalla normativa urbanistica a tutela di un interesse
pubblico preminente, inducono senz'altro ad escludere
un'interpretazione della norma che vada al di là di quanto
in essa enunciato e sia tesa a circoscriverne la portata ai
soli edifici a destinazione residenziale»,
rilevando, inoltre, che la deroga di cui all'art. 39, comma
16, concerne esclusivamente l'oblazione e la sua misura e
non anche la sanatoria, richiamando, quindi e condividendo
le menzionate pronunce del giudice amministrativo.
5. Ritiene pertanto il Collegio di affermare il principio
secondo il quale ai fini del
perfezionamento del condono edilizio di cui alla legge
724/1994, il limite volumetrico di 750 metri cubi previsto
dall'art. 39, comma 1, è applicabile a tutte le opere, senza
alcuna distinzione tra residenziali e non residenziali.
Sulla base di quanto appena affermato, dunque, anche per le
opere oggetto dell'ordinanza impugnata opera il limite di
volumetria, a nulla rilevando la loro destinazione ad uso
non residenziale.
6. Va aggiunto, poi, con riferimento al secondo motivo di
ricorso, che il mancato rispetto del limite di cubatura è
stato correttamente valutato dal giudice dell'esecuzione
sulla base della volumetria complessiva del manufatto (che
viene indicata in mc. 432 per ciascun piano)
indipendentemente dal numero delle istanze di condono
presentate (risultando, nel caso specifico, rilasciati 5
diversi titoli abilitativi in sanatoria in favore del
medesimo soggetto) avendo questa Corte
ripetutamente escluso la possibilità di aggirare il limite
volumetrico mediante il fittizio frazionamento dell'immobile
(cfr. Sez. 3, n. 12353 del 2/10/2013 (dep. 2014), Cantiello,
Rv. 259292Sez. 3, n. 9598 del 09/02/2012, Buondonno, Rv.
252364, cit.; Sez. 3, n. 33796 del 23/06/2005, Brigante, Rv.
232481; Sez. 3, n. 20161 del 19/04/2005, Merra, Rv. 231643;
Sez. 3, n. 10500 del 02/07/1998, San Martino G, Rv. 211856)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 22.07.2015 n. 31955). |
APPALTI:
Interdittiva antimafia per «fatti attuali». Consiglio di
Stato. Nullo l’atto basato su un episodio tra indizi già
ritenuti inidonei.
Se la precedente interdittiva antimafia è stata
annullata per l’assenza di validi indizi di condizionamento
mafioso dell’impresa, la nuova misura prefettizia non può
basarsi su un solo fatto isolato e non più attuale rispetto
al quadro indiziario già esaminato.
L’ha stabilito il
Consiglio di Stato, Sez. III, nella
sentenza 22.07.2015 n. 3637, accogliendo il
ricorso di un’impresa produttrice di calcestruzzi contro la
quarta misura prefettizia emessa a proprio carico e
giudicata legittima in primo grado anche se fondata su
elementi istruttori «ripresi dalle precedenti
informazioni» della prima, annullata in altro giudizio
–soci assolti dall’accusa di reati di associazione di tipo
mafioso ed estorsione e sequestro preventivo revocato– e
ritenuti «non (...) idonei di per sé stessi a fondare una
valutazione di esistenza di un pericolo di infiltrazione da
parte della criminalità organizzata».
L’informativa era stata emessa per il presunto
coinvolgimento del fratello dei soci dell’azienda ricorrente
in un’inchiesta per turbativa d’asta (articolo 353 del
Codice penale) aperta da una Direzione distrettuale
antimafia: come ricostruito dal Prefetto, risultava indagato
per il reato di frode in forniture pubbliche (articolo 356
del Codice penale) per aver fornito cemento ritenuto «impoverito»
dell’azienda di famiglia a un’altra incaricata da un
pubblico consorzio industriale al ripristino di canali
idraulici lungo una ferrovia, poi in subappalto a una terza
ditta considerata «mero schermo» di una cosca e in
presunta «contiguità» a lui e ai fratelli soci.
Per la ricorrente, l’interdittiva violava il Codice
antimafia (Dlgs 159/2011) che la giustifica per tentativi di
infiltrazione anche per turbativa d’asta, ma solo su «provvedimenti
che dispongono una misura cautelare o il giudizio, ovvero
che recano una condanna anche non definitiva» assenti
nel caso in esame (lettera a, comma 4, articolo 84).
Accogliendo il ricorso, i giudici hanno spiegato che «l’innalzamento
della soglia di anticipata di tutela delle condizioni di
sicurezza e ordine pubblico non esime, tuttavia, l’Autorità
di pubblica sicurezza da una prudente, esatta ed esaustiva
acquisizione e valutazione dei presupposti del provvedere,
considerata anche l’incidenza della misura interdittiva
sulla sfera di libertà e di iniziativa economica del
destinatario».
Nel caso di specie, l’informativa «resta affidata a un
solo fatto che si ascrive al fratello dei soci della ditta
(...)» –risalente a tre anni prima– per cui è
censurabile il «carattere isolato e non collegato
all’attualità dell’elemento che ha dato ingresso alla misura
interdittiva, che da solo –una volta escluso ogni valore
indiziante dei fatti posti a sostegno del precedente
provvedimento di interdittiva annullato (...)– non si
configura idoneo a sostenere la misura di interdittiva».
Sulla base di tali fatti isolati si esclude «una
situazione ambientale che, con carattere di attualità, metta
in pericolo l’autonomia di indirizzo dell’attività sociale o
che possa essere espressione di un’infiltrazione anche
potenziale della criminalità organizzata», posto che la
Pa può intervenire in caso di «nuovi e concreti elementi
di indagine significativi del paventato periculum»
(articolo Il Sole 24 Ore del
20.08.2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’articolo 30, comma 3, del decreto legge dispone che
“Salva diversa disciplina regionale, previa comunicazione
del soggetto interessato, sono prorogati di due anni i
termini di inizio e di ultimazione dei lavori di cui
all'articolo 15 del dpr 06.06.2001, n. 380, come indicati nei titoli abilitativi
rilasciati o comunque formatisi antecedentemente all'entrata
in vigore del presente decreto, purché i suddetti termini
non siano già decorsi al momento della comunicazione
dell'interessato e sempre che i titoli abilitativi non
risultino in contrasto, al momento della comunicazione
dell'interessato, con nuovi strumenti urbanistici approvati
o adottati. (...)”.
L’istituto della proroga straordinaria, introdotto in via di
eccezione dalla suddetta disposizione normativa, prevede
alcune rilevanti peculiarità rispetto alla proroga
ordinaria.
Il legislatore ha, invero, espressamente stabilito:
- che il prolungamento dell’efficacia del titolo edilizio
non sia subordinato alla valutazione, da parte del Comune,
della sussistenza dei rigorosi presupposti di cui
all’articolo 15, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, ma
operi a prescindere da ogni verifica in ordine alle
circostanze che determinano il mancato rispetto del termine
originariamente previsto;
- che, conseguentemente, il Comune sia chiamato unicamente a
controllare, a seguito della comunicazione del privato, che
quest’ultimo abbia dichiarato di avvalersi della proroga
legittimamente, ossia in presenza di tutte le condizioni
stabilite direttamente dalla norma primaria;
- che, in particolare, l’operatività della proroga sia
subordinata alla circostanza che l’intervento non si ponga
in contrasto con gli strumenti urbanistici approvati o anche
solo adottati;
- che la proroga operi anche per gli interventi oggetto di
denuncia di inizio di attività o di segnalazione certificata
di inizio di attività, secondo quanto espressamente previsto
dall’articolo 4 del medesimo articolo 30 del decreto legge
n. 69 del 2013 (“La disposizione di cui al comma 3 si
applica anche alle denunce di inizio attività e alle
segnalazioni certificate di inizio attività presentate entro
lo stesso termine”).
Si tratta, con ogni evidenza, di una previsione di carattere
eccezionale e derogatorio rispetto al sistema, poiché la
durata limitata nel tempo dei titoli edificatori risponde a
esigenze di certezza e di tutela dell’interesse pubblico e
della stessa potestà pianificatoria dei comuni; esigenze,
queste, che sarebbero tutte frustrate dalla previsione della
possibilità del protrarsi a tempo indeterminato delle
attività comportanti la trasformazione del territorio.
L’operatività del nuovo istituto è pertanto –coerentemente– circoscritta dallo stesso legislatore a un periodo
determinato, e le relative previsioni sono valevoli una
tantum.
---------------
Ritiene il Collegio che plurime ragioni inducano a ritenere
che la proroga straordinaria prevista
dal decreto legge n. 69/2013 sia preclusa in ogni
ipotesi di contrasto dell’intervento con gli strumenti
urbanistici adottati o approvati, a prescindere dalla
circostanza che i lavori siano iniziati o meno.
Tale tesi, invero:
- trova riscontro nel tenore letterale della disposizione,
che non reca alcuna distinzione tra le diverse fattispecie
astrattamente ipotizzabili;
- è coerente con la portata eccezionale della disposizione,
che di per sé impone di riconoscere un’interpretazione
restrittiva alla sua portata derogatoria rispetto al
sistema;
- è ragionevole e coerente rispetto alla circostanza che la
previsione opera indiscriminatamente su tutto il territorio
nazionale e non consente alcun margine di valutazione ai
Comuni; e invero, la totale preclusione di operatività della
proroga in ogni caso di contrasto con strumenti urbanistici,
anche solo adottati, trova adeguata giustificazione nella
necessità di contemperare le eccezionali ragioni prese in
considerazione dal legislatore con l’esigenza di
salvaguardare l’autonomia degli Enti locali nell’esercizio
delle proprie prerogative in materia di governo del
territorio.
L’interpretazione letterale è, inoltre, l’unica che possa
logicamente attribuirsi alla disposizione, al fine di
riconoscere una portata applicativa ragionevole alle
condizioni preclusive della proroga previste dal
legislatore. E invero, in caso di incompatibilità
dell’intervento con il piano approvato, la circostanza che i
lavori non siano ancora avviati determina di per sé
l’automatica decadenza del titolo edilizio (ai sensi
dell’articolo 15, comma 4, del d.P.R. n. 380 del 2001).
Conseguentemente, l’interpretazione proposta dalla parte
ricorrente attribuirebbe un effettivo ambito di operatività
alla condizione preclusiva della proroga stabilita dal
legislatore nelle sole, limitate, ipotesi di contrasto
dell’intervento, non ancora avviato, con un piano soltanto
adottato, poiché unicamente in questo caso il titolo non
decadrebbe (ai sensi del richiamato articolo 15, comma 4, del d.P.R. n. 380 del 2001) e sarebbe, tuttavia, non prorogabile
(per effetto dell’articolo 30, comma 3, del decreto legge n.
69 del 2013).
In definitiva, per tutte le suesposte ragioni, il
Collegio ritiene che la previsione normativa debba
intendersi nel senso che la proroga una tantum sia esclusa
in qualunque ipotesi di contrasto dell’intervento con
strumenti urbanistici adottati o approvati.
1. Con il primo motivo la parte ricorrente allega
l’illegittimità della nota del 20.01.2014, in quanto, a
suo avviso, la possibilità di valersi –con riferimento alla
denuncia di inizio di attività del 14.05.2010– della
proroga del termine per l’ultimazione dei lavori prevista
dall’articolo 30, comma 3, del decreto legge n. 69 del 2013,
non sarebbe preclusa dal contrasto dell’intervento con lo
strumento urbanistico sopravvenuto.
In particolare, il Fallimento ritiene che un’interpretazione
della disposizione condotta alla luce della sua ratio e
della volontà del legislatore dovrebbe indurre a concludere
che la sopravvenienza di strumenti incompatibili
precluderebbe solo la proroga del termine di inizio dei
lavori, ma non anche del termine di conclusione dei lavori
già avviati.
La tesi non può essere condivisa, per le ragioni che di
seguito si espongono.
1.1 L’articolo 30, comma 3, del decreto legge dispone che
“Salva diversa disciplina regionale, previa comunicazione
del soggetto interessato, sono prorogati di due anni i
termini di inizio e di ultimazione dei lavori di cui
all'articolo 15 del decreto del Presidente della Repubblica
06.06.2001, n. 380, come indicati nei titoli abilitativi
rilasciati o comunque formatisi antecedentemente all'entrata
in vigore del presente decreto, purché i suddetti termini
non siano già decorsi al momento della comunicazione
dell'interessato e sempre che i titoli abilitativi non
risultino in contrasto, al momento della comunicazione
dell'interessato, con nuovi strumenti urbanistici approvati
o adottati. (...)”.
L’istituto della proroga straordinaria, introdotto in via di
eccezione dalla suddetta disposizione normativa, prevede
alcune rilevanti peculiarità rispetto alla proroga
ordinaria.
Il legislatore ha, invero, espressamente stabilito:
- che il prolungamento dell’efficacia del titolo edilizio
non sia subordinato alla valutazione, da parte del Comune,
della sussistenza dei rigorosi presupposti di cui
all’articolo 15, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, ma
operi a prescindere da ogni verifica in ordine alle
circostanze che determinano il mancato rispetto del termine
originariamente previsto;
- che, conseguentemente, il Comune sia chiamato unicamente a
controllare, a seguito della comunicazione del privato, che
quest’ultimo abbia dichiarato di avvalersi della proroga
legittimamente, ossia in presenza di tutte le condizioni
stabilite direttamente dalla norma primaria;
- che, in particolare, l’operatività della proroga sia
subordinata alla circostanza che l’intervento non si ponga
in contrasto con gli strumenti urbanistici approvati o anche
solo adottati;
- che la proroga operi anche per gli interventi oggetto di
denuncia di inizio di attività o di segnalazione certificata
di inizio di attività, secondo quanto espressamente previsto
dall’articolo 4 del medesimo articolo 30 del decreto legge
n. 69 del 2013 (“La disposizione di cui al comma 3 si
applica anche alle denunce di inizio attività e alle
segnalazioni certificate di inizio attività presentate entro
lo stesso termine”).
Si tratta, con ogni evidenza, di una previsione di carattere
eccezionale e derogatorio rispetto al sistema, poiché la
durata limitata nel tempo dei titoli edificatori risponde a
esigenze di certezza e di tutela dell’interesse pubblico e
della stessa potestà pianificatoria dei comuni; esigenze,
queste, che sarebbero tutte frustrate dalla previsione della
possibilità del protrarsi a tempo indeterminato delle
attività comportanti la trasformazione del territorio.
L’operatività del nuovo istituto è pertanto –coerentemente– circoscritta dallo stesso legislatore a un periodo
determinato, e le relative previsioni sono valevoli una
tantum.
1.2 Ciò posto, ritiene il Collegio che plurime ragioni
inducano a ritenere che la proroga straordinaria prevista
dal decreto legge n. 69 del 2013 sia preclusa in ogni
ipotesi di contrasto dell’intervento con gli strumenti
urbanistici adottati o approvati, a prescindere dalla
circostanza che i lavori siano iniziati o meno.
Tale tesi, invero:
- trova riscontro nel tenore letterale della disposizione,
che non reca alcuna distinzione tra le diverse fattispecie
astrattamente ipotizzabili;
- è coerente con la portata eccezionale della disposizione,
che di per sé impone di riconoscere un’interpretazione
restrittiva alla sua portata derogatoria rispetto al
sistema;
- è ragionevole e coerente rispetto alla circostanza che la
previsione opera indiscriminatamente su tutto il territorio
nazionale e non consente alcun margine di valutazione ai
Comuni; e invero, la totale preclusione di operatività della
proroga in ogni caso di contrasto con strumenti urbanistici,
anche solo adottati, trova adeguata giustificazione nella
necessità di contemperare le eccezionali ragioni prese in
considerazione dal legislatore con l’esigenza di
salvaguardare l’autonomia degli Enti locali nell’esercizio
delle proprie prerogative in materia di governo del
territorio.
L’interpretazione letterale è, inoltre, l’unica che possa
logicamente attribuirsi alla disposizione, al fine di
riconoscere una portata applicativa ragionevole alle
condizioni preclusive della proroga previste dal
legislatore. E invero, in caso di incompatibilità
dell’intervento con il piano approvato, la circostanza che i
lavori non siano ancora avviati determina di per sé
l’automatica decadenza del titolo edilizio (ai sensi
dell’articolo 15, comma 4, del d.P.R. n. 380 del 2001).
Conseguentemente, l’interpretazione proposta dalla parte
ricorrente attribuirebbe un effettivo ambito di operatività
alla condizione preclusiva della proroga stabilita dal
legislatore nelle sole, limitate, ipotesi di contrasto
dell’intervento, non ancora avviato, con un piano soltanto
adottato, poiché unicamente in questo caso il titolo non
decadrebbe (ai sensi del richiamato articolo 15, comma 4, del d.P.R. n. 380 del 2001) e sarebbe, tuttavia, non prorogabile
(per effetto dell’articolo 30, comma 3, del decreto legge n.
69 del 2013).
1.3 In definitiva, per tutte le suesposte ragioni, il
Collegio ritiene che la previsione normativa debba
intendersi nel senso che la proroga una tantum sia esclusa
in qualunque ipotesi di contrasto dell’intervento con
strumenti urbanistici adottati o approvati.
Va, conseguentemente, respinto il primo motivo di ricorso
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 22.07.2015 n. 1764 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
L'articolo 13, comma 11,
della legge regionale n. 12/2005 dispone espressamente che
“Gli atti di PGT acquistano efficacia con la pubblicazione
dell'avviso della loro approvazione definitiva sul
Bollettino Ufficiale della Regione, da effettuarsi a cura
del comune”. Da tale data, quindi, il piano determina la
modificazione permanente della situazione giuridica dei
suoli e, perciò, produce diretti effetti nella sfera
giuridica dei proprietari dei terreni.
Di conseguenza, è da tale data che decorre anche il termine
per l’impugnazione.
Conclusione, questa, che è in linea con quanto affermato
dalla giurisprudenza, la quale ha ritenuto che è dal momento
in cui sono espletate le modalità di pubblicazione previste
dalla legge che decorre il termine per la proposizione del
ricorso avverso lo strumento urbanistico.
---------------
L’entrata in vigore di un nuovo strumento urbanistico
determina di per sé una modificazione permanente della
situazione giuridica dei suoli e, quindi, dispiega
immediatamente un’efficacia lesiva nei confronti dei
relativi proprietari.
Conseguentemente, laddove il piano abbia ridotto la capacità
edificatoria del suolo, il proprietario è immediatamente
leso da tale determinazione, e ha quindi l’onere di
impugnarla entro l’ordinario termine di decadenza,
decorrente dal termine di entrata in vigore dello strumento
urbanistico.
La circostanza che il singolo proprietario possa, in quel
momento storico, essere già in possesso di un titolo
edificatorio che gli permette di realizzare quanto previsto
dal precedente strumento urbanistico, non differisce da
quella del proprietario che abbia già costruito o che, nel
momento dell’entrata in vigore del piano, non abbia la
possibilità o l’intenzione di costruire: si tratta, in tutti
tali casi, di situazioni di mero fatto, che non incidono
sulla oggettiva immediata lesività dello strumento
urbanistico. Quest’ultimo è, invero, destinato a
condizionare permanentemente le successive utilizzazioni
dell’area e, quindi, incide in ogni caso sulle prerogative
del proprietario, anche laddove un titolo edilizio sia già
stato rilasciato o l’edificazione sia già stata completata
in base al precedente strumento.
D’altro canto, ammettere che la parte in possesso di un
titolo edificatorio possa impugnare il piano solo allorché,
non essendo in grado di ultimare i lavori nel termine, si
sia vista costretta ad avvalersi della proroga, equivale a
differire i termini di decadenza per l’impugnazione dello
strumento urbanistico da parte dei proprietari dei suoli
–termini stabiliti per legge con fini di certezza giuridica–
facendoli dipendere da una circostanza di mero fatto (la
mancata ultimazione dei lavori nel termine), peraltro
totalmente dipendente dal comportamento del soggetto
interessato.
---------------
La consolidata giurisprudenza della Sezione ha da tempo
affermato, con orientamento che il Collegio pienamente
condivide, che i termini per l’approvazione del PGT
stabiliti dall’articolo 13, commi 7 e 7-bis, della legge
regionale n. 12 del 2005 hanno carattere ordinatorio e non
perentorio e, conseguentemente, il superamento di tali
scadenze non determina il venir meno degli atti della
procedura pianificatoria già compiuti (ndr: deliberazione di
adozione).
---------------
Secondo costante giurisprudenza, la semplice modifica in
peius, rispetto al precedente strumento urbanistico, delle
aspettative edificatorie di un fondo non determina, di per
sé, l’onere per l’amministrazione di fornire alcuna
particolare motivazione. E ciò salvo che ricorra una delle
peculiari situazioni in relazione alle quali la
giurisprudenza ha ritenuto che sussista un’aspettativa
qualificata, tale da rendere necessaria una più intensa e
specifica motivazione.
Nessuna di tali situazioni è, però ravvisabile nel caso di
specie, posto che –anche laddove fosse comprovata la
presenza di un lotto intercluso, che è un dato meramente
affermato dalla parte– tale circostanza potrebbe rilevare,
al più, unicamente laddove il nuovo strumento urbanistico
avesse introdotto la modificazione in zona agricola della
destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi
edificati in modo non abusivo.
2. Con il secondo motivo il Fallimento ricorrente allega una
pluralità di censure contro il Piano di Governo del
Territorio del Comune di Milano.
2.1 La parte afferma che il proprio interesse a ricorrere
contro lo strumento urbanistico sarebbe sorto unicamente a
seguito dell’esito negativo della comunicazione di proroga
del titolo edilizio. Il piano sarebbe invero divenuto lesivo
soltanto una volta che ha prodotto il concreto risultato di
impedire il completamento dell’intervento già avviato.
Per questa ragione, il Fallimento chiede espressamente che –sulla base delle censure allegate nel ricorso– sia
dichiarata in ogni caso l’inefficacia dell’intera procedura
di pianificazione. E ciò al fine di ottenere, in esito alla
riedizione del potere, la possibilità di fare salva la
realizzazione dell’intervento oggetto della denuncia di
inizio di attività del 14.05.2010, che era stato
progettato sfruttando la capacità edificatoria attribuita
all’area dal Piano Regolatore Generale previgente.
2.2 La difesa comunale eccepisce l’irricevibilità delle
censure, in quanto proposte dopo la scadenza del termine per
l’impugnazione del PGT, termine che dovrebbe decorrere
necessariamente dalla data di pubblicazione dell’avviso di
deposito sul Bollettino Ufficiale della Regione Lombardia,
avvenuta il 22.11.2012.
2.3 L’eccezione comunale merita condivisione.
E invero, l’articolo 13, comma 11, della legge regionale n.
12 del 2005 dispone espressamente che “Gli atti di PGT
acquistano efficacia con la pubblicazione dell'avviso della
loro approvazione definitiva sul Bollettino Ufficiale della
Regione, da effettuarsi a cura del comune”. Da tale data,
quindi, il piano determina la modificazione permanente della
situazione giuridica dei suoli e, perciò, produce diretti
effetti nella sfera giuridica dei proprietari dei terreni.
Di conseguenza, è da tale data che decorre anche il termine
per l’impugnazione.
Conclusione, questa, che è in linea con quanto affermato
dalla giurisprudenza, la quale ha ritenuto che è dal momento
in cui sono espletate le modalità di pubblicazione previste
dalla legge che decorre il termine per la proposizione del
ricorso avverso lo strumento urbanistico (Cons. Stato, Sez.
IV, 19.07.2004, n. 5225; Id. 08.07.2003, n. 4040;
Id., 23.11.2002, n. 6436).
Secondo la tesi della parte ricorrente, lo strumento
urbanistico non sarebbe stato lesivo al momento dell’entrata
in vigore, in quanto la Società, poi fallita, era in
possesso a quella data di un titolo edificatorio efficace e
non caducato dalla sopravvenienza del nuovo piano.
Al riguardo, deve tuttavia obiettarsi che la lesività del
provvedimento amministrativo, e il conseguente interesse a
invocare avverso di esso la tutela giurisdizionale, devono
essere valutati in termini oggettivi, ossia tenendo conto
dell’idoneità dell’atto a incidere sulla situazione
giuridica del soggetto, e della correlata possibilità che
l’intervento del giudice assicuri alla parte un risultato
utile, in termini di eliminazione dell’effetto lesivo
oggettivamente verificatosi.
Ora, l’entrata in vigore di un nuovo strumento urbanistico
determina di per sé una modificazione permanente della
situazione giuridica dei suoli e, quindi, dispiega
immediatamente un’efficacia lesiva nei confronti dei
relativi proprietari.
Conseguentemente, laddove il piano abbia ridotto la capacità
edificatoria del suolo, il proprietario è immediatamente
leso da tale determinazione, e ha quindi l’onere di
impugnarla entro l’ordinario termine di decadenza,
decorrente dal termine di entrata in vigore dello strumento
urbanistico.
La circostanza che il singolo proprietario possa, in quel
momento storico, essere già in possesso di un titolo
edificatorio che gli permette di realizzare quanto previsto
dal precedente strumento urbanistico, non differisce da
quella del proprietario che abbia già costruito o che, nel
momento dell’entrata in vigore del piano, non abbia la
possibilità o l’intenzione di costruire: si tratta, in tutti
tali casi, di situazioni di mero fatto, che non incidono
sulla oggettiva immediata lesività dello strumento
urbanistico. Quest’ultimo è, invero, destinato a
condizionare permanentemente le successive utilizzazioni
dell’area e, quindi, incide in ogni caso sulle prerogative
del proprietario, anche laddove un titolo edilizio sia già
stato rilasciato o l’edificazione sia già stata completata
in base al precedente strumento.
D’altro canto, ammettere che la parte in possesso di un
titolo edificatorio possa impugnare il piano solo allorché,
non essendo in grado di ultimare i lavori nel termine, si
sia vista costretta ad avvalersi della proroga, equivale a
differire i termini di decadenza per l’impugnazione dello
strumento urbanistico da parte dei proprietari dei suoli –termini stabiliti per legge con fini di certezza giuridica–
facendoli dipendere da una circostanza di mero fatto (la
mancata ultimazione dei lavori nel termine), peraltro
totalmente dipendente dal comportamento del soggetto
interessato.
Ciò che, ancora una volta, si pone in contrasto con i
principi.
3. Pur tuttavia, anche a voler ammettere che –seguendo la
tesi della parte ricorrente– l’interesse a impugnare il
piano sia sorto solo e unicamente a seguito
dell’impossibilità di ottenere la proroga del titolo
edificatorio, le censure proposte non potrebbero ugualmente
trovare accoglimento, per le ragioni che di seguito si
espongono.
3.1 Quanto alla censura sopra indicata al punto II – (i), la
consolidata giurisprudenza della Sezione ha da tempo
affermato, con orientamento che il Collegio pienamente
condivide, che i termini per l’approvazione del PGT
stabiliti dall’articolo 13, commi 7 e 7-bis, della legge
regionale n. 12 del 2005 hanno carattere ordinatorio e non
perentorio e, conseguentemente, il superamento di tali
scadenze non determina il venir meno degli atti della
procedura pianificatoria già compiuti (TAR Lombardia,
Milano, Sez. II, 24.04.2015, n. 1032; Id., 19.11.2014, n. 2765; Id., 11.01.2013, n. 86; Id., 20.12.2010, n. 7614; Id., 10.12.2010, n. 7508).
3.2 Una volta escluso che la scadenza del termine per
l’approvazione del PGT possa determinare il venir meno anche
della precedente delibera di adozione, deve conseguentemente
concludersi che l’eventuale accoglimento delle censure
indicate al punto II – (ii), (iii) e (iv) non determinerebbe
l’effetto ipotizzato dalla parte ricorrente, ossia la
caducazione dell’intera procedura pianificatoria.
Si tratta, infatti, di censure dirette nei confronti degli
atti dell’iter di formazione del PGT compiuti dopo la prima
approvazione (cui, come sopra detto, è seguita la revoca
della delibera di approvazione e la ripetizione dei passaggi
procedimentali successivi alla presentazione delle
osservazioni, fino a pervenire a una seconda approvazione).
L’accoglimento delle doglianze articolate comporterebbe,
quindi, la necessità di riportare la procedura
pianificatoria allo stadio della prima approvazione o
dell’adozione. Ciò, però, non consentirebbe alla parte di
ottenere il risultato utile cui essa dichiara di aspirare e
in relazione al quale prospetta il proprio interesse a
ricorrere, ossia la caducazione dell’intero iter, al fine di
fare salva la realizzazione dell’intervento oggetto della
denuncia di attività del 2010, basata sulla capacità
edificatoria attribuita all’area dal precedente Piano
Regolatore Generale.
In questi termini, le censure sono, quindi, da ritenere in
ogni caso inammissibili per difetto di interesse.
3.3 Analoga sorte riguarda la prima delle censure di cui al
punto II – (v), con la quale si lamenta il difetto di
specifica motivazione della scelta peggiorativa compiuta,
con riferimento (anche) all’area della parte ricorrente, in
occasione della seconda approvazione del PGT: pure in questo
caso l’eventuale accoglimento della censura non
determinerebbe il venir meno dell’intera procedura
pianificatoria e, quindi, non potrebbe soddisfare
l’interesse della parte ricorrente, come da essa stessa
prospettato.
Quanto alla seconda censura prospettata nel motivo II – (v),
la parte afferma che l’area di sua proprietà sarebbe un
lotto intercluso e, quindi –sia in occasione della prima
approvazione del PGT, che in occasione della seconda
approvazione– sarebbe stata necessaria una particolare
motivazione al fine di ridurre la relativa capacità
edificatoria.
La doglianza è infondata.
Basta, al riguardo, tenere presente che, secondo costante
giurisprudenza, la semplice modifica in peius, rispetto al
precedente strumento urbanistico, delle aspettative
edificatorie di un fondo non determina, di per sé, l’onere
per l’amministrazione di fornire alcuna particolare
motivazione (Cons. Stato, sez. IV, 23.06.2015 n. 3142;
Id. 15.05.2012, n. 2759; Id., 13.07.2011, n. 4242;
Id., 12.05.2011, n. 2683; Id., 24.02.2011, n.
1222; Id., 12.03.2009, n. 1477). E ciò salvo che ricorra
una delle peculiari situazioni in relazione alle quali la
giurisprudenza ha ritenuto che sussista un’aspettativa
qualificata, tale da rendere necessaria una più intensa e
specifica motivazione.
Nessuna di tali situazioni è, però ravvisabile nel caso di
specie, posto che –anche laddove fosse comprovata la
presenza di un lotto intercluso, che è un dato meramente
affermato dalla parte– tale circostanza potrebbe rilevare,
al più, unicamente laddove il nuovo strumento urbanistico
avesse introdotto la modificazione in zona agricola della
destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi
edificati in modo non abusivo (v. TAR Lombardia, Milano, 22.07.2014, n. 1972).
Nel caso di specie, non è però allegato che il PGT abbia
introdotto alcuna previsione specifica per l’area della
parte ricorrente, né che abbia azzerato la capacità
edificatoria del fondo, risultando che sia stata unicamente
prevista una riduzione della capacità edificatoria.
Scelta, questa, che evidentemente non richiedeva in sé
alcuna specifica motivazione, oltre a quella evincibile dai
criteri generali di impostazione del piano.
3.4 In definitiva, tutte le censure articolate dalla
ricorrente contro il PGT sono irricevibili e, comunque,
anche inammissibili o infondate nel merito
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 22.07.2015 n. 1764 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’improrogabilità dei termini
per l’ultimazione dei lavori oggetto di d.i.a. –beninteso,
ordinariamente, e al di fuori dell’ambito di applicazione
dell’istituto introdotto una tantum dal decreto legge n. 69
del 2013, secondo quanto sopra detto– costituisce un tratto
caratterizzante dell’istituto della denuncia di inizio di
attività, chiaramente delineato dalla disciplina normativa
di fonte statale e regionale, come del resto affermato dalla
giurisprudenza.
Basti, al riguardo, tenere presente che:
- l’articolo 15, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, nel
prevedere la proroga “ordinaria” dei termini dei lavori, si
riferisce espressamente al solo permesso di costruire;
- l’articolo 23, comma 2, del medesimo d.P.R. n. 380 del
2001, dopo aver previsto che la denuncia di inizio attività
sia “sottoposta al termine massimo di efficacia pari a tre
anni” (così il primo periodo), stabilisce esplicitamente che
“La realizzazione della parte non ultimata dell'intervento è
subordinata a nuova denuncia” (così il secondo periodo);
- l’articolo 42, comma 6, della legge regionale n. 12 del
2005 parimenti dispone che “I lavori oggetto della denuncia
di inizio attività devono essere iniziati entro un anno
dalla data di efficacia della denuncia stessa ed ultimati
entro tre anni dall'inizio dei lavori. La realizzazione
della parte di intervento non ultimata nel predetto termine
è subordinata a nuova denuncia (...)”.
Per altro verso, la non prorogabilità, ordinariamente, dei
termini di ultimazione dei lavori oggetto di denuncia di
inizio attività è suffragata anche da un ulteriore argomento
a contrario, evincibile proprio dalla previsione
dell’articolo 30, comma 4, del decreto legge n. 69 del 2013,
che ha espressamente e appositamente previsto l’applicazione
della proroga straordinaria ed eccezionale dei termini di
ultimazione dei lavori anche con riferimento agli interventi
oggetto di denuncia di inizio attività.
Il legislatore ha quindi evidentemente inteso stabilire,
anche sotto questo profilo, una deroga al regime ordinario,
che di per sé esclude espressamente la possibilità per
l’Amministrazione di spostare in avanti i termini di
ultimazione degli interventi oggetto di denuncia di inizio
attività.
Il regime giuridico così delineato risulta, peraltro, non
irragionevole –in considerazione della natura e dei
caratteri della denuncia di inizio attività– né
discriminante rispetto a quello, diverso, stabilito per il
permesso di costruire, atteso altresì che costituisce pur
sempre una facoltà dell’interessato scegliere di richiedere
quest’ultimo titolo, in luogo di avvalersi dell’istituto
della d.i.a..
4. Venendo ai motivi aggiunti, va respinto il mezzo indicato
come terzo.
E invero, essendo allegata l’illegittimità derivata del
secondo diniego di proroga rispetto al PGT, il rigetto delle
censure dirette contro lo strumento urbanistico comporta che
uguale sorte debbano seguire anche tali prospettate
doglianze di illegittimità derivata.
5. Quanto alle ulteriori censure, deve rilevarsi che il
secondo diniego di proroga della d.i.a. reca due distinte
motivazioni, poiché in esso si legge:
- “Richiamato l’articolo 15.2 del D.P.R. n. 380/2001 il
nuovo titolo abilitativo conseguito con Dia non può
ritenersi pertanto idoneo al fine dell’ottenimento di una
eventuale proroga della fine dei lavori”;
- “Si fa presente infine che le opere ancora da realizzare
consistono nella completa realizzazione dei fabbricati in
progetto, elemento significativo nel considerare le
prescrizioni del nuovo strumento urbanistico prevalenti
sulla volontà di portare a compimento un’opera ora in
contrasto con la normativa attualmente in vigore”.
Ora, la parte ricorrente dirige le proprie censure –nel
motivo rubricato come quinto nel ricorso per motivi aggiunti– unicamente contro questa seconda ragione posta alla base
del provvedimento impugnato. Nessuna censura è invece
espressamente articolata nel ricorso contro la prima delle
motivazioni indicate dall’Amministrazione, ossia
l’impossibilità di carattere generale di prorogare i termini
per l’esecuzione degli interventi oggetto di denunce
d’inizio attività.
D’altro canto, anche a voler tenere conto di quanto
affermato dalla parte in memoria, laddove essa allega
l’irragionevolezza e la disparità di trattamento, rispetto
al regime del permesso di costruire, che deriverebbe
dall’improrogabilità della d.i.a., prospettando
l’illegittimità costituzionale della relativa disciplina (v.
memoria del 02.04.2015, p. 5 e pp. 11 e s.), il Collegio
ritiene che la motivazione addotta dal Comune sia
insuperabile, per le ragioni che di seguito si espongono.
Deve, anzitutto, rilevarsi che l’improrogabilità dei termini
per l’ultimazione dei lavori oggetto di d.i.a. –beninteso,
ordinariamente, e al di fuori dell’ambito di applicazione
dell’istituto introdotto una tantum dal decreto legge n. 69
del 2013, secondo quanto sopra detto– costituisce un tratto
caratterizzante dell’istituto della denuncia di inizio di
attività, chiaramente delineato dalla disciplina normativa
di fonte statale e regionale, come del resto affermato dalla
giurisprudenza (v. Cons. Stato, Sez. IV, 11.12.2013,
n. 5969, che conferma la sentenza di questa Sezione, 08.03.2013, n. 619).
Basti, al riguardo, tenere presente che:
- l’articolo 15, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, nel
prevedere la proroga “ordinaria” dei termini dei lavori, si
riferisce espressamente al solo permesso di costruire;
- l’articolo 23, comma 2, del medesimo d.P.R. n. 380 del
2001, dopo aver previsto che la denuncia di inizio attività
sia “sottoposta al termine massimo di efficacia pari a tre
anni” (così il primo periodo), stabilisce esplicitamente che
“La realizzazione della parte non ultimata dell'intervento è
subordinata a nuova denuncia” (così il secondo periodo);
- l’articolo 42, comma 6, della legge regionale n. 12 del
2005 parimenti dispone che “I lavori oggetto della denuncia
di inizio attività devono essere iniziati entro un anno
dalla data di efficacia della denuncia stessa ed ultimati
entro tre anni dall'inizio dei lavori. La realizzazione
della parte di intervento non ultimata nel predetto termine
è subordinata a nuova denuncia (...)”.
Per altro verso, la non prorogabilità, ordinariamente, dei
termini di ultimazione dei lavori oggetto di denuncia di
inizio attività è suffragata anche da un ulteriore argomento
a contrario, evincibile proprio dalla previsione
dell’articolo 30, comma 4, del decreto legge n. 69 del 2013,
che ha espressamente e appositamente previsto l’applicazione
della proroga straordinaria ed eccezionale dei termini di
ultimazione dei lavori anche con riferimento agli interventi
oggetto di denuncia di inizio attività.
Il legislatore ha quindi evidentemente inteso stabilire,
anche sotto questo profilo, una deroga al regime ordinario,
che di per sé esclude espressamente la possibilità per
l’Amministrazione di spostare in avanti i termini di
ultimazione degli interventi oggetto di denuncia di inizio
attività.
Il regime giuridico così delineato risulta, peraltro, non
irragionevole –in considerazione della natura e dei
caratteri della denuncia di inizio attività– né
discriminante rispetto a quello, diverso, stabilito per il
permesso di costruire, atteso altresì che costituisce pur
sempre una facoltà dell’interessato scegliere di richiedere
quest’ultimo titolo, in luogo di avvalersi dell’istituto
della d.i.a.
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 22.07.2015 n. 1764 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Accesso a
tutti i dati delle cartelle esattoriali. Tar di Napoli. La
Pa non può eccepire problemi tecnici per rifiutare la
domanda o rilasciare documenti parziali.
Il principio di trasparenza della Pa impone di
garantire ai contribuenti o alla stessa Pa il diritto di
accesso alle cartelle esattoriali, ovvero di estrarre copia
e prendere visione dell’intero atto e non di un suo
estratto.
L’ha chiarito il TAR Campania-Napoli -Sez. VI- nella
sentenza 17.07.2015 n. 3820,
accogliendo il ricorso di un legale contro il no delle
Entrate alla liquidazione di contributi unificati da lui
versati in eccesso in due giudizi amministrativi, avendone
disposto la compensazione con debiti erariali pendenti,
secondo l’articolo 28-ter del Dpr 602/1973.
Essendo a lui sconosciuti e mai notificati, il
professionista aveva chiesto l’accesso agli avvisi di
accertamento e alle cartelle di pagamento (e atti collegati)
in base alle norme sull’ «Accesso ai documenti
amministrativi», (articoli 22-28 della legge 241/1990).
L’Agenzia aveva fornito solo gli estratti di ruolo col
totale dei debiti, sostenendo la non accessibilità degli
atti d’esecuzione forzata e di non averne copia, poiché
inviati in unico originale al contribuente.
I giudici hanno spiegato invece che la citata legge sulla
riscossione all’articolo 26 «obbliga i concessionari
della riscossione a conservare per cinque anni la matrice o
la copia della cartella con la relazione dell’avvenuta
notificazione o l’avviso del ricevimento e a farne
esibizione su richiesta del contribuente o
dell’amministrazione» e che tale norma «non si pone
in contrasto con l’esclusione dell’accesso ai procedimenti
tributari sancita dall’articolo 24 della legge 241/1990 (…)
volta a preservare la fase temporale strettamente necessaria
all’istruttoria ed all’accertamento dell’obbligazione».
Per il Tar, la Pa poi «non può eccepire la presenza di
impedimenti tecnici che ostacolino l’accesso, o rilasciare
un documento equipollente o incompleto, in quanto l’elemento
fondante dell’actio ad exhibendum è proprio la conformità
del documento esibito dal privato cittadino all’originale»,
posto che «il contribuente vanta un interesse concreto e
attuale all’ostensione delle cartelle esattoriali dalla cui
conoscenza possano emergere vizi sostanziali procedimentali
tali da palesare l’illegittimità totale o parziale della
pretesa».
Come affermato nella sentenza, per garantire tale interesse
«non è sufficiente il mero deposito, in semplice copia,
agli atti del fascicolo di causa degli estratti di ruolo»,
poiché «la cartella di pagamento e l’estratto di ruolo
sono in realtà documenti diversi».
Secondo il collegio, mentre «la cartella esattoriale,
prevista dall’articolo 25 del Dpr 602/1973 è un documento
per la riscossione degli importi contenuti nei ruoli e deve
essere predisposta secondo il modello (…) del ministero
delle Finanze»; al contrario «gli estratti di ruolo
depositati agli atti di causa sono solo un elaborato
informatico formato dall’esattore che, sebbene
sostanzialmente contenente gli stessi elementi della
cartella originale sono, di fatto, un surrogato della
medesima, e non possono ritenersi ad essa equipollente,
mentre il diritto di estrarre copia e prendere visione di
documenti amministrativi fa rifermento propriamente ad atti
amministrativi e non a succedanei di questi»
(articolo Il Sole 24 Ore del
13.08.2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
I dissuasori si installano con la Scia.
Per posizionare dissuasori davanti a casa, al fine di
impedire la sosta delle auto, è sufficiente la Scia.
Lo ha chiarito il Consiglio di Stato, Sez. VI, con la
sentenza 16.07.2015 n. 3554.
In sostanza, se non è stata eseguita nessuna
opera muraria significativa ed i paletti, uniti al suolo
mediante un basamento di calcestruzzo, avvitati con bulloni,
non è necessario attendere l'autorizzazione dal Comune. Nel
caso specifico, si era trattato di opere finalizzate a
delimitare una proprietà e consentivano, comunque, l'accesso
a tutti, salvo che alle autovetture.
Insomma, c'erano i
presupposti, contrariamente a quanto aveva affermato il Tar,
per ritenere che il posizionamento dei paletti posti davanti
ai negozi ed al portone di accesso delle abitazioni, fosse
inidoneo a incidere sull'assetto edilizio del territorio.
La
realizzazione dei paletti, in pratica, va considerata
elemento accessorio (art. 3, comma 1, lett. c) del T.u.
380/2001 del 2001) con la conseguenza che nessun ordine di
demolizione può essere emesso, se non il pagamento di una
sanzione
(articolo ItaliaOggi Sette del 17.08.2015). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Lo
scorporo omesso non invalida la gara.
APPALTI/ Una decisione del Consiglio di stato.
Per gli appalti di forniture e di servizi, ove la lex
specialis non commini espressamente la sanzione espulsiva,
l'omessa indicazione nell'offerta dello scorporo matematico
degli oneri per la sicurezza da rischio specifico non
comporta di per sé l'esclusione dalla gara.
Lo hanno ribadito i giudici della III Sez. del Consiglio
di Stato con la
sentenza 14.07.2015 n. 3517.
In ossequio ad una indicazione giurisprudenziale, i giudici
di palazzo Spada hanno altresì ribadito che per gli appalti
pubblici diversi da quelli sui lavori pubblici, vige la
norma dettata ad hoc dall'art. 131 del dlgs 163/2006, in
virtù del quale la relativa quantificazione è rimessa al
piano di sicurezza e coordinamento ex art. 100 del dlgs 09.04.2008 n. 81, predisposto dalla stazione appaltante,
fermo sempre restando l'obbligo di verifica dell'adeguatezza
degli oneri stessi per tutti i contratti pubblici in forza
dell'art. 86, comma 3-bis, del medesimo decreto n. 163 (si
veda, tra le altre: Cons. st., V, 03.02.2015 n. 512).
I supremi giudici amministrativi hanno, poi, sottolineato
che l'indicazione, o meno, degli oneri certamente rileva, ma
ai fini dell'eventuale anomalia del prezzo offerto, nel
senso che il momento di valutazione dei suddetti oneri è non
già eliso, bensì solo differito al sub-procedimento di
verifica della congruità dell'offerta nel suo complesso
(cfr. così Cons. st., V, 23.02.2015 n. 884; id., III,
n. 2388/2015, cit.). La ragione va rinvenuta appunto
nell'art. 87, comma 4, del dlgs 163/2006, laddove «nella
valutazione dell'anomalia la stazione appaltante tiene conto
dei costi relativi alla sicurezza, che devono essere
specificamente indicati nell'offerta e risultare congrui
rispetto all'entità e alle caratteristiche dei servizi o
delle forniture».
Secondo il Consiglio di stato «il dato testuale non conclude
nel senso dell'obbligo d'uno scorporo matematico specifico a
pena di esclusione in sede d'offerta, ché, invece, detti
oneri sono elementi dell'offerta stessa che vanno
specificati e verificati ai soli fini del giudizio
d'anomalia».
Pertanto, nelle procedure a evidenza pubblica la regola di
specificazione (o di separata indicazione) dei costi di
sicurezza, ai sensi di citati artt. 86 e 87, opera in via
primaria nei confronti dei soggetti aggiudicatori nel
predisporre le gare di appalto e nella valutazione
dell'anomalia: però l'assenza di tale scorporo, fin dalla
fase di presentazione dell'offerta, si risolve in una causa
d'esclusione automatica dalla gara, né in sé, né con
riguardo al principio di tassatività della cause espulsive
previsti dal precedente art. 46, comma 1-bis (articolo ItaliaOggi Sette del 17.08.2015).
---------------
MASSIMA
Lamenta anzitutto l’appellante il mancato scorporo
matematico, da parte dell’aggiudicataria, degli oneri per la
sicurezza da rischio specifico in offerta, per vero non
avvenuto, ancorché non consti un obbligo specifico nella
lex specialis di gara.
Ora, non sfugge al Collegio che, per gli
appalti pubblici diversi da quelli sui lavori pubblici, vige
la norma dettata ad hoc dall'art. 131 del Dlgs 163/2006, in
virtù del quale la relativa quantificazione è rimessa al
piano di sicurezza e coordinamento ex art. 100 del Dlgs
09.04.2008 n. 81, predisposto dalla stazione appaltante,
fermo sempre restando l'obbligo di verifica dell'adeguatezza
degli oneri stessi per tutti i contratti pubblici in forza
dell'art. 86, c. 3-bis, del medesimo decreto n. 163
(cfr., p. es., Cons. St., V, 03.02.2015 n. 512).
Ma per gli appalti di forniture e di
servizi, nei cui riguardi vige una disciplina differente, il
principio da questa desumibile è nel senso che, ove la
lex specialis non commini espressamente la sanzione
espulsiva, l'omessa indicazione nell'offerta dello scorporo
matematico di detti oneri non comporta di per sé
l'esclusione dalla gara
(cfr., per tutti, Cons. St., V, 02.10.2014 n. 4907; id. III,
15.05.2015 n. 2388).
L’indicazione, o meno, degli oneri rileva
sì, ma ai fini dell'eventuale anomalia del prezzo offerto,
nel senso che il momento di valutazione dei suddetti oneri è
non già eliso, bensì solo differito al sub-procedimento di
verifica della congruità dell'offerta nel suo complesso
(cfr. così Cons. St., V, 23.02.2015 n. 884; id., III, n.
2388/2015, cit.).
La ragione va rinvenuta appunto nell'art.
87, c. 4, del Dlgs 163/2006, laddove «… nella valutazione
dell'anomalia la stazione appaltante tiene conto dei costi
relativi alla sicurezza, che devono essere specificamente
indicati nell'offerta e risultare congrui rispetto
all'entità e alle caratteristiche dei servizi o delle
forniture…». Il dato testuale non conclude nel senso
dell’obbligo d’uno scorporo matematico specifico a pena di
esclusione in sede d’offerta, ché, invece, detti oneri sono
elementi dell’offerta stessa che vanno specificati e
verificati ai soli fini del giudizio d’anomalia.
La ratio del puntuale richiamo,
nell'art. 87, c. 4, II per., circa la specifica indicazione
dei costi per la sicurezza per le offerte negli appalti di
servizi e forniture si riferisce alla particolare tipologia
delle prestazioni richieste per essi rispetto a quelli per
lavori, non già come obbligo delle imprese che vi
partecipano (se non in termini di congruità complessiva
delle rispettive offerte) e men che mai a pena d’esclusione,
neanche implicita o in via d’eterointegrazione della lex
specialis
(arg. ex Cons. St., III, 24.06.2014 n. 3195, con ampi
riferimenti a precedenti conformi; id., VI, 05.01.2015 n.
18).
È appena da soggiungere che l’eterointegrazione
intanto trova una giustificazione, in quanto occorra
conformare il contenuto del programma di obbligazioni
dedotte in un contratto ad esigenze imperative non
disponibili dalle parti. Ebbene, la Sezione
(cfr. Cons. St., III, 18.10.2013 n. 5069)
ha chiarito che l’eterointegrazione della lex specialis
si ha solo con riguardo ed in presenza di norme imperative
che già in sé rechino in modo rigoroso, evidente e
predefinito l’elemento che si deve sostituire alla clausola
difforme, e non quando alle parti spetti di definire in via
autonoma il quantum del corrispettivo e dei relativi
elementi.
Sicché, è vero che nelle procedure a
evidenza pubblica la regola di specificazione (o di separata
indicazione) dei costi di sicurezza, ai sensi di citati
artt. 86 e 87, opera in via primaria nei confronti dei
soggetti aggiudicatori nel predisporre le gare di appalto e
nella valutazione dell'anomalia. Non per ciò solo, tuttavia,
l'assenza di tal scorporo, fin dalla fase di presentazione
dell'offerta, si risolve in una causa d’esclusione
automatica dalla gara, né in sé, né con riguardo al
principio di tassatività della cause espulsive previsti dal
precedente art. 46, c. 1-bis.
Di ciò il TAR ha dato buona e precisa contezza, nei termini
fin qui visti e, di conseguenza, non vi sono ragioni per
riformare l’appellata sentenza sul punto e, nonostante il
diverso avviso di altra Sezione in ordine alla rimessione
all’Adunanza plenaria di questione analoga. |
ATTI AMMINISTRATIVI: Errori
scusabili, prova alla p.a.. Il privato può limitarsi a
invocare l'illegittimità dell'atto.
Il Tar Molise evidenzia in una sentenza anche la
tipizzazione delle situazioni esimenti.
In sede di giudizio per il risarcimento del danno derivante
da provvedimento amministrativo illegittimo, il privato
danneggiato può limitarsi a invocare l'illegittimità
dell'atto quale indice presuntivo della colpa, restando a
carico dell'amministrazione pubblica l'onere di dimostrare
che si è trattato di un errore scusabile.
È quanto è stato ribadito dai giudici del TAR Molise, con la
sentenza
10.07.2015 n. 303.
I giudici amministrativi campobassani hanno altresì
evidenziato che la giurisprudenza (si vedano: Cds, sez. III,
n. 2452/2013; sez. V, n. 798/2013; sez. VI, n. 1114/2007) ha
dato un rilevante contributo nel tipizzare talune
situazioni, sulla base delle quali può ritenersi che
l'emanazione dell'atto illegittimo sia stata determinata da
un errore scusabile.
Va, pertanto, ad integrare «gli estremi
dell'esimente da responsabilità l'esistenza di: a) contrasti
giurisprudenziali sull'interpretazione di una norma; b) una
formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore; c)
una rilevante complessità del fatto; d) una illegittimità
derivante da una successiva dichiarazione di
incostituzionalità della norma applicata».
È stato, poi, nella medesima sentenza ribadito che il danno
esistenziale non rappresenta una voce autonoma, poiché ad
eccezione dei casi determinati dalla legge ordinaria, solo
la lesione di un diritto inviolabile della persona
concretamente individuato risulta essere fonte di
responsabilità risarcitoria non patrimoniale; pertanto,
conseguenzialmente, non potranno considerarsi meritevoli di
tutela risarcitoria i pregiudizi consistenti in disagi,
fastidi, disappunti, e in ogni altro tipo di insoddisfazione
concernente gli aspetti più disparati della vita quotidiana
che ciascuno conduce nel contesto sociale; nel contesto
dell'art. 2059 c.c. trovano, infatti, tutela solo le
violazioni gravi di diritti inviolabili della persona, non
altrimenti rimediabili.
E in particolare tale tipologia di danno non può ritenersi
in re ipsa, ma può essere ammessa a riparazione solo nel
caso in cui consegua a violazioni gravi di diritti
costituzionali della persona «che, sul piano ontologico,
superino la soglia della tollerabilità e siano qualificate
dalla serietà dell'offesa e dalla gravità delle conseguenze
nella sfera personale» (TAR
Napoli Campania sezione VI, 02.04.2014, n. 1902).
Non possono, invece, considerarsi meritevoli di tutela
risarcitoria i pregiudizi consistenti in meri disagi,
disappunti e in ogni altro tipo di insoddisfazione
concernente gli aspetti più disparati della vita quotidiana
che ciascuno conduce nel contesto sociale
(articolo ItaliaOggi Sette del 17.08.2015).
---------------
MASSIMA
Accertata quindi la spettanza del trasferimento anelato
dal ricorrente, occorre verificare la sussistenza degli
ulteriori elementi, sopra citati, costitutivi dell’illecito,
ovvero la colpa dell’Amministrazione e il nesso di
causalità.
Orbene, quanto al primo, la giurisprudenza amministrativa ha
chiarito che, in sede di giudizio per il
risarcimento del danno derivante da provvedimento
amministrativo illegittimo, il privato danneggiato può
limitarsi a invocare l'illegittimità dell’atto quale indice
presuntivo della colpa, restando a carico
dell'Amministrazione l'onere di dimostrare che si è trattato
di un errore scusabile
(Cons. Stato, Sez. V, n. 4337/2012).
Sul punto, peraltro, la giurisprudenza ha
contribuito a tipizzare alcune situazioni, sulla base delle
quali può ritenersi che l’emanazione dell’atto illegittimo
sia stata determinata da un errore scusabile.
In particolare, si ritiene costantemente
(cfr. C.d.S., Sez. III, n. 2452/2013; Sez. V, n. 798/2013;
Sez. VI, n. 1114/2007) che integri gli
estremi dell’esimente da responsabilità l’esistenza di: a)
contrasti giurisprudenziali sull’interpretazione di una
norma; b) una formulazione incerta di norme da poco entrate
in vigore; c) una rilevante complessità del fatto; d) una
illegittimità derivante da una successiva dichiarazione di
incostituzionalità della norma applicata.
...
Con riguardo al danno non patrimoniale il ricorrente
asserisce di aver subito un danno esistenziale consistente
nel peggioramento della qualità della vita che dipenderebbe
dall’aver dovuto percorrere centinaia di chilometri al
giorno per spostarsi da una città all’altra, con la
preoccupazione di dover lasciare la madre senza assistenza
con nocumento all’armonia familiare in ragione della
scarsità del tempo a disposizione a causa dei continui
spostamenti.
Al riguardo ritiene il Collegio che tale danno non possa
essere risarcito, dovendosi richiamare il condiviso
precedente giurisprudenziale, secondo il quale
il danno esistenziale non costituisce una voce
autonoma, in quanto al di fuori dei casi determinati dalla
legge ordinaria, solo la lesione di un diritto inviolabile
della persona concretamente individuato è fonte di
responsabilità risarcitoria non patrimoniale;
conseguentemente non sono meritevoli di tutela risarcitoria
i pregiudizi consistenti, come quello addotto nella specie,
in disagi, fastidi, disappunti, e in ogni altro tipo di
insoddisfazione concernente gli aspetti più disparati della
vita quotidiana che ciascuno conduce nel contesto sociale;
nel contesto dell'art. 2059 c.c. trovano, infatti, tutela
solo le violazioni gravi di diritti inviolabili della
persona, non altrimenti rimediabili
(in tal senso Cass. ss.uu., 11.11.2008, n. 26972; Cons.
Stato, sez. VI, 23.03.2009, n. 1716; TAR Sicilia, sez. III,
27.01.2015, n. 245).
In particolare tale tipologia di danno non
può ritenersi in re ipsa,
ma può essere ammessa a riparazione solo qualora consegua a
violazioni gravi di diritti costituzionali della persona
che, sul piano ontologico, superino la soglia della
tollerabilità e siano qualificate dalla serietà dell'offesa
e dalla gravità delle conseguenze nella sfera personale; non
sono, invece, meritevoli di tutela risarcitoria i pregiudizi
consistenti in meri disagi, disappunti e in ogni altro tipo
di insoddisfazione concernente gli aspetti più disparati
della vita quotidiana che ciascuno conduce nel contesto
sociale (TAR
Napoli Campania sez. VI, 02.04.2014, n. 1902). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: La
sezione condivide l'impostazione del
TAR secondo cui le norme di cui agli artt. 242 e segg. del
d.lgs. n. 152/2006 vanno interpretate nel senso che
l'obbligo di adottare le misure dirette a fronteggiare la
situazione di inquinamento incombe su colui che di tale
situazione sia responsabile per avervi dato causa.
La fonte dell'obbligo di procedere alla messa in sicurezza e
all'eventuale bonifica del sito inquinato si identifica,
cioè, nella responsabilità dell'autore dell'inquinamento,
sicché al proprietario non responsabile di quest’ultimo -e
in questo senso «incolpevole»- non è addossabile alcun
obbligo di bonificare o di mettere in sicurezza.
Invero, l'Adunanza plenaria di questo Consiglio ha enunciato
i seguenti principi:
"Gli art. 244, 245 e 253 d.lgs. n. 152 del 2006 vanno
interpretati nel senso che, in caso di accertata
contaminazione di un sito, e di impossibilità di
individuarne il soggetto responsabile o di ottenere da
quest'ultimo interventi di riparazione, l’Amministrazione
non può imporre al proprietario non responsabile, che ha
solo una responsabilità patrimoniale limitata al valore del
sito dopo il compimento degli interventi di bonifica,
l'esecuzione delle misure di sicurezza d'emergenza e di
bonifica.
Ai sensi dell'art. 242 del d.lgs. n. 152/2006, infatti, è il
responsabile dell'inquinamento il soggetto sul quale gravano
gli obblighi di messa in sicurezza, bonifica e ripristino
ambientale in presenza di uno stato di contaminazione.
Il proprietario non responsabile è gravato di una specifica
obbligazione di «facere», che riguarda l'adozione delle
misure di prevenzione ex art. 242, comma 1 (che sono quelle
da intraprendere «entro ventiquattro ore», al verificarsi di
un evento potenzialmente in grado di contaminare il sito). A
carico del proprietario dell'area che non sia altresì
qualificabile come responsabile dell'inquinamento, non
incombe alcun ulteriore obbligo di «facere»; in particolare,
egli non è tenuto a porre in essere gli interventi di messa
in sicurezza d'emergenza e di bonifica, ma ha solo la
facoltà di eseguirli, per mantenere l'area libera da pesi
(art. 245).
Pertanto, nell'ipotesi di mancata individuazione del
responsabile, o di mancata esecuzione degli interventi in
esame da parte sua –e sempreché non provvedano
spontaneamente né il proprietario del sito, né altri
soggetti interessati–, le opere di recupero ambientale
devono essere eseguite dall'Amministrazione competente (art.
250), che potrà poi rivalersi sul proprietario del sito, nei
limiti del valore dell'area bonificata, anche esercitando,
ove la rivalsa non vada a buon fine, le garanzie gravanti
sul terreno oggetto dei medesimi interventi (art. 253).
L’Adunanza plenaria, infine, con la stessa pronuncia ha
rimesso alla Corte di giustizia dell'Unione europea la
questione pregiudiziale tesa a stabilire se ostassero alla
normativa nazionale così delineata i principi dell'Unione
europea in materia ambientale sanciti dall'art. 191, par. 2,
del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea e dalla
direttiva 2004/35/Ce del 21.04.2004 (in particolare, il
principio «chi inquina paga», il principio di precauzione,
il principio dell'azione preventiva, il principio, della
correzione, in via prioritaria, alla fonte, dei danni
causati all'ambiente)".
6a Il primo Giudice
ha rilevato che le norme di cui agli artt. 242 e segg. del
d.lgs. n. 152/2006 vanno interpretate nel senso che
l'obbligo di adottare le misure dirette a fronteggiare la
situazione di inquinamento incombe su colui che di tale
situazione sia responsabile per avervi dato causa.
La fonte dell'obbligo di procedere alla messa in sicurezza e
all'eventuale bonifica del sito inquinato si identifica,
cioè, nella responsabilità dell'autore dell'inquinamento,
sicché al proprietario non responsabile di quest’ultimo -e
in questo senso «incolpevole»- non è addossabile
alcun obbligo di bonificare o di mettere in sicurezza.
6b La Sezione condivide questa impostazione, attesa la sua
conformità agli orientamenti della Adunanza plenaria di
questo Consiglio, che con la decisione del 25.09.2013, n.
21, ha enunciato, invero, i seguenti principi.
Gli art. 244, 245 e 253 d.lgs. n. 152 del 2006 vanno
interpretati nel senso che, in caso di accertata
contaminazione di un sito, e di impossibilità di
individuarne il soggetto responsabile o di ottenere da
quest'ultimo interventi di riparazione, l’Amministrazione
non può imporre al proprietario non responsabile, che ha
solo una responsabilità patrimoniale limitata al valore del
sito dopo il compimento degli interventi di bonifica,
l'esecuzione delle misure di sicurezza d'emergenza e di
bonifica.
Ai sensi dell'art. 242 del d.lgs. n. 152/2006, infatti, è il
responsabile dell'inquinamento il soggetto sul quale gravano
gli obblighi di messa in sicurezza, bonifica e ripristino
ambientale in presenza di uno stato di contaminazione.
Il proprietario non responsabile è gravato di una specifica
obbligazione di «facere», che riguarda l'adozione
delle misure di prevenzione ex art. 242, comma 1 (che sono
quelle da intraprendere «entro ventiquattro ore», al
verificarsi di un evento potenzialmente in grado di
contaminare il sito). A carico del proprietario dell'area
che non sia altresì qualificabile come responsabile
dell'inquinamento, non incombe alcun ulteriore obbligo di «facere»;
in particolare, egli non è tenuto a porre in essere gli
interventi di messa in sicurezza d'emergenza e di bonifica,
ma ha solo la facoltà di eseguirli, per mantenere l'area
libera da pesi (art. 245).
Pertanto, nell'ipotesi di mancata individuazione del
responsabile, o di mancata esecuzione degli interventi in
esame da parte sua –e sempreché non provvedano
spontaneamente né il proprietario del sito, né altri
soggetti interessati–, le opere di recupero ambientale
devono essere eseguite dall'Amministrazione competente (art.
250), che potrà poi rivalersi sul proprietario del sito, nei
limiti del valore dell'area bonificata, anche esercitando,
ove la rivalsa non vada a buon fine, le garanzie gravanti
sul terreno oggetto dei medesimi interventi (art. 253).
L’Adunanza plenaria, infine, con la stessa pronuncia ha
rimesso alla Corte di giustizia dell'Unione europea la
questione pregiudiziale tesa a stabilire se ostassero alla
normativa nazionale così delineata i principi dell'Unione
europea in materia ambientale sanciti dall'art. 191, par. 2,
del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea e dalla
direttiva 2004/35/Ce del 21.04.2004 (in particolare, il
principio «chi inquina paga», il principio di
precauzione, il principio dell'azione preventiva, il
principio, della correzione, in via prioritaria, alla fonte,
dei danni causati all'ambiente).
La Corte di Giustizia, con la sentenza della Sez. III
04.03.2015, n. 534, si è pronunciata in senso negativo,
rilevando che la disciplina comunitaria non osta ad una
normativa nazionale dai contenuti sopra sintetizzati.
6c La Corte di Giustizia nell’occasione ha puntualizzato che
il principio «chi inquina paga», con il corollario
dell’immunità del proprietario incolpevole, varrebbe solo a
partire dall’aprile del 2007, dovendo farsi riferimento per
il periodo anteriore ai contenuti del diritto nazionale.
Da ciò le Amministrazioni parti in causa hanno tratto allora
l’illazione che la soc. M. potrebbe ben essere reputata
responsabile per i fatti anteriori al 2007.
A tanto l’originaria ricorrente ha però stato esattamente
obiettato che:
- il rilievo avrebbe richiesto la proposizione di un rituale
motivo d’appello avverso la sentenza in epigrafe, condizione
che non è stata soddisfatta;
- il provvedimento amministrativo impugnato (e, di riflesso,
la presente controversia) riguarda, in ogni caso, solo la
determinazione dell’aggravamento del cd «inquinamento
storico», che è stato accertato solo in epoca posteriore
(a partire dal 2010).
E’ pertanto irrilevante verificare se il diritto nazionale,
anche prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 152/2006,
abbia richiesto per l’imposizione degli interventi di messa
in sicurezza, bonifica e ripristino ambientale l’esistenza
di un nesso causale con la condotta del destinatario
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 09.07.2015
n. 3449
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In base all’art. 64 c.p.a., l’onere della prova
dell’epoca dell’abuso incombe sull’interessato, potendo tale
accertamento rilevare ai fini della ricognizione della
normativa ratione temporis applicabile.
L’assunto trova riscontro in recenti pronunce, essendosi
condivisibilmente sancito che “In materia edilizia, l'onere
della prova in ordine all'epoca di realizzazione di un abuso
edilizio grava sull'interessato che intende dimostrare la
legittimità del proprio operato, e non sul Comune che, in
presenza di un'opera edilizia non assistita da un titolo che
la legittimi, ha solo il potere-dovere di sanzionarla a
norma di legge”.
... Per l'annullamento del provvedimento n. prot. 21736,
notificato il 07/08/2014 di abbattimento della canna fumaria
a servizio del ristorante-pizzeria emesso dal Comune di
Portici.
...
4.1. Con il secondo mezzo il deducente rubricando
genericamente eccesso di potere per difetto dei presupposti
e di motivazione ed indeterminatezza, si duole che il Comune
non abbia indicato con certezza l’epoca di realizzazione del
manufatto, in particolare assumendo che essendo stata la
canna fumaria realizzata nel 1700, alcun permesso di
costruire era richiesto.
4.2. Siffatta doglianza è all’evidenza infondata, urtando
con la stessa descrizione materiale del manufatto contenuta
nel provvedimento e non contestata dall’esponente. Gli
accertatori hanno infatti rilevato che la canna fumaria
de qua, oltre ad avere rilevanti dimensioni (essendo
alta mt. 19,20 e avendo un diametro di 50 cm.) è in acciaio
inox.
Di talché è chiaro che non può essere stata costruita nel
‘700, poiché è notorio che l’acciaio inox è materiale di
epoca contemporanea.
Quanto, poi alla censura in ordine all’omessa indicazione
con certezza dell’epoca dell’abuso, tale profilo di
doglianza è infondato al lume della costante giurisprudenza
che precisa che, in base all’art. 64 c.p.a., l’onere della
prova dell’epoca dell’abuso incombe sull’interessato,
potendo tale accertamento rilevare ai fini della
ricognizione della normativa ratione temporis
applicabile.
L’assunto trova riscontro in recenti pronunce, essendosi
condivisibilmente sancito che “In materia edilizia,
l'onere della prova in ordine all'epoca di realizzazione di
un abuso edilizio grava sull'interessato che intende
dimostrare la legittimità del proprio operato, e non sul
Comune che, in presenza di un'opera edilizia non assistita
da un titolo che la legittimi, ha solo il potere-dovere di
sanzionarla a norma di legge” (TAR Marche, Sez. I
,12.12.2014 n. 1020; in terminis anche TAR
Campania-Napoli, Sez. II, 27.11.2014 n. 6118).
Peraltro, la doglianza in disamina potrebbe rinvenire
aspetti di rilevanza e radicare l’interesse del ricorrente
solo ove questi fosse riuscito a dimostrare che la canna
fumaria è stata costruita antecedentemente all’entrata in
vigore della legge urbanistica n. 1450/1942, che sancì la
necessità del permesso di costruire per creare volume
urbanisticamente rilevante e trasformazione del territorio
nei centri urbani, laddove la L. n. 765/1967 (c.d. Legge
Ponte) estese siffatta necessità anche agli edifici e ai
manufatti realizzati al di fuori del centro urbano.
Ma il deducente non ha affatto fornito la prova in discorso,
essendosi limitato all’apodittica ed infondata asserzione
secondo cui la canna fumaria de qua sarebbe stata costruita
nel ‘700 (TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 03.07.2015 n.
3612 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il ricorrente sostiene che il manufatto in
disamina (canna fumaria del diametro di 50 cm. e un’altezza
di ben 19,20 mt.) costituirebbe volume tecnico, come tale
privo di rilevanza urbanistica ed oltretutto non sarebbe
particolarmente pregiudizievole per il territorio e che
pertanto non occorrerebbe per la sua realizzazione
premunirsi del permesso di costruire.
Tale doglianza è infondata alla luce della giurisprudenza
pacifica, specie del Tribunale, che predica il principio
secondo cui una canna fumaria di non trascurabili dimensioni
necessita di permesso di costruire.
Il Tribunale ha infatti chiarito che “Per le canne fumarie
sussiste la necessità del previo rilascio del permesso di
costruire, qualora esse non presentino piccole dimensioni,
siano di palese evidenza rispetto alla costruzione e alla
sagoma dell'immobile e non possano considerarsi un elemento
meramente accessorio ovvero di ridotta e aggiuntiva
destinazione pertinenziale, come tale assorbito o occultato
dalla preesistente struttura dell'immobile”.
Si era già, del resto, affermato in termini che “La canna
fumaria, di palese evidenza rispetto alla costruzione e alla
sua sagoma, non può considerarsi un elemento meramente
accessorio ovvero di ridotta e aggiuntiva destinazione
pertinenziale, come tale assorbito o occultato dalla
preesistente struttura dell'immobile, occorrendo, pertanto,
per la stessa, la concessione edilizia”.
Ebbene, l'intervento in esame, ad avviso del Collegio, è
riconducibile ai lavori di ristrutturazione edilizia di cui
all'articolo 3, comma 1°, lettera d), del D.P.R. n.
380/2001, realizzati tramite inserimento di nuovi elementi
ed impianti, ed è quindi subordinata al regime del permesso
di costruire, ai sensi dell'articolo 10, comma primo,
lettera c), dello stesso D.P.R. laddove comporti, come nel
caso di specie, una modifica del prospetto del fabbricato
cui inerisce, come del resto chiaramente evincibile dalle
riproduzioni fotografiche in atti.
Peraltro la necessità del previo rilascio del permesso di
costruire può configurarsi anche in presenza di opere che
attuino una trasformazione del tessuto urbanistico ed
edilizio, anche se esse non consistano in opere murarie,
essendo realizzate in metallo, in laminati di plastica, in
legno od altro materiale, in presenza di trasformazioni
preordinate a soddisfare esigenze non precarie del
costruttore.
... Per l'annullamento del provvedimento n. prot. 21736,
notificato il 07/08/2014 di abbattimento della canna fumaria
a servizio del ristorante-pizzeria emesso dal Comune di
Portici.
...
5.1. Con il terzo mezzo il ricorrente sostiene che il
manufatto in disamina costituirebbe volume tecnico, come
tale privo di rilevanza urbanistica ed oltretutto non
sarebbe particolarmente pregiudizievole per il territorio e
che pertanto non occorrerebbe per la sua realizzazione
premunirsi del permesso di costruire.
5.2. Anche questa doglianza è infondata alla luce della
giurisprudenza pacifica, specie del Tribunale, che predica
il principio secondo cui una canna fumaria di non
trascurabili dimensioni necessita di permesso di costruire.
Il Tribunale ha infatti chiarito che “Per le canne
fumarie sussiste la necessità del previo rilascio del
permesso di costruire, qualora esse non presentino piccole
dimensioni, siano di palese evidenza rispetto alla
costruzione e alla sagoma dell'immobile e non possano
considerarsi un elemento meramente accessorio ovvero di
ridotta e aggiuntiva destinazione pertinenziale, come tale
assorbito o occultato dalla preesistente struttura
dell'immobile” (TAR Campania–Napoli, Sez. VIII ,
01.10.2012 n. 4005).
Si era già, del resto, affermato in termini che “La canna
fumaria, di palese evidenza rispetto alla costruzione e alla
sua sagoma, non può considerarsi un elemento meramente
accessorio ovvero di ridotta e aggiuntiva destinazione
pertinenziale, come tale assorbito o occultato dalla
preesistente struttura dell'immobile, occorrendo, pertanto,
per la stessa, la concessione edilizia” (TAR
Campania–Napoli, Sez. VI , 03.06.2009 n. 3039).
Ebbene, l'intervento in esame, ad avviso del Collegio, è
riconducibile ai lavori di ristrutturazione edilizia di cui
all'articolo 3, comma 1°, lettera d), del D.P.R. n.
380/2001, realizzati tramite inserimento di nuovi elementi
ed impianti, ed è quindi subordinata al regime del permesso
di costruire, ai sensi dell'articolo 10, comma primo,
lettera c), dello stesso D.P.R. laddove comporti, come nel
caso di specie, una modifica del prospetto del fabbricato
cui inerisce, come del resto chiaramente evincibile dalle
riproduzioni fotografiche in atti.
Peraltro la necessità del previo rilascio del permesso di
costruire può configurarsi anche in presenza di opere che
attuino una trasformazione del tessuto urbanistico ed
edilizio, anche se esse non consistano in opere murarie,
essendo realizzate in metallo, in laminati di plastica, in
legno od altro materiale, in presenza di trasformazioni
preordinate a soddisfare esigenze non precarie del
costruttore.
Come più sopra avvertito, invero, la canna fumaria la cui
abusiva realizzazione è stata sanzionata con il
provvedimento al vaglio del Tribunale, è posta all’esterno
de fabbricato, come ha chiarito la relazione n. 7121 del
17.11.2014 a firma del competente Responsabile comunale,
prodotta dalla difesa civica il 19.11.2014.
Di talché risulta contraddetta l’affermazione di cui alla
narrativa in fato del ricorso a stare alla quale il
manufatto sarebbe posizionato al’interno dell’immobile.
Inoltre le sue caratteristiche inducono ad affermarne la
natura impattante sia l’ambiente che il territorio, avendo
esso un diametro di 50 cm. e un’altezza di ben 19,20 mt..
Di conseguenza, alla luce dell’orientamento testé passato in
rassegna, per la sua realizzazione occorreva il previo
rilascio del permesso di costruire, non potendo esso
annoverarsi tra gli interventi di mera manutenzione
ordinaria.
Da ciò discende la legittimità dell’irrogata sanzione
demolitoria (TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 03.07.2015 n.
3612 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'interesse
artistico su base discrezionale.
IMMOBILI/ Tribunale amministrativo Marche.
Le valutazioni in ordine all'esistenza di un interesse
storico-artistico su un immobile, tali da giustificare
l'apposizione del relativo vincolo, costituiscono
espressione di un potere nel quale sono presenti sia momenti
di discrezionalità tecnica, sia momenti di propria
discrezionalità amministrativa.
Lo hanno ribadito i giudici del TAR Marche con la
sentenza 03.07.2015 n. 568.
I giudici amministrativi marchigiani hanno altresì
osservato, in ossequio anche con un consolidato orientamento
giurisprudenziale (Cons. stato, VI, 30.06.2011, n.
3894), che tale valutazione è «espressione di una
prerogativa esclusiva dell'amministrazione e può essere
sindacata in sede giurisdizionale solo in presenza di
profili di incongruità ed illogicità di evidenza tale da far
emergere inattendibilità della valutazione
tecnico-discrezionale compiuta da valutarsi nella sua
portata complessiva», pertanto, nel caso di previsioni di
interesse storico-artistico fondate su una molteplicità di
indici rivelatori, non può considerarsi sufficiente «che
alcuni soltanto di essi palesino aspetti di particolare
opinabilità per infirmare nel complesso la validità delle
conclusioni raggiunte, ma è necessario che la sommatoria
delle lacune individuate risulti di tale pregnanza da
compromettere nel suo complesso l'attendibilità del giudizio
espresso dall'organo competente».
Nel caso posto all'attenzione dei giudici di Ancona, i
motivi posti a base del vincolo erano stati, poi,
dettagliatamente esplicitati nella relazione storico
artistica architettonica della Soprintendenza per i beni
architettonici e paesaggistici, inviata alla Direzione
regionale per i beni culturali e paesaggistici. Nello
specifico, in detta relazione si sottolineava che l'immobile
in questione conservava i caratteri architettonici
costruttivi e gli elementi strutturali originali legati
all'edilizia rurale tipica delle case coloniche della
regione monofamiliari e possedeva una significativa valenza
antropologica che caratterizza lo scenario rurale, che oggi
si tende il più possibile a preservare.
Secondo i giudici amministrativi, già tali argomentazioni
apparivano sufficienti a giustificare la valutazione
tecnico-discezionale dell'Amministrazione, a prescindere da
qualsiasi ulteriore specificazione o istruttoria, atteso che
gli elementi di interesse storico-architettonico evidenziati
nella relazione fossero ben riconoscibili ad un occhio
esperto anche dalla sola consultazione della documentazione
grafica e fotografica a corredo della pratica
(articolo ItaliaOggi Sette del 17.08.2015).
---------------
MASSIMA
II.1. Il primo motivo di ricorso è infondato.
La disposizione di cui all’art. 12 del
d.lgs. 42/2004 ha introdotto un vincolo culturale in forza
di una presunzione di legge, superabile soltanto a seguito
di una verifica negativa finalizzata all’esclusione
dell’interesse culturale e -conseguentemente- al definitivo
esonero dall’applicazione delle disposizioni di tutela dei
beni culturali (art. 12, comma 4), anche in vista di una
loro eventuale sdemanializzazione (art. 12, commi 5 e 6).
Diversamente, in caso di conferma dell’interesse culturale
presunto, le cose di cui all’art. 10 del medesimo d.lgs.
42/2004 restano definitivamente sottoposte alle disposizioni
di tutela del codice dei beni culturali, ai sensi dell’art.
12, comma 7 (TAR
Liguria, Genova, sez. I, 19.05.2014, n. 787).
Ciò posto, la norma invocata dall’Ente ricorrente (art. 27,
comma 10, del d.l. n. 269/2003) a sostegno della tesi
secondo cui la mancata conclusione del procedimento nel
termine di 120 giorni equivale a verifica negativa, è stata
definitivamente abrogata dall’art. 6, comma 1, lettera c),
del d.lgs. 24.03.2006, n. 156.
Conseguentemente, in mancanza di una
espressa disposizione volta ad attribuire valenza
significativa al silenzio, vale il principio in base al
quale il superamento del termine legale di 120 giorni per la
conclusione del procedimento, ai sensi dell’art. 12, comma
10, del d.lgs. n. 42/2004, non comporta la consumazione del
potere di vincolo, in tal modo non determinando alcun
effetto viziante su provvedimento comunque adottato in
ritardo (Cons.
Stato, sez. VI, 30.06.2011, n. 3894).
II.2. Neppure sussiste il lamentato difetto istruttorio e di
motivazione, atteso che i motivi posti a base del vincolo
sono dettagliatamente esplicitati nella relazione storico
artistica architettonica della Soprintendenza per i Beni
Architettonici e Paesaggistici delle Marche datata
12.09.2014, inviata alla Direzione Regionale per i Beni
Culturali e Paesaggistici delle Marche con nota prot. 14019
del 17.9.2014, ricevuta in data 19.09.2014 con protocollo n.
4951, espressamente richiamata nel decreto impugnato, da
intendersi, per tale ragione, motivato per relationem.
In particolare, in detta relazione si evidenzia che
l’immobile in questione conserva i caratteri architettonici
costruttivi e gli elementi strutturali originali legati
all’edilizia rurale tipica delle case coloniche marchigiane
monofamiliari e possiede una significativa valenza
antropologica che caratterizza lo scenario rurale delle
Marche, che oggi si tende il più possibile a preservare.
Già tali argomentazioni appaiono sufficienti a giustificare
la valutazione tecnico-discezionale dell’Amministrazione, a
prescindere da qualsiasi ulteriore specificazione o
istruttoria, atteso che gli elementi di interesse
storico-architettonico evidenziati nella relazione sono ben
riconoscibili ad un occhio esperto anche dalla sola
consultazione della documentazione grafica e fotografica a
corredo della pratica.
Ad ogni modo, a conferma delle verifiche effettuate, la
soprintendenza cita espressamente, in documenti pubblici, un
sopralluogo del 12.09.2014, rispetto al quale la ricorrente
lamenta l’inesistenza di un verbale o di qualsiasi altra
prova, senza tuttavia fornire elementi di prova contraria
idonei a smentire che dette verifiche in loco siano state
effettivamente condotte.
In ogni caso, la giurisprudenza ha chiarito che “Le
valutazioni in ordine all'esistenza di un interesse
storico-artistico su un immobile, tali da giustificare
l'apposizione del relativo vincolo, costituiscono
espressione di un potere nel quale sono presenti sia momenti
di discrezionalità tecnica, sia momenti di propria
discrezionalità amministrativa. Tale valutazione è
espressione di una prerogativa esclusiva
dell'amministrazione e può essere sindacata in sede
giurisdizionale solo in presenza di profili di incongruità
ed illogicità di evidenza tale da far emergere
inattendibilità della valutazione tecnico-discrezionale
compiuta da valutarsi nella sua portata complessiva, sicché,
in presenza di valutazioni di interesse storico-artistico
fondate su una pluralità di indici rivelatori, non è
sufficiente che alcuni soltanto di essi palesino aspetti di
particolare opinabilità per infirmare nel complesso la
validità delle conclusioni raggiunte, ma è necessario che la
sommatoria delle lacune individuate risulti di tale
pregnanza da compromettere nel suo complesso l'attendibilità
del giudizio espresso dall'organo competente”
(Cons. Stato, VI, 30.06.2011, n. 3894).
Nel caso in esame, il Collegio non ravvisa elementi di
contraddittorietà o illogicità evidenti da dubitare della
validità e attendibilità della complessiva valutazione posta
in essere dall’Amministrazione, sicché, anche sotto tale
profilo, l’atto impugnato si rivela immune dai vizi dedotti.
II.3. Quanto all’asserita violazione delle
garanzie partecipative, essa non sussiste, dal momento che
trattasi di un procedimento avviato su iniziativa di parte,
della cui esistenza la ricorrente era perfettamente a
conoscenza per poter partecipare; trattasi, peraltro, di un
procedimento volto alla verifica dell’interesse culturale di
un immobile conclusosi con un accertamento positivo,
rispetto al quale non si intravvede alcun obbligo di
preavviso, quest’ultimo necessario nell’ipotesi in cui debba
provvedersi al rigetto di una istanza, nella fattispecie non
sussistente.
Occorre infine precisare che l’omessa indicazione nel
provvedimento del nominativo del responsabile del
procedimento non costituisce motivo d'invalidità del
provvedimento medesimo, posto che supplisce il criterio
legale d'imputazione del ruolo al dirigente preposto
all'Unità organizzativa competente
(Cons. Stato, III, 24.09.2013, n. 4694).
II.4. Parimenti destituita di fondamento è la censura con
cui si lamenta la violazione dell’art. 14 del d.lgs. n.
42/2004, atteso che la comunicazione al
proprietario possessore o detentore a qualsiasi titolo del
bene, contente gli elementi di identificazione e di
valutazione della cosa risultanti dalle prime indagini,
l’indicazione degli effetti previsti dal comma 4, nonché
l’indicazione del termine, comunque non inferiore a trenta
giorni, per la presentazione di eventuali osservazioni, è
prescritta dalla norma per la sola ipotesi in cui il
procedimento per la dichiarazione dell'interesse culturale
del bene medesimo è avviata dall’Amministrazione; nel caso
di specie, come sopra precisato, il procedimento è stato
avviato su iniziativa di parte. |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Lo
scarico dei reflui provenienti da attività di lavanderia
industriale, eseguito in assenza di autorizzazione, integra
il reato di cui all'art. 137, comma primo, del D.Lgs. n. 152
del 2006, non potendo tali acque essere assimiliate a quelle
domestiche.
3. Il ricorso è
manifestamente infondato.
4. Ed invero, emerge dalla lettura dell'impugnata sentenza
che a seguito di un sopralluogo eseguito congiuntamente in
data 23/11/2010 da personale ARPA Lazio e polizia locale
presso la lavanderia della ricorrente, era stato appurata la
presenza all'interno di quattro lavatrici di tipo
industriale, i cui scarichi -come emerso dagli accertamenti
disposti in sede dibattimentale presso gli Enti competenti e
riportati in sentenza- non potevano essere considerati come
assimilabili agli urbani; risulta, peraltro, che al momento
del sopralluogo non solo nessuna autorizzazione allo scarico
era stata rilasciata, ma che la stessa non poteva nemmeno
essere ottenuta, come chiarito dalle note ACEA ed ARPA del
21/03/2014 richiamate in sentenza; infine, stante la
mancanza di pozzetti di ispezione, il personale non aveva
avuto la possibilità di verificare la concreta qualità delle
acque.
A fronte di tali elementi di indubbia valenza indiziaria,
dai quali il giudice ha, con motivazione logica, desunto gli
elementi necessari per poter ritenere configurabile il
contestato reato di scarico abusivo, la ricorrente si limita
a svolgere censure di tipo puramente contestativo, evocando
un inesistente vizio di "illogicità manifesta" della
sentenza, in sostanza offrendo a questa Corte una sua
persona lettura degli elementi di fatto, in una manifestando
il proprio dissenso circa la ricostruzione dei fatti e la
valutazione degli elementi operata dal giudice di merito,
chiedendo quindi a questa Corte di sostituirsi al giudice di
merito e svolgere un sindacato che comporterebbe
necessariamente un apprezzamento di fatto che, peraltro,
contrasta con i dati di cui alla sentenza (ci si riferisce,
in particolare, all'affermazione secondo cui le lavatrici
non fossero in uso ed erano disattivate al momento del
sopralluogo; od, ancora, alla critica avverso la sentenza
per non aver verificato quale fosse la licenza di cui la
ditta della ricorrente era titolare, avendo peraltro ammesso
in ricorso che la stessa non fosse munita di autorizzazione
allo scarico industriale; analogamente, quanto alla
impossibilità di procedere alla verifica degli scarichi
delle acque reflue, la stessa sentenza ben spiega che tale
accertamento non fosse stato possibile proprio per la
mancanza di pozzetti ispezionabili, circostanza del tutto
logica in quanto mancava l'autorizzazione allo scarico).
Diversamente, del tutto "illogica", ove non
utilizzate, sarebbe -trovando invece all'evidenza una
spiegazione nel fatto che l'attività di lavanderia
industriale venisse svolta abusivamente- la presenza
all'interno dei locali della ditta della ricorrente di ben
quattro macchine per lavanderia industriale i cui scarichi,
come chiarito, non erano assimilabili a quelli civili.
Affermazione, questa, peraltro, corretta anche in diritto,
avendo, anche di recente, affermato questa Corte che
lo scarico dei reflui provenienti da
attività di lavanderia industriale, eseguito in assenza di
autorizzazione, integra il reato di cui all'art. 137, comma
primo, del D.Lgs. n. 152 del 2006, non potendo tali acque
essere assimiliate a quelle domestiche
(Sez. 3, n. 24330 del 13/05/2014 - dep. 10/06/2014, Marano,
Rv. 259304).
E', quindi, evidente come inesistente sia non solo il vizio
di mancanza di motivazione (il quale sussiste allorché il
provvedimento giurisdizionale manca del tutto della parte
motivata ovvero la medesima, pur esistendo graficamente, è
tale da non evidenziare l'"iter" argomentativo
seguito dal giudice per pervenire alla decisione adottata,
cosiddetta motivazione apparente: Sez. 1, n. 3262 del
25/05/1995 - dep. 06/07/1995, Di Martino, Rv. 202133), ma
anche il vizio di illogicità della motivazione, rilevabile
solo ove si accerti una frattura logica evidente tra una
premessa, o più premesse nel caso di sillogismo, e le
conseguenze che se ne traggono, circostanza da escludersi
nel caso in esame (v., tra le tante: Sez. 1, n. 9539 del
12/05/1999 - dep. 23/07/1999, Commisso ed altri, Rv. 215132)
(Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 02.07.2015 n. 27887). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
E' equiparato allo scarico di acque reflue
industriali anche quello proveniente da un esercizio
commerciale che sia adibito a bar, posto che lo stesso
-tenuto conto della attività, sia pure artigianalmente
condotta, di preparazione di prodotti per la alimentazione e
di piccola ristorazione connaturata alla indicata
destinazione commerciale- non è equiparabile per
caratteristiche qualitative e quantitative con lo scarico
delle acque reflue domestiche.
---------------
Non vi è alcun automatismo nella trasmissione della
autorizzazione allo scarico dei reflui industriali in caso
di cessione di attività che comporti il mutamento del
soggetto che tale attività gestisca.
Il ricorso proposto dal M.
è inammissibile, stante la evidente infondatezza dei motivi
posto a suo sostegno.
Quanto al primo di essi, premesso che, secondo la
giurisprudenza di questa Corte, è
equiparato allo scarico di acque reflue industriali anche
quello proveniente da un esercizio commerciale che,
come quello gestito dall'attuale ricorrente,
sia adibito a bar, posto che lo stesso -tenuto conto
della attività, sia pure artigianalmente condotta, di
preparazione di prodotti per la alimentazione e di piccola
ristorazione connaturata alla indicata destinazione
commerciale- non è equiparabile per caratteristiche
qualitative e quantitative con lo scarico delle acque reflue
domestiche (Corte
di cassazione, Sezione III penale, 24.05.2013, n. 22436;
idem, Sezione III penale, 13.10.2011, n. 36982), va rilevato
che non vi è alcun automatismo nella
trasmissione della autorizzazione allo scarico dei reflui
industriali in caso di cessione di attività che comporti il
mutamento del soggetto che tale attività gestisca.
Di ciò ne dà conto lo stesso ricorrente nel momento in cui
precisa che, una volta intervenuti gli accertatori presso il
suo esercizio commerciale egli, in quanto privo della
predetta autorizzazione, si recava immediatamente presso la
autorità competente, la quale, verificata, fra l'altro, la
autodichiarazione da lui redatta in ordine al possesso del
requisito morale di cui all'allora vigente art. 2 legge n.
287 del 1991, nonché la restante documentazione relativa al
possesso degli altri requisiti, anche morali e professionali
oltre che tecnici, rilasciava la prescritta autorizzazione.
E', pertanto, di tutta evidenza che non vi è alcuna
contraddizione o illogicità nella sentenza impugnata,
dovendosi, invece ritenere che la necessità di documentare
il possesso di specifici requisiti personali in capo al
nuovo gestore, rende impossibile il transito della
autorizzazione allo scarico dei reflui industriali, nel caso
di trasferimento della gestione dell'impianto produttivo dei
reflui dal soggetto cedente al cessionario contestualmente
alla cessione dell'impianto; ciò proprio perché, come
riconosciuto dallo stesso ricorrente, il godimento di tale
autorizzazione è subordinato alla titolarità di taluni
requisiti personali che deve essere accertata di volta in
volta (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 01.07.2015 n. 27552). |
LAVORI PUBBLICI:
Si può anche dire dopo a chi si subappalterà.
L'impresa partecipa alla gara ma non è in possesso delle
qualificazioni necessarie per i lavori scorporabili previsti
dal bando. Che succede? All'atto dell'offerta può limitarsi
ad annunciare che li subappalterà senza indicare da subito
l'azienda designata. In base alla normativa vigente,
infatti, non c'è alcun obbligo in tal senso: si può ben
provvedere poi in sede di esecuzione a verificare se il
subappaltatore ha le carte in regola per ottenere i lavori
pubblici. Aderire all'orientamento più restrittivo finirebbe
per sovrapporre il subappalto al distinto istituto dell'avvalimento.
È quanto emerge dalla
sentenza 05.06.2015 n. 3055 pubblicata dalla I
Sez. TAR Campania-Napoli.
Non trovano ingresso le censure dell'impresa seconda
classificata alla gara d'appalto, che pure si rifanno alle
modifiche in tema di edilizia introdotte dal decreto legge
47/2014.
Secondo l'indirizzo interpretativo più formale che si è
fatto largo fra i giudici amministrativi nella dichiarazione
di subappalto l'impresa potrebbe evitare di indicare in sede
di offerta l'impresa designata solo se la concorrente ha
essa stessa la qualificazione richiesta per realizzare i
lavori scorporabili: diversamente bisognerebbe indicare
subito il subappaltatore che in tal caso diventa necessario
per partecipare alla gara.
In realtà, osservano i giudici, l'applicazione rigorosa
dell'articolo 118 del codice dei contratti pubblici consente
di per sé all'amministrazione di stabilire prima
dell'esecuzione del subappalto che l'impresa designata sia
in possesso dei requisiti indicati dalla legge. Un conto è
il subappalto, ricordano i magistrati, un altro l'avvalimento.
Il primo rappresenta una modalità di esecuzione dei lavori,
il secondo consente al concorrente di integrare i propri
requisiti in sede di gara. Nel subappalto il soggetto
responsabile verso la stazione appaltante è la sola impresa
appaltatrice, mentre l'azienda designata rimane estranea
alla procedura di gara e compare solo nella fase esecutiva.
È nell'avvalimento che la società ausiliaria deve essere
preventivamente indicata in sede di offerta, mentre
nell'altro caso la verifica dei requisiti risulta rimandata
alla costituzione del rapporto contrattuale. Non resta che
pagare le spese di giudizio
(articolo ItaliaOggi del 20.08.2015).
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MASSIMA
Il Collegio ritiene di dissentire.
Come già rilevato nella fase cautelare, con sentenza del
25.02.2015 n. 1236
questa Sezione ha
affrontato la questione circa la necessità di indicare, già
in sede di partecipazione, il nominativo dell’impresa
designata, in caso di dichiarazione di subappalto avente ad
oggetto l’esecuzione delle lavorazioni relative a categorie
scorporabili per le quali l’impresa concorrente sia priva di
qualificazione.
In quella sede si è preso atto che, alla
luce del vigente quadro normativo non è dato ricavare una
prescrizione che imponga tale obbligo in sede di offerta,
essendo invece sufficiente rendere la dichiarazione di voler
subappaltare, rinviando alla successiva fase di esecuzione
la individuazione e la verifica dei requisiti dell’impresa
subappaltatrice.
L’art. 118 del D.Lgs. 163/2006 fissa la disciplina generale
del subappalto nell’ambito dei contratti pubblici e dispone
che “tutte le prestazioni nonché lavorazioni, a qualsiasi
categoria appartengano, sono subappaltabili…”,
stabilendo, tra l’altro, quale condizione di legittimità del
subappalto medesimo “che i concorrenti all’atto
dell’offerta o l’affidatario…all’atto dell’affidamento,
abbiano indicato i lavori o le parti di opere… che intendono
subappaltare…”.
Tale disposizione, nel disciplinare appunto il subappalto,
prevede i seguenti adempimenti:
1) i concorrenti all'atto dell'offerta devono indicare i
lavori o le parti di opere ovvero i servizi e le forniture o
parti di servizi e forniture che intendono subappaltare o
concedere in cottimo;
2) almeno 20 giorni prima della data di effettivo inizio
dell'esecuzione delle relative prestazioni, l’affidatario
provvede al deposito del contratto di subappalto presso la
stazione appaltante;
3) al momento del deposito del contratto di subappalto
presso la stazione appaltante l'affidatario deve altresì
trasmettere la certificazione attestante il possesso da
parte del subappaltatore dei requisiti di qualificazione
prescritti dal presente codice in relazione alla prestazione
subappaltata e la dichiarazione del subappaltatore
attestante il possesso dei requisiti generali di cui
all'articolo 38;
4) non devono sussistere nei confronti dell'affidatario del
subappalto alcuno dei divieti previsti dall'articolo 10
della L. 31.05.1965 n. 575 e successive modificazioni.
Ai sensi della richiamata disposizione,
l’indicazione del subappaltatore designato e la
dimostrazione circa il possesso dei relativi requisiti di
qualificazione si collocano quindi nella fase di
costituzione del rapporto contrattuale e non in quella di
presentazione della domanda di partecipazione alla gara e di
formulazione dell’offerta.
Ritiene la Sezione che la rigorosa
applicazione di tali prescrizioni consenta
all’amministrazione appaltante di conoscere, prima che il
subappalto abbia esecuzione, i soggetti che entrano in
contatto, anche in qualità di subappaltatori, e di
verificare che questi ultimi siano in possesso di tutti i
requisiti soggettivi e oggettivi richiesti dalla legge per
l’esecuzione dei lavori pubblici.
Di contro, l’adesione all’indirizzo più restrittivo rischia
di sovrapporre l’istituto del subappalto a quello dell’avvalimento
di cui all’art. 49 del D.Lgs. n. 163/2006.
Si è visto che le norme vigenti in materia di subappalto, a
differenza dal caso di avvalimento (dove la società
ausiliaria deve essere preventivamente indicata in sede di
offerta), non richiedono che le società subappaltatrici
debbano essere preventivamente individuate in sede di
offerta ma rimandano alla successiva costituzione del
rapporto contrattuale la concreta individuazione dei
soggetti appaltatori e la verifica in capo ai medesimi dei
prescritti requisiti di qualificazione secondo i termini e
le modalità specificamente disciplinati dall’art. 118 del
D.Lgs. n. 163/2006.
La diversa disciplina si spiega per la differente natura dei
due istituti: difatti, l’avvalimento consente
al concorrente di integrare i propri requisiti in sede di
gara, mentre il subappalto, rappresenta una modalità
di esecuzione dei lavori.
La società ausiliaria non è un soggetto terzo rispetto alla
gara, dovendosi essa impegnare sia verso l’impresa
concorrente sia solidalmente verso la stazione appaltante.
Nel subappalto, invece, il soggetto responsabile verso la
stazione appaltante è la sola impresa appaltatrice, mentre
il subappaltatore rimane estraneo alla procedura di gara e
compare solo nella fase esecutiva (cfr. TAR Puglia, Bari,
27.03.2014 n. 393).
In conclusione, l’art. 118 del codice dei
contratti pubblici consente ai concorrenti che siano
sprovvisti della relativa qualificazione di subappaltare i
lavori rientranti nelle categorie non prevalenti e
scorporabili a qualificazione obbligatoria, fermo restando
l’obbligo di riservarne l’esecuzione a soggetti in possesso
delle relative qualificazioni.
Le vigenti disposizioni non prescrivono
viceversa l’obbligo di indicare, in fase di presentazione
della domanda di partecipazione alla gara, il nominativo dei
subappaltatori né di comprovare i relativi requisiti di
qualificazione e tale conclusione va estesa anche al caso di
subappalto di lavori scorporabili e subappaltabili a
qualificazione obbligatoria da parte di impresa priva della
relativa qualificazione, poiché il legislatore non
introduce, sotto tale profilo, alcuna distinzione tra
diverse tipologie di subappalto.
Inoltre, l’art. 92 del D.P.R. 207/2010 rubricato “Requisiti
del concorrente singolo e di quelli riuniti” indica i
requisiti necessari per la partecipazione alle gare e al
primo comma dispone che “Il concorrente singolo può
partecipare alla gara qualora sia in possesso dei requisiti
economico-finanziari e tecnico-organizzativi relativi alla
categoria prevalente per l’importo totale dei lavori ovvero
sia in possesso dei requisiti relativi alla categoria
prevalente e alle categorie scorporabili per i singoli
importi. I requisiti relativi alle categorie scorporabili
non posseduti dall’impresa devono da questa essere posseduti
con riferimento alla categoria prevalente”.
La norma richiamata, pertanto, consente a
un’impresa che non sia in possesso dei requisiti relativi
alle categorie scorporabili di partecipare comunque alla
gara a condizione che possegga i requisiti
economico-finanziari e tecnico-organizzativi relativi alla
categoria prevalente per l’importo totale dei lavori.
Nello specifico, la società aggiudicataria possiede la
qualificazione nella categoria prevalente OG3 con una
classifica adeguata (IV - importo fino a euro 2.582.000,00),
superiore rispetto a quella indicata nel bando (classifica
III) nonché idonea a coprire l’intero importo dell’appalto.
Quindi, per la società aggiudicataria la fase della
qualificazione appare soddisfatta in quanto essa copre con
il surplus di requisiti di qualificazione nella categoria
prevalente il deficit circa la qualificazione per la
categoria scorporabile.
Riassumendo, le deduzioni svolte possono essere compendiate
con il richiamo all’indirizzo espresso dalla giurisprudenza
amministrativa che il Collegio ritiene di fare proprio (cfr.
Consiglio di Stato, Sez. V, 25.02.2015 n. 944; 21.11.2014 n.
2014; 25.07.2013 n. 3963; 19.06.2012 n. 3563), secondo cui:
I) l’esistenza della totale copertura della
categoria prevalente legittima la partecipazione alla gara,
pur in carenza dei requisiti nelle categorie scorporabili,
purché accompagnata dalla dichiarazione di voler
subappaltare le scorporabili;
II) la qualificazione mancante deve essere
posseduta in relazione alla categoria prevalente, dal
momento che ciò tutela la stazione appaltante circa la
sussistenza della capacità economico–finanziaria da parte
dell’impresa;
III) quanto alla identificazione del
subappaltatore ed alla verifica del possesso da parte di
questi di tutti i requisiti richiesti dalla legge e dal
bando, essa attiene solo al momento dell’esecuzione
(nello stesso senso, anche TAR Abruzzo, Pescara, 06.11.2014
n. 444; TAR Sardegna, 03.03.2014 n. 196; TAR Puglia, Bari,
27.03.2014 n. 393).
A identico approdo è pervenuta l’Autorità di Vigilanza sui
contratti pubblici che, nello stilare le norme che le
stazioni appaltanti devono tenere in considerazione nella
fase di stesura dei bandi di gara, rammenta che “La
normativa citata non comporta l’obbligo di indicare i
nominativi dei subappaltatori in sede in offerta
(cfr. Cons. St., sez. V, 19.06.2012, n. 3563),
ma solamente l’obbligo di indicare le quote che il
concorrente intende subappaltare, qualora non in possesso
della qualificazione per la categoria scorporabile, fermo
restando che la qualificazione ‘mancante’ deve essere
comunque posseduta in relazione alla categoria prevalente,
dal momento che ciò tutela la stazione appaltante circa la
sussistenza della capacità economico-finanziaria da parte
dell’impresa”
(cfr. determinazione del 10.10.2012 n. 4).
Infine, tale orientamento si lascia
preferire in quanto più aderente, oltre che al dato
normativo per le ragioni illustrate, anche ai principi della
tassatività delle cause di esclusione, del favor
partecipationis, dell’affidamento e della buona fede
nell’interpretazione delle clausole dei bandi di gara.
Nello specifico, giova evidenziare che, oltre a non essere
prevista in alcuna disposizione del codice dei contratti
pubblici e del relativo regolamento di esecuzione ed
attuazione, l’obbligo di indicazione dell’impresa
subappaltatrice nella domanda di partecipazione non è
neppure contemplato dal bando e dal disciplinare della gara
di cui si controverte.
Infatti, il modello A “Istanza di partecipazione alla
gara e dichiarazione unica” consentiva alle società
partecipanti di optare per il subappalto (punto 14: “ai
sensi dell’articolo 118 del D.Lgs. 163/2006, intende
subappaltare o concedere a cottimo le seguenti lavorazioni”)
ma non imponeva ai concorrenti di indicare la ditta
subappaltatrice.
La circostanza che la società ricorrente,
nel confezionare la propria domanda di partecipazione, si
sia puntualmente attenuta al modulo predisposto dalla
stazione appaltante non può andare in danno della medesima:
deve quindi prevalere il principio del favor
partecipationis, oltre quello della tutela del legittimo
affidamento (TAR
Puglia, Bari, 08.06.2011 n. 842; TAR Sardegna, 25.11.2010 n.
2626; TAR Toscana, 21.06.2010 n. 2006) che,
come noto, costituisce corollario del generale principio di
certezza del diritto nonché espressione del generale obbligo
di comportarsi lealmente e secondo buona fede all’interno
del rapporto giuridico.
Sul piano costituzionale, tale principio si fonda sugli
artt. 2, 3 e 97 della Costituzione, quale sintesi
rispettivamente del dovere di solidarietà, uguaglianza,
ragionevolezza ed imparzialità e si traduce in un limite
all’adozione di provvedimenti negativi o sfavorevoli, in
presenza di un contegno tenuto dall’amministrazione che sia
idoneo a suscitare giuridici affidamenti. |
URBANISTICA: Se
il lottizzante non cede le aree/opere di urbanizzazione al
comune quest'ultimo deve adire il TAR, anche per l'eventuale
e correlato risarcimento del danno.
Pregiudizialmente, il Collegio ritiene sussistente la
giurisdizione del Giudice Amministrativo, posta in dubbio
dalla resistente nelle ultime memorie e all’odierna udienza
di discussione.
La controversia in esame, difatti, attiene all'accertamento
ed esecuzione, ex art. 2932 c.c., degli obblighi di
trasferimento di aree derivanti da una convenzione
urbanistica.
La materia in oggetto rientra quindi pacificamente nella
giurisdizione esclusiva del Giudice Amministrativo,
trattandosi di questione relativa all'urbanistica e,
comunque, vertendosi in tema di controversia relativa
all'esecuzione di accordi ex art. 11, comma 5, L. 241/1990,
per i quali, sotto diverso profilo, sussiste del pari la
giurisdizione amministrativa.
Ciò comporta che il giudice amministrativo è investito del
potere di decidere non soltanto sulle azioni promosse dai
soggetti privati coinvolti nell'accordo contro la Pubblica
Amministrazione, ma anche su quelle promosse dalla stessa
P.A. nei confronti dei privati che hanno aderito
all'accordo, per ottenere il rispetto degli obblighi dai
medesimi assunti con la sottoscrizione della relativa
convenzione e non adempiuti spontaneamente
---------------
La giurisprudenza ha di recente ribadito
che il rimedio previsto dall’art. 2932 c.c. deve ritenersi
applicabile non solo alle ipotesi di contratto preliminare
non seguito dal definitivo, ma anche in qualsiasi altra
ipotesi dalla quale sorga l’obbligazione di prestare il
consenso per il trasferimento o la costituzione di un
diritto.
Ed essendo pure pacifico come l’azione ex art. 2932 c.c. sia
compatibile con la struttura del processo amministrativo,
vertendosi in una ipotesi di giurisdizione esclusiva, la
quale, venendo in discussione questioni su diritti, non può
che garantire agli interessati la medesima tutela e, dunque,
le medesime specie di azioni riconosciute dinanzi al giudice
ordinario, e ciò anche quando l’interessato è il Comune, che
ben può scegliere la via giudiziale, in luogo di esperire
poteri autoritativi, quali, ad esempio, quello
espropriativo.
... per l'accertamento e la declaratoria dell’inadempimento
agli obblighi previsti dalla convenzione urbanistica in data
11/03/2005 n. 91606 di rep. Notaio T.P. e
conseguentemente affinché sia disposto ai sensi e per gli
effetti dell'art. 2932 c.c. il trasferimento a favore del
Comune di Padova della proprietà di:
- n. 3 alloggi:
alloggio 1) Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 49;
alloggio 2) Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 55;
alloggio 3) Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 58;
- relativi garages, così identificati:
a) Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 16;
b) Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 35;
c) Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 36;
d) Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 38;
- parcheggio privato:
Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 5;
- centro civico:
Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 58;
e la costituzione di vincolo ad uso pubblico di
- parcheggio privato mq. 332:
Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 4;
- verde pubblico mq 548 (circa):
Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 1;
- parcheggio pubblico mq. 135:
Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 6;
così come specificamente identificati nel certificato di
collaudo a firma dell'Ing. M., su richiesta del Comune
e della Società R. S.r.l., approvato dal Comune di Padova
giusta determinazione 26/05/2009 n. 2009/69/0019 nonché, per
l'accertamento e la declaratoria del risarcimento del danno.
...
Pregiudizialmente, il Collegio ritiene sussistente la
giurisdizione del Giudice Amministrativo, posta in dubbio
dalla resistente nelle ultime memorie e all’odierna udienza
di discussione.
La controversia in esame, difatti, attiene all'accertamento
ed esecuzione, ex art. 2932 c.c., degli obblighi di
trasferimento di aree derivanti da una convenzione
urbanistica.
La materia in oggetto rientra quindi pacificamente nella
giurisdizione esclusiva del Giudice Amministrativo,
trattandosi di questione relativa all'urbanistica e,
comunque, vertendosi in tema di controversia relativa
all'esecuzione di accordi ex art. 11, comma 5, L. 241/1990,
per i quali, sotto diverso profilo, sussiste del pari la
giurisdizione amministrativa.
Ciò comporta che il giudice amministrativo è investito del
potere di decidere non soltanto sulle azioni promosse dai
soggetti privati coinvolti nell'accordo contro la Pubblica
Amministrazione, ma anche su quelle promosse dalla stessa
P.A. nei confronti dei privati che hanno aderito
all'accordo, per ottenere il rispetto degli obblighi dai
medesimi assunti con la sottoscrizione della relativa
convenzione e non adempiuti spontaneamente (si veda tra le
tante, Cassazione civile, Sez. Un., ordinanza 17.04.2009, n.
9151).
Nel merito il ricorso è fondato.
Va in primo luogo evidenziato come sia pacifico che la
società resistente non abbia adempiuto agli obblighi di cui
alla convenzione dell’11.03.2005, per la cui esecuzione in
forma specifica agisce il Comune di Padova.
La resistente invece eccepisce che l’amministrazione,
anziché intentare il presente giudizio, avrebbe dovuto
escutere la polizza fideiussoria a prima richiesta
rilasciata in suo favore a garanzia degli obblighi previsti
nella convenzione urbanistica, evitando così il danno ora
lamentato.
Tale tesi appare destituita di fondamento.
Ed infatti, la stipula della polizza fideiussoria non è
stata accompagnata da alcuna dichiarazione abdicativa di
tutti gli altri diritti spettanti all’amministrazione sulla
base della convenzione dell’11.03.2005.
Piuttosto, con la polizza fideiussoria in esame il terzo
assicuratore si è obbligato, a titolo di garanzia, ad
eseguire, a semplice richiesta del Comune, una prestazione
indennitaria succedanea e diversa rispetto a quella
principale posta nella convenzione a carico della R..
Obbligazione, quest’ultima, avente natura infungibile,
consistendo, in particolare, nella promessa di vincolare
all’uso pubblico determinate aree destinate alle opere di
urbanizzazione primaria, e di cedere al Comune alcuni
appartamenti e relativi garage.
E’ quindi evidente che la polizza in esame è accessoria alla
convenzione urbanistica e determina la costituzione di
un’obbligazione a scopo di garanzia, del terzo assicuratore,
aggiuntiva ed autonoma rispetto a quella principale gravante
sulla società, secondo il modello della delegazione di
pagamento di cui agli artt. 1268 e ss. cc..
Ne consegue che il Comune di Padova, non essendo peraltro
previsto alcun beneficio di escussione, non ha incontrato
alcun onere o vincolo nel decidere se escutere la polizza
fideiussoria, accontentandosi di veder soddisfatto, sia pure
nell’immediato, un proprio interesse meramente patrimoniale
attraverso una prestazione indennitaria, peraltro limitata
da un massimale di polizza, oppure perseguire la
soddisfazione del proprio interesse primario all’esecuzione
in forma specifica della convenzione nei termini convenuti.
Il Comune, dunque, ha liberamente optato per quest’ultimo
rimedio chiedendo l’esecuzione della convenzione.
E, d’altra parte, la prima via appariva a prima vista molto
meno vantaggiosa per il Comune. Considerato infatti che il
massimale di polizza (fissato in € 343.619,22) è stato
determinato in misura pari al 70% del presunto costo delle
opere oggetto della presente domanda di sentenza
costitutiva, se ne può agevolmente dedurre la funzione
meramente indennitaria e cauzionale della polizza; e ciò ad
ulteriore testimonianza di come rimanesse impregiudicata la
possibilità per il Comune di ottenere la specifica esatta
prestazione oggetto della propria aspettativa, ovvero il
trasferimento della proprietà degli immobili e la
costituzione dei vincoli ad uso pubblico.
Pertanto, la scelta dell’amministrazione di richiedere
l’adempimento in natura dell’obbligazione principale appare
pienamente legittima, non contestabile, né in contrasto con
gli obblighi contrattuali di buona fede e correttezza.
Di fronte a tale richiesta la società R. era tenuta ad
adempiere, trasferendo senza ritardo la proprietà degli
immobili in discussione. Essendo quest’ultima rimasta inerte
pur a fronte delle plurime diffide inviate
dall’amministrazione, ed avendo costretto il Comune di
Padova ad agire in giudizio per l’esecuzione specifica di
tale obbligo ai sensi dell’art. 2932 c.c., essa -oltre a
soggiacere agli effetti della sentenza costitutiva del
trasferimento- essendosi resa responsabile
dell’inadempimento alla convenzione, è tenuta al
risarcimento del danno derivante al Comune dal mancato
godimento di tali tre alloggi e quattro garage nel periodo
che va dal 13.08.2009 (tre mesi dal collaudo ex convenzione)
ad oggi.
Quanto al primo profilo, giova ricordare che la
giurisprudenza ha di recente ribadito che il rimedio
previsto dall’art. 2932 c.c. deve ritenersi applicabile non
solo alle ipotesi di contratto preliminare non seguito dal
definitivo, ma anche in qualsiasi altra ipotesi dalla quale
sorga l’obbligazione di prestare il consenso per il
trasferimento o la costituzione di un diritto (cfr. Cass.
civ. sez. II, 30.03.2012, n. 5160; TAR Lombardia, Brescia,
28.11.2011, n. 1126).
Ed essendo pure pacifico come l’azione ex art. 2932 c.c. sia
compatibile con la struttura del processo amministrativo,
vertendosi in una ipotesi di giurisdizione esclusiva, la
quale, venendo in discussione questioni su diritti, non può
che garantire agli interessati la medesima tutela e, dunque,
le medesime specie di azioni riconosciute dinanzi al giudice
ordinario, e ciò anche quando l’interessato è il Comune, che
ben può scegliere la via giudiziale, in luogo di esperire
poteri autoritativi, quali, ad esempio, quello
espropriativo.
Quanto invece alla quantificazione del danno, si ritiene che
questa possa essere determinata sulla base del valore del
canone di locazione di tali immobili nel periodo di
riferimento.
Nel caso di specie tale accertamento -per il quale il Comune
aveva chiesto l’esperimento di una CTU- risulta nel caso di
specie agevolato, essendo stati, gli immobili in questione,
effettivamente concessi in locazione da parte della R. s.r.l..
A tal fine, su sollecitazione del Tribunale, il Comune di
Padova ha depositato in giudizio copia delle visure da cui
risulta l’effettivo ammontare del canone di locazione
annuale di ciascuno dei tre appartamenti con relativi
garage.
Successivamente, il Comune ha anche prodotto copia dei tre
contratti di locazione, e ciò anche al di là del termine
assegnato: termine, tuttavia, non perentorio, venendo qui in
questione l’esercizio del potere acquisitivo del giudice, ed
essendo contraria a principi di economia processuale
l’inibita acquisizione di dati conoscitivi –in parte,
peraltro, nel caso di specie, già risultanti dagli atti– ove
ritenuti utili per la decisione, ferme restando le esigenze
di difesa, nella fattispecie soddisfatte con la possibilità
di discutere di tali dati all’udienza odierna (cfr., per il
principio, Cons. St., sez. VI, 06.04.2007, n. 1560 e
10.03.2011, n. 1538).
Peraltro, i dati così acquisiti corrispondono per la gran
parte (eccetto il box sub 35 non locato) a quelli posti a
base della stima del danno effettuata dal capo settore
patrimonio del Comune, sin dall’inizio versata in atti (doc.
13); stima che, dunque, nella parte che qui interessa, viene
confermata nella sua attendibilità e può essere posta a
fondamento della presente liquidazione del danno, senza
necessità di conferire incarico ad un CTU.
Ne consegue che, sulla base dei dati acquisiti in esito
all’istruttoria e della stima del settore patrimonio del
Comune (aggiornata all’attualità sulla base del 75%
dell’indice Istat), il danno da mancato godimento degli
appartamenti e dei garage, nel periodo gennaio 2010–maggio
2014, può essere determinato come segue:
canone anno 2010, € 21.702,24
canone anno 2011, € 22.060,33
canone anno 2012, € 22.473,96
canone anno 2013, € 22.844,78
canone anno 2014 (fino a maggio compreso), € 9.561,49;
per un totale di € 98.642,80.
A tale somma, al fine di determinare il mancato utile netto,
devono essere sottratte le spese (solo quelle documentate)
affrontate, nel periodo in questione, dalla società Relax
per IMU, ICI e condominio, come da quest’ultima richiesto.
Tali spese, anche sulla base dello schema riepilogativo
della società (doc. 3), non oggetto di specifiche
contestazioni da parte del Comune, possono essere
determinate in: € 9.665,08 per ICI/IMU, ed € 10.573,91 (€
9.201,65 + € 1.372,26 in relazione al sub 35) per spese
condominiali. Per un totale di € 20.239,00.
Per cui dalla differenza ne risulta un utile netto mancato
di € 78.403,80.
Somma che può essere arrotondata in € 80.000,00
considerando, in via equitativa, il valore degli interessi
legali maturati anno per anno sulle somme non
tempestivamente percepite.
Su tale importo andranno poi corrisposti gli interessi
legali a partire dalla data della presente decisione al
saldo.
In conclusione il ricorso deve essere accolto e, per
l'effetto, questo TAR deve adottare una sentenza costitutiva
che disponga l'esecuzione in forma specifica della
convenzione di riferimento ai sensi dell'art. 2932 c.c. e,
quindi, il trasferimento al Comune resistente della
proprietà dei beni immobili identificati nel ricorso
introduttivo:
alloggio 1) Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 49;
alloggio 2) Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 55;
alloggio 3) Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 58;
- relativi garages, così identificati:
a) Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 16;
b) Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 35;
c) Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 36;
d) Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 38;
- parcheggio privato:
Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 5;
- centro civico:
Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 58;
e la costituzione di vincolo ad uso pubblico di:
- parcheggio privato mq. 332: Sez. - C Foglio 11 particella
189 sub 4;
- verde pubblico mq 548 (circa): Sez. - C Foglio 11
particella 189 sub 1;
- parcheggio pubblico mq. 135: Sez. - C Foglio 11 particella
189 sub 6;
così come specificamente identificati nel certificato di
collaudo a firma dell'Ing. M., approvato dal Comune di
Padova giusta determinazione 26/05/2009 n. 2009/69/0019.
Inoltre, la società R. deve essere condannata a risarcire il
danno subito dal Comune di Padova per la ritardata
disponibilità dei tre appartamenti e dei quattro garage,
danno che si liquida in € 80.000,00 al valore attuale, oltre
interessi legali dalla data della presente decisione al
saldo
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza
05.06.2014 n. 759 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: La
convenzione urbanistica diretta a disciplinare il rilascio
di concessioni edilizie e la realizzazione di opere di
urbanizzazione costituisce una convenzione di lottizzazione,
rientrante tra gli accordi sostitutivi del provvedimento
rispetto a cui la L. n. 241 del 1990, art. 11, comma 5,
prevede la giurisdizione esclusiva del Giudice
amministrativo per le controversie relative alla formazione,
conclusione ed esecuzione di detti accordi.
La giurisdizione esclusiva non viene meno nell'ipotesi in
cui, insorti alcuni contenziosi e concluso tra la parte
privata ed il Comune un accordo transattivo con modifica
della convenzione originaria, venga giudizialmente richiesta
l'esecuzione di una determinata opera da parte dell'Ente
comunale e la condanna della società al risarcimento del
danno per la ritardata esecuzione dell'opera stessa.
L'accordo transattivo e la successiva variante alla
convenzione originaria sono infatti comunque collegati a
detta convenzione, per cui si tratta di atti -con contenuto
riconducibile alle problematiche relative agli oneri di
urbanizzazione- endoprocedimentali all'interno di un
procedimento amministrativo complesso, finalizzato a
consentire al privato di edificare su terreni di sua
proprietà e la controversia non attiene ad aspetti meramente
patrimoniali del rapporto concessorio, involgendo invece
valutazioni strettamente inerenti a detto rapporto nel
momento funzionale.
Tali conclusioni sono sostenute da un ormai consolidato e
condiviso, completamente e con assoluta convinzione, avviso
che attinge alla radici stesse della tematica e si atteggia
pertanto a principio generale nella subiecta materia, che
non può pertanto risultare scalfito da considerazioni di
specie relativa alla domanda di risarcimento del danno, che
non valgono a svilire la analisi intrinseca del rapporto,
che mantiene la sua connotazione proprio in ragione
dell'inevitabile collegamento alla convenzione originaria.
PREMESSO IN FATTO
- che la Immobiliare La Stazione srl ha proposto ricorso per
regolamento preventivo di giurisdizione nella causa
introdotta nei suoi confronti dal comune di Castelnuovo di
Sotto, con ricorso al TAR per l'Emilia Romagna di Parma;
- che la società premetteva che con atto notarile del
24.02.1997, tra le parti era stata stipulata una convenzione
urbanistica attuati va di un programma integrato di
intervento;
- che, insorta controversia tra le parti, le stesse avevano
transatto la lite con atto del 25.02.2002 alle condizioni
ivi previste;
- che successivamente era insorta altra controversia tra le
parti, che, malgrado tentativi di bonaria composizione,
aveva indotto il Comune ad adire il TAR, chiedendo
l'accertamento dell'obbligo della società a realizzare un
Centro culturale polivalente e la condanna della società
medesima al pagamento del danno derivato dalla mancata
esecuzione dell'opera, con richiesta di provvedimento
cautelare contenente l'ordine di inizio della realizzazione
dell'opera suddetta;
- che la ricorrente sostiene che la giurisdizione spetti al
Giudice ordinario, in quanto la controversia ha ad oggetto
l'esecuzione non di un accordo integrativo o sostitutivo di
provvedimento amministrativo (L. n. 241 del 1990, art. 11),
ma un atto di transazione, venendo quindi in evidenza
l'adempimento di obbligazioni di natura privatistica, e ciò
in riferimento a tutte le domande del Comune; che il Comune
sostiene, nel proposto controricorso, che i rapporti tra le
parti resterebbero pur sempre regolati da una convenzione
urbanistica, per cui la causa resterebbe attratta nella
giurisdizione esclusiva prevista per tali controversie, non
operando nella specie la L. n. 1034 del 1971, art. 5, comma
2, invocato dal ricorrente;
- che entrambe le parti hanno presentato memoria;
- che il P.G. ha rassegnato conclusioni scritte, instando
per la declaratoria della giurisdizione del Giudice
amministrativo.
CONSIDERATO IN DIRITTO
che:
- la convenzione urbanistica diretta a disciplinare il
rilascio di concessioni edilizie e la realizzazione di opere
di urbanizzazione costituisce una convenzione di
lottizzazione, rientrante tra gli accordi sostitutivi del
provvedimento rispetto a cui la L. n. 241 del 1990, art. 11,
comma 5, prevede la giurisdizione esclusiva del Giudice
amministrativo per le controversie relative alla formazione,
conclusione ed esecuzione di detti accordi;
- la giurisdizione esclusiva non viene meno nell'ipotesi in
cui, insorti alcuni contenziosi e concluso tra la parte
privata ed il Comune un accordo transattivo con modifica
della convenzione originaria, venga giudizialmente richiesta
l'esecuzione di una determinata opera da parte dell'Ente
comunale e la condanna della società al risarcimento del
danno per la ritardata esecuzione dell'opera stessa.
L'accordo transattivo e la successiva variante alla
convenzione originaria sono infatti comunque collegati a
detta convenzione, per cui si tratta di atti -con contenuto
riconducibile alle problematiche relative agli oneri di
urbanizzazione- endoprocedimentali all'interno di un
procedimento amministrativo complesso, finalizzato a
consentire al privato di edificare su terreni di sua
proprietà e la controversia non attiene ad aspetti meramente
patrimoniali del rapporto concessorio, involgendo invece
valutazioni strettamente inerenti a detto rapporto nel
momento funzionale (v. Cass. 20.11.2007, n. 24009);
- tali conclusioni sono sostenute da un ormai consolidato e
condiviso, completamente e con assoluta convinzione, avviso
che attinge alla radici stesse della tematica e si atteggia
pertanto a principio generale nella subiecta materia
(cfr. Cass. nn 19494, 18630 del 2008 e 2029 (ordza) dello
stesso anno), che non può pertanto risultare scalfito da
considerazioni di specie relativa alla domanda di
risarcimento del danno, che non valgono a svilire la analisi
intrinseca del rapporto, che mantiene la sua connotazione
proprio in ragione dell'inevitabile collegamento alla
convenzione originaria;
- il ricorso non può pertanto trovare accoglimento e va
conseguentemente dichiarata la giurisdizione del giudice
amministrativo
(Corte di Cassazione, Sezz. unite civili, ordinanza
17.04.2009 n. 9151). |
AGGIORNAMENTO AL 13.08.2015 |
ã |
Abuso edilizio, vincolo paesaggistico sopravvenuto e richiesta di sanatoria (ordinaria,
ex art. 36 oppure 37 DPR n. 380/2001):
occorre, o
meno, presentare la richiesta di accertamento della
compatibilità paesaggistica ex art. 167 d.lgs.
42/2004?? |
La questione che vogliamo affrontare oggi origina
dal lontano 1985, all'indomani del varo del 1°
condono edilizio (Legge
28.02.1985 n. 47 - Norme in materia di
controllo dell'attività urbanistico-edilizia -
Sanzioni amministrative e penali).
Nello specifico, si tratta dell'art. 32, comma 1, 1°
periodo, che nel testo oggi vigente (così come
nell'anno 1985) così dispone: "art.
32. Opere costruite su aree sottoposte a vincolo
1. Fatte salve le fattispecie previste dall'articolo
33,
il rilascio del
titolo abilitativo edilizio in sanatoria per opere
eseguite su immobili sottoposti a vincolo, è
subordinato al parere favorevole delle
amministrazioni preposte alla tutela del vincolo
stesso.
Qualora tale parere non venga formulato dalle
suddette amministrazioni entro centottanta giorni
dalla data di ricevimento della richiesta di parere,
il richiedente può impugnare il silenzio-rifiuto. Il
rilascio del titolo abilitativo edilizio estingue
anche il reato per la violazione del vincolo. Il
parere non è richiesto quando si tratti di
violazioni riguardanti l'altezza, i distacchi, la
cubatura o la superficie coperta che non eccedano il
2 per cento delle misure prescritte.".
Ebbene, sulla ratio di tale norma (1° periodo) è
sorto quasi subito un contrasto giurisprudenziale in
questi termini:
se il rilascio del
condono edilizio fosse subordinato al parere
favorevole dell'autorità preposta alla tutela del
vincolo, di
cui all’art. 32 della legge 28 febbraio 1985 n. 47,
non solo per
le opere ricadenti in zona che risulti già vincolata
al momento della loro esecuzione ma anche per quelle
laddove il vincolo fosse sopravvenuto.
A dirimere la controversia è dovuta intervenire
l'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato che, con
la
sentenza 22.07.1999 n. 20, ha così
statuito:
|
EDILIZIA PRIVATA:
La
disposizione di portata generale di cui all’art. 32,
primo comma, relativa ai vincoli che appongono
limiti all’edificazione, non reca alcuna deroga a
questi principi, cosicché essa deve interpretarsi “nel
senso che l'obbligo di pronuncia da parte
dell'autorità preposta alla tutela del vincolo
sussiste in relazione alla esistenza del vincolo al
momento in cui deve essere valutata la domanda di
sanatoria, a prescindere dall'epoca d'introduzione
del vincolo. E appare altresì evidente che tale
valutazione corrisponde alla esigenza di vagliare
l'attuale compatibilità, con il vincolo, dei
manufatti realizzati abusivamente".
2. Con il
primo motivo d’impugnazione si sostiene che
erroneamente il giudice di primo grado ha ritenuto
il rilascio del condono edilizio subordinato al
parere favorevole dell'autorità preposta alla tutela
del vincolo, di cui all’art. 32 della legge
28.02.1985 n. 47, richiedendosi detto parere, al
contrario, solo per le opere ricadenti in zona che
risulti già vincolata al momento della loro
esecuzione.
Nel caso in esame, si osserva, il vincolo ambientale
gravante sulla zona è stato imposto in epoca
successiva non solo all’esecuzione delle opere, ma
anche alla stessa L. n. 47 del 1985 e, per altro, i
manufatti oggetto delle prime due istanze di condono
risalgono ad epoca anteriore al 1967 e ricadono in
zona agricola, cosicché al momento della loro
esecuzione non erano soggetti a licenza edilizia, né
per essi avrebbe dovuto essere avanzata domanda di
condono.
2.1. Sulla questione, avverte la Sezione VI nella
sua ordinanza di rimessione, si sono manifestati
indirizzi di segno diverso.
Un primo orientamento ritiene obbligatoria
l’acquisizione del parere anche se le opere sono
state realizzate in data anteriore all'apposizione
del vincolo (C.S., V, 23.03.1991 n. 326; id.,
22.12.1994 n. 1574; id., 04.05.1995 n. 696; id.,
13.02.1997 n. 158; Sez. VI, 09.10.1997 n. 1461).
Alla base di tale linea interpretativa vengono
addotte non solo ragioni desunte dalla formulazione
letterale del citato art. 32, primo comma, L. n.
47/1985, nel quale non è precisato che il vincolo
imposto debba essere anteriore all'esecuzione delle
opere abusive, ma anche rilievi di carattere
sostanziale, quali: la funzione correttiva
dell'automatismo del condono edilizio da
riconoscersi al parere in questione; la presenza di
interessi pubblici di valore primario (culturali,
ambientali o paesaggistici e altri), che non possono
essere compromessi in via definitiva; la natura
oggettiva del vincolo, la gestione del quale non
richiede altro che la sua esistenza.
Nel senso che, invece, il parere di cui si tratta
non sia necessario ove il vincolo sia posteriore
all'esecuzione dell'opera, sono le decisioni
della Sesta Sezione 30.09.1995 n. 1030 e 05.03.1997
n. 356.
Questo secondo orientamento valorizza l'espressione
“aree sottoposte a vincolo" di cui all'art.
32, osservando che essa si riferisce ad un fatto
accaduto, vale a dire alla già avvenuta
sottoposizione a vincolo, e sottolinea come il
legislatore abbia inteso significare che solo a
partire da questo momento la qualità dell'area
espressa dal vincolo assume rilevanza ai fini della
sanatoria delle opere che su di essa siano state
realizzate.
Rafforzano questa conclusione ragioni di ordine
sistematico desumibili sia dal quarto comma del
medesimo art. 32, il quale dimostrerebbe che quando
il legislatore ha inteso considerare anche il
vincolo sopravvenuto al compimento dell'opera, lo ha
fatto esplicitamente; sia dal primo comma del
successivo art. 33 che, ammettendo per implicito la
sanabilità delle opere in contrasto con vincoli di
inedificabilità assoluta sopravvenuti,
evidenzierebbe l’incongruità di una disciplina meno
favorevole per l'ipotesi, meno grave, di opera su
area successivamente colpita da vincolo che comporti
soltanto un’edificabilità limitata.
Un ulteriore orientamento, espresso in sede
consultiva (C.S., Sez. II, par. 20.05.1998 n.
403/1998), attribuisce rilevanza alla data ultima
concessa dalla legge per la presentazione della
domanda di sanatoria, di tal che il parere
dell'Amministrazione preposta alla tutela del
vincolo è obbligatorio ogni volta che questo, a
prescindere dall'ultimazione dell'abuso e
dall'entrata in vigore delle leggi di condono, sia
stato imposto prima della indicata data.
Si riconosce alla sanatoria straordinaria di cui
agli artt. 31 e seguenti della L. n. 47 del 1985 il
carattere eccezionale di atto assimilabile a quelli
di clemenza generale, tale da giustificare la deroga
al principio “tempus regit actum”, secondo il
quale la legittimità degli atti amministrativi si
valuta con riguardo unicamente alle norme vigenti ed
alla situazione esistente al momento del loro venire
in essere.
Dalla considerazione di tale particolare natura
dell’istituto del condono edilizio si deduce, quale
criterio fondamentale, che “le valutazioni
giuridiche debbono essere compiute soltanto in
riferimento ai parametri presenti al tempo
dell'operatività dell'atto generale di clemenza, e
che non può farsi eccezione alla misura di clemenza
stessa se non a tutela di interessi pubblici
reputati prioritari e superiori a quello suo stesso,
ma che comunque debbono, per ragioni di intrinseca
coerenza e di razionalità delle scelte, essere
effettivi ed attuali”.
Si individua, infine, nel termine per la
presentazione della domanda, “la data di
riferimento per la operatività della fattispecie di
sanatoria straordinaria, che postula, con la
presentazione della domanda, il concorso del privato
interessato in utilizzazione del beneficio
offertogli dalla legge”.
2.2. Così ricostruiti i termini cui è pervenuta la
questione, ritiene l’Adunanza plenaria che, in
mancanza di indicazioni univoche desumibili dal dato
normativo, ad essa debba darsi soluzione alla
stregua dei principi generali in materia di azione
amministrativa, tenuto conto della valenza
attribuita dall’ordinamento agli interessi coinvolti
nell’applicazione della disposizione legislativa di
cui si tratta.
Il legislatore, in realtà, è intervenuto più volte
sull’art. 32 della legge 28.02.1985 n. 47 (con
l'art. 4 del D.L. 23.04.1985 n. 146; con l'art. 12
del D.L. 12.01.1988, n. 2, peraltro, dichiarato
costituzionalmente illegittimo da Corte Cost.,
10.03.1988 n. 302; con l'art. 2, comma 43, della
legge 23.12.1996 n. 662), perfino con una
disposizione interpretativa (art. 1 L. 27.12.1997 n.
449), senza mai provvedere, tuttavia, in ordine al
dubbio che qui s’intende sciogliere. Il che non può
essere del tutto privo di significato.
D’altra parte, non sembrano condivisibili gli
argomenti addotti a sostegno delle linee
interpretative sopra riferite che o negano del tutto
la rilevanza del vincolo successivo o la fermano
entro il termine per la presentazione della domanda
di sanatoria. Così non appare persuasivo quello
tratto dalla formulazione letterale della norma.
In particolare, l'impiego dei participi passati “eseguite”
e “sottoposte”, nell'espressione “opere
eseguite su aree sottoposte a vincolo”
utilizzata dal legislatore nel primo comma
dell’articolo, non rappresenta sicuro riferimento
alla sola ipotesi di opera abusivamente costruita su
area già gravata da vincolo nel momento della sua
realizzazione. Non è infrequente, nella lingua
italiana, l’uso del participio passato con funzione
semplicemente oggettivante; uso che, nella specie,
non necessariamente esprime l’esistenza di una
relazione temporale tra le due qualità,
rispettivamente, dell’opera e dell’area.
La circostanza, poi, che, quando ha inteso
considerare anche il vincolo sopravvenuto al
compimento dell'opera, il legislatore lo ha fatto
esplicitamente, come nell'art. 32, quarto comma, non
depone per una lettura in senso opposto della norma
che di tale specificazione sia priva. Il silenzio
mantenuto in proposito, invece, ben può essere
significativo proprio dell’intento di non attribuire
alcuna rilevanza al momento in cui il vincolo
risulti imposto.
Neppure decisive appaiono le argomentazioni di
carattere sistematico fondate sul raffronto con
l'art. 33, primo comma, L. n. 47/1985, che prevede
l’insanabilità degli abusi commessi in spregio di un
vincolo di inedificabilità assoluta già vigente al
momento dell’attività edificatoria.
La disposizione non può essere caricata di un
significato che non ha: è difficile, infatti,
considerare del tutto inesistente un vincolo d’inedificabilità
totale per il solo fatto che sia sopravvenuto
all’edificazione e ritenere, pertanto, che l'abuso
commesso sia senz’altro sanabile. Un giusto raccordo
tra gli articoli in esame comporta che la
fattispecie, siccome non specificamente disciplinata
dall’art. 33, ricada nella previsione di carattere
generale contenuta nel primo comma dell’art. 32.
Viene meno, quindi, l’ipotizzata incongruenza nella
disciplina delle due situazioni, per altro tra loro
sostanzialmente diverse, sulla quale l’argomento
considerato si fonda.
Dell’orientamento più recente, espresso nel citato
parere della Sezione II, richiede qualche
riflessione la conclusione alla quale perviene, di
individuare nel termine massimo stabilito per la
presentazione della domanda di condono il limite
temporale della rilevanza del vincolo e, quindi,
dell’obbligatorietà del parere di cui all’art. 32,
primo comma.
Tale soluzione viene giustificata assumendo quel
termine come il momento di riferimento per la “operatività
della fattispecie di sanatoria straordinaria”,
al quale “attualizzare” la salvaguardia di
quei valori che la stessa scelta politica di
clemenza generale ha reputati prioritari e
superiori.
Di primo acchito, per altro, al concetto di “operatività”,
piuttosto oscuro sul piano delle categorie
giuridiche, pare preferibile quello di
perfezionamento della fattispecie nei suoi elementi
costitutivi, oggettivi e soggettivi, uno dei quali è
senza dubbio l’esistenza della volontà di avvalersi
del beneficio, espressa dall’interessato con la
domanda; onde sembrerebbe più corretto riferirsi
alla data di questa, lasciando alla diligenza del
singolo di evitare il rischio della sopravvenienza
del vincolo.
Ma, ad una valutazione più attenta, è proprio
riguardo alla determinazione dell’ambito in cui
devono ritenersi fatti salvi taluni valori che la
tesi perde pregio.
I limiti e le modalità di tale salvezza, invero, non
possono avere altra fonte che la norma positiva la
quale, come s’è visto sopra, almeno nella
disposizione generale relativa ai vincoli, dettata
con il primo comma del ripetuto art. 32, non offre
alcun elemento di definizione.
Confortano l’assunto quanto meno due considerazioni:
la prima, con la quale va messa in evidenza
la specialità della normativa sul condono edilizio,
attesa la sua natura derogatoria ed eccezionale, che
ne impone una lettura di stretta interpretazione;
la seconda, che fa perno sull’esistenza, nello
stesso art. 32 (si veda il comma quarto), di una più
dettagliata disciplina della tutela che, a fronte
della generale sanatoria, il legislatore ha inteso
riservare a taluni specifici vincoli (si potrebbe
dire, “minori” rispetto a quelli
paesaggistico-ambientali, storico-artistici, ecc.).
2.3. Il vero è che la cura del pubblico
interesse, in che si concreta la pubblica funzione,
ha come sua qualità essenziale la legalità: è la
legge che attribuisce la funzione e ne definisce le
modalità di esercizio, anche attraverso la
definizione dei limiti entro i quali possono
ricevere attenzione gli altri interessi, pubblici e
privati, con i quali l’esercizio della funzione
interferisce. Compito, questo, peraltro, che
nessun’altra norma può svolgere se non quella
vigente al tempo in cui la funzione si esplica (“tempus
regit actum”).
Ne consegue che la pubblica Amministrazione,
sulla quale a norma dell’art. 97 Cost. incombe più
pressante l’obbligo di osservare la legge, deve
necessariamente tener conto, nel momento in cui
provvede, della norma vigente e delle qualificazioni
giuridiche che essa impone.
La disposizione di portata generale di cui
all’art. 32, primo comma, relativa ai vincoli che
appongono limiti all’edificazione, non reca alcuna
deroga a questi principi, cosicché essa deve
interpretarsi “nel senso che l'obbligo di
pronuncia da parte dell'autorità preposta alla
tutela del vincolo sussiste in relazione alla
esistenza del vincolo al momento in cui deve essere
valutata la domanda di sanatoria, a prescindere
dall'epoca d'introduzione del vincolo. E appare
altresì evidente che tale valutazione corrisponde
alla esigenza di vagliare l'attuale compatibilità,
con il vincolo, dei manufatti realizzati
abusivamente" (C.S., V, 22.12.1994 n. 1574).
Quanto alla preoccupazione che siffatta soluzione
esporrebbe il singolo caso, in violazione del
principio di certezza del diritto e di non disparità
di trattamento, alla variabile alea dei tempi di
decisione sull’istanza, si osserva, per un verso,
che addurre inconvenienti non è un buon argomento
ermeneutico e, per altro verso, che, ad ogni modo,
l’ordinamento appresta idonei strumenti di
sollecitazione e, se del caso, di sostituzione
dell’Amministrazione inerte.
2.4. Alla stregua delle considerazioni fin qui
esposte, la doglianza relativa all’irrilevanza del
vincolo sopravvenuto, dedotta con il primo motivo
d’appello, si rivela infondata.
Non rileva, inoltre, la circostanza che per alcuni
dei manufatti in questione non fosse neppure
richiesta la licenza edilizia all’epoca della loro
costruzione, cosicché per essi non sussisteva
l’obbligo della domanda di condono. Sta di fatto che
con la presentazione dell’istanza il ricorrente ha
operato una scelta all’evidente fine di acquisire il
titolo domandato e, attraverso questo, il beneficio
della certezza giuridica nei rapporti relativi al
manufatto. L’Amministrazione non poteva provvedere
in modo diverso su di una tale domanda, che, del
resto, sarebbe stata ugualmente respinta anche ove
si fosse ritenuta non necessaria la sanatoria
invocata.
Il primo motivo d’impugnazione va, pertanto,
respinto (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria,
sentenza 22.07.1999 n. 20). |
Fatta chiarezza che in materia di condono edilizio (il
1°, il 2° oppure il 3° che dir si voglia) "l'obbligo
di pronuncia da parte dell'autorità preposta alla
tutela del vincolo sussiste in relazione alla
esistenza del vincolo al momento in cui deve essere
valutata la domanda di sanatoria, a prescindere
dall'epoca d'introduzione del vincolo",
ad oggi tutte le numerosissime sentenze di nostra
conoscenza che hanno affermato tale principio
vertevano, appunto, in materia di condono edilizio.
Ma cosa succede
se siamo in presenza di una sanatoria ordinaria (ex
art. 36 oppure 37 del DPR n.
380/2001)?? Vale -o meno- il medesimo principio??
Per quanto ci consti, tre Regioni si sono pronunciate
-in risposta a quesiti specifici- ed hanno sostenuto
la tesi per cui la richiesta di verifica della
compatibilità paesaggistica (ex art. 167 d.lgs.
42/2004) opera solamente se il vincolo esisteva già
prima della realizzazione dell'abuso edilizio e non
anche se il vincolo sia sopraggiunto.
Di seguito i tre pareri della Regione Lombardia,
Piemonte ed Emilia Romagna:
|
EDILIZIA PRIVATA: Richiesta
parere in merito applicazione artt. 167 - 181 del
D.Lgs. n. 42/2004 (Regione Lombardia, Direzione
Generale Territorio e Urbanistica,
nota 18.12.2008 n. 24534 di prot.).
Un parere in merito alla questione se un abuso
edilizio commesso su area non paesaggisticamente
vincolata debba, invero, essere assoggettato alla
procedura di compatibilità ex artt. 167 e 181 poiché
nel frattempo e successivamente è stata vincolata
l'area de qua. |
EDILIZIA PRIVATA:
Viene posto il problema di un’opera edilizia abusiva
realizzata nel 1971 (anteriormente, dunque, alla
cosiddetta “legge Galasso”) a distanza inferiore a
150 metri da un corso d’acqua, in assenza di titolo
abilitativo edilizio; per tale opera viene ora
richiesto il titolo edilizio predetto in sanatoria,
sussistendo la conformità dell’opera alla
“disciplina urbanistica ed edilizia vigente” (art.
36 T.U. ed.), in presenza del fatto che non è
peraltro praticabile nel caso una “sanatoria
paesaggistica”, in virtù dei disposti del “codice
dei beni culturali”.
Il caso concreto proposto dal Comune presenta i
seguenti connotati.
Nel 1971, e dunque vari anni prima dell’emanazione
della cosiddetta “legge Galasso”, a distanza
inferiore a 150 metri da un torrente è stata
costruita -senza licenza edilizia (così era
denominato all’epoca il titolo abilitativo edilizio,
non ancora chiamato “concessione”)-
un’autorimessa.
La stessa, per quanto emerge dal quesito posto
(quesito che altrimenti non avrebbe neppure ragion
d’essere), non dava luogo a contrasti con la
disciplina urbanistica ed edilizia vigente all’epoca
della realizzazione né con quella in vigore
attualmente.
Sussistono quindi le condizioni di cui all’art. 36
del D.P.R. 380/2001 recante Testo Unico
dell’edilizia: l’autorimessa in questione è sanabile
-sotto il profilo urbanistico/edilizio- ai sensi
della disposizione di legge dianzi citata.
Peraltro, come è noto, nel 1985 è intervenuto
dapprima il d.l. 312 e poi la legge n. 431
(cosiddetta “legge Galasso”), che ha
istituito la categoria delle “aree tutelate per
legge” (per usare il linguaggio dell’art. 142
del “codice dei beni culturali”, d.lgs.
42/2004 e succ. mod. attualmente in vigore).
E’ parimenti noto il fatto che la legislazione di
cui dianzi (la “legge Galasso” è ora
travasata nel codice anzidetto) ha stabilito che “sono
comunque di interesse paesaggistico e sono
sottoposti alle disposizioni” del Titolo I della
Parte Terza del codice “i fiumi, i torrenti, i
corsi d’acqua (…) e le relative sponde o piedi degli
argini per una fascia di 150 metri ciascuna”.
L’autorimessa in questione è stata dunque edificata
quando l’area interessata non era gravata di vincolo
paesaggistico alcuno; l’irregolarità è consistita
solo nel realizzare la costruzione senza munirsi
della licenza edilizia comunale, licenza che
tuttavia sarebbe stata rilasciata (per quanto è dato
di intendere dal quesito) ove richiesta, stante
l’assenza di contrasti con la disciplina urbanistica
ed edilizia, contrasti che non sussistono neppure
oggi.
La regolarizzazione edilizia dell’intervento non
porrebbe dunque alcun problema: sarebbe infatti
applicabile l’istituto anzidetto dell’accertamento
di conformità di cui all’art. 36 del D.P.R.
380/2001: il proprietario del fabbricato potrebbe
sanare l’intervento, previo pagamento di una somma
pari al doppio del contributo di costruzione oggi
dovuto.
Peraltro, correttamente il Comune si chiede se sia
rilasciabile il permesso di costruire in sanatoria
ex art. 36 citato, in presenza del fatto che oggi
(art. 146, comma 4, d.lgs. 42/2004) non è più
rilasciabile l’autorizzazione paesaggistica in
sanatoria che parrebbe dover precedere il titolo
abilitativo edilizio e può essere solo accertata la
“compatibilità paesaggistica” nei limitati
casi di cui agli artt. 167, co. 4 e 181, co. 1-ter
del d.lgs. 42/2004, casi ai quali sfugge
l’intervento in questione, poiché l’autorimessa dà
luogo ad una nuova superficie utile: è quindi
esclusa dalla possibilità di verificarne la
compatibilità paesaggistica dagli articoli dinanzi
citati.
In effetti più problematica appare la questione
inerente alla eventuale regolarizzazione
paesaggistica dell’intervento.
Al riguardo, va detto quanto segue. (... continua)
(Regione Piemonte,
parere n. 18/2009 - tratto da
www.regione.piemonte.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Applicazione dell’art. 17-bis della L.R. n. 23
del 2004, relativamente agli aspetti paesaggistici –
Risposta a richiesta di parere (Regione Emilia Romagna,
parere 04.08.2015 n. 558474 di prot.).
---------------
Con nota inviata il 16.06.2015, prot. n. 128924,
(acquisita agli atti del Servizio in data 16.06.2015, prot.
n. PG.2015.421736) il Comune di XXX pone un quesito in
merito all'applicazione dell’art. 17-bis della L.R. n. 23
del 2004, chiedendo se tale forma di sanatoria si debba
coordinare con l’istituto dell’accertamento di compatibilità
di cui all’art. 167 del D.Lgs. n. 42 del 2004, Codice dei
beni culturali e del paesaggio (da qui in avanti Codice).
In particolare, si chiede come procedere per la
regolarizzazione di opere, eseguite in parziale difformità
durante i lavori in attuazione di titoli abilitativi
rilasciati prima dell'entrata in vigore della legge
28.01.1977, n. 10, in caso di vincolo paesaggistico
sopravvenuto.
Nella nota si fa riferimento al parere espresso da questi
Servizi regionali del 17.04.2012, prot. n. PG/2012/95795,
che qui si intende parzialmente rivisto. (... continua).
---------------
ATTENZIONE:
- col suddetto parere la Regione Emilia Romagna si
ravvede per quanto espresso con un precedente
pronunciamento e si allinea alla Regione Lombardia
ed alla Regione Piemonte:
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto:
Sanatoria di interventi edilizio-urbanistici abusivi
realizzati prima dell’imposizione del vincolo
paesaggistico - Risposta a richiesta di parere (Regione
Emilia Romagna,
parere 17.04.2012 n. 95795 di prot.). |
Tuttavia, di recente
siamo a venuti a conoscenza di due pronunciamenti
del TAR (uno dei quali confermato dal CdS) che, in
caso di sanatoria ordinaria e non di condono
edilizio, sposano la tesi dell'Adunanza Plenaria
sopra riportata. Di seguito le sentenze:
|
EDILIZIA PRIVATA: Secondo
il prevalente orientamento giurisprudenziale, per potere
ottenere la sanatoria di immobili abusivi situati in zona
assoggettata a vincolo paesaggistico, è sempre necessario
acquisire il parere favorevole delle amministrazioni
preposte alla sua tutela; e ciò a prescindere dal requisito
della anteriorità dell'opera rispetto al vincolo stesso.
A sostegno di questa conclusione vi sono due elementi.
Il primo, di carattere sostanziale, fa leva sul fatto che è
necessario vagliare l'attuale compatibilità dell’opera
abusiva con il vincolo sopravvenuto. Il secondo, di
carattere formale ma strettamente connesso al primo, si basa
sul principio tempus regit actum, principio che obbliga
l'autorità competente a tenere conto del regime giuridico
vigente al momento di valutazione della la domanda di
sanatoria, a prescindere dall'epoca d'introduzione del
vincolo paesaggistico.
Pertanto, in linea di massima, chi presenta una domanda
di sanatoria di un’opera abusivamente realizzata in zona
assoggettata a vincolo paesaggistico non può pretendere di
sottrarsi dalla valutazione di compatibilità invocando
l’anteriore realizzazione dell’opera medesima rispetto al
suddetto vincolo.
Questa conclusione, però, si fonda sul presupposto che
l’opera sia abusiva.
Se l’opera è stata invece legittimamente realizzata, la
successiva introduzione del vincolo non può ovviamente avere
alcuna ripercussione sul regime giuridico ad essa
applicabile. Vale anche in questa ipotesi il principio tempus regit actum.
19. Si deve ora passare all’esame dei primi motivi aggiunti
con i quali sono stati impugnati il parere negativo
sull’accertamento di compatibilità paesaggistica, rilasciato
dal Comune di Abbiategrasso, ed il provvedimento del
Soprintendente per i Beni Architettonici e Paesaggistici di
Milano, il quale ha dichiarato l’improcedibilità della
relativa istanza.
20. Il Collegio può omettere lo scrutinio delle eccezioni di
rito sollevate dall’Amministrazione resistente stante
l’infondatezza nel merito delle censure dedotte.
21. Con il primo motivo dei primi motivi aggiunti, il
ricorrente sostiene che, in realtà, le opere oggetto del
presente giudizio non necessiterebbero di autorizzazione
paesaggistica in quanto realizzate prima dell’introduzione
del vincolo. La domanda di accertamento di compatibilità
paesaggistica sarebbe stata, quindi, presentata a scopo
meramente cautelativo; per questa ragione, le Autorità
interessate, invece che pronunciarsi nel merito per
respingerla, avrebbero dovuto limitarsi a rilevare
l’inutilità della domanda stessa.
22. Ritiene il Collegio che il motivo sia infondato.
23. Secondo il prevalente orientamento giurisprudenziale,
per potere ottenere la sanatoria di immobili abusivi situati
in zona assoggettata a vincolo paesaggistico, è sempre
necessario acquisire il parere favorevole delle
amministrazioni preposte alla sua tutela; e ciò a
prescindere dal requisito della anteriorità dell'opera
rispetto al vincolo stesso (cfr. Consiglio di Stato, ad.
plen., 22.07.1999 n. 20; id., sez. VI, 07.05.2015, n.
2297; id., 17.01.2014, n. 231).
24. A sostegno di questa conclusione vi sono due elementi.
Il primo, di carattere sostanziale, fa leva sul fatto che è
necessario vagliare l'attuale compatibilità dell’opera
abusiva con il vincolo sopravvenuto. Il secondo, di
carattere formale ma strettamente connesso al primo, si basa
sul principio tempus regit actum, principio che obbliga
l'autorità competente a tenere conto del regime giuridico
vigente al momento di valutazione della la domanda di
sanatoria, a prescindere dall'epoca d'introduzione del
vincolo paesaggistico.
25. Pertanto, in linea di massima, chi presenta una domanda
di sanatoria di un’opera abusivamente realizzata in zona
assoggettata a vincolo paesaggistico non può pretendere di
sottrarsi dalla valutazione di compatibilità invocando
l’anteriore realizzazione dell’opera medesima rispetto al
suddetto vincolo.
26. Questa conclusione, però, si fonda sul presupposto che
l’opera sia abusiva.
27. Se l’opera è stata invece legittimamente realizzata, la
successiva introduzione del vincolo non può ovviamente avere
alcuna ripercussione sul regime giuridico ad essa
applicabile. Vale anche in questa ipotesi il principio
tempus regit actum
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 05.08.2015 n. 1891 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La diversa oggettiva
localizzazione del fabbricato su una porzione dell’area di sedime diversa da quella individuata in occasione del
rilascio del titolo autorizzatorio, non può, come auspicato
da parte ricorrente, essere semplicemente ricondotta ad una
difformità parziale, bensì deve essere qualificata come
variazione essenziale, così come definita dall’art. 8,
lett. c), della legge n. 47/1985 e dall’art. 92, comma 3,
lett. c), della legge regionale 61/1985.
Per cui la modifica della
localizzazione dell’edificio, tale da comportare lo
spostamento del fabbricato in un’area –come nel caso in
esame– pressoché diversa da quella prevista all’atto del
rilascio del titolo edilizio, costituisce una variante
essenziale, in quanto profilo che può condizionare la
compatibilità dell’intervento con i parametri urbanistici e
le connotazioni dell’area.
---------------
Al momento della realizzazione del
fabbricato l’area di sedime realmente interessata
dall’intervento era compresa nell’ambito della fascia di
rispetto cimiteriale.
Sulla base di questo dato oggettivo, il quale conferma che
al momento della realizzazione dell’opera questa risultava
illegittimamente posizionata in una area non edificabile,
non è possibile il conseguimento della sanatoria ex art. 36
del D.P.R. 380/2001 per mancanza della cd. “doppia
conformità”, ossia la conformità alle prescrizioni
urbanistico-edilizie vigenti al momento della
realizzazione dell’opera e quelle vigenti al momento in cui
è stata richiesta la sanatoria.
Il dato così rilevato assume rilevanza dirimente rispetto ad
ogni altra considerazione circa la pretesa illegittimità del
provvedimento che ha denegato la sanatoria, in quanto, come
correttamente ritenuto nel provvedimento di diniego,
le
variazioni apportate all’originaria licenza costituiscono
variazione essenziale rispetto all’originaria licenza e
mancano del requisito della doppia conformità sia al momento
della realizzazione che al momento dell’istanza.
---------------
Va ricordato che dal 1999 tutto il territorio
comunale è soggetto a vincolo paesaggistico, per cui, in base
alla normativa oggi vigente in materia di rilascio delle
autorizzazioni per interventi da eseguirsi in ambiti
protetti, comunque non sarebbe consentito ottenere
un’autorizzazione a sanatoria.
A tale riguardo è costante l’orientamento giurisprudenziale
in base al quale in sede di sanatoria o di condono di un
manufatto abusivo risulta ininfluente l'epoca in cui è sorto
il vincolo, purché questo sia ancora in essere alla data in
cui deve essere valutata la domanda di sanatoria, sicché
detta regola vale anche per le opere eseguite anteriormente
all'apposizione del vincolo stesso.
Invero, ai fini del rilascio delle concessioni edilizie in
sanatoria, la valutazione della compatibilità
dell’intervento con il vincolo deve essere effettuata in
relazione all'esistenza del vincolo al momento in cui deve
essere valutata la domanda di sanatoria, a prescindere
dall'epoca in cui il vincolo medesimo sia stato introdotto,
atteso che tale valutazione corrisponde all'esigenza di
vagliare l'attuale compatibilità con il vincolo dei
manufatti realizzati abusivamente.
Atteso che la richiesta di sanatoria (ndr:
di un abuso realizzato nel 1984) è stata presentata nel
2006 e quindi in un’epoca in cui il vincolo già era
esistente, trattandosi di opera implicante incremento di
superficie e di volume e quindi non rientrante nell’ambito
delle ipotesi in cui è eccezionalmente consentito, in base
ai commi 4 e 5 dell’art. 167 D.lgs. 42/2004, il rilascio
dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria, l’inciso
contenuto nel provvedimento impugnato risulta corretto.
FATTO
Con il ricorso introduttivo il signor T.O.,
proprietario in Comune di Monfumo di un compendio
immobiliare così catastalmente censito: N.C.T. – Comune di
Monfumo – Foglio II- mappali nn. 25, 27, 32, 300, 494, 507,
ha impugnato l’ordinanza n. 16 del 24.07.1997, con la quale
l’amministrazione comunale, dopo aver precedentemente
ordinato la sospensione di una serie di lavori presenti
nell’ambito delle aree di proprietà del ricorrente, attesa
la documentazione successivamente fornita dal medesimo e
rilevato che, per quanto specificamente riguardava i
fabbricati individuati ai punti 4) costruzione di un
capannone in difformità dalla concessione edilizia n.
783/84, 5) realizzazione di annesso a sud del suddetto
capannone e 6) realizzazione di annessi a nord-est
dell’abitazione, così come evidenziati in giallo nella
planimetria allegata, questi risultavano ricadere in zona di
vincolo cimiteriale, già preesistente alla data del
01.09.1967, così da rendere ininfluente la dichiarata
realizzazione anteriore a tale data almeno per due di essi,
ordinava al ricorrente di provvedere alla loro demolizione
nel termine di 90 giorni.
A sostegno della richiesta di annullamento del provvedimento
impugnato parte istante ha dedotto una serie articolata di
motivi, evidenziando in primo luogo e con specifico
riferimento al fabbricato individuato con il n. 4 (capannone
realizzato in difformità rispetto alla concessione edilizia
n. 783/84) che le difformità rilevate non potevano essere
ricondotte alle ipotesi di variazioni essenziali o di
completa difformità rispetto al titolo assentito, per cui
risultava del tutto sproporzionata l’applicazione della più
grave sanzione della demolizione, anziché quella pecuniaria,
applicabile agli interventi eseguiti solo in parziale
difformità.
Per altro verso e con specifico riferimento alla rilevata
insistenza dei fabbricati da demolire in ambito soggetto a
vincolo cimiteriale e quindi di inedificabilità, la difesa
istante rilevava come l’amministrazione comunale avesse
modificato l’estensione della fascia di rispetto cimiteriale
con deliberazione antecedente la data di adozione del
provvedimento impugnato, così finendo per ordinare la
demolizione dei fabbricati sulla base dell’erroneo
presupposto della loro insistenza in ambito soggetto al
vincolo cimiteriale.
Infine, per quanto riguarda gli altri manufatti, in
particolare per il ricovero attrezzi agricoli e fieno, parte
istante evidenziava che, sebbene non ne fosse stata
contestata la realizzazione successivamente al 1967,
trattavasi di manufatti del tutto precari e funzionali
all’edificio principale, come tali non assoggettabili a
concessione edilizia o ad autorizzazione e quindi neppure a
provvedimenti sanzionatori.
Con ordinanza n. 1875/97 il Tribunale, valutato il danno,
accoglieva la richiesta di sospensione dell’ordinanza
impugnata.
Nelle more il ricorrente veniva affiancato nell’attività
aziendale dalla figlia T.S., la quale ha quindi
presentato in data 22.05.2006 una domanda per il
rilascio del permesso di costruire in “variante a
concessione edilizia n. 783 del 28.03.1984”, riguardante
nello specifico il solo fabbricato individuato nelle
planimetrie come edificio “G”, corrispondente al punto n. 4
dell’ordinanza n. 16/97.
Nonostante la domanda non fosse stata formalmente formulata
come istanza di sanatoria, l’amministrazione, intendendo
comunque determinarsi come se tale fosse stata la volontà
della richiedente, si pronunciava, previa comunicazione dei
motivi ostativi ex art. 10-bis L. 241/1990, con il
provvedimento finale di rigetto dell’istanza, datato 26.09.2006.
Avverso il diniego di sanatoria insorgeva nuovamente il
ricorrente congiuntamente alla figlia S. con la
proposizione di motivi aggiunti, con i quali venivano
rinnovate le doglianze già dedotte in occasione del ricorso
introduttivo, soprattutto per quanto riguarda la
classificazione come variazione essenziale delle modifiche
apportate all’originario progetto concessionato nel 1984
relativamente alla costruzione nell’area pertinenziale
dell’edificio “G”, rilevando come detta erronea
classificazione avrebbe illegittimamente impedito anche la
sanabilità dell’intervento, laddove fosse stato
correttamente qualificato come difformità parziale.
Inoltre, con specifico riguardo al diniego di sanatoria ed
alla motivazione posta a fondamento dello stesso, la difesa
istante ha sottolineato l’insufficienza e la
contraddittorietà delle ragioni addotte
dall’amministrazione, difettando ogni indicazione delle
normative di riferimento e soprattutto mancando di rilevare
come il richiamato vincolo ambientale fosse stato imposto
soltanto in epoca successiva alla esecuzione degli
interventi.
Per altro verso, parte istante ha denunciato la difformità
dei contenuti della nota con la quale sono stati comunicati
i motivi ostativi e la successiva determinazione finale
dell’amministrazione, soprattutto per quanto riguarda il
parere reso dalla commissione edilizia, denotando ancora una
volta la contraddittorietà del comportamento
dell’amministrazione comunale. Senza contare, altresì,
l’inutile ed inconferente aggravio procedimentale derivante
dalle ulteriori allegazioni richieste per quanto riguarda le
caratteristiche aziendali.
L’amministrazione intimata, già costituitasi in giudizio con
un primo collegio difensivo, con la nomina dei nuovi
difensori provvedeva a depositare le proprie
controdeduzioni, evidenziando la legittimità dei
provvedimenti impugnati, in modo particolare per quanto
riguarda l’ordine di demolizione dei fabbricati realizzati
in assenza di titolo e, per quanto riguarda l’edificio “G”,
l’avvenuta esecuzione degli interventi in palese variazione
essenziale rispetto all’assentito, tenuto conto
dell’avvenuta traslazione dell’edificio in una posizione
diversa nell’ambito dell’area di pertinenza (spostata di
60ml verso nord) e con dimensioni diverse e maggiori
rispetto a quanto indicato nel progetto iniziale.
Inoltre, veniva ribadita l’insistenza dell’immobile in un
ambito ricadente nella fascia di rispetto cimiteriale e
quindi l’assenza del requisito della doppia conformità per
quanto riguarda la sanatoria edilizia, indipendentemente
dalle sopravvenute modifiche dell’estensione della fascia di
rispetto, senza contare l’esistenza del vincolo ex lege
431/1985, esteso a tutto il territorio comunale di Monfumo,
che impedisce in ogni caso il rilascio a posteriori
dell’autorizzazione paesaggistica.
Con successive memorie di replica ciascuna parte precisava
le proprie conclusioni: in particolare veniva dato atto
dell’intervenuta spontanea demolizione dei manufatti oggetto
dell’ordinanza n. 16/97, fatta eccezione per quel che
riguarda l’edificio “G” e quello individuato con la lettera
“F” nelle planimetrie, in quanto strettamente funzionale al
primo.
Inoltre, entrambe le difese hanno dato atto dei tentativi
effettuati per una soluzione extragiudiziale della
controversia, anche al fine di non compromettere la
prosecuzione dell’attività aziendale, tentativi che tuttavia
non sono giunti a buon fine.
All’udienza del 13.11.2013, uditi i procuratori delle
parti, il ricorso è stato trattenuto in decisione.
DIRITTO
Preliminarmente è necessario dare atto che, con riferimento
ai fabbricati oggetto dell’ordine di demolizione impartito
con l’ordinanza n. 16/97, parte ricorrente ha provveduto a
demolire spontaneamente parte di essi (oltre ad altri
fabbricati non contemplati in tale provvedimento),
residuando, per quanto interessa il presente gravame, i soli
fabbricati che nella richiamata ordinanza erano identificati
ai punti 4 e 5 e che corrispondono agli edifici
contraddistinti con le lettere “G” ed “F” nelle planimetrie
allegate da parte ricorrente.
Di tale modifica della situazione di fatto danno conferma
parte ricorrente e la stessa difesa del Comune nella memoria
del 22.10.2013.
Va peraltro osservato che, almeno per quanto riguarda
l’edificio “F” (sulla cui epoca di realizzazione, denunciata
dal signor T. come antecedente il 1967,
l’amministrazione ha depositato documentazione –accatastamento del 1989– dalla quale non risulta la
presenza prima di tale anno), non è stata comunque
presentata da parte ricorrente alcuna istanza di sanatoria,
per cui per tale edificio persiste l’ordine di demolizione
impartito con l’ordinanza n. 16/97.
Sempre in punto di fatto, al fine di chiarire i presupposti
dei provvedimenti impugnati, va dato atto delle progressive
modifiche del perimetro dell’area individuata dal Comune
quale fascia di rispetto cimiteriale, che da ultimo, per
quanto rileva nella presente controversia, con deliberazione
del 24.07.1997 è stata oggetto di riduzione, positivamente
riscontrata dalla C.T.R. il 18.02.1998 e quindi formalmente
recepita con decreto sindacale del 23.06.1998, risultando
attualmente –nell’ambito de quo– pari a 50 metri.
Per quanto riguarda poi l’esistenza del vincolo ambientale,
va ancora dato atto –come documentato dall’amministrazione– che a seguito della delibera della Commissione provinciale
per l’apposizione e la revisione dei vincoli paesaggistici
del 30.09.1999, l’intero territorio comunale risulta
assoggettato vincolo paesaggistico con decorrenza
dall’avvenuta pubblicazione della suddetta delibera all’albo
pretorio (15.11.1999).
Ciò premesso, benché la stessa parte ricorrente abbia
manifestato l’interesse per quanto riguarda il fabbricato
“F” soltanto in rapporto alla persistenza e quindi al
mantenimento dell’edificio “G”, ove è svolta l’attività
del’azienda agricola, va osservato che, come risulta dalla
produzione documentale agli atti, detto manufatto risulta
abusivamente realizzato, in assenza di titolo, nonostante
l’epoca della sua realizzazione non fosse antecedente al
1967, come sostenuto dall’istante, bensì successiva, come
attestato dall’amministrazione.
Per tale manufatto, non interessato da alcuna istanza di
sanatoria, è quindi legittimo l’ordine di demolizione
impartito con l’ordinanza impugnata.
Resta quindi da esaminare la posizione dell’edifico “G”, per
il quale l’ordine di demolizione inizialmente impartito
risulta superato dalla nuova determinazione assunta dal
Comune per effetto dell’istanza di sanatoria presentata da T.S., determinazione che ha respinto la richiesta
e che quindi darà seguito ad una nuova ordinanza di
demolizione (allo stato peraltro non ancora adottata dal
Comune).
Riguardo all’istanza così presentata dalla ricorrente, va
indubbiamente dato atto della inesatta formulazione della
stessa, in quanto redatta come istanza di permesso di
costruire in variante, quando in realtà l’obiettivo era
quello di regolarizzare le difformità rilevate dal Comune:
tuttavia, come peraltro inteso dalla stessa amministrazione,
la richiesta è stata valutata e definita come istanza di
sanatoria per quanto riguarda la variazioni apportate al
progetto inizialmente assentito con la concessione edilizia
n. 783/84.
Esaminati quindi i motivi aggiunti proposti avverso il
diniego di sanatoria opposto dall’amministrazione con
provvedimento del 26.09.2006, ritiene il Collegio che
per quanto attiene alla qualificazione dell’abuso
riscontrato e la conseguente irrogazione della sanzione
pecuniaria –sebbene si tratti di profili che esulano dai
contenuti del diniego di sanatoria, ma che parte istante
nuovamente ripropone in occasione dei motivi aggiunti in
quanto il provvedimento di diniego non ne avrebbe tenuto
conto– le doglianze siano infondate e che correttamente
l’abuso rilevato per quanto riguarda la realizzazione del
fabbricato “G” sia riconducibile ad un’ipotesi di variazione
essenziale, come tale sanzionabile con l’ordine di
demolizione.
Invero, come è dato rilevare dai riscontri effettuati
dall’amministrazione e soprattutto dalla visione delle
planimetrie, l’edificio realizzato sulla base della
concessione n. 783/84 doveva essere localizzato in una
posizione più arretrata rispetto a quella rilevata, mentre
risulta sopravanzato in direzione nord di ben 60 ml.
In tal modo, benché, come riportato testualmente nella
concessione edilizia 783/84 (cfr. doc. 6 del Comune), la
costruzione avrebbe dovuto interessare unicamente il mappale
n. 27, nella realtà il suddetto mappale è stato coinvolto
nell’intervento in minima parte, risultando la quasi
totalità del fabbricato posizionata sui diversi mappali 300
e 25, entrambi proiettati in direzione nord verso il
cimitero (cfr. doc. 5 Comune).
Ne consegue che, anche tenendo conto delle diverse e
maggiori dimensioni del fabbricato in termini di superficie
e volumetria rispetto a quanto autorizzato (in tal senso le
stesse misurazioni contenute nella domanda di sanatoria
dimostrano tali incrementi), la diversa oggettiva
localizzazione del fabbricato su una porzione dell’area di sedime diversa da quella individuata in occasione del
rilascio del titolo autorizzatorio, non può, come auspicato
da parte ricorrente, essere semplicemente ricondotta ad una
difformità parziale, bensì deve essere qualificata come
variazione essenziale, così come definita dall’art. 8,
lett. c), della legge n. 47/1985 e dall’art. 92, comma 3,
lett. c), della legge regionale 61/1985.
Va, quindi, condiviso e confermato l’orientamento
interpretativo richiamato dalla difesa del Comune, già
manifestato da questo Tribunale, per cui la modifica della
localizzazione dell’edificio, tale da comportare lo
spostamento del fabbricato in un’area –come nel caso in
esame– pressoché diversa da quella prevista all’atto del
rilascio del titolo edilizio, costituisce una variante
essenziale, in quanto profilo che può condizionare la
compatibilità dell’intervento con i parametri urbanistici e
le connotazioni dell’area: ed il caso in esame è la prova
della rilevanza del rispetto di tali parametri, proprio in
considerazione della necessità di rispettare il vincolo
cimiteriale, di modo che lo spostamento in avanti e verso
nord, in direzione del cimitero, avrebbe evidentemente
costituito, laddove correttamente rappresentato, una causa
di impedimento al conseguimento della concessione edilizia..
Invero, nonostante che nella planimetria allegata al
permesso di costruire il fabbricato venisse posizionato al
di fuori del limite della fascia di rispetto cimiteriale, in
realtà questo è stato poi localizzato in un’area che
all’epoca della sua realizzazione era pacificamente
considerata rientrante nella fascia di inedificabilità per
la presenza nelle vicinanze del cimitero.
Sul punto –passando così ad affrontare la questione
relativa alla sanabilità dell’abuso- è agevole desumere
dall’esame del documento n. 7 del Comune i diversi momenti
storici nei quali è stata prevista la diversa estensione del
vincolo cimiteriale.
Orbene, sicuramente sino al 1998 (anche fosse il 1997 la
questione non muterebbe, dovendosi fare riferimento
all’epoca di costruzione del capannone ed in base
all’accatastamento del 1989 l’edificio “G” risulta già
esistente) il fabbricato insisteva in area coperta dal
vincolo di rispetto cimiteriale, solo successivamente
eliminato.
Ne consegue che al momento della realizzazione del
fabbricato “G” l’area di sedime realmente interessata
dall’intervento era compresa nell’ambito della fascia di
rispetto cimiteriale.
Sulla base di questo dato oggettivo, il quale conferma che
al momento della realizzazione dell’opera questa risultava
illegittimamente posizionata in una area non edificabile,
non è possibile il conseguimento della sanatoria ex art. 36
del D.P.R. 380/2001 per mancanza della cd. “doppia
conformità”, ossia la conformità alle prescrizioni
urbanistico-edilizie vigenti al momento della
realizzazione dell’opera e quelle vigenti al momento in cui
è stata richiesta la sanatoria.
Il dato così rilevato assume rilevanza dirimente rispetto ad
ogni altra considerazione circa la pretesa illegittimità del
provvedimento che ha denegato la sanatoria, in quanto, come
correttamente ritenuto nel provvedimento di diniego,
le
variazioni apportate all’originaria licenza costituiscono
variazione essenziale rispetto all’originaria licenza e
mancano del requisito della doppia conformità sia al momento
della realizzazione che al momento dell’istanza.
A tale, si ripete, dirimente profilo, che è sufficiente a
sorreggere il provvedimento di diniego, si aggiunge
l’ulteriore aspetto evidenziato nel provvedimento impugnato
e cioè l’impossibilità del rilascio dell’autorizzazione
paesaggistica.
Sul punto va ricordato che dal 1999 tutto il territorio di Monfumo è soggetto a vincolo paesaggistico, per cui, in base
alla normativa oggi vigente in materia di rilascio delle
autorizzazioni per interventi da eseguirsi in ambiti
protetti, comunque non sarebbe consentito ottenere
un’autorizzazione a sanatoria.
A tale riguardo è costante l’orientamento giurisprudenziale
in base al quale in sede di sanatoria o di condono di un
manufatto abusivo risulta ininfluente l'epoca in cui è sorto
il vincolo, purché questo sia ancora in essere alla data in
cui deve essere valutata la domanda di sanatoria, sicché
detta regola vale anche per le opere eseguite anteriormente
all'apposizione del vincolo stesso (Cons. Stato, sez. IV, 18.09.2012, n. 4945; sez. VI, 27.11.2012, n.
5984).
Invero, ai fini del rilascio delle concessioni edilizie in
sanatoria, la valutazione della compatibilità
dell’intervento con il vincolo deve essere effettuata in
relazione all'esistenza del vincolo al momento in cui deve
essere valutata la domanda di sanatoria, a prescindere
dall'epoca in cui il vincolo medesimo sia stato introdotto,
atteso che tale valutazione corrisponde all'esigenza di
vagliare l'attuale compatibilità con il vincolo dei
manufatti realizzati abusivamente.
Atteso che la richiesta di sanatoria è stata presentata nel
2006 e quindi in un’epoca in cui il vincolo già era
esistente, trattandosi di opera implicante incremento di
superficie e di volume e quindi non rientrante nell’ambito
delle ipotesi in cui è eccezionalmente consentito, in base
ai commi 4 e 5 dell’art. 167 D.lgs. 42/2004, il rilascio
dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria, l’inciso
contenuto nel provvedimento impugnato risulta corretto.
Né sussistono gli ulteriori profili di illegittimità
denunciati per quanto riguarda il preteso contrasto fra
quanto anticipato in sede di comunicazione dei motivi
ostativi e quanto poi concluso nel provvedimento finale.
Invero, anche alla luce delle osservazioni rese dalla
ricorrente a seguito della comunicazione ex art. 10-bis, si
evince che la stessa è stata posta nelle condizioni di
comprendere appieno i motivi ostativi al rilascio del tiolo
a sanatoria, in ordine alla doppia conformità ed alla
sussistenza del vincolo, essendo le problematiche relative
all’intervento argomento ben conosciuto e ampiamente
dibattuto fra privato ed amministrazione.
In conclusione, attese le considerazioni sin qui espresse,
ritenuta l’infondatezza dei motivi dedotti, il ricorso va
respinto
(TAR Veneto, Sez. II, sentenza II,
sentenza 10.12.2013 n. 1383 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
... confermata dal Consiglio di Stato:
|
EDILIZIA PRIVATA: E'
sufficiente per il rigetto della sanatoria edilizia
l’esistenza del solo vincolo paesaggistico alla data
di valutazione della stessa.
...
per la riforma
della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il
Veneto, sezione II, n. 1383/2013, resa tra le parti,
concernente demolizione opere abusive.
...
DIRITTO
7. La sentenza impugnata ha rigettato il ricorso per la
sussistenza di due vincoli: cimiteriale e paesaggistico.
8. Con il secondo motivo del ricorso in appello i
ricorrenti, per quel che è dato intendere, sostengono che il
vincolo paesaggistico sarebbe divenuto inefficace per il
decorso del tempo, ossia per il decorso quinquennio dalla
data di adozione (novembre 1999).
Ma i ricorrenti non indicano alcuna norma, o principio, in
base alla quale i vincoli di natura paesaggistica dovrebbero
essere equiparati ai vincoli urbanistici.
Ove, al contrario, con la censura in esame i ricorrenti
abbiano inteso sostenere l’inefficacia del vincolo, per
mancato completamento dell’iter procedimentale, è
sufficiente a confutare l’assunto il richiamo alla decisione
di questa Sezione, 21.03.2005, n. 121 (richiamata anche
dalla difesa del Comune di Monfumo), che il Collegio
condivide.
Richiamando anche la sentenza n. 262/1997 della Corte
costituzionale, la Sezione, infatti, ha affermato che:
<<- l’efficacia del vincolo paesaggistico su bellezze di
insieme, nei confronti dei proprietari, possessori o
detentori, ha inizio dal momento in cui, ai sensi dell’art.
2, ultimo comma, della legge n. 1497/1939, l’elenco delle
località, predisposto dalla commissione ivi prevista e nel
quale è compresa la bellezza di insieme, viene pubblicato
nell’albo dei Comuni interessati;
- i beni immobili soggetti a vincoli paesistici per il loro
intrinseco valore “in virtù della loro localizzazione o
della loro inserzione in un complesso che ha in modo
essenziale le qualità indicate dalla legge costituiscono una
“categoria originalmente di interesse pubblico”; il che non
consente l’assimilabilità dei vincoli paesistici a quelli
urbanistici e determina la inconferenza di qualsiasi
richiamo o raffronto rispetto all’art. 2 della legge n. 1187
del 1968";
- nemmeno sul piano costituzionale si profila una esigenza
di inefficacia dei vincoli paesistici oltre un certo tempo
né si pone un problema di durata della misura cautelativa o
anticipatoria, né un profilo di indennizzabilità anch’esso
collegato alla durata, in quanto il legislatore ha
attribuito un effetto immediatamente vincolante per i
soggetti contemplati dall’art. 7 della legge n. 1497 del
1939 fin dal momento della ricognizione delle “qualità
connaturali secondo il regime proprio del bene”, cioè dalla
compilazione e pubblicazione dell’elenco con valore
costitutivo del regime giuridico dell’immobile da parte
delle commissioni al termine del primo sub procedimento (ciò
al fine di impedire che il lasso di tempo necessario per
l’approvazione definitiva degli elenchi possa rendere
possibili manomissioni incontrollate dei beni immobili
compresi nell’elenco delle bellezza di insieme e quindi
compromettere il paesaggio);
- pur non essendo previsto nella legge n. 1497 del 1939 un
termine di durata del vincolo o entro cui doveva concludersi
il procedimento, vi erano, peraltro, già nel sistema
amministrativo allora vigente, strumenti giuridici di tutela
delle posizioni dei soggetti interessati, quali, in primo
luogo, la diffida a provvedere e, di seguito, l’istituto
processuale del silenzio-rifiuto, con i conseguenti rimedi
della giustizia amministrativa fino al giudizio di
ottemperanza; tali rimedi risultano rafforzati con la legge
07.08.1990, n. 241 con cui è stato codificato il dovere
per la pubblica amministrazione di concludere i procedimenti
iniziati d’ufficio, come quello in esame, mediante
l’adozione di un provvedimento espresso>>.
9. Alla luce delle predette argomentazioni, il secondo
motivo di ricorso è pertanto infondato.
10. È principio giurisprudenziale recepito quello secondo
cui “ove l’atto impugnato (provvedimento o sentenza) sia
legittimamente fondato su una ragione di per sé sufficiente
a sorreggerlo, diventano irrilevanti, per difetto di
interesse, le ulteriori censure dedotte dal ricorrente
avverso le altre ragioni opposte dall’autorità emanante a
rigetto della sua istanza” (Cons. Stato, sez. VI, 14.10.2010, n. 7498; idem 31.03.2011, n. 1981).
11. Alla luce del predetto principio il ricorso in esame
deve essere respinto essendo sufficiente per il rigetto
della sanatoria l’esistenza del solo vincolo paesaggistico
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 27.07.2015 n. 3663 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
QUINDI?? |
E' sen'altro un bel dilemma ... e non ci resta che
interpellare l'Ufficio Legislativo del MIBACT perché
approfondisca l'interrogativo de quo dandoci
appuntamento su questi schermi quanto prima per
l'aggiornamento del caso.
13.08.2015 - LA SEGRETERIA PTPL |
13.08.2013-13.08.2015
Ti penso sempre ... mi manchi.
T. |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Sentenza del Consiglio di Stato, Sez. VI, n.
3652, depositata il 23.07.2015
(MIBACT, Direzione Generale Archeologica,
circolare 30.07.2015 n. 19 con i relativi:
allegato 1 -
allegato
2 -
allegato 3).
---------------
MASSIMA:
Alla funzione di tutela del paesaggio è estranea
ogni forma di attenuazione della tutela paesaggistica
determinata dal bilanciamento o dalla comparazione con altri
interessi, ancorché pubblici, che di volta in volta possono
venire in considerazione: tale attenuazione, nella
traduzione provvedimentale, condurrebbe illegittimamente a
dare minor tutela, malgrado l’intensità del valore
paesaggistico del bene, quanto più intenso e forte sia o
possa essere l’interesse pubblico alla trasformazione del
territorio.
Invero, il parere in ordine alla compatibilità paesaggistica
non può che essere un atto strettamente espressivo di
discrezionalità tecnica, dove l’intervento progettato va
messo in relazione con i valori protetti ai fini della
valutazione tecnica della compatibilità fra l’intervento
medesimo e il tutelato interesse pubblico paesaggistico:
valutazione che è istituzionalmente finalizzata a evitare
che sopravvengano alterazioni inaccettabili del preesistente
valore protetto.
Questa caratterizzazione tecnica del giudizio di
compatibilità da parte degli organi del MIBAC (che concerne
tutti gli elementi di impatto dell’intervento sul paesaggio:
non solo localizzazione, densità e volumi ma anche e
soprattutto linee, forme, materiali, ingombro, disposizione
e così via) non viene meno –a pena di disattendere il
contenuto e il particolare rilievo dell’art. 9 Cost.– in
procedimenti semplificatori per opere considerate dalla
legge di particolare significato, come quello dell’art.
1-sexies (Semplificazione dei procedimenti di autorizzazione
per le reti nazionali di trasporto dell’energia e per gli
impianti di energia elettrica di potenza superiore a 300 MW
termici) d.l. 29.08.2003, n. 239 d.l. 29.08.2003, n. 239
(Disposizioni urgenti per la sicurezza [e lo sviluppo] del
sistema elettrico nazionale e per il recupero di potenza di
energia elettrica) come convertito con modificazioni dalla
l. 27.10.2003, n. 290 (nella specie, il MIBAC, dopo aver
dato parere negativo alla realizzazione di un elettrodotto,
aveva rivisto il suo orientamento compiendo una non
consentita attività di comparazione e di bilanciamento
dell’interesse affidato alla sua cura -la tutela del
paesaggio– con interessi pubblici di altra natura e
spettanza –essenzialmente quelli sottesi alla realizzazione
dell’elettrodotto e al trasporto dell’energia elettrica)
Consiglio di
Stato, Sez. VI,
sentenza 23.07.2015 n. 3652 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
ENTI
LOCALI: B.U.R.
Lombardia, supplemento n. 33 del 10.08.2015, "Assestamento
al bilancio 2015/2017 - I provvedimento di variazione con
modifiche di leggi regionali" (L.R.
05.08.2015 n. 22). |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 33 del 10.08.2015, "Disposizioni
per l’esercizio, il controllo, la manutenzione e l’ispezione
degli impianti termici" (deliberazione
G.R. 31.07.2015 n. 3965). |
URBANISTICA: B.U.R.
Lombardia, serie
serie ordinaria n. 32 del 07.08.2015,
"Commissari ad acta per il completamento della procedura
di approvazione dei PGT di cui all’art. 25-bis, comma 3,
della l.r. 11.03.2005, n. 12 «Legge per il governo del
territorio» - differimento dei termini assegnati con d.g.r.
26.02.2015 n. X/3195" (deliberazione
G.R. 31.07.2015 n. 3973). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 32 del 07.08.2015, "Criteri
per la definizione e determinazione dei servizi ambientali
erogati dai consorzi forestali, in applicazione
dell’articolo 56 della l.r. 31/2008" (deliberazione
G.R. 31.07.2015 n. 3948). |
PATRIMONIO: B.U.R.
Lombardia, serie n. 32 del 07.08.2015, "Approvazione del
bando per la riqualificazione energetica degli edifici
pubblici di proprietà di piccoli comuni, unioni di comuni,
comuni derivanti da fusione e comunità montane in attuazione
della d.g.r. 3904/2015 (POR FESR 2014-20: asse IV, azione IV.4.c.1.1)"
(decreto
D.U.O. 30.07.2015 n. 6484). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: A) Concordato preventivo omologato con
previsione di soddisfazione parziale o di retrocessione a
chirografo dei crediti privilegiati di Inail e Inps:
modalità di rilascio del Documento Unico di Regolarità
Contributiva. Chiarimenti - B) Obbligo di esprimere il voto
contrario in presenza di proposta concordataria che preveda
la soddisfazione parziale dei crediti contributivi
(INPS,
messaggio 06.08.2015 n. 5223 - link a
www.inps.it). |
ENTI LOCALI - VARI:
Oggetto: Linee guida per l'applicazione dell'art. 3,
comma 8-bis, del decreto-legge 30.12.2009, n. 194,
convertito, con modificazioni, dalla legge 26.02.2010, n.
25, successivamente modificato dall'art. 43, comma 1, del
decreto-legge 21.06.2013, n. 69, convertito, con
modificazioni, dalla legge 09.08.2013, n. 98, riguardanti la
possibilità che la carta d'identità possa contenere il
consenso o il diniego alla donazione di organi e tessuti in
caso di morte
(Ministero dell'Interno,
nota 29.07.2015 n. 2128 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: atti dirigenziali - potere di annullamento
(MIBACT, Ufficio Legislativo,
nota 23.04.2015 n. 9444 di prot.). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
PUBBLICO IMPIEGO:
R. Schiavone,
Riforma Pubblica amministrazione: in arrivo il ruolo unico
dei dirigenti (05.08.2015 - tratto da
www.ipsoa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La servitù di parcheggio - Validità ed invalidità
dell’atto di costituzione
(Consiglio Nazionale del Notariato,
studio 06-08.05.2015 n. 1094-2014/C).
---------------
Sommario: 1. Premessa. - 2. La servitù come
diritto reale a contenuto liberamente determinabile. - 3. La
struttura legale tipica del diritto di servitù: I caratteri
generici della realità. - 4. (Segue) I caratteri
particolari: specificità del godimento, duplicità
dell’inerenza (o dell’oggetto), accessorietà. - 5. (Segue)
L’inerenza dell’utilitas. - 6. Le figure limitrofe: le
“servitù personali”; le servitù irregolari. - 7. I Caratteri
specifici della servitù di parcheggio. In particolare, la
localizzazione. - 8. Le sentenze negative della Corte di
Cassazione. La sentenza 23708/14. - 9. Altri esempi di
sentenze in materia di servitù di parcheggio. - 10. Esempio
di atto costitutivo di servitù di parcheggio. |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai sensi dell’art. 167, quarto comma, lett. a),
del dlgs 22.01.2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del
paesaggio, ai sensi dell'articolo 10 della legge 06.07.2002,
n. 137), l’accertamento di compatibilità paesaggistica può
riguardare esclusivamente <<… lavori (…) che non abbiano
determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero
aumento di quelli legittimamente realizzati…>>.
Pertanto, in presenza di opere che abbiano determinato
creazione o aumento di volumi, il rigetto dell’istanza di
accertamento della compatibilità paesaggistica costituisce
esito vincolato del procedimento.
Ritiene pertanto il Collegio che il riferimento a tale
elemento contenuto negli atti impugnati sia di per sé
sufficiente a fornire adeguato supporto motivazionale alle
decisioni assunte e che, a fronte di tale elemento
assolutamente ostativo all’accoglimento dell’istanza, del
tutto inutile sarebbe stato l’esame analitico delle
argomentazioni dedotte dalla parte in sede procedimentale
non riguardanti questo specifico aspetto decisivo.
In proposito va richiamato il pacifico orientamento
giurisprudenziale secondo il quale l'onere motivazionale
derivante dalla presentazione di osservazioni da parte
dell'interessato a seguito dell'invio del preavviso di
rigetto, può ritenersi assolto anche in assenza di una
analitica confutazione in merito ad ogni argomento ivi
esposto, essendo sufficientemente adeguata un'esternazione
motivazionale che renda, nella sostanza, percepibile la
ragione del mancato adeguamento dell'azione amministrativa
alle loro deduzioni partecipative.
Il Collegio, a questo proposito, tiene a precisare che le
opere di cui è causa, in ragione delle loro notevoli
dimensioni, sono senz’altro rilevanti sotto il profilo
paesaggistico, essendo del tutto ininfluente il fatto
(allegato ma non provato dal ricorrente) che esse non
sarebbero percepibili al di fuori dell’area privata in cui
sorgono.
Si deve invero ritenere che i principi espressi dal Ministero per i beni e
le attività culturali con nota prot. 16721 del 13.09.2010,
(nella quale si esclude la necessità di procedere ad
accertamento di compatibilità paesaggistica per quegli
interventi del tutto impercettibili) non possano che
riguardare gli interventi di minima entità diversi dalla
realizzazione di nuovi fabbricati.
Anche questa argomentazione, dedotta dal ricorrente in sede
procedimentale, è pertanto del tutto inidonea a scalfire
l’ostacolo all’accoglimento della domanda costituito dalla
realizzazione di nuova volumetria; è quindi ininfluente la
mancata esplicita confutazione della stessa da parte
dell’Autorità amministrativa.
---------------
Circa la paventata denuncia di violazione dell’art. 10-bis
della legge n. 241 del 1990, non avendo l’Amministrazione
provveduto a comunicargli il preavviso di rigetto, si deve
osservare che il ricorrente, prima del momento di adozione
del provvedimento finale, era a conoscenza del parere
negativo vincolante reso dal Soprintendente e, dunque, del
fatto che, in mancanza di nuovi elementi, con il
provvedimento finale si sarebbe disposto il rigetto della
sua domanda.
Si può pertanto ritenere che, in sostanza, l’obbligo di
comunicazione del preavviso di rigetto di cui all’art.
10-bis della legge n. 241 del 1990 sia stato, nel concreto,
assolto.
In ogni caso si deve rilevare che, l’impossibilità di
concludere positivamente il procedimento di compatibilità
paesaggistica, rende indefettibile il rigetto della domanda
di accertamento conformità. Può quindi applicarsi alla
fattispecie l’art. 21-octies, secondo comma, della legge n.
241 del 1990 il quale impone al giudice di non annullare
l'atto nel caso in cui le violazioni formali non abbiano
inciso sulla legittimità sostanziale del medesimo.
---------------
Il mancato accoglimento delle domanda di accertamento di
conformità (paesaggistica) e, dunque, il permanere del
carattere abusivo delle opere di cui è causa, ha obbligato
l’Amministrazione ad esercitare il potere sanzionatorio di
cui all’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001.
Si può quindi richiamare ancora il citato art. 21-octies,
comma secondo, della legge n. 241 del 1990 che, come visto,
impedisce l’annullamento di atti sostanzialmente legittimi
per violazioni di carattere meramente formale.
46. Con il secondo motivo ed il terzo motivo dei motivi
aggiunti, l’interessato sostiene che sia la Soprintendenza
per i beni architettonici e paesaggistici di Milano che il
Comune di Abbiategrasso avrebbero omesso di valutare le
memorie da egli prodotte in sede procedimentale. Deduce
pertanto la violazione degli artt. 10 e 10-bis della legge
n. 241 del 1990 ed il vizio di eccesso di potere per difetto
di motivazione.
47. In proposito si osserva che, ai sensi dell’art. 167,
quarto comma, lett. a), del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai
sensi dell'articolo 10 della legge 06.07.2002, n. 137),
l’accertamento di compatibilità paesaggistica può riguardare
esclusivamente <<… lavori (…) che non abbiano determinato
creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di
quelli legittimamente realizzati…>>.
48. Pertanto, in presenza di opere che abbiano determinato
creazione o aumento di volumi, il rigetto dell’istanza di
accertamento della compatibilità paesaggistica costituisce
esito vincolato del procedimento.
49. Ritiene pertanto il Collegio che il riferimento a tale
elemento contenuto negli atti impugnati sia di per sé
sufficiente a fornire adeguato supporto motivazionale alle
decisioni assunte e che, a fronte di tale elemento
assolutamente ostativo all’accoglimento dell’istanza, del
tutto inutile sarebbe stato l’esame analitico delle
argomentazioni dedotte dalla parte in sede procedimentale
non riguardanti questo specifico aspetto decisivo.
50. In proposito va richiamato il pacifico orientamento
giurisprudenziale secondo il quale l'onere motivazionale
derivante dalla presentazione di osservazioni da parte
dell'interessato a seguito dell'invio del preavviso di
rigetto, può ritenersi assolto anche in assenza di una
analitica confutazione in merito ad ogni argomento ivi
esposto, essendo sufficientemente adeguata un'esternazione
motivazionale che renda, nella sostanza, percepibile la
ragione del mancato adeguamento dell'azione amministrativa
alle loro deduzioni partecipative (cfr. fra le tante, TAR
Campania Salerno, sez. I, 09.01.2015, n. 53).
51. Il Collegio, a questo proposito, tiene a precisare che
le opere di cui è causa, in ragione delle loro notevoli
dimensioni, sono senz’altro rilevanti sotto il profilo
paesaggistico, essendo del tutto ininfluente il fatto
(allegato ma non provato dal ricorrente) che esse non
sarebbero percepibili al di fuori dell’area privata in cui
sorgono. Si deve invero ritenere che i principi espressi dal
Ministero per i beni e le attività culturali con nota prot.
16721 del 13.09.2010, (nella quale si esclude la
necessità di procedere ad accertamento di compatibilità
paesaggistica per quegli interventi del tutto
impercettibili) non possano che riguardare gli interventi di
minima entità diversi dalla realizzazione di nuovi
fabbricati.
52. Anche questa argomentazione, dedotta dal ricorrente in
sede procedimentale, è pertanto del tutto inidonea a
scalfire l’ostacolo all’accoglimento della domanda
costituito dalla realizzazione di nuova volumetria; è quindi
ininfluente la mancata esplicita confutazione della stessa
da parte dell’Autorità amministrativa.
53. Per queste ragioni i motivi in esame sono infondati.
54. Si può passare ora all’esame dei secondi motivi
aggiunti, con cui vengono impugnati il provvedimento di
rigetto dell’istanza di accertamento di conformità e la
conseguente ordinanza di demolizione.
55. Per ciò che concerne il primo atto viene dedotta
l’invalidità derivata, giacché a dire del ricorrente, i vizi
che inficerebbero il parere vincolante reso dalla
Soprintendenza inficerebbero, in vi derivata appunto, anche
il provvedimento di rigetto della domanda di sanatoria.
56. Il motivo è infondato in quanto, come visto, le censure
dedotte avverso l’atto della Soprintendenza sono state tutte
respinte; non vi può essere, quindi, invalidità derivata.
57. Con il secondo motivo dei secondi motivi aggiunti il
ricorrente denuncia la violazione dell’art. 10-bis della
legge n. 241 del 1990 non avendo l’Amministrazione
provveduto a comunicargli il preavviso di rigetto.
58. In proposito si deve osservare che il ricorrente, prima
del momento di adozione del provvedimento finale, era a
conoscenza del parere negativo vincolante reso dal
Soprintendente e, dunque, del fatto che, in mancanza di
nuovi elementi, con il provvedimento finale si sarebbe
disposto il rigetto della sua domanda. Si può pertanto
ritenere che, in sostanza, l’obbligo di comunicazione del
preavviso di rigetto di cui all’art. 10-bis della legge n.
241 del 1990 sia stato, nel concreto, assolto.
59. In ogni caso si deve rilevare che, l’impossibilità di
concludere positivamente il procedimento di compatibilità
paesaggistica, rende indefettibile il rigetto della domanda
di accertamento conformità. Può quindi applicarsi alla
fattispecie l’art. 21-octies, secondo comma, della legge n.
241 del 1990 il quale impone al giudice di non annullare
l'atto nel caso in cui le violazioni formali non abbiano
inciso sulla legittimità sostanziale del medesimo (cfr.
Consiglio di Stato, sez. IV, 04.09.2013, n. 4448
TAR Sardegna, sez. II, 13.01.2014, n. 18; TAR
Campania Napoli, sez. VII, 07.01.2014, n. 1).
60. Per queste ragioni il motivo in esame è infondato.
...
63. Si può ora passare all’esame delle censure rivolte
contro l’ordinanza di demolizione n. 39 del 16.12.2012.
64. Anche con riferimento a tale atto si deduce innanzitutto
il vizio di invalidità derivata.
65. Si è visto però che tutte le doglianze dedotte contro i
provvedimenti presupposti sono infondate, sicché il vizio di
invalidità derivata non può essere, nel concreto,
configurabile.
66. Con altra censura, la parte lamenta la mancata
comunicazione del preavviso di rigetto.
67. In proposito è sufficiente rilevare che, il mancato
accoglimento delle domanda di accertamento di conformità e,
dunque, il permanere del carattere abusivo delle opere di
cui è causa, ha obbligato l’Amministrazione ad esercitare il
potere sanzionatorio di cui all’art. 31 del d.P.R. n. 380
del 2001. Si può quindi richiamare ancora il citato art. 21-octies, comma secondo, della legge n. 241 del 1990 che, come
visto, impedisce l’annullamento di atti sostanzialmente
legittimi per violazioni di carattere meramente formale.
68. Anche questa censura non può pertanto essere condivisa
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 05.08.2015 n. 1891 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Questa Sezione ha già avuto modo
di osservare che l’art. 167, comma 4, d.lgs. 22.01.2004, n. 42, non consente il rilascio dell’autorizzazione
paesaggistica a sanatoria quando il manufatto realizzato in
assenza di valutazione di compatibilità abbia determinato la
creazione o l’aumento di superfici utili o di volumi e che
la lettera di tale norma non consente ulteriori
interpretazioni.
Il Supremo Consesso di G.A. a sua volta ritenuto che “gli
interventi indicati nell'art. 167 del d.lgs. 22.01.2004, n. 42 (ovverosia gli interventi che non abbiano
determinato creazione di superfici utili o di volumi e
quelli configurabili in termini di manutenzione ordinaria o
straordinaria) sono gli unici per i quali è possibile
l'accertamento postumo di conformità paesaggistica, a sua
volta presupposto del rilascio della sanatoria edilizia. Ai
fini della compatibilità paesaggistica di opere realizzate
in zone vincolate nessun rilievo assume la definizione degli
interventi edilizi in termini di volume tecnico,
qualificazione rilevante sotto il profilo urbanistico ed
edilizio, ma non sotto quello paesaggistico”.
Del resto, lo
stesso massimo organo giurisdizionale di G.A. accede ad una
nozione restrittiva di volume tecnico ritenendo che “in tale
nozione rientrano solo i volumi destinati agli impianti
tecnici strettamente necessari per consentire i servizi
indispensabili all'abitazione (riscaldamento, impianti
elettrici ed idraulici, ecc.), con conseguente
ingiustificato superamento dell'indice di fabbricabilità
previsto dalla legge”.
Le opere realizzate dalle ricorrente,
secondo quanto risulta dagli atti di causa e segnatamente
dalla documentazione fotografica ritraente lo stato dei
luoghi, non assumono tali caratteristiche in modo da
risultare perfino estranee alla nozione, urbanisticamente
intesa, di volume tecnico.
Le deduzioni di parte ricorrente
non possono condividersi nemmeno quando valorizzano la
natura completamente interrata delle opere, in quanto, come
si afferma da condivisibile giurisprudenza, avuto riguardo alla
formula dell’art. 167, comma 4, lett. a), D.Lgs. n. 42/2004,
“non può quindi assentirsi la sanatoria postuma di opere
comportanti aumenti di superfici e volumi ancorché minimali
e non percepibili dall'esterno, interpretazione che
aprirebbe il varco alle percezioni soggettive e quindi alla
possibilità che casi identici siano soggetti a trattamenti
differenti”.
In effetti, si osserva, “La realizzazione di un
volume interrato determina inevitabilmente una alterazione
dello stato dei luoghi”.
---------------
E' sufficiente rilevare il carattere consequenziale del
provvedimento sanzionatorio rispetto al previo diniego
dell’istanza di sanatoria, trovando in questo il suo
presupposto.
Con ricorso, notificato il 06.02.2014 e ritualmente
depositato il 04.03 successivo, le Sig.re F.A. e
L.C., rappresentate e difese come in atti,
impugnano il provvedimento, meglio distinto in epigrafe, con
il quale la Soprintendenza per i Beni architettonici e
paesaggistici di Salerno e Avellino ha espresso parere
contrario sull’accertamento di compatibilità paesaggistica
di due locali tecnologici interrati, nel giardino
pertinenziale dell’immobile, regolarmente assentito, al
foglio 25, part.lle 233 e 272 nel Comune di Pollica, fraz.
di Pioppi.
Avverso tale atto, le ricorrenti –dopo aver
evidenziato, in punto di fatto, che trattasi di due locali
tecnologici di modestissime dimensioni ed interrati dove
alloggiare gli impianti idro-elettrici e materiali di
sgombero– sollevano, sotto distinti e concorrenti profili, i
vizi della violazione di legge e dell’eccesso di potere,
assumendo che l’intervento sarebbe del tutto impercettibile
all’esterno oltre che irrilevante sul piano urbanistico per
la sua natura di volume tecnico; inoltre il provvedimento
sarebbe sfornito di adeguata motivazione nonché tardivo.
Conclude per l’annullamento, previa sospensiva, degli atti
impugnati.
Si costituisce la difesa erariale al fine di resistere,
concludendo per il rigetto del gravame.
Alla camera di consiglio del 20.03.2014, la domanda di
sospensiva è accolta limitatamente all’ordinanza di
rimessione in pristino.
Alla pubblica udienza del 16.07.2015, sulle reiterate
conclusioni delle parti costituite, il ricorso è trattenuto
in decisione.
I. Il ricorso è infondato.
I.1. Con il primo e secondo mezzo, suscettibili per il loro
tenore di trattazione congiunta, parte ricorrente assume che
l’intervento in parola sarebbe irrilevante sia sul piano
paesaggistico che urbanistico, trattandosi della
realizzazione di volumi tecnici completamente interrati e
pertanto invisibili all’esterno.
La inidoneità in astratto
di arrecare un qualsiasi vulnus al paesaggio, deriverebbe
sia dalla non percepibilità delle opere, sia dalla loro
natura, sul piano urbanistico, di volume tecnico, in quanto,
si assume in ricorso “gli artt. 167 e 181 D.Lgs. 42/2004
contengono un rinvio ricettizio alla normativa
urbanistico-edilizia anche locale, in tal modo sancendo la
sostanziale coincidenza tra le nozioni di volumi e superfici
utili nei due diversi ambiti” (cfr. pag. 6 del ricorso).
I
rilievi non colgono nel segno.
La vicenda in esame va
collocata in una precisa normativa, quella di cui all’art.
167, comma 4, del d.lgs. n. 42/2004, (Codice dei beni
culturali), secondo cui “L'autorità amministrativa
competente accerta la compatibilità paesaggistica, secondo
le procedure di cui al comma 5, nei seguenti casi: a) per i
lavori, realizzati in assenza o difformità
dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano
determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero
aumento di quelli legittimamente realizzati; b) per
l'impiego di materiali in difformità dall'autorizzazione
paesaggistica; c) per i lavori comunque configurabili quali
interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai
sensi dell'articolo 3 del decreto del Presidente della
Repubblica 06.06.2001, n. 380”.
Le ricorrenti hanno
avanzato richiesta di accertamento di compatibilità e di
conformità urbanistica relativa alla realizzazione di
“locali tecnologici interrati di pertinenza ad un fabbricato
bifamiliare alla via ... della frazione Pioppi”, così
come descritti nella relazione paesaggistica versata in
atti.
Questa Sezione (03.03.2015, n. 468) ha già avuto modo
di osservare che l’art. 167, comma 4, d.lgs. 22.01.2004, n. 42, non consente il rilascio dell’autorizzazione
paesaggistica a sanatoria quando il manufatto realizzato in
assenza di valutazione di compatibilità abbia determinato la
creazione o l’aumento di superfici utili o di volumi e che
la lettera di tale norma non consente ulteriori
interpretazioni.
Il Supremo Consesso di G.A. (Cons. Stato
Sez. VI, 05.01.2015, n. 12) a sua volta ritenuto che “gli
interventi indicati nell'art. 167 del d.lgs. 22.01.2004, n. 42 (ovverosia gli interventi che non abbiano
determinato creazione di superfici utili o di volumi e
quelli configurabili in termini di manutenzione ordinaria o
straordinaria) sono gli unici per i quali è possibile
l'accertamento postumo di conformità paesaggistica, a sua
volta presupposto del rilascio della sanatoria edilizia. Ai
fini della compatibilità paesaggistica di opere realizzate
in zone vincolate nessun rilievo assume la definizione degli
interventi edilizi in termini di volume tecnico,
qualificazione rilevante sotto il profilo urbanistico ed
edilizio, ma non sotto quello paesaggistico”.
Del resto, lo
stesso massimo organo giurisdizionale di G.A. accede ad una
nozione restrittiva di volume tecnico ritenendo che “in tale
nozione rientrano solo i volumi destinati agli impianti
tecnici strettamente necessari per consentire i servizi
indispensabili all'abitazione (riscaldamento, impianti
elettrici ed idraulici, ecc.), con conseguente
ingiustificato superamento dell'indice di fabbricabilità
previsto dalla legge” (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 27.01.2015, n. 357; v. anche questo Tribunale, sez. II, 08.07.2014, n. 1215).
Le opere realizzate dalle ricorrente,
secondo quanto risulta dagli atti di causa e segnatamente
dalla documentazione fotografica ritraente lo stato dei
luoghi, non assumono tali caratteristiche in modo da
risultare perfino estranee alla nozione, urbanisticamente
intesa, di volume tecnico. Le deduzioni di parte ricorrente
non possono condividersi nemmeno quando valorizzano la
natura completamente interrata delle opere, in quanto, come
si afferma da condivisibile giurisprudenza (TAR Toscana
Firenze, Sez. III, 09.07.2014, n. 1216), avuto riguardo alla
formula dell’art. 167, comma 4, lett. a), D.Lgs. n. 42/2004,
“non può quindi assentirsi la sanatoria postuma di opere
comportanti aumenti di superfici e volumi ancorché minimali
e non percepibili dall'esterno, interpretazione che
aprirebbe il varco alle percezioni soggettive e quindi alla
possibilità che casi identici siano soggetti a trattamenti
differenti”.
In effetti, si osserva, “La realizzazione di un
volume interrato determina inevitabilmente una alterazione
dello stato dei luoghi” (TAR Genova Liguria, sez. I, 21.10.2014, n. 1458).
I motivi in esame sono quindi da respingere.
...
I.4. Col sesto ed ultimo mezzo, parte ricorrente rivolge le
proprie censure all’ordine demolitorio, ritenendolo
sproporzionato ed immotivato, avuto riguardo alla modesta
consistenza delle opere realizzate.
In senso contrario, è sufficiente rilevare il carattere
consequenziale del provvedimento sanzionatorio rispetto al
previo diniego dell’istanza di sanatoria, trovando in questo
il suo presupposto
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 28.07.2015 n. 1756 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Non vi è nell'articolo 146 del Codice dei beni
culturali e del paesaggio alcuna espressa comminatoria di
decadenza della Soprintendenza dall'esercizio del relativo
potere, decorso il termine ivi previsto.
In tal senso si è espresso anche il Consiglio di Stato: "nel
caso di mancato rispetto del termine fissato dall'art. 146,
comma 5,...il potere della Soprintendenza continua a
sussistere", "la perentorietà del termine riguarda non la
sussistenza del potere o la legittimità del parere, ma
l'obbligo di concludere la fase del procedimento".
Anche a voler opinare diversamente, valorizzando la espressa
qualificazione del termine come perentorio, la tardività
comporterebbe la regressione del contributo consultivo a
parere non vincolante, con conseguente dovere
dell’Amministrazione di tenerne comunque conto.
Non va ad ogni modo trascurato che le ragioni poste a base
del contestato parere attengono non ad apprezzamenti
discrezionali sul piano paesaggistico bensì nella presa
d’atto di trancianti disposizioni normative che escludono la
stessa ammissibilità dell’istanza e alle quali la stessa
amministrazione comunale non può sottrarsi.
I.3 Con il quarto e quinto mezzo, suscettibili per il loro
tenore di trattazione congiunta, parte ricorrente assume la
tardività dell’impugnato parere, per la violazione del
termine di 25 giorni previsto dal regime dell’autorizzazione
semplificata di cui al d.P.R. 139/2010 o quello più ampio,
di 45 giorni dalla ricezione degli atti, secondo la
disciplina di cui all’art. 146 d.Lgs. n. 42/2004.
Non
persuade il primo profilo censoreo, in quanto è rimasta
indimostrata la sussistenza dei presupposti per
l’applicazione del regime semplificato, come stabiliti dal
punto 1 dell’allegato 1 al d.P.R. n. 139/2010.
Per quanto
riguarda la denunciata violazione del termine più ampio,
questa non è tale da produrre le conseguenze divisate in
ricorso, in quanto, come già più volte ribadito da questo
Tribunale (sentenza, sez. I, n. 1195 del 04/07/2014), non vi
è nell'invocato articolo 146 del Codice dei beni culturali e
del paesaggio alcuna espressa comminatoria di decadenza
della Soprintendenza dall'esercizio del relativo potere,
decorso il termine ivi previsto.
In tal senso si è espresso
anche il Consiglio di Stato: "nel caso di mancato rispetto
del termine fissato dall'art. 146, comma 5,...il potere
della Soprintendenza continua a sussistere", "la
perentorietà del termine riguarda non la sussistenza del
potere o la legittimità del parere, ma l'obbligo di
concludere la fase del procedimento" (sezione VI, sentenza
n. 4914/2013).
Anche a voler opinare diversamente,
valorizzando la espressa qualificazione del termine come
perentorio, la tardività comporterebbe la regressione del
contributo consultivo a parere non vincolante, con
conseguente dovere dell’Amministrazione di tenerne comunque
conto (TAR Venezia Veneto, sez. II, 22.05.2014, n.
698).
Non va ad ogni modo trascurato che le ragioni poste a
base del contestato parere attengono non ad apprezzamenti
discrezionali sul piano paesaggistico bensì nella presa
d’atto di trancianti disposizioni normative che escludono la
stessa ammissibilità dell’istanza e alle quali la stessa
amministrazione comunale non può sottrarsi.
Anche i motivi in esame sono quindi da disattendere
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 28.07.2015 n. 1756 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: È
pacifico, alla luce dell’art. 167 d.lgs. n. 42/2004, che
l’accertamento di compatibilità paesaggistica preordinato
alla sanatoria di opere realizzate abusivamente è
subordinato, per quanto di interesse ai fini della lite,
dalla mancata creazione di superfici o volumi utili o
all’aumento di quelli legittimamente realizzati.
Sul punto, l’intero impianto critico di parte ricorrente si
fonda sull’assunto, in fatto, che la modifica del perimetro
del locale realizzato nella parte interrata retrostante
(inglobando una preesistente intercapedine) non
concreterebbe un aumento della superficie utile.
L’assunto, tuttavia, non appare plausibile, essendo evidente
che, per quanto modesta, interrata e preesistente, la
ridetta intercapedine costituisce di per sé una superficie
utile, idonea a determinare un obiettivo incremento
volumetrico del locale garage, di per sé ostativo, alla luce
del rigoroso parametro normativo di riferimento,
all’auspicato accertamento di conformità in sanatoria.
In diversa direzione, non può assumere rilievo la
circostanza che le opere siano interamente interrate, posto
che anche in tal caso risultano compromessi, dall’aumento
volumetrico, i valori ambientali e paesaggistici.
FATTO
1.- Con ricorso notificato nei tempi e nelle forme di rito,
C.D’U., nella allegata qualità di legale
rappresentante della società Bon Bon di D'Urso Carlo & C. s.n.c., esponeva che la società era proprietaria, nel Comune
di Positano, di un garage interralo sito alla Via G. Marconi
n. 396/bis, realizzato in virtù di permesso di costruire n.
8/05 del 21.04.2005, asservito all'immobile adiacente di
proprietà dei coniugi C.D'U. e G.F..
Precisava che i lavori di realizzazione del locale adibito a
parcheggio, di ca. 40 mq, erano iniziati il 31.10.2005 e si
erano conclusi nei primi mesi del 2006. Tanto risultava dal
verbale di sopralluogo, con allegati fotografici, del
novembre 2006, a firma del Tecnico comunale, sopralluogo nel
corso de quale il Comune aveva riscontrato alcune piccole
difformità nella realizzazione del locale rispetto a quello
assentito con permesso di costruire 8/2005, e, pertanto, con
ordinanza del 28.03.2011, prot. n. 3812 –peraltro, a
distanza di quasi sei anni-, aveva ingiunto di procedere al
ripristino dello stato dei luoghi.
Sulla scorta di ciò, in data 04.05.2011, prot. n. 5292, il
ricorrente aveva presentato istanza di accertamento di
compatibilità paesaggistica ex artt. 146 e 167, D.lgs.
42/2004 e di conformità urbanistica ex artt. 36 e 37, D.P.R.
380/2011 in relazione agli interventi contestati,
consistenti in: un aumento di 13 cm di larghezza della porta
di accesso al garage; la creazione di un collegamento tra il
garage e l'immobile, attraverso una preesistente apertura
che conduceva ad una preesistente intercapedine;
quest'ultima intercapedine, dunque, veniva incluso nel
locale garage, la cui superficie risultava perciò aumentata
da 36mq a 48mq.
In data 13.10.2011, l'accertamento riceveva il parere
favorevole della Commissione per il Paesaggio, che
-conformemente alla relazione istruttoria del Responsabile
per il paesaggio- sottolineava la compatibilità delle opere
cori la tutela del vincolo paesaggistico e trasmetteva la
pratica alla Soprintendenza ai 13.P.A per l'espressione del
parere vincolante.
Con nota prot. n. 378 del 05.01.2012, la Soprintendenza
comunicava i motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza
ex art. 10-bis legge 241/1990, "in quanto le opere abusivamente
eseguite non rientrano nei limiti fissati dal D.lgs. 42/2004, art. 167, comma 4, perché hanno determinato una di
superficie utile e volumi".
Il ricorrente riscontrava la comunicazione con note prot. n.
914, del 23.1.2012 e dell'08.02.2012; tuttavia, il Ministero
adottava il definitivo parere di diniego, che veniva portato
a conoscenza del ricorrente dal Comune di Positano in data
16.04.2012 (prot. n. 4858/2012 del 30.03.2012), attraverso la
comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento
dell'istanza dì sanatoria paesaggistica ed edilizia
consistenti nell'impossibilità di superare il ridetto parere
negativo.
Infine, con provvedimento prot. n. 5596 del 09.05.2012, il
Comune di Positano aveva adottato il provvedimento
definitivo di diniego.
2.- Avverso le ridette determinazioni insorgeva il
ricorrente, che ne lamentava l’illegittimità per plurima
violazione di legge ed eccesso di potere.
Nella resistenza dell’intimato Ministero, alla pubblica
udienza del 14.01.2015, sulle reiterate conclusioni dei
difensori delle parti costituite, la causa veniva riservata
per la decisione.
DIRITTO
1.- Il ricorso non è fondato e merita di essere respinto.
È pacifico, alla luce dell’art. 167 d.lgs. n. 42/2004, che
l’accertamento di compatibilità paesaggistica preordinato
alla sanatoria di opere realizzate abusivamente è
subordinato, per quanto di interesse ai fini della lite,
dalla mancata creazione di superfici o volumi utili o
all’aumento di quelli legittimamente realizzati.
Sul punto, l’intero impianto critico di parte ricorrente si
fonda sull’assunto, in fatto, che la modifica del perimetro
del locale realizzato nella parte interrata retrostante
(inglobando una preesistente intercapedine) non
concreterebbe un aumento della superficie utile.
L’assunto, tuttavia, non appare plausibile, essendo evidente
che, per quanto modesta, interrata e preesistente, la
ridetta intercapedine costituisce di per sé una superficie
utile, idonea a determinare un obiettivo incremento
volumetrico del locale garage, di per sé ostativo, alla luce
del rigoroso parametro normativo di riferimento,
all’auspicato accertamento di conformità in sanatoria.
In diversa direzione, non può assumere rilievo la
circostanza che le opere siano interamente interrate, posto
che anche in tal caso risultano compromessi, dall’aumento
volumetrico, i valori ambientali e paesaggistici (cfr. Cons.
Stato, 07.01.2014, n. 18).
Alla luce delle esposte considerazioni, non può assumere
rilievo la ventilata violazione dell’art. 10-bis l. n.
241/1990, sul presupposto che (giusta il canone
antiformalistico di cui all’art. 21-octies l. cit.) il
provvedimento impugnato non avrebbe potuto assumere, in ogni
caso, diverso contenuto.
2.- Il ricorso deve, in definitiva, essere respinto
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 27.07.2015 n. 1719 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CORTE DEI CONTI |
PUBBLICO IMPIEGO:
Il legale
pubblico fa storia a sé. Compensi professionali non dovuti
ad altri dipendenti. La Corte dei conti lega alla qualifica
di avvocato gli emolumenti di cui al dl 90/2014.
I compensi professionali di cui all'art. 9 del dl 24.06.2014 n. 90 non sono dovuti a dipendenti di avvocature
pubbliche che non rivestono la qualifica di avvocati.
Lo ha affermato la Corte dei Conti sezione di controllo
della regione Abruzzo con il
parere 17.07.2015 n. 187.
I giudici contabili erano stati sollecitati dalla richiesta
di delucidazioni di un sindaco circa la portata operativa
dell'art. 9 del dl 24.06.2014 n. 90, convertito nella
legge 11.08.2014 n. 114, e in particolare se fosse stato
possibile attribuire questa parte di compensi professionali
disciplinati da tale legge ai dipendenti del settore
avvocatura che non rivestono la qualifica di avvocati dal
legislatore.
Dalle espressioni utilizzate la Corte dei conti desume che
la novella normativa intende operare un chiaro riferimento
ai soli dipendenti degli enti pubblici che posseggono lo
status professionale di avvocato.
«Del resto», prosegue il collegio, «la novella ha inteso
disciplinare in modo uniforme e al contempo innovativo
l'annosa questione dei compensi professionali riconosciuti
agli avvocati dipendenti degli enti pubblici in ragione
della loro natura sostanzialmente “ibrida”, vale a dire
“sospesa tra l'autonomia e la subordinazione”, che coniuga
in sé la qualità di professionista con quella di impiegato,
relazionandosi costantemente con quello che è, al contempo,
il proprio cliente, ma anche il suo datore di lavoro».
«Questa duplicità di status (la cosiddetta doppia identità
dell'avvocato dipendente: da un lato professionista,
dall'altro pubblico impiegato)», si legge nella sentenza,
«si riflette anche sulla struttura del trattamento economico
a lui spettante, normalmente composto, pur nella varietà
delle situazioni, per una quota, dallo stipendio tabellare e
dalle relative voci integrative e accessorie e, per altra
quota, da compensi aggiuntivi correlati all'esito favorevole
delle lite, di importo tendenzialmente variabile, ancorché
erogati con continuità (cosiddetti propine) (in tal senso e
da ultimo Tar Puglia, sez. II, 16.10.2014, n. 2543)».
«Esula evidentemente dall'intento del legislatore, invece»,
sottolinea la Corte, «l'obiettivo di fornire alle
amministrazioni un crivello per eludere il principio di
onnicomprensività della retribuzione del pubblico
dipendente, che importa che “nulla è dovuto, oltre al
trattamento economico fondamentale e accessorio stabilito
dai contratti collettivi, al dipendente che ha svolto una
prestazione che rientra nei suoi doveri d'ufficio, anche se
di particolare complessità” (sez. controllo Lombardia, 06.03.2013, n. 73)».
«Presupposto per l'erogazione dei compensi professionali
ai dipendenti delle avvocature erariali», concludono i
giudici abruzzesi, «è allora il dato formale
dell'iscrizione all'albo (comma 2), oltre che quello
sostanziale della stabile costituzione di un ufficio legale
con specifica attribuzione della trattazione degli affari
legali dell'ente stesso e l'appartenenza a tale ufficio del
professionista incaricato in forma esclusiva di tali
funzioni»
(articolo ItaliaOggi Sette del
03.08.2015). |
ENTI LOCALI:
Nessuna deroga al taglio dei compensi del cda.
A decorrere dal 1° gennaio scorso, i compensi degli
amministratori delle società controllate dalle pubbliche
amministrazioni devono essere limati nella misura massima
dell'80% del costo complessivo sostenuto per tali oneri nel
2013. Tale soglia non può essere oggetto di alcuna deroga,
né può esserne invocata una con particolare riferimento alle
competenze professionali richieste per la gestione di tali
incarichi.
È quanto emerge dalla lettura del
parere 10.07.2015 n. 119 con cui la sezione regionale
di controllo della Corte dei conti per l'Emilia Romagna,
rispondendo a un preciso quesito formulato dal sindaco di
Parma, ha sgomberato il campo dai dubbi interpretativi in
merito alle previsioni contenute all'articolo 4, comma 4, del
dl n. 95/2012, nel testo introdotto dall'articolo 16, comma
1, del dl n. 90/2014.
Come si ricorderà, tale disposizione prevede che il costo
dei consigli di amministrazione delle società controllate
direttamente o indirettamente dalle p.a., che abbiano
conseguito nel 2011 un fatturato da prestazione di servizi a
favore delle stesse superiore al 90% dell'intero fatturato,
non può superare l'ottanta per cento del consto sostenuto
nel 2013.
Su questa disposizione, il primo cittadino parmense chiedeva
se fosse possibile derogare a tale limite-soglia, nella
considerazione che la situazione delle sistema delle
partecipate della sua città presentasse «situazioni di
particolare complessità che richiedono agli amministratori
nominati, l'esercizio di competenze professionali di alto
livello in relazione all'impegno e alle responsabilità
richieste per lo svolgimento dell'incarico».
La Corte, nel dirimere il quesito, ha sottolineato
preliminarmente che è consapevole che le disposizioni che
prevedono tagli lineari, operando in modo non selettivo su
una determinata tipologia di spese, finiscano per
penalizzare anche gli enti che hanno avuto una precedente
gestione virtuosa. Ma precisa, altresì, che il vincolo
imposto dal legislatore è da intendersi tassativo, tale da
non consentire eccezioni che possano derivare da situazioni
particolari.
A ben vedere, la ratio della norma in esame è
quella di essere preordinata a garantire il coordinamento
della finanza pubblica e, essendo di tale natura, non può
ammettere eccezioni a meno che non siano stabilite da
specifiche disposizioni di legge (si veda anche sul punto la
decisione della Corte dei conti Lombardia nel parere n.
88/2015).
Pertanto, i predetti compensi devono essere parametrati, al
massimo, all'80% del costo complessivamente sostenuto nel
2013, essendo irrilevanti, sotto questo profilo, le
competenze professionali concretamente richieste per la
gestione dell'incarico
(articolo ItaliaOggi del 04.08.2015). |
QUESITI & PARERI |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Modalità di presentazione delle dimissioni dei consiglieri
comunali.
Sebbene il legislatore, all'art. 38 TUEL,
abbia previsto la sottoposizione della presentazione delle
dimissioni da parte dei consiglieri comunali a requisiti
formali particolarmente stringenti in considerazione delle
potenziali rilevanti conseguenze delle stesse in relazione
alla continuità degli organi elettivi, il Consiglio di Stato
ha ritenuto valide le dimissioni presentate al protocollo
personalmente dai consiglieri, ancorché indirizzate al
segretario comunale.
Il Comune chiede un parere in merito alla validità delle
dimissioni presentate personalmente al protocollo da un
consigliere comunale ed indirizzate al segretario comunale,
anziché all'organo consiliare.
Sentito il Servizio elettorale, si esprimono le seguenti
considerazioni.
L'articolo 38, comma 8 [1],
del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 (TUEL), dispone
che 'Le dimissioni dalla carica di consigliere,
indirizzate al rispettivo consiglio, devono essere
presentate personalmente ed assunte immediatamente al
protocollo dell'ente nell'ordine temporale di presentazione.
Le dimissioni non presentate personalmente devono essere
autenticate ed inoltrate al protocollo per il tramite di
persona delegata con atto autenticato in data non anteriore
a cinque giorni. Esse sono irrevocabili, non necessitano di
presa d'atto e sono immediatamente efficaci. (...)'.
Sebbene il legislatore abbia previsto la sottoposizione
della presentazione delle dimissioni da parte dei
consiglieri comunali a requisiti formali particolarmente
stringenti in considerazione delle potenziali rilevanti
conseguenze delle stesse in relazione alla continuità degli
organi elettivi, il Consiglio di Stato [2]
ha ritenuto valide le dimissioni presentate al protocollo
personalmente dai consiglieri, ancorché indirizzate al
segretario comunale, in relazione ad un'ipotesi di
dimissioni contestuali ultra dimidium, ai sensi
dell'art. 141, comma 1, lett. b), n. 3; del D.Lgs. 267/2000.
Il Supremo giudice amministrativo ha infatti affermato che
deve essere tenuto in debito conto 'l'inscindibile nesso
funzionale che lega l'attività del segretario comunale a
quella dell'Organo consiliare, individuando il primo quale
soggetto istituzionalmente deputato a partecipare con
funzioni consultive, referenti e di assistenza, alle
riunioni dell'Organo elettivo, curandone altresì la
verbalizzazione (in tal senso: comma 4, lettera d) dell'art.
97 del T.U.E.L.).
È noto al riguardo che la riforma del 2000 abbia enfatizzato
il richiamato nesso funzionale, superando il previgente
modello delineato dalla legge n. 142 del 1990 (in cui il
ruolo del segretario era limitato alla sola verbalizzazione
degli atti consiliari) ed istituendo un nuovo modello nel
cui ambito il segretario si atteggia quale garante della
legittimità e della correttezza dell'azione amministrativa
dell'Ente locale.
Nell'ambito del modello da ultimo delineato non solo appare
indubitabile la conferma del ruolo istituzionale del
segretario comunale inteso anche quale segretario ex lege
dell'Assemblea elettiva, ma appare altresì evidente che il
medesimo soggetto rivesta un innegabile ruolo di interfaccia
istituzionale dell'intera attività dell'Organo, con
un'ampiezza di funzioni che non appare passibile di
interpretazioni restrittive.
Già sotto tale aspetto, quindi, appare innegabile che la
presentazione degli atti di dimissioni al segretario ex lege
dell'assemblea elettiva concreti adeguatamente il requisito
formale imposto dal comma 8 dell'art. 38 del T.U.E.L., il
quale impone che le dimissioni debbano essere indirizzate al
rispettivo consiglio'.
Grava in tal caso sul segretario comunale l'obbligo di
comunicare al consiglio comunale le dimissioni a lui
indirizzate, in modo da assicurare la conoscenza delle
stesse da parte dell'organo consiliare.
Il medesimo orientamento è stato successivamente espresso
dal Giudice amministrativo di primo grado, che ha
riconosciuto la validità delle dimissioni consegnate
direttamente nelle mani del segretario (sia pure non
indirizzate al consiglio comunale), con contestuale
assunzione al protocollo dell'ente [3].
---------------
[1] Come modificato dall'articolo 3 del D.L. 29.03.2004,
n. 80, convertito in legge 28.05.2004, n. 140.
[2] Cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 19.08.2009, n. 4982,
che ha riformato la sentenza del TAR Puglia-Bari, sez. II,
16.07.2004, n. 3051.
[3] TAR Piemonte-Torino, sez. II, 12.12.2013, n. 1336.
Peraltro, corre l'obbligo di segnalare che più di recente il
Consiglio di Stato (sezione III, sentenza 01.04.2015, n.
1721) si è espresso sulla modalità di presentazione delle
dimissioni dei consiglieri comunali, affermando che nel caso
di dimissioni collettive ultra dimidium l'art. 141, comma 1
(che contemplerebbe una forma di dimissioni autonoma
rispetto a quella regolamentata dall'art. 38), non prevede
alcun altro requisito di efficacia oltre alla presentazione
contestuale al protocollo dell'ente, e precisando che 'solo
le dimissioni individuali ex art. 38, comma 8, devono essere
indirizzate al consiglio comunale'.
Seguendo tale orientamento, risulterebbero pertanto
superflue le argomentazioni utilizzate dalla sezione VI
nella sentenza n. 4982/2009 a sostegno dell'efficacia, ai
fini dell'art. 141 TUEL, delle dimissioni indirizzate al
segretario comunale, in quanto detta disposizione non
richiederebbe proprio che le dimissioni contestuali siano
indirizzate ad alcun organo comunale, a differenza di quanto
previsto dall'art. 38, comma 8, per le dimissioni
individuali.
Ad ogni buon conto, a parere dello scrivente, le
considerazioni svolte dal Consiglio di Stato nella sentenza
del 2009 in ordine al ruolo del segretario comunale
risultano pertinenti anche nel caso delle dimissioni
individuali, con conseguente validità delle dimissioni
indirizzate al segretario e assunte al protocollo dell'ente
(07.08.2015 -
link a
www.regione.fvg.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/
Vietato
ostacolare i consiglieri. Insindacabilità delle richieste,
accesso agli atti senza limiti.
Le prerogative dei componenti dell'assemblea
nella giurisprudenza dei giudici amministrativi.
Quali sono i diritti e le garanzie del consigliere comunale?
In merito al diritto della minoranza consiliare, tutelato
dall'art. 39, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000, la
giurisprudenza prevalente in materia ha da tempo affermato
che, in caso di richiesta di convocazione del consiglio da
parte di un quinto dei consiglieri, «al presidente del
consiglio comunale spetta soltanto la verifica formale che
la richiesta provenga dal prescritto numero di soggetti
legittimati, mentre non può sindacarne l'oggetto, poiché
spetta allo stesso consiglio nella sua totalità la verifica
circa la legalità della convocazione e l'ammissibilità delle
questioni da trattare, salvo che non si tratti di oggetto
che, in quanto illecito, impossibile o per legge
manifestamente estraneo alle competenze dell'assemblea in
nessun caso potrebbe essere posto all'ordine del giorno» (vd.
in particolare Tar Piemonte, sez. II, 24.04.1996, n.
268).
Il Tar Puglia-Lecce (sentenza n. 528/2014) ha recentemente
ribadito che la figura del presidente è posta a garanzia del
corretto funzionamento dell'organo rappresentativo e della
corretta dialettica tra maggioranza e minoranza. Alla luce
del richiamato orientamento giurisprudenziale, pertanto, la
convocazione del consiglio comunale con un ordine del giorno
diverso da quello richiesto appare elusiva dell'obbligo di
cui al comma 2 dell'art. 39 citato.
In tema di diritto di accesso dei consiglieri, come
affermato dal Consiglio di stato con la recente sentenza n.
4525 del 05.09.2014 e secondo un consolidato
orientamento giurisprudenziale (Cons. stato, sez. V, 17.09.2010, n. 6963;
09.10.2007, n. 5264), «i
consiglieri comunali hanno un non condizionato diritto di
accesso a tutti gli atti che possano essere d'utilità
all'espletamento delle loro funzioni, ciò anche al fine di
permettere di valutare, con piena cognizione, la correttezza
e l'efficacia dell'operato dell'amministrazione, nonché per
esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza
del Consiglio, e per promuovere, anche nell'ambito del
Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli
rappresentanti del corpo elettorale locale. Il diritto di
accesso loro riconosciuto ha una ratio diversa da quella che
contraddistingue il diritto di accesso ai documenti
amministrativi riconosciuto alla generalità dei cittadini in
quanto esso è strettamente funzionale all'esercizio del loro
mandato, alla verifica e al controllo dell'operato degli
organi istituzionali dell'ente locale (Cons. stato, sez. IV,
21.08.2006, n. 4855) ai fini della tutela degli
interessi pubblici.
Gli unici limiti all'esercizio del
diritto di accesso ex art. 43, comma 2, del decreto
legislativo n. 267/2000 possono rinvenirsi nella esigenza di
comportare il minor aggravio possibile per gli uffici
comunali, attraverso modalità fissate dal regolamento
dell'ente; l'esercizio di tale diritto, inoltre, non deve
sostanziarsi in richieste assolutamente generiche, ovvero
meramente emulative, fermo restando, tuttavia, che la
sussistenza di tali caratteri deve essere attentamente
verificata in concreto al fine di non introdurre
surrettiziamente inammissibili limitazioni a tale diritto»
(cfr. Consiglio di stato, sez. V n. 6993/2010).
La commissione per l'accesso ai documenti amministrativi,
con parere Dica n. 18368 P-2.4.5.2.4 del 05.10.2010, ha
osservato che il diritto si esercita con l'unico limite di
potere esaudire la richiesta (qualora essa sia di una certa
gravosità) secondo i tempi necessari per non determinare
interruzione delle altre attività di tipo corrente e ciò in
ragione del fatto che il consigliere comunale non può
abusare del diritto all'informazione riconosciutogli
dall'ordinamento, pregiudicando la corretta funzionalità
amministrativa dell'ente civico con richieste non contenute
entro i limiti della proporzionalità e della ragionevolezza.
Al fine di evitare pregiudizi all'ordinaria attività
amministrativa dell'ente locale, la citata Commissione ha
riconosciuto la possibilità per il consigliere comunale di
avere accesso diretto al sistema informatico interno (anche
contabile) dell'ente attraverso l'uso della password di
servizio (cfr. parere del 29/11/2009). Qualora si tratti di
esibire documentazione complessa e voluminosa, è legittimo
il rilascio di supporti informatici (cd o dvd) al
consigliere, o la trasmissione mediante posta elettronica,
in luogo delle copie cartacee.
Tale modalità di riscontro,
appare in linea con la decisione del Consiglio di stato,
sez. V (sent. n. 6742/2007) -il quale ha richiamato il
parere del ministero dell'interno in merito alla possibile
riproduzione di planimetrie su cd-rom nei casi in cui in cui
il consigliere chieda l'estrazione di copie di atti la cui
fotoriproduzione comporti costi elevati- ed è conforme alla
vigente normativa in materia di digitalizzazione della
pubblica amministrazione (decreto legislativo n. 82 del 07.03.2005), che all'articolo 2, prevede che anche «le
autonomie locali assicurano la disponibilità, la gestione,
l'accesso, la trasmissione, la conservazione e la fruibilità
dell'informazione in modalità digitale e si organizzano ed
agiscono a tale fine utilizzando con le modalità più
appropriate le tecnologie dell'informazione e della
comunicazione».
Circa il termine per il rilascio della documentazione
richiesta, il Tar Calabria, con sentenza n. 221 del 2011, ha
considerato legittima una norma regolamentare con la quale
era stato indicato il termine di trenta giorni quale arco
temporale entro il quale l'amministrazione avrebbe dovuto
dare seguito alla richiesta di accesso da parte dei
consiglieri qualora la stessa fosse riferita ad una
pluralità di documenti. Ciò in quanto il suddetto termine è
stato considerato ragionevole e comunque coerente con l'art.
25 della legge 241 del 1990 «che prevede l'accesso ai
documenti amministrativi entro 30 giorni dalla richiesta,
salvi i casi di differimento»
(articolo ItaliaOggi del 07.08.2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Applicazione dell’art. 17-bis della L.R. n. 23
del 2004, relativamente agli aspetti paesaggistici –
Risposta a richiesta di parere (Regione Emilia Romagna,
parere 04.08.2015 n. 558474 di prot.).
---------------
Con nota inviata il 16.06.2015, prot. n. 128924,
(acquisita agli atti del Servizio in data 16.06.2015, prot.
n. PG.2015.421736) il Comune di XXX pone un quesito in
merito all'applicazione dell’art. 17-bis della L.R. n. 23
del 2004, chiedendo se tale forma di sanatoria si debba
coordinare con l’istituto dell’accertamento di compatibilità
di cui all’art. 167 del D.Lgs. n. 42 del 2004, Codice dei
beni culturali e del paesaggio (da qui in avanti Codice).
In particolare, si chiede come procedere per la
regolarizzazione di opere, eseguite in parziale difformità
durante i lavori in attuazione di titoli abilitativi
rilasciati prima dell'entrata in vigore della legge
28.01.1977, n. 10, in caso di vincolo paesaggistico
sopravvenuto.
Nella nota si fa riferimento al parere espresso da questi
Servizi regionali del 17.04.2012, prot. n. PG/2012/95795,
che qui si intende parzialmente rivisto. (... continua).
---------------
ATTENZIONE:
- col suddetto parere la Regione Emilia Romagna si
ravvede per quanto espresso con un precedente
pronunciamento e si allinea alla Regione Lombardia
ed alla Regione Piemonte:
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto:
Sanatoria di interventi edilizio-urbanistici abusivi
realizzati prima dell’imposizione del vincolo
paesaggistico - Risposta a richiesta di parere (Regione
Emilia Romagna,
parere 17.04.2012 n. 95795 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: Utilizzabilità del permesso di costruire
convenzionato per l’attuazione di insediamenti commerciali
riconducibili alla tipologia medio grandi strutture
alimentari (superficie di vendita oltre i 1500 mq e fino a
2500 mq) il cui insediamento in ambiti urbanizzati sia
considerato ammissibile dal RUE (Regione Emilia Romagna,
parere 04.08.2015 n. 557122 di prot.). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Richieste di password e accessi a sistemi
informatici da parte della minoranza consiliare.
Si fa riferimento
alle note sopradistinte con le quali codesta Prefettura, nel
trasmettere le note di un consigliere del comune di cui in
oggetto, ha chiesto un parere circa la liceità delle
registrazioni foniche sia negli ambienti comunali, che
durante lo svolgimento delle sedute dei consigli comunali.
Al riguardo, occorre osservare che la problematica relativa
alla registrazione dei colloqui tra il consigliere di
minoranza e gli amministratori e dipendenti del comune,
implica temi che attengono alla tutela dei dati personali e,
per quel che concerne in particolare i dipendenti,
problematiche che hanno una diretta incidenza sulla tutela
dei lavoratori.
In primo luogo, si osserva che il Garante per la Protezione
dei dati personali nella Relazione 2007 –del 16.07.2008
- Parte II- ha segnalato di avere ricevuto richiesta di
verificare eventuali violazioni della disciplina in materia
di protezione dei dati personali in tema di ammissione di
mezzi di prova nell'ambito dei procedimenti giudiziari, con
particolare riferimento all'assunzione di prove testimoniali
e alla produzione di documenti ad opera delle parti.
Lo stesso Garante ha precisato di non avere diretta
competenza in ordine alla valutazione processuale
dell'ammissibilità e rilevanza delle prove in giudizio e
alla determinazione all'interno del procedimento giudiziario
delle modalità più opportune per procedere alla loro
assunzione; anche nell'ipotesi di un trattamento di dati
personali ad opera delle parti non conforme a disposizioni
di legge o di regolamento, ciò compete al giudice, secondo
le pertinenti disposizioni processuali nella materia civile
e penale (art. 160, comma 6, del Codice in materia di
protezione dei dati personali – d.lgs. n. 196 del
30.06.2003).
Avendo il Garante declinato la propria competenza in
materia, si reputa comunque opportuno ricordare che la
giurisprudenza è tendenzialmente orientata a riconoscere che
“la registrazione fonografica di un colloquio svoltosi tra
presenti o mediante strumenti di trasmissione, ad opera di
un soggetto che ne sia partecipe, o comunque sia ammesso ad
assistervi, non è riconducibile, quantunque eseguita
clandestinamente, alla nozione di intercettazione, ma
costituisce forma di memorizzazione fonica di un fatto
storico, della quale l'autore può disporre legittimamente,
anche a fini di prova nel processo secondo la disposizione
dell'art. 234 c.p.p., salvo gli eventuali divieti di
divulgazione del contenuto della comunicazione che si
fondino sul suo specifico oggetto o sulla qualità rivestita
dalla persona che vi partecipa" (Cass. pen., Sez. VI,
09/02/2005, n. 12189).
Ciò anche alla luce della sentenza della Corte
costituzionale 30.03.1992, n. 142, che, nel fornire
un'interpretazione estensiva dell'art. 234 c.p.p., ha
enunciato il principio secondo cui nel processo penale sono
acquisibili come prove anche i documenti rappresentativi di
dichiarazioni e non solo quelli rappresentativi di fatti,
dal momento che non è dato rinvenire nella citata
disposizione di legge una discriminazione tra i diversi
mezzi di rappresentazione e le differenti realtà
rappresentate. (Corte di Appello Milano, Sez. I, 02/07/2005
- conforme Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 06.11.2012–06.03.2013, n. 10277).
In senso contrario si è pronunciata la Corte di Cassazione,
Sezione Lavoro, con la sentenza 02.10.-21.11.2013
n. 26143 secondo la quale la registrazione delle
conversazioni da parte di un dipendente di una pubblica
amministrazione nei confronti di alcuni colleghi, senza che
questi ne fossero a conoscenza, viola il diritto alla
riservatezza.
Premesso il quadro giurisprudenziale sopra descritto, che
comunque non appare chiarificatore della questione che
interessa, visto peraltro che le registrazioni verrebbero
effettuate previo avviso agli interessati, si osserva,
conformemente a quanto previsto dall’art. 78 del d.lgs. n.
267/2000, che il comportamento degli amministratori,
nell'esercizio delle proprie funzioni, deve essere
improntato al principio di buona amministrazione e ciò non
potrebbe prescindere dall’instaurazione di rapporti di
collaborazione e reciproca fiducia specie nei confronti dei
dipendenti.
Sotto tale ultimo aspetto, peraltro, l’utilizzo
di strumenti di registrazione da parte del consigliere
comunale (che astrattamente rappresenta l’Amministrazione)
dei dialoghi con i dipendenti, seppur previamente avvertiti,
potrebbe configurare la violazione dell’articolo 4, comma
1, della legge n. 300/1970, confermato dall’art. 114 della
legge n. 196/2003, il quale fa divieto d’uso di impianti
audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di
controllo dell'attività dei lavoratori.
Riguardo alla possibilità di effettuare registrazioni
foniche da parte del consigliere nell’ambito delle sedute
consiliari, occorre preliminarmente ricordare che il
consiglio, ai sensi del comma 3, dell’articolo 38 del
decreto legislativo n. 267/2000, ha potestà di disciplinare,
con apposite norme regolamentari, ogni aspetto attinente al
funzionamento dell’assemblea.
E’, pertanto, nell’ambito delle norme interne all’ente
locale, che dovrebbero rinvenirsi disposizioni sulla
possibilità di registrazione del dibattito e delle votazioni
con mezzi audiovisivi, sia da parte degli uffici di supporto
all’attività di verbalizzazione del segretario comunale
(art. 97, comma 4, lett. a, del T.U.O.E.L.), che da parte dei
consiglieri comunali, nonché dei cittadini ammessi ad
assistere alla seduta e degli organi di informazione
radiotelevisiva.
A margine del potere regolamentare del Consiglio,
l’Amministrazione può legittimamente riservarsi il compito
di registrazione con mezzi audiovisivi, anche escludendo che
altri soggetti e il pubblico in aula possano procedervi. In
questo senso, la pubblicità della seduta non implica la
facoltà di registrazione ma la libera presenza di chi abbia
interesse ad assistere alle sedute.
Occorre precisare, comunque, che le eventuali restrizioni in
materia di registrazione audiovisiva delle sedute sono
dettate dalla necessità del rispetto della normativa sulla
tutela dei dati personali o per impedire la diffusione dei
dati sensibili che riguardano le persone.
Nel caso di semplice registrazione fonica, anche se non
prevista dai regolamenti comunali, la giurisprudenza tende a
riconoscere il diritto dei singoli consiglieri ad averne
accesso, non rilevando alcuna ragione per cui i consiglieri
non possano prenderne conoscenza, “se non altro per potere
verificare la correttezza della verbalizzazione ufficiale,
prima di approvarla; ma anche, e più in generale, per poter
disporre nell’espletamento del proprio mandato di una
documentazione più completa ed accurata” (conforme TAR
Piemonte – Sez. I - n. 563 del 27/05/2011).
Considerato, inoltre, che la normativa tende ormai ad
evolvere verso la più totale trasparenza della pubblica
amministrazione (decreto legislativo 14.03.2013, n. 33),
l’ammissione alla registrazione anche da parte dei singoli
consiglieri potrebbe essere regolata, caso per caso, dal
presidente del consiglio proprio nell’esercizio dei poteri
di direzione dei lavori dell’assemblea previsti dall’art. 39
del d.lgs. n. 267/2000, in stretta correlazione alle
esigenze di ordinato svolgimento dell’attività consiliare.
Tuttavia, tale possibilità è sempre subordinata all’adozione
di apposita disciplina regolamentare in virtù anche
dell’assunto di cui alla decisione del TAR Veneto n.
826/2010, che ha negato la possibilità di assensi
estemporanei da parte del Presidente del Consiglio
(Ministero dell'Interno,
parere 16.06.2015 - link a http://incomune.interno.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Diritto di accesso agli atti del Comune.
Con la nota allegata
in copia, il Responsabile del Settore Tributi ed Entrate
proprie del Comune di …. ha chiesto un parere in ordine alla
legittimità della richiesta di accesso agli atti del Comune
presentata da un cittadino, finalizzata ad estrarre copia di
“eventuali denunce per la tassa di smaltimento dei rifiuti”
e “della voltura riferita al contatore dell’acqua”.
Al riguardo, si osserva che l’articolo 10 del decreto
legislativo n. 267/2000 -che disciplina il diritto di
accesso e informazione- dispone che tutti gli atti
dell’amministrazione comunale sono pubblici, rafforzando il
diritto alla trasparenza dell’azione amministrativa locale
per il cittadino-elettore.
La Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi, ha
precisato, che ai sensi del richiamato disposto normativo è
consentito al cittadino residente di accedere agli atti
amministrativi dell’ente locale di appartenenza senza alcun
condizionamento e senza necessità della previa indicazione
delle ragioni della richiesta, dovendosi cautelare la sola
segretezza degli atti la cui esibizione è vietata dalla
legge o da esigenze di tutela della riservatezza dei terzi.
Tale specialità comporta (sempre secondo l’orientamento
espresso dalla citata Commissione nelle sedute dell’11
ottobre e dell’08.11.2011) che le norme contenute nella
legge n. 241/1990 si applicano solo in via suppletiva, ove
necessario, e nei limiti in cui non siano compatibili col T.U.O.E.L., mentre l'art. 22, comma 1, lett. b), della
citata legge n. 241/1990 prevede che la legittimazione
all'accesso spetti soltanto ai soggetti titolari di un
"interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad
una situazione tutelata e collegata al documento al quale è
chiesto l'accesso".
L'art. 10 del T.U.O.E.L. non stabilisce invece alcuna
restrizione e si limita a prevedere l'esistenza di un'area
di atti (non precisata) il cui accesso o è assolutamente
precluso per legge o è differibile nei casi previsti da
apposito regolamento, a tutela della riservatezza.
Secondo la Commissione, i diversi contenuti delle due
disposizioni citate caratterizzano la specificità del
diritto di accesso dei cittadini configurandolo alla stregua
di un'azione popolare che non deve essere accompagnata né
dalla titolarità di una situazione giuridicamente rilevante
né da un'adeguata motivazione.
Il predetto parere, inoltre, in presenza di una richiesta
presentata anche per tutelare il diritto alla difesa in un
procedimento civile in corso, appare idoneo a risolvere la
questione, nella parte in cui si afferma che “l'accesso,
nella specie, motivato dalla eventualità di una difesa
giudiziale, non può essere certamente negato e ad esso non
può opporsi il controinteressato (al quale va comunicata
l'esistenza dell'istanza, ex art. 3, del d.P.R. n. 184/2006)
nemmeno ricorrendo all'esigenza di tutela della privacy che
risulta comunque recessiva rispetto a quella giudiziaria”.
Ciò trova conferma, peraltro, nel disposto di cui all’art.
24, comma 7, della più volte richiamata legge n. 241/1990, il
quale prevede che “deve comunque essere garantito ai
richiedenti l'accesso ai documenti amministrativi la cui
conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i
propri interessi giuridici” (conforme, tra le tante,
Consiglio di Stato - Sezione Quarta n. 2402 del 12/05/2014
), venendo meno il divieto previsto dalla citata norma al
comma 1, lett. b), in ordine all’accesso ai “procedimenti
tributari…”.
Considerato, pertanto, che l’interessato ha dichiarato che
intende “tutelare il suo diritto alla difesa nel
procedimento civile in corso”, si ritiene che la richiesta
di accesso non possa non essere accolta.
Su quanto precede si prega di fare analoga comunicazione
all’ente interessato
(Ministero dell'Interno,
parere 16.06.2015 - link a http://incomune.interno.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Art. 43 del d.lgs. n. 267/2000 - Prerogative dei
consiglieri comunali. Quesito.
Con la nota allegata in copia, il Presidente del Consiglio
comunale di …ha chiesto se, a fronte di numerose
interpellanze a risposta scritta presentate da un
consigliere comunale, sia possibile configurare un’ipotesi
di finalità emulativa e se il termine di trenta giorni per
la risposta, previsto dalla norma di legge citata in
oggetto, possa essere disatteso, a causa dell’ elevato
numero di richieste, al fine di non compromettere l’attività
dell’ufficio.
Al riguardo, si osserva che l’art. 43 del decreto
legislativo n. 267/2000 al comma 3 riconosce ai consiglieri
comunali la facoltà di presentare “interrogazioni e ogni
altra istanza di sindacato ispettivo”, alle quali il sindaco
o gli assessori da esso delegati, devono dare risposta entro
30 giorni. Le modalità della presentazione di tali atti e
delle relative risposte sono disciplinate dallo statuto e
dal regolamento consiliare.
Lo statuto del comune di…, all’art. 24, comma 2, ribadendo
il diritto in parola, rinvia al regolamento per il
funzionamento del consiglio, la disciplina delle modalità
per la presentazione anche delle interpellanze.
Il citato regolamento all’articolo 13 conferma la facoltà
dei consiglieri di presentare, tra l’altro, interpellanze
con le modalità di cui agli articoli 42 e seguenti.
In particolare, per quel che riguarda le interpellanze,
l’articolo 49 del regolamento, al comma 3, disciplina tre
forme di risposta: a) in forma scritta, entro trenta giorni;
b) verbalmente in consiglio comunale; c) verbalmente nella
commissione consiliare permanente preposta.
Le risposte verbali sono soggette, ai sensi degli articoli
successivi, a tempi limitati nell’ambito delle sedute di
consiglio comunale e delle commissioni permanenti; per le
risposte scritte vige il solo termine di trenta giorni come
previsto dalla legge e ribadito dal regolamento consiliare.
Ciò posto, si osserva che né la legge, né le disposizioni
statutarie e regolamentari del Comune pongono dei limiti
all’iniziativa di interpellanza a risposta scritta da parte
dei consiglieri.
In ogni caso, l’esercizio delle prerogative dei consiglieri
comunali (diritto di accesso, e diritto di presentare
interrogazioni, mozioni ed ogni altra istanza di sindacato
ispettivo) non potrebbe subire limitazioni a causa di
difficoltà organizzative. Infatti, il Tribunale
Amministrativo Regionale per la Calabria (Sezione Seconda)
con sentenza n. 77 del 16/01/2014, ha osservato che “il
limite di natura organizzativa non può essere eccepito
dall’Amministrazione a ragione del diniego dell’accesso,
proprio perché la “difficoltà organizzativa” rientra tra
quegli adempimenti a carico di ogni Amministrazione pubblica
e quindi, ogni singola struttura dovrà dotarsi di tutti i
mezzi necessari all’assolvimento dei loro compiti (Cons.
Stato, sez. V, sentenza n. 2716/2004)”.
Con la citata sentenza n. 2716 del 04.05.2004, il Consiglio
di Stato –seppur in relazione ad una richiesta di accesso
di un consigliere comunale- ha osservato infatti, che “la
rilevata circostanza della rilevante quantità di atti
richiesti è inidonea a giustificare il diniego opposto”.
Tuttavia, occorre richiamare il parere 10.12.2002 reso
dalla Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi
istituita presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri,
che esprime l’avviso che sia “… generale dovere della
Pubblica Amministrazione ... ispirare la propria attività al
principio di economicità … che incombe non solo sugli uffici
tenuti a provvedere ma anche sui soggetti che richiedono
prestazioni amministrative, i quali, specie se appartenenti
alla stessa amministrazione, sono tenuti, in un clima di
leale cooperazione, a modulare le proprie richieste”.
Pertanto, nonostante la riconosciuta ampiezza del diritto in
parola, il consigliere è comunque soggetto al rispetto di
alcune forme e modalità dovendo contemperare le opposte
esigenze, vale a dire, da un lato le pretese conoscitive dei
consiglieri comunali e dall’altro le “... evidenti esigenze
di funzionalità dell'amministrazione locale".
Ciò posto, si ritiene, alla luce anche della segnalata
giurisprudenza, che l’ente, in assenza di disposizioni
limitative, non possa esimersi dal fornire risposta alle
interpellanze nei tempi previsti, ferma restando l’esigenza
di leale collaborazione da parte dei consiglieri comunali,
che con eventuali comportamenti non corretti possono
provocare disservizi.
Su quanto precede si prega di fare analoga comunicazione
all’ente interessato
(Ministero dell'Interno,
parere 16.06.2015 - link a http://incomune.interno.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Esercizio del diritto di accesso da parte di un
consigliere comunale. Quesito.
Si fa riferimento alla nota sopradistinta con la quale
codesta Prefettura ha chiesto un parere in ordine al quesito
posto dal sindaco del Comune di …, circa il corretto
esercizio del diritto di accesso agli atti riservato ai
consiglieri comunali.
In particolare, è stato chiesto se sia legittimo accogliere
la richiesta di un consigliere finalizzata a conoscere le
posizioni tributarie di alcuni ex amministratori, alla luce
del fatto che a seguito dell’analisi delle posizioni già
comunicate ai consiglieri, “sono scaturiti dei post sul
sito ufficiale della lista civica ritenuti lesivi
dell’onorabilità e della privacy di taluni ex
amministratori”.
Al riguardo, si osserva che l’art. 43, comma 2, del decreto
legislativo n. 267/2000 riconosce al consigliere comunale un
diritto dai confini più ampi sia del diritto di accesso ai
documenti amministrativi attribuito al cittadino nei
confronti del comune di residenza (art. 10, T.U.O.E.L.) sia,
più in generale, nei confronti della pubblica
amministrazione, genericamente intesa, come disciplinato
dalla legge n. 241/1990.
Tale maggiore ampiezza di
legittimazione è riconosciuta in ragione del particolare munus espletato dal consigliere comunale, affinché questi
possa valutare con piena cognizione di causa la correttezza
e l’efficacia dell’operato dell’Amministrazione, al fine di
poter esprimere un giudizio consapevole sulle questioni di
competenza della P.A., opportunamente considerando il ruolo
di garanzia democratica e la funzione pubblicistica da
questi esercitata.
La giurisprudenza del Consiglio di Stato, come anche
rilevato da codesta Prefettura, si è orientata nel senso di
ritenere che l’ampia prerogativa a ottenere informazioni è
riconosciuta ai consiglieri comunali senza che possano
essere opposti profili di riservatezza, restando fermi,
tuttavia, gli obblighi di tutela del segreto e i divieti di
divulgazione di dati personali, nei casi specificamente
determinati dalla legge, come previsto dal sopra richiamato
art. 43.
Anche il TAR Lombardia–Milano – con sentenza n. 2363
del 23.09.2014 ha riconosciuto un ampio diritto dei
consiglieri comunali ad accedere agli atti del Comune in
quanto “non è in dubbio che possa essere ostensibile anche
documentazione che, per ragioni di riservatezza, non sarebbe
ordinariamente ostensibile ad altri richiedenti, essendo il
consigliere tenuto al segreto d’ufficio (Cons. Stato, Sez.
V, 05.09.2014, n. 4525)”.
In ogni caso, ad avviso di questa Direzione Centrale,
qualora non sia stata adottata, appare necessaria una
regolamentazione della materia da parte del Consiglio
comunale nell’ambito degli strumenti di autorganizzazione.
In merito alla specifica fattispecie segnalata, appare utile
richiamare il parere in data 14.12.2010 con cui la
Commissione per l’Accesso ai documenti amministrativi,
ribadendo che “gli Uffici comunali non hanno il potere di
sindacare il nesso intercorrente tra l'oggetto delle
richieste di informazioni avanzate da un Consigliere
comunale e le modalità di esercizio del munus da questi
espletato”, ha riconosciuto il diritto ad accedere agli atti
relativi al pagamento dei tributi (per le concessioni
cimiteriali) in quanto le informazioni richieste attengono
formalmente all’esercizio del mandato consiliare, essendo
esse preordinate a verificare l’efficacia e l’imparzialità
dell’azione amministrativa in un settore particolarmente
nevralgico come quello dell'effettiva riscossione delle
imposte comunali da parte dell'amministrazione competente e
pertanto sono da ritenere accessibili dal consigliere
comunale.
Premesso, pertanto, alla luce anche del parere in data 11.01.2011 della citata Commissione, richiamato da codesta
Prefettura, che “indipendentemente dall'inclusione della
divulgazione dei contribuenti morosi fra i casi soggetti al
segreto, gli Uffici comunali non possano limitare in alcun
caso il diritto di accesso del consigliere comunale,
ancorché possa sussistere il pericolo della divulgazione di
dati di cui il medesimo entri in possesso”, si osserva che
ai sensi dell’art. 66 del d.lgs. n. 196/2003 la materia
tributaria è considerata di rilevante interesse pubblico ai
sensi degli artt. 20 e 21 dello stesso decreto legislativo,
e dunque soggetta a pubblicità nelle forme e nei limiti
previsti dalle medesime disposizioni (Ministero dell'Interno,
parere 16.06.2015 - link a http://incomune.interno.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Deleghe sindacali conferite a consiglieri
comunali.
Si fa riferimento alla nota suindicata, con la quale codesta
prefettura ha chiesto l’avviso di questo Ministero in ordine
all’istituto della delega ai consiglieri comunali di compiti
di collaborazione per l’esercizio di funzioni sindacali.
In particolare, è stato segnalato che gli atti con i quali
il sindaco dell’ente in oggetto ha conferito ad alcuni
consiglieri comunali incarichi di collaborazione sarebbero,
per il loro contenuto, inficiati da vizi di legittimità.
Tali deleghe, infatti, determinerebbero un’impropria
commistione tra funzioni di governo e funzioni di controllo
politico, nonché un’ingiustificata disparità di ruoli e
funzioni rispetto agli altri consiglieri componenti del
consiglio.
Al riguardo si rappresenta che nell'ambito dell'autonomia
statutaria dell'ente locale, sancita dall'art. 6 del decreto
legislativo n. 267/2000, è ammissibile la disciplina di
deleghe interorganiche, purché il contenuto delle stesse sia
coerente con la funzione istituzionale dell'organo cui si
riferisce. Tale istituto è disciplinato, altresì, dall’art.
23, comma 6, dello statuto del comune di ….
Occorre considerare, quale criterio generale, che il
consigliere può essere incaricato di studi su determinate
materie, di compiti di collaborazione circoscritti all'esame
e alla cura di situazioni particolari, che non implichino la
possibilità di assumere atti a rilevanza esterna, né di
adottare atti di gestione spettanti agli organi burocratici.
Il consigliere, infatti, svolge la sua attività
istituzionale, in qualità di componente di un organo
collegiale quale il consiglio, che è destinatario dei
compiti individuati e prescritti dalle leggi e dallo
statuto.
Atteso che il consiglio svolge attività di indirizzo e
controllo politico-amministrativo, ne scaturisce l'esigenza
di evitare una incongrua commistione nell'ambito
dell'attività di controllo. Tale criterio generale può
ritenersi derogabile solo in taluni casi previsti dalla
legge.
In proposito, va osservato che il TAR Toscana, con
decisione n. 1284/2004, ha respinto il ricorso avverso una
norma statutaria concernente la delega ai consiglieri di
funzioni sindacali in quanto la stessa escludeva
implicitamente che potessero essere delegati compiti di
amministrazione attiva, tali da comportare “…l’inammissibile
confusione in capo al medesimo soggetto del ruolo di
controllore e di controllato…”.
Si soggiunge che il Consiglio di Stato, con parere n.
4883/11 reso in data 17.10.2012, ha ritenuto fondato un
ricorso straordinario al Presidente della Repubblica in
quanto l’atto sindacale impugnato, nel prevedere la delega
ai consiglieri comunali di funzioni di amministrazione
attiva, determinava “…una situazione, perlomeno potenziale,
di conflitto di interesse.”.
Nel ricordare che, come noto, l’ordinamento vigente non
prevede poteri ordinari di controllo di legittimità sugli
atti degli enti locali in capo a questa amministrazione, si
ritiene, dall’esame delle deleghe in questione, che le
stesse siano coerenti con la ratio ed il perimetro
dell’istituto, come delineato nelle considerazioni che
precedono (Ministero dell'Interno,
parere 28.04.2015 - link a http://incomune.interno.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Data della seduta di seconda convocazione del
consiglio.
Si
fa riferimento alla nota sopradistinta con la quale è stato
formulato un quesito riguardante la data entro la quale deve
essere tenuta la seduta di seconda convocazione del
consiglio.
In particolare il regolamento sul funzionamento del
consiglio comunale prevede all’art. 28 che “la seduta di
seconda convocazione deve seguire, in giorno diverso, la
seduta di prima convocazione andata deserta”, mentre l’art.
21 della medesima fonte normativa prevede, in conformità con
quanto disposto dall’art. 39, comma 2, del decreto
legislativo n. 267/2000, che il sindaco è tenuto a riunire il
consiglio in un termine non superiore a venti giorni, quando
lo richieda almeno un quinto dei consiglieri in carica.
Alla luce del suindicato quadro normativo, è stato chiesto
se sia corretta la posizione assunta dal sindaco dell’ente
che, non rinvenendo in alcuna norma un vincolo temporale in
ordine alle sedute di seconda convocazione, avrebbe ritenuto
non sussistente l’obbligo di convocare nuovamente
l’assemblea entro i termini previsti dall’art. 21 citato,
qualora la seduta consiliare, convocata una prima volta
entro venti giorni dalla richiesta formulata da un quinto
dei consiglieri, fosse andata deserta per mancanza del
quorum strutturale.
Ciò posto si ritiene, conformemente a quanto ritenuto da
codesto Ufficio, ed attesa la formulazione letterale del
citato art. 39, comma 2, che nell’arco temporale di venti
giorni, decorrenti dalla presentazione della richiesta,
debbano svolgersi tanto la convocazione che la materiale
seduta consiliare finalizzata alla discussione degli
argomenti proposti dal quinto dei consiglieri.
Con riferimento all’ulteriore quesito relativo alla
individuazione del quorum necessario per la validità della
seduta in seconda convocazione, atteso che il regolamento
richiede la presenza di almeno un terzo dei consiglieri,
escluso il sindaco, si ritiene che debba operarsi
l’arrotondamento aritmetico.
Pertanto nel caso in cui la
cifra decimale sia pari o inferiore a 5 si procede con
l’arrotondamento per difetto; in caso che la stessa sia
superiore a 5 si procede con l’arrotondamento per eccesso
(Ministero dell'Interno,
parere 28.04.2015 - link a http://incomune.interno.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000.
Accesso agli atti da parte dei consiglieri comunali.
Con nota in data 10.04.2015, ad ogni buon fine allegata
in copia, il Segretario generale del comune di … ha posto un
quesito in ordine al diritto di accesso dei consiglieri
comunali.
In particolare, premesso che in base al regolamento i
consiglieri possono prendere visione della posta in entrata
ed in uscita che transita nel protocollo, ed avendo posto
delle restrizioni in ordine ai documenti riservati o
soggetti a privacy, il Comune ha chiesto se sia legittimo
porre limitazioni anche in merito al rilascio in copia
cartacea di tali documenti, ritenuti “ipersensibili” e non
strettamente connessi all’espletamento del mandato
amministrativo.
Al riguardo, si osserva che il “diritto di accesso” ed il
“diritto di informazione” dei consiglieri comunali nei
confronti della P.A., trovano la loro disciplina specifica
nell’art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000, il quale
riconosce il “diritto di ottenere dagli uffici,
rispettivamente, del comune e della provincia, nonché dalle
loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le
informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del
proprio mandato”.
La materia è soggetta a normazione statutaria e
regolamentare da parte dell’ente, nel quadro dei principi
della citata norma di legge dalla quale si evince il
riconoscimento in capo al consigliere comunale di un diritto
dai confini più ampi sia del diritto di accesso ai documenti
amministrativi attribuito al cittadino nei confronti del
Comune di residenza (art. 10, T.U.O.E.L.) che, più in
generale, nei confronti della P.A. quale disciplinato dalla
legge n. 241/1990.
Tale maggiore ampiezza di legittimazione è
riconosciuta in ragione del particolare munus espletato dal
consigliere comunale, affinché questi possa valutare, con
piena cognizione di causa, la correttezza e l'efficacia
dell'operato dell'Amministrazione, onde poter esprimere un
giudizio consapevole sulle questioni di competenza della
P.A., opportunamente considerando il ruolo di garanzia
democratica e la funzione pubblicistica da questi esercitata
(cfr. Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi,
pareri del 23.06.2011 e del 07.07.2011).
Per quanto concerne il rilascio periodico del riepilogo del
protocollo generale dell'ente, comprensivo sia della posta
in arrivo che di quella in uscita, si segnala che la
giurisprudenza, con orientamento costante, ha ritenuto non
conforme a legge il diniego opposto dall'amministrazione di
prendere visione del protocollo generale e di quello
riservato del sindaco (cfr. TAR Sardegna n. 29/2007 e n.
1782/2004; TAR Lombardia, Brescia, n. 173/2004 e n.
362/2005, TAR Campania, Salerno, n. 26/2005).
In particolare, il TAR Sardegna ha affermato, tra
l'altro, che è consentito prendere visione del protocollo
generale senza alcuna esclusione, di oggetti e notizie
riservate e di materie coperte da segreto, posto che i
consiglieri comunali sono comunque tenuti al segreto ai
sensi dell'art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000.
Sempre il medesimo TAR, con sentenza n. 1363, del 28.05.2010, ha specificato che “il registro di protocollo
generale del comune è pienamente riconducibile alle
categorie di documenti suscettibili di accesso, in quanto
idoneo a fornire notizie e informazioni utili
all’espletamento del mandato dei consiglieri comunali. Sotto
il profilo organizzativo l'accesso al protocollo comunale
deve essere effettuato in modo da non creare intralcio
all'attività degli uffici”.
Anche il TAR Lombardia-Milano – con sentenza n. 2363
del 23.09.2014 ha riconosciuto un ampio diritto dei
consiglieri comunali ad accedere agli atti del Comune in
quanto “non è in dubbio che possa essere ostensibile anche
documentazione che, per ragioni di riservatezza, non sarebbe
ordinariamente ostensibile ad altri richiedenti, essendo il
consigliere tenuto al segreto d’ufficio (Cons. Stato, Sez.
V, 05.09.2014, n. 4525)”.
Tuttavia proprio in ordine alla fattispecie di richiesta di
atti relativi al registro di minori in affido, lo stesso
Tribunale Amministrativo della Lombardia, con la medesima
sentenza n. 2363/2014 ha specificato che “fermo il limite
esterno di perseguire interessi personali o di tenere
condotte emulative, i limiti interni all’esercizio
dell’accesso consiliare possono rinvenirsi, per un verso,
nel fatto che esso non deve sostanziarsi in richieste di
documentazione inutile all’espletamento del mandato, ovvero
assolutamente generiche, e, per altro verso, nel fatto che
esso deve avvenire in modo da non aggravare eccessivamente
la corretta funzionalità degli uffici amministrativi, fermo
restando tuttavia che la sussistenza di tali caratteri deve
essere attentamente e approfonditamente vagliata in concreto
al fine di non introdurre surrettiziamente inammissibili
limitazioni al diritto stesso”.
Il TAR, pertanto, rilevando che il consigliere
richiedente aveva ribadito l’indispensabilità delle
informazioni cui aveva richiesto accesso senza tuttavia
allegare specificamente il motivo per cui ciascuna di esse
risultasse indispensabile, ai fini dell’espletamento del
proprio mandato (essendo tale l’interesse), ha ritenuto che
“l’attività che il ricorrente intende effettuare una volta
presa conoscenza delle informazioni –per come indicata in
ricorso– non ha necessità di avere contezza dei dati
personali dei singoli soggetti (né minori, né genitori, né
operatori), che quindi non risultano utili, ai sensi del
citato art. 43 del T.U.E.O.L.".
Fermo restando, dunque che “deve sussistere un collegamento
tra gli atti richiesti e l’attività consiliare, così da
consentire al consigliere di valutare -con piena cognizione- la correttezza e l’efficacia dell’operato
dell’Amministrazione, nonché per esprimere un voto
consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio, e
per promuovere, anche nell’ambito del Consiglio stesso, le
iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo
elettorale locale” (Cons. Stato, Sez. V, 05.09.2014,
n. 4525 richiamata da TAR Lombardia 2363/2014), si ritiene
che l’Amministrazione possa escludere i dati personali di
dettaglio relativi ai singoli la cui conoscenza sia
ininfluente ai fini precostituiti dal richiedente.
Su quanto precede si prega di fare analoga comunicazione
all’ente interessato (Ministero
dell'Interno,
parere 28.04.2015 - link a http://incomune.interno.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Art. 43 del d.lgs. n. 267/2000. Diritto di
accesso dei consiglieri comunali.
Si fa riferimento alla nota, ad ogni buon fine allegata in
copia con la quale il comune di … ha posto un quesito in
materia di diritto di accesso esercitabile dai consiglieri
comunali.
Al riguardo, si rappresenta che il “diritto di accesso” ed
il “diritto di informazione” dei consiglieri comunali in
ordine agli atti in possesso dell’Amministrazione comunale,
trovano la loro disciplina specifica nell’art. 43 del
decreto legislativo n. 267/2000 il quale riconosce il diritto
di ottenere dagli uffici del comune, nonché dalle proprie
aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le
informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del
proprio mandato.
Tale assunto è recepito dall’art. 16 dello statuto comunale,
mentre l’art. 65 del regolamento stabilisce che i
consiglieri comunali hanno diritto di ottenere dagli uffici
copie di atti preparatori dei provvedimenti, nonché
informazioni e notizie riguardanti provvedimenti
amministrativi.
Il diritto dei consiglieri ha una ratio diversa da quella
che contraddistingue il diritto di accesso ai documenti
amministrativi riconosciuto alla generalità dei cittadini
(ex articolo 10 del richiamato decreto legislativo n. 267/2000)
ovvero a chiunque sia portatore di un "interesse diretto,
concreto e attuale, corrispondente ad una situazione
giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è
chiesto l'accesso" (ex art. 22 e ss. della legge 07.08.1990, n. 241).
Il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 4525 del 05.09.2014, ha affermato che, secondo un consolidato
indirizzo giurisprudenziale, (Cons. Stato, sez. V, 17.09.2010, n. 6963;
09.10.2007, n. 5264), i
consiglieri comunali hanno un non condizionato diritto di
accesso a tutti gli atti che possano essere d'utilità
all'espletamento delle loro funzioni, ciò anche al fine di
permettere di valutare -con piena cognizione- la
correttezza e l'efficacia dell'operato dell'Amministrazione,
nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di
competenza del Consiglio, e per promuovere, anche
nell'ambito del Consiglio stesso, le iniziative che spettano
ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale.
Gli unici limiti all’esercizio del diritto di accesso dei
consiglieri comunali possono rinvenirsi nel fatto che esso
deve avvenire in modo da comportare il minor aggravio
possibile per gli uffici comunali, attraverso modalità che
ragionevolmente sono fissate nel regolamento dell’ente ed
inoltre non deve sostanziarsi in richieste assolutamente
generiche, ovvero meramente emulative, fermo restando,
tuttavia, che la sussistenza di tali caratteri deve essere
attentamente e approfonditamente vagliata in concreto al
fine di non introdurre surrettiziamente inammissibili
limitazioni al diritto stesso (C.d.S. Sez. V n. 6993/2010).
In merito alle segnalate fattispecie di rilascio di copie di
tutti gli atti protocollati in un determinato periodo o di
un ingente numero di pratiche edilizie o dell’elenco di
tutto il contenzioso dell’Ente che si concretizzerebbero in
richieste esplorative, si richiama il parere D.I.C.A. n.
18368 P-2.4.5.2.4 del 05.10.2010 con il quale la Commissione
per l’accesso ai documenti amministrativi ha osservato che
il diritto si esercita con l'unico limite di potere esaudire
la richiesta (qualora essa sia di una certa gravosità)
secondo i tempi necessari per non determinare interruzione
delle altre attività di tipo corrente e ciò in ragione del
fatto che il consigliere comunale non può abusare del
diritto all'informazione riconosciutogli dall'ordinamento,
pregiudicando la corretta funzionalità amministrativa
dell'ente civico con richieste non contenute entro i limiti
della proporzionalità e della ragionevolezza.
Il Consiglio di Stato ha riconosciuto la necessità di
contemperare l’esigenza dei consiglieri ad espletare il
proprio mandato con quella dell’amministrazione al regolare
svolgimento della propria attività, dettando precise
indicazioni in merito all’esercizio del diritto.
Infatti, è stata segnalata la necessità che la formulazione
di richieste da parte dei consiglieri sia il più possibile
precisa, riportando l’indicazione degli oggetti di interesse
ed evitando adempimenti gravosi o intralci all’attività ed
al regolare funzionamento degli uffici (C.d.S. sent.
n. 4471/2005; n. 5109/2000; n. 6293/2002).
Il Supremo Consesso ha costantemente richiamato l’attenzione
sulla necessità che le istanze di accesso agli atti non
siano “…generiche ed indeterminate ma tali da consentire una
sia pur minima identificazione dei supporti documentali che
si intende consultare” non essendo configurabile il diritto
di accesso del consigliere come generalizzato ed
indiscriminato ad ottenere qualsiasi tipo di atto dall’ente.
La Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi ha
più volte precisato che, per non impedire od ostacolare lo
svolgimento dell’azione amministrativa, fermo restando che
il diritto di accesso non può essere garantito
nell’immediatezza in tutti i casi, o con mezzi estranei
all’organizzazione attuale dell’ente, “…rientrerà nelle
facoltà del responsabile del procedimento dilazionare
opportunamente nel tempo il rilascio delle copie richieste,
al fine di contemperare tale adempimento straordinario con
l’esigenza di assicurare l’adempimento dell’attività
ordinaria, mentre il consigliere avrà facoltà di prendere
visione, nel frattempo, di quanto richiesto negli orari
stabiliti presso gli uffici comunali competenti”.
Proprio al fine di evitare che le continue richieste di
accesso si trasformino in un aggravio dell’ordinaria
attività amministrativa dell'ente locale, la citata
Commissione ha riconosciuto la possibilità per il
consigliere comunale di avere accesso diretto al sistema
informatico interno (anche contabile) del Comune attraverso
l'uso della password di servizio (cfr. parere del
29.11.2009).
Inoltre, appare utile segnalare che il Tribunale
Amministrativo Regionale della Sardegna con la sentenza n.
29/2007 ha ritenuto ammissibile la presa visione del
protocollo generale senza alcuna esclusione “di oggetti e
notizie riservate e di materie coperte da segreto”, posto
che i consiglieri comunali sono comunque tenuti al segreto
ai sensi del più volte citato articolo 43.
La previa visione del registro di protocollo da parte del
consigliere comunale, avrebbe, pertanto, la funzione di
individuare gli atti di interesse, evitando una
indiscriminata estrazione di copie.
Qualora si tratti di esibire documentazione complessa e
voluminosa, appare, altresì, legittimo il rilascio di
supporti informatici al consigliere, o la trasmissione
mediante posta elettronica, in luogo delle copie cartacee.
Tale modalità è conforme alla vigente normativa in materia
di digitalizzazione della pubblica amministrazione (decreto
legislativo n. 82 del 07.03.2005), che all’articolo 2,
prevede che anche “le autonomie locali assicurano la
disponibilità, la gestione, l'accesso, la trasmissione, la
conservazione e la fruibilità dell'informazione in modalità
digitale e si organizzano ed agiscono a tale fine
utilizzando con le modalità più appropriate le tecnologie
dell'informazione e della comunicazione”.
Su quanto precede si prega di fare analoga comunicazione
all’ente interessato (Ministero dell'Interno,
parere 28.04.2015 - link a http://incomune.interno.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Consiglio comunale. Quesito concernente il
computo degli astenuti.
Si fa riferimento alla nota sopradistinta con la quale
codesta Prefettura ha trasmesso il quesito del Comune di …
relativo alla questione segnalata in oggetto.
Al riguardo, si osserva preliminarmente che l’art. 38, c. 2,
del decreto legislativo n. 267/2000, demanda al regolamento
comunale, "... nel quadro dei principi stabiliti dallo
statuto", la determinazione del numero dei consiglieri
necessario per la validità delle sedute.
Unico limite indicato dal legislatore è che detto numero non
può, in ogni caso, scendere sotto la soglia del "terzo dei
consiglieri assegnati per legge all'ente, senza computare a
tale fine il sindaco e il presidente della provincia".
Il legislatore statale si è, quindi, limitato a stabilire
una soglia minima, inderogabile, di presenze nel consiglio
comunale, rimettendo all’autonomia normativa dell’ente la
determinazione del numero legale per la validità delle
sedute, implicante anche la possibilità di stabilire
maggioranze qualificate per l’adozione di determinati atti
deliberativi sui quali si reputi che debba convergere un più
elevato numero di consensi.
In merito alla specifica fattispecie, codesta Prefettura ha
segnalato che alla seduta erano presenti 14 consiglieri su
17 assegnati e la deliberazione ha ottenuto 4 voti
favorevoli e 1 voto contrario, mentre 9 consiglieri si sono
astenuti dal voto.
La questione prospettata concerne l’eventuale computabilità
degli astenuti tra i votanti e dunque se, nel caso
specifico, ferma restando la necessità dell’approvazione da
parte della maggioranza dei presenti, la deliberazione debba
intendersi non approvata.
Al riguardo, si ritiene che gli astenuti, anche in assenza
di una specifica previsione regolamentare, concorrono alla
formazione del c.d. “quorum strutturale”, cioè alla
formazione del numero minimo di consiglieri necessario per
la validità della seduta. Del resto, anche il richiamato T.U.O.E.L. n. 267/2000, all’articolo 78, c. 2, impone agli
amministratori l’astensione dal prendere parte alla
discussione ed alla votazione di delibere riguardanti
interessi propri o di loro parenti ed affini fino al quarto
grado.
In presenza di una situazione diffusa di astensioni, se non
si ammettesse la formazione del quorum strutturale, il
funzionamento del consiglio comunale potrebbe risultare
compromesso.
Proprio per l’esigenza di garantire la funzionalità
dell’assemblea deliberante, in carenza di apposite
disposizioni regolamentari, si ritiene, invece, che gli
astenuti debbano essere esclusi dal calcolo del quorum
funzionale e le deliberazioni vengono approvate in presenza
di una maggioranza di voti favorevoli.
Tale assunto è dettato in analogia alla previsione contenuta
nell’art. 48 del regolamento della Camera dei Deputati, per
cui per l’approvazione delle deliberazioni dovranno essere
conteggiati i soli votanti, compresi coloro che hanno votato
scheda bianca, nulla o non leggibile, ed esclusi gli
astenuti.
Una interpretazione diversa, nel senso di considerare
l’astensione equivalente nei fatti a un voto contrario, non
sarebbe giustificata laddove è previsto il voto favorevole,
il voto contrario e l’astensione.
Pertanto, ribadendo l’opportunità dell’adozione di norme
regolamentari che definiscano inequivocabilmente il quorum
funzionale, si ritiene che riguardo alla fattispecie
segnalata, la deliberazione, che ha ricevuto un numero
superiore di voti favorevoli rispetto ai voti contrari,
dovrebbe intendersi approvata (V. sentenza C.d.S. n.
3372/2012 del 07.06.2012) (Ministero
dell'Interno,
parere 28.04.2015 - link a http://incomune.interno.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Diritti e garanzie del consigliere comunale.
Si fa riferimento alla nota sopradistinta, con la quale è
stato richiesto l’avviso di questo Ministero, in ordine ad
alcune problematiche attinenti alla tutela dei diritti e
delle prerogative della minoranza consiliare del comune di
cui in oggetto.
Al riguardo per quanto concerne il diritto della minoranza
consiliare tutelato dall’art. 39, comma 2, del decreto
legislativo n. 267/2000, la giurisprudenza prevalente in
materia ha da tempo affermato che, in caso di richiesta di
convocazione del consiglio da parte di un quinto dei
consiglieri, “al presidente del consiglio comunale spetta
soltanto la verifica formale che la richiesta provenga dal
prescritto numero di soggetti legittimati, mentre non può
sindacarne l'oggetto, poiché spetta allo stesso consiglio
nella sua totalità la verifica circa la legalità della
convocazione e l'ammissibilità delle questioni da trattare,
salvo che non si tratti di oggetto che, in quanto illecito,
impossibile o per legge manifestamente estraneo alle
competenze dell'assemblea in nessun caso potrebbe essere
posto all'ordine del giorno” (vd. in particolare TAR
Piemonte, Sez. II, 24.04.1996, n. 268).
Il TAR Puglia-Lecce (sentenza n. 528/2014) ha
recentemente ribadito che la figura del Presidente è posta a
garanzia del corretto funzionamento dell’organo
rappresentativo e della corretta dialettica tra maggioranza
e minoranza.
Pertanto, alla luce del richiamato orientamento
giurisprudenziale, appare che la convocazione del consiglio
comunale con un ordine del giorno diverso da quello
richiesto appare elusiva dell’obbligo di cui al comma 2
dell’art. 39 citato, nonché dell’art. 25, comma 1, del
regolamento sul funzionamento del consiglio del Comune di …,
ai sensi del quale il sindaco è tenuto a convocare
l’assemblea quando lo richieda un quinto dei consiglieri,
“inserendo all’ordine del giorno gli argomenti dagli stessi
richiesti”.
In ordine agli atti di sindacato ispettivo, l’art. 23 della
citata fonte regolamentare dispone che le interrogazioni e
le interpellanze siano trattate in apertura di seduta e,
pertanto, la gestione degli argomenti da trattare dovrebbe
essere conformata alla suddetta previsione normativa.
In tema di diritto di accesso dei consiglieri, così come
affermato dal Consiglio di Stato con la recente sentenza n.
4525 del 05.09.2014 si ricorda che secondo un
consolidato indirizzo giurisprudenziale, (Cons. Stato, sez.
V, 17.09.2010, n. 6963; 09.10.2007, n. 5264), “…i
consiglieri comunali hanno un non condizionato diritto di
accesso a tutti gli atti che possano essere d'utilità
all'espletamento delle loro funzioni, ciò anche al fine di
permettere di valutare -con piena cognizione- la
correttezza e l'efficacia dell'operato dell'Amministrazione,
nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di
competenza del Consiglio, e per promuovere, anche
nell'ambito del Consiglio stesso, le iniziative che spettano
ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale. Il
diritto di accesso loro riconosciuto ha, in realtà, una ratio diversa da quella che contraddistingue il diritto di
accesso ai documenti amministrativi riconosciuto alla
generalità dei cittadini…” in quanto esso è strettamente
funzionale all’esercizio del loro mandato, alla verifica e
al controllo dell’operato degli organi istituzionali
dell’ente locale (Cons. Stato, sez. IV, 21.08.2006, n.
4855) ai fini della tutela degli interessi pubblici.
Gli
unici limiti all’esercizio del diritto di accesso ex art.
43, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000 possono
rinvenirsi nella esigenza di comportare il minor aggravio
possibile per gli uffici comunali, attraverso modalità
fissate dal regolamento dell’ente ed inoltre non deve
sostanziarsi in richieste assolutamente generiche, ovvero
meramente emulative, fermo restando, tuttavia, che la
sussistenza di tali caratteri deve essere attentamente
verificata in concreto al fine di non introdurre
surrettiziamente inammissibili limitazioni a tale diritto
(cfr. Consiglio di Stato, Sez. V n. 6993/2010).
La Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi,
con parere D.I.C.A. n. 18368 P-2.4.5.2.4 del 05.10.2010, ha
osservato che il diritto si esercita con l'unico limite di
potere esaudire la richiesta (qualora essa sia di una certa
gravosità) secondo i tempi necessari per non determinare
interruzione delle altre attività di tipo corrente e ciò in
ragione del fatto che il consigliere comunale non può
abusare del diritto all'informazione riconosciutogli
dall'ordinamento, pregiudicando la corretta funzionalità
amministrativa dell'ente civico con richieste non contenute
entro i limiti della proporzionalità e della ragionevolezza.
Proprio al fine di evitare che le continue richieste di
accesso si trasformino in un aggravio dell’ordinaria
attività amministrativa dell'ente locale, la citata
Commissione ha riconosciuto la possibilità per il
consigliere comunale di avere accesso diretto al sistema
informatico interno (anche contabile) dell'ente attraverso
l'uso della password di servizio (cfr. parere del
29.11.2009).
Premesso quanto sopra si ritiene che, qualora si tratti di
esibire documentazione complessa e voluminosa, sia legittimo
il rilascio di supporti informatici (CD o DVD) al
consigliere, o la trasmissione mediante posta elettronica,
in luogo delle copie cartacee. Tale modalità di riscontro,
appare in linea con la decisione del Consiglio di Stato,
Sez. V, (sent. n. 6742/2007) -il quale ha richiamato il
parere di questo Ministero in merito alla possibile
riproduzione di planimetrie su CD-rom, in quelle
fattispecie, in cui il consigliere chieda l’estrazione di
copie di atti la cui fotoriproduzione comporti costi elevati– ed è conforme alla vigente normativa in materia di
digitalizzazione della pubblica amministrazione (decreto
legislativo n. 82 del 07.03.2005), che all’articolo 2,
prevede che anche “le autonomie locali assicurano la
disponibilità, la gestione, l'accesso, la trasmissione, la
conservazione e la fruibilità dell'informazione in modalità
digitale e si organizzano ed agiscono a tale fine
utilizzando con le modalità più appropriate le tecnologie
dell'informazione e della comunicazione”.
Quanto alla modifica del regolamento sul diritto di accesso
dei consiglieri con la quale è stato dilatato da cinque a
trenta giorni il termine per il rilascio della
documentazione richiesta, giova richiamare quanto affermato
dal TAR Calabria che, con sentenza n. 221 del 2011, ha
considerato legittima una norma regolamentare con la quale
era stato indicato il termine di trenta giorni quale arco
temporale entro il quale la amministrazione avrebbe dovuto
dare seguito alla richiesta di accesso da parte dei
consiglieri qualora la stessa fosse riferita ad una
pluralità di documenti.
Ciò in quanto il suddetto termine è
stato considerato ragionevole e comunque coerente con l’art.
25 della legge 241 del 1990 “che prevede l’accesso ai
documenti amministrativi entro 30 giorni dalla richiesta,
salvi i casi di differimento”
(Ministero dell'Interno,
parere 16.04.2015 - link a http://incomune.interno.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: Ruderi del Castello di Arnad — artt. 55 e 59 del
d.lgs. 42 del 2004 (MIBACT, Ufficio Legislativo,
nota 07.04.2015 n. 7916 di prot.).
---------------
Si riscontra la nota del 12.02.2015, prot. n. 3344 con la
quale codesta Direzione generale chiede il parere di questo
Ufficio circa la possibilità di concentrare in un unico
procedimento sia l'autorizzazione all'alienazione del bene
culturale che l'esercizio del diritto di prelazione. (...
continua). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Istanza di autorizzazione paesaggistica per
mantenimento e riconfigurazione estetica, funzionale ed
ambientale di manufatto posto in Scandicci, presentata ai
sensi dell'art. 146 del decreto legislativo 42/2004 e s.m.i.
(MIBACT, Ufficio Legislativo,
nota 20.03.2015 n. 6392 di prot.). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Richiesta parere su mozione avente ad oggetto
atti di competenza dirigenziale.
Si fa riferimento alla nota sopradistinta con la quale è stato posto un
quesito in ordine alle materie sulle quali possa essere
esercitato il diritto dei consiglieri di svolgere atti di
sindacato ispettivo.
In particolare, è stato chiesto se sia ammissibile lo
svolgimento di mozioni aventi ad oggetto specifiche attività
di carattere strettamente gestionale che, in quanto tali,
sono sottratte alla competenza dell’organo consiliare.
Al riguardo si osserva che il predetto diritto è previsto
dall’art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000, che al comma
3, demanda allo statuto ed al regolamento la disciplina
concernente le modalità di presentazione degli atti di
sindacato ispettivo e le relative risposte.
La dottrina definisce “mozioni” gli atti approvati dal
consiglio per esercitare un’azione di indirizzo, esprimere
posizioni e giudizi su determinate questioni, organizzare la
propria attività, disciplinare procedure e stabilire
adempimenti dell’amministrazione nei confronti del
Consiglio.
Il TAR Puglia–Sezione di Lecce – I Sez., sentenza n.
1022/2004, individua la mozione quale “istituto a contenuto
non specificato … , trattandosi di un potere a tutela della
minoranza per situazioni non predefinibili, a differenza di
altri strumenti più a valenza di mera conoscenza (quali
l’interrogazione o la interpellanza), essendo strumento di
“introduzione ad un dibattito” che si conclude con un voto
che è ragione ed effetto proprio della mozione”.
L’art. 57 del regolamento sul funzionamento del consiglio
del comune di … definisce la mozione “…una proposta concreta
tendente a provocare l’indirizzo di una condotta o azione
del Sindaco, o della Giunta o di un singolo assessore,
oppure a fissare criteri da seguire nella contrattazione di
un determinato affare, oppure a far pronunciare il Consiglio
Comunale circa importanti fatti politici od amministrativi”.
Pertanto, la normativa regolamentare in esame non
sembrerebbe porre limiti di materia al diritto dei
consiglieri di presentare mozioni che, in quanto atti
preordinati a promuovere una deliberazione del consiglio,
costituiscono una delle modalità attraverso cui quest’ultimo
esercita la funzione di indirizzo e di controllo politico -
amministrativo prevista, ai sensi dell’art. 42, comma 1, del
decreto legislativo n. 267/2000 tra le attribuzioni
dell’organo rappresentativo dell’ente (Ministero dell'Interno,
parere 04.03.2015 - link a http://incomune.interno.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Art. 39, commi 2 e 5 ,del TUEL n. 267/2000.
Richiesta di parere.
Si fa riferimento alla nota sopra citata con la quale
codesta Prefettura in relazione alla richiesta di
convocazione del Consiglio comunale di … da parte di un
quinto dei consiglieri comunali, ha inoltrato la nota con
cui il sindaco, contestando la legittimità di tale richiesta
e ponendo appositi quesiti a questo Ministero, ha chiesto di
revocare o sospendere i termini della diffida ad adempiere,
nelle more del richiesto approfondimento.
Codesta Prefettura, approfondendo la richiesta nei termini
sostenuti dal sindaco, facendo presente che l’Ente non è
dotato di regolamento sul funzionamento del consiglio,
condividerebbe le perplessità dell’Amministrazione comunale
che tende a non riconoscere la legittimità della richiesta.
Al riguardo, si premette che il regolamento sul
funzionamento del consiglio, proprio per l’ampia serie di
istituti da disciplinare e per il superamento della
disciplina transitoria di cui all’art. 273, comma 6, del
citato decreto legislativo, deve essere adottato in virtù
dell’esplicito rinvio operato dall’articolo 38, comma 2, del d.lgs. n. 267/2000, nel quadro dei principi stabiliti dallo
statuto, in quanto strumento necessario per il corretto
funzionamento di tale organo.
Pur nella grave carenza costituita dalla mancata adozione di
regolamento, occorre evidenziare che l’art. 43, comma 1, del T.U.E.L. n. 267 del 2000 riconosce, comunque, a ciascun
consigliere comunale il “diritto di iniziativa” su ogni
questione sottoposta alla deliberazione del consiglio oltre
al diritto di chiedere la convocazione del consiglio secondo
le modalità dettate dall’art. 39, comma 2, e di presentare
interrogazioni e mozioni.
L’art. 39, comma 2, del T.U.E.L. 267/2000 prescrive che il
presidente del consiglio comunale è tenuto a riunire il
consiglio, in un termine non superiore ai venti giorni,
quando lo richiedano un quinto dei consiglieri o il sindaco,
inserendo all’ordine del giorno le questioni richieste.
La norma sembra configurare un obbligo del Presidente del
consiglio comunale di procedere alla convocazione
dell’organo assembleare, -come si evince dalla previsione
del termine di adempimento (20 giorni)- per la trattazione
da parte del Consiglio, delle questioni richieste, senza
alcun riferimento alla necessaria adozione di
determinazioni, da parte del consiglio stesso.
Tuttavia, ciò non significa che le richieste di convocazione
possano essere generiche, ed in proposito si richiama quanto
affermato dal Giudice Amministrativo (TAR Liguria, Sez I,
11.01.1994, n. 1121), il quale ha affermato che
l’ordine del giorno deve essere formulato “in maniera chiara
ed in termini non ambigui, ma senza che ciò implichi
l’esibizione di uno schema di provvedimento o
l’impossibilità di apportare variazioni o modifiche
dipendenti da valutazioni di merito che il Consiglio ha il
potere di effettuare”.
La dibattuta questione sulla sindacabilità, da parte del
Presidente del Consiglio (o del Sindaco), dei motivi che
determinano i consiglieri a chiedere la convocazione
straordinaria dell’assemblea, si è orientata, per
giurisprudenza consolidata, nel senso che "allo stesso spetti
solo la verifica formale della richiesta (prescritto numero
di consiglieri), mentre non si ritiene che possa sindacarne
l’oggetto, salvo che non si tratti di oggetto che, in quanto
illecito, impossibile o per legge manifestamente estraneo
alle competenze dell’assemblea in nessun caso potrebbe
essere posto all’ordine del giorno” (TAR Piemonte, Sez. II, 24.04.1996, n. 268).
Alla luce del richiamato orientamento giurisprudenziale e
dottrinario, si deduce che le uniche ipotesi per le quali
l’organo che presiede il consiglio comunale può omettere la
convocazione dell’assemblea sono la carenza del prescritto
numero di consiglieri oppure la verificata illiceità,
impossibilità o manifesta estraneità dell’oggetto alle
competenze del Consiglio.
Passando ora dall’esame generale della questione a quello
della fattispecie rappresentata, l’attenzione va trasferita
alla natura degli argomenti richiesti di inserimento
all’ordine del giorno da parte dei consiglieri al fine di
verificarne l’eventuale estraneità alle competenze del
collegio.
Nello stabilire se una determinata questione sia o meno di
competenza del Consiglio comunale occorre aver riguardo non
solo agli atti fondamentali espressamente elencati dal comma
2 dell’art. 42 del citato testo unico, ma anche alle
funzioni di indirizzo e di controllo
politico-ammministrativo di cui al comma 1 del medesimo art.
42, con la possibilità, quindi, che la trattazione da parte
del collegio non debba necessariamente sfociare
nell’adozione di un provvedimento finale.
Nel caso di specie, ai consiglieri non è stato consentito di
porre all’ordine del giorno il punto 2 della richiesta ove
si prevede la “valutazione ed eventuale approvazione
progettuale dell’intervento di consolidamento sistemazione
del movimento franoso”.. interessante alcune aree comunali,
in quanto tra le competenze del consiglio “non rientrano la
valutazione e l’approvazione di progetti già inseriti in
Piani Triennali”.
In merito, dal contenuto della nota di chiarimenti del
sindaco, si rileva che la procedura in parola era stata
avviata con deliberazione di Giunta municipale n. 11 del
18.09.2010 con l’affidamento di un progetto preliminare; gli
atti successivi relativi alla complessa procedura, secondo
quanto riferito dal Sindaco, hanno interessato anche il
Consiglio comunale, che con deliberazione n. 24 del
10.12.2012 ha approvato il programma triennale 2012/2014
delle opere pubbliche, ove era inserito tale intervento.
La citata procedura è culminata, infine, con la
determinazione n. 95 del 24.12.2014 (a distanza di oltre
quattro anni dall’affidamento della progettazione
preliminare) di affidamento dei lavori a mezzo di procedura
aperta, con il criterio del massimo ribasso per un importo
totale di 300 mila euro.
Ciò posto, considerato che proprio il citato art. 42, comma
2, del d.lgs. n. 267/2000 alla lett. b) affida alla
competenza del consiglio comunale, tra l’altro, i “programmi
triennali e elenco annuale dei lavori pubblici,… piani
territoriali ed urbanistici, programmi annuali e pluriennali
per la loro attuazione, eventuali deroghe ad essi, pareri da
rendere per dette materie”, la condizione della
partecipazione del Consiglio comunale alla procedura
sembrerebbe soddisfatta.
Tuttavia, considerato che i consiglieri richiedenti,
sostenendo che l’importo iniziale programmato per
l’attuazione dei lavori non coinciderebbe con l’importo
programmato in origine, questa Direzione Centrale ritiene
opportuna una riconsiderazione della richiesta dei
consiglieri comunali alla luce della deliberazione n. 28 del
09/05/2006 con cui l’Autorità Nazionale Anticorruzione ha
puntualizzato che “la modifica dei parametri economici del
progetto deve costituire oggetto di aggiornamento e riapprovazione degli strumenti di programmazione da parte
degli organi competenti, nonché di eventuale ripubblicazione
nei casi più rilevanti che determinano una variazione “di
carattere sostanziale” della programmazione economica" (cfr.
determinazione n. 2/2002).
Si segnala, inoltre che il TAR Lombardia, Sezione di Brescia
con sentenza 10/03/2005, n. 150 ha puntualizzato che “che le
successive fasi progettuali potranno essere avviate solo
dopo l’approvazione del programma e della lista annuale,
quale decisione di realizzabilità politico-amministrativa
dell’organo competente che, nell’ordinamento degli enti
locali, è il Consiglio comunale”.
Riguardo alla necessità di sottoporre ad approvazione i
verbali di sedute precedenti si osserva preliminarmente che,
pur non sussistendo un obbligo giuridico di procedere alla
lettura ed approvazione dei verbali delle sedute consiliari
–obbligo che può essere contenuto nel prescritto
regolamento sul funzionamento del consiglio comunale- può
ritenersi sempre ammissibile procedere ad inserire tale
adempimento tra quelli da trattare all’ordine del giorno di
una seduta successiva.
Tale orientamento deriva dalla considerazione che la lettura
ed approvazione del verbale da parte del collegio
deliberante non hanno lo scopo di rinnovare la
manifestazione di volontà dell’organo collegiale, a suo
tempo validamente espressa, ma solo quello di verificarne e
controllarne la rispondenza con la trascrizione e
documentazione fattane dal segretario, cioè da un organo
estraneo al consiglio nel verbale.
Infatti, la manifestazione di volontà del Consiglio comunale
necessita, ab substantiam, di una esternazione costituita
dal processo verbale, redatto dal Segretario dell’ente, il
quale pone in essere, mediante la verbalizzazione,
un’attività strumentale di documentazione dell’atto (TAR
Friuli Venezia Giulia, 26.09.1984, n. 278).
La consuetudine secondo la quale, nonostante la abrogata
legislazione (art. 300 del T.U. del 1915), i verbali devono
essere letti, approvati e sottoscritti, trova applicazione
nei confronti di tutti gli organi collegiali.
Il verbale, in definitiva, non attiene al procedimento
deliberativo, che si esaurisce e si perfeziona con la
proclamazione del risultato della votazione, ma assolve ad
una funzione di mera certificazione dell’attività
dell’organo deliberante (TAR Lazio, I, 10.10.1991,
n. 1703).
Inoltre, “l’eventuale omissione di tale adempimento non è impeditiva dell’efficacia ovvero della stessa esistenza
della delibera consiliare” che, conseguentemente, dovrebbe
poter sempre essere sanabile sottoponendola all’approvazione
del Consiglio.
Tuttavia, ad avviso di questa Direzione Centrale, qualora,
come nel caso di specie, emergano difficoltà
nell’interpretazione dei brogliacci dei verbali, proprio per
quella funzione di controllo demandata al consiglio, non
sembra potersi negare il diritto dei consiglieri a chiedere
la convocazione per la loro approvazione definitiva.
Riguardo alla richiesta di riscontro delle interpellanze, si
osserva che anche tale materia dovrebbe essere disciplinata
dal regolamento sul funzionamento del consiglio comunale.
In ogni caso, il diritto in parola scaturisce direttamente
dall’articolo 43 del d.lgs. n. 267/2000 il quale al comma 1
prevede tra l’altro la possibilità di presentare
interrogazioni e mozioni, mentre al comma 3 stabilisce che
“il sindaco o gli assessori delegati rispondono, entro 30
giorni, alle interrogazioni e ad ogni altra istanza di
sindacato ispettivo (ivi comprese le interpellanze)
presentata dai consiglieri. Le modalità della presentazione
di tali atti e delle relative risposte sono disciplinate
dallo statuto e dal regolamento consiliare" (Ministero dell'Interno,
parere 04.03.2015 - link a http://incomune.interno.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI - SEGRETARI COMUNALI:
Quesito in ordine alla verbalizzazione delle
sedute del consiglio comunale.
Si fa riferimento alla nota sopradistinta con la quale
codesta Prefettura a seguito di richiesta del Segretario
generale del Comune di… ha posto un quesito in ordine alle
corrette modalità di verbalizzazione delle sedute di
consiglio comunale.
In particolare, atteso che l’ente non è dotato di
regolamento per il funzionamento del consiglio comunale e
considerato che lo statuto non reca indicazioni sulle
modalità di verbalizzazione, il Segretario, supplendo a tale
carenza, ha chiesto se sia corretta la procedura adottata
dallo stesso che consiste nella registrazione e trascrizione
integrale della discussione e la conseguente pubblicazione
all’albo pretorio on-line e sul sito web istituzionale.
Al riguardo, occorre premettere che l’adozione del
regolamento per il funzionamento del consiglio comunale è
riservata, ai sensi dell’art. 38, comma 2, del decreto
legislativo n. 267/2000, all’autonomia dell’ente.
Tale strumento, da adottare nel quadro dei principi
stabiliti dallo statuto, è necessario per il corretto
funzionamento del consiglio, proprio per l’ampia serie di
istituti da regolamentare, e per il superamento della
disciplina transitoria di cui all’art. 273, comma 6, del
citato decreto legislativo.
Nelle more di una disciplina autonoma, si evidenzia, così
come stabilito dal TAR Lazio, I Sez. con sentenza 10.10.1991, n. 1703, che “il verbale, …, non attiene al
procedimento deliberativo, che si esaurisce e si perfeziona
con la proclamazione del risultato della votazione, ma
assolve ad una funzione di mera certificazione dell’attività
dell’organo deliberante”.
Tale strumento “… ha l'onere di attestare il compimento dei
fatti svoltisi al fine di verificare il corretto "iter" di
formazione della volontà collegiale e di permettere il
controllo delle attività svolte, non avendo al riguardo
alcuna rilevanza l'eventuale difetto di una minuziosa
descrizione delle singole attività compiute o delle singole
opinioni espresse. D'altra parte deve aggiungersi che il
verbale della seduta di un organo collegiale, quale il
Consiglio comunale, costituisce atto pubblico che fa fede
fino a querela di falso dei fatti in esso attestati”
(Conforme Consiglio di Stato, Sez. IV, 25/07/2001, n. 4074).
Atteso che il Presidente del Consiglio comunale in base
all’articolo 39 del richiamato T.U.O.E.L. ha poteri di
convocazione e di direzione dei lavori e delle attività del
consiglio che potrebbero comportare la possibilità di
fornire istruzioni in merito opportunamente condivise dal
consiglio comunale, occorre considerare, tuttavia, che la “cura
delle verbalizzazioni” delle sedute del consiglio e
della giunta sono riservate, ai sensi dell’art. 97, comma 4,
del citato decreto legislativo n. 267/00, direttamente al
Segretario comunale (Ministero dell'Interno,
parere 20.01.2015 - link a http://incomune.interno.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Quorum strutturale per la seduta di seconda
convocazione del consiglio.
Si fa riferimento alla nota sopradistinta con la quale è
stato formulato un quesito riguardante il quorum strutturale
necessario per la validità delle sedute del consiglio
comunale in seconda convocazione, con particolare
riferimento ad un ente al quale siano stati assegnati dieci
consiglieri, escluso il sindaco, che non abbia ancora
provveduto ad adottare un’apposita disciplina regolamentare
in materia di quorum strutturale.
Com’è noto, l’art. 38, comma 2, del decreto legislativo n.
267/2000 demanda al regolamento comunale, “...nel quadro
dei principi stabiliti dallo statuto” la determinazione
del “numero dei consiglieri necessario per la validità
delle sedute”, con il limite che detto numero non può,
in ogni caso, scendere sotto la soglia del “terzo dei
consiglieri assegnati per legge all’ente, senza computare a
tale fine il sindaco e il presidente della provincia”.
Tale disposizione va letta in combinato disposto con l’art.
273, comma 6, del citato T.U.O.E.L. il quale detta una
disciplina transitoria che legittima l’applicazione, tra gli
altri, dell’art. 127 del T.U. n. 148/1915 fino all’adeguamento
statutario e regolamentare ai nuovi canoni previsti dal
richiamato decreto legislativo n. 267/2000 nella materia
considerata.
L’art. 127, comma 1, prevede che: “i consigli comunali non
possono deliberare se non interviene la metà del numero dei
consiglieri assegnati al comune; però alla seconda
convocazione, che avrà luogo in altro giorno, le
deliberazioni sono valide, purché intervengano almeno
quattro membri.”
Ciò posto, si rappresenta, comunque, l’opportunità che le
disposizioni statutarie e regolamentari in materia vengano
aggiornate alle richiamate norme di legge, al fine di
evitare ogni ulteriore dubbio interpretativo (Ministero dell'Interno,
parere 20.01.2015 - link a http://incomune.interno.it). |
NEWS |
INCARICHI PROFESSIONALI:
La
privacy blinda le consulenze. Gli enti non possono
pubblicare i dati dei collaboratori.
Il garante risponde al comune di Milano: vietato
introdurre nuovi obblighi di trasparenza.
Non si possono pubblicare sul sito ufficiale dei comuni i
dati patrimoniali dei consulenti e dei collaboratori
dell'ente. Non lo prevede la legge e, in mancanza, della
norma di rango superiore, un tale obbligo non può essere
introdotto neanche con un regolamento dell'amministrazione
locale. Al massimo si possono pubblicare solo informazioni
anonimizzate.
Lo ha chiarito il garante della privacy con il
provvedimento 25.06.2015 n. 377, con il quale ha
dato risposta al comune di Milano.
Il capoluogo lombardo ha chiesto al garante condizioni e
modalità di pubblicazione dei dati relativi allo stato
patrimoniale del personale dirigenziale con contratto a
tempo determinato, in relazione all'intendimento di
introdurre per via regolamentare l'obbligo di pubblicare via
web ulteriori informazioni relative ai dirigenti assunti con
incarico a tempo determinato, ai consulenti e collaboratori,
come per esempio i dati patrimoniali.
Il garante della privacy (provvedimento n. 377 del
25.06.2015, solo ora reso noto) ha risposto negativamente
per le seguenti ragioni.
La pubblicazione sul sito internet istituzionale
costituisce, ai sensi del codice della privacy, una
diffusione, la quale è possibile solo se l'operazione è
prevista da una norma di legge o di regolamento (articolo 19
del dlgs 196/2003).
E qui si pone il problema di verificare che cosa dice la
legge che disciplina la trasparenza amministrativa.
L'articolo 15 del dlgs n. 33/2013, nel disciplinare gli
obblighi di pubblicazione dei dati relativi ai titolari di
incarichi amministrativi di vertice, dirigenziali e di
collaborazione o consulenza, prevede la pubblicazione dei
soli redditi da lavoro a essi riferiti, in particolare, dei
compensi, comunque denominati, relativi al rapporto di
lavoro con specifica evidenza delle eventuali componenti
variabili o legate alla valutazione di risultato. Tale
disposizione non prevede la diffusione online dei dati
patrimoniali della dirigenza pubblica.
Secondo il garante se la legge non ha previsto nulla, vuol
dire che ha voluto vietare la pubblicazione, senza che si
possa sostenere, invece, che c'è un vuoto, che può essere
colmato dalla potestà normativa regolamentare.
Anzi disporre per via regolamentare un'ulteriore ipotesi di
diffusione di dati personali comporta la violazione del
citato articolo 19, comma 3, del codice, avendo appunto il
legislatore delegato, nell'esercizio della propria
competenza legislativa esclusiva, direttamente ed
esplicitamente delimitato le categorie dei soggetti con
riguardo ai quali devono essere pubblicate online le
informazioni relative allo stato patrimoniale.
Alla luce di ciò l'estensione, con norma regolamentare, non
può costituire idonea base normativa per la lecita
diffusione mediante pubblicazione dei dati relativi allo
stato patrimoniale riferiti ai dirigenti non di ruolo,
consulenti e collaboratori.
Gli enti locali e le pubbliche amministrazioni non possono,
quindi, introdurre nuovi obblighi di pubblicazione per
finalità di trasparenza con propri atti regolamentari
rispetto a quanto già disciplinato dal legislatore sui dati
patrimoniali con il decreto legislativo n. 33/2013. In caso
contrario si avrebbe una conseguenza illogica e cioè che la
privacy sarebbe tutelata in maniera diversa a seconda che un
ente pubblico abbia o meno stabilito diversamente con propri
regolamenti: si avrebbe quella che il garante definisce
differenziazione non solo del livello di trasparenza ma
anche, per l'effetto, di quello di protezione dei dati
personali sul territorio nazionale a seconda dell'area
geografica su cui insistono le competenze istituzionali
dell'amministrazione presso cui opera l'interessato ovvero,
più in generale, in base al criterio di residenza del
cittadino-utente.
Resta in ogni caso salvo, però, il principio in base al
quale l'eventuale pubblicazione di dati, informazioni e
documenti, che non si ha l'obbligo di pubblicare è legittima
solo procedendo alla anonimizzazione dei dati personali
eventualmente presenti
(articolo ItaliaOggi del 12.08.2015). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Relazione di inizio mandato per i nuovi sindaci.
Ai comuni che sono andati al voto in primavera rimangono
pochi giorni per perfezionare la relazione di inizio
mandato. Tale documento, infatti, deve essere sottoscritto
dal sindaco entro 90 giorni dall'insediamento. Per cui, la
dead-line è fissata al 29 agosto o al 13 settembre per le
amministrazioni elette dopo il ballottaggio.
La relazione di inizio mandato è stata prevista dall'art.
1-bis del dl 174/2012, attraverso l'introduzione dell'art.
4-bis del dlgs 149/2011.
In base a tale disciplina, la relazione (che deve essere
predisposta dal responsabile del servizio finanziario o dal
segretario generale) è volta a verificare la situazione
finanziaria e patrimoniale e la misura dell'indebitamento.
Essa, evidentemente, si collega alla relazione di fine
mandato presentata dall'amministrazione precedente.
Come quest'ultima, quindi, anche la prima mira a garantire
la trasparenza della spesa e l'accountability dei
poteri pubblici, oltre che a consentire la tempestiva
attivazione dei meccanismi di correzione dei conti. Sulla
base delle relative risultanze, infatti, i nuovi vertici,
ove ne sussistano i presupposti, possono decidere di
ricorrere alle procedura di riequilibrio finanziario
(cosiddetto pre-dissesto).
A differenza di quanto accaduto per la relazione di fine
mandato, per quella di inizio mandato non è stato approvato
uno schema di riferimento, per cui ogni ente è libero di
decidere quali dati e informazioni riportare e con quali
schemi. Al contrario di quanto accade per quella di fine
mandato, inoltre, la relazione di inizio mandato non deve
essere trasmessa alla sezione regionale di controllo della
Corte dei conti e per la sua mancata predisposizione non
sono previste sanzioni. Tuttavia, la magistratura contabile
vigila sul corretto adempimento dell'obbligo, anche
attraverso i suoi questionari.
La relazione di inizio mandato, invero, non è prevista dal
nuovo principio contabile applicato sulla programmazione
(allegato 4/1 del dlgs 118/2011), ma essa è evidentemente
collegata all'obbligo di cui all'art. 46, comma 3, del Tuel
(secondo cui «entro il termine fissato dallo statuto, il
sindaco o il presidente della provincia, sentita la giunta,
presenta al consiglio le linee programmatiche relative alle
azioni e ai progetti da realizzare nel corso del mandato»)
oltre che al Dup (che deve essere approvato entro il 31
ottobre).
Ricordiamo che, alla luce di quanto chiarito dalla sentenza
n. 219/2013 della Corte costituzionale, gli enti locali dei
territori a statuto speciale non sono soggetti all'obbligo
di redigere la relazione, a meno che ciò non sia previsto
dalla normativa regionale
(articolo ItaliaOggi del 12.08.2015). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Riforma Pa, addio alle piante organiche.
Apre il
cantiere del testo unico del pubblico impiego: assunzioni in
base a fabbisogni e budget.
Dopo un quinquennio
di blocco dei contratti e svariate reiterazioni degli stop
al turn-over, il sistema del lavoro pubblico nel 2016
dovrebbe varcare la soglia di una nuova programmazione. La
legge delega di riforma della Pa rilancia infatti il tema
delle assunzioni future sulla base dei fabbisogni delle
amministrazioni e non più partendo dai “vuoti” che si
sono determinati nelle dotazioni organiche.
Non si tratta di una questione nominalistica bensì di un
criterio di programmazione che dovrebbe correre in parallelo
con le nuove regole di coordinamento di bilancio introdotte
dalla legge 196/2009 (anch’essa una delega) in piena fase di
attuazione. I fabbisogni, calcolati sulla base delle
funzioni e soprattutto dei budget, sono già stati introdotti
in diverse amministrazioni centrali e ministeri dopo la
stagione dei tagli lineari e dovrebbero estendersi
progressivamente ad altri comparti, mentre nei criteri di
delega si parla ancora di «rideterminazione delle
dotazioni organiche» laddove il riferimento è alla
revisione dei ruoli e delle regole di reclutamento nelle
Forze di polizia.
Con i fabbisogni calcolati dai dirigenti responsabili del
personale su base triennale, la programmazione delle
assunzioni dovrebbe assumere una dinamica più prevedibile e
dovrebbe, soprattutto, coniugarsi meglio con la mobilità tra
diverse amministrazioni, altro strumento su cui la delega
punta molto. Nella legge Madia si prevede anche
l’introduzione di un sistema informativo nazionale per
l’orientamento delle assunzioni, che dovrebbe “girare”
insieme con il “portale della mobilità” attivato da
qualche mese dal Dipartimento Funzione pubblica.
Fabbisogni e mobilità, naturalmente, non esauriscono gli
strumenti di gestione del personale. Il futuro testo unico
dovrebbe limitare «a tassative fattispecie» il
ricorso a forme di assunzione con contratti flessibili, tra
cui i contratti di collaborazione coordinata e continuativa
sui quali già dall’anno scorso sono scattati vincoli di
spesa , e lo stesso varrà per i contratti a termine.
La regulation futura sulle assunzioni dovrà passare
per i cantieri già aperti (Province e città metropolitane) e
in fase di avvio (riduzione delle Prefetture e delle Camere
di commercio) che inevitabilmente produrranno nuovo
personale in soprannumero. Per non parlare, ma qui saremmo
fuori dal perimetro della Pa, del previsto taglio da 8mila a
mille delle società partecipate.
Si tratta di un sistema di società controllate in oltre il
90% dei casi da enti locali e in cui lavorano oltre 260mila
addetti (il costo di questo personale ha superato i 10,7
miliardi l’anno scorso, secondo la Corte dei conti). Qui gli
esuberi che si determineranno in virtù delle
razionalizzazioni andranno gestiti con ammortizzatori
sociali in deroga (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.08.2015). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Più
efficienza nel recupero del danno erariale.
L’attuazione. Spetta ai decreti definire il confine tra
«indirizzo politico» e «attività gestionale»: solo per
questa i vertici amministrativi potranno essere chiamati a
rispondere davanti alla Corte dei conti.
Uno dei nodi più intricati che dovranno essere sciolti dai
decreti attuativi della riforma Madia riguarda la
separazione fra «indirizzo politico-amministrativo»,
compito di sindaci, presidenti, ministri e così via, e «attività
gestionale», che è il compito dei dirigenti. Dal modo in
cui si traccerà il confine fra i due ambiti dipende una
bella fetta del destino della dirigenza pubblica nella
Pubblica amministrazione riformata, soprattutto per il fatto
che la stessa delega prevede che solo i dirigenti potranno
finire davanti alla Corte dei conti quando saranno in
discussione eventuali danni erariali causati dall’«attività
gestionale».
Sull’«esclusiva imputabilità ai dirigenti» per
l’attività gestionale si era scaldata la polemica in
primavera; Governo e maggioranza avevano anche studiato
correttivi che poi hanno deciso di accantonare, sostenendo
che la norma ha ricadute favorevoli nel senso di evitare ai
dirigenti il rischio di dover rispondere della mera
esecuzione di scelte politiche.
Opposta la lettura dei
critici, secondo i quali «l’esclusiva imputabilità ai
dirigenti» finirebbe per mettere al riparo i politici
dalle responsabilità per fatti gestionali su cui spesso
incidono direttamente. Il tema è delicato anche perché, a
seconda delle scelte che saranno compiute in autunno con i
decreti attuativi, potrebbe cadere anche una serie di
procedimenti contabili avviati con le regole attuali.
Il problema nasce dal fatto che le sovrapposizioni fra la
sfera di azione dei vertici amministrativi e quella dei
politici sono molte, e tendono a crescere man mano che si
scende nella scala dei livelli di governo. Eventuali nomine
illegittime negli uffici di staff di persone che non hanno
in curriculum i titoli necessari, per esempio, sono
una scelta del politico, ma rientrano in pieno anche nella
gestione.
In molte città, da Roma a Milano per citare solo le
maggiori, negli anni scorsi è esploso il problema dei
contratti integrativi fuori norma, che hanno prodotto
indennità illegittime a favore dei dipendenti. La firma dei
contratti integrativi è uno dei grandi classici nella “gestione”
delle amministrazioni, ma i politici siedono al vertice
della delegazione di parte pubblica che tratta con i
sindacati per la definizione delle intese.
Dove finisce, in questo caso, l’indirizzo politico, e dove
comincia l’attività gestionale? Poco più di un mese fa la
Corte dei conti del Veneto -spiegando che la “sanatoria”
tentata lo scorso anno non cancella la responsabilità
erariale a carico di chi ha danneggiato i conti pubblici
firmando contratti decentrati troppo generosi- ha negato la
possibilità di applicare in questo caso l’«esimente
politica», cioè la norma che già esiste e che evita a
sindaci e assessori il rischio di dover rispondere di scelte
dirigenziali.
In fatto di Corte dei conti, comunque, la delega non si
occupa solo di ridefinire la geografia delle responsabilità,
ma prova anche a risolvere uno dei problemi più gravi del
processo contabile, legato al fatto che le condanne, anche
se pronunciate in via definitiva, spesso non vengono
eseguite. Le relazioni annuali dei Procuratori generali
presso la Corte ricordano spesso che il tasso di esecuzione,
cioè la quota dei danni erariali “restituiti” dai
colpevoli, oscilla fra il 15 e il 20%, e spiegano anche il
motivo: l’azione della Corte si ferma al momento della
condanna, dopo di che tocca all’amministrazione danneggiata
recuperare la somma prevista nella sentenza. Gli enti, però,
spesso non si rivelano troppo attenti a recuperare le somme
dai loro amministratori, e quindi la
condanna si perde: per provare a superare questo problema,
la delega chiede che questi crediti rientrino fra i «privilegiati»,
e assegna al Pm contabile la titolarità dell’azione davanti
al giudice civile per l’esecuzione.
Sempre con l’obiettivo di aumentare un po’ gli incassi,
inoltre, i decreti attuativi dovranno disciplinare il «rito
abbreviato»: gli imputati che lo chiederanno in primo
grado non potranno subire condanne superiori al 50% del
danno contestato, mentre se la richiesta arriva in appello
il tetto sale al 70% (si veda anche Il Sole-24 Ore del 6
agosto)
(articolo Il Sole 24 Ore dell'11.08.2015). |
SICUREZZA LAVORO:
Lavori
brevi, torna il coordinatore. Andrà verificata anche
l’idoneità tecnica professionale dell’appaltatore.
Prevenzione. Con il via libera alla legge comunitaria
eliminate le semplificazioni previste dal Dl 69/2013.
Ritorna ad essere più ampio il campo di
applicazione del Testo unico sulla salute e sicurezza nei
luoghi di lavoro (Dlgs 81/2008). Dal 18 agosto prossimo,
infatti, ai cantieri temporanei o mobili si applicheranno le
disposizioni di cui al Titolo IV secondo il testo precedente
all’articolo 32 del “decreto del fare” e saranno quindi
esclusi solo i «lavori relativi a impianti elettrici, reti
informatiche, gas, acqua, condizionamento e riscaldamento
che non comportino lavori edili o di ingegneria civile di
cui all’allegato X», senza che possa essere applicata alcuna
deroga per i lavori di breve durata (non superiori a 10
uomini-giorno).
Per il committente di lavori di breve durata tornano dunque
alcuni obblighi previsti dall’articolo 90 del Testo unico,
come la nomina del coordinatore per l’esecuzione del
relativo piano, la verifica della idoneità tecnica
professionale dell’appaltatore e del possesso del Durc da
parte di quest'ultimo.
La semplificazione introdotta dal Dl 69/2013 è stata
abrogata dall’articolo 16 della “comunitaria” per il
2014, approvata con legge del 29.07.2015 che entrerà in
vigore il 18 agosto. L’iniziativa è stata assunta dal
Consiglio dei ministri del 3 marzo scorso il quale ha
approvato un disegno di legge per chiudere 11 procedure di
infrazione e 7 Casi Eu Pilot. Tra questi ultimi figurava l’Eu
Pilot 6155/14/Empl, che aveva censurato le disposizioni
introdotte da “Decreto del fare” 69/2013, il quale
prevedeva la semplificazione delle procedure di sicurezza
sul lavoro nei cantieri temporanei e mobili di cui al Titolo
IV del Testo unico.
Va premesso che è l’articolo 88 del Testo unico a
individuare il campo di applicazione delle disposizioni per
la tutela della salute e per la sicurezza dei lavoratori nei
cantieri temporanei o mobili. In particolare, il comma 2
definisce le attività a cui le disposizioni del citato
Titolo IV non si applicano.
Nel frattempo, già l’articolo 57 del Dlgs 106/2009 era
intervenuto sull’argomento, inserendo al comma 2, le lettere
g-bis) e g-ter). In particolare, la lettera g-bis) prevedeva
l’esclusione dal campo di applicazione del Titolo IV, i «lavori
relativi ad impianti elettrici, reti informatiche, gas,
acqua, condizionamento e riscaldamento che non comportino
lavori edili o di ingegneria civile di cui all’allegato X»
(in cui sono elencati i lavori edili o di ingegneria civile
che definiscono il cantiere temporaneo o mobile).
Successivamente l’articolo 32, comma 1, lettera g), del Dl
69/2013, ampliando la deroga, ha però escluso
dall’applicazione delle norme di sicurezza per i cantieri
temporanei e mobili tutti i «lavori relativi a impianti
elettrici, reti informatiche, gas, acqua, condizionamento e
riscaldamento, nonché i piccoli lavori la cui durata
presunta non è superiore a dieci uomini-giorno, finalizzati
alla realizzazione o alla manutenzione delle infrastrutture
per servizi, che non espongano i lavoratori ai rischi di cui
all’allegato XI», il quale si riferisce ad attività meno
frequenti riguardanti lavori comportanti rischi particolari.
L’iniziativa adottata dal “decreto del fare”, seppure
meritevole di attenzione in quanto sollevava il committente
di lavori edili di breve durata dai vari adempimenti, anche
burocratici, previsti sempre dal Titolo IV del Testo unico,
contrastava tuttavia con la definizione data dall’articolo
2, lettera a), della Direttiva base 92/57/CEE (cosiddetta
Direttiva cantieri) in ottemperanza alla quale è stato
emanato il Dlgs 494/1996, poi trasfuso nel Titolo IV del
Testo unico.
Questa direttiva, nel richiamare l’allegato I, faceva
riferimento ad un elenco non esauriente, lasciando quindi
intendere che il campo di applicazione avrebbe potuto subire
un ampliamento e non una restrizione o limitazione, come
invece ha fatto l’articolo 32 del “Decreto del fare”,
prevedendo un’ipotesi di esclusione riferita alla durata
(dieci uomini-giorno), non prevista dalla direttiva sopra
richiamata, la quale avrebbe dovuto trovare applicazione
invece in tutti i tipi di “cantiere temporaneo o mobile”,
prescindendo da una qualsiasi durata e qualsivoglia
tipologia di rischio (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.08.2015). |
ENTI LOCALI - VARI:
Autovelox a raggio più ampio Rilevati i veicoli
dopo il passaggio.
Meglio non accelerare repentinamente subito dopo aver
superato una pattuglia dei vigili muniti di un sistema a
puntamento laser per il controllo della velocità dei
veicoli. Con lo sviluppo della tecnologia infatti questi
autovelox necessariamente presidiati sono in grado di
documentare l'infrazione anche in fase di allontanamento.
E la multa può essere regolarmente spedita per posta al
domicilio del trasgressore.
Lo ha chiarito il Ministero delle infrastrutture e dei
trasporti con il parere 27.07.2015 n. 3786.
Un comune friulano ha richiesto chiarimenti sull'impiego di
sistemi per il controllo della velocità con rilevamento
laser, ovvero, se questi strumenti regolarmente omologati e
tarati possono essere utilizzati dalla polizia locale sia in
fase di avvicinamento che di allontanamento del veicolo che
supera i limiti di velocità.
A parere dell'organo tecnico nulla osta all'utilizzo dei
sistemi a puntamento laser da parte della polizia stradale
sia in fase avvicinamento dei veicoli che in fase di
allontanamento del trasgressore. In ogni caso i nuovi
modelli di misuratori laser in commercio forniscono immagini
chiare della violazione e documentano l'infrazione
accertata.
Questa documentazione può quindi essere utilizzata per la
contestazione immediata della violazione oppure per la
notifica successiva del verbale al domicilio del
trasgressore, purché i dispositivi siano impiegati sempre
con la presenza costante degli organi di vigilanza.
In buona sostanza, tali sistemi elettronici rientrano tra
quelli individuati dall'art. 201, comma 1-bis, lettera e),
del codice stradale «per i quali non è imposta la
contestazione immediata purché ricorrano le condizioni
previste dalla stessa lettera e), ovvero consentono la
determinazione dell'illecito in tempo successivo perché il
veicolo oggetto del rilievo è a distanza dal posto di
accertamento o comunque nell'impossibilità di essere fermato
in tempo utile e nei modi regolamentari».
Le multe valgono anche se il fotogramma riprende solo il
veicolo che si allontana a tutto gas
(articolo ItaliaOggi dell'11.08.2015). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Albo
pretorio al canto del cigno. Obblighi di trasparenza, vanno
eliminate le duplicazioni.
La riforma della p.a. razionalizza gli
adempimenti previsti dalla legge anticorruzione.
Albo pretorio da eliminare, sostituito dalle regole di
pubblicazione dei provvedimenti stabiliti dalla normativa
sulla trasparenza.
La legge delega di riforma della pubblica amministrazione
approvata nei giorni scorsi tra i suoi elementi di maggior
rilievo contiene anche una serie di criteri per rivedere e
aggiornare i contenuti del dlgs 33/2013, la norma che regola
la trasparenza in applicazione della legge anticorruzione.
Non c'è alcun dubbio che, come ha avuto modo di rilevare più
volte anche la stessa Anac, il dlgs 33/2013 abbia introdotto
una quantità eccessiva di obblighi di pubblicazione, dando
vita a una serie di adempimenti che hanno trasformato la
trasparenza, spesso, in mero adempimento burocratico, per
altro con ridondanza e ripetitività delle informazioni da
pubblicare.
Non è un caso che tra i criteri di riforma indicati dalla
legge Madia vi sia quello della «razionalizzazione e
precisazione degli obblighi di pubblicazione nel sito
istituzionale, ai fini di eliminare le duplicazioni e di
consentire che tali obblighi siano assolti attraverso la
pubblicità totale o parziale di banche dati detenute da
pubbliche amministrazioni»: un modo per dire che gli
adempimenti sono da ridurre e da rendere più semplici.
Tra le duplicazioni che appesantiscono le attività
amministrative e rendono piuttosto confusa l'operatività, è
clamorosa quella relativa agli obblighi di pubblicazione dei
provvedimenti e degli atti amministrativi all'albo pretorio.
L'articolo 32 della legge 69/2009 ha introdotto l'albo
pretorio «online» (la cui effettiva attivazione ha
incontrato enormi problemi tecnici e operativi), allo scopo
di obbligare le amministrazioni a utilizzare questo
strumento di pubblicità telematica per adempiere a tutti gli
obblighi di pubblicazione di atti e provvedimenti aventi
effetto di pubblicità legale.
Il dlgs 33/2013 contiene, tuttavia, una serie di adempimenti
in tutto simili: all'articolo 15 impone di pubblicare gli
estremi degli incarichi professionali e dirigenziali;
all'articolo 19 i bandi di concorso; all'articolo 23 si
impone l'obbligo di pubblicare un elenco contenente alcuni
estremi dei provvedimenti amministrativi relativi a
concessioni e autorizzazioni, appalti, concorsi e accordi
stipulati con soggetti pubblici o privati; gli articoli 26 e
27 dettagliano le pubblicazioni dei provvedimenti di
assegnazione di contributi e vantaggi economici; l'articolo
37 richiama le già ridondanti norme di pubblicità contenute
dalla legge 190/2012 in tema di appalti; gli articoli 38 e
39 regolano la pubblicità della pianificazione delle opere
pubbliche e del governo del territorio; l'articolo 42
prevede la pubblicazione dei provvedimenti adottati per
interventi straordinari e di emergenza che comportano
deroghe alla legislazione vigente.
La gran parte dei provvedimenti da pubblicare per solo
estratto o integralmente indicati dalle norme viste prima
debbono anche trovare spazio nell'albo pretorio. Chiedersi
che senso abbia la duplicazione della procedura è ovvio e
doveroso. Duplicazione che, per altro, molte volte crea
confusione, anche ai fini dell'accesso. Nell'albo pretorio
si pubblicano i testi dei provvedimenti ai fini della loro
pubblicità legale, ma per una durata di 10 giorni; ai fini
del dlgs 33/2013 i provvedimenti in alcuni casi si
pubblicano integralmente, in altri per elenco e alcuni
estremi e la loro durata di pubblicazione è normalmente di
cinque anni.
Appare inevitabile, ai fini della razionalizzazione
richiesta dalla legge delega, concentrare e ridurre le tante
pubblicazioni indicate sopra. La cosa sarebbe di una
semplicità estrema: basterebbe abbandonare per sempre l'albo
pretorio, e prevedere la pubblicazione dell'intero contenuto
dei provvedimenti amministrativi in una specifica voce della
sezione «amministrazione trasparente» di ciascun
portale, creando un indice della tipologia dei provvedimenti
da pubblicare.
Con l'attribuzione a tali pubblicazioni del valore di
pubblicità legale, l'albo pretorio potrebbe andare
definitivamente in naftalina e, con esso, la confusione
delle operazioni tecniche e della gestione (articolo
ItaliaOggi dell'11.08.2015). |
ENTI
LOCALI:
Province, i bilanci annuali sono solo una
facoltà.
La previsione del decreto enti locali che consente agli enti
di area vasta di approvare per il 2015 un bilancio solo
annuale, anziché triennale come previsto dalla normativa
ordinaria, è da intendersi come facoltizzante e non
vincolante. Rimangono validi, quindi, gli atti già adottati
in applicazione dell'ordinamento contabile.
È in questa l'interpretazione dell'art. 1-ter del dl 78/2015
fornita nelle note di lettura diffuse sia dall'Upi che da
Anci-Ifel per illustrare le novità del provvedimento.
Tale norma, rubricata «Predisposizione del bilancio di
previsione annuale 2015», al comma 1, dispone che: «Per
il solo esercizio 2015, le province e le città metropolitane
predispongono il bilancio per la sola annualità 2015».
Il dubbio nasceva dal fatto che, nel linguaggio legislativo,
un simile utilizzo del modo indicativo («predispongono»)
di solito denota la presenza di un obbligo e non di una mera
facoltà. In tal caso, tale lettura parrebbe confermata a
contrario dal comma 2, laddove si prevede che gli enti di
area vasta «possono» applicare in sede di
approvazione del bilancio l'avanzo destinato.
Nel comma 3 si torna di nuovo all'indicativo-imperativo («le
province e le città metropolitane deliberano i provvedimenti
di riequilibrio entro e non oltre il termine di approvazione
del bilancio di previsione. Nel caso di esercizio
provvisorio o gestione provvisoria per l'anno 2016 applicano
l'articolo 163 del Tuel con riferimento al bilancio di
previsione definitivo approvato per l'anno 2015»).
La lettura di Upi e Anci-Ifel, tuttavia, valorizza il fine
perseguito dal legislatore, che è quello di attribuire una
facoltà agli enti in ragione delle eccezionali difficoltà
connesse alla transizione ordinamentale in corso,
assicurando comunque la validità degli atti di bilancio già
adottati con riferimento al triennio 2015-2017 in base alla
normativa ordinaria.
In altri termini, le amministrazioni che hanno già varato il
previsionale triennale non devono tornare sui propri passi.
Un altro chiarimento utile riguarda l'art. 4, comma 4, del
dl 78/2015, che ha introdotto un correttivo alle modalità di
computo dei tempi medi di pagamento escludendo i pagamenti
effettuati mediante l'utilizzo delle anticipazioni di cassa
o degli spazi finanziari previsti dal dl 35/2013.
Tale criterio si intende applicabile anche ai pagamenti che
interverranno dal 2015 attraverso il ricorso alla liquidità
aggiuntiva disposta dall'art. 8 dello stesso dl 78 (articolo
ItaliaOggi dell'11.08.2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
Pagella
verde con regole uniche. Dal 1° ottobre il rilascio dell’Ape
avverrà secondo criteri fissati su base nazionale.
Efficienza. I Dm del 26 giugno considerano anche il
raffrescamento, la ventilazione e, nel non abitativo,
l’illuminazione e gli ascensori.
Dal 1° ottobre cambia la modalità per il
rilascio dell’attestato di prestazione energetica (Ape) di
un edificio o di un’unità immobiliare.
La novità discende da tre decreti ministeriali del
26.06.2015, firmati dal ministro allo Sviluppo Economico,
Federica Guidi, e dai colleghi di altri quattro ministeri
coinvolti (Infrastrutture, Ambiente, Difesa e
Semplificazione): gli atti sono pubblicati sulla Gazzetta
Ufficiale 162 del 15.07.2015 e riguardano, rispettivamente,
l’attuazione della direttiva europea 2010/31/Ue (e della
legge 90/2013 in Italia) per ciò che riguarda i requisiti
minimi e le modalità di calcolo del rendimento energetico
degli edifici, il rilascio del relativo attestato di
certificazione e la compilazione della relazione tecnica di
progetto che attesta la rispondenza dello stesso alle
prescrizioni per il contenimento dei consumi.
Parametri e metodologia
Oggi l’Ape (ancora compilato nella pratica come un vecchio
Ace o attestato di certificazione) tiene conto del solo
fabbisogno richiesto per garantire il riscaldamento e la
produzione di acqua calda sanitaria. Dal 1° ottobre saranno,
invece, considerati tutti i servizi energetici presenti
nell’edificio: riscaldamento, acqua calda sanitaria,
raffrescamento, ventilazione, e, per il non residenziale,
illuminazione e sistemi di trasporto (ascensori e scale
mobili).
Per illustrare la prestazione in modo immediato agli utenti,
saranno impiegate icone ed emoticon.
Per ciò che riguarda la determinazione dei requisiti di
rendimento energetico, la principale novità è l’introduzione
del cosiddetto fabbricato di riferimento. Dal 1° ottobre la
performance di una casa o un alloggio sarà ricavata
confrontando l’unità con una sorta di fabbricato “ombra”,
in tutto e per tutto analogo al progetto reale, ma composto
in condizioni ottimali tenendo conto anche della forma e
della ubicazione climatica. A seconda delle differenze che
emergeranno dal paragone sarà assegnata la classe di merito.
I contenuti e le 10 classi
L’Ape sarà suddiviso in cinque pagine e, oltre alla
fotografia e ai dati dell’edificio, conterrà
obbligatoriamente -pena l’invalidità- la prestazione
energetica globale (espressa sia in termini di energia
primaria totale che di energia primaria non rinnovabile), la
classe energetica, la qualità energetica del fabbricato per
il riscaldamento e raffrescamento, i valori di riferimento a
norma di legge, le emissioni di anidride carbonica,
l’energia esportata e le raccomandazioni su come sia
possibile migliorare la situazione di partenza e su quali
siano le proposte di intervento più convenienti da eseguire.
Come già in passato, la performance complessiva
dell’immobile (oppure della singola unità) sarà indicata
mediante l’uso di lettere, che vanno dalla A (massimo
livello prestazionale) alla G (il livello meno virtuoso). I
livelli complessivi saranno 10: i primi quattro faranno
tutti riferimento alla lettera A, con quattro gradazioni: da
A4 (il più efficiente) ad A1.
Le norme regionali
Grande novità introdotta dal Decreto e dalle linee guida è
la decisione di riportare su tutto il territorio nazionale a
un’applicazione omogenea del sistema di attestazione
energetica, dopo le fughe in avanti degli anni passati da
parte di alcune Regioni. Ciò significa che dal 1° ottobre
gli edifici saranno classificati sulla base di uno stesso
metro di valutazione. Solo le Regioni che hanno recepito
interamente la direttiva Ue (pur invitate a conformarsi
entro due anni) potranno mantenere un proprio sistema: è il
caso della Provincia di Bolzano, che non intende rinunciare
a CasaClima, e di quella di Trento, che sta verificando la
possibilità di seguire una propria direzione.
Il sistema informativo
Dal gennaio 2016 l’Enea dovrà realizzare e attivare una
banca dati nazionale, denominata Siape, per raggruppare in
un solo database tutti gli attestati rilasciati sul
territorio nazionale. Il sistema sarà studiato in modo da
dialogare con i vari elenchi regionali: non solo quelli
degli Ape, ma anche i catasti degli impianti termici.
Controlli e verifiche
Se fino ad oggi i controlli, pur previsti, sono partiti
nelle Regioni solo in via sperimentale e in genere a
campione, ora le verifiche scatteranno d’obbligo su almeno
sul 2% degli attestati rilasciati e a partire dalle targhe
energetiche che dichiarano classi più efficienti. I
certificati falsi saranno invalidati, e per il progettista
scatteranno severe sanzioni sia amministrative che
disciplinari (fissate dall’articolo 15 del Dlgs 192/2005).
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I vecchi attestati restano validi per
dieci anni. La transizione. Passaggio graduale.
La buona
notizia è che, se dal 1° ottobre scatterà la nuova
legislazione per la compilazione dell’attestato di
prestazione energetica, chi ha già in suo possesso un Ape in
corso di validità (anche rilasciato secondo uno dei sistemi
in vigore oggi sui vari territori regionali) non dovrà
chiederne il rifacimento. Almeno fino alla naturale
scadenza. Così come in passato, la targa energetica
continuerà a valere fino a un massimo di dieci anni, a
partire dalla data di rilascio.
Naturalmente tutto questo a precise condizioni. Se, infatti,
dopo il rilascio dell’Ape da parte di un professionista, il
fabbricato o l’appartamento oggetto dello screening viene
coinvolto in un intervento di ristrutturazione o di
riqualificazione che riguardi «elementi edilizi o
impianti tecnici in maniera tale da modificare la classe
energetica dell’edificio o dell’unità immobiliare»,
allora concluso il cantiere l’attestato non ha più validità.
In caso di affitto o di compravendita sarà, dunque, da
rifare.
Novità, inoltre, dei Dm del 26.06.2015 (già introdotta in
passato, ma ora fissata in modo incontrovertibile) è che
l’Ape cessa il suo corso anche quando il proprietario o
l’inquilino di un immobile non sottopone alle manutenzioni
periodiche gli impianti tecnici e in particolare di quelli
termici. Ispezioni che –quelle di efficienza energetica–
sono obbligatorie a livello nazionale secondo quanto
prescritto dal Dpr 74/2013 ogni quattro anni per gli
impianti “domestici”, dai 10 kW ai 100 kW e ogni due
per le potenze immediatamente superiori. Anche se, a seconda
della Regione in cui è ubicato l’appartamento, è necessario
fare riferimento a ciò che prescrive la disciplina
regionale, visto che sulla tempistica quasi tutti i
territori (anche quelli che hanno recepito con atto
esplicito il decreto statale) seguono propri termini, in
genere biennali.
Quale che si sia la norma locale di riferimento, in caso di
inadempienza, «l’Ape decade il 31 dicembre dell’anno
successivo a quello in cui è prevista la prima scadenza non
rispettata». I libretti di impianto vanno allegati
all’Ape (in formato cartaceo o elettronico), così come in
Lombardia, Emilia Romagna o Veneto, l’Ape deve essere
allegato, quando c’è, al libretto.
Per chi dovrà rifare la targa energetica per naturale
scadenza o mancata manutenzione degli impianti, uno dei
risvolti possibili sarà che nel passaggio dal sistema
regionale a quello unico nazionale potrebbero verificarsi
dei “salti” di classe: ad esempio, da classe F a G, o
magari al contrario, in senso migliorativo. Infine, il
raffronto con l’edificio di riferimento potrebbe comportare,
in uno stesso palazzo -ma a fronte di caratteristiche
differenti, anche per la disposizione degli spazi– ad avere
due appartamenti con gradi di “merito” diversi
(articolo Il Sole 24 Ore del
10.08.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Scia,
stop all’attività entro 60 giorni. Ma l’intervento in
autotutela è sempre possibile se ci sono le condizioni per
l’annullamento.
Riforma Pa. Le regole subito operative della legge Madia
modificano limiti e scadenze per l’esercizio dei poteri di
controllo sulle autorizzazioni.
La legge delega per
la riorganizzazione della Pa contiene anche norme ad
efficacia immediata. L’articolo 6 (rubricato «Autotutela
amministrativa») contiene modifiche in tema di Scia e
una serie di riscritture degli articoli 21, 21-quater e
21-nonies della legge 241/1990.
Sulla Scia, si prevede che l’amministrazione debba
procedere, in caso di accertata carenza di requisiti, con
l’adozione del provvedimento che vieta la prosecuzione
dell’attività segnalata ordinando l’eventuale rimozione
degli effetti dannosi. Il provvedimento deve essere adottato
«nel termine di 60 giorni dal ricevimento della
segnalazione».
A questo, si aggiunge l’obbligo della Pa «qualora sia
possibile conformare l’attività intrapresa e i suoi effetti
alla normativa vigente» di invitare il privato con atto
motivato a provvedere, disponendo la sospensione
dell’attività avviata. Con questo provvedimento,
l’amministrazione deve indicare «le misure necessarie»
fissando «un termine non inferiore a 30 giorni» per
l’adozione. In caso di inadempimento del privato «decorso
il termine, l’attività si intende vietata». Rispetto
alla vecchia norma viene meno anche il richiamo stereotipato
alle conseguenze per il privato in caso di dichiarazioni
mendaci.
Viene riscritto inoltre l’articolo 19, comma 4, sulle
condizioni legittimanti l’intervento in autotutela
dell’amministrazione una volta scaduto il termine dei 60
giorni.
La norma contingentava le possibilità di intervento,
sostanzialmente, alle situazioni di pericolo di «danno
per il patrimonio artistico e culturale, per l’ambiente, per
la salute, per la sicurezza pubblica o la difesa nazionale e
previo motivato accertamento dell’impossibilità di tutelare
comunque tali interessi mediante conformazione dell’attività
dei privati alla normativa vigente».
Con la riscrittura si prevede che in caso di decorso del
termine di 60 giorni dalla segnalazione (o di 30 giorni per
la Scia in edilizia) «l’amministrazione competente adotta
comunque i provvedimenti» di divieto e ripristino «in
presenza delle condizioni previste dall’articolo 21-nonies»
per l’annullamento d’ufficio.
Un altro intervento (articolo 6, comma 1, lettera b) adegua
il riferimento alla «denuncia» contenuto all’articolo
21, comma 1, della legge 241/1990 sulle sanzioni
amministrative, sostituendolo con l’espressione più adeguata
di «segnalazione» e abroga il comma 2 in cui si
disponeva l’applicazione delle sanzioni a chi diano inizio
all’attività «in mancanza dei requisiti richiesti o,
comunque, in contrasto con la normativa vigente».
Importanti sono le novità su efficacia ed esecutività del
provvedimento. Il legislatore contingenta il potere di
sospensione della Pa disponendo che il la sospensione non
possa essere disposta o perdurare «oltre i termini per
l’esercizio del potere di annullamento», quindi non
oltre i termini per poter agire con l’annullamento
d’ufficio.
Ma nuove regole intervengono anche sulla prerogativa di
annullare i provvedimenti amministrativi illegittimi. Con le
vecchie regole l’annullamento doveva avvenire «entro un
termine ragionevole» mentre ora, in relazione alla
tipologia di provvedimenti di autorizzazione o di
attribuzione di vantaggi economici, deve comunque avvenire
–secondo il nuovo inciso- in un periodo «non superiore a
18 mesi dal momento dell’adozione dei provvedimenti (…),
inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato»
grazie al silenzio assenso (articolo 20 della legge
241/1990).
Viene innestato un comma 2-bis nell’articolo 21–nonies che
ammette la possibilità di annullare il provvedimento
illegittimo anche oltre i 18 mesi nel caso di «provvedimenti
amministrativi conseguiti sulla base di false
rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di
certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per
effetto di condotte costituenti reato, accertate con
sentenza passata in giudicato, (…) fatta salva
l’applicazione delle sanzioni penali nonché delle sanzioni
previste dal capo VI del Dpr 445/2000».
Viene, inoltre abrogato il comma 136 dell’articolo 1 della
legge 311/2004, che contemplava la possibilità di annullare
sine die (purché ancora in corso di esecuzione) i
provvedimenti amministrativi illegittimi per risparmi o
minori oneri finanziari (articolo Il Sole 24 Ore del
10.08.2015). |
ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI:
Trasparenza, obblighi tagliati per i Comuni più piccoli.
Anticorruzione. Gli obiettivi fissati per i
decreti legislativi.
Una delle deleghe
rilevanti previste dalla riforma Madia riguarda la «semplificazione»
delle norme su anti-corruzione e trasparenza (articolo 7).
Nel mirino è in particolare il Dlgs 33/2013, che ha cercato
di cambiare l’approccio della Pa rispetto a precise esigenze
di trasparenza imponendo la pubblicazione di una serie di
atti e dati, introducendo anche forme di accesso civico
azionabile senza nessuna formalità, senza motivazione e,
soprattutto, senza alcun onere.
In primo luogo, gli interventi correttivi dovranno essere
realizzati attraverso una precisazione dell’ambito
soggettivo degli obblighi sulla trasparenza, questione
spesso sottoposta all’Anac.
Nel percorso delineato dalla legge delega sulla valutazione
si ritiene debbano essere oggetto di considerazione «le
fasi dei procedimenti di aggiudicazione ed esecuzione degli
appalti pubblici; il tempo medio di attesa per le
prestazioni sanitarie di ciascuna struttura del Servizio
sanitario nazionale; il tempo medio dei pagamenti relativi
agli acquisti di beni, servizi, prestazioni professionali e
forniture, l’ammontare complessivo dei debiti e il numero
delle imprese creditrici, aggiornati regolarmente; le
determinazioni dell’organismo di valutazione».
Piuttosto rilevante è la richiesta di un intervento
specifico per la riduzione degli oneri sulla Pa. La
previsione di obblighi indistinti per ogni Pubblica
amministrazione a prescindere dalle dimensioni e dalla
popolazione interessata (nei casi dei Comuni) –al netto di
qualche eccezione– rende gli adempimenti problematici
soprattutto nelle piccole realtà e oggettivamente
sproporzionati rispetto alle esigenze, pur rilevantissime,
sottese al decreto trasparenza ed alla legge anticorruzione
(legge 190/2012).
In questo senso, la lettera e) dell’articolo prevede
espressamente la riduzione degli obblighi di pubblicazione
eliminando le duplicazioni imponendo inoltre al Governo una
chiara «individuazione dei soggetti competenti
all’irrogazione delle sanzioni per la violazione degli
obblighi di trasparenza». Incombenza oggi rimessa all’Anac
azionata dalla segnalazione del responsabile per la
trasparenza (in certi casi dall’Oiv) che deve essere
nominato in ogni ente.
Nell’ambito della delega si ritorna anche su una questione
attualissima relativa al piano anticorruzione, cioè la
necessità di precisare meglio i contenuti e il procedimento
di adozione, non solo del piano nazionale ma –soprattutto–
dei piani dei singoli enti e dei compiti del responsabile
della prevenzione della corruzione che oggi coincide con il
segretario comunale.
Anche in questo caso si ribadisce l’esigenza di una
semplificazione e differenziazione delle misure da adottare
–e degli adempimenti– a seconda dei settori e delle
dimensioni.
Si richiede inoltre, e ciò appare effettivamente di rilievo,
un maggiore e concreto coordinamento con gli strumenti di
misurazione e valutazione della performance dei
dirigente/responsabili di servizio e pertanto dell’intera
struttura dell’ente con revisione e precisazione di ruoli e
responsabilità (articolo Il Sole 24 Ore del
10.08.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Sanzioni
disciplinari con tempi più certi.
Personale. Per il reclutamento concorsi su base
nazionale.
L'articolo 17 della
riforma della Pa individua la disciplina che i decreti
legislativi dovranno adottare in materia di lavoro. È
previsto un termine di 18 mesi e la mole di interventi è
davvero ampia, visto che si passa dalla revisione delle
procedure di accesso, dal procedimento disciplinare e dal
riordino del controllo sulle assenze dei dipendenti, per
giungere a una riscrittura delle norme su valutazione e
merito.
I concorsi non saranno più quelli di una volta. Vengono
riscritte le procedure, prevedendo concorsi centralizzati
con prove territoriali; cambiano le modalità di espletamento
delle prove, valorizzando anche le capacità operative dei
concorrenti, per i quali è stato abolito il requisito del
voto minimo di laurea; viene creato un sistema informativo
nazionale per orientare la programmazione delle assunzioni.
Con una serie di successivi interventi, si presterà
attenzione al ricambio generazionale, ipotizzando la
possibilità di riduzione su base volontaria dell'orario di
lavoro del personale vicino alla pensione, e arriveranno
regole per il progressivo superamento della dotazione
organica come limite alle assunzioni, anche per facilitare
la mobilità. Per prevenire il precariato verrà riscritta la
revisione delle forme di lavoro flessibile.
La riforma si occupa anche di chi è già nella Pa, con le
semplificazioni previste in materia di valutazione, merito e
premialità. Ancora una volta, come già nella riforma
Brunetta, si pone l'accento su due valutazioni, quella
individuale e quella di ente. Per quest'ultima si creeranno
standard di riferimento e confronto per valutare i servizi
erogati ai cittadini. Si fa riferimento a una generica
riduzione degli adempimenti, anche attraverso una maggiore
integrazione con il ciclo di bilancio, peraltro già avviata
per gli enti locali all'interno del Dlgs 267/2000. È alle
porte, inoltre, una riscrittura dei sistemi di valutazione e
di controllo interno.
Punti cardine della riforma sono anche alcune revisioni già
fortemente volute anche dalla legge 15/2009 e dal successivo
Dlgs 150/2009. A dare compimento alle modalità di controllo
sulle assenze per malattia, le verifiche sono affidate
all'Inps e non si esclude che ci saranno diverse novità
anche nel procedimento disciplinare. Infatti un punto della
delega insiste sull'introduzione di nuove norme per renderlo
concreto e certo nei tempi. Effettivamente oggi, tra Dlgs
165/2001 e norme contrattuali che sopravvivono alla riforma
Brunetta, le cose non sempre hanno funzionato
(articolo Il Sole 24 Ore del
10.08.2015). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Profili
«infungibili», assunzioni non solo per il personale
scolastico.
Risorse umane. Tra Dl enti locali e circolare
della Funzione pubblica.
I Comuni possono dare corso, tramite
concorsi e utilizzazione di graduatorie esistenti, alle
assunzioni a tempo indeterminato di personale in possesso di
specifici titoli abilitanti per le scuole e per i servizi
educativi, quali gli asili nido. Nella loro effettuazione
devono rispettare i vincoli dettati per le assunzioni e non
devono ricorrere al personale collocato in sovrannumero
degli enti di area vasta, una volta dimostrata l’assenza di
queste professionalità nei relativi elenchi: una verifica,
quest’ultima, che secondo le indicazioni del ministro della
Pa Madia dovrebbe essere su base regionale, e non nazionale.
Le novità si incontrano all’articolo 4, comma 2-bis, del Dl
78/2015. La previsione si aggiunge alle indicazioni dettate
dai ministri di Pa e Affari Regionali con la circolare
1/2015 e ai principi dettati dalla sezione Autonomie della
Corte dei Conti con la delibera 19/2015.
Sulla base di questi documenti si deve considerare possibile
per i Comuni dare corso, con le procedure ordinarie, ad
assunzioni di personale in possesso di un profilo che non è
compreso tra quello in sovrannumero degli enti di area
vasta, come ad esempio i farmacisti.
L’applicazione delle nuove regole solleva comunque un
problema applicativo di non poco conto per i Comuni che
hanno bisogno di selezionare personale per il prossimo anno
scolastico, quindi avere dei dipendenti in servizio già dai
primi giorni del mese di settembre. Gli elenchi del
personale in sovrannumero sono stati elaborati solo da un
numero assai ridotto di enti di area vasta e per il decreto
sulla mobilità del personale in sovrannumero si è ancora in
attesa del parere della Conferenza Unificata.
Il testo proposto, poi, prevede che gli enti di area vasta
abbiano 20 giorni dalla data di pubblicazione in «Gazzetta
Ufficiale» del decreto per rendere noto l’elenco del
personale in sovrannumero. Per cui al momento attuale, e
almeno per un paio di mesi, la verifica dell’esistenza tra
il personale degli enti di area vasta in sovrannumero di
professionalità in possesso di titoli abilitanti utilizzato
per la scuola ed i servizi educativi è impossibile.
Questo ostacolo può essere superata in due modi. La prima
soluzione è quella di dare corso ad assunzioni a tempo
determinato di questo personale, nelle more della verifica
dell’inesistenza delle professionalità tra il personale
collocato in sovrannumero. Al riguardo, sulla base del Dl
101/2013, le amministrazioni utilizzano le graduatorie per
le assunzioni a tempo indeterminato dello stesso ente o di
altro Comune (si ricorda la necessità restare entro il tetto
di spesa 2009; articolo 9, comma 28, del Dl 78/2010).
L’altra soluzione passa dall’applicazione delle indicazioni
portate dalla circolare 1/2015, in base alla quale occorre
dare comunicazione di questo tipo di assunzioni alla
Funzione pubblica e all’osservatorio nazionale per
l’applicazione della legge 56/2014, inserendo questa scelta
nella specifica piattaforma telematica.
Si deve considerare possibile dar corso alle assunzioni di
personale «infungibile» per attività che non siano
quelle scolastiche sulla base dei principi generali dettati
dalla circolare e dalla Corte dei Conti. Queste indicazioni
non sono superate dalla legge di conversione del Dl 78/2015
perché la formula utilizzata, «è fatta salva», va
intesa come una specificazione e non come una formula
esaustiva.
Se tra il personale in sovrannumero delle Province non vi
sono specifici profili professionali, non vi è peraltro
alcuna ragione per impedire le assunzioni, tanto più se si
dimostra –come richiede la Corte dei Conti- che sono
necessarie «per garantire l’espletamento di un servizio
essenziale» (articolo Il Sole 24 Ore del
10.08.2015). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Dalle
perdite della società responsabilità ai sindaci.
Partecipate.
La natura del rapporto fra ente e società
controllata implica, come evidenziato in più occasioni dalle
sezioni Unite della Cassazione, un obbligo degli
amministratori dell’ente pubblico di adoperarsi per
preservare il valore patrimoniale della partecipazione
(sentenze 26806/2009; 26823/2013).
Ne esce rafforzato, quindi, l’orientamento incline ad
affermare la responsabilità degli amministratori dell’ente
socio, e non solo di quelli della società partecipata, in
caso di perdite registrate da quest’ultima.
Il danno al valore del patrimonio sociale di titolarità
pubblica, ancor più in caso di fallimento, rappresenta un
pregiudizio per la finanza pubblica, in quanto implica la
diminuzione del patrimonio dell’ente detentore della
partecipazione, quantomeno in relazione al capitale
investito all’atto di costituzione della società e dei
successivi finanziamenti (Corte conti, Friuli Venezia
Giulia, 98/2009).
Sugli amministratori degli enti grava, quindi, uno specifico
dovere di gestione (secondo canoni di buona e razionale
amministrazione) delle partecipazioni, da considerarsi beni
del patrimonio dell’ente; e, correlativamente, la
responsabilità per i danni subiti dal patrimonio della
società, che è, in ultima istanza, patrimonio della
collettività.
Né tale responsabilità può venire, a priori, esclusa per il
fatto che i danni siano riconducibili a errate scelte
autonome degli amministratori societari: l’ente socio e, per
esso, gli amministratori pubblici sono chiamati a fornire
indirizzi e direttive, oltre che a vigilare sull’attuazione,
per preservare le risorse investite dall’ente; se gli
amministratori della società non rispettano le indicazioni
ricevute o mettono a repentaglio il patrimonio societario, i
titolari della partecipazione sono tenuti ad assumere
tempestivamente le iniziative a salvaguardia.
Per evitare di incorrere in responsabilità personale,
insomma, gli amministratori dell’ente socio devono fare in
modo che questo esplichi un’effettiva vigilanza sulla
società partecipata: non è sufficiente una verifica
successiva della gestione, attraverso l’approvazione del
bilancio o il mero esercizio dei poteri di nomina nel cda,
ma occorre una effettiva pianificazione, mediante «un
controllo attuale, puntuale e concomitante all’attività
gestionale della società, da effettuarsi anche con l’ausilio
di specifici poteri ispettivi» (Corte dei conti,
Toscana, n. 267/2009).
Ciò in quanto le perdite di esercizio o del capitale sociale
non possono considerarsi episodi fisiologici; se si
verificano, l’ente socio e, quindi, i suoi amministratori,
deve evitarne la reiterazione, modificando contratti di
servizio e/o intervenendo sull’organizzazione, fino a
rimuovere, se del caso, gli amministratori.
Di qui l’affermazione della responsabilità degli
amministratori dell’ente socio per omesso esercizio
dell’azione di responsabilità nei confronti degli
amministratori della partecipata (Corte dei conti Lazio, n.
1015/1999); o per mancato esercizio del potere di revoca
degli amministratori della partecipata che abbia registrato
continue perdite sintomatiche di inadeguata capacità
gestionale (Corte dei conti, Valle d’Aosta, n. 2/2009); o
per la nomina di amministratori privi delle necessarie
competenze (Corte dei conti, Toscana, n. 267/2009).
In queste ipotesi gli amministratori dell’ente socio
rispondono del danno al patrimonio della società che sia
conseguenza immediata e diretta del loro colpevole operato.
Non solo: è la stessa costituzione o ricapitalizzazione di
una società a poter essere sindacata e, se si rivela inutile
(per essersi tradotta in uno sperpero di risorse pubbliche)
a configurarsi quale fonte di responsabilità a carico degli
amministratori dell’ente socio (Corte dei conti, Trento, n.
19/2008; Corte dei conti, Friuli Venezia Giulia, n. 98/2009)
(articolo Il Sole 24 Ore del
10.08.2015). |
VARI: Condizionatori, bonus a scelta. Tra le opzioni, detrazioni
fiscali del 65 o 50%.
Le diverse agevolazioni per privati o imprese che acquistano
impianti a pompa di calore.
Diverse le agevolazioni fiscali per chi acquista un
condizionatore a pompa di calore. L'impresa collettiva o
individuale o il privato possono beneficiare di diverse
agevolazioni, tra loro alternative.
Parliamo delle
detrazioni del 65% per gli interventi di efficienza
energetica, delle detrazioni fiscali del 50% per le
ristrutturazioni edilizie e il bonus mobili con la
detrazione del 50%. Ma andiamo con ordine e illustriamo le
diverse possibilità accordate alle imprese e alle persone
fisiche.
Detrazione del 65% per interventi di efficienza energetica.
Può essere ammesso alla detrazione del 65% l'acquisto dei
climatizzatori con pompa di calore che forniscono sia
riscaldamento che raffrescamento. A condizione che siano ad
alta efficienza e siano installati in sostituzione
dell'impianto di riscaldamento esistente. Sono, infatti,
detraibili le spese per gli interventi impiantistici
concernenti la climatizzazione invernale e/o la produzione
di acqua calda, attraverso la fornitura e la posa in opera
di tutte le apparecchiature termiche, meccaniche, elettriche
ed elettroniche, nonché delle opere idrauliche e murarie
necessarie per la realizzazione a regola d'arte di impianti
solari termici organicamente collegati alle utenze, anche in
integrazione con impianti di riscaldamento.
Possono
usufruire della detrazione tutti i contribuenti residenti e
non residenti, anche se titolari di reddito d'impresa, che
possiedono, a qualsiasi titolo, l'immobile oggetto di
intervento. In particolare, sono ammessi all'agevolazione:
le persone fisiche, compresi gli esercenti arti e
professioni, i contribuenti che conseguono reddito d'impresa
(persone fisiche, società di persone, società di capitali),
le associazioni tra professionisti e gli enti pubblici e
privati che non svolgono attività commerciale. I titolari di
reddito d'impresa possono fruire della detrazione solo con
riferimento ai fabbricati strumentali da essi utilizzati
nell'esercizio della loro attività imprenditoriale
(risoluzione dell'agenzia delle entrate n. 340/2008).
Sono
detraibili tutte le spese concernenti i lavori, anche quelle
di progetto e amministrative, per questo intervento il
limite di spesa detraibile è di 30 mila euro (cioè il 65% di
una spesa di 46.154 euro). È confermata fino al 31.12.2015 e poi, salvo proroghe, dal 2016 scenderà al 36%.
L'agevolazione fiscale consiste in detrazioni dall'Irpef
(Imposta sul reddito delle persone fisiche) o dall'Ires
(Imposta sul reddito delle società) ed è concessa quando si
eseguono interventi che aumentano il livello di efficienza
energetica degli edifici esistenti.
Detrazione del 50% per ristrutturazione edilizia. Possono
essere detratte le spese per l'acquisto di climatizzatori
con pompa di calore anche non ad alta efficienza, purché il
condizionatore possa essere usato anche per il riscaldamento
nella stagione invernale, a integrare o a sostituire
l'impianto di riscaldamento già esistente.
L'agevolazione spetta non solo ai proprietari degli immobili
ma anche ai titolari di diritti reali/personali di godimento
sugli immobili oggetto degli interventi e che ne sostengono
le relative spese: proprietari o nudi proprietari, titolari
di un diritto reale di godimento (usufrutto, uso, abitazione
o superficie), locatari o comodatari, soci di cooperative
divise e indivise, imprenditori individuali, per gli
immobili non rientranti fra i beni strumentali o merce e
società di persone. La detrazione per gli interventi di
recupero edilizio non è cumulabile con l'agevolazione
fiscale (detrazione del 65%) prevista per i medesimi
interventi dalle disposizioni finalizzate al risparmio
energetico.
Pertanto, nel caso in cui gli interventi realizzati
rientrino sia nelle agevolazioni previste per il risparmio
energetico che in quelle previste per le ristrutturazioni
edilizie, il contribuente potrà fruire, per le medesime
spese, soltanto dell'uno o dell'altro beneficio fiscale,
rispettando gli adempimenti specificamente previsti in
relazione a ciascuna di esse. È possibile detrarre
dall'Irpef (l'imposta sul reddito delle persone fisiche) una
parte degli oneri sostenuti per ristrutturare le abitazioni
e le parti comuni degli edifici residenziali situati nel
territorio dello Stato.
In particolare, i contribuenti
possono usufruire delle seguenti detrazioni: 50% delle spese
sostenute (bonifici effettuati) dal 26.06.2012 al 31.12.2015, con un limite massimo di 96.000 euro per
ciascuna unità immobiliare e 36%, con il limite massimo di
48.000 euro per unità immobiliare, delle somme che saranno
spese dal 01.01.2016.
Bonus mobili con la detrazione del 50%. Possono essere
portate in detrazione le spese per l'acquisto di
condizionatori con etichetta energetica A+ o superiore. La
detrazione spetta per le spese sostenute dal 06.06.2013
al 31.12.2015 per l'acquisto di mobili nuovi (tra
questi, letti, armadi, cassettiere, librerie, scrivanie,
tavoli, sedie, comodini, divani, poltrone, credenze, nonché
i materassi e gli apparecchi di illuminazione).
Per gli
elettrodomestici che ne sono sprovvisti, l'acquisto è
agevolato solo se per essi non è ancora previsto l'obbligo
di etichetta energetica. Rientrano nei grandi
elettrodomestici, per esempio: frigoriferi, congelatori,
lavatrici, asciugatrici, lavastoviglie, apparecchi di
cottura, stufe elettriche, piastre riscaldanti elettriche,
forni a microonde, apparecchi elettrici di riscaldamento,
radiatori elettrici, ventilatori elettrici, apparecchi per
il condizionamento.
È escluso l'acquisto di porte,
pavimentazioni (per esempio, il parquet), tende e tendaggi,
nonché di altri complementi di arredo grandi
elettrodomestici nuovi di classe energetica non inferiore
alla A+ (A per i forni), per le apparecchiature per le quali
sia prevista l'etichetta energetica. Tra le spese da portare
in detrazione si possono includere quelle di trasporto e di
montaggio dei beni acquistati. A differenza delle altre due
tipologie di detrazione non è necessario che l'edificio
abbia già un impianto di riscaldamento.
È però necessario
effettuare una ristrutturazione contestuale dell'edificio in
cui si installa il condizionatore e la data di inizio lavori
deve essere anteriore a quella in cui sono sostenute le
spese da detrarre.
Conto termico. Rientrano nelle agevolazioni per il conto
termico l'acquisto di climatizzatori a pompa di calore con
determinate prestazioni energetiche che devono essere
installati in sostituzione di un impianto di riscaldamento
preesistente.
Gli interventi incentivabili si riferiscono sia all'efficientamento
dell'involucro di edifici esistenti (coibentazione pareti e
coperture, sostituzione serramenti e installazione
schermature solari) sia alla sostituzione di impianti
esistenti per la climatizzazione invernale con impianti a
più alta efficienza (caldaie a condensazione) sia alla
sostituzione o, in alcuni casi, alla nuova installazione di
impianti alimentati a fonti rinnovabili (pompe di calore,
caldaie, stufe e camini a biomassa, impianti solari termici
anche abbinati a tecnologia solar cooling per la
produzione di freddo).
Il meccanismo di incentivazione è rivolto sia alle
amministrazioni pubbliche che ai soggetti privati, intesi
come persone fisiche, condomini e soggetti titolari di
reddito di impresa o di reddito agrario. Il contributo
dipende da taglia del climatizzatore, prestazioni e zona
climatica di installazione. Indicativamente la somma erogata
arriva a coprire il 15-20% della spesa
(articolo ItaliaOggi Sette del 10.08.2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Gestione rifiuti, istruzioni estive. Estese le nozioni di
produttore e deposito temporaneo.
Nella legge di conversione del dl 78/2015 sugli enti locali,
le ultime regole ambientali.
Confermate il 04.08.2015 dal parlamento le nuove
definizioni allargate di produttore iniziale di rifiuti e di
deposito temporaneo introdotte direttamente nel dlgs
152/2006 (c.d. Codice ambientale) dalla decretazione
d'urgenza del precedente 4 luglio.
A consolidare le
disposizioni recate dall'articolo 1 del dl 92/2015 è (in
luogo del rituale relativo provvedimento di conversione,
abbandonato plausibilmente per questioni di economia
procedurale) la (diversa) legge di conversione del dl
78/2015 in materia di enti territoriali, legge nella quale
queste disposizioni sono state pedissequamente trasposte
salvandone ogni effetto fin dalla loro originaria entrata in
vigore.
Oltre alla convalida delle suddette definizioni, la
nuova legge detta anche i criteri per l'attribuzione ai
rifiuti delle nuove caratteristiche di pericolosità di
matrice Ue in vigore dallo scorso 01.06.2015.
Il produttore di rifiuti. In base alla rinnovata
formulazione della prima parte della lettera f), comma 1,
articolo 183 del dlgs 152/2006, ora confermata dal
parlamento, è produttore di rifiuti «il soggetto la cui
attività produce rifiuti e il soggetto al quale sia
giuridicamente riferibile detta produzione (produttore
iniziale) o chiunque effettui operazioni di pretrattamento,
di miscelazione o altre operazioni che hanno modificato la
natura o la composizione di detti rifiuti (nuovo
produttore)».
A chiarire la portata della nuova nozione di
«produttore giuridico» appaiono ora concorrere sia gli atti
parlamentari sottesi al naturale disegno di legge di
conferma del dl 92/2015, sia i successivi atti di
accompagnamento della legge di conversione del dl 78/2015.
In detti atti il contenuto delle novità normative è
testualmente ritenuto «in adesione agli indirizzi
giurisprudenziali da ultimo ribaditi nella sentenza della
suprema Corte di cassazione n. 5916 del 2015».
Tale sentenza
era stata pronunciata in relazione a una costruzione di navi
poggiata su contratti di appalto (di secondo livello) in
base ai quali un'impresa aveva commissionato ad altre
aziende la materiale realizzazione dei natanti, attività
nella cui esecuzione esse ditte producevano anche dei
rifiuti, ma in assenza delle prescritte autorizzazioni
ambientali.
Con la sentenza la Corte ha avallato la tesi
della pubblica accusa che riteneva integrato da tali
affidatarie ditte il reato di gestione illecita di rifiuti,
essendo state le stesse a generarli materialmente, di
conseguenza annullando il provvedimento con il quale il
precedente giudice aveva invece ritenuto che qualificando
l'impresa affidante come produttore «in senso giuridico» dei
rifiuti (ed, evidentemente, sussistendo in capo alla stessa
un'autorizzazione alla gestione dei rifiuti) si sarebbe
potuto esonerare le altre ditte da responsabilità.
Sul punto
la sentenza ha sottolineato come seppur la giurisprudenza «è inequivoca nell'affermare che, dovendosi ritenere produttore
di rifiuti “non solo il soggetto dalla cui attività deriva
la produzione dei rifiuti, ma anche il soggetto al quale sia
giuridicamente riferibile detta produzione” (Corte di
cassazione, sezione III penale 21.01.2000 n. 4957),
siffatta qualificazione non vale a privare della medesima
qualifica anche il soggetto che materialmente determina la
produzione di rifiuti».
Sicché, ha concluso la stessa Corte,
«gli obblighi connessi alla gestione dei rifiuti stessi non
gravano certamente solo sul produttore in senso giuridico (
) ma anche, e si direbbe soprattutto, sul produttore in
senso materiale».
Nella richiamata pronuncia 4957/2000, anch'essa vertente su
una fattispecie di lavori in appalto, la Corte ha ritenuto
in via di principio produttore di rifiuti non solo il
soggetto che materialmente li genera, ma anche la persona
nel cui interesse tale attività di generazione avviene,
ricollegandovi una precisa (e non delegabile) posizione di
garanzia coincidente con l'obbligo di impedire la
commissione dell'illecita gestione di rifiuti attraverso una
attività di controllo sul soggetto affidatario; diversamente
ritenendo l'affidante/produttore giuridico di rifiuti
responsabile, in caso d'illecito commesso dall'affidatario,
dello stesso reato a titolo concorso mediante omissione
(impropria, ex articolo 40 del codice penale).
Se nel
richiamo giurisprudenziale effettuato dai predetti atti deve
dunque rintracciarsi, ai sensi dell'articolo 12 delle c.d. «Preleggi»,
l'intenzione del legislatore necessaria alla corretta
applicazione delle nuove disposizioni, i punti fermi della
neo definizione di produttore di rifiuti (che tuttavia non
trova riscontro nell'articolo 3 della direttiva 2008/98/Ce,
dalla quale il Codice ambientale deriva) appaiono quindi
essere due: il produttore «materiale» deve, ove dalla legge
previsto, essere titolare di un valido titolo autorizzativo
per la gestione dei rifiuti generati; sul produttore
«giuridico» gravano sempre i doveri di vigilanza e controllo
sulla sussistenza di detti titoli abilitativi e sulla
correttezza dell'attività gestoria del primo soggetto.
La
secca conversione in legge delle nuove disposizioni adottate
d'urgenza lascia tuttavia diverse questioni nell'ombra, come
quelle legate al tracciamento dei rifiuti prodotti e
connessi adempimenti prodromici e conseguenti, essendo
difficilmente ipotizzabile allo stato dell'arte una
duplicazione dei relativi oneri (che dal punto di vista
documentale potrebbe comportare anche una moltiplicazione
virtuale dei residui effettivamente generati).
Sarebbe
dunque stato opportuno in sede parlamentare un intervento
volto a chiarire, ad esempio, la possibilità di individuare
in sede contrattuale tra i due soggetti titolari della
(perentoria) posizione di garanzia per la corretta gestione
dei rifiuti quello cui spetta l'effettiva tenuta delle
scritture ambientali e l'adempimento degli obblighi sottesi.
Il deposito temporaneo. Pedissequa conferma trovano con la
legge in parola anche le disposizioni originariamente recate
dal dl 92/2015 sul particolare istituto del deposito
temporaneo che, nel riformulato articolo 183 del dlgs
152/2006 (anch'esso in vigore dallo scorso 04.07.2015)
comprende dal punto di vista funzionale (oltre al
«raggruppamento») pure il «deposito dei rifiuti preliminare
alla raccolta» e dal punto di vista spaziale quello
effettuato sul luogo di produzione degli stessi da
intendersi ora quale «intera area in cui si svolge
l'attività che ha determinato la produzione dei rifiuti».
Sotto quest'ultimo profilo appare essere stata formalizzata
la lettura estensiva del concetto di luogo di produzione già
operata dalla stessa Corte di cassazione, la quale (da
ultimo con sentenza 38676/2014) ha ritenuto come il luogo
del deposito temporaneo non sia solo quello in cui i rifiuti
sono prodotti ma anche quello che si trova nella
disponibilità dell'impresa produttrice e nel quale gli
stessi sono depositati, purché esso luogo sia funzionalmente
collegato a quello di generazione.
Il deposito temporaneo,
lo ricordiamo, è conducibile ai sensi dell'articolo 208 del
Codice ambientale senza la necessità di preventiva
autorizzazione a patto che sia effettuato dal «produttore di
rifiuti» (nella sua rinnovata definizione, che ne allarga
ulteriormente i confini) e sia conforme a tutti requisiti
dettati dal Codice ambientale, tra cui (oltre a quelli
citati e rinnovati) i limiti di quantità e qualità dei
rifiuti ammissibili, il tempo di giacenza, l'organizzazione
tipologica dei materiali.
Le caratteristiche di pericolo dei rifiuti. Stabilisce,
infine, la legge di conversione del dl 78/2015 che nelle
more dell'adozione da parte dell'Ue di specifici criteri per
l'attribuzione ai rifiuti della caratteristica di pericolo
HP14 («eco tossico»), la stessa deve essere attribuita
secondo le modalità sancite dall'Accordo europeo sul
trasporto internazionale delle merci su strada (c.d.
disciplina «Adr») per le classi «9 – M6 e M7».
L'istruzione dettata dalla legge è finalizzata
all'applicazione delle nuove norme Ue in materia di
classificazione dei rifiuti introdotte con regolamento Ue
1357/2014 (mediante la modifica della direttiva madre
2008/98/Ce) e direttamente operative sul piano nazionale
dallo scorso 01.06.2015
(articolo ItaliaOggi Sette del 10.08.2015). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI: Servitù, via libera condizionato. Requisito indispensabile è
la localizzazione dell'area.
Il Notariato spiega meglio il contenuto di una sentenza
della Cassazione sui parcheggi.
Servitù di parcheggio: si può fare. Oltre ai requisiti
classici di questo particolare diritto reale occorre però
prestare adeguata attenzione alla localizzazione dell'area
in cui lo stesso dovrà esercitarsi, trattandosi di un
requisito indispensabile per la piena validità dell'atto di
disposizione.
Dopo le numerose reazioni negative suscitate
dalla
sentenza
06.11.2014 n. 23708 della Corte di Cassazione,
Sez. II civile, che ha sancito la nullità di un contratto
relativo a una servitù di parcheggio, il Consiglio nazionale
del notariato è sceso in campo con uno specifico
studio 06-08.05.2015 n. 1094-2014/C, ma reso noto soltanto nei
giorni scorsi) volto a chiarire il contenuto della predetta
decisione di legittimità e a confermare che la servitù di
parcheggio, a determinate condizioni, può essere
legittimamente ed efficacemente disposta dai privati con un
contratto.
La servitù di parcheggio. Le servitù prediali sono diritti
reali su bene altrui che si distinguono per la tipicità del
diritto e la libera determinabilità del contenuto. In altri
termini, dato lo schema normativo fissato dal codice civile
agli artt. 1027 ss., l'utilità che il proprietario del fondo
c.d. dominante può trarre dal fondo c.d. servente può essere
la più varia, a condizione che la stessa sia però
oggettivamente inerente al bene e non risponda a un semplice
interesse soggettivo del proprietario.
Accanto alle c.d.
servitù coattive, il cui contenuto è anch'esso
predeterminato dalla legge (si pensi, ad esempio, alle
servitù di passaggio, di scarico ecc.), vi sono infatti
quelle volontarie, costituite per testamento o più spesso
per contratto, il cui oggetto è appunto liberamente
determinabile dalle parti. Da questo punto di vista, quindi,
non vi è alcuna difficoltà a riconoscere come contenuto di
una servitù un diritto di parcheggio. Tuttavia, come da
sempre ritenuto dalla giurisprudenza, anche in questo caso,
per la validità dell'atto dispositivo, devono ricorrere
tutte le caratteristiche tipiche delle servitù reali.
La sentenza n. 23708/2014 della Suprema corte. Nel caso
preso in esame dalla Cassazione nella sentenza n.
23708/2014, che tante polemiche ha suscitato, forse per via
della stringata motivazione e della perentorietà della
decisione, l'erede del titolare di una servitù di parcheggio
costituita dal de cuius nell'ambito del contratto di vendita
di un appezzamento di terreno aveva citato in giudizio una
società che gestiva un'attività alberghiera per
l'accertamento del proprio diritto. Nel relativo contratto,
in particolare, era stato scritto che il terreno risultava
«gravato da una servitù di parcheggio limitatamente a due
auto a favore della proprietà». La domanda veniva accolta in
primo grado e la decisione veniva confermata nel successivo
grado di giudizio.
Tuttavia la predetta società ricorreva in
Cassazione contro tale sentenza, evidenziando come la
costante giurisprudenza di legittimità non ritenesse
configurabile la tipologia di servitù viceversa accertata
dai giudici di merito. La Suprema corte, nel sovvertire
completamente l'esito del giudizio, ha quindi in primo luogo
ricordato come nelle servitù prediali l'utilità debba essere
inerente al fondo dominante e non debba invece risolversi in
una mera maggiore comodità personale del proprietario.
Quindi i giudici, ritenendo che nel caso concreto il
parcheggio dell'auto costituisse un vantaggio personale del
dominus e non un'utilità oggettiva del fondo, hanno ritenuto
la clausola addirittura nulla, per impossibilità
dell'oggetto.
Le conclusioni alle quali è giunto il Notariato. La sentenza
in questione, nella sua stringatezza, sembrerebbe in effetti
aver chiuso definitivamente le porte all'ammissibilità della
servitù di parcheggio, vista la netta equiparazione a un
mero vantaggio soggettivo della «commoditas di parcheggiare
l'auto per specifiche persone che accedano al fondo».
L'interessante studio del Consiglio nazionale del notariato
ha tuttavia cercato di fornirne un'interpretazione
maggiormente equilibrata, inserendo detta decisione
nell'alveo del risalente dibattito dottrinale e
giurisprudenziale sviluppatosi sull'argomento.
Dopo aver dimostrato che, stante l'indeterminatezza di
contenuto delle servitù volontarie, anche il diritto di
parcheggio può rientrare nello schema tipico di cui agli
artt. 1027 ss. c.c., il menzionato studio si preoccupa
infatti di evidenziare come detto diritto debba possedere le
caratteristiche proprie delle servitù reali, ovvero
l'immediatezza (diretta soggezione del bene al potere del
titolare, che non necessita della collaborazione di terzi),
l'assolutezza (ovvero la tutelabilità nei confronti dei
terzi in generale), l'opponibilità a chiunque vanti diritti
sul bene o lo possieda, l'inerenza al fondo dell'utilità, la
materialità, l'altruità e, soprattutto, la specificità e la
determinatezza del bene (o della parte di esso) sul quale il
diritto di servitù deve essere esercitato.
Da quest'ultimo punto di vista è quindi chiaro che il
diritto di parcheggio non può genericamente riguardare il
fondo servente, con tutte le utilità che questo può offrire
e con la possibilità di farne qualsiasi uso. È infatti
necessario procedere alla localizzazione dell'area sulla
quale la servitù può esercitarsi. Questa indicazione è
indispensabile, perché altrimenti il diritto risulterebbe
generico e indeterminato. Di conseguenza l'atto dispositivo,
a pena di invalidità, deve indicare in modo specifico in
quale luogo possa sostare il veicolo del proprietario del
fondo dominante.
Nel caso portato all'attenzione della
Cassazione, secondo il Notariato, è stata proprio la
mancanza di specificità e determinatezza della clausola
sulla servitù di parcheggio a portare i giudici a ritenere
la stessa nulla. Nel contratto, infatti, come anticipato, si
faceva generico riferimento al numero delle auto, ma non si
identificava minimamente in quale area fosse localizzata la
servitù. Nello studio in questione si fa quindi l'esempio di
un fondo servente ampio quanto Piazza San Pietro a Roma e di
un atto che costituisca il diritto del vicino di
parcheggiare una vettura «dove che sia».
Così facendo ne
conseguirebbe che nessuna zona sarebbe specificamente
destinata al parcheggio. Di conseguenza, in un caso
siffatto, dovrebbe ritenersi o che tutta l'area sia
vincolata al parcheggio esclusivo di una sola autovettura
(con effetti irragionevoli e paradossali) o che il rapporto
tra le parti sia di tipo meramente obbligatorio
(necessitando che ogni volta il proprietario del fondo
servente si attivi per garantire l'esercizio del diritto di
parcheggio del vicino).
Il Notariato insiste quindi sulla piena ammissibilità della
costituzione di diritti reali di servitù di parcheggio e, a
tal fine, nel medesimo studio viene proposto un esempio di
atto di disposizione, riportato in tabella
(articolo ItaliaOggi Sette del 10.08.2015). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA:
Sì al Durc anche all'impresa in concordato
preventivo.
Sì al Durc all'impresa in concordato preventivo omologato e
parziale soddisfazione dei crediti previdenziali.
Lo precisa l'Inps nel
messaggio
06.08.2015 n. 5223 illustrando il
cambio di rotta del ministero del lavoro in materia. Finora,
infatti, per il rilascio della regolarità contributiva, era
richiesta l'integrale soddisfazione dei crediti di Inps e
Inail.
La questione è sorta con l'entrata in vigore della nuova
disciplina del Durc online, la quale stabilisce che in caso
di concordato con continuità aziendale (ex art. 186-bis del
rd n. 267/1942, la c.d. legge fallimentare), «l'impresa si
considera regolare nel periodo intercorrente tra la
pubblicazione del ricorso nel registro delle imprese e il
decreto di omologazione, a condizione che nel piano ( ) sia
prevista l'integrale soddisfazione dei crediti dell'Inps,
dell'Inail e delle casse edili e dei relativi accessori di
legge».
Il ministero del lavoro, con nota 21.04.2015, nel
riconsiderare quanto in precedenza disposto con l'interpello
n. 41/2012, ha specificato che la pubblicazione della
domanda di concordato nel registro delle imprese integra la
fattispecie del decreto 24.10.2007 nella parte in cui
concede la regolarità contributiva in caso di sospensioni di
pagamenti a seguito di disposizioni legislative. Nel
dettaglio, il ministero ha precisato che la condizione per
il rilascio del Durc è correlata alla circostanza che il
piano preveda l'integrale soddisfazione dei crediti di Inps,
Inail e casse edili, nonché dei relativi accessori di legge.
Successivamente, con circolare n. 19/2015, il ministero ha
ulteriormente precisato che, ove il piano concordatario
preveda la parziale soddisfazione dei crediti previdenziali
con privilegio e dei relativi accessori di legge ovvero la
retrocessione degli stessi anche al rango di crediti
chirografari, gli istituti (Inps, Inail e casse edili)
devono attestare l'irregolarità perché, in tale ipotesi, non
ricorre la condizione dell'integrale soddisfazione prevista
dall'art. 5, comma 1, del decreto 30.01.2015.
Con nota 21.07.2015, sulla base del parere espresso
dall'ufficio legislativo, il ministero del lavoro ha
riconsiderato la questione e fornito nuovi chiarimenti per
risolvere l'evidente contrasto tra quanto affermato nella
nota 21.04.2015 e quanto affermato nella circolare n.
19/2015. In via definitiva ha deciso per l'obbligo di
rilascio del Durc all'impresa che abbia conseguito
l'omologazione del concordato preventivo anche se il
relativo piano non contempli l'integrale soddisfazione dei
crediti di Inps e Inail muniti di privilegio.
Pertanto, dopo il decreto di omologazione e pur in presenza
di una parziale soddisfazione dei crediti previdenziali
muniti di privilegio, e fino a quando non sia adempiuto il
concordato, a parere del ministero si verifica la situazione
di «sospensione dei pagamenti in forza di disposizioni
legislative» contemplata all'art. 5, comma 2, lett. b), del
decreto 24.10.2007 con la conseguenza che dev'essere
dichiarata la regolarità contributiva. Il ministero ha
inoltre precisato che, ai fini della verifica della
regolarità contributiva, non può avere rilevanza l'eventuale
proposizione del reclamo alla corte di appello avverso il
decreto di omologazione del Tribunale da parte degli
istituti previdenziali
(articolo ItaliaOggi dell'08.08.2015). |
ENTI LOCALI:
Scambio
dati tra p.a., serve una convenzione.
I paletti del Garante privacy per garantire la
riservatezza.
Per lo scambio di dati tra p.a., a prova di privacy, ci
vuole una convenzione. La disciplina sulla riservatezza non
blocca certo l'interscambio delle informazioni necessarie
per ragioni di ufficio, ma si devono rispettare alcuni
paletti. In particolare bisogna mettere «nero su bianco»
modalità e condizioni dello scambio.
È quanto prevede il
provvedimento
02.07.2015 n. 393 del
Garante della privacy, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale
n. 179 del 04.08.2015, dedicato alle misure di sicurezza
e modalità di scambio dei dati personali tra amministrazioni
pubbliche.
Il provvedimento, da un lato, dispone misure dirette a far
emergere le notizie di attacchi ai dati personali detenuti
dagli enti pubblici (notifica al garante delle violazioni,
secondo le regole note come data breaches), dall'altro
individua alcune precauzioni di carattere procedimentale. In
particolare, tra i presupposti, per la comunicazione dei
dati il provvedimento in esame menziona una convenzione o
qualunque atto bilaterale da stipulare tra ente erogatore ed
ente fruitore, al fine di stabilire le condizioni e le
modalità di accesso ai dati.
Tradotto, chi chiede dati e chi fornisce atti devono
stabilire in un documento contrattuale le garanzie a tutela
del trattamento dei dati personali e dell'utilizzo dei
sistemi informativi. Il garante ricorda che le garanzie
devono essere previste anche nei confronti dello stesso
erogatore: questo può importare l'inserimento di clausole,
nelle quali l'ente che chiede le informazioni assicura che i
dati sono utilizzati nell'ambito dell'esercizio delle
attività istituzionali e con il rispetto degli standard di
sicurezza interna.
Nella parte iniziale della convenzione gli enti indicheranno
le finalità di interesse pubblico perseguite e elencheranno,
anche per categorie, i tipi di dati e le operazioni
eseguibili. È opportuno esporre le norme di legge rilevanti
e cioè quelle che assegnano il compito istituzionale ed
eventuali altre disposizioni settoriali sui singoli
trattamenti e procedimenti.
Il provvedimento del Garante, anzi, assegna alcuni compiti
preliminari alla stipulazione della convenzione. Uno dei
questi è proprio la verifica della base normativa che
legittima il fruitore ad accedere alle proprie banche dati.
L'esplicitazione delle finalità serve anche a selezionare i
dati personali contenuti nelle banche dati a cui dare
accesso. Si deve poi specificare la modalità telematica di
accesso alle banche dati più idonea, scegliendo tra le varie
opzioni (e-mail, scambio con protocolli Ftp, web,
cooperazione applicativa). Nella convenzione l'ente pubblico
che fornisce i dati deve comunque riservarsi di valutare
l'introduzione di ulteriori strumenti volti a gestire i
profili di autorizzazione, verificare accessi anomali,
tracciare le operazioni di accesso, oppure individuare
tassative modalità di accesso alle banche dati.
Le modalità di accesso alle banche dati devono essere
configurate offrendo un livello minimo di accesso ai dati,
mentre livelli di accesso gradualmente più ampi possono
essere autorizzati soltanto a fronte di documentate esigenze
del fruitore da indicare in convenzione. Inoltre il
fornitore dei dati deve tenere un elenco, costantemente
aggiornato, delle banche dati accessibili, descrivendo per
ogni fruitore le modalità di accesso. Una volta l'anno chi
fornisce i dati deve controllare se le esigenze di
collegamento sono ancora attuali, bloccando gli accessi
(autorizzazioni o singole utenze) non conformi alla
convenzione
(articolo ItaliaOggi del 07.08.2015). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Province, da rivedere il dimezzamento degli
organici.
Da rivedere il taglio lineare della spesa di personale di
province e città metropolitane, imposto dalla legge
190/2014.
La legge di conversione del dl 79/2015 e l'accordo stipulato
sulle politiche del lavoro da stato e regioni il 20 luglio
scorso mettono necessariamente in discussione la previsione
contenuta nell'articolo 1, comma 421, della legge 190/2014,
per effetto del quale la dotazione organica degli enti di
area vasta è stata ridotta ex lege del 50% e del 30% della
spesa del personale di ruolo alla data di entrata in vigore
della legge 56/2015 rispettivamente per province, nonché
città metropolitane e province con territorio interamente
montano e confinanti con paesi stranieri.
Il taglio lineare al costo del personale va necessariamente
rivisto, in primo luogo in conseguenza delle modifiche
all'articolo 5 del dl 78/2015. Esso, infatti, consente alle
province di stabilire quale parte del personale appartenente
ai corpi di polizia provinciale dovrà considerarsi estraneo
al processo di mobilità verso i comuni, in quanto addetto a
funzioni accessorie a quelle fondamentali: in particolare,
per esempio, il controllo del rispetto del codice della
strada sulle vie di comunicazione provinciali.
Gli appartenenti ai corpi di polizia provinciale individuati
come addetti a tali funzioni accessorie dovranno essere
sottratti al novero dei dipendenti soprannumerari, perché
destinati a restare presso le province. E potrebbe trattarsi
di centinaia di dipendenti, forse fino a un migliaio.
Lo stesso vale per i circa 7.500 addetti ai servizi per il
lavoro. L'intesa stato-regioni obbliga questi enti a coprire
interamente le spese connesse ai rapporti di lavoro a tempo
indeterminato dei dipendenti (un terzo a carico delle
regioni, due terzi a carico dello stato), ancora oggi
gravanti sui bilanci di province e città metropolitane.
Se, però, i costi del personale provinciale adibito al
mercato del lavoro saranno coperti da Stato e regioni, non
ha senso considerare tale personale soprannumerario, almeno
finché le regioni non avranno stabilito di acquisirlo
direttamente nella propria dotazione organica, e,
soprattutto, non ha senso comprendere il costo annuo, pari a
circa 250 milioni, tra le spese da tagliare della dotazione
organica di province e città metropolitane. Infatti, anche
nelle more del definitivo riordino dei servizi del lavoro e
della loro eventuale confluenza nelle regioni, le province
possono contare a questo punto su un vero e proprio diritto
di ricevere da stato e regioni le risorse per pagare i
dipendenti addetti, finché restino ancora alle loro
dipendenze.
La disposizione dell'articolo 1, comma 421, della legge
190/2014 andrebbe urgentemente rivista, per riproporzionare
il taglio della spesa di personale e renderlo meno
forfettario e più analitico, eliminando la spesa connessa al
personale dei servizi per il lavoro e il personale di
vigilanza destinato a restare presso le province.
D'altra parte, se non si rivede la portata del taglio
lineare, il rischio è che conservandolo vengano coinvolti
nel processo di messa in sovrannumero e possibile successivo
licenziamento anche dipendenti che fin qui ne sono rimasti
fuori, quelli, cioè, adibiti alle funzioni fondamentali
(pianificazione, ambiente, viabilità, trasporti, scuola e
edilizia scolastica, controlli sul rispetto delle pari
opportunità), aprendosi una nuova stagione di caos e
tensioni sindacali, quelle che fin qui hanno indotto la gran
parte delle province a rifiutarsi di individuare il
personale da dichiarare in sovrannumero
(articolo ItaliaOggi del 07.08.2015). |
SEGRETARI COMUNALI: Segretari
aboliti, ma con calma. Tre anni di tempo per acquisire
incarichi dirigenziali.
Perché si passi al nuovo status di dirigente
apicale bisognerà attendere i dlgs attuativi.
I segretari comunali non sono immediatamente aboliti dalla
legge delega di riforma della pubblica amministrazione
targata Marianna Madia. Perché negli enti locali si passi
dal segretario al nuovo soggetto «dirigente apicale»
occorrerà attendere il decreto legislativo attuativo della
disciplina della dirigenza pubblica, al quale è demandato il
compito di costituire i tre albi della dirigenza statale,
regionale e locale, quest'ultimo destinato a ricomprendere i
segretari comunali.
L'abolizione dei segretari comunali è certamente una delle
disposizioni di maggiore impatto della riforma, oltre a
quelle di minore comprensibilità.
Infatti, mentre molte disposizioni normative generali
intendono puntare sull'incremento dei presidi di legalità e
anticorruzione, si elimina negli enti locali proprio la
figura del segretario comunale, indicata direttamente dalla
legge 190/2012 come responsabile della prevenzione della
corruzione e, inoltre, titolare del sistema dei controlli
interni di tipo amministrativo.
Nell'immediato, tuttavia, i segretari manterranno il loro
status e le loro funzioni. Infatti, l'abolizione della
figura e la sua confluenza nel ruolo della dirigenza locale
sarà frutto, come rilevato sopra, dell'attuazione della
delega.
Peraltro, la legge delega prevede, a partire
dall'attivazione del ruolo unico della dirigenza con
conseguente abolizione della figura del segretario, un
periodo transitorio di tre anni, nel corso del quale vi sarà
per i comuni e le province (se nel frattempo non saranno
state definitivamente abolite) di conferire l'incarico di
direzione apicale agli (a quel punto) ex segretari comunali,
non solo equiparati alla dirigenza (quelli inseriti nelle
fasce A e B), ma anche ai soggetti già iscritti all'albo,
nella fascia professionale C, e ai vincitori del corso di
accesso in carriera, già bandito alla data di entrata in
vigore della legge delega.
C'è, tuttavia, da precisare che tale obbligo di assegnare
agli ex segretari la «direzione apicale» non varrà per gli
enti locali che abbiano incaricato un direttore generale, in
applicazione dell'articolo 108 del dlgs 267/2000, cioè i
comuni con popolazione superiore ai 100 mila abitanti. Del
resto, questi comuni di grandi dimensioni e le città
metropolitane (ma non le province) una volta entrata a
regime la riforma e quindi superato il triennio di diritto
transitorio, potranno comunque incaricare il direttore
generale in alternativa al «dirigente apicale».
Resta, allora, da comprendere quale sarà il ruolo del
dirigente apicale, destinato a sostituire i segretari. A
regime, potrà essere selezionato dai sindaci da qualsiasi
dirigente appartenente non solo al ruolo dei dirigenti
locali, ma anche di quello statale e regionale. Il
«dirigente apicale» avrà il compito di attuare l'indirizzo
politico, coordinare l'attività amministrativa, controllare
la legalità dell'azione amministrativa e rogare i contratti.
Per tale ultimo compito, il dirigente apicale dovrà
possedere i «prescritti requisiti» che, non essendo
attualmente prescritti, verosimilmente saranno indicati dal
decreto legislativo attuativo.
In prima approssimazione, in
attesa dei decreti delegati, si può ritenere che non
potranno svolgere il ruolo di «dirigente apicale» dirigenti
appartenenti all'area tecnica e, comunque, quelli privi di
una specifica competenza di carattere giuridico
amministrativa, fondamentali sia per la funzione rogante
sia, soprattutto, per il controllo di legalità dell'azione
amministrativa.
Occorre chiedersi, allora, se tali requisiti dovranno essere
posseduti anche dai direttori generali esterni, dal momento
che nei comuni con popolazione superiore ai 100 mila
abitanti e nelle città metropolitane potranno essere
incaricati in alternativa. La risposta appare negativa:
infatti, negli enti nei quali opereranno i direttori
generali la funzione rogante e di controllo della legalità
amministrativa saranno affidate a un altro dirigente di
ruolo
(articolo ItaliaOggi del 07.08.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Dirigenti, la retrocessione salva. Niente licenziamento col
demansionamento a funzionario.
Toccherà ai decreti attuativi della riforma Madia
definire i casi di decadenza dal ruolo.
Il demansionamento salva i dirigenti responsabili di cattiva
gestione dal licenziamento. La legge delega di riforma della
pubblica amministrazione
(Atto
Senato n. 1577-B), approvata in via definitiva
martedì dal Senato, prevede una regolazione della decadenza
e conseguente licenziamento dei dirigenti dai ruoli unici
che desta molte perplessità.
Il legislatore delegante rimette ai successivi decreti
legislativi attuativi il compito di elaborare una
«disciplina della decadenza dal ruolo unico a seguito di un
determinato periodo di collocamento in disponibilità
successivo a valutazione negativa».
Ciò significa che spetta al legislatore delegato stabilire
per quanto tempo un dirigente di ruolo potrà permanere senza
incarico dirigenziale a disposizione del ruolo, a causa di
una sua valutazione negativa, prima di decadere e vedersi
risolvere il rapporto di lavoro.
Compito del legislatore delegato sarà quanto meno chiarire
cosa si intenda per «valutazione negativa» (una soglia
assoluta o relativa di punteggio minimo? Un danno grave?), e
la durata della disponibilità. In più, il legislatore
delegato dovrà anche attuare l'ulteriore criterio di delega
secondo il quale i decreti legislativi dovranno contenere la
«previsione della possibilità, per i dirigenti collocati in
disponibilità, di formulare istanza di ricollocazione in
qualità di funzionario, in deroga all'articolo 2103 del
codice civile, nei ruoli delle pubbliche amministrazioni».
Il demansionamento, dunque, può salvare il dirigente
collocato a disposizione nel ruolo dal licenziamento.
Se per un verso la disposizione può essere valutata
positivamente perché costituisce una tutela nel lavoro, gli
aspetti controversi sono, tuttavia, moltissimi.
Si tratta di un demansionamento molto diverso da quello
previsto nell'ambito privato dall'articolo 3 del dlgs
81/2015, attuativo del Jobs act. In questo caso,
l'assegnazione del lavoratore a mansioni inferiori deve
dipendere dal «caso di modifica degli assetti organizzativi
aziendali che incide sulla posizione del lavoratore», dunque
da giustificazioni di tipo oggettivo, legate
all'organizzazione del lavoro: come ad esempio la
soppressione di una fase operativa della produzione. In
questo caso, dunque, il lavoratore subisce il demansionamento non per proprie responsabilità
nell'esecuzione della prestazione lavorativa, ma per
esigenze di carattere aziendale.
La legge delega, invece, consente il demansionamento da
dirigente a funzionario come tutela in favore di dirigenti
che abbiano, come visto, ricevuto una valutazione negativa.
Significa, quindi, che tali dirigenti hanno visto
interrompere lo svolgimento dell'incarico dirigenziale per
non aver saputo conseguire i risultati previsti dalla
pianificazione gestionale ad un livello minimamente
accettabile, sì da ricevere una valutazione insoddisfacente.
In questo caso, allora, il demansionamento deriverebbe non
da esigenze aziendali, ma sarebbe causato da un
inadempimento evidentemente grave nell'esecuzione della
prestazione lavorativa e, dunque, da una causa soggettiva.
Se il demansionamento come misura di tutela nel posto di
lavoro per il lavoratore che subisca una riorganizzazione
aziendale, senza essere incorso in manchevolezze nella
propria attività, può anche avere una sua giustificazione,
meno persuasiva appare la soluzione per la dirigenza
indicata dalla legge delega. Infatti, il demansionamento
finirebbe per conservare, sia pure ad un livello di carriera
più basso, non un lavoratore involontariamente coinvolto da
modifiche dell'assetto organizzativo, ma chi si sia reso
autore di un'azione gestionale incapace di conseguire
risultati determinati. Insomma, il demansionamento
salverebbe dal licenziamento per giustificato motivo
soggettivo.
La legge delega finisce, così, addirittura per affievolire
il sistema della responsabilità dirigenziali attualmente
disciplinato dall'articolo 21 del dlgs 165/2001, che a
seconda della gravità del mancato conseguimento degli
obiettivi gestionali o della violazione di direttive
imputabile ai dirigenti, prevede la mancata conferma
dell'incarico, o la revoca anticipata o perfino la
risoluzione dal rapporto di lavoro. A meno che il
legislatore delegato non introduca un sistema di graduazione
delle responsabilità connesse alla «valutazione negativa»,
dunque, il demansionamento previsto finisce per essere
un'ancora di salvezza dal licenziamento per giustificato
motivo oggettivo davvero difficilmente giustificabile (articolo ItaliaOggi del 06.08.2015). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Un colpo
di frusta alla p.a.. Licenziamenti più facili. Dirigenti,
incarichi a tempo.
Il Senato ha approvato definitivamente il disegno
di legge Madia con la riforma.
Licenziamenti più facili grazie alla riduzione dei tempi dei
procedimenti disciplinari. Ricambio generazionale grazie
alla riduzione, su base volontaria, dell'orario di lavoro e
degli stipendi degli statali in procinto di andare in
pensione per favorire l'assunzione di nuovo personale.
Ruolo unico per i dirigenti statali.
Per i manager pubblici sono previsti incarichi a termine (4
anni+2) trascorsi i quali dovranno necessariamente
partecipare alle procedure di avviso pubblico. I manager che
restano senza incarico potranno chiedere di essere
«retrocessi» al ruolo di funzionari. Oppure rimanere in
disponibilità. Uno status che però non costituirà più
l'anticamera del licenziamento, visto che per essere
cancellati dal ruolo, oltre al prolungato periodo di
inattività, sarà necessario aver riportato una valutazione
negativa. Dovranno invece lasciare l'incarico i dirigenti
condannati, anche in via non definitiva, dalla Corte conti
per danno erariale.
Con 145 voti a favore, 97 contrari e
nessun astenuto la riforma della pubblica amministrazione
targata Marianna Madia diventa legge.
Il ddl delega
(Atto
Senato n. 1577-B)
è stato
approvato in terza lettura dal senato, grazie anche all'atteggiamento
responsabile delle opposizioni che non sono uscite dall'aula
garantendo il numero legale. Per il governo si tratta di un
tassello fondamentale per il riammodernamento della p.a..
Secondo le opposizioni, invece, gli effetti concreti a
favore di cittadini e imprese sarebbero limitati, mentre il
leit motiv del ddl sarebbe il rafforzamento dei poteri di
palazzo Chigi a discapito delle altre articolazioni della
p.a. centrale.
Ora la palla passa ai decreti attuativi (se ne contano una
quindicina) molti dei quali, assicurano alla Funzione
pubblica, sono già in avanzata fase di elaborazione. E' il
caso per esempio delle norme su silenzio assenso e
conferenze dei servizi che dovrebbero velocizzare i tempi
della burocrazia. Le p.a. avranno 30 giorni (elevabili a 90
se si tratta di amministrazioni preposte alla tutela
ambientale, paesaggistica, della salute e dei beni
culturali) per dare il proprio assenso, nulla osta o
concerto a un provvedimento. In mancanza, il via libera si
intenderà per acquisito.
Tempi ridotti del 50% anche per i
procedimenti relativi alle grandi opere. Entro 18 mesi però
la p.a. potrà tornare sui propri passi revocando i
provvedimenti, anche quelli frutto di silenzio-assenso. Tra
le altre novità per i cittadini si segnala l'istituzione del
numero unico europeo 112 per le emergenze, la cancellazione
del Pubblico registro automobilistico (le cui funzioni
passeranno alla Motorizzazione civile) e la possibilità di
effettuare pagamenti alla p.a. in via digitale e
elettronica, anche attraverso il telefonino.
Il secondo step per l'attuazione della delega riguarderà le
norme che puntano a snellire l'elefantiaco apparato della
p.a. soprattutto nelle sue articolazioni territoriali. Dal
taglio delle prefetture a quello delle camere di commercio
(che si ridurranno da 105 a 60), dalla soppressione del
Corpo Forestale dello stato (che dovrebbe confluire nei
Carabinieri), alla razionalizzazione degli uffici pubblici
(da realizzare accorpando in immobili comuni le diverse
amministrazioni dello stato sul territorio).
Dulcis (si fa
per dire) in fundo: riforma della dirigenza e del pubblico
impiego. I dlgs sulle materie a più alto tasso di
conflittualità con i sindacati saranno emanati per ultimi
(articolo ItaliaOggi del 05.08.2015
- tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI:
Niente più direttori generali nelle province.
Senza attendere i dlgs attuativi.
Niente più direttori generali nelle province. Tra i criteri
di delega contenuti nell'articolo 11, comma 1, lettera b),
n. 4), del disegno di legge delega di riforma della p.a. vi
è la «previsione della possibilità, per le città
metropolitane e i comuni con popolazione superiore a 100.000
abitanti di nominare, in alternativa al dirigente apicale,
un direttore generale ai sensi dell'articolo 108 del citato
testo unico di cui al decreto legislativo, 267 del 2000 e
previsione, in tale ipotesi, dell'affidamento della funzione
di controllo della legalità dell'azione amministrativa e
della funzione rogante a un dirigente di ruolo».
La legge delega
(Atto
Senato n. 1577-B), dunque, innova il vigente ordinamento ed
elimina dall'elenco degli enti aventi la facoltà di
incaricare un direttore generale le province. Infatti, la
previsione citata sopra elenca espressamente gli enti che
dispongono di tale facoltà, indicandoli nei soli comuni con
popolazione superiore ai 100.000 abitanti e nelle città
metropolitane.
Si deve necessariamente concludere, perciò, che le province
non potranno più incaricare un direttore generale, ai sensi
dell'articolo 108 del dlgs 267/2000.
Occorre capire se l'esclusione per le province della facoltà
di avvalersi del direttore generale operi da subito, oppure
se sia connessa all'approvazione del decreto legislativo
attuativo della legge delega.
Milita in favore della seconda ipotesi, cioè del rinvio
della norma alla successiva attuazione, la circostanza che
occorra attenere la formazione del ruolo unico dei dirigenti
locali, perché l'intera fattispecie possa dirsi completa e,
dunque, si possa attivare il periodo transitorio triennale
nel quale attribuire al «dirigente apicale» tratto dagli ex
segretari comunali, le funzioni di attuazione dell'indirizzo
politico, roganti, coordinamento amministrativo e controllo
della legalità.
In favore della prima tesi, quella secondo la quale per le
province cessa ogni possibilità di avvalersi del direttore
generale sin dalla vigenza della legge delega hanno pregio
altre considerazioni di sostanza. La principale è che la
figura del direttore generale, a differenza –ancora oggi–
di quella del segretario comunale è solo facoltativa e non
obbligatoria. Nulla, dunque, impone alle province di
avvalersi del direttore generale.
Il criterio di delega come quello in argomento ha certamente
l'effetto di novare, indirettamente, l'ordinamento
giuridico, attraverso una modifica implicita del citato
articolo 2, comma 186, lettera d), della legge 191/2009, che
viene sostanzialmente integrato di una nuova e diversa
identificazione degli enti abilitati ad avvalersi del
direttore generale, tra i quali le province sono assenti.
Dunque, l'effetto di innovazione della legge delega deve
considerarsi immediato e non rimesso all'entrata in vigore
dei decreti legislativi attuativi. Sicché le province
debbono considerarsi private della facoltà di incaricare un
direttore generale dalla data di entrata in vigore della
legge delega.
Quale che sia la tesi considerata più corretta, si apre
l'altro problema: cosa ne è degli incarichi di direttore
generale attribuiti dalle province prima dell'entrata in
vigore della legge delega?
I principi generali di diritto comune portano a ritenere che
i rapporti contrattuali in corso non possano essere incisi
negativamente dalla legge, posto per altro che essa in
termini generali opera solo per il futuro. Si potrebbe,
dunque, concludere per la conservazione degli effetti degli
incarichi di direzione generale già attribuiti dalle
province, sino alla loro scadenza.
Tale tesi, tuttavia, pone da subito un problema di
legittimità della spesa connessa, per incarichi retribuiti,
una volta venuto a mancare il titolo giuridico per
incaricare il direttore generale.
In ogni caso, una volta entrati in vigore i decreti
legislativi attuativi della delega, non vi sarà più alcun
dubbio che la funzione di «dirigente apicale» nelle province
non potrà essere «scissa» tra direttore generale e dirigenti
amministrativi, per la semplice ragione che le province non
potranno avvalersi del direttore generale.
Dunque, è da ritenere che sicuramente dalla data di entrata
in vigore dei decreti legislativi attuativi, gli incarichi
ai direttori generali delle province si dovranno considerare
decaduti automaticamente, ex lege. Ma probabilmente tale
conseguenza è da far discendere direttamente dalla legge
delega, che, come rilevato sopra, modifica da subito
l'ordinamento, escludendo in capo alle province la
possibilità di incaricare i direttori generali
(articolo ItaliaOggi del 05.08.2015). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Province,
stop al boicottaggio. Sanzioni alle regioni che non
riallocano le funzioni.
Convertito il dl enti locali. Un minitagliando
alla legge Delrio divenuto un omnibus.
È diventato un minitagliando alla legge Delrio il decreto
«enti locali» (dl 78/2015), che ieri ha ottenuto il disco
verde definitivo da parte della camera. Anche grazie alla
blindatura decisa dal governo che ha chiesto la fiducia
all'aula di Montecitorio (i sì sono stati 364, i no 185).
Molti fra i correttivi introdotti dal parlamento mirano
proprio a far ripartire la riforma di province e città
metropolitane, che ad oltre un anno dall'approvazione della
legge 56/2014 ha fatto registrare pochi passi avanti.
La
novità principale è l'introduzione di un meccanismo di tipo
sostanzialmente sanzionatorio a carico delle regioni che
continueranno a boicottare il percorso di riallocazione
delle funzioni sulla carta non più di competenza degli enti
di area vasta, ma che attendono di trovare un nuovo padrone.
I governatori dovranno provvedere entro il prossimo 31
ottobre, se non vorranno vedersi costretti a mettere mano al
portafogli per finanziare le funzioni non trasferite.
Sarà
un dm a calcolare quanto dovrà essere versato dalle
amministrazioni regionali inadempienti entro il 30 novembre
per il 2015 ed entro il 30 aprile negli anni successivi. In
questo modo il governo spera di mettere un toppa al buco che
si è aperto nei conti delle ex province, mentre queste
ultime, in base a un altro correttivo al dl 78 approvato
durante l'iter parlamentare, per quest'anno predisporranno
un bilancio di previsione solo annuale. Per il futuro, si
vedrà, visto che gli ulteriori tagli previsti dall'ultima
legge di stabilità mettono a rischio anche le funzioni
rimaste a tali enti.
Diverse modifiche mirano a sciogliere
l'altro nodo delicato della riforma, strettamente connesso a
quello delle funzioni, ossia la ricollocazione del
personale, nel tentativo anche in questo caso, di accelerare
il percorso. Anche per i comuni non mancano le novità, come
la destinazione delle somme residue (pari a 29 milioni) sul
fondo di solidarietà 2014 agli enti che hanno subito più
forti riduzioni di assegnazioni a seguito dell'applicazione
del riparto perequativo del 20% del fondo 2015, basato sulle
capacità fiscali ed i fabbisogni standard.
Infine, il dl ha
imbarcato anche misure che nulla hanno a che fare con gli
enti locali, a partire da quelle che puntano a risolvere il
caos organizzativo delle agenzie fiscali causato dalla
sentenza della Corte costituzionale n. 37/2015
(articolo ItaliaOggi del 05.08.2015). |
ENTI LOCALI - VARI: Carta
d'identità del donatore. Le disposizioni sugli organi
indicate all'ufficio comunale.
La direttiva del ministero dell'interno spinge i
cittadini a manifestare la propria volontà.
I cittadini maggiorenni, all'atto del rilascio o del rinnovo
della carta d'identità, potranno fornire all'ufficio
comunale il proprio assenso o diniego alla donazione di
organi e tessuti a scopo di trapianto. A tal fine, i comuni,
nelle more del definitivo decollo di questa possibilità,
potranno avviare campagne informative ad hoc dirette ai
cittadini.
È quanto si prefigge la
nota 29.07.2015 n. 2128 di prot. del
Ministero dell'Interno, emanata in ossequio alle disposizioni
contenute, da ultimo, all'articolo 3, comma 8-bis, del dl n.
194/2009, ove si dispone che la carta d'identità può altresì
contenere l'indicazione del consenso o del diniego a donare
gli organi in caso di morte.
Con la novella legislativa indicata, il legislatore ha
inteso fornire un ulteriore strumento ai cittadini per
registrare la dichiarazione di volontà, ovvero al momento
del rilascio o del rinnovo del documento d'identità.
Ciò consentirà di raggiungere in modo progressivo e costante
tutti i cittadini maggiorenni che saranno invitati
dall'operatore dell'ufficio anagrafe a manifestare il
proprio consenso o diniego alla donazione di organi.
Al centro della procedura, pertanto, vi è l'interfaccia tra
le amministrazioni comunali e il Sistema informativo dei
trapianti (Sit). Un passo che, ammette lo stesso Viminale,
non sarà immediato, in considerazione della ingente mole di
dati che affluirà al predetto Sit da parte dei comuni.
Tuttavia, nelle more, il documento in esame precisa che la
dichiarazione al consenso o al diniego sia resa in duplice
copia; di queste, una resterà presso gli archivi comunali e
l'altra al dichiarante come ricevuta. Solo se il cittadino
lo consentirà, il consenso o diniego potrà essere riportato
sulla quarta facciata del documento di riconoscimento con
una formula che recita: «Assenso alla donazione di organi»,
ovvero «Diniego alla donazione di organi e tessuti». La
decisione del cittadino, così acquisita, verrà trasmessa
telematicamente al Sit per l'implementazione della relativa
banca dati.
Viene precisato, infine, che la manifestazione di volontà
non è certo definitiva, potendo ben essere cambiata in
qualsiasi momento. In tali casi, il cittadino dovrà recarsi
all'Asl di appartenenza o, limitatamente in caso di rinnovo
della carta d'identità, anche presso l'ufficio anagrafe del
comune e ricompilare il modulo con cui si sceglie la nuova
volontà
(articolo ItaliaOggi del 05.08.2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti
pericolosi, più alti i limiti per l’ecotossicità. Ambiente.
Con la conversione del decreto legge 78/2015.
L’attribuzione ai rifiuti pericolosi della
caratteristica di pericolo HP 14 (ecotossico) sta per
ricollocarsi provvisoriamente all’interno dei criteri Adr,
criteri già introdotti dalla legge 28/2012.
Lo stabilisce il
comma 9-ter dell’articolo 7 del Ddl di conversione in legge
del Dl 78/2015 in materia di enti territoriali che oggi
verrà approvato alla Camera con il voto di fiducia.
L’emendamento, in attesa di specifici criteri europei
europei, prevede l’attribuzione della caratteristica di
pericolo «ecotossico» ai criteri Adr già voluti dalla legge
28/2012 anche se, dallo scorso 1° giugno, sono entrati in
vigore il regolamento Ue 1357/2014 e la decisione
2014/955/Ue: il primo con le nuove indicazioni europee per
attribuire le caratteristiche di pericolo ai rifiuti; la
seconda con il nuovo elenco europeo dei rifiuti.
Il problema si è posto perché sulla caratteristica di
pericolo HP 14 il regolamento 1357/2014 contiene una nota
sulla sua attribuzione. La nota rinvia in modo statico ai
criteri della direttiva 67/548, allegato VI. Pertanto, anche
se la direttiva è abrogata dal 01.06.2015, l’allegato VI
(fino al 28° adeguamento) mantiene la sua vigenza. Fermo
restando che anche quello europeo è un criterio provvisorio,
in attesa dei nuovi canoni che la Commissione Ue darà. Il
richiamo all’allegato VI è presente anche nel preambolo
della decisione 2014/955/Ue.
Tuttavia, i resoconti ufficiali delle riunioni preparatorie
del regolamento 1357/2014 effettuate sul tema attestano che
la Commissione Ue avrebbe voluto lasciare gli Stati membri
liberi di utilizzare i propri criteri di valutazione dell’ecotossicità.
Lo stesso è scritto nella bozza di linea guida Ue sulla
classificazione dei rifiuti in corso di elaborazione presso
la Commissione.
Per questi motivi molte letture militano a
favore dell’utilizzo dei criteri Adr per la classe 9-M6 e
M7, già vigenti a seguito della legge 28/2012. A differenza
del regolamento 1357/2014 e della decisione 2014/955, però,
né i resoconti né la bozza di linea guida sono norme.
Ora tali criteri Adr stanno per essere rivalidati a livello
nazionale dalla conversione del Dl 78/2015 che ristabilisce
lo “status quo ante” per l’attribuzione della caratteristica
di pericolo HP14 ai rifiuti; infatti, nella norma si legge
che tale metodica dovrà essere seguita, «nelle more
dell’adozione da parte della Commissione europea» di criteri
specifici per favorire la «corretta gestione» dei centri di
raccolta comunale e per «l’idonea classificazione dei
rifiuti».
Con parere 14.05.2015 il Consiglio di Stato si esprimeva
su uno schema di decreto, mai emanato, che avrebbe favorito
la lettura integrata delle nuove norme Ue con il Codice
ambientale. In quel decreto figurava il richiamo all’Adr per
l’HP 14 ma il Consiglio di Stato non si pronunciava
favorevolmente in ordine a tale richiamo. Del resto
l’articolo 288 del Trattato Ue attribuisce ai regolamenti
natura di atto normativo prevalente sulle disposizioni
nazionali di segno contrario (articolo Il Sole 24 Ore del
04.08.2015). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI: Servitù
di parcheggio con contratti a regola d’arte. Diritti reali.
Studio del Notariato dopo la «stretta» della Cassazione.
Sono validi il contratto o la clausola
contrattuale con cui si costituisca una servitù di
parcheggiare a favore di un fondo (dominante) e a carico di
un altro fondo (servente). Quando dunque la Cassazione ha
sancito con la sentenza 23708/2014 la nullità della servitù di parcheggio non
ha dichiarato l’inconfigurabilità in assoluto della servitù
di parcheggio, ma ha ritenuto che le servitù esaminate nel
caso specifico non avessero i requisiti per ritenere valido
il diritto di servitù; in questo senso andrebbe quindi
intesa l’affermazione della sentenza n. 23708 secondo cui la
servitù di parcheggio sarebbe nulla per «impossibilità
dell'oggetto».
È quanto affermato dal Consiglio nazionale del Notariato
nello
studio 06-08.05.2015 n. 1094-2014/C e recentemente divulgato. Secondo i notai, non è
in discussione se la servitù di parcheggio si possa
costituire, ma come lo si faccia.
E' uno di quei casi in cui la pronuncia non può essere letta
solo per i principi che reca, ma anche per il fatto concreto
osservato nel corso della controversia. Per questo parrebbe
opportuno che i giudici di legittimità ponessero maggiore
attenzione alle espressioni utilizzate, segnalando, ad
esempio, che il principio enunciato non è generalizzabile
perché legato al caso specifico: se invece, come accaduto
per la
sentenza
06.11.2014 n. 23708 della Corte di Cassazione,
Sez. II civile, la motivazione sia limitata in
pochissime righe, nelle quali concetti assai “pesanti” come
quello di “impossibilità dell'oggetto” sono branditi senza
adeguate precisazioni, le sentenze corrono il rischio di
essere ricordate come inappropriate, poiché da esse non è
desumibile alcun principio utilizzabile in altre situazioni.
Nello Studio del Notariato si rammentano anzitutto gli
elementi indispensabili per costituire validamente anche la
servitù di parcheggio, dopo aver ricordato che il contenuto
delle servitù può essere liberamente determinato, poiché
quante sono le utilità che un fondo può conferire ad altro
fondo (transito, veduta eccetera), tante sono le
corrispondenti servitù che possono essere istituite. In
particolare:
a) la servitù deve avere il requisito dell’immediatezza,
vale a dire che il titolare del fondo dominante deve potersi
avvalere dell’utilità che deriva dalla servitù, senza
l’altrui collaborazione (e, in particolare, la
collaborazione del titolare del fondo servente);
b) la servitù deve essere costituita per un utilità
specifica (i diritti di usufrutto, uso e abitazione
consentono, invece, al loro titolare un utilizzo generico
del bene, nei limiti della definizione data dal legislatore)
mentre non può consistere in un godimento generale o
generico del fondo asservito;
c) la servitù deve essere inerente sia al fondo servente
(come gravame di detto fondo) sia al fondo dominante (deve
dare utilità a tale fondo), con la conseguenza che l’atto
traslativo che abbia a oggetto i fondi trascina con sé la
servitù impressa su di essi;
d) la servitù deve apportare una utilità al fondo dominante
(e non essere un vantaggio personale del proprietario).
E' quest’ultimo l’aspetto più critico in quanto non è
concepibile l’utilità di un bene indipendente da quella
delle persone che ne godono, il che rende assai complesso
discriminare il vantaggio puramente personale da quello
conseguito come titolare di un bene.
Questo problema dunque andrebbe risolto –secondo lo Studio
del Notariato– nel senso di ritenere che l’utilità giunge
al titolare del fondo dominante attraverso il godimento di
tale fondo; in altre parole, la servitù deve dare incremento
alla utilizzazione del fondo dominante e deve essere
strumentale all’utilizzazione del fondo dominante. Insomma,
il passeggiare sul fondo altrui (o il pranzare sul fondo
altrui) possono anche essere l’oggetto di un diritto di
servitù, se ad esempio il fondo servente sia un albergo e il
gravame del fondo altrui sia funzionale all’esercizio
dell’attività che si svolge sul fondo dominante.
Anche la servitù di parcheggio dunque, se presenta, in
particolare, i caratteri della immediatezza, della “doppia”
inerenza (al fondo dominante e a quello servente), della
vicinanza e della specificità (ovvero della sua
localizzazione sul fondo servente) è validamente impostabile
come il diritto di far stazionare uno o più veicoli, di un
determinato tipo, sul fondo altrui, per dotare di detta
utilità un altro immobile, cui sia connaturata una presenza
umana per periodi continuativi, ad esempio, per esigenze
abitative, professionali o imprenditoriali (articolo Il Sole 24 Ore del
04.08.2015). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI:
Parcheggi, servitù viva. Ma la piazzola va individuata
chiaramente.
Studio del Notariato sugli effetti di una
sentenza della Cassazione.
La servitù di parcheggio sopravvive. Ma bisogna essere
chiari nell'individuare esattamente la piazzola di
posteggio, destinata alla fruizione esclusiva
dell'interessato.
Questo vale anche dopo la
sentenza
06.11.2014 n. 23708 della Corte di Cassazione,
Sez. II civile, che solo apparentemente ne ha dichiarato la
nullità. La Corte ha, infatti, cassato solo alcune clausole.
È quanto sostenuto dallo
studio 06-08.05.2015 n. 1094-2014/C
del Consiglio nazionale del notariato, che propone un
modello standard di contratto costitutivo.
Lo studio chiarisce, quindi, che anche il parcheggio possa
esser il contenuto di una servitù volontaria, diritto reale
e quindi tipico ma a contenuto atipico o più esattamente
libero.
Per la sua validità, sono necessari alcuni requisiti.
Tra questi lo studio evidenzia che la localizzazione e cioè
la determinazione del luogo in cui si eserciterà la servitù
sia un requisito imprescindibile.
L'utilizzo del parcheggio deve essere, spiega lo studio,
godimento della proprietà dell'immobile dominante, perché si
tratta del parcheggio dell'abitazione (o dell'ufficio,
dell'albergo, o di una fabbrica). In effetti, prosegue il
documento, parcheggiare significa esercitare il diritto di
accedere con la propria vettura (o dei propri clienti,
ospiti, dirigenti, impiegati, operai, trasportatori)
all'abitazione (o all'ufficio, all'albergo, azienda) oppure
di allontanarsene con lo stesso mezzo.
Nel contratto di costituzione della servitù bisogna
stabilire dove esattamente si debba sostare e, quindi, dove
sia il posteggio.
La mancata indicazione del fondo servente in senso proprio
rende indeterminato il diritto ed insussistente il possesso.
L'oggetto della convenzione potrebbe rivelarsi indeterminato
e la servitù è nulla.
Se in un'area non è individuata la porzione di fondo adibita
a parcheggio non è un diritto reale di servitù (la piazzola
la uso io e io solo), ma solo un rapporto di tipo
obbligatorio: il proprietario è obbligato a far trovare di
volta in volta un posto di parcheggio alla sua controparte
contrattuale.
Per spiegare il concetto i notai fanno
l'esempio di un'area per dieci auto, in cui rimangano in
genere dei posti vuoti, su cui si voglia costituire un
diritto di sosta a favore del vicino, ma non venga definito
il posteggio specifico. Il vicino non avrà alcuna situazione
di possesso di questa o quella piazzola, dovendo di volta in
volta trovare un posto non occupato da altri: non è una
servitù, ma è un rapporto di tipo obbligatorio e le parti
conteranno sul fatto che, in un posto o nell'altro, il
vicino potrà sempre parcheggiare.
Il requisito si chiama «inerenza dell'utilità al fondo
dominante» e cioè l'utilità che ne trae chi ha la necessità
di parcheggiare. È questo è un punto giuridicamente molto
delicato, perché bisogna distinguere l'utilità personale
dall'utilità tipica del diritto reale (che riguarda i beni).
La via di uscita, individuata dai notai, si basa sulla
definizione dell'utilità al fondo come «incremento
all'utilizzazione del fondo dominante», intesa nel senso che
l'esercizio della servitù dev'essere strumentale alla
fruizione del fondo dominante stesso. La conseguenza è che
godere della servitù di parcheggio significa
contemporaneamente godere di esso. I notai richiamano il
concetto di «fruizione contemporanea» dei due fondi.
L'atto di esercizio del diritto di servitù di parcheggio,
spiegano i notai, costituisce una fruizione contemporanea
del parcheggio e dell'abitazione o dell'edificio che ne fa
uso; e ha, da questo punto di vista, una duplicità di
oggetto.
In sostanza la servitù di parcheggio somiglia alla servitù
industriale, cioè quella costituita per ospitare nel fondo
un'industria o un'attività commerciale.
In conclusione non si può dire che la servitù di parcheggio
non esista. Il problema è scrivere bene le clausole
contrattuali: se si vuole stabilire un diritto reale non si
può trascurare di identificare esattamente i fondi, con dati
catastali, confini e dimensioni dell'area di esercizio della
servitù di parcheggio
(articolo ItaliaOggi del 04.08.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Non tutti i vigili provinciali saranno in
sovrannumero.
Per i comuni si apre la possibilità di assumere vigili
stagionali ed educatori e docenti nelle scuole materne e
asili nido.
Le modifiche introdotte dal senato al decreto enti locali
(dl 78/2015), su cui oggi, come annunciato dal ministro per
le riforme, Maria Elena Boschi, il governo chiederà la
fiducia alla camera, recuperano alcune delle previsioni
inizialmente inserite nei testi in bozza del decreto, poi
sparite dalla redazione finale, consentendo ai comuni di
fare finalmente fronte nei settori più delicati della loro
attività.
Vigili stagionali.
Le modifiche introdotte al senato riscrivono in modo
radicale l'articolo 5 del dl 78/2015. La più rilevante
novellazione è quella che riguarda i vigili stagionali. La
norma prevede che «sono fatte salve le assunzioni di
personale a tempo determinato effettuate dopo l'entrata in
vigore del presente decreto, anche se anteriormente alla
data di entrata in vigore della relativa legge di
conversione, per lo svolgimento di funzioni di polizia
locale, esclusivamente per esigenze di carattere
strettamente stagionale e comunque per periodi non superiori
a cinque mesi nell'anno solare, non prorogabili».
Come si
nota, non si tratta propriamente di una disposizione che
autorizza gli enti ad assumere vigili stagionali, bensì di
un'inusitata sanatoria: il maxiemendamento sana la nullità
assoluta delle assunzioni effettuate dai comuni in
violazione delle disposizioni dell'articolo 5 del dl
78/2015, ammettendo indirettamente l'irrazionalità di tale
testo, ma introducendo un pericoloso precedente. Tuttavia,
il maxiemendamento votato dal senato lascia ancora fermo il
divieto per i comuni di assumere personale di polizia
municipale al di fuori di quello da acquisire in mobilità
dalle province.
Sicché, si assiste al paradossale effetto di considerare
espressamente legittime assunzioni effettuate in violazione
del divieto imposto dal dl 78/2015, «premiando» i comuni che
avevano infranto la norma; contestualmente, restano
penalizzati i comuni che hanno rispettato il divieto
contenuto nell'articolo 5 del dl 78/2015 e non hanno assunto
gli stagionali, per i quali non c'è la norma che ne
autorizza espressamente l'assunzione.
Mobilità dei vigili provinciali.
Il maxiemendamento conferma che i componenti dei corpi di
polizia provinciale andranno in mobilità verso i comuni, per
svolgere funzioni di polizia municipale, ma corregge
parzialmente il tiro, in modo per altro piuttosto confuso.
Si demanda a province e città metropolitane il compito di
individuare chi, all'interno del personale di polizia
locale, sia da considerare necessario per le funzioni
fondamentali: si presume quelle connesse alla tutela
dell'ambiente e regolazione della circolazione stradale.
Sicché, non tutta la polizia provinciale sarà in
sovrannumero. Questo comporterà scompensi nelle province,
perché per rispettare l'obbligo di tagliare il costo delle
dotazioni organiche del 50%, altro personale dovrebbe essere
messo in sovrannumero, al posto dei vigili considerati
indispensabili per le funzioni fondamentali.
In secondo
luogo, il maxiemendamento prevede che le regioni con leggi
da emanare entro il 31 ottobre riallochino il rimanente
personale della polizia provinciale nell'ambito delle
funzioni non fondamentali acquisite dalle regioni stesse o
trasferite da esse ad altri enti. I componenti dei corpi di
polizia provinciale dovranno, comunque, passare in mobilità
ai comuni, qualora entro il 31 ottobre le province e le
città metropolitane non abbia individuato quello destinato
alle funzioni fondamentali, oppure, sempre entro la stessa
data, le regioni non abbiano legiferato in merito.
Personale della scuola.
Sì ad assunzioni a tempo indeterminato di educatori e
docenti. Il maxiemendamento introduce un nuovo secondo
periodo nel corpo dell'articolo 1, comma 424, della legge
190/2014, consentendo ai comuni di attivare concorsi ed
assumere a tempo indeterminato «personale in possesso di
titoli di studio specifici abilitanti o in possesso di
abilitazioni necessarie per lo svolgimento delle funzioni
fondamentali relative all'organizzazione e gestione dei
servizi educativi e scolastici»
(articolo ItaliaOggi del 04.08.2015). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA:
Via
libera al Durc online con rate e mini-debiti. Regolarità
contributiva anche con pendenze fino a 150 euro.
Semplificazioni. La procedura telematica avviata il 1°
luglio e i requisiti per il certificato.
Possono ottenere il documento di regolarità
contributiva con la nuova procedura telematica partita il 1°
luglio (Durc online) anche le aziende che hanno in corso una
rateizzazione dei versamenti e quelle che hanno uno
«scostamento» non superiore a 150 euro tra le somme dovute e
quelle effettivamente versate.
Sono questi due elementi di flessibilità della procedura di
semplificazione del Durc prevista dal Dl 34/2014 (articolo
4) e avviata con il decreto ministeriale del 30.01.2015.
Il Durc online può portare a indubbi vantaggi in termini di
velocità nell’acquisizione del documento unico di regolarità
contributiva ma è bene conoscere nel dettaglio tutti i
risvolti di maggior rilievo, soprattutto con riferimento
alle situazioni che possono generare criticità nel rilascio
del documento.
Intanto, va detto che l’ambito oggettivo della verifica
comprende i pagamenti nei confronti di Inps, Inail e Casse
edili scaduti sino all’ultimo giorno del secondo mese
antecedente a quello in cui è effettuata. La disposizione
presuppone che sia scaduto anche il termine di presentazione
delle correlate denunce retributive.
Lo stesso decreto fa salvo il rilascio della regolarità in
particolari condizioni, come quelle di crisi dell’impresa:
-
in pendenza di rateizzazioni concesse dagli enti coinvolti
nel processo di verifica o dagli agenti della riscossione;
-
nei casi di sospensione dei pagamenti in forza di
disposizioni legislative;
-
quando sussistono crediti (verificati) in fase
amministrativa oggetto di compensazione;
-
in presenza di crediti, sempre in fase amministrativa in
pendenza di contenzioso amministrativo o giudiziario,
ricorrendo particolari presupposti;
-
qualora vi siano crediti affidati per il recupero agli
agenti della riscossione, nei confronti dei quali sia stata
operata la sospensione della cartella di pagamento.
Sulle rateizzazioni, è importante ricordare che -con
riferimento alle dilazioni concesse dall’agente della
riscossione– il debitore può conservarne il beneficio anche
omettendo il versamento di otto rate (non necessariamente
consecutive). Questo può avvenire nell’ambito di un piano di
ammortamento di 72 o di 120 rate (articolo 19 del Dpr
602/1973, salvo modifiche che potrebbero arrivare con
l’attuazione della delega fiscale).
Un’altra facilitazione risiede nell’ipotesi dello
scostamento «non grave» che non fa scattare l’irregolarità
se la differenza tra le somme dovute e quelle versate si
attesta su importi pari o inferiori a 150 euro. Il valore
deve essere considerato con riferimento ai singoli enti: nel
caso dell’Inps, si applica a ciascuna gestione (dipendenti, Co.co.co, datori di lavoro agricoli con dipendenti,
lavoratori autonomi artigiani e commercianti, lavoratori
autonomi agricoli, lavoratori dello spettacolo e dello sport
professionistico) nella quale si è originata la scopertura,
considerando sia i contributi che le sanzioni civili.
Per l’Inail l’importo dei 150 euro deve essere invece
considerato distintamente, secondo il seguente criterio:
come sommatoria delle diverse scoperture, con riferimento
alle tariffe industria, artigianato, terziario, altre
attività e premi speciali; come totale insoluto della
gestione navigazione; come totale insoluto delle polizze per
apparecchi radiologici e sostanze radioattive.
Una particolare attenzione deve essere posta nei casi di
irregolarità, emersa dal controllo nelle singole gestioni
degli enti coinvolti: qui il sistema non sarà in grado di
emettere il Durc in tempo reale e informerà il richiedente
che sono in corso verifiche. L’esito finale
dell’interrogazione sarà successivamente comunicato
all’indirizzo Pec (dell’interessato o dell’intermediario)
indicato nell’applicativo in fase di accesso.
L’articolo 4, comma 1, del Dm prevede che –in questa ipotesi– sia inviato al richiedente o all’intermediario delegato
l’invito a regolarizzare la posizione, nel termine di 15
giorni. In realtà, come ha precisato il ministero del Lavoro
con la circolare 19/2015, l’ente coinvolto non potrà
dichiarare l’irregolarità prima che siano trascorsi 30
giorni dall’iniziale interrogazione del Durc online,
consentendo così di ritenere validi anche i versamenti
effettuati successivamente alla scadenza dei termini del
preavviso ma comunque avvenuti nell’arco dei 30 giorni.
Infine, una particolarità riguarda la verifica dei
lavoratori iscritti alle gestioni dei lavoratori autonomi
artigiani e commercianti. Per questi soggetti bisogna
effettuare una doppia verifica: all’Inail per quanto
concerne gli aspetti assicurativi e all’Inps per il
controllo della regolarità della posizione Inps dei soci (si
pensi a una Snc con diversi soci artigiani).
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LA RICHIESTA DEL DOCUMENTO
L’utente che
ha le credenziali accede al portale Inps o a quello
dell’Inail e seleziona il servizio Durc online.
Sceglie la funzione «Consultazione Regolarità», inserisce il
codice fiscale del soggetto di cui si richiede la verifica e
clicca su «Consulta regolarità»: se è già presente un
documento di regolarità in corso di validità, questo può
essere visualizzato e scaricato in formato Pdf.
In caso contrario, bisogna utilizzare la funzione «Richiesta
regolarità».
A quel punto, se altri hanno già richiesto la verifica, il
portale avvisa l’utente e fornisce il numero di protocollo
già attribuito alla prima richiesta; viceversa, prende in
carico la nuova richiesta e assegna un protocollo.
Si può rimanere in attesa dell’esito oppure tornare
sull’applicativo in un secondo momento attraverso la
funzione «Lista richieste» (dove è previsto il controllo
dello stato di avanzamento dell’interrogazione).
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L’ATTESTAZIONE DI REGOLARITÀ
IL RILASCIO IMMEDIATO
Se è possibile attestare subito la regolarità.
Il sistema emette in tempo reale il Durc, in formato Pdf,
con le seguenti indicazioni: denominazione, sede legale,
codice fiscale del soggetto interessato; iscrizione
all'Inps, all'Inail e –se previsto– alle Casse Edili;
dichiarazione di regolarità; numero identificativo, data di
effettuazione della verifica e data di scadenza di validità
(120 giorni).
LA VERIFICA SUPPLEMENTARE
Se non è possibile attestare subito la regolarità
Il sistema comunica con un messaggio che è stata attivata la
procedura di verifica; esaurita questa fase, con una
successiva Pec al richiedente, viene quindi data
comunicazione che l’esito può essere visualizzato a sistema
(attraverso la funzione «Lista Richieste»); se questo è
positivo, il Durc può essere visualizzato e scaricato.
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LA SITUAZIONE DI IRREGOLARITÀ
Se gli enti
rilevano situazioni di irregolarità, entro 72 ore emettono
l’invito a regolarizzare, tramite Pec all’interessato o al
soggetto delegato, assegnando il termine di 15 giorni.
Se la regolarizzazione non avviene prima della scadenza dei
30 giorni dalla data della richiesta, è emessa
l’attestazione di irregolarità. Nel nuovo sistema non è più
prevista la regola del silenzio-assenso che invece era
disciplinata dalle disposizioni precedenti.
Se la richiesta è stata effettuata da una Pa e ne ricorrono
i presupposti, l’irregolarità farà scattare l’intervento
sostitutivo (articolo 4, Dpr 20/2010, come modificato
dall’articolo 31 del Dl 69/2013).
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Vecchio sportello in via residuale.
La transizione. Fino al 01.01.2017.
La complessità
del sistema che ruota intorno alla verifica della regolarità
contributiva crea alcune situazioni particolari che devono
essere gestite con accorgimenti ad hoc: non sempre è
sufficiente, infatti, effettuare una sola interrogazione
della piattaforma del Durc online. In alcuni casi è
necessario servirsi ancora del “vecchio” portale, o
rivolgersi a entrambi gli applicativi di Inps e Inail.
Cerchiamo quindi di capire come vanno gestiti questi casi
particolari. L’impianto dello Sportello unico previdenziale
(www.sportellounicoprevidenziale.it) a cui si accedeva nel
sistema previgente rimane attivo per alcune casistiche
residuali.
Il metodo tradizionale
Fatta salva la regola generale di accedere -tramite i siti
di Inps e Inail- alla sezione dedicata al Durc online,
l’uso del vecchio sportello (che resterà operativo, per una
fase transitoria, non oltre il 01.01.2017) rimane
obbligatorio per richiedere la verifica in queste ipotesi:
per la certificazione dei crediti tramite la piattaforma
istituita dal ministero dell’Economia;
per i Durc correlati al pagamento di fatture di debiti
scaduti al 31.12.2012, rientranti nel perimetro
applicativo dell’articolo 6, comma 11-ter, del Dl 35/2013;
per la regolarizzazione di lavoratori extracomunitari, da
parte degli Sportelli unici;
per la ricostruzione privata nell’ambito del terremoto in
Abruzzo.
Peraltro, l’Inail (nota del 02.07.2015, n. 4605) fornendo
le istruzioni per le richieste di Durc sopra elencate, ha
precisato anche che l’unica verifica effettuabile attraverso
il portale è quella riferita alla causale «Altra tipologia»
per «Altri usi consentiti dalla legge», che viene preimpostata automaticamente dal sistema.
È sulla stessa linea l’Inps: con il messaggio 4521 del 2
luglio, l’Istituto ha comunicato che eventuali richieste di
Durc presentate allo Sportello unico, al di fuori delle
ipotesi previste, dovranno essere riproposte tramite la
nuova procedura.
Tra i casi di utilizzo residuale dello Sportello, vanno
annoverate tutte quelle situazioni –evidenziate dalla
circolare del Lavoro 19/2015– nelle quali non sia possibile
il rilascio del Durc online, per l’assenza delle
informazioni necessarie all’interno degli archivi dell’Inps,
dell’Inail e delle Casse edili: comunque, la verifica
seguirà le regole disposte dal decreto ministeriale del
30.01.2015 (ad esempio, in caso di scostamento non grave,
previsto dall’articolo 4, comma 3, del Dl 34/2014).
Quando il canale è obbligato
Le aziende e gli operatori devono poi prestare attenzione
alle ipotesi per le quali è obbligatorio servirsi del canale
dedicato dell’Inps piuttosto che di quello dell’Inail,
seguendo le indicazioni fornite dai due Istituti con le
circolari del 26.06.2015 (rispettivamente la n. 126 e la
n. 61).
Ad esempio, si deve esclusivamente accedere al portale
dell’Inps per verificare la regolarità delle aziende
agricole che occupano alle loro dipendenze operai. Lo stesso
iter va seguito con riferimento alle posizioni dei titolari
di impresa agricola, a prescindere dalla qualifica.
In linea generale, non è più necessario indicare la
motivazione per la quale è richiesto il Durc online: nel
dettaglio, nei confronti dell’Inail, non viene più
effettuata alcuna verifica sul rischio assicurato in
relazione all’oggetto del contratto pubblico o al
procedimento amministrativo in cui il Durc stesso è
utilizzato (articolo Il Sole 24 Ore del
03.08.2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Semplificazione anche per l’Aua. Operativo dal 30 giugno il
documento standard per l’autorizzazione unica ambientale.
Stabilimenti. Con un solo passaggio si possono chiedere fino
a sette diversi nullaosta per l’insediamento di nuove
attività.
Dopo due anni
di sperimentazione dell’autorizzazione unica ambientale (Aua)
arriva ora anche l’autorizzazione unica semplificata.
È
operativo dal 30 giugno, infatti, il modello unico di
autorizzazione ambientale semplificata.
Il Dpr 59/2013 ha introdotto l’autorizzazione unica
ambientale quale strumento di semplificazione delle
autorizzazioni e comunicazioni ambientali e, quindi, degli
adempimenti amministrativi in materia ambientale gravanti
sulle piccole e medie imprese e sugli impianti non soggetti
ad Aia (autorizzazione integrata ambientale).
L’Aua è un provvedimento unico che sostituisce le precedenti
autorizzazioni e comunicazioni di natura ambientale che
tipicamente sono richieste per svolgere attività produttive.
In particolare, questo nullaosta sostituisce sette
procedimenti:
- l’autorizzazione agli scarichi;
- l’utilizzazione agronomica degli effluenti;
- l’autorizzazione all’emissione in atmosfera;
- l’autorizzazione generale ex articolo 272 del Codice
dell’ambiente (Dlgs 152/2006);
- la valutazione impatto acustico;
- l’autorizzazione utilizzo fanghi;
- le comunicazioni in materia di rifiuti di cui agli
articoli 215 e 216 del Codice dell’ambiente.
L’Aua andrebbe richiesta prima dell’avvio di nuove attività
produttive, o alla scadenza-rinnovo del primo titolo
autorizzativo incluso nell’autorizzazione unica.
Secondo l’articolo 3 del Dpr 59/2013, è comunque fatta salva
la facoltà per gli operatori di non avvalersi
dell’autorizzazione unica ambientale nel caso in cui si
tratti di attività soggette solo a comunicazione (ad esempio
il recupero rifiuti), ovvero ad autorizzazione di carattere
generale. Alle Regioni era riservata la possibilità di
incrementare il numero di autorizzazioni sostituite.
L’articolo 4 del Dpr 59/2013, poi, indica le modalità di
presentazione della domanda presso il Suap. La
semplificazione introdotta da questo titolo autorizzativo,
da un lato, consiste nella durata dell’autorizzazione
fissata in 15 anni, ben più lunga rispetto alla durata di
alcune autorizzazioni singole sostituite (ad esempio per gli
scarichi, la cui autorizzazione ha una durata di quattro
anni), dall’altro, dovrebbe consistere nella presentazione
di un’unica domanda allo sportello unico per le attività
produttive.
Tuttavia, in molti casi, l’utilizzo del Suap si è rilevato
più complesso del previsto, con conseguente aggravio delle
procedure. Non a caso, alcune Regioni sono dovute
intervenire con linee guida applicative. Ad esempio, la
Lombardia ha già previsto l’utilizzo di un modello unico
regionale (approvato con Ddg 512/2014) da presentarsi in via
telematica. È quindi con interesse che enti e operatori
attendevano il modello semplificato previsto dall’articolo
10, comma 3, del Dpr 59/2013, varato con decreto dell’08.05.2015 emanato dal ministero per la Semplificazione e
dal ministero dell’Ambiente (si veda l’altro articolo in
pagina).
Il decreto contiene uno specifico modello di istanza di
autorizzazione unica, che dovrà essere utilizzato dalle
regioni. Invero, questo modello deve immediatamente essere
applicato dalle Regioni atteso che il termine di
“recepimento” previsto nel decreto di fatto è coinciso con
la data di pubblicazione del decreto stesso, ossia il 30.06.2015.
Alle Regioni, poi, spetta il compito di pubblicizzare e
promuovere il ricorso a questo strumento di semplificazione.
Occorrerà, dunque, verificare se con tale decreto attuativo,
le semplificazioni prospettate dal Dpr 59/2013 divengano
effettivamente tali.
---------------
Un nuovo modello con 55 pagine (più gli
allegati). Il decreto. Necessaria la compilazione assistita.
La norma che
ha introdotto l’autorizzazione unica ambientale (articolo
10, comma 3, del Dpr 59/2013) aveva espressamente previsto
un modello semplificato e unificato per la richiesta di Aua
da varare con decreto del ministero dell’Ambiente di
concerto con quello per la pubblica amministrazione.
Con il decreto dell’8 maggio scorso (pubblicato il 30.06.2015 sulla «Gazzetta Ufficiale») ha trovato attuazione
questa previsione legislativa.
Il modello semplificato di istanza è un documento di quasi
55 pagine che, attraverso la sua compilazione, dovrebbe
aiutare i gestori degli impianti a fornire alle pubbliche
amministrazioni tutte le informazioni necessarie relative ai
permessi ambientali sostituiti dall’Aua.
La prima parte del documento richiede le informazioni
generali relative al gestore, impianto e autorizzazioni da
sostituire, rinnovare o modificare.
La seconda parte del documento, invece, si compone di otto
schede relative alle autorizzazioni e comunicazioni
sostituite, rispettivamente per gli scarichi di acque
reflue, utilizzazione agronomica, emissioni in atmosfera per
gli stabilimenti, emissioni in atmosfere per impianti e
attività in deroga, impatto acustico, utilizzo dei fanghi
derivanti dal processo di depurazione in agricoltura,
operazioni di recupero di rifiuti non pericolosi e
operazioni di recupero di rifiuti pericolosi (si veda la
scheda a lato).
Attraverso la compilazione delle schede, il gestore fornisce
alle autorità le informazioni sostanziali relative alle
autorizzazioni di interesse (ovviamente, andranno compilate
solo le schede che riguardano le attività effettivamente
esercitate).
Il modello ministeriale, tuttavia, oltre alla compilazione
delle schede richiede anche la presentazione di ulteriori
allegati che dovranno essere predisposti dal gestore per
ogni autorizzazione o comunicazione sostituita
dall’Autorizzazione unica.
In particolare, è previsto che siano predisposte specifiche
relazioni tecniche per le attività di utilizzazione
agronomica delle acque di vegetazione e degli scarichi dei
frantoi oleari, dei fanghi di depurazione e delle operazioni
di recupero dei rifiuti pericolosi e non pericolosi.
Il modello, dunque, rappresenta sicuramente un ausilio per
gli operatori e per le autorità in quanto definisce e
illustra tutte le informazioni e i documenti che devono
essere contenuti e allegati alla domanda di autorizzazione
unica ambientale.
Tuttavia, resta il fatto che le informazioni da fornire e i
documenti da allegare (soprattutto nel caso in cui
l’operatore sia interessato alla sostituzione di più
provvedimenti autorizzativi) restano molti e richiedono
comunque, verosimilmente, un supporto tecnico importante (articolo Il Sole 24 Ore del
03.08.2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Regole
verdi, l'Italia si adegua. Stretta sulle sostanze pericolose
e adempimenti più snelli.
LEGGE EUROPEA 2014/Definitive le norme nazionali
di allineamento agli atti comunitari.
Stretta sulla presenza di sostanze pericolose in batterie,
acque destinate al consumo umano e luoghi di lavoro, ma
anche semplificazioni burocratiche per autorizzazioni
ambientali e allineamento delle regole su imballaggi e
relativi rifiuti alla disciplina Ue. Arrivano con le leggi
nazionali di adeguamento all'Ordinamento comunitario
licenziate definitivamente nel corso dello scorso luglio le
ultime novità ambientali di matrice estiva.
Con la «Legge europea 2014» approvata dal Parlamento il 23.07.2015 vengono infatti direttamente riscritte le norme
del dlgs 152/2006 (cd. «Codice ambientale») sulla disciplina
di imballaggi e rifiuti di imballaggio, mentre con la
parallela «Legge di delegazione europea 2014» licenziata
dalla stessa Assemblea il precedente 2 luglio viene
ufficialmente aperta la strada per il recepimento delle
ultime direttive comunitarie in materia di batterie e
relativi rifiuti, valutazione di impatto ambientale, tutela
delle acque e controllo delle sostanze chimiche.
Imballaggi.
La Legge europea 2014 interviene sulla disciplina recata
dall'articolo 217 e seguenti del dlgs 152/2006 al fine di
superare alcuni rilievi della Commissione Ue sul non
corretto recepimento della direttiva 94/62/Ue. In
particolare, viene innanzitutto ampliato l'ambito di
applicazione della disciplina sugli imballaggi e loro
rifiuti, precisando come essa riguardi, da un lato, la
gestione di tutti i beni immessi nel mercato dell'Ue (e
dunque, a cascata, in quello nazionale) e, dall'altro, che
la platea dei soggetti coinvolti sia costituita da qualsiasi
produttore o utilizzatore degli stessi e di quelli giunti a
fine vita.
Ancora, viene assicurata l'immissione sul mercato
nazionale degli imballaggi conformi, oltre alle disposizioni
del dlgs 152/2006, ad ogni altra disciplina adottata nel
rispetto della citata direttiva madre 94/62/Ce.
Parallelamente, viene sancita la presunzione di conformità
ai requisiti della direttiva in parola degli imballaggi in
linea con le pertinenti norme tecniche armonizzate.
Allargata infine la nozione di «riciclaggio organico»,
comprendente ora anche processi di biodegradazione senza
recupero energetico (laddove tale operazione viene
considerata soddisfatta anche con la semplice produzione di
metano). A titolo di mera correzione formale è invece
modificato l'allegato E alla suddetta Parte Quarta del dlgs
152/2006, laddove viene testualmente precisato che gli
obiettivi di riciclaggio relativi ai singoli materiali
contenuti nei rifiuti di imballaggio (vetro, carta, cartone,
metalli, plastica, legno) erano da conseguire entro la fine
del 2008.
Pile e relativi rifiuti.
Con il recepimento della 2013/56/Ue (il cui termine è già
scaduto lo scorso 01.07.2015) arriverà una stretta
sull'immissione sul mercato dei piccoli accumulatori
contenenti sostanze pericolose e la pronta rimovibilità di
tutte le pile dagli apparecchi che li utilizzano.
La nuova direttiva allarga infatti il divieto di utilizzo di
mercurio e cadmio nella produzione dei nuovi beni già
previsto dal provvedimento madre in materia (la direttiva
2006/66/Ue, tradotta sul piano nazionale dal dlgs 188/2008)
ed impone migliorie tecniche per agevolarne a valle il
trattamento una volta a fine vita.
Sotto il primo profilo,
detta direttiva vieta dal 02.10.2015 la
commercializzazione di tutte le «pile a bottone» contenenti
più dello 0,0005% di mercurio in peso (laddove l'attuale
soglia è del 2%) e dal 01.01.2017 quella di
accumulatori portatili per utensili elettrici senza fili
contenenti più dello 0,002% di cadmio in peso (ad oggi non
oggetto di limitazioni). Sotto il secondo profilo la stessa
direttiva 2013/56/Ue impone ai fabbricanti delle
apparecchiature che utilizzano pile un upgrade tecnico che
assicuri la loro semplice estrazione una volta diventate
rifiuti.
Valutazione di impatto ambientale.
Il recepimento della direttiva 2014/52/Ue sulla valutazione
dell'impatto ambientale (da effettuarsi entro il 16.05.2017) promette invece una semplificazione delle procedure
burocratiche per gli impianti interessati.
Dai criteri direttivi dettati dalla Legge di delegazione
europea 2014 si evince infatti che con l'attuazione della
nuova direttiva (plausibilmente tramite la revisione del
dlgs 152/2006, cd. «Codice ambientale») si eviterà
l'instaurazione di plurimi procedimenti autorizzativi a
carico dei soggetti richiedenti la Via, alleggerendone
(dunque) anche gli oneri economici.
La direttiva 2014/52/Ue, lo ricordiamo, modifica altresì
direttiva madre 2011/92/Ue introducendo anche nuovi aspetti
da considerare nella valutazione di impatto ambientale, come
la sensibilità di determinate aree, gravi incidenti e
calamità naturali provocati da cambiamenti climatici,
l'impatto delle demolizioni, i rischi per il patrimonio
culturale dovuti alla realizzazione di nuovi progetti.
Standard acque.
Una stretta su standard da rispettare e relativi controlli
arriverà in relazione alla qualità delle acque destinate al
consumo umano (diverse da quelle minerali e medicinali). Con
il recepimento della direttiva 2013/51/Euratom (da
effettuare entro il 28.11.2015) saranno infatti
riscritte le attuali regole previste dal dlgs 31/2001
(ereditate dalla pregressa direttiva 98/83/Ce) introducendo
nuovi parametri per le sostanze radioattive eventualmente
presenti e i nuovi punti ove i relativi valori dovranno
essere rispettati.
Sostanze chimiche.
Con l'attuazione della direttiva 2014/27/Ue saranno
allineate alle nuove regole per la classificazione delle
sostanze chimiche previste dal regolamento Ce n. 1272/2008
(in vigore dallo scorso 01.06.2015) anche alcune norme
preventive della sicurezza nei luoghi di lavoro.
Il recepimento della direttiva (il cui termine è scaduto lo
scorso 1° giugno) comporterà la riscrittura delle forme di
segnalazione della presenza di sostanze o miscele pericolose
e delle misure precauzionali per agenti chimici, biologici,
cancerogeni o mutageni.
Le nuove regole ex regolamento Ce n.
1272/2008, lo ricordiamo, hanno già inciso sulla
riformulazione della cd. disciplina «Seveso» sulla
prevenzione degli incidenti industriali connessi alla
presenza di determinate sostanze pericolose, disciplina ora
rappresentata dal dlgs 105/2015 in vigore dallo scorso
29.07.2015
(articolo ItaliaOggi Sette del
03.08.2015). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Nell’agriturismo l’attività agricola prevale
sull’ospitalità. Imprese. L’attività principale.
Chi fa agriturismo deve essere principalmente un
imprenditore agricolo e l’attività di ricezione e di
ospitalità non può prevalere sul suo “core business”.
In base a questo
principio la Corte di Cassazione - Sez. lavoro (sentenza
11.08.2015 n. 16685) respinge un ricorso contro
la sentenza della Corte d’appello che aveva dato partita
vinta all’Inps che reclamava da un imprenditore agricolo i
contributi previsti per i commercianti.
La decisione era fondata su diverse considerazioni: il
quantitativo di merce acquistata da terzi era superiore a
quella prodotta dall’azienda, il lavoro svolto dalla
ricorrente nell’azienda agricola era minore rispetto a
quello prestato dai familiari e da terzi, il reddito
dell’attività di ristorazione era maggiore di quello
ricavato con il fondo e anche il tempo dedicato agli ospiti
era superava quello riservato alla campagna.
Un’organizzazione non in linea né con la legge 730 del 1985
né con il Dlgs 228 del 2001, norme in base alle quali
l’imprenditore agricolo può utilizzare l’azienda per fare
agriturismo a patto che si tratti di un uso connesso. Via
libera dunque all’ospitalità stagionale anche in spazi
aperti e destinati alla sosta dei campeggiatori, alla
fornitura per la consumazione sul posto di pasti e bevande,
alcolici e superalcolici compresi, purché prevalentemente di
propria produzione.
La Cassazione ricorda che sono considerate “fatti in casa”
cibi e bibite prodotti e lavorati nell’azienda agricola,
oltre a quelli ricavati da materie prime anche attraverso
lavorazioni esterne. E siccome non di solo pane vive l’uomo
l’imprenditore agricolo può anche organizzare attività
ricreative o culturali. Il tutto è in armonia con la legge e
«non costituisce distrazione della destinazione agricola
dei fondi e degli edifici interessati», se il terreno
viene utilizzato soprattutto per l’allevamento del bestiame
e la coltivazione.
Le cose cambiano quando accogliere ospiti e “sfamarli”
diventa la maggiore fonte di reddito e, come nel caso
esaminato, si assume personale anche esterno alla famiglia e
si fa una sostanziosa spesa al supermercato anziché scendere
in campo.
Inutile per la ricorrente invocare leggi regionali più
favorevoli.
Le singole leggi regionali si devono muovere all’interno
della cornice fornita dalle norme statali e dal codice
civile che, con l’articolo 2135, detta la nozione di
imprenditore agricolo, status necessario per “aprire”
il proprio fondo ai turisti.
Se così non fosse -conclude la Suprema corte- la definizione
di rapporto di connessione tra le due attività potrebbe
cambiare secondo la latitudine, generando una disparità di
trattamenti partendo da identici dati aziendali, riguardo ad
esempio alla percentuale dei prodotti propri utilizzati o
alla proporzione fra alimenti locali ed esterni
(articolo Il Sole 24 Ore del
12.08.2015).
---------------
MASSIMA
Va al riguardo rilevato, per un ordinato iter
motivazionale, che già ai sensi della L. n. 730 del 1985
cit., art. 2, "per attività
agrituristiche si intendono esclusivamente le attività di
ricezione ed ospitalità esercitate dagli imprenditori
agricoli di cui all'articolo 2135 c.c., singoli od
associati, e da loro familiari di cui all'articolo 230-bis
c.c., attraverso l'utilizzazione della propria azienda, in
rapporto di connessione e complementarità rispetto alle
attività di coltivazione del fondo, silvi-coltura,
allevamento del bestiame, che devono comunque rimanere
principali. Lo svolgimento di attività agrituristiche, nel
rispetto delle norme di cui alla presente legge, non
costituisce distrazione della destinazione agricola dei
fondi e degli edifici interessati.
Rientrano fra tali attività:
a) dare stagionalmente ospitalità, anche in spazi aperti
destinati alla sosta di campeggiatori;
b) somministrare per la consumazione sul posto pasti e
bevande costituiti prevalentemente da prodotti propri, ivi
compresi quelli a carattere alcolico e superalcolico;
c) organizzare attività ricreative o culturali nell'ambito
dell'azienda. Sono considerati di propria produzione le
bevande e i cibi prodotti e lavorati nell'azienda agricola
nonché quelli ricavati da materie prime dell'azienda
agricola anche attraverso lavorazioni esterne".
Il relazione a tale quadro normativo di riferimento si
pronunciata la giurisprudenza di questa Corte (vedi Cass.
13.04.2007 n. 8851), affermando che anche
nella disciplina anteriore all'entrata in vigore del D.Lgs.
18.05.2001, n. 228
-il cui art. 1, aggiungendo un comma 3 all'art. 2135 cod.
civ., ha espressamente compreso fra le attività proprie
dell'imprenditore agricolo la "ricezione ed ospitalità
come definite dalla legge"- l'attività
agrituristica rientrava, in linea generale, fra le attività
agricole "per connessione", dovendo l'originaria
previsione dell'art. 2135 cod. civ. venir integrata con
quella della L. 05.12.1985, n. 730, art. 2, che al comma
secondo affermava il principio per cui "lo svolgimento di
attività agrituristiche, nel rispetto delle norme di cui
alla presente legge, non costituisce distrazione della
destinazione agricola dei fondi e degli edifici interessasti"
e, perciò, ne permetteva l'attrazione alla sola condizione
che l'utilizzazione dell'azienda a tali fini fosse
caratterizzata da un rapporto di complementarità rispetto
all'attività di coltivazione del fondo, silvicoltura e
allevamento del bestiame, che doveva comunque rimanere
principale (Cass.
12.05.2006 n. 11076; in senso conf. Cass. n. 8849/05, n.
10280/04 e n. 12142/02).
Alla stregua degli esposti precedenti normativi e
giurisprudenziali, va, quindi, ribadito che
l'inquadramento dell'attività agrituristica in
quella agricola è subordinato alla condizione che
l'utilizzazione dell'azienda agricola a fine di agriturismo
sia caratterizzata da un rapporto di complementarietà
rispetto all'attività di coltivazione del fondo, di
silvicoltura e di allevamento del bestiame, che deve
comunque rimanere principale.
Nell'ottica descritta, il pronunciato oggetto di
impugnazione, si pone in linea con la giurisprudenza di
questa Corte (cfr. Cass. 18.05.2011 n. 10905, Cass.
02.10.2008 n. 24430) secondo cui "il
riconoscimento della qualità agrituristica dell'attività di
"ricezione ed ospitalità" richiede la contemporanea
sussistenza della qualifica di imprenditore agricolo da
parte del soggetto che la esercita, dell'esistenza di un
"rapporto di connessione e complementarietà" con l'attività
propriamente agricola e della permanenza della principalità
di quest'ultima rispetto all'altra; con la conseguenza che
non potrà essere considerata "agrituristica" un'attività di
"ricezione" e di "ospitalità" svolta da un imprenditore che
non possa qualificarsi "agricolo" ovvero che non sia o non
sia più nel detto rapporto di "connessione e
complementarietà" con l'attività agricola o, comunque, che
releghi quest'ultima in posizione del tutto secondaria".
Come riportato nello storico di lite, la Corte distrettuale
ha infatti rimarcato gli elementi qualificativi di tale
vincolo di connessione e complementarietà, facendo leva
sull'accertamento della notevole consistenza dei redditi
ricavati dalla attività di ristorazione, per il cui
svolgimento si era resa necessaria l'assunzione di tre
dipendenti; dell'impiego temporale per l'esercizio di
attività di ristorazione di gran lunga superiore a quello
necessario per l'espletamento di attività agricola;
dall'utilizzo di prodotti provenienti dalla attività
agricola, in misura inferiore rispetto a quelli acquistati
sul mercato.
E tale apprezzamento, coerente con i principi dianzi
esposti, neanche si pone in dissonanza con le disposizioni
di rango costituzionale invocate in tema di ripartizione
delle competenze legislative Stato-Regioni, demandando a
queste ultime la competenza esclusiva in tema di
individuazione della natura della attività svolta da un
imprenditore.
Invero, secondo il principio affermato da questa Corte (sia
pur con riferimento alla impresa artigiana), e che va qui
ribadito, la nozione di impresa quando
rileva ai fini della disciplina dei rapporti previdenziali,
di esclusiva competenza statale, trova applicazione su tutto
il territorio nazionale, comprese le regioni a statuto
speciale e le province autonome aventi competenza primaria
in materia di artigianato, poiché le disposizioni che danno
esclusivo rilievo alla normativa di tali regioni in materia,
vanno interpretate in maniera compatibile con la
ripartizione di competenze fra lo Stato e detti enti, come
statuito dalla sentenza interpretativa di rigetto della
Corte Costituzionale 28.05.1999 n. 196
(vedi Cass. S.U. 05.06.2000 n. 401).
E, sulla stessa, linea, si pongono gli ulteriori approdi ai
quali è pervenuta questa Corte che, (con riferimento
all'indagine relativa alla natura, commerciale o agricola,
di un'impresa agrituristica ai fini della assoggettabilità a
fallimento), ha rimarcato come "la
natura commerciale od agricola di un'impresa, deve essere
accertata sulla scorta di criteri generali ed uniformi,
valevoli per l'intero territorio nazionale, sicché
l'apprezzamento in concreto della ricorrenza dei requisiti
di connessione fra attività agrituristiche ed attività
propriamente agricole e della prevalenza di queste ultime
rispetto alle prime, in presenza dei quali deve essere
esclusa l'assoggettabilità a fallimento dell'imprenditore
che le eserciti, va principalmente condotto alla luce del
disposto dell'art. 2135 c.c., comma 3, integrato dalle
discipline di legge dell'agriturismo",
che hanno fissato i principi fondamentali cui le regioni
devono uniformarsi nell'emanare le proprie normative in
materia.
Entro tale cornice, gli specifici criteri
valutativi previsti dalle singole leggi regionali possono
sicuramente fungere da supporto interpretativo, ma non
possono rivestire carattere decisivo, posto che la loro
assunzione a parametri vincolanti per la definizione del
rapporto di connessione potrebbe condurre a risultati
diversi da regione a regione pur partendo dall'analisi di
identici dati aziendali quanto, ad esempio, a percentuali di
prodotti propri utilizzati od alle proporzioni fra prodotti
locali ed esterni
(vedi Cass. 10.04.2013 n.8690 cui adde Cass. 14.01.2015 n.
490). |
TRIBUTI:
Esenzioni Imu, occhio al catasto.
Le agevolazioni Ici e Imu sono condizionate anche dal
rispetto dei requisiti formali. Infatti, per avere diritto
all'esenzione Ici i fabbricati utilizzati da un ente
ecclesiastico devono avere un inquadramento catastale idoneo
al tipo di attività svolta. Se un immobile è inquadrato
catastalmente come scuola non può essere utilizzato per
un'attività assistenziale o di religione e di culto. Allo
stesso modo non può essere destinato a un'attività religiosa
o di culto un locale censito come deposito. Naturalmente, la
stessa regola vale per l'Imu.
È quanto ha stabilito la Commissione tributaria provinciale
di Catania, II Sez., con la sentenza n. 5703/2015.
Per i giudici siciliani, «appare inverosimile che
fabbricati classificati in Ctg. B/5 e C/2 possano godere
della richiesta esenzione». Gli immobili inquadrati
catastalmente come scuole non possono essere destinati «ad
attività assistenziale o previdenziale o, addirittura,
religiosa o di culto». Così come un locale deposito,
censito in categoria C/2, «è impensabile che possa avere
una destinazione con fini religiosi o di culto».
Nel caso in esame, il giudice tributario ha riconosciuto
l'esenzione Ici solo all'unità immobiliare classificata come
convento (B/1) perché le attività svolte (formazione del
clero e dei religiosi, catechesi, educazione cristiana e via
dicendo) dai «Frati minori cappuccini» rientrano
nella casistica di quelle elencate dall'articolo 16, lettera
a), della legge 222/1985.
Di recente, al di là dell'aspetto formale legato alle
categorie catastali degli immobili, la questione
dell'esenzione Ici per gli enti ecclesiastici ha formato
oggetto di esame da parte della Cassazione a proposito delle
scuole paritarie.
La Suprema corte con le sentenze 14225/2015 e 14226/2015,
che hanno fatto molto discutere, ha sostenuto che l'attività
didattica svolta da un ente religioso rientra tra quelle
esenti solo se viene svolta in forma non commerciale. Se
l'attività didattica è esercitata da una scuola paritaria e
gli utenti pagano un corrispettivo si perde il diritto
all'agevolazione fiscale, nonostante la gestione operi in
perdita. Per il fine di lucro è sufficiente che i ricavi
abbiano come obiettivo quello di raggiungere il pareggio di
bilancio.
Per la Cassazione manca il carattere imprenditoriale
dell'attività degli enti non profit nel caso in cui sia
svolta a titolo gratuito. L'esenzione Ici prevista
dall'articolo 7, comma 1, lettera i), del decreto
legislativo 504/1992 era limitata all'ipotesi in cui gli
immobili fossero destinati totalmente allo svolgimento di
una delle attività elencate dalla norma (sanitarie,
didattiche, ricettive, ricreative, sportive) in forma non
commerciale. In realtà, però, per l'imposta comunale il
legislatore non è mai intervenuto al fine di chiarire quando
un'attività possa essere definita commerciale. È stato
sempre demandato ai giudici il compito di prendere
posizione, senza avere dei parametri ai quali fare
riferimento.
Mentre per l'Imu l'articolo 4 del decreto ministeriale
200/2012 ha enunciato per le varie tipologie di attività
quali criteri devono essere osservati (articolo
ItaliaOggi dell'11.08.2015). |
SICUREZZA LAVORO:
Il
committente responsabile del muratore.
Cassazione. Chi richiede la prestazione risponde della morte
del lavoratore autonomo incaricato dalla ditta fornitrice di
materiali edili.
Il committente che si affida a un lavoratore
autonomo per una ristrutturazione risponde per la sua morte
se non verifica l’esistenza di protezioni. La condanna per
omicidio colposo scatta anche se l’operaio faceva parte di
una squadra inviata dall’azienda fornitrice di materiali
edili.
La Corte di Cassazione, Sez. IV penale, con la
sentenza 10.08.2015 n. 34701, ricorda che in tema
di sicurezza lavoro non si può giocare allo scaricabarile.
Era quanto, su più fronti, aveva tentato di fare il
ricorrente amministratore unico di una società in nome
collettivo, condannato per la morte di un muratore caduto
dal tetto del capannone che aveva ceduto sotto il peso della
malta che doveva servire ad evitare le infiltrazioni di
umidità.
Un tragico incidente nel quale il ricorrente riteneva di non
aver alcuna responsabilità per una serie di ragioni: il
muratore morto era un lavoratore autonomo che faceva parte
di un piccolo gruppo di “padroncini”, ed era stato
inviato dalla ditta che aveva fornito il materiale di
rinforzo, motivo per cui lui non poteva essere considerato
il committente.
Inoltre l’amministratore aveva dichiarato di non avere mai
interferito con lo svolgimento dei lavori né autorizzato un
comportamento tanto imprudente come quello di salire su un
tetto fragile. Ma per la Suprema corte nessuna delle
giustificazioni è valida.
Per i giudici della quarta sezione penale, il fatto che a
prendere contatto con i lavoratori autonomi e ad incaricarli
era stata la ditta fornitrice non faceva venire meno il
ruolo di committente svolto dall’amministratore unico della
Snc: va, infatti, considerato committente, e come tale
investito della posizione di garanzia, chi concepisce,
progetta e finanzia un’opera.
Ferma restando dunque la corresponsabilità dell’impresa che
aveva inviato i lavoratori indicandoli come idonei perché
proprietari dei mezzi necessari a svolgere l’attività, la “colpa”
del ricorrente sta nell’aver consentito agli operai di
iniziare il restauro senza prima verificare l’adozione delle
misure di sicurezza.
L’amministratore non aveva considerato le gravi lesioni
sulla copertura del tetto del capannone già per sua natura
non calpestabile. Un onere che doveva adempiere in prima
persona non avendo provveduto a designare un responsabile
dei lavori.
Per l’imputato non era possibile ipotizzare l’esonero che
scatta per il committente nel caso in cui per percepire il
rischio e approntare le relative precauzioni è necessaria
una specifica competenza tecnica. Non passa neppure la tesi
del comportamento abnorme da parte dell’operaio. L’essere
salito sul tetto era un gesto, per quanto imprudente,
decisamente collegato alla mansione svolta e che non poteva
essere considerato imprevedibile.
La Cassazione considera ininfluente anche la circostanza
dell’assenza del ricorrente dal luogo dell’incidente il
giorno in cui questo era avvenuto.
E, per finire, i giudici bollano come sterile retorica il
tentativo di essere liberati dalla responsabilità nel caso,
come quello esaminato, in cui siano gli stessi lavoratori
che dovrebbero essere garantiti ad affermare di non aver
bisogno di garanzie o a non pretenderle (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.08.2015).
---------------
MASSIMA
Né la prospettazione difensiva fa venir meno la colpa
grave e certa dell'imputato nell'avere avviato lavori
intrinsecamente pericolosi (la natura della copertura non
poteva tollerare l'appesantimento di materiale ulteriore),
senza, peraltro la garanzia di alcun presidio di sicurezza.
In definitiva, non si rinviene ragione
alcuna per potersi escludere la posizione di garanzia del
committente, pacificamente sussistente, in quanto soggetto
che normalmente concepisce, programma, progetta e finanzia
un'opera, è titolare "ex lege" di una posizione di
garanzia che integra ed interagisce con quella di altre
figure di garanti legali (datori di lavoro, dirigenti,
preposti etc.) e può designare un responsabile dei lavori,
con un incarico formalmente rilasciato accompagnato dal
conferimento di poteri decisori, gestionali e di spesa, che
gli consenta di essere esonerato dalle responsabilità, sia
pure entro i limiti dell'incarico medesimo e fermo restando
la sua piena responsabilità per la redazione del piano di
sicurezza, del fascicolo di protezione dai rischi e per la
vigilanza sul coordinatore in ordine allo svolgimento del
suo incarico e sul controllo delle disposizioni contenute
nel piano di sicurezza
(Cass., Sez. 4, n. 37738 del 28/05/2013, dep. 13/09/2013, Rv.
256635).
Peraltro, l'evidenza delle precauzioni
mancate e del grave rischio fatto assumere fanno sì che qui
non possa assumere rilievo l'esonero ritenuto nei soli casi
in cui le predette precauzioni richiedano una specifica
competenza tecnica nelle procedure da adottare in
determinate lavorazioni, nell'utilizzazione di speciali
tecniche o nell'uso di determinate macchine
(Cass., Sez. 3, n. 1228 del 25/02/2015, dep. 24/03/2015, Rv.
262757; Sez. 4, n. n. 1511 del 28/11/2013, dep. 15/01/2014,
Rv. 259086).
Infine, deve senz'altro affermarsi che nel
caso in esame risulta palese che l'evento debba ritenersi
causalmente collegato a plurime omissioni colpose,
specificamente determinate, imputabili alla sfera di
controllo dello stesso committente, col che pienamente si
giustifica l'estensione della responsabilità dell'eventuale
appaltante (la cui
esistenza è rimasta peraltro non accertata) (si veda per una
ben diversa situazione nella quale l'estensione non ricorre,
Cass., Sez. 4, n. 6784 del 23/01/2014, dep. 12/2/2014, Rv.
259286), assumendo solo il senso di un mero
esercizio di retorica sterile pretendere di essere liberato
perché coloro che lui avrebbe dovuto garantire, non avevano
preteso l'applicazione delle garanzie.
3.2. Quanto alla denunciata natura abnorme della condotta
della vittima va osservato che la Corte di merito non cade
nel denunziato vizio.
La ratio del discrimine è la stessa:
poiché il garante deve assicurare il bene
dell'integrità fisica e della vita del garantito, il quale
da solo, per una pluralità di ragioni non sarebbe in grado
di pienamente tutelarsi, il concorso (invero frequente)
della colpa di quest'ultima o di altro soggetto, la cui
attività o anche sola presenza risulta legittimamente
inserita nel processo lavorativo, non elide affatto la
penale responsabilità dei primi. Salvo l'emergere di
condotte che per la loro anomalia, bizzarria o abnormità non
erano tali da indurre il garante ad una precipua preventiva
percezione del rischio.
La razionale ricostruzione del fatto operata dal giudice
dell'appello rende evidente la macroscopica infondatezza
della pretesa dei ricorrenti.
Non è dato in alcun modo cogliere in cosa sia consistita la
bizzarria comportamentale, l'anomala ed imprevedibile
condotta del lavoratore, il quale, dovendo manovrare con un
comando a distanza la pompa, onde consentire soddisfacente
distribuzione del materiale fluido, gli si fosse reso
necessario, o anche solo utile, o apparentemente tale,
condurre tale operazione dalla copertura.
Anche se può assumersi come possibile che all'evento possa
aver concorso una manovra erronea del predetto lavoratore
autonomo deve escludersi, secondo la logica comune, che nel
caso in esame una tale manovra possa considerarsi avulsa
dalle mansioni svolte, abnorme e, pertanto, imprevedibile da
parte del soggetto tenuto alla garanzia. Esattamente al
contrario dell'assunto trattasi, invece, di un tragico
evento occorso nell'esercizio e a causa dello svolgimento
dell'attività lavorativa, come tale del tutto prevedibile e
prevenibile dai garanti.
Può sul punto richiamarsi, fra le ultime, la sentenza di
questa Sezione del 28/04/2011, n. 23292, in linea con la
consolidata giurisprudenza di legittimità (tra le tante, v.
Sez. IV, 12/05/2011, n. 35204; Sez. IV, 10.11.2009, n. 7267;
Sez. IV, 17.02.2009, n. 15009; Sez. IV, 23.05.2007, n.
25532; Sez. IV, 19.04.2007, n. 25502; Sez. IV, 23.03.2007,
n. 21587; Sez. IV, 29.09.2005, n. 47146; Sez. IV,
23.06.2005, n. 38850; Sez. IV, 03.06.2004), la quale ha
precisato che la colpa del lavoratore,
eventualmente concorrente con la violazione della normativa
antinfortunistica addebitata ai soggetti tenuti a osservarne
le disposizioni, non esime questi ultimi dalle proprie
responsabilità, poiché l'esistenza del rapporto di causalità
tra la violazione e l'evento morte o lesioni del lavoratore
che ne sia conseguito può essere esclusa unicamente nei casi
in cui sia provato che il comportamento del lavoratore fu
abnorme, e che proprio questa abnormità abbia dato causa
all'evento; abnormità che, per la sua stranezza e
imprevedibilità si ponga al di fuori delle possibilità di
controllo dei garanti.
Più in generale, è bene ribadire che la Cassazione ha già
avuto condivisamente modo di affermare che «in
materia di normativa antinfortunistica, l'obbligo del datore
di lavoro [ma, qui, per che prima si è detto, anche del
committente] di garantire la sicurezza nel luogo di lavoro
si estende anche ai soggetti che, nell'impresa, hanno
prestato la loro opera in via autonoma
(v. di recente, Sezione 4^, 25.05.2007-03.10.2007, Sfoggia).
Se è indiscutibile, infatti, che il
lavoratore autonomo ha l'obbligo di munirsi dei presidi
antinfortunistici connessi all'attività autonomamente
prestata, è altrettanto indiscutibile che sono a carico del
datore di lavoro, che si avvale di un lavoratore della
prestazione autonoma, da un lato, l'obbligo di garantire le
condizioni di sicurezza dell'ambiente di lavoro ove detta
opera viene prestata, e, dall'altro, quello di fornire
attrezzature adeguate e rispondenti alla vigente normativa
di sicurezza nonché di informare il prestatore d'opera dei
rischi specifici esistenti sul luogo di lavoro
(v. D.P.R. 27.04.1955, n. 547, artt. 4 e ss.; D.Lgs.
19.09.1994, n.626; art. 2087 c.c.).
È di decisivo rilievo, in particolare, il disposto dell'art.
2087 c.c., in forza del quale, il datore di
lavoro, anche al di là delle disposizioni specifiche, è
comunque costituito garante dell'incolumità fisica e della
salvaguardia della personalità morale di quanti prestano la
loro opera nell'impresa, con l'ovvia conseguenza che, ove
egli non ottemperi all'obbligo di tutela, l'evento lesivo
correttamente gli viene imputato in forza del meccanismo
previsto dall'art. 40 c.p.,comma 2. Tale obbligo è di così
ampia portata che non può distinguersi, al riguardo, che si
tratti di un lavoratore subordinato, di un soggetto a questi
equiparato (cfr.
D.P.R. n. 547 del 1955, art. 3, comma 2) o,
anche, di persona estranea all'ambito imprenditoriale,
purché sia ravvisabile il nesso causale tra l'infortunio e
la violazione della disciplina sugli obblighi di sicurezza.
Infatti, secondo assunto pacifico e condivisibile,
le norme antinfortunistiche non sono dettate
soltanto per la tutela de/lavoratori, ossia per eliminare il
rischio che i lavoratori possano subire danni nell'esercizio
della loro attività, ma sono dettate anche a tutela dei
terzi, cioè di tutti coloro che, per una qualsiasi legittima
ragione, accedono là dove vi sono macchine che, se non
munite dei presidi antinfortunistici voluti dalla legge,
possono essere causa di eventi dannosi.
Ciò, tra l'altro, dovendolo desumere dal D.Lgs. n. 626 del
1994, art. 4, comma 5, lett. n), che,
ponendo la regola di condotta in forza della quale il datore
di lavoro "prende appropriati provvedimenti per evitare che
le misure tecniche adottate possano causare rischi per la
salute della popolazione o deteriorare l'ambiente esterno",
dimostra che le disposizioni prevenzionali sono da
considerare emanate nell'interesse di tutti, anche degli
estranei al rapporto di lavoro, occasionalmente presenti nel
medesimo ambiente lavorativo, a prescindere, quindi, da un
rapporto di dipendenza diretta con il titolare dell'impresa
(cfr. Sezione 4, 20.04.2005, Stasi ed altro)»
(Cass., Sez. IV, n. 13917 del 17/01/2008, Rv. 239590). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: La
circolare interpretativa di una legge è atto a rilevanza
meramente interna, finalizzato ad indirizzare uniformemente
l'azione di organi amministrativi, per cui non è
configurabile quale atto presupposto del provvedimento
lesivo che ne abbia fatto puntuale applicazione, con
conseguente insussistenza di alcun onere di sua impugnativa,
neppure in connessione con gli atti applicativi della norma
di legge alla cui esplicazione ed interpretazione la
circolare risulta diretta.
Com’è noto, la circolare, in linea generale, non ha
carattere normativo, né tanto meno di provvedimento, ma
rappresenta lo strumento mediante il quale l’Amministrazione
fornisce indicazioni in via generale e astratta in ordine
alle modalità con cui dovranno comportarsi in futuro i
propri dipendenti e i propri uffici.
Ne consegue che la circolare rientra nel genus degli atti
interni all’amministrazione.
---------------
Deve essere
riconosciuto che non tutte le circolari sono accomunate da
identica natura. Occorre distinguere, infatti, le
circolari interpretative dalle cosiddette
circolari-regolamento.
Le prime, al fine di favorire un’interpretazione
uniforme di leggi e regolamenti, forniscono agli uffici
subordinati una indicazione interpretativa, limitandosi a
riproporre il contenuto precettivo degli atti normativi cui
fanno riferimento; esse, di conseguenza, non sono dotate di
forza innovativa.
Le seconde, invece, costituiscono particolari figure di
circolari, eccezionalmente idonee a produrre effetti
giuridici esterni alla pubblica amministrazione; esse,
sostanzialmente, hanno natura regolamentare, essendo
caratterizzate dai requisiti della generalità,
dell’astrattezza e della innovatività propri degli atti
normativi; pertanto, la legittimità di tali circolari deve
essere valutata assumendo come parametro la legittimità dei
regolamenti con cui esse sostanzialmente coincidono.
In via preliminare deve essere ritenuto, sulla scorta di un
consolidato orientamento della giurisprudenza (cfr. ex
multis TAR Molise, 15.01.2007 n. 12) che la circolare
interpretativa di una legge è atto a rilevanza meramente
interna, finalizzato ad indirizzare uniformemente l'azione
di organi amministrativi, per cui non è configurabile quale
atto presupposto del provvedimento lesivo che ne abbia fatto
puntuale applicazione, con conseguente insussistenza di
alcun onere di sua impugnativa, neppure in connessione con
gli atti applicativi della norma di legge alla cui
esplicazione ed interpretazione la circolare risulta
diretta.
Com’è noto, la circolare, in linea generale, non ha
carattere normativo, né tanto meno di provvedimento, ma
rappresenta lo strumento mediante il quale l’Amministrazione
fornisce indicazioni in via generale e astratta in ordine
alle modalità con cui dovranno comportarsi in futuro i
propri dipendenti e i propri uffici. Ne consegue che la
circolare rientra nel genus degli atti interni
all’amministrazione.
D’altra parte, deve essere riconosciuto che non tutte le
circolari sono accomunate da identica natura. Occorre
distinguere, infatti, le circolari interpretative
dalle cosiddette circolari-regolamento.
Le prime, al fine di favorire un’interpretazione
uniforme di leggi e regolamenti, forniscono agli uffici
subordinati una indicazione interpretativa, limitandosi a
riproporre il contenuto precettivo degli atti normativi cui
fanno riferimento; esse, di conseguenza, non sono dotate di
forza innovativa.
Le seconde, invece, costituiscono particolari figure di
circolari, eccezionalmente idonee a produrre effetti
giuridici esterni alla pubblica amministrazione; esse,
sostanzialmente, hanno natura regolamentare, essendo
caratterizzate dai requisiti della generalità,
dell’astrattezza e della innovatività propri degli atti
normativi; pertanto, la legittimità di tali circolari deve
essere valutata assumendo come parametro la legittimità dei
regolamenti con cui esse sostanzialmente coincidono
(TAR Valle d'Aosta,
sentenza 08.08.2015 n. 60 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
Disabili,
la scala si può ridurre.
Condominio. Per installare un ascensore il
disagio non è un’innovazione e va tollerato.
La Corte di
Cassazione (Sez. II civile,
sentenza
05.08.2015 n. 16486) si trova a decidere sulla
validità e sulle maggioranze necessarie di una delibera
assembleare che aveva disposto «la costruzione di un
ascensore nel vano scale, mediante taglio e riduzione della
larghezza della scala condominiale» per agevolare un condòmino disabile.
La delibera veniva adottata con il voto favorevole di tanti
condòmini rappresentanti 608,33 millesimi, mentre secondo
chi ha ricorso in Cassazione la costruzione dell'ascensore
sarebbe consistita in una innovazione delle parti comuni, e
quindici voleva la maggioranza qualificata di 666,6
millesimi. Inoltre la porzione di scala rimanente dopo
l'istallazione dell'ascensore (larga , sarebbe stata (72
centimetri) inservibile o comunque molto pericolosa, non
permettendo in caso di evacuazione il transito contemporaneo
di due persone.
La Cassazione, nel respingere il ricorso, ha osservato come
il concetto di inservibilità della cosa comune, che
renderebbe nulla la delibera assembleare, non è paragonabile
(come in questo caso) al semplice disagio causato ad alcuni
condòmini dal fatto di avere una scala di dimensione più
ridotte a causa della installazione dell'ascensore.
La Corte ha poi ricordato il principio della solidarietà
condominiale, secondo il quale «a coesistenza di più unità
immobiliari in un unico fabbricato implica di per sé il
contemperamento di vari interessi, tra i quali deve
includersi anche quello delle persone disabili
all'eliminazione delle barriere architettoniche».
Proprio in
applicazione di tale principio, pertanto, osserva la Corte,
il condominio resistente (ove era stata deliberata la posa
dell'ascensore) era caratterizzato (come risultante dalla
istruttoria esperita in corso di causa) dalla presenza di
diversi condòmini che, o poiché in età molto avanzata o in
quanto disabili, non avrebbero di fatto potuto uscire dallo
stabile se non utilizzando appunto un ascensore
(articolo Il Sole 24 Ore del
06.08.2015). |
EDILIZIA PRIVATA: Secondo
un orientamento giurisprudenziale seguito anche dalla
Sezione, la presentazione dell'istanza di accertamento di
conformità ex art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, in epoca
successiva all'adozione dell'ordinanza di demolizione, ha
automatico effetto caducante sull'ordinanza stessa,
rendendola inefficace.
La presentazione della domanda di sanatoria obbliga difatti
l’Amministrazione ad effettuare il riesame dell'abusività
dell'opera, sia pure al fine di verificarne l'eventuale
sanabilità; e ciò comporta la necessaria formazione di un
nuovo provvedimento, esplicito o implicito (di accoglimento
o di rigetto), che vale comunque a superare il provvedimento
sanzionatorio oggetto dell'impugnativa.
1. Il sig. L. Dell’A., odierno ricorrente, è
proprietario di due manufatti ubicati nel territorio del
Comune di Abbiategrasso, insistenti sul Foglio n. 10, pertinenziali ai mappali nn. 82 e 83.
2. Tali manufatti consistono in un fabbricato adibito a box,
avente superficie pari a mq. 42,75, e in una tettoia in
lamiera, chiusa su due lati, collocata in aderenza al
suddetto box, avente superficie pari a mq. 14,75.
3. Con ordinanza n. 23 del 22.04.2013, il Comune di
Abbiategrasso ha ordinato la demolizione dei due fabbricati,
rilevandone la realizzazione in assenza di titolo edilizio.
4. Contro questo provvedimento è diretto il ricorso
introduttivo.
5. Si è sono costituiti in giudizio, per resistere al
gravame, il Comune di Abbiategrasso e la controinteressata
3EMME Evolution s.r.l., proprietaria di un immobile
confinante con l’area in cui si trovano i fabbricati oggetto
del provvedimento impugnato.
6. Dopo la proposizione del ricorso, e precisamente in data
24.07.2013, il sig. Dell’A. ha presentato al Comune
di Abbiategrasso domanda di accertamento di conformità ex
art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, nonché domanda di
compatibilità paesaggistica ex art. 167 del d.lgs. n. 42 del
2004, entrambe relative alle opere di cui è causa.
7. Con atto del 06.09.2013, la Commissione per il
paesaggio del Comune di Abbiategrasso ha espresso parere
negativo all’accoglimento dell’istanza rilevando che i
manufatti in questione sono, a suo giudizio, incompatibili
con l’edificio rurale ad essi adiacente sia per morfologia
che per i materiali di cui si compongono. La stessa
Commissione ha anche rilevato l’impossibilità di procedere
ad accertamento di compatibilità paesaggistica, atteso che i
due interventi hanno determinato la creazione di nuova
superficie e volume.
8. Quest’ultimo aspetto è stato valorizzato anche dal
Soprintendente per i Beni Architettonici e Paesaggistici di
Milano il quale, con provvedimento del 09.04.2014, ha
dichiarato, proprio in ragione del fatto che i due
fabbricati hanno creato nuova superficie e nuovo volume,
l’improcedibilità dell’istanza di accertamento di
compatibilità paesaggistica.
9. I due atti sono stati impugnati con motivi aggiunti
depositati in giudizio in data 28.11.2014.
10. Successivamente, il Comune di Abbiategrasso, con
provvedimento del 02.12.2014, ha respinto l’istanza di
accertamento di conformità e, con ordinanza del 16.12.2014, ha ordinato la demolizione dei due manufatti.
11. L’interessato ha impugnato anche questi provvedimenti
mediante la proposizione di ulteriori motivi aggiunti,
depositati in giudizio in data 11.03.2015.
12. La Sezione, con ordinanza n. 463 del 13.04.2015, ha
accolto l’istanza cautelare.
13. In prossimità dell’udienza di discussione del merito, le
parti hanno depositato memorie, insistendo nelle loro
conclusioni.
14. Tenutasi la pubblica udienza in data 17.06.2015, la
causa è stata trattenuta in decisione.
15. Come anticipato, il ricorso in esame riguarda una serie
di provvedimenti che hanno per oggetto due manufatti (un box
ed una tettoia) di proprietà del ricorrente, ritenuti dal
Comune di Abbiategrasso abusivi e non suscettibili di
regolarizzazione.
16. Il Collegio deve innanzitutto rilevare l’improcedibilità
del ricorso introduttivo con il quale è stata impugnata
l’ordinanza di demolizione del 22.04.2013. Va invero
osservato che, secondo un orientamento giurisprudenziale
seguito anche dalla Sezione, la presentazione dell'istanza
di accertamento di conformità ex art. 36 del d.P.R. n. 380
del 2001, in epoca successiva all'adozione dell'ordinanza di
demolizione, ha automatico effetto caducante sull'ordinanza
stessa, rendendola inefficace. La presentazione della
domanda di sanatoria obbliga difatti l’Amministrazione ad
effettuare il riesame dell'abusività dell'opera, sia pure al
fine di verificarne l'eventuale sanabilità; e ciò comporta
la necessaria formazione di un nuovo provvedimento,
esplicito o implicito (di accoglimento o di rigetto), che
vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio
oggetto dell'impugnativa (cfr. TAR Campania Napoli, sez. VIII, 19.05.2015, n. 2763; TAR Lombardia Milano, sez. II, 23.10.2010, n. 2653; TAR Sicilia Palermo, sez.
I, 02.04.2015, n. 813; TAR Liguria, sez. I, 26.02.2015, n. 235).
17. Nel caso concreto, il ricorrente, dopo l’adozione del
provvedimento sanzionatorio impugnato con il ricorso
introduttivo, ha presentato domanda di accertamento di
conformità. Il procedimento si è peraltro concluso con
l’emanazione di una nuova ordinanza di demolizione
(conseguente al provvedimento di rigetto della sanatoria)
che ha completamente sostituito la precedente.
18. Ne consegue che non sussiste più alcun interesse
all’annullamento della prima ordinanza (ormai priva di
effetti e sostituita dalla nuova) e che quindi, come
anticipato, il ricorso introduttivo deve essere dichiarato
improcedibile
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 05.08.2015 n. 1891 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Quando un provvedimento si basa su diverse
ragioni, ciascuna delle quali di per sé sufficiente a
giustificarne il contenuto dispositivo, l’infondatezza delle
censure rivolte contro una di tali ragioni rende superfluo
l’esame delle altre doglianze rivolte contro le restanti
parti motivazionali, giacché l’eventuale accoglimento di
queste ultime non potrebbe comunque determinare
l’annullamento dell’atto.
61. Con i motivi rubricati sub A3 e A4, l’interessato
censura le parti del provvedimento impugnato con cui vengono
addotte ulteriori ragioni ostative all’accoglimento della
domanda di sanatoria diverse da quelle attinenti al profilo
paesaggistico.
62. L’esame di queste doglianze può essere omesso, potendosi
applicare il noto principio giurisprudenziale secondo cui,
quando un provvedimento si basa su diverse ragioni, ciascuna
delle quali di per sé sufficiente a giustificarne il
contenuto dispositivo, l’infondatezza delle censure rivolte
contro una di tali ragioni rende superfluo l’esame delle
altre doglianze rivolte contro le restanti parti
motivazionali, giacché l’eventuale accoglimento di queste
ultime non potrebbe comunque determinare l’annullamento
dell’atto (cfr. Consiglio di Stato, ad. plen. 27.04.2015, n.
5)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 05.08.2015 n. 1891 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La natura abusiva delle opere di cui è causa
costituisce presupposto sufficiente per l’emissione
dell’ordinanza di demolizione. Non può quindi condividersi
la censura che lamenta l’insussistenza dei presupposti.
Così come non può condividersi la prospettata carenza
motivazionale del provvedimento, posto che
l’Amministrazione, nel corpo motivazionale dello stesso, ha
dato conto del carattere abusivo dell’intervento e delle
ragioni poste a suffragio di tale conclusione.
Per quanto concerne il profilo dell’indeterminatezza
-dovuta, secondo il ricorrente, alla mancata indicazione dei
manufatti da demolire- si deve osservare che l’ordinanza,
oltre a specificare che oggetto di demolizione sono il
manufatto accessorio ad uso autorimessa e la tettoria,
richiama le istanze di sanatoria e di accertamento di
compatibilità paesaggistica presentate dal ricorrente,
nonché i provvedimenti che ne hanno disposto il rigetto.
E’ del tutto ovvio, quindi, che oggetto di demolizione sono
i manufatti di cui al presente ricorso.
69. Con il motivo rubricato sub. B3, l’interessato deduce la
carenza di presupposti, l’indeterminatezza dell’atto
impugnato ed il difetto di motivazione.
70. La censura è del tutto infondata in quanto la natura
abusiva delle opere di cui è causa costituisce presupposto
sufficiente per l’emissione dell’ordinanza di demolizione.
Non può quindi condividersi la censura che lamenta
l’insussistenza dei presupposti.
71. Così come non può condividersi la prospettata carenza
motivazionale del provvedimento, posto che
l’Amministrazione, nel corpo motivazionale dello stesso, ha
dato conto del carattere abusivo dell’intervento e delle
ragioni poste a suffragio di tale conclusione.
72. Per quanto concerne il profilo dell’indeterminatezza -dovuta, secondo il ricorrente, alla mancata indicazione dei
manufatti da demolire- si deve osservare che l’ordinanza,
oltre a specificare che oggetto di demolizione sono il
manufatto accessorio ad uso autorimessa e la tettoria,
richiama le istanze di sanatoria e di accertamento di
compatibilità paesaggistica presentate dal ricorrente,
nonché i provvedimenti che ne hanno disposto il rigetto. E’
del tutto ovvio, quindi, che oggetto di demolizione sono i
manufatti di cui al presente ricorso.
73. La censura in esame è, per questa ragione, del tutto
pretestuosa; essa non può essere pertanto condivisa
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 05.08.2015 n. 1891 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'obbligo di richiedere il titolo abilitativo per
realizzare nuove edificazioni è stato introdotto per la
prima volta nel nostro ordinamento dal regio decreto-legge
25.03.1935, n. 640. L’obbligo, poi ribadito dall’art. 31
della legge 17.08.1042, n. 1150, non riguardava tuttavia
tutto il territorio comunale ma solo il centro abitato.
Il Comune, con regolamento vigente dal 25.09.1936, approvato
ai sensi della legge n. 2248 del 1865 All. A e del relativo
regolamento di attuazione approvato con regio decreto n.
2321 del 1865, nella versione modificata nell’anno 1939,
aveva a sua volta ribadito siffatto obbligo, stabilendo che
chi intendeva effettuare interventi edilizi avrebbe dovuto
farne preventivamente denuncia al podestà. Anche per il
regolamento comunale, l’obbligo riguardava però solo le
costruzioni realizzate nel centro abitato, mentre rimaneva
libera l’attività edilizia esterna al suo perimetro.
Solo con la legge 06.08.1967, n. 765, l’obbligo è stato
esteso a tutto territorio comunale.
Ciò premesso, si deve ora osservare che, secondo la
giurisprudenza, il soggetto che contesta il carattere
abusivo di un’opera deducendone la realizzazione in epoca
antecedente all’entrata in vigore delle disposizioni che
hanno introdotto l’obbligo di munirsi di titolo abilitativo,
non può limitarsi ad allegare tale circostanza ma deve
fornire, perlomeno, un principio di prova in ordine al tempo
di ultimazione dell’opera stessa.
28. Nel caso concreto, il ricorrente sostiene proprio che i
manufatti oggetto dei provvedimenti impugnati sarebbero
stati eretti prima dell’anno 1942 in area agricola/rurale
all’epoca non soggetta ad alcun vincolo e non soggetta al
rilascio di titoli abilitativi. Pertanto, a suo giudizio, le
opere sarebbero state legittimamente realizzate.
29. In proposito si osserva quanto segue.
30. L'obbligo di richiedere il titolo abilitativo per
realizzare nuove edificazioni è stato introdotto per la
prima volta nel nostro ordinamento dal regio decreto-legge
25.03.1935, n. 640. L’obbligo, poi ribadito dall’art. 31
della legge 17.08.1042, n. 1150, non riguardava tuttavia
tutto il territorio comunale ma solo il centro abitato.
31. Il Comune di Abbiategrasso, con regolamento vigente dal
25.09.1936, approvato ai sensi della legge n. 2248
del 1865 All. A e del relativo regolamento di attuazione
approvato con regio decreto n. 2321 del 1865, nella versione
modificata nell’anno 1939, aveva a sua volta ribadito
siffatto obbligo, stabilendo che chi intendeva effettuare
interventi edilizi avrebbe dovuto farne preventivamente
denuncia al podestà. Anche per il regolamento comunale,
l’obbligo riguardava però solo le costruzioni realizzate nel
centro abitato, mentre rimaneva libera l’attività edilizia
esterna al suo perimetro.
32. Solo con la legge 06.08.1967, n. 765, l’obbligo è
stato esteso a tutto territorio comunale.
33. Ciò premesso, si deve ora osservare che, secondo la
giurisprudenza, il soggetto che contesta il carattere
abusivo di un’opera deducendone la realizzazione in epoca
antecedente all’entrata in vigore delle disposizioni che
hanno introdotto l’obbligo di munirsi di titolo abilitativo,
non può limitarsi ad allegare tale circostanza ma deve
fornire, perlomeno, un principio di prova in ordine al tempo
di ultimazione dell’opera stessa (cfr. TAR Campania
Napoli, sez. VI, 03.12.2014, n. 6321; TAR Piemonte,
sez. I, 18.10.2012, n. 1112).
34. Come anticipato, il ricorrente sostiene che i due
manufatti di cui è causa sarebbero stati realizzati prima
del 1942 in area esterna al centro abitato.
35. Tale allegazione però non è stata suffragata da alcun
elemento di prova.
36. Per quanto concerne il profilo spaziale, va osservato
che il Comune di Abbiategrasso ha depositato in giudizio la
planimetria allegata al regolamento edilizio del 1936, dalla
quale si desume che l’area di proprietà del sig. Dell’A.
ricadeva già all’epoca all’interno dell’aggregato urbano
(cfr. doc. 21 del Comune di Abbiategrasso). Questa
circostanza non può pertanto essere messa in discussione;
con la conseguenza che, per sostenere la regolarità degli
immobili di cui è causa, si dovrebbe provare che essi sono
stati costruiti prima dell’anno 1939.
37. A questo proposito, il ricorrente tenta di dimostrare
l’anteriorità della realizzazione richiamando la relazione
del tecnico allegata alla domanda di accertamento di
conformità (doc. 61 di parte ricorrente, depositato in data
22.05.2014) ed una polizia assicurativa stipulata da un
precedente proprietario, risalente all’anno 1954 (doc. 3 di
parte ricorrente, depositato in data 03.04.2015).
38. Con riferimento alla relazione del tecnico, si deve
osservare che questi, per stabilire la data di
realizzazione, si limita a richiamare imprecisate “notizie”,
nonché le dichiarazioni rese dalla proprietà (cfr. pag. 3
della relazione). Si tratta, all’evidenza, di elementi che
non possono costituire prova delle allegazioni di parte.
39. Per quando riguarda la polizza assicurativa, va
osservato che in essa si fa riferimento ad un portichetto
piccolo addossato al muro di cinta e aperto sugli altri
lati, posto a circa tre metri dal fabbricato, e ad un
piccolo portichetto addossato al muro di cinta posto a
cinque metri dal fabbricato. Risulta dall’atto prodotto che
entrambi i manufatti erano adibiti a ripostiglio di legna da
ardere, e che quello più lontano dal corpo di fabbrica
principale era adibito anche a ricovero di ruotabili e
gabinetto.
40. Si tratta, con tutta evidenza, di manufatti
completamente diversi da quelli oggetto dei provvedimenti
impugnati (anche se probabilmente posti in posizione
analoga), i quali, si ricorda, consistono in un box di ben
42 mq., chiuso su tutti i lati e munito di porte basculanti,
ed in una tettoria avente superficie di 14,75 mq.
41. In ogni caso la polizza assicurativa risale all’anno
1954; essa pertanto non dimostra che gli immobili siano
stati realizzati prima del 1939.
42. Il ricorrente fa, infine, riferimento ad alcune
fotografie aree scattate nell’anno 1982, che dimostrerebbero
la preesistenza rispetto, a quell’anno, dei due manufatti.
43. Anche tale elemento, per le medesime ragioni sopra
illustrate, è però del tutto ininfluente.
44. Si deve pertanto ritenere che, come anticipato, il
ricorrente non abbia fornito alcun elemento atto a
dimostrare che la costruzione delle opere di cui è causa sia
avvenuta in epoca antecedente all’introduzione dell’obbligo
di munirsi di titolo abilitativo. Ne consegue che dette
opere vanno considerate senz’altro abusive e che, quindi,
correttamente l’Amministrazione ha accertato la loro
compatibilità con il vincolo esistente al momento di
valutazione della domanda di sanatoria.
45. Va, pertanto, ribadita l’infondatezza del motivo in
esame.
...
74. Altrettanto può dirsi con riferimento alla censura che
lamenta il fatto che, con la nuova ordinanza -diversamente
dalla precedente che ingiungeva solo la demolizione- è stato
per la prima volta disposto anche il ripristino dello stato
dei luoghi. Va invero osservato, al di là di ogni altra
considerazione, che le due misure sono del tutto
equivalenti.
75. Con il motivo rubricato sub. B4 il ricorrente ripropone
le censure dedotte avverso l’ordinanza di demolizione n. 23
del 22.04.2013 che, a suo dire, varrebbero anche per la
nuova ordinanza. La parte rileva innanzitutto che il Comune
non avrebbe dimostrato che gli immobili di cui è causa
fossero ricompresi, dalla planimetria allegata al
regolamento edilizio del 1936, nel perimetro del centro
abitato.
76. La censura non può essere condivisa, in quanto, come
detto, l’Amministrazione ha depositato in
giudizio una copia dalla suddetta planimetria
(cfr. doc. 21 del Comune di Abbiategrasso)
da cui si evince chiaramente che gli immobili ricadevano
all’interno dell’aggregato urbano.
77. Parte ricorrente sostiene che tale atto
sarebbe inattendibile in quanto privo di data e di firma e,
comunque, illeggibile.
78. In proposito si deve osservare che la
mancanza di data e di firma sulla planimetria non denotano
l’inattendibilità della stessa, a meno che non si voglia
sostenere che il Comune abbia deliberatamente prodotto in
giudizio un documento falso, diverso da quello allegato al
regolamento edilizio del 1936
(ma neppure parte ricorrente allega tale circostanza,
limitandosi la stessa ad affermazioni generiche).
79. Si deve poi aggiungere che la
planimetria prodotta traccia con chiarezza il perimetro del
centro abitato e che il Comune ha individuato sulla stessa
gli immobili di proprietà del ricorrente. L’individuazione
non è stata smentita da quest’ultimo, il quale anche per
questo profilo si è limitato ad affermazioni generiche. Non
può essere pertanto condivisa la tesi che sostiene
illeggibilità dell’atto prodotto.
80. Si deve quindi ribadire che, dalla
documentazione depositata in giudizio, emerge che l’area su
cui sorgono i fabbricati oggetto degli atti impugnati
ricadeva, all’epoca di vigenza del regolamento edilizio del
1936, all’interno del centro abitato.
81. La censura in esame è dunque infondata
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 05.08.2015 n. 1891 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI:
La
tolleranza esclude l’usucapione. Diritti reali. Ma se
l’utilizzo del bene si prolunga nel tempo apre la strada al
«possesso» e al passaggio di titolarità.
Se un bene è utilizzato da un soggetto diverso
dal proprietario per tolleranza di costui, l’utilizzatore
non si trova in una situazione di «possesso» ma di mera
«detenzione», cosicchè non può maturare l’usucapione (che
presuppone appunto una situazione di «possesso»). La
tolleranza, e cioè la condiscendenza, è una situazione che
si verifica specialmente in ragione dei rapporti tra il
proprietario e l’utilizzatore: amicizia, parentela,
vicinato. Se però, nel caso dei rapporti di amicizia e di
buon vicinato, l’utilizzazione del bene altrui dura per un
lungo periodo, la situazione evolve in vero e proprio
«possesso», il che legittima la formazione dell’usucapione.
È quanto la Corte di
Cassazione -Sez. II civile- ha deciso nella
sentenza 04.08.2015 n. 16371.
Il «possesso» è una situazione di fatto che si ha quando un
soggetto si comporta verso un dato bene altrui come se ne
fosse il proprietario, senza però esserlo; la «detenzione» è
invece la situazione in cui si trova chi utilizza il bene
altrui, riconoscendo l’altrui diritto.
Possessore è il ladro
(perché si comporta verso il bene rubato come se ne fosse il
proprietario, ma non ne matura l’usucapione perché si tratta
di un possesso acquistato violentemente); detentore è
l’inquilino, perché, pagando (o dovendo pagare) il canone,
riconosce il diritto di proprietà del soggetto che gli ha
concesso in locazione il bene che l’inquilino utilizza.
L’usucapione è l’acquisto della proprietà del bene altrui
per effetto del «possesso» perdurato per un certo tempo
indicato dalla legge. Per aversi usucapione, occorre il
possesso; la mera detenzione non porta all’usucapione. Per
il maturare dell’usucapione, il possesso deve essere
continuato (e cioè non discontinuo), non interrotto (non
cessato per il venir meno dell’inerzia del titolare del
diritto), pacifico (non conseguito con violenza) e non
clandestino (non conseguito nascostamente).
Si dice «tolleranza» la situazione in cui l’utilizzatore di
un dato bene altrui ne abbia la disponibilità per il fatto
che il proprietario ne sia condiscendente (in modo esplicito
o implicito); in sostanza, si tratta del proprietario che
“chiude un occhio”: ad esempio, Tizio tollera che il suo
vicino di casa Caio parcheggi nel posto-auto di Tizio mentre
costui è in vacanza.
La tolleranza massimamente si ha per il fatto che
proprietario e utilizzatore sono amici, parenti o vicini. Ma
se l’utilizzo tollerato di un dato bene dura assai a lungo,
c'è da chiedersi se tratti sempre di tolleranza (e quindi di
“detenzione”) o se il rapporto tra proprietario e
utilizzatore sia evoluto in una situazione diversamente
qualificabile.
Ebbene, secondo la Cassazione, se è vero che i rapporti di
parentela, di amicizia e di buon vicinato sono indice di
tolleranza; è pur anche vero che se l’utilizzazione dura per
lungo tempo, questo fatto rende improbabile la
qualificazione della situazione in termini di tolleranza, in
quanto, qualora almeno si verta in tela di rapporti di
amicizia o di buon vicinato, che sono di per sé labili e
mutevoli, la lunghezza del periodo di utilizzo fa propendere
per una situazione di vero e proprio “possesso” e cioè una
situazione da cui può in effetti derivare l’usucapione del
bene da parte del soggetto che lo utilizza (articolo Il Sole 24 Ore del
05.08.2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Il
Collegio ritiene di aderire alla precedente giurisprudenza
che in numerosi casi analoghi, riguardanti la posizione di
A.N.A.S. s.p.a., ha già accertato e dichiarato la
legittimità delle ordinanze di rimozione (rifiuti
abbandonati) adottate nei confronti di quest’ultima.
Da ultimo, può farsi richiamo a TAR Emilia
Romagna, Sez. II, 21.05.2014, n. 524 che ha
stigmatizzato l’inconferenza del rilievo volto a censurare
il mancato accertamento di una responsabilità propria di
A.N.A.S. s.p.a. relativamente all’abbandono dei rifiuti con
conseguente insussistenza dell’obbligo di smaltimento, sia
in relazione alle caratteristiche del bene, sia avuto
riguardo alla sua estensione e sia, infine, alla sua
difficile controllabilità: “… la questione controversa ha
trovato soluzione con la sentenza del Consiglio di Stato,
sez. IV, 13.01.2010, n. 84 che ha richiamato la
Cassazione Civile, Sezioni Unite, 25.02.2009, n. 4472.
Secondo tale pronuncia, se è vero che l’art. 14 del D.Lgs.
n. 22 del 1997 (oggi sostituito dal D.Lgs. n. 152 del 2006,
art. 192, comma 3), prevede la corresponsabilità solidale del
proprietario o del titolare di diritti personali o reali di
godimento sull’area ove sono stati abusivamente abbandonati
o depositati rifiuti, con il conseguente suo obbligo di
provvedere allo smaltimento ed al ripristino, solo in quanto
la violazione sia imputabile anche a quei soggetti a titolo
di dolo o colpa, le esigenze di tutela ambientale sottese
alla norma citata rendono evidente che il riferimento a chi
è titolare di diritti reali o personali di godimento va
inteso in senso lato, essendo destinato a comprendere
qualunque soggetto si trovi con l’area interessata in un
rapporto, anche di mero fatto, tale da consentirgli -e per
ciò stesso imporgli- di esercitare una funzione di
protezione e custodia finalizzata ad evitare che l’area
medesima possa essere adibita a discarica abusiva di rifiuti
nocivi per la salvaguardia dell’ambiente; per altro verso,
il requisito della colpa postulato da detta norma ben può
consistere proprio nell’omissione degli accorgimenti e delle
cautele che l’ordinaria diligenza suggerisce per realizzare
un’efficace custodia e protezione dell’area, così impedendo
che possano essere in essa indebitamente depositati rifiuti
nocivi.
Si deve poi aggiungere che, in materia di strade, il canone
dell’ordinaria diligenza va definito in relazione all’art.
14 del codice della strada (D.L.vo n. 285/19992) che prevede
un obbligo da parte del gestore di provvedere alla pulizia
delle strade e delle loro pertinenze.
Tale norma, fatto salvo il caso fortuito, impone quindi
all’ANAS obblighi particolari anche in materia di rimozione
dei rifiuti che insistono non solo sulla carreggiata, ma
anche sulle pertinenze; ne consegue che il comune non era
tenuto ad una motivazione particolare”.
La presente controversia concerne l’ordinanza indicata in
epigrafe con la quale il Comune di Rosarno ha intimato ad
ANAS s.p.a. –odierna ricorrente- di provvedere alla
rimozione dei rifiuti giacenti nell’area, posta accanto al
sottopasso della superstrada di collegamento al Porto di
Gioia Tauro, sita in località Mongiari e corrispondente alla
particella catastale n. 446 del foglio di mappa n. 446, con
conseguente ordine di bonifica, recinzione e corretta
custodia.
...
Parimenti infondata è la censura relativa all’omessa
comunicazione dell’avvio del procedimento, dovendo farsi
applicazione dell’art. 21-octies, II comma, ultima parte,
della L. n. 241/1990 come risulterà da quanto si viene di
seguito ad esporre.
Nel merito, infatti, il Collegio ritiene di aderire alla
precedente giurisprudenza che in numerosi casi analoghi,
riguardanti la posizione di A.N.A.S. s.p.a., ha già
accertato e dichiarato la legittimità delle ordinanze di
rimozione adottate nei confronti di quest’ultima.
Da ultimo, anche ai sensi e per gli effetti dell’art. 74,
ultima parte, c.p.a., può farsi richiamo a TAR Emilia
Romagna, Sez. II, 21.05.2014, n. 524 che ha
stigmatizzato l’inconferenza del rilievo volto a censurare
il mancato accertamento di una responsabilità propria di
A.N.A.S. s.p.a. relativamente all’abbandono dei rifiuti con
conseguente insussistenza dell’obbligo di smaltimento, sia
in relazione alle caratteristiche del bene, sia avuto
riguardo alla sua estensione e sia, infine, alla sua
difficile controllabilità: “… la questione controversa ha
trovato soluzione con la sentenza del Consiglio di Stato,
sez. IV, 13.01.2010, n. 84 che ha richiamato la
Cassazione Civile, Sezioni Unite, 25.02.2009, n. 4472.
Secondo tale pronuncia, se è vero che l’art. 14 del D.Lgs.
n. 22 del 1997 (oggi sostituito dal D.Lgs. n. 152 del 2006,
art. 192, comma 3), prevede la corresponsabilità solidale del
proprietario o del titolare di diritti personali o reali di
godimento sull’area ove sono stati abusivamente abbandonati
o depositati rifiuti, con il conseguente suo obbligo di
provvedere allo smaltimento ed al ripristino, solo in quanto
la violazione sia imputabile anche a quei soggetti a titolo
di dolo o colpa, le esigenze di tutela ambientale sottese
alla norma citata rendono evidente che il riferimento a chi
è titolare di diritti reali o personali di godimento va
inteso in senso lato, essendo destinato a comprendere
qualunque soggetto si trovi con l’area interessata in un
rapporto, anche di mero fatto, tale da consentirgli -e per
ciò stesso imporgli- di esercitare una funzione di
protezione e custodia finalizzata ad evitare che l’area
medesima possa essere adibita a discarica abusiva di rifiuti
nocivi per la salvaguardia dell’ambiente; per altro verso,
il requisito della colpa postulato da detta norma ben può
consistere proprio nell’omissione degli accorgimenti e delle
cautele che l’ordinaria diligenza suggerisce per realizzare
un’efficace custodia e protezione dell’area, così impedendo
che possano essere in essa indebitamente depositati rifiuti
nocivi.
Si deve poi aggiungere che, in materia di strade, il canone
dell’ordinaria diligenza va definito in relazione all’art.
14 del codice della strada (D.L.vo n. 285/19992) che prevede
un obbligo da parte del gestore di provvedere alla pulizia
delle strade e delle loro pertinenze.
Tale norma, fatto salvo il caso fortuito, impone quindi
all’ANAS obblighi particolari anche in materia di rimozione
dei rifiuti che insistono non solo sulla carreggiata, ma
anche sulle pertinenze; ne consegue che il comune non era
tenuto ad una motivazione particolare”.
Parte ricorrente, inoltre, non solo non ha provato, ma
finanche allegato, l’adozione di alcuna cautela
eventualmente adottata al fine di adempiere agli obblighi di
custodia su di essa gravanti con ciò comprovando il proprio
comportamento omissivo, fondante la corresponsabilità con
gli autori dell'illecito
(TAR Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 03.08.2015 n. 809 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
TRIBUTI:
Tarsu
2013 senza aumenti e senza addizionale ex «Eca». Enti
locali. Decisione del Consiglio di Stato.
I Comuni rimasti a Tarsu nel 2013 non avrebbero
dovuto applicare l’addizionale Eca né aumentare le tariffe
rispetto al 2012, se non ponendo l’aumento a carico della
fiscalità generale.
Lo ha deciso il Consiglio
di Stato -Sez. V- con la
sentenza 01.08.2015 n.
3781, confermando l’esito del giudizio di primo grado
favorevole ad alcuni albergatori del salento.
La sentenza
La sentenza affronta diverse questioni, tra cui l’obbligo di
motivare le modifiche tariffarie e il principio «chi inquina
paga», ma anche la possibilità o meno di aumentare le
tariffe e di applicare l’addizionale ex Eca per il 2013.
Anno che avrebbe dovuto inaugurare l’entrata in vigore della
Tares, il nuovo tributo sui rifiuti e sui servizi introdotto
dal Dl 201/2011.
Ma una serie di difficoltà applicative
hanno indotto il legislatore a modificare la disciplina
prima con il Dl 35/2013 e poi con il Dl 102/2013. Alla fine
la legge di conversione del Dl 102/2013 ha consentito ai
Comuni di rimanere con i vecchi regimi (Tarsu, Tia1 o Tia2),
rinviando al 2014 l’applicazione della Tares, che poi sarà
soppressa e sostituita dalla Tari.
La disciplina transitoria
La disciplina ponte del 2013 è contenuta nell’articolo 5 del
Dl 102/2013, in particolare nel comma 4-quater, inserito
dalla legge di conversione 124/2013, sul quale si concentra
l’attenzione dei giudici amministrativi. Per il Consiglio di
Stato la norma si limita a prevedere, nel caso di opzione
per la Tarsu, una ultrattività dei soli criteri adottati nel
2012 per determinare i costi del servizio e le relative
tariffe, senza pertanto far rivivere la disciplina del Dlgs
507/1993. I giudici di Palazzo Spada pervengono quindi alla
conclusione che il comune non avrebbe potuto né approvare un
aumento del 30% delle tariffe previste per la Tarsu né
applicare l’addizionale ex Eca del 10% in quanto soppressa
dal 01.01.2013.
Il quadro di riferimento
Conclusione che non appare però condivisibile perché il
comma 4-quater non si limita a disporre il rinvio ai soli
criteri previsti per il 2012, ma prevede una “deroga”
all’articolo 14, comma 46, del Dl 201/2011 (che abrogava tutti
i prelievi sui rifiuti) rendendo così applicabile la vecchia
disciplina, compresa l’addizionale ex Eca. Inoltre la norma
contiene anche un espresso riferimento al «caso in cui il
Comune continui ad applicare, per l’anno 2013, la Tarsu, in
vigore nell’anno 2012».
Pertanto, pur in presenza di un
testo piuttosto confuso, si ritiene che nel complesso la
norma permetteva ai comuni di svincolarsi dai costi previsti
dal Dpr 158/1999, senza l’obbligo di considerare tutte le
nuove componenti (come il Carc) né di garantire il 100% di
copertura, che poteva essere raggiunta anche attraverso
entrate derivanti dalla fiscalità generale dell’ente.
D’altronde non tutti i Comuni sarebbero stati in grado di
fronteggiare gli aumenti con altre risorse.
Per quanto riguarda l’Eca si ritiene che il mantenimento
della Tarsu per il 2013 comporti inevitabilmente
l’applicazione dell’addizionale in deroga all’abrogazione
prevista dal Dl 201/2011, neutralizzata dal comma 4-quater e
rinviata al passaggio alla Tares-Tari (articolo Il Sole 24 Ore del
04.08.2015). |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO:
Il pubblico impiegato che abbia adottato o
concorso alla formazione, nell'esercizio delle proprie
funzioni, di atti amministrativi lesivi di interessi
legittimi, ne risponde nei confronti del terzo danneggiato
dal provvedimento, non ostandovi il disposto dell'art. 23
d.p.r. n. 3 del 1957, il quale, interpretato in modo
costituzionalmente orientato, non esclude la responsabilità
del pubblico dipendente per lesione di interessi legittimi.
2.1. Col secondo motivo di ricorso i ricorrenti sostengono
che la sentenza impugnata sarebbe affetta da una violazione
di legge, ai sensi all'art. 360, n. 3, c.p.c.. Si assumono
violati gli artt. 2043 c.c.; 23 del d.P.R. 10.01.1957 n. 3;
58 della I. 08.06.1990 n. 142.
Espongono, al riguardo, che la Corte d'appello avrebbe
errato nel ritenere che un pubblico dipendente non possa
essere chiamato a rispondere del danno causato a terzi
nell'esercizio dell'attività d'ufficio, e consistito nella
lesione d'un interesse legittimo.
2.2. Il motivo è fondato.
La Corte d'appello di Perugia ha rigettato la domanda di
risarcimento del danno proposta nei confronti di Orfeo
Carnevali (ed ora, per lui, del suo erede) con la seguente
motivazione:
(a) il danneggiato, lamentando la mancata assegnazione di un
incarico dirigenziale, ha prospettato la lesione d'un
interesse legittimo;
(b) il pubblico impiegato che nell'esercizio delle sue
funzioni causi a terzi un danno ne risponde, ma solo a
condizione che tale danno sia consistito nella lesione d'un
diritto;
(c) ergo, il pubblico impiegato non risponde dei danni
provocati da atti amministrativi da lui adottati
nell'esercizio delle sue funzioni, e lesivi soltanto d'un
interesse legittimo.
Questa motivazione è erronea.
2.3. Il "danno ingiusto" di cui all'art. 2043 c.c. può
consistere tanto nella lesione d'un diritto soggettivo
assoluto, quanto nella lesione d'un diritto soggettivo
relativo; quanto, infine, nella lesione d'un interesse
legittimo come pure d'ogni altra situazione giuridica
soggettiva "presa in considerazione dall'ordinamento" (così
la fondamentale decisione pronunciata da Sez. U, Sentenza n.
500 del 22/07/1999, Rv. 530553).
Vero è che la lesione d'un interesse legittimo non può
derivare che da una condotta della pubblica amministrazione,
giacché solo a fronte dei poteri autoritativi di cui questa
è titolare può concepirsi quella situazione giuridica
soggettiva; ma è altresì vero che in tema di responsabilità
aquiliana vige la regola dell'equivalenza delle condotte di
cui all'art. 2055 c.c.: pertanto, se la p.a. con un proprio
provvedimento viola un interesse legittimo, a provocare tale
danno concorre anche il funzionario che quel provvedimento
adotta ovvero non ostacola.
2.4. A queste conclusioni non osta il disposto dell'art. 23
d.P.R. 3/1957, cit. (il quale stabilisce che "é danno
ingiusto, agli effetti previsti dall'art. 22, quello
derivante da ogni violazione dei diritti dei terzi che
l'impiegato abbia commesso per dolo o per colpa grave").
Questa norma, infatti, fu promulgata in un'epoca in cui non
si dubitava della irrisarcibilità del danno da lesione di
interesse legittimo (ex permultis, Sez. U, Sentenza n. 1950
del 25/06/1953, Rv. 880278).
Oggi il quadro normativo e giurisprudenziale è radicalmente
mutato.
E' mutato il quadro normativo, perché la risarcibilità del
danno da lesione di interessi legittimi è espressamente
prevista dalla legge (art. 7, comma 4, d.lgs. 02.07.2010 n.
104).
E' mutato il quadro giurisprudenziale, perché sin dal 1999
le Sezioni Unite di questa Corte hanno ammesso la
risarcibilità del danno da lesione d'interessi legittimi
(Cass. 500/1999, cit.).
Il mutato quadro normativa e giurisprudenziale, che accorda
a chiunque il diritto ad ottenere il risarcimento del danno
da lesione di interessi legittimi, impone una lettura
aggiornata e costituzionalmente orientata dell'art. 23
d.p.r. 3/1957, in virtù della quale l'espressione "violazione
dei diritti dei terzi" deve intendersi quale sinonimo di
"violazione degli interessi protetti dei terzi".
Qualsiasi diversa interpretazione, infatti, creerebbe una
ingiustificata disparità di trattamento tra chi ha visto
vulnerare dall'amministrazione un proprio diritto, e chi ha
visto vulnerare un proprio interesse: al primo, infatti,
sarebbe accordata sia l'azione contro l'impiegato, sia
l'azione contro la p.a.; al secondo invece sarebbe concessa
solo l'azione nei confronti della p.a.. E questo esito
interpretativo si porrebbe in palese contrasto con l'art. 24
cost., a norma del quale tutti possono agire in giudizio per
la tutela dei propri diritti e interessi legittimi.
2.5. Le considerazioni che precedono sono già state
implicitamente condivise da questa Corte in due occasioni.
Una prima volta con la sentenza pronunciata da Sez. 3,
Sentenza n. 17914 del 25/11/2003, Rv. 568434, la quale, in
un giudizio avente ad oggetto una domanda di risarcimento
del danno da lesione di interessi legittimi proposta contro
il pubblico impiegato, ha affermato che la responsabilità
dei pubblici impiegati per i danni causati al cittadino in
conseguenza di provvedimenti adottati nell'esercizio della
proprie funzioni presuppone che il provvedimento sia stato
adottato "in lesione di una situazione di interesse
protetto" (e dunque non soltanto nel caso di lesione di
diritti).
Una seconda volta con la sentenza pronunciata da
Sez. U, Sentenza n. 5123 del 26/05/1994, Rv. 486773, la
quale, sia pure pronunciandosi solo sulla giurisdizione, ha
ritenuto comunque ammissibile una domanda di risarcimento
del danno da lesione di interesse legittimo proposta
direttamente nei confronti d'un pubblico impiegato.
Queste decisioni, oltre che le modifiche normative sopra
ricordate, devono quindi fare ritenere abbandonato il
diverso e più remoto orientamento espresso da Sez. U,
Sentenza n. 3357 del 18/03/1992, Rv. 476329, secondo cui la
condotta del pubblico impiegato lesiva d'un interesse
legittimo "non possa costituire causa di danno risarcibile"
ai sensi dell'art. 23 d.p.r. 3/1957.
In quella decisione, infatti, l'inammissibilità della
domanda venne fondata unicamente sull'assunto che "la
violazione dell'interesse legittimo non costituisce un danno
risarcibile": sicché, venuto questo meno quest'ultimo
principio, è caduta di conseguenza anche l'interpretazione
restrittiva dell'art. 23 d.p.r. 3/1957, fatta propria dalla
sentenza impugnata.
2.6. La sentenza impugnata va dunque cassata con rinvio alla
Corte d'appello di Perugia in diversa composizione, la quale
nel riesaminare l'appello si atterrà al seguente principio
di diritto: "Il pubblico impiegato che
abbia adottato o concorso alla formazione, nell'esercizio
delle proprie funzioni, di atti amministrativi lesivi di
interessi legittimi, ne risponde nei confronti del terzo
danneggiato dal provvedimento, non ostandovi il disposto
dell'art. 23 d.p.r. n. 3 del 1957, il quale, interpretato in
modo costituzionalmente orientato, non esclude la
responsabilità del pubblico dipendente per lesione di
interessi legittimi."
(Corte di Cassazione, Sez. III civile,
sentenza 31.07.2015 n. 16276). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Possibile
verificare i crediti del debitore verso enti pubblici.
Tar
di Lecce. Opera il diritto di accesso.
Nuove
possibilità per i creditori, nella ricerca di somme
aggredibili: lo precisa il TAR Puglia-Lecce, Sez. II, con la
sentenza 29.07.2015 n. 2564,
che consente a un creditore di dare uno sguardo alle somme
che il debitore deve riscuotere, quale professionista, per
servizi resi a un ente pubblico.
In particolare, è stata esaminata la situazione di un
avvocato che aveva gestito più liti per l’Inps e che, a sua
volta, risultava debitore di un soggetto terzo:
quest’ultimo, per riscuotere il credito dal proprio
debitore-avvocato, ha chiesto all’Inps di conoscere gli
onorari dovuti dall’Istituto previdenziale al
professionista, per poi poterli aggredire.
L’aspetto innovativo della sentenza Tar riguarda la
possibilità, per il creditore, di chiedere l’esibizione di
documenti relativi al debitore, anche se il creditore abbia
già intrapreso un’azione esecutiva di espropriazione presso
terzi finalizzata al recupero del credito.
Di norma, chi ha un credito può effettuare un pignoramento
presso i terzi che risultino debitori del suo debitore.
Ciò avviene con una azione denominata “accertamento
dell’obbligo del terzo”, disciplinata dagli articoli 543 e
seguenti del codice di procedura civile, con un meccanismo
che prevede la ricerca del debitore del proprio debitore ed
il pignoramento (blocco) delle operazioni di pagamento,
dirottando tali pagamenti verso il creditore pignorante.
Per effettuare un pignoramento presso terzi, occorre
tuttavia conoscere l’esistenza del credito vantato da chi è
debitore, procedendo successivamente al pignoramento.
Appunto in tale fase opera il meccanismo dell’“accesso”,
previsto dalla legge 241/1990, che il Tar Lecce applica al
professionista legale che aveva curato delle cause per
l’Inps.
Vi è quindi il diritto del creditore ad avere accesso a
documenti concernenti le ragioni di credito vantate da un
avvocato verso l’Inps, anche indipendentemente da una
procedura esecutiva già in corso contro l’avvocato, perché
vi è autonomia tra l’azione di accertamento dell’obbligo del
terzo (nel caso esaminato, l’Inps) innanzi al giudice
ordinario, rispetto alla domanda giudiziale indirizzata al
Tar, per ottenere accesso agli atti detenuti dallo stesso
terzo (Inps).
Le due azioni, innanzi al giudice ordinario e dinanzi al
Tar, sono infatti cumulativamente percorribili.
Si completa in questo modo un sistema che già prevede
l’accesso del subappaltatore rispetto alla gestione del
contratto principale (Tar Lazio 879/2013), al fine di poter
seguire l’andamento dei pagamenti a favore del proprio
debitore, mentre il Tar Parma (370/2014) limita l’accesso alla
dichiarazione dei redditi di un soggetto genericamente
inadempiente a contratti.
Infine, la sentenza del Tar Lecce si collega alle recenti
riforme nella ricerca dei beni da pignorare (articolo 492-bis del Cpc) e quindi alla previsione di accesso alle banche
dati (Dl 83/2015, si veda il Sole del 26.06.2015):
l’accesso attraverso l’ufficiale giudiziario deve tuttavia
attendere uno specifico decreto ministeriale (articolo 155-quater disposizioni attuative del Codice di procedura
civile) e inoltre presuppone un titolo già esecutivo, mentre
l’accesso a norma della legge 241/1990 può avvenire anche
senza un titolo già esecutivo, sulla base cioè di concrete e
dimostrate esigenze di informazione (articolo Il Sole 24 Ore del
06.08.2015). |
CONDOMINIO:
Tabelle
modificate all’unanimità. Solo all’unanimità è possibile
modificare le tabelle millesimali.
Assemblea. Virata della Cassazione per cambiare
il riparto.
La II Sez. civile
della Corte di Cassazione, con la
sentenza 28.07.2015 n. 15946, torna ad occuparsi
della possibilità, da parte dell’assemblea, di modificare le
tabelle millesimali.
Con un cambio di rotta rispetto alla giurisprudenza più
recente, la Cassazione ritiene che la modifica possa essere
effettuata solo all’unanimità dei comproprietari.
Un condòmino, a seguito di un’intimazione di pagamento per
spese condominiali relative a garage e cantine, impugna il
decreto ingiuntivo emesso nei suoi confronti dal condominio,
sostenendo che le tabelle millesimali poste alla base della
ripartizione delle spese non sono valide, non essendo state
approvate all’unanimità da tutti i condòmini. Secondo la
Corte d’appello, e la Cassazione conferma, «nessun
rilievo poteva assumere la delibera (...) di modifica delle
originarie tabelle in quanto adottata a seguito di assemblea
condominiale all’unanimità dei presenti e non dei condòmini».
Si tratta di una sentenza piuttosto eccentrica: le Sezioni
unite della Cassazione, con la sentenza 18477/2010, avevano
infatti posto dei paletti stabilendo che, per la modifica
delle tabelle, è sufficiente la maggioranza qualificata dei
condomini per cui sarebbe sufficiente una delibera votata
dalla maggioranza dei presenti in assemblea che rappresenti
almeno 501 millesimi.
Tale orientamento è stato confermato dalla Cassazione più
recente (sentenze 4569/2014 e 3221/2014). Secondo queste
giurisprudenza, le tabelle millesimali non incidono sui
diritti dei condomini ma si limitano ad esprimere, in
termini aritmetici, il rapporto di valore tra i vari
condòmini. La deliberazione assembleare che approva le
tabelle millesimali, non costituisce quindi la fonte diretta
dell’obbligo contributivo posto a carico di ciascun
condòmino, ma si limita a rappresentare un parametro per la
sua quantificazione, determinato in base ad un valutazione
tecnica.
Le tabelle, insomma, almeno sino alla sentenza 15940/2015,
non accertano il diritto dei singoli condomini sulle unità
immobiliari di proprietà esclusiva, ma soltanto il valore di
tali unità rispetto all’intero edificio (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.08.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Multe, ok chiudere un occhio. Ma due no.
Non configura il reato di omissione di atti d'ufficio la
mancata redazione di un verbale stradale da parte di un
operatore addetto ai controlli di polizia stradale.
Lo ha evidenziato la Corte di Cassazione, Sez. VI penale,
con la
sentenza 24.07.2015 n. 32594.
Un carabiniere è stato giudicato per una complessa vicenda
di soprusi perpetrati ai danni di alcuni utenti stradali
incappando poi in pesanti sanzioni penali confermate dalla
Corte d'appello di Bologna.
Contro questa determinazione l'interessato ha proposto
censure ai giudici del Palazzaccio che hanno riformulato
parzialmente la sentenza. La mancata redazione di una multa
stradale non configura il reato previsto e punito dall'art.
328 del codice penale.
I verbali stradali, infatti, non rientrano nelle categorie
di atti tassativamente individuati dal modello normativo
della fattispecie incriminatrice prevista dal codice,
specifica il collegio.
Quindi omettere di redigere una multa, anche se
evidentemente poco corretto, non configura automaticamente
un grave reato di omissione di atti d'ufficio
(articolo ItaliaOggi Sette del
03.08.2015). |
APPALTI SERVIZI: Contano
le prestazioni.
Tar Lazio sulle parti di servizio.
Negli appalti di servizi e forniture l'obbligo di dichiarare
le parti del servizio da svolgere può essere assolto sia in
termini percentuali, sia indicando materialmente le
prestazioni svolte da ogni soggetto raggruppato.
È quanto afferma il TAR Lazio-Roma, Sez. III-bis con la
sentenza 24.07.2015 n. 10187
con riguardo a una gara di appalto di servizi e rispetto
all'articolo 37 del codice dei contratti pubblici che
stabilisce, per gli appalti di servizi e forniture, che
nell'offerta devono essere specificate le parti del servizio
o della fornitura che saranno eseguite dai singoli operatori
economici riuniti o consorziati.
Il problema che veniva posto riguardava le modalità
attraverso le quali assolvere l'obbligo. La sentenza
preliminarmente chiarisce che l'obbligo dichiarativo è
espressione di un principio generale che non consente
distinzioni legate alla natura morfologica del
raggruppamento (verticale o orizzontale).
Venendo poi alle
modalità di assolvimento dell'onere dichiarativo i giudici
precisano che l'obbligo si deve considerare legittimamente
assolto in caso «sia di indicazione, in termini descrittivi,
delle singole parti del servizio da cui sia evincibile il
riparto di esecuzione tra loro, sia di indicazione, in
termini percentuali, della quota di riparto delle
prestazioni che saranno eseguite tra le singole imprese».
È infatti dall'applicazione del principio di tassatività
delle cause di esclusione che discende l'impossibilità di
reputare incongrue o illegittime le dichiarazioni di riparto
tra le imprese raggruppate soltanto perché non ne rechino la
puntigliosa suddivisione in valori e in percentuali, dovendo
tener conto anche dell'oggetto del servizio e della
complessità, o meno, della relativa esecuzione.
Inoltre, dicono i giudici, l'intervenuta abrogazione del
principio della necessaria corrispondenza fra quote di
esecuzione dell'appalto e quote di possesso dei requisiti di
gara, obbligo che, conseguentemente, attualmente, deve
essere ricostruito in termini di corrispondenza sostanziale
e relativa responsabilità aziendale piuttosto che in termini
di assoluta e precisa corrispondenza quantitativa
(articolo ItaliaOggi del 07.08.2015).
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MASSIMA
Si premette che l’articolo 37 del d.lgs. n. 163 del 2006
dispone testualmente al riguardo che “4. Nel caso di
forniture o servizi nell'offerta devono essere specificate
le parti del servizio o della fornitura che saranno eseguite
dai singoli operatori economici riuniti o consorziati. …
9. E' vietata l'associazione in partecipazione. Salvo quanto
disposto ai commi 18 e 19, è vietata qualsiasi modificazione
alla composizione dei raggruppamenti temporanei e dei
consorzi ordinari di concorrenti rispetto a quella
risultante dall'impegno presentato in sede di offerta.
10. L'inosservanza dei divieti di cui al precedente comma
comporta l'annullamento dell'aggiudicazione o la nullità del
contratto, nonché l'esclusione dei concorrenti riuniti in
raggruppamento o consorzio ordinario di concorrenti,
concomitanti o successivi alle procedure di affidamento
relative al medesimo appalto. …”.
Si rileva che
l'obbligo dichiarativo recato dall'art. 37, comma 4, del
D.Lgs. n. 163 del 2006, avente ad oggetto la specificazione
delle parti del servizio da eseguire a cura dei singoli
operatori riuniti, è espressione di un principio generale
che non consente distinzioni legate alla natura morfologica
del raggruppamento (verticale o orizzontale), non
distinguendo il dettato normativo tra associazioni di tipo
orizzontale e associazioni di tipo verticale, alla tipologia
delle prestazioni (principali o secondarie, scorporabili o
unitarie) o al dato cronologico del momento della
costituzione dell'associazione (costituita o costituenda) ed
è previsto a pena di esclusione
(Cons. Giust. Amm. Sic., 01.12.2014, n. 648).
E, tuttavia, in primo luogo,
l'obbligo di cui alla norma richiamata si deve considerare
legittimamente assolto in caso sia di indicazione, in
termini descrittivi, delle singole parti del servizio da cui
sia evincibile il riparto di esecuzione tra loro, sia di
indicazione, in termini percentuali, della quota di riparto
delle prestazioni che saranno eseguite tra le singole
imprese, Ciò in considerazione del principio di tassatività
delle cause di esclusione, sancito dall'art. 46, c. 1-bis,
D.Lgs. n. 163/2006, da cui discende l'impossibilità di
reputare incongrue o illegittime le dichiarazioni di riparto
tra le predette imprese soltanto perché non ne rechino la
puntigliosa suddivisione in valori e in percentuali, dovendo
tener conto anche dell'oggetto del servizio e della
complessità, o meno, della relativa esecuzione
(Cons. Stato, sez. III, 18.10.2013, n. 5069; TAR
Sicilia–Palermo, sez. I, 23.01.2014, n. 212).
E, in secondo luogo,
l’intervenuta abrogazione del comma 13 dell’articolo 37
richiamato, e quindi del principio della necessaria
corrispondenza fra quote di esecuzione dell’appalto e quote
di possesso dei requisiti di gara, ha finito per incidere,
indirettamente, anche sull’obbligo di cui al predetto comma
4 di esplicitazione delle parti di servizio di competenza
delle singole imprese in RTI, obbligo che, conseguentemente,
attualmente, deve essere ricostruito in termini di
corrispondenza sostanziale e relativa responsabilità
aziendale piuttosto che in termini di assoluta e precisa
corrispondenza quantitativa.
Si premette, ancora, al riguardo, che l'articolo 275 del
d.P.R. n. 207/2010, Requisiti dei partecipanti alle
procedure di affidamento, dispone testualmente, al comma 2,
che “2. Per i soggetti di cui all'articolo 34, comma 1,
lettere d), e), f), e f-bis), del codice, il bando individua
i requisiti economico-finanziari e tecnico-organizzativi
necessari per partecipare alla procedura di affidamento,
nonché le eventuali misure in cui gli stessi devono essere
posseduti dai singoli concorrenti partecipanti. La
mandataria in ogni caso deve possedere i requisiti ed
eseguire le prestazioni in misura maggioritaria.”.
In linea generale, si rileva che il criterio adottato da
parte della ricorrente di associazione meccanica tra
presunta provenienza della risorsa professionale attestata
attraverso il curriculum e quota di pertinenza del
servizio presenta alcuni profili di arbitrarietà, laddove si
consideri che, effettivamente, sebbene le risorse
professionali siano la principale componente del complesso
ed articolato apparato produttivo da attivare per la
realizzazione del servizio, tuttavia, sono pur sempre
soltanto una delle predette componenti, non potendosi
disconoscere che, al riguardo, rilevino anche
l’organizzazione aziendale complessiva, il know how
specifico aziendale, i mezzi tecnici e/o consulenziali e di
supporto etc..
Senza considerare, altresì, che i curricula degli
esperti indicati non appaiono idonei a comprovare, di per sé
soli, la specifica posizione della singola risorsa
professionale nella fase di esecuzione del servizio, e, in
particolare, per gli esperti che non siano titolari di un
rapporto di lavoro a tempo indeterminato per evidenti
motivi. |
PUBBLICO IMPIEGO:
Anche in
Regione funzioni dirigenziali solo per concorso. Al vertice.
Decisione della Consulta.
Anche le Regioni e gli enti locali non possono
promuovere a dirigente i dipendenti pubblici del comparto
mediante procedure che vadano oltre i limiti stabiliti dal
decreto legislativo 165/2001, il quale, com’è noto,
costituisce ormai norma di principio applicabile agli enti
locali ed alle Regioni sia per gli aspetti civilistici (la
durata minima del contratto), sia per quelli di natura più
strettamente organizzativa (le procedure di scelta dei
dirigenti).
E ciò dopo la ben nota decisione della Corte costituzionale
324/2010, per la quale la normativa in questione (articolo
19 del Dlgs 165/2001) è «riconducibile alla materia
dell’ordinamento civile di cui all’art. 117, secondo comma,
lettera l), Cost., poiché il conferimento di incarichi
dirigenziali a soggetti esterni, disciplinato dalla
normativa citata, si realizza mediante la stipulazione di un
contratto di lavoro di diritto privato. Conseguentemente, la
disciplina della fase costitutiva di tale contratto, così
come quella del rapporto che sorge per effetto della
conclusione di quel negozio giuridico, appartengono alla
materia dell’ordinamento civile».
Conseguentemente, dopo la stangata ricevuta dall’agenzia
delle Entrate, anche le Regioni (il meccanismo era contenuto
in una legge regionale della Basilicata) si sono viste
bloccare dalla Corte costituzionale potenziali promozioni a
dirigente pubblico di dipendenti sprovvisti di tale status.
Con la recentissima
sentenza
23.07.2015 n. 180, la Consulta stigmatizza l’operato
legislativo finalizzato, tra l’altro, ad attribuire, nelle
more dell’espletamento dei concorsi pubblici per l’accesso
alla qualifica dirigenziale, le funzioni dirigenziali a
dipendenti di ruolo dell’Amministrazione regionale
appartenenti alla categoria D3 del comparto Regioni-enti
locali in possesso dei requisiti per l’accesso alla
qualifica dirigenziale, previo espletamento di apposite
procedure selettive, stabilendo altresì che al dipendente
incaricato spetti, per la durata dell’attribuzione delle
funzioni, il trattamento tabellare già in godimento e il
trattamento accessorio del personale con la qualifica
dirigenziale.
Si afferma ancora una volta il principio per cui
l'assegnazione, ancorché temporanea, di personale ad
attività e mansioni di rango dirigenziale è in violazione ai
requisiti prescritti dal Testo Unico del pubblico impiego.
D'altronde, la stessa Corte di cassazione più volte, in
passato, ha confermato che «nell’ambito del pubblico impiego contrattualizzato il conferimento di mansioni dirigenziali
ad un funzionario direttivo è illegittimo» (ex plurimis,
Cass. Civ., Sezione Lavoro: n. 13597 dell’11.06.2009, n.
8529 del 12.04.2006, n. 10027 del 27.04.2007, ecc…).
Ben diverso epilogo avrebbe potuto avere una disposizione
regionale che valorizzasse l’accesso a procedure selettive
concorsuali allo scopo di consolidare pregresse esperienze
lavorative maturate nell’ambito dell’amministrazione, purché
ciò non escluda, o irragionevolmente riduca attraverso norme
di privilegio, le possibilità di accesso per tutti gli altri
aspiranti, con violazione del carattere del concorso (tra le
tante, Corte cost. sent. n. 213/2010).
Ma forse per questa soluzione, stante il sostanziale blocco
derivante dalla ricollocazione del personale delle Province,
il tempo è oramai scaduto
(articolo Il Sole 24 Ore del
05.08.2015).
---------------
MASSIMA
3.– Il ricorrente censura inoltre l’art. 51, comma 4,
della legge regionale n. 26 del 2014, nella parte in cui,
inserendo il comma 9-bis all’art. 2 della legge della
Regione Basilicata 25.10.2010, n. 31 (Disposizioni di
adeguamento della normativa regionale al decreto legislativo
27.10.2009, n. 150. Modifica art. 73 della legge regionale
30.12.2009, n. 42. Modifiche della legge regionale
09.02.2001, n. 7. Modifica art. 10 legge regionale 02.02.1998, n. 8 e s.m.i.), prevede la possibilità di
attribuire, nelle more dell’espletamento dei concorsi
pubblici per l’accesso alla qualifica dirigenziale e,
comunque, per non oltre due anni, le funzioni dirigenziali a
dipendenti a tempo indeterminato di ruolo
dell’amministrazione regionale appartenenti alla categoria
D3 giuridico del comparto Regioni-Enti locali in possesso
dei requisiti per l’accesso alla qualifica dirigenziale,
previo espletamento di apposite procedure selettive,
disponendo, altresì, che al dipendente incaricato spetti,
per la durata dell’attribuzione delle funzioni, il
trattamento tabellare già in godimento e il trattamento
accessorio del personale con qualifica dirigenziale.
Tale disposizione violerebbe gli artt. 97 e 117, secondo
comma, lettera l), Cost., che riserva alla competenza
legislativa esclusiva dello Stato la materia
dell’«ordinamento civile» cui devono essere ricondotte tutte
le regole inerenti al rapporto di lavoro, come quelle
oggetto della predetta disposizione impugnata.
3.1.– La questione è fondata in riferimento all’art. 117,
secondo comma, lettera l), Cost.
La norma regionale impugnata ha inserito il comma 9-bis
all’art. 2 della legge regionale n. 31 del 2010. L’art. 2
della predetta legge regionale è così rubricato:
«Adeguamento delle disposizioni regionali all’art. 19 del
d.lgs. n. 165/2001 in materia di conferimento delle funzioni
dirigenziali».
Il citato art. 19 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165
(Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze
delle amministrazioni pubbliche), modificato dal decreto
legislativo 27.10.2009, n. 150 (Attuazione della legge
04.03.2009, n. 15, in materia di ottimizzazione della
produttività del lavoro pubblico e di efficienza e
trasparenza delle pubbliche amministrazioni), detta norme in
tema di conferimento di «incarichi di funzioni dirigenziali»
con riguardo alle amministrazioni statali. Poiché l’art. 27
del medesimo d.lgs. n. 165 del 2001 dispone che «Le regioni
a statuto ordinario, nell’esercizio della propria potestà
statutaria, legislativa e regolamentare […] adeguano ai princípi dell’articolo 4 e del presente capo i propri
ordinamenti, tenendo conto delle relative peculiarità», con
l’ art. 2 della legge regionale n. 31 del 2010 la Regione
Basilicata ha provveduto a realizzare tale adeguamento.
Tuttavia, il comma 9-bis introdotto al citato art. 2 con la
norma regionale ora impugnata (l’art. 51, comma 4, della
legge regionale n. 26 del 2014) interviene a dettare norme
specificamente in tema di assegnazione temporanea di
personale ad altre mansioni (nella specie di rango
dirigenziale), norme che, peraltro, risultano difficilmente
riconducibili alle fattispecie delineate dal d.lgs. n. 165
del 2001.
Esse, infatti, non configurano un’ipotesi di
legittimo conferimento di mansioni superiori (di cui
all’art. 52 del d.lgs. n. 165 del 2001), in quanto, oltre a
non soddisfare i requisiti prescritti dal citato decreto
legislativo (e dal relativo contratto collettivo), delineano
il conferimento di funzioni corrispondenti ad una diversa
“carriera” (quella dirigenziale, appunto), piuttosto che di
mansioni superiori, sanzionato dall’art. 52, comma 5, del
medesimo d.lgs. n. 165 del 2001.
Né si può ravvisare la
fattispecie della reggenza, poiché quest’ultima ricorre solo
in caso di vacanza di posto in organico, di temporaneità e
straordinarietà, con la conseguenza che non si producono gli
effetti retributivi propri del riconoscimento dello
svolgimento di mansioni superiori.
Nella specie, infatti, la
norma regionale dispone che la temporaneità dell’incarico
potrebbe espandersi fino a due anni e riconosce ai soggetti
investiti del medesimo incarico sulla base di apposite
procedure selettive il trattamento retributivo accessorio
del personale con qualifica dirigenziale.
È indirizzo costante di questa Corte quello secondo cui
per
effetto della «intervenuta privatizzazione del rapporto di
lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, che
interessa, altresì, il personale delle Regioni, la materia è
regolata dalla legge dello Stato e, in virtù del rinvio da
essa operato, dalla contrattazione collettiva» (sentenza n.
286 del 2013). Infatti, a seguito della suddetta
privatizzazione, la materia cui va ricondotto il rapporto di
lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni ivi
comprese le Regioni è quella dell’ordinamento civile, che
appartiene alla potestà del legislatore statale, il quale
«ben può intervenire […] a conformare gli istituti del
rapporto di impiego attraverso norme che si impongono
all’autonomia privata con il carattere dell’inderogabilità,
anche in relazione ai rapporti di impiego dei dipendenti
delle Regioni (sent. n. 19 del 2013)» (sentenza n. 228 del
2013).
In altri termini, «la disciplina del rapporto
lavorativo dell’impiego pubblico privatizzato è rimessa alla
competenza legislativa statale di cui all’art. 117, secondo
comma, lett. l), Cost., in quanto riconducibile alla materia
“ordinamento civile”, che vincola anche gli enti ad
autonomia differenziata (cfr. sentenza n. 151 del 2010;
sentenza n. 95 del 2007)» (sentenza n. 77 del 2013).
Con riguardo, poi, specificamente, all’assegnazione
temporanea di personale ad altre mansioni, questa Corte ha
già avuto occasione di affermare che essa «tipicamente
attiene allo svolgimento del rapporto di lavoro. Ne
concreta, cioè, una modificazione temporanea con riguardo al
contenuto della prestazione lavorativa» delineando un
«mutamento provvisorio di mansioni». Pertanto, «la relativa
disciplina rientra […] nella materia del rapporto di lavoro
e, per esso, dell’ordinamento civile, […] di competenza
esclusiva dello Stato ai sensi dell’art. 117, secondo comma,
lettera l) Cost.» (sentenza n. 17 del 2014).
Sulla base delle richiamate indicazioni, risulta dunque
evidente che l’art. 51, comma 4, della legge regionale n. 26
del 2014 è costituzionalmente illegittimo per violazione
dell’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost.
Al di là della verifica della scarsa coerenza della
disciplina dettata dalla norma regionale impugnata con la
corrispondente disciplina di fonte statale e negoziale, la
norma in questione regola una fattispecie che, incidendo
sull’assegnazione del personale ad altre mansioni (nella
specie di rango dirigenziale): sentenza n. 37 del 2015, e
comunque sull’inquadramento professionale dello stesso, con
effetti sul trattamento retributivo, tocca inevitabilmente
aspetti che attengono allo svolgimento del rapporto di
lavoro, da ricondursi alla materia dell’«ordinamento
civile», di competenza statale esclusiva ai sensi dell’art.
117, secondo comma, lettera l) Cost.. |
LAVORI PUBBLICI:
Grandi
opere «intoccabili» dopo l’ok Cipe. Tar di Milano. Il Comune
non può modificare il piano territoriale per fermare
l’intervento.
Dopo che il Comitato interministeriale per la
programmazione economica (Cipe) ha approvato il progetto
preliminare di una “grande opera” e quindi l’assetto
urbanistico dell’area d’insediamento, l’ente locale
interessato dai lavori non può modificare il proprio piano
territoriale per annullarne il progetto.
L’ha chiarito il TAR
Lombardia-Milano nella
sentenza
22.07.2015 n. 1770, Sez. III, bocciando il ricorso di alcuni
residenti contro l’esproprio di terreni di proprietà su cui
era prevista una pista ciclopedonale inclusa nella
riqualificazione di una strada provinciale, «opera connessa»
all’«infrastruttura strategica» della Tangenziale est
esterna di Milano.
Per i ricorrenti, l’atto era illegittimo poiché il progetto
aveva ormai perso «compatibilità urbanistica»: sei anni dopo
l’«ok» del Cipe al preliminare, il Comune aveva approvato il
nuovo Piano di governo del territorio (Pgt), destinando
l’area a “trasformazione produttiva” (industria, terziario e
commercio).
Il Tar ha spiegato che il Codice degli appalti
in tema di “progetto preliminare” di tali infrastrutture
(comma 7, articoli 165 del Dlgs 163/2006) stabilisce che il
relativo via libera «determina, ove necessario (…),
l’accertamento della compatibilità ambientale dell’opera e
perfeziona, a ogni fine urbanistico ed edilizio, l’intesa Stato-regione sulla sua localizzazione, comportando
l’automatica variazione degli strumenti urbanistici vigenti
ed adottati».
Tali dettami, ha ricordato il collegio, fissano che «gli
enti locali provvedono alle occorrenti misure di
salvaguardia delle aree impegnate e delle relative eventuali
fasce di rispetto e non possono rilasciare, in assenza
dell’attestazione di compatibilità tecnica da parte del
soggetto aggiudicatore, permessi di costruire, né altri
titoli abilitativi nell’ambito del corridoio individuato con
l’approvazione del progetto ai fini urbanistici e delle aree
comunque impegnate (…)».
Per i giudici, quindi, «ritenere che deliberazioni
successive dei singoli enti locali, di tratto diverso dalle
delibere di approvazione dei progetti preliminari, possano
rendere le cosiddette “grandi opere” incompatibili con gli
strumenti urbanistici sopravvenuti ne vanificherebbe, nei
fatti, la realizzazione e renderebbe facilmente eludibili le
norme citate».
Nella sentenza si è così infine affermato come in tali casi
«l’ente locale non abbia il potere di modificare
unilateralmente lo strumento urbanistico relativamente alle
aree su cui incide il progetto e che eventuali provvedimenti
comportanti modifiche unilaterali successivamente
intervenuti debbano quindi essere considerati nulli per
difetto di un elemento essenziale dell’atto», ovvero «la
coerenza –sotto il profilo urbanistico– con le delibere Cipe» (articolo Il Sole 24 Ore del
06.08.2015).
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MASSIMA
La variazione degli strumenti urbanistici vigenti ed
adottati è determinata, quale effetto automatico,
dall’approvazione del progetto preliminare dell’opera,
secondo il disposto dell’art. 3, comma 7, del D.Lgs.
190/2002 (oggi ritrasfuso nell’art. 165, comma 7, del D.Lgs.
163/2006), applicabile alla vicenda ratione temporis:
«…L’approvazione determina, ove necessario ai sensi delle
vigenti norme, l’accertamento della compatibilità ambientale
dell’opera e perfeziona, ad ogni fine urbanistico ed
edilizio, l’intesa Stato-regione sulla sua localizzazione,
comportando l’automatica variazione degli strumenti
urbanistici vigenti ed adottati…».
Lo stesso comma 7 stabilisce –fra l’altro– anche che «…gli
enti locali provvedono alle occorrenti misure di
salvaguardia delle aree impegnate e delle relative eventuali
fasce di rispetto e non possono rilasciare, in assenza
dell’attestazione di compatibilità tecnica da parte del
soggetto aggiudicatore, permessi di costruire, né altri
titoli abilitativi nell’ambito del corridoio individuato con
l’approvazione del progetto ai fini urbanistici e delle aree
comunque impegnate dal progetto stesso…».
Da tali disposizioni normative discende, quale logica
conseguenza che l’assetto territoriale
derivante dalle delibere di approvazione dei progetti
preliminari non possa essere unilateralmente modificato da
determinazioni successive delle amministrazioni locali il
cui territorio è coinvolto nella realizzazione
dell’infrastruttura e delle opere connesse.
Infatti, ritenere che deliberazioni
successive dei singoli enti locali, di tratto diverso dalle
delibere di approvazione dei progetti preliminari, possano
rendere le cd. “grandi opere” incompatibili con gli
strumenti urbanistici sopravvenuti ne vanificherebbe, nei
fatti, la realizzazione e renderebbe facilmente eludibili le
norme citate.
Ciò induce a ritenere che –successivamente
all’approvazione del progetto preliminare con delibera CIPE–
l’ente locale non abbia il potere di modificare
unilateralmente lo strumento urbanistico relativamente alle
aree su cui incide il progetto e che eventuali provvedimenti
comportanti modifiche unilaterali successivamente
intervenuti debbano quindi essere considerati nulli per
difetto di un elemento essenziale dell’atto.
Discende infatti
dalle disposizioni normative sopra indicate che,
nell’ambito dei provvedimenti inerenti le cd “grandi
opere”, la coerenza –sotto il profilo urbanistico– con
le delibere CIPE di approvazione del progetto preliminare
costituisce elemento essenziale dei provvedimenti comunali
comportanti modifiche unilaterali degli strumenti
urbanistici successivamente intervenuti
(con riferimento alla possibilità di individuazione di
specifici elementi essenziali per tipologia di
provvedimenti, si veda Cons. Stato, Sez. VI, 23.05.2012, n.
3039, in relazione all’elemento dell’assenza di dissensi
qualificati nella previa conferenza di servizi). |
TRIBUTI: Ici/Imu, sì a esenzioni multiple. Il contemporaneo uso di
più unità non vieta il beneficio.
La Ctp di Roma: per l'agevolazione conta l'effettiva
utilizzazione degli immobili.
Il comune di Roma non può negare il diritto a fruire
dell'agevolazione Ici a un contribuente che utilizzi più
immobili, distintamente iscritti in catasto, come abitazione
principale. Il contemporaneo utilizzo di più unità catastali
non costituisce impedimento all'applicazione, per tutte,
dell'esenzione prevista per l'abitazione principale. Per
fruire dei benefici fiscali non conta il numero delle unità
catastali, ma l'effettiva utilizzazione degli immobili
complessivamente considerati come prima casa.
L'importante
principio è stato affermato dalla Commissione tributaria
provinciale di Roma, Sez. XXXVII, con la sentenza
17.07.2015 n. 16449.
Lo stesso problema si pone per l'Imu e
l'esenzione non dovrebbe essere disconosciuta qualora
l'interessato utilizzi più immobili, ancorché l'articolo 13
del dl Monti (201/2011) prevede che l'abitazione principale
sia limitata a un'unica unità immobiliare.
Per i giudici capitolini, «la ricorrente ha fornito prova
sufficiente di utilizzare tutto l'immobile (210 mq lordi)
come abitazione principale, così come risulta dalla
documentazione prodotta ed in particolare dalla
certificazione anagrafica. D'altro canto, il nucleo
familiare, composto di cinque membri di cui quattro adulti e
di collaboratrice domestica, appare avere un'esigenza
abitativa correlata correttamente all'estensione e
caratteristiche del cespite».
Secondo la commissione, «il
contemporaneo utilizzo di più unità catastali non
costituisce impedimento all'applicazione, per tutte,
dell'aliquota agevolata (ovvero esenzione) prevista per
l'abitazione principale, assumendo rilievo a tal fine non il
numero delle unità catastali», ma «l'effettiva utilizzazione
ad abitazione principale dell'immobile complessivamente
considerato». Nel caso in esame la questione dell'esenzione
Ici, che ha formato oggetto di contestazione da parte del
comune di Roma, riguardava l'anno d'imposta 2008.
L'esenzione Ici. Il contribuente, dunque, ha diritto
all'esenzione Ici se utilizza contemporaneamente diversi
fabbricati come abitazione principale, anche nel caso in cui
titolare degli immobili non sia un unico proprietario. In
questi termini si è espressa anche la Corte di Cassazione
con la
sentenza 19.05.2010 n. 12269.
Bisogna ricordare che
l'agevolazione per l'Ici non era più limitata solo a
aliquota agevolata e detrazione. Dal 2008 non erano più
tenuti al pagamento dell'Ici i titolari di immobili adibiti
ad abitazione principale, che era quella in cui i
contribuenti avevano la residenza anagrafica e destinavano a
dimora abituale. Erano, al solito, escluse dal beneficio
solo le unità immobiliari iscritte nelle categorie catastali
A1, A8 e A9 (immobili di lusso, ville e castelli). In base a
quanto disposto dall'articolo 1 del decreto-legge 93/2008,
l'esenzione si estendeva agli immobili assimilati dai comuni
alla prima casa e alle pertinenze.
Il beneficio si applicava
anche agli immobili parificati dalla legge all'abitazione
principale (appartenenti alle cooperative edilizie e
assegnati ai soci) e a quelli assimilati dai comuni. Il
dipartimento delle Finanze del Ministero dell'economia
(risoluzione
04.03.2009 n. 1/DF) aveva però precisato, modificando il
proprio orientamento manifestato con la
risoluzione
05.06.2008 n. 12/DF,
che l'agevolazione operasse solo nei casi di assimilazione
stabiliti da specifiche disposizioni di legge.
Quindi, si
poteva considerare adibita a prima casa l'unità immobiliare
posseduta a titolo di proprietà o di usufrutto da anziani o
disabili che acquisivano la residenza in istituti di
ricovero o cura, a condizione che non risultasse locata, e
quella concessa in uso gratuito a parenti in linea retta o
collaterale. Per il Ministero, però, era necessario che il
comune avesse espresso la volontà di effettuare
l'assimilazione entro la data fissata dalla legge (29.05.2008). In questi casi il comune aveva diritto al rimborso da
parte dello stato del minor gettito Ici.
Esenzione Imu. La nozione di prima casa per l'Imu è
leggermente diversa rispetto a quella stabilita per l'Ici
dall'articolo 8 del decreto legislativo 504/1992. In base a
quanto disposto dall'articolo 13 del dl 201/2011, per
abitazione principale si intende l'immobile, iscritto o
iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità
immobiliare, nel quale il possessore dimora abitualmente e
risiede anagraficamente.
Per pertinenze dell'abitazione
principale si intendono esclusivamente quelle classificate
nelle categorie catastali C/2, C/6 e C/7, nella misura
massima di un'unità pertinenziale per ciascuna delle
suddette categorie catastali, anche se iscritte in catasto
unitamente all'immobile adibito ad abitazione. In presenza
delle condizioni di legge questi immobili sono esenti,
tranne quelli iscritti nella categorie catastali A1, A8 e
A9, vale a dire immobili di lusso, ville e castelli, per i
quali il trattamento agevolato è limitato all'aliquota e
alla detrazione.
La legge, infatti, prevede per queste unità
immobiliari l'applicazione di una aliquota ridotta del 4 per
mille, che i Comuni possono aumentare o diminuire di 2 punti
percentuali, e una detrazione di 200 euro. Mentre l'aliquota
di base per tutti gli altri immobili, a partire dalle
seconde case, è fissata nella misura del 7,6 per mille, che
gli enti locali possono aumentare o diminuire di 3 punti
percentuali.
L'utilizzo di più immobili. Anche per l'Imu il contribuente
dovrebbe avere diritto al trattamento agevolato qualora
utilizzi contemporaneamente diversi fabbricati come
abitazione principale, visto che l'articolo 13 richiede che
si tratti di un'unica unità immobiliare iscritta o
«iscrivibile» come tale in catasto.
Si ritiene sufficiente che sussistano due requisiti: uno
soggettivo e l'altro oggettivo. Nello specifico, le diverse
unità immobiliari devono essere possedute da un unico
titolare e devono essere contigue. Del resto, la Cassazione
più volte ha affermato che ciò che conta è l'effettiva
utilizzazione come abitazione principale dell'immobile
complessivamente considerato, a prescindere dal numero delle
unità catastali.
---------------
Stesso solco tracciato dalla Cassazione.
Per la Corte di Cassazione (sentenza
25.10.2008 n. 25902;
sentenza 12.02.2010 n. 3397 e
sentenza 19.05.2010 n. 12269)
quello che conta è l'effettiva utilizzazione come abitazione
principale dell'immobile complessivamente considerato, a
prescindere dal numero delle unità catastali. Non importa,
peraltro, che gli immobili distintamente iscritti in catasto
siano di proprietà non di un solo coniuge ma di ciascuno dei
due in regime di separazione dei beni.
A patto che «il derivato complesso abitativo utilizzato non
trascenda la categoria catastale delle unità che lo
compongono». Secondo i giudici di legittimità, una
interpretazione contraria non sarebbe rispettosa della
finalità legislativa di ridurre il carico Ici sugli immobili
adibiti a «prima casa», confermata dalla previsione
dell'esenzione totale dal 2008.
Tuttavia, la tesi dei giudici di piazza Cavour si pone in
contrasto con quanto affermato dal dipartimento delle
Finanze del Ministero dell'economia (risoluzione 6/2002) sui
presupposti richiesti per usufruire dei benefici fiscali. Il
Ministero ha infatti precisato che due o più unità
immobiliari vanno singolarmente e separatamente soggette a
imposizione, «ciascuna per la propria rendita».
Dunque, solo
una può essere considerata ai fini Ici come abitazione
principale. Il contribuente, per usufruire dell'esenzione,
dovrebbe richiedere l'accatastamento unitario degli
immobili, per i quali è attribuita in catasto una distinta
rendita, presentando all'ente una denuncia di variazione.
Allo stesso modo si è espresso il Ministero dell'economia
con la
circolare 18.05.2012 n. 3/DF per circoscrivere l'esenzione Imu.
Dalla lettura della norma emergerebbe che l'abitazione
principale deve essere costituita da una sola unità
immobiliare iscritta o iscrivibile in catasto, a prescindere
dalla circostanza che, di fatto venga utilizzato più di un
fabbricato distintamente iscritto in catasto. In questo
caso, le singole unità immobiliari vanno assoggettate
separatamente a imposizione, ciascuna per la propria
rendita.
Il contribuente può scegliere quale destinare a prima casa;
«le altre, invece, vanno considerate come abitazioni
diverse da quella principale con l'applicazione
dell'aliquota deliberata dal comune per tali tipologie di
fabbricati»
(articolo ItaliaOggi Sette del 10.08.2015). |
TRIBUTI:
La
pubblicità sui silos compete al Comune del luogo del
cantiere. Affissioni. A chi spettano riscossione e
accertamento.
Competente per l’accertamento e la riscossione
dell’imposta sulla pubblicità per i marchi sulle macchine da
cantiere è il concessionario del Comune nel cui territorio
l’esposizione pubblicitaria è effettuata e non quello in cui
ha sede l’impresa.
A precisarlo è la
Ctp di Reggio Emilia, con la sentenza 17.07.2015 n.
330/03/2015 (presidente Montanari, relatore Gianferrari).
La vicenda nasce da un atto impositivo notificato dal
concessionario comunale dell’imposta sulla pubblicità a una
società costruttrice di macchine per l’edilizia. Alla
contribuente era contestato di non aver versato l’imposta
sulle scritte raffiguranti il marchio aziendale apposte sui
silos prodotti e utilizzati nei cantieri. Il concessionario
che emetteva l’atto era quello del Comune in cui erano
esposte le macchine.
La società proponeva ricorso in Ctp lamentando, in via
pregiudiziale, che la competenza per l’accertamento e la
riscossione dell’imposta su questi tipi di mezzi
pubblicitari spetterebbe al Comune in cui ha sede la società
produttrice dei silos e non a quello del territorio in cui
la pubblicità è effettuata. Inoltre, nel merito, affermava
che la scritta non eccedeva le misure minime che per legge
sono esentate dal pagamento dell’imposta.
Secondo l’articolo 3, comma 16-sexies, del Dl 16/2012 il Mef
provvede, con proprio decreto, a disciplinare l’applicazione
dell’imposta comunale sulla pubblicità di cui al Dlgs
507/73, al marchio apposto sulle gru mobili, su quelle a
torre adoperate nei cantieri edili e sulle macchine da
cantiere. È stato, dunque, emanato il Dm del 26.07.2012
che all’articolo 2 stabilisce i limiti dimensionali entro
cui l’imposta non è dovuta. Inoltre, la stessa disposizione
stabilisce al comma 2 che, qualora l’imposta sia dovuta,
allora sarà competente il Comune dove ha sede l’impresa
produttrice dei beni.
La Ctp, pur accogliendo il ricorso nel merito, ha ritenuto
infondata l’eccezione pregiudiziale. I giudici affermano
che, seppur il Dm del 2012 attribuirebbe la competenza al
Comune dove ha sede l’impresa, al contrario l’articolo 1 del
Dlgs 507/1993 stabilisce che la pubblicità esterna e le
pubbliche affissioni sono soggette a un’imposta a favore del
Comune nel cui territorio sono effettuate. In caso di
contrasto tra regolamento e legge, il primo -ritenuto
illegittimo- va disapplicato a favore della seconda.
A questo proposito, l’articolo 7, comma 5, del Dlgs 546/1992
dispone che le commissioni tributarie, se ritengono
illegittimo un regolamento o un atto generale rilevante ai
fini della decisione, non lo applicano in relazione
all’oggetto dedotto in giudizio. I giudici, dunque, hanno
ritenuto di non applicare il disposto del Dm, ritenendo
prevalente il dettato normativo che privilegia la competenza
del Comune dove viene effettuata la pubblicità.
Pur respingendo l’eccezione preliminare della ricorrente,
tuttavia, il ricorso è stato accolto nel merito poiché la
superficie del silos contenente il marchio societario
risultava inferiore rispetto alla minima imponibile (articolo Il Sole 24 Ore del
03.08.2015). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
I legali sono sospesi per suggerimenti illegali.
Nel caso in cui un avvocato suggerisce al cliente di
aggirare il problema dell'avvenuta prescrizione
documentandone falsamente l'interruzione, sarà legittima la
sanzione disciplinare della sospensione dall'esercizio della
professione.
Lo hanno stabilito i giudici delle Sezz. Unite civili della Corte
di Cassazione con la
sentenza 16.07.2015 n. 14905.
I giudici di Piazza Cavour sono stati chiamati ad
esprimersi su un caso in cui un Consiglio dell'Ordine degli
Avvocati aveva inflitto ad un avvocato la sanzione
disciplinare di due mesi di sospensione dall'esercizio
dell'attività professionale per aver proposto al proprio
assistito, al fine di rimediare all'intervenuta prescrizione
del diritto al risarcimento del danno, di utilizzare una
falsa documentazione così da attestare falsamente di avere
interrotto il termine di prescrizione.
Il ricorso avverso la suddetta decisione veniva, poi,
respinto dal Consiglio nazionale forense.
Secondo l'avvocato ci sarebbe, inoltre, stato l'omesso esame
delle circostanze indicate a sostegno dell'illegittimità
della sanzione comminata –che non avrebbe considerato l'incensuratezza
dell'avvocato, la sufficienza della sanzione formale e il
fatto che le sanzioni interdittive sono riservate agli
avvocati che commettono illeciti penalmente rilevanti– e la
mancata motivazione in ordine all'equità di quest'ultima.
Il professionista legale, inoltre, sosteneva che, in virtù
del terzo comma dell'art. 56 della legge n. 247 del 2012
(Nuova disciplina dell'Ordinamento della professione
forense) l'azione disciplinare in questione sarebbe
prescritta, essendo trascorsi sette anni e mezzo dalla
commissione del fatto.
Infatti, il legale riteneva che la nuova disciplina, in
quanto più favorevole all'incolpato, sia applicabile anche
ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore
della suddetta nuova disciplina e poneva la questione di
legittimità costituzionale dell'art. 65, comma 5, della
legge n. 247 del 2012 nella parte in cui non prevede
l'applicabilità di tutte le norme deontologiche (e non solo
quelle contenute nel codice deontologico) ai procedimenti in
corso (articolo ItaliaOggi Sette del 10.08.2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
Parcheggi
selvaggi, ok ai dissuasori senza permesso.
Sanzione pecuniaria.
Non serve il permesso di costruire ma basta la Scia per
impiantare nell'area privata aperta al pubblico passaggio i
paletti che impediscono il parcheggio selvaggio delle auto:
i dissuasori, infatti, non costituiscono una nuova
costruzione o una trasformazione edilizia e se manca la
segnalazione di inizio attività risulta sufficiente la
sanzione pecuniaria senza l'obbligo di demolizione.
Lo chiarisce il Consiglio di Stato, Sez. VI, con la
sentenza 16.07.2015 n. 3554.
Strutture escluse. Accolto il ricorso del proprietario
dell'area: palazzo Spada annulla tutti gli atti contrari del
comune. Le catenelle che univano i pali conficcati al
terreno sono scomparse e ora l'area del privato è
accessibile a tutti, pedoni in primis, tranne che alle auto.
E i dissuasori risultano facilmente rimovibili.
In base al
Testo unico dell'edilizia risultano assoggettati a semplice
Scia tanto gli interventi di manutenzione straordinaria che
quelli di restauro e di risanamento conservativo e quindi,
in via di esempio, «le opere e le modifiche necessarie per
rinnovare e sostituire parti anche strutturali degli
edifici», o «un insieme sistematico di opere» che attuino
sostanziali trasformazioni di fabbricati, oltre che «il
rinnovo degli elementi costitutivi, l'inserimento degli
elementi accessori e degli impianti richiesti dalle esigenze
dell'uso».
I paletti, in particolare, rientrano
nell'inserimento di elementi accessori. Nella specie manca
anche la Scia del privato ma la sanzione non poteva essere demolitoria
bensì soltanto economica
(articolo ItaliaOggi del 05.08.2015).
--------------
MASSIMA
1. Con la
sentenza in forma semplificata n. 10081 del 2013 il
Tribunale amministrativo regionale del Lazio –sezione I-quater, ha respinto il ricorso proposto dalla signora A.C. contro la determinazione dirigenziale di Roma
Capitale n. 1594 del 12.09.2013 con la quale, visti
il d.P.R. n. 380/2001 e l’art. 16 della l.reg. n. 15/2008,
è stato ingiunto alla interessata la “rimozione o demolizione”,
entro 30 giorni, dell’intervento edilizio ritenuto abusivo,
in quanto eseguito in assenza di titolo abilitativo, “di
ristrutturazione edilizia e/o cambio di destinazione d’uso da
una categoria all’altra”, consistente nella realizzazione,
nell’area di proprietà della ricorrente, in Via di ..., n. 237 –piano stradale, “di n. 19 paletti in
ferro con altezza di m. 1 circa uniti tra loro da catena in
ferro e ancorati a terra tramite calcestruzzo e bulloni”.
Questa la motivazione della sentenza: “la realizzazione di
tali opere, benché finalizzata a preservare l’area in
questione dall’accesso di auto e motoveicoli, consistenti
nel posizionamento a terra di paletti in ferro di altezza
pari ad un metro, fissati con calcestruzzo, doveva
necessariamente comportare la preventiva acquisizione di
apposito titolo abilitativo, nel caso di specie non
rinvenibile… la segnalazione certificata di inizio attività
risulta essere stata presentata all’Amministrazione comunale
in data 14.11.2013, ossia in data successiva alla
realizzazione delle opere e del termine di adozione del
provvedimento impugnato… il ricorso (va) respinto, tenuto
conto della natura abusiva delle opere edilizie realizzate”.
La ricorrente è stata condannata alle spese.
2. Con la sentenza in forma semplificata n. 4982 del 2014 la
Sez. I-quater del Tar del Lazio ha respinto un altro
ricorso della signora C., proposto avverso e per
l’annullamento del provvedimento di Roma Capitale –Municipio
XIV –prot. n. 105503 del 05.12.2013 con cui il
dirigente dell’Unità Organizzativa Tecnica, con riferimento
alla segnalazione certificata di inizio attività (SCIA)
presentata dalla C. il 14.11.2013 con prot. n.
98367, relativa all’accertamento di conformità, ex art. 37,
comma 5, del d.P.R. n. 380/2001 e art. 22 della l.reg. n.
22/2008, riguardante i lavori eseguiti nell’immobile sito in
via ..., angolo via di ..., consistenti
nelle “opere eseguite ad aprile 2013 –delimitazione dell’area
di mia proprietà mediante l’installazione di paletti di
ferro alti circa 1 m. distanziati tra loro in modo da
consentire il facile accesso pedonale ai negoziprospicienti
la proprietà”, ha affermato che “l’istanza riguarda
interventi non contemplati nel T.U. per l’edilizia -D.P.R.
380/2001 e pertanto non rientranti tra quelli soggetti a
segnalazione certificata di inizio attività (e che la SCIA)
è da intendersi priva di efficacia ed i lavori
eseguiti…dovranno quindi essere considerati come realizzati
in assenza di titolo abilitativo”.
Al riguardo la seconda decisione, riepilogata la
controversia definita in primo grado con la sentenza n.
10081/2013, e rammentato che con l’atto del 05.12.2013
l’Amministrazione, “nel pronunciarsi in ordine
all’accertamento di conformità presentato ai sensi
dell’articolo 37, comma 5, del d.p.r. 380 del 2001 e
dell’articolo 22 della legge regionale 15 del 2008, ha
ritenuto la segnalazione certificata di inizio attività
priva di efficacia ed i lavori eseguiti in assenza di titolo
abilitativo”, ha respinto la censura dedotta –e così
sintetizzata: l’atto gravato “sarebbe errato nella parte in
cui considera il contenuto dell’istanza presentata dalla
ricorrente quale segnalazione certificata di inizio attività
anziché quale domanda di accertamento di conformità
riguardante, peraltro, opere di delimitazione della
proprietà rientranti tra quelle di “finitura di spazi
esterni” di cui all’articolo 6, comma 2, lettera c), del
d.p.r. 380 del 2001, ossia tra le attività di edilizia
libera”- rigettando, per l’effetto, il ricorso, sul rilievo
che “la realizzazione delle opere in questione risulta
essere stata eseguita, come peraltro l’adozione dell’ordine
di demolizione, adottato in data 12.09.2013, antecedentemente
alla presentazione dell’istanza presentata dalla ricorrente
in data 14.11.2013 la quale, ove si dovesse intendere quale
domanda accertamento di conformità ex art. 36 del d.p.r. n.
380/2001, sarebbe stata in ogni caso da intendersi
insuscettibile di positiva definizione per intervenuto
decorso del termine di sessanta giorni decorrenti dalla
ricezione di tale istanza”.
Anche in questo giudizio la ricorrente è stata condannata al
pagamento delle spese.
...
8.2. Ciò premesso, la principale questione da risolvere,
come prospettata dall’appellante, consiste nello stabilire
se l’intervento edilizio in questione sia assoggettabile a
titolo abilitativo, o meno, e in caso di risposta
affermativa quale esso possa essere e quali siano le
conseguenze derivanti dall’assenza del titolo medesimo.
8.2.1. In primo luogo, diversamente da quanto sostiene
l’appellante, è da ritenere che l’intervento eseguito non
rientri tra le “finiture di spazi esterni”, né costituisca
“elemento di arredo di area pertinenziale di edificio”, di
cui alle lettere c) e d) del comma 2 dell’art. 6 del d.P.R.
n. 380 del 2001.
L’intervento effettuato non ricade cioè tra le attività
libere (indicate tra l’altro in modo tassativo all’art. 6
del t.u. n. 380 del 2001, in deroga al generale obbligo di
munirsi di un titolo abilitativo per eseguire interventi
edilizi, ciò di cui occorre tenere conto per una corretta
lettura e interpretazione dello stesso art. 6), avendo
riguardo da un lato alle tipologie delle fattispecie
liberalizzate e, dall’altro, all’entità dell’opera posta in
essere, che non corrisponde alla descrizione delle attività
di cui alle lettere c) e d) del citato art. 6.
8.2.2.
D’altra parte il Collegio, a differenza di quanto
sembra essere stato considerato dal Tar, e da questa Sezione
nella fase cautelare,
ritiene che nel caso qui in esame non
venga in discussione un’ipotesi di trasformazione edilizio–urbanistica, o di alterazione permanente dell’assetto del
territorio, o di nuova costruzione, tale da esigere il
previo rilascio del permesso di costruire ai sensi e per gli
effetti di cui all’art. 10 del d.P.R. n. 380 del 2001,
rientrandosi invece nel campo di applicazione dell’art. 22
del t. u. n. 380/2001, in tema di SCIA.
Al riguardo, è bene rammentare che
sulla questione,
intuitivamente affine, dell’assoggettamento, o meno, delle
recinzioni, a permesso di costruire, la giurisprudenza
amministrativa, specialmente dei Tar, afferma che la
valutazione sulla necessità, o meno, del permesso di
costruire, va compiuta in base ai parametri della natura e
delle dimensioni delle opere, e della loro destinazione e
funzione
(si vedano, tra le altre, Tar Campania, n.
3328/2013 e n. 1542/2012, Tar Lombardia, n. 6266/2009, Tar
Lazio, n. 8644/2009, Tar Veneto, n. 1215/2011, Tar Calabria,
n. 1299/2014, Tar Lombardia–Brescia, n. 118/2013 e altre),
sicché quando, ad esempio, vengono eseguite opere in
muratura e la recinzione non è facilmente rimuovibile,
l’intervento, essendo idoneo a incidere in modo permanente
sull’assetto edilizio del territorio, esige il previo
rilascio del permesso di costruire.
Ciò posto,
l’intervento in argomento, alla luce delle
caratteristiche e delle dimensioni dello stesso
(su cui si
vedano le foto prodotte in giudizio sia da Roma Capitale,
sia dall’appellante),
ricade nel campo di applicazione –non
dell’art. 10 ma- dell’art. 22 del t.u. n. 380/2001.
L'intervento in questione rientra cioè tra quelli
realizzabili con il regime semplificato della d.i.a., la cui
mancanza non è sanzionabile con la rimozione o la
demolizione, previste dall'art. 31 del d.P.R. n. 380/2001
per l'esecuzione di interventi in assenza del permesso di
costruire, o in totale difformità del medesimo ovvero con
variazioni essenziali, ma con l'applicazione della mera
sanzione pecuniaria prevista dal successivo art. 37 per
l'esecuzione di interventi in assenza della prescritta
denuncia di inizio di attività.
In primo luogo,
non è stata eseguita nessuna opera muraria
significativa. I paletti apposti, uniti al suolo mediante un
basamento di calcestruzzo assai sottile, sono avvitati con
bulloni e risultano distanziati tra loro in modo tale da
consentire un facile accesso pedonale ai negozi prospicienti
la proprietà. La prevista apposizione di una catenella tra
alcuni paletti, ossia tra i soli paletti ove non c’era
corrispondenza con ingressi ad abitazioni o a negozi,
risulta eliminata, in base a quanto affermato
dall’appellante e non specificamente contestato dal Comune
(si veda l’allegato fotografico fasc. Caffari citato sopra
al p. 8.1.).
Viene in rilievo, nel complesso, un’opera
finalizzata a delimitare la proprietà della ricorrente (non
si tratta neppure di una recinzione, essendo l’area “tuttora
liberamente accessibile a tutti, salvo che alle
autovetture”, come rileva l’appellante), rimovibile in
maniera tutt’altro che disagevole e, come tale, inidonea a
incidere sull’assetto edilizio del territorio.
Al riguardo,
risulta persuasiva la tesi di parte appellante,
secondo la quale dal disposto degli articoli 3 e 10 del t.u. n. 380 del 2001 risultano assoggettati a semplice SCIA
tanto gli interventi di manutenzione straordinaria che
quelli di restauro e di risanamento conservativo e quindi,
in via di esempio, "le opere e le modifiche necessarie per
rinnovare e sostituire parti anche strutturali degli
edifici", o "un insieme sistematico di opere" che attuino
sostanziali trasformazioni di fabbricati, nonché “il rinnovo
degli elementi costitutivi, l'inserimento degli elementi
accessori e degli impianti richiesti dalle esigenze
dell'uso" (cfr. art. 3, comma 1, lett. c) del d.P.R. n.
380/2001).
Poiché dunque la realizzazione dei paletti per cui è causa
doveva farsi rientrare nella fattispecie dell’inserimento di
elementi accessori di cui all’art. 3, comma 1, lett. c), del
t.u. n. 380 del 2001, ne consegue che l’intervento eseguito
in assenza di titolo ex art. 22 –su area a quanto consta
“non soggetta a particolari vincoli”
come afferma parte
appellante senza alcuna specifica contestazione a questo
riguardo da parte del Comune-
avrebbe dovuto essere
assoggettato non alla sanzione demolitoria di cui all’art.
31 del t.u. ma, come puntualmente segnalato dalla signora C.,
alla sanzione pecuniaria di cui all’art. 37
(si
veda anche l’art. 19 della l.reg. n. 15/2008).
Dalle considerazioni su esposte discende l’accoglimento non
solo dell’appello n. RG 4581/2014, con il conseguente
accoglimento del ricorso di primo grado n. 10074/2013 e
l’annullamento dell’impugnata ingiunzione di demolizione del
12.09.2013, salvi gli atti ulteriori della P. A., ma
anche l’accoglimento del ricorso in appello n. RG 4582/2014,
con l’accoglimento consequenziale del ricorso di primo grado
n. 1689/2014 dato che erra l’Amministrazione, con l’atto del
05.12.2013, nel rilevare che l’istanza del 14.11.2013 riguarda interventi non rientranti tra quelli soggetti
a SCIA.
8.3. Sempre con riferimento al giudizio n. 4582/2014,
l’appellante coglie nel segno (anche) laddove critica la
sentenza nel punto in cui essa afferma che, ove si volesse
qualificare l’istanza del 14.11.2013 come domanda di
accertamento in conformità ex art. 36 del d.P.R. n.
380/2001, la stessa “sarebbe stata in ogni caso da
intendersi insuscettibile di positiva definizione per
intervenuto decorso del termine di sessanta giorni
decorrenti dalla ricezione di tale istanza”.
Fermo restando che la realizzazione dei paletti non richiede
il preventivo rilascio del permesso di costruire, in modo
condivisibile parte appellante rileva che:
- l’art. 36 del t.u. n. 380/2001 dispone che la domanda di
accertamento di conformità può essere presentata fino alla
scadenza del termine di cui all’art. 31, comma 3;
- l’art. 31, comma 3, stabilisce che il responsabile
dell’abuso deve provvedere al ripristino dello stato dei
luoghi “nel termine di novanta giorni dall’ingiunzione”;
- il termine per presentare utilmente la domanda di
accertamento di conformità è di novanta giorni e non già di
sessanta giorni;
- l’ingiunzione di demolizione è stata adottata il 12.09.2013, mentre l’istanza è stata presentata dalla
signora C. il 14.11.2013, vale a dire il
sessantatreesimo giorno successivo, sicché non risulta
corretta l’affermazione svolta in sentenza sulla
insuscettibilità di una positiva definizione della domanda
di accertamento di conformità.
In conclusione, gli appelli riuniti devono essere accolti e,
per l’effetto, in riforma delle sentenze impugnate, i
ricorsi di primo grado vanno accolti e gli atti impugnati
annullati, salvi gli ulteriori provvedimenti che l’autorità
amministrativa adotterà tenendo conto di quanto statuito
nella presente sentenza
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 16.07.2015 n. 3554 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Ambulanti
esclusi dall'albo.
Rifiuti sicuri.
Per l'attività di raccolta e trasporto di rifiuti non
pericolosi effettuata in forma ambulante da chi possiede un
relativo titolo abilitativo non è richiesta l'iscrizione
all'albo dei gestori dei rifiuti. Sempre che il soggetto sia
abilitato all'esercizio in forma ambulante e che si tratti
di rifiuti che formano oggetto del suo commercio. Tale
titolo abilitativo non consente la raccolta e il trasporto
di rifiuti pericolosi.
Questo è quanto si legge nella
sentenza 15.07.2015 n. 30466 della Corte di
Cassazione, Sez. III penale.
Nell'ambito della normativa sui rifiuti, non è prevista
alcuna disposizione sul commercio ambulante dei rottami
ferrosi, per cui deve necessariamente farsi riferimento ai
titoli abilitativi disciplinati da altre leggi speciali.
La materia del commercio ambulante impone agli ambulanti di
munirsi di un'autorizzazione comunale. La procedura di
iscrizione ordinaria nell'albo gestori ambientali riguarda i
soggetti di cui all'articolo 212, comma 5, del dlgs n.
152/2006
(articolo ItaliaOggi del 04.08.2015).
---------------
MASSIMA
3. In particolare, quanto al motivo sub b., va rilevato
che, con motivazione logica e congrua, la Corte
territoriale, facendo buon governo della giurisprudenza di
questa Corte di legittimità secondo cui
l'attività di raccolta e trasporto di rifiuti non pericolosi
effettuata in forma ambulante da chi possiede un relativo
titolo abilitativo non richiede l'iscrizione all'albo dei
gestori dei rifiuti sempre che il soggetto sia abilitato
all'esercizio in forma ambulante e che si tratti di rifiuti
che formano oggetto del suo commercio,
dà atto che, tuttavia, non risulta che l'imputato avesse un
titolo abilitativo per l'esercizio del commercio ambulante
di rifiuti ferrosi, essendo stato semplicemente prodotto il
certificato di iscrizione alla Camera di Commercio di
Palermo per tale categoria nonché l'istanza avanzata al
Comune di Santa Margherita Belice per ottenere il nullaosta
per operare sul territorio comunale dell'ente. |
PUBBLICO IMPIEGO:
Sugli
incarichi giudizi ordinari.
Una sentenza del Tar per la Calabria.
La controversia riguardante atti privatistici del datore di
lavoro pubblico, quale il conferimento di un incarico
dirigenziale, rientra nella giurisdizione del giudice
ordinario.
È quanto hanno ribadito i giudici della seconda sezione del
TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, con la
sentenza
15.07.2015 n. 1242.
I giudici amministrativi calabresi hanno altresì osservato,
richiamando anche quanto sostenuto dai giudici del consiglio
di stato (si veda: cons. di stato, sez. V, 14.05.2013 n.
2607), che quanto sopra detto vale a meno che quanto
contestato non vada ad investire direttamente il corretto
esercizio del potere amministrativo, attraverso la deduzione
della non conformità a legge degli atti organizzativi,
mediante i quali le pubbliche amministrazioni determinano le
linee fondamentali di organizzazione degli uffici e i modi
di conferimento della titolarità degli stessi.
Infatti, gli atti amministrativi attraverso i quali vengono
organizzati gli uffici è opportuno che sia ispirati
(rendendoli conoscibili) a principi di non manifesta
illogicità o incongruità dell'assetto in concreto prescelto,
con la precisazione che, in relazione a tali principi, va
commisurato il quantum di motivazione esigibile.
Il caso sottoposto all'attenzione dei giudici amministrativi
di Catanzaro aveva a oggetto l'impugnazione, per difetto di
motivazione, della riorganizzazione della struttura
amministrativa e della dotazione organica della provincia,
approvata con disposizione presidenziale, e dei conseguenti
avvisi pubblici e decreti presidenziali aventi ad oggetto la
nomina dei dirigenti di settori.
Pertanto la lite proposta rientrava nella giurisdizione del
giudice adito, nella misura in cui l'illegittimità degli
atti di natura privatistica (avvisi e nomine) viene dedotta
come effetto derivante dall'invalidità della presupposta
delibera di riorganizzazione degli uffici (articolo ItaliaOggi Sette del
03.08.2015).
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MASSIMA
La parte ricorrente (ndr: Unione Italia del Lavoro -
Uil) impugna, per difetto di motivazione, la
riorganizzazione della struttura amministrativa e della
dotazione organica della Provincia di Cosenza, approvata con
disposizione presidenziale n. 3/2014. Impugna, altresì, i
conseguenti avvisi pubblici e decreti presidenziali aventi
ad oggetto la nomina dei dirigenti di settori.
In proposito, occorre precisare che la
controversia riguardante atti privatistici del datore di
lavoro pubblico, quale il conferimento di un incarico
dirigenziale, rientra nella giurisdizione del giudice
ordinario, a meno che la contestazione non investa
direttamente il corretto esercizio del potere
amministrativo, mediante la deduzione della non conformità a
legge degli atti organizzativi, attraverso i quali le
amministrazioni pubbliche definiscono le linee fondamentali
di organizzazione degli uffici ed i modi di conferimento
della titolarità degli stessi
(cfr. Cons. Stato, Sez. V, 14.05.2013 n. 2607).
Infatti, gli atti amministrativi attraverso
i quali vengono organizzati gli uffici devono ispirarsi
(rendendoli conoscibili) a principi di non manifesta
illogicità od incongruità dell’assetto in concreto
prescelto, con l’avvertenza che, in relazione a tali
principi, va commisurato il quantum di motivazione esigibile
(cfr. Cons. Stato, Sez. V, 14.05.2013 n. 2607).
La lite proposta rientra, quindi, nella
giurisdizione del giudice adito, nella misura in cui
l’illegittimità degli atti di natura privatistica (avvisi e
nomine) viene dedotta come effetto derivante dall’invalidità
della presupposta delibera di riorganizzazione degli uffici.
Con ordinanza 09.04.2015 n. 138, il Tribunale accoglieva la
domanda cautelare, ai limitati fini del riesame, rilevando,
in particolare, che l’amministrazione pubblica, pur godendo
di ampia discrezionalità nell’organizzazione dei propri
uffici, deve supportare le scelte adottate con un’idonea
motivazione e sulla scorta di una previa puntuale
istruttoria (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 22.09.2005 n. 4957 e
12.06.2009 n. 3728).
E’ stata dunque ritenuta non accoglibile la tesi sostenuta
dall’ente intimato, secondo cui, dalla natura generale
dell’atto di revisione della struttura organizzativa e
dotazione organica, discende “la mancanza, in ogni caso,
di qualsivoglia obbligo di motivazione”.
V’è da dire che, a seguito dell’ordinanza, l’amministrazione
si è rideterminata, colmando le lacune motivazionali dianzi
rappresentate.
Il nuovo provvedimento, depositato agli atti di causa il
22.05.2015, non è stato sottoposto ad alcun tipo di
doglianza ad opera della parte istante, sicché può essere
ritenuta la sopravvenuta carenza d’interesse. |
ENTI
LOCALI - VARI:
Poste,
l’economicità non basta alla chiusura. Tar Friuli-Venezia
Giulia. Prevale l’interesse pubblico.
I Comuni battono nuovamente Poste italiane. La lunga e
complessa contesa che i sindaci dei piccoli centri hanno
intrapreso contro il Piano industriale che dovrà condurre
alla chiusura di numerosi sportelli si tinge di un ulteriore
episodio, favorevole anche questa volta ai primi cittadini.
Il Tar
Friuli-Venezia Giulia, con la
sentenza
15.07.2015 n. 332, ha accolto il ricorso proposto dal
comune di Buja (Ud), annullando i provvedimenti con i quali
Poste italiane spa aveva chiuso gli uffici postali ubicati
in due frazioni.
Secondo i giudici friulani, l’esigenza di risparmiare va
tenuta in debito conto, ma non può prevalere sull’interesse
pubblico allo svolgimento corretto del servizio universale e
va rapportata alla situazione geografica e orografica dei
singoli territori. Né possono essere eluse le eventuali
proposte alternative presentate dai Comuni, che possono
essere bypassate solo con una congrua motivazione.
Il Comune contestava, fra l’altro, il fatto che con la
chiusura dei due uffici un’intera parte del territorio
comunale si trovasse sprovvista di presìdi, con grande
penalizzazione per i cittadini. Né Poste aveva previsto un
potenziamento dell’unico ufficio rimasto nel capoluogo.
Nel merito, i giudici hanno ritenuto fondate le ragioni del
Comune in quanto l’aspetto economico, cioè l’esigenza per
Poste di risparmiare tramite la riduzione degli uffici
postali, va certo tenuto in debito conto, «tuttavia non può
essere considerato né esclusivo né prevalente sull’interesse
pubblico allo svolgimento corretto di un servizio universale
come va considerato il servizio postale».
Ancora più chiaramente, sostengono i giudici che il dato
economico ma anche le distanze minime tra uffici indicate
dal Dm 07.10.2008 «non possono essere considerati né come
assoluti né come di automatica applicazione, ma vanno
rapportati alla situazione geografica e orografica di alcune
zone, onde raggiungere un equilibrio e un bilanciamento tra
gli interessi degli utenti e quelli dell’azienda» (articolo Il Sole 24 Ore del
04.08.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
CONDOMINIO:
Ascensori, spese pagate da tutti. Gli atti conservativi
spettano all'intero condominio.
Una pronuncia della Cassazione: l'impianto si
presume sia bene di proprietà comune.
L'ascensore condominiale si presume bene di proprietà
comune, salvo diversa ed espressa previsione contenuta in un
regolamento di natura contrattuale o in una delibera
assembleare assunta all'unanimità dei partecipanti al
condominio. A eccezione di questo caso, le spese di
conservazione dell'impianto restano quindi a carico
dell'intera collettività condominiale, anche dei proprietari
delle unità immobiliari site al piano terreno. Va da sé che
tutti i condomini proprietari del bene debbano quindi essere
messi in condizione di partecipare all'assemblea convocata
per la deliberazione dei predetti interventi, in modo da
poter esprimere in maniera libera e informata il proprio
voto.
Lo ha chiarito la II Sez. civile della Corte di Cassazione
nella recente
sentenza 14.07.2015 n. 14697.
Il caso concreto.
Nella specie un condomino aveva impugnato la delibera
condominiale con la quale era stata approvata l'esecuzione
di alcuni interventi sull'ascensore, poiché la stessa era
stata adottata con la partecipazione dei soli proprietari
degli appartamenti situati dal primo all'ultimo piano
dell'edificio, con esclusione dei condomini proprietari del
piano ammezzato e dei negozi siti nello stabile.
Il
condominio si era quindi costituito in giudizio e aveva
chiesto l'integrale rigetto delle doglianze avversarie,
evidenziando tra l'altro come l'ascensore fosse sempre stato
al servizio dei soli appartamenti situati sopra il piano
ammezzato e come, quindi, detto impianto dovesse
considerarsi di proprietà dei soli condomini titolari delle
predette unità immobiliari. Il tribunale di Genova,
ritenendo l'impugnazione del tutto infondata, aveva quindi
respinto la domanda.
Ne era conseguito l'appello della sentenza presso la
competente corte territoriale. Quest'ultima, tuttavia,
ribaltando l'inquadramento dei fatti di causa, aveva
ritenuto che gli interventi realizzati a favore
dell'ascensore non avessero riguardato la semplice
manutenzione dell'impianto, ma fossero stati finalizzati
alla conservazione del bene comune. Secondo i giudici di
merito, mentre nel primo caso sarebbe apparso giustificabile
l'intervento in assemblea dei soli condomini proprietari
degli appartamenti siti ai piani superiori a quello
ammezzato, nella seconda ipotesi la decisione di operare
sull'impianto avrebbe invece dovuto essere condivisa tra
tutti i comproprietari. Di qui l'accoglimento dell'appello e
l'annullamento della delibera impugnata.
Questa decisione era quindi stata impugnata dinanzi alla
Suprema corte. Si evidenziava, infatti, come i giudici di
secondo grado fossero caduti in contraddizione laddove, pur
ritenendo che l'impianto fosse di proprietà esclusiva di
alcuni condomini, aveva ripartito le relative spese tra
tutti i comproprietari, ivi inclusi i proprietari degli
appartamenti siti al piano ammezzato e dei negozi. I
ricorrenti avevano quindi eccepito la violazione e la falsa
applicazione del disposto degli artt. 1104, 1105, 1117 e
1124 c.c., ritenendo che, qualora un bene non fosse di
proprietà comune, la relativa gestione sarebbe dovuta
spettare ai soli condomini proprietari e che le conseguenti
spese avrebbero dovuto essere ripartite soltanto tra i
condomini che ne traevano effettivo godimento.
La decisione della Suprema corte e la questione del riparto
delle spese relative all'ascensore. La Cassazione ha
tuttavia respinto il ricorso avverso la sentenza del giudice
di appello e ha provveduto a chiarire alcuni importanti
aspetti in merito alla differenza tra proprietà e utilizzo
dei beni e dei servizi condominiali.
In primo luogo i giudici di legittimità hanno chiarito come
in base all'art. 1117 c.c. si presumano di natura
condominiale (e quindi comuni a tutti i condomini) i beni e
i servizi destinati all'uso comune (tra i quali viene
espressamente menzionato l'ascensore). Questo vuol dire che,
salvo diversa convenzione tra tutti i condomini (per esempio
anche per mezzo di un regolamento condominiale di natura
contrattuale o di una delibera assunta all'unanimità dei
partecipanti al condominio) con la quale si esonerino uno o
più tra essi dalla compartecipazione a tutte le spese di
gestione di un bene (comprese quelle di tipo conservativo),
gli stessi si considerano tutti comproprietari del medesimo.
In ragione di quanto sopra, nel caso di specie la Suprema
corte ha evidenziato come per l'approvazione degli
interventi (e delle relative spese) da effettuare in favore
dei beni e degli impianti comuni sia assolutamente
necessario, a pena di invalidità della delibera
condominiale, che l'amministratore convochi per la relativa
assemblea tutti i condomini comproprietari, perché a ognuno
di essi sia data la possibilità di esprimere la propria
opinione (e il proprio voto), salvo appunto che dal
regolamento condominiale di natura contrattuale o da altra
diversa convenzione stipulata tra tutti i condomini emerga
in modo chiaro ed evidente che gli stessi siano di proprietà
esclusiva di una parte soltanto dei condomini.
Più complesso è invece il discorso relativo alla
partecipazione alle spese relative agli interventi di
manutenzione dell'ascensore dei condomini proprietari delle
unità immobiliari site al piano terreno dell'edificio,
questione lasciata sul tappeto dalla legge n. 220/2012 e che
la Suprema corte ha in questa sede affrontato soltanto in
modo indiretto. Secondo una parte della giurisprudenza di
merito, nella quale sembra potersi annoverare anche la
sentenza della Corte di appello di Genova impugnata nella
specie dinanzi alla Cassazione, detti condomini non
dovrebbero infatti partecipare alle spese di esercizio e
manutenzione dell'impianto, ma soltanto a quelle relative
alla sua conservazione.
L'art. 1123, comma 1, c.c., stabilisce in via generale che
tutti i condomini devono contribuire nelle spese di gestione
dei beni comuni a prescindere dall'effettivo utilizzo di
essi. Infatti, a condizione che sussista l'oggettiva
possibilità di farne uso, ogni comproprietario è tenuto a
sostenere le spese relative al bene o all'impianto comune,
anche se nella realtà non se ne serva affatto o se ne serva
in misura inferiore rispetto agli altri.
Detto principio è
però temperato dalle disposizioni di cui al comma 2 (in base
al quale, ove si tratti di beni destinati a servire i
condomini in misura diversa, le relative spese vanno
ripartite in base all'uso che ciascun comproprietario può
farne) e al comma 3 del medesimo articolo (in base al quale
qualora un edificio abbia beni o impianti destinati a
servire soltanto una parte dell'intero fabbricato, le spese
di manutenzione sono a carico del gruppo di condomini che ne
trae utilità).
Nel caso dell'ascensore, inoltre, il nuovo
art. 1124 c.c. prevede in modo specifico, analogamente a
quanto avviene per le scale, che l'impianto di ascensore
deve essere mantenuto dai proprietari delle unità
immobiliari a cui serve e che le spese di manutenzione
devono essere sostenute dai predetti condomini per metà in
ragione del valore delle singole unità immobiliari e per
metà in misura proporzionale all'altezza di ciascun piano
dal suolo.
Al contrario, invece, secondo detto orientamento
giurisprudenziale, le spese di conservazione, che, essendo
pertinenti all'esistenza stessa dell'impianto nell'edificio,
il quale ne viene quindi in certo qual modo arricchito,
andrebbero suddivise tra tutti i condomini, anche tra quelli
proprietari delle unità abitative poste al piano terreno
(appartamenti, negozi, box ecc.), sulla base dei rispettivi
millesimi di proprietà.
Nella decisione in questione la seconda sezione civile della
Cassazione sembra quindi aver fatto proprio detto criterio
di riparto, basato sulla distinzione fra spese di
manutenzione e spese di conservazione. Più che altro nel
caso di specie i giudici di legittimità hanno però inteso
chiarire come la questione del criterio di riparto delle
spese dell'ascensore non incida di per sé sulla questione
della proprietà dell'impianto.
In altri termini, il fatto che il menzionato art. 1124 c.c.
diversifichi la ripartizione delle spese di manutenzione tra
i vari condomini non comporta di per sé la conseguenza che
l'impianto di ascensore debba essere considerato di
proprietà dei soli condomini chiamati a partecipare a tali
spese. L'impianto, infatti, salvo che venga provata in
giudizio la proprietà esclusiva in capo ad alcuni soltanto
dei condomini, si presume di proprietà comune a tutti i
partecipanti al condominio.
Deve quindi ritenersi legittima non solo la convenzione con
la quale tutti i condomini ripartiscano tra di loro in
misura diversa le spese relative alla manutenzione
dell'ascensore ma anche quella con cui i medesimi esonerino
totalmente da detto onere alcuni dei comproprietari, anche
in relazione alle spese relative alla conservazione stessa
dell'impianto.
Tuttavia soltanto in quest'ultimo caso, come evidenziato dai
giudici di appello e confermato dalla Suprema corte, si ha
il superamento della presunzione di comproprietà
dell'impianto e si può correttamente affermare che detto
bene sia di proprietà soltanto di alcuni dei partecipanti
alla compagine condominiale
(articolo ItaliaOggi Sette del
03.08.2015). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Sugli onorari spazio al giudice. Possibile l'adeguamento al
valore della controversia.
AVVOCATI/ La Cassazione è intervenuta sui rapporti tra
professionista e cliente.
Nei rapporti tra avvocato e cliente sussiste sempre la
possibilità per il giudice di concreto adeguamento degli
onorari al valore effettivo e sostanziale della
controversia, ove sia ravvisabile una manifesta sproporzione
con quello derivante dall'applicazione delle norme del
codice di rito.
Lo hanno affermato i giudici della II Sez. civile
della Corte di Cassazione con la
sentenza
14.07.2015 n. 14691.
Quanto sopra detto non vale ai fini della liquidazione delle
spese a carico della parte soccombente, nei quali il valore
della lite si determina secondo i criteri codicistici, salva
l'adozione di quello del decisum, nelle cause di pagamento e
risarcimento di danni.
I giudici di piazza Cavour hanno altresì evidenziato come
tale interpretazione fosse aderente al criterio finalistico,
secondo cui «il dato letterale va opportunamente coordinato
con la ricerca dell'intenzione del legislatore (art. 12 preleggi, comma 1, u.p.), deve ritenersi preferibile,
siccome più aderente all'esigenza cui il combinato disposto
delle due norme tariffarie risulta palesemente improntato,
vale a dire all'osservanza di quel «principio generale di
proporzionalità ed adeguatezza degli onorari di avvocato
nell'opera professionale effettivamente prestata»».
Pertanto la disposizione tariffaria, secondo
l'interpretazione offerta dagli Ermellini, vuole
semplicemente riferirsi a tutte le regole dettate dal codice
di rito, ivi compresa quella ex artt. 10 e 14, correlata
all'indicazione del quantum nella domanda nelle cause
relative a somme di danaro o beni mobili, per la
determinazione del valore della controversia, attribuendo al
giudice una generale facoltà discrezionale, ove ravvisi la
suesposta manifesta sproporzione tra il formale petitum e
l'effettivo valore della controversia, desumibile dai
sostanziali interessi in contrasto, di adeguare la misura
dell'onorario all'effettiva importanza della prestazione, in
relazione alla concreta valenza economica della controversia
(si vedano: Cass. n. 7807 del 2013; ma anche Cass. n. 23809
del 2012 e Cass. n. 1805 del 2012).
E, infine, ai fini della liquidazione dell'onorario, si deve
valutare opportunamente l'attività in concreto svolta
dall'avvocato nella trattazione anche delle domande
riconvenzionali, tenendo presente il parametro correttivo
del valore effettivo della controversia (valore dei diversi
interessi sostanzialmente perseguiti), quando esso risulti
manifestamente diverso da quello presunto codicistico,
ovvero il criterio suppletivo del valore indeterminabile,
quando non è possibile determinarlo in applicazione del
c.p.c. (si vedano: Cass. 25.02.2014 nn. 20302 e 4488)
(articolo ItaliaOggi Sette del 10.08.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Controversie sulla graduatoria al giudice civile.
Consiglio di Stato.
La controversia in tema di diritto alla mobilità, come
quella relativa al diritto allo scorrimento di una
graduatoria concorsuale, non attiene alla fase della
procedura di concorso ovvero al controllo giudiziale sulla
legittimità della scelta discrezionale operata
dell'amministrazione, e spetta quindi al giudice civile.
Lo hanno affermato i giudici della III Sez. del Consiglio di
Stato con la
sentenza 14.07.2015 n.
3513.
I supremi giudici amministrativi hanno altresì osservato che
spetta al giudice il controllo del potere amministrativo ai
sensi dell'art. 103 Cost., ma la controversia in tema di
diritto alla mobilità è demandata alla connessa fase
successiva relativa agli atti di gestione del rapporto di
lavoro, facendosi valere appunto il «diritto all'assunzione»
al di fuori dell'ambito della procedura concorsuale, donde
la sussistenza della giurisdizione civile.
Secondo, poi, un orientamento della Cassazione (Cass. ss.uu.
06.05.2013 n. 10404), ove invece l'eventuale
riconoscimento del suddetto diritto sia consequenziale alla
negazione degli effetti del provvedimento di indizione di
diverse procedure (quale il concorso) per la copertura dei
posti resisi vacanti, la controversia ha in realtà ad
oggetto diretto il controllo giudiziale sulla legittimità
della scelta discrezionale operata dell'amministrazione
pubblica, a fronte della quale la situazione giuridica
privata dedotta in giudizio appartiene alla categoria degli
interessi legittimi, la cui tutela è demandata al giudice
amministrativo ai sensi dell'art. 63, c. 4, del dpr n. 165
del 2001.
Nella sentenza in commento i giudici di palazzo Spada hanno
poi richiamato il principio del previo esperimento delle
procedure di mobilità rispetto al reclutamento di nuovo
personale, peraltro già presente nell'ordinamento, posto
dall'art. 30 del dlgs 30.03.2001 n. 165, il cui secondo
comma commina la nullità degli accordi, atti e clausole dei
contratti collettivi volti ad eluderne l'applicazione,
mentre il c. 2-bis (aggiunto dall'art. 5, c. 1-quater, dl 31.01.2005 n. 7, conv.
con mod. dalla l. 31.03.2005 n. 43) prevede che «Le
amministrazioni, prima di procedere all'espletamento di
procedure concorsuali, finalizzate alla copertura di posti
vacanti in organico, devono attivare le procedure di
mobilità di cui al comma 1, provvedendo, in via prioritaria,
all'immissione in ruolo dei dipendenti, provenienti da altre
amministrazioni, in posizione di comando o di fuori ruolo,
appartenenti alla stessa area funzionale, che facciano
domanda di trasferimento nei ruoli delle amministrazioni in
cui prestano servizio. Il trasferimento è disposto, nei
limiti dei posti vacanti, con inquadramento nell'area
funzionale e posizione economica corrispondente a quella
posseduta presso le amministrazioni di provenienza»
(articolo ItaliaOggi Sette del
03.08.2015).
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MASSIMA
L’appellato si è costituito in giudizio e, ricordati i
proposti motivi di ricorso, ha svolto ampie controdeduzioni.
3.- L’appello, introitato in decisione all’udienza pubblica
del 23.04.2015, dev’essere disatteso quanto alla riproposta
eccezione di difetto di giurisdizione del giudice
amministrativo.
È ben vero che la controversia in tema di
diritto alla mobilità, come quella relativa al diritto allo
scorrimento di una graduatoria concorsuale, non attiene alla
fase della procedura di concorso ovvero al controllo
giudiziale sulla legittimità della scelta discrezionale
operata dell'Amministrazione, la cui tutela è demandata al
giudice cui spetta il controllo del potere amministrativo ai
sensi dell'art. 103 Cost., ma alla connessa fase successiva
relativa agli atti di gestione del rapporto di lavoro,
facendosi valere appunto il "diritto all'assunzione"
al di fuori dell'ambito della procedura concorsuale, donde
la sussistenza della giurisdizione civile
(cfr., ex multis, Cons. St., sez. III 21.05.2013 n.
2754).
È però altrettanto vero che, ove invece
l’eventuale riconoscimento del suddetto diritto sia
consequenziale alla negazione degli effetti del
provvedimento di indizione di diverse procedure (quale,
nella fattispecie in trattazione, il concorso) per la
copertura dei posti resisi vacanti, la controversia ha in
realtà ad oggetto diretto il controllo giudiziale sulla
legittimità della scelta discrezionale operata
dell'amministrazione, a fronte della quale la situazione
giuridica privata dedotta in giudizio appartiene alla
categoria degli interessi legittimi, la cui tutela è
demandata al giudice amministrativo ai sensi dell'art. 63,
co. 4, del d.P.R. n. 165 del 2001
(cfr. Cass. ss.uu. 06.05.2013 n. 10404).
4.- Nel merito l’appello è però fondato, per le ragioni di
fondo già espresse da questo Consiglio di Stato in sede
cautelare con l’ordinanza 03.02.2010 n. 614 della sezione
quinta.
4.1.- Il principio del previo esperimento delle procedure di
mobilità rispetto al reclutamento di nuovo personale,
peraltro già presente nell’ordinamento, è stato
specificamente posto dall’art. 30 del d.lgs. 30.03.2001 n.
165, il cui secondo comma commina la nullità degli accordi,
atti e clausole dei contratti collettivi volti ad eluderne
l’applicazione, mentre il co. 2-bis (aggiunto dall'art. 5,
co. 1-quater, d.l. 31.01.2005 n. 7, conv. con mod. dalla l.
31.03.2005 n. 43) prevede che “Le
amministrazioni, prima di procedere all'espletamento di
procedure concorsuali, finalizzate alla copertura di posti
vacanti in organico, devono attivare le procedure di
mobilità di cui al comma 1, provvedendo, in via prioritaria,
all'immissione in ruolo dei dipendenti, provenienti da altre
amministrazioni, in posizione di comando o di fuori ruolo,
appartenenti alla stessa area funzionale, che facciano
domanda di trasferimento nei ruoli delle amministrazioni in
cui prestano servizio. Il trasferimento è disposto, nei
limiti dei posti vacanti, con inquadramento nell'area
funzionale e posizione economica corrispondente a quella
posseduta presso le amministrazioni di provenienza”.
Non v’è dubbio che, diversamente da quanto sostenuto
dall’Amministrazione appellante, il
principio in parola è applicabile non già limitatamente al
personale in posizione di comando o di fuori ruolo presso
l’amministrazione ricevente, bensì “in via prioritaria”
in favore tale personale rispetto a quello che presti ancora
servizio presso altre amministrazioni. |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Vietate al Tar le integrazioni.
Il Cds e i giudizi di ottemperanza.
In tema di giudizio di ottemperanza di sentenza di condanna
emessa dal giudice ordinario, il giudice amministrativo,
dovendone individuare il contenuto e la portata precettiva
sulla base del dispositivo e della motivazione, con
esclusione di elementi esterni, non può integrare la
pronuncia carente o dubbia con il riferimento a regole di
diritto o ad un determinato orientamento giurisprudenziale.
È quanto hanno sottolineato i giudici della IV Sez.
del Consiglio di Stato con la
sentenza
14.07.2015 n. 3509.
I giudici di palazzo Spada hanno altresì evidenziato che è
jus receptum quello per cui il giudice amministrativo
incontra limiti maggiori allorché la ottemperanza riguardi
una sentenza del giudice civile rispetto a quelli afferenti
alla attuazione di un giudicato «amministrativo».
Un ormai consolidato orientamento giurisprudenziale sostiene
che il potere interpretativo del giudicato da eseguire, che
è insito nella struttura stessa di ogni giudizio di
esecuzione, e, quindi a maggior ragione del giudizio di
ottemperanza, nel caso in cui tale giudizio attenga a un
giudicato formatosi davanti a giudice diverso dal giudice
amministrativo «non può esercitarsi che sulla base di
elementi interni al giudicato ottemperando e non sulla base
di elementi esterni allo stesso, la cui valutazione, se
ancora ammissibile, rientrerebbe in ogni caso nella
giurisdizione propria del giudice che ha emesso la
sentenza».
L' art. 87, dlgs n. 104/2010 (Cpa) stabilisce poi, al comma
2, lett. d), che i giudizi di ottemperanza siano trattati in
camera di consiglio, aggiungendo al successivo comma 3 che
tutti i termini processuali (per i giudizi in camera di
consiglio) siano dimezzati rispetto a quelli del processo
ordinario, tranne, nei giudizi di primo grado, quelli per la
notificazione del ricorso introduttivo, del ricorso
incidentale e dei motivi.
Il termine «breve» per appellare (di regola pari a sessanta
giorni) è quindi pari a trenta: l'appello è tardivo (si
vedano: sez. III, 28.10.2014, n. 5334, sez. V, 17.11.2014,
n. 5627, 16.04.2014, n. 1967, 24.03.2014, n. 1439; sez. V,
17.06.2014, n. 3085, 17.06.2014, n. 3052) (articolo ItaliaOggi Sette del 10.08.2015). |
APPALTI:
Contratti pubblici, sulla moralità accertamenti contenuti.
Tar Emilia: la verifica deve riguardare solo chi sia
amministratore e abbia rappresentanza.
L'art. 38 del Codice dei contratti pubblici -per il quale
l'accertamento dei requisiti di moralità per l'ammissione
alla gara è svolto nei confronti «degli amministratori
muniti del potere di rappresentanza o del direttore tecnico»
se si tratta di società o di consorzi organizzati nelle
forme diverse dall'impresa individuale, in accomandita, o in
nome collettivo- va interpretato nel senso che il medesimo
accertamento deve riguardare soltanto coloro per i quali vi
sia la compresenza della qualità di amministratore e del
potere di rappresentanza e non è suscettibile di
interpretazione estensiva.
Lo hanno ribadito i giudici della II Sez. del TAR Emilia Romagna-Bologna con la
sentenza 10.07.2015 n. 670.
I giudici amministrativi bolognesi, prendendo spunto anche
da un precedente orientamento giurisprudenziale (Consiglio
di stato nella sentenza n. 23 del 16.10.2013),
hanno sottolineato che le dichiarazioni non sono dovute
anche dal procuratore e dall'institore, che non sono
amministratori.
Nella sentenza in commento è stato altresì evidenziato come
il bando di gara possa però prevedere -a pena di esclusione- che le dichiarazioni previste dall'art. 38 siano rese
anche dal procuratore munito di potere decisionale la cui
particolare ampiezza renda configurabile un vero e proprio
amministratore di fatto ai sensi dell'art. 2639, comma
primo, cod. civ..
È interessante, a questo punto analizzare il ruolo della
Pubblica amministrazione, infatti, nel caso in cui neppure
il bando preveda l'onere per il «procuratore-amministratore
di fatto» di rendere le dichiarazioni, «l'Amministrazione
può disporre l'esclusione solo se risulti in concreto
l'assenza dei requisiti di moralità, e non per il solo fatto
che siano mancate le dichiarazioni».
Nel caso sottoposto all'attenzione dei giudici emiliani non
risultava contestata la sostanziale mancanza dei requisiti
di moralità e di affidabilità in capo ai procuratori
speciali indicati dalla parte ricorrente che nulla affermava
in ordine ai poteri concreti dei medesimi procuratori ed
alla possibilità di assimilarli o meno agli amministratori
della società.
Ed inoltre, la lex specialis della gara non
richiedeva tale dichiarazione da parte dei procuratori
speciali e nessuna violazione della lex specialis
veniva dedotta (articolo ItaliaOggi Sette del 10.08.2015).
---------------
MASSIMA
16. Va, inoltre, respinta la terza ed ultima censura
contenuta nel ricorso introduttivo, concernente la seconda
classificata, con cui viene contestata la mancata
presentazione della dichiarazione di cui all’articolo 38,
comma 1°, lettera c), del decreto legislativo 12.04.2006, n.
163, di tre procuratori speciali della società Eco Eridania.
La questione, ancorché dibattuta in passato, è stata risolta
nel senso che tale dichiarazione è richiesta soltanto per
gli amministratori, come precisato dall’Adunanza Plenaria
del Consiglio di Stato nella sentenza n. 23 del 16.10.2013,
laddove ha stabilito che "L'art. 38 del
Codice dei contratti pubblici -per il quale l'accertamento
dei requisiti di moralità per l'ammissione alla gara è
svolto nei confronti "degli amministratori muniti del potere
di rappresentanza o del direttore tecnico" se si tratta di
società o di consorzi organizzati nelle forme diverse
dall'impresa individuale, in accomandita, o in nome
collettivo- va interpretato nel senso che il medesimo
accertamento deve riguardare soltanto coloro per i quali vi
sia la compresenza della qualità di amministratore e del
potere di rappresentanza e non è suscettibile di
interpretazione estensiva, sicché le dichiarazioni non sono
dovute anche dal procuratore e dall'institore, che non sono
amministratori. Il bando di gara può però prevedere -a pena
di esclusione- che le dichiarazioni previste dall'art. 38
siano rese anche dal procuratore munito di potere
decisionale la cui particolare ampiezza renda configurabile
un vero e proprio amministratore di fatto ai sensi dell'art.
2639, comma primo, cod. civ.. Qualora neppure il bando
preveda l'onere per il "procuratore-amministratore di fatto"
di rendere le dichiarazioni, l'Amministrazione può disporre
l'esclusione solo se risulti in concreto l'assenza dei
requisiti di moralità, e non per il solo fatto che siano
mancate le dichiarazioni".
Nel caso in esame non risulta contestata la sostanziale
mancanza dei requisiti di moralità e di affidabilità in capo
ai procuratori speciali indicati dalla ricorrente che nulla
afferma in ordine ai poteri concreti dei medesimi
procuratori ed alla possibilità di assimilarli o meno agli
amministratori della società.
Del resto la lex specialis della gara non richiedeva
tale dichiarazione da parte dei procuratori speciali e
nessuna violazione della lex specialis è dedotta con
la presente censura. |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Spazio ai nuovi parametri nel corso della
prestazione.
Nel caso di prestazioni professionali da parte di un
avvocato, se queste non siano ancora terminate dopo
l'entrata in vigore del d.m. n. 140/12, andranno applicati i
nuovi parametri in esso esplicati.
Ad affermarlo sono stati i giudici della VI Sez. civile
della Corte di Cassazione con la
sentenza
07.07.2015 n. 14084.
Secondo gli Ermellini, ai sensi dell'art.
41 del dm 20.07.2012 n. 140, che è applicazione
dell'art. 9 comma II, dl 1/12 conv. in legge 27/2012, i
nuovi parametri sono da applicare ogni qual volta la
liquidazione giudiziale intervenga in un momento successivo
alla data di entrata in vigore del predetto decreto ed abbia
ad oggetto il compenso di un professionista che, a quella
data, non abbia ancora completato la propria prestazione
professionale, quantunque tale prestazione abbia avuto
inizio e si sia in parte svolta in epoca precedente, quando
ancora erano in vigore le tariffe professionali abrogate.
Logica conclusione di quanto sopra affermato è che le
tariffe abrogate possono trovare ancora applicazione solo
nel caso in cui la prestazione professionale di cui si
tratta si sia completamente esaurita sotto il vigore delle
precedenti tariffe.
Sarà necessario, invece, applicare il dm 140/2012 con
riferimento a prestazioni professionali, iniziatesi prima,
ma ancora in corso quando detto decreto è entrato in vigore
ed il giudice deve procedere alla liquidazione del compenso.
Inoltre, nella sentenza in commento, i giudici di piazza
Cavour hanno evidenziato che in ossequio anche ad un
orientamento pacifico della giurisprudenza della medesima
Cassazione (si vedano tra le altre: Cass. n. 10634/2010; n.
18693/2011; 23831/2011), ai fini della liquidazione delle
spese –il procedimento abusivamente frazionato con distinti
ricorsi di uguale contenuto depositata contestualmente dal
medesimo difensore– deve considerarsi come unico (articolo ItaliaOggi Sette del 10.08.2015). |
TRIBUTI:
Ici, la classificazione catastale è vincolante.
L'immobile iscritto nel catasto dei fabbricati come «rurale»
(categoria A/6 o D/10) non è soggetto all'Ici; qualora
l'amministrazione comunale intenda vantare la debenza
dell'imposta deve necessariamente impugnare l'attribuzione
della categoria catastale che, altrimenti, esclude a priori
la tassazione.
Se, invece, l'immobile è accatastato in una
differente categoria, spetta al contribuente che intenda
sostenere l'esenzione dall'imposta contestare l'atto di classamento. La categoria, dunque, riveste un'efficacia
determinante ai fini dell'assoggettamento dell'immobile al
tributo comunale. Inoltre, il nuovo classamento ha effetto
retroattivo ai cinque anni antecedenti a quello in cui è
stata presentata la domanda.
Sono le conclusioni che si leggono nella
sentenza 03.07.2015 n. 13740 della Corte di
Cassazione, Sez. V civile.
Una cooperativa agricola presentava istanza di rimborso
dell'Ici versata per l'anno 2006, in relazione a un immobile
utilizzato per funzioni strumentali connesse all'attività
agricola. L'immobile in questione risultava accatastato come
opificio (categoria D/1), ma nell'anno 2011 la cooperativa
aveva presentato istanza di variazione da D/1 a D/10
(«Fabbricati per funzioni produttive connesse alle attività
agricole»).
Sul diniego da parte del comune, la contribuente
attivava il contenzioso, con esiti alterni (accoglimento in
primo grado, riforma della sentenza in sede d'appello). Il
giudizio di legittimità ha cassato la pronuncia di seconde
cure, ribadendo degli interessanti principi. In primis, gli
ermellini ricordano che la variazione catastale ha effetto
retroattivo al quinquennio precedente rispetto alla
presentazione della domanda, come stabilito dall'articolo 7,
comma 2-bis, del dl 13.05.2011, n. 70 (cosiddetto
decreto sviluppo).
La Cassazione ribadisce che la
classificazione catastale è elemento determinante ai fini
dell'assoggettamento dell'immobile all'imposta comunale. Per
ribaltare la posizione impositiva è necessario contestare
proprio la classificazione catastale che, altrimenti,
risulta vincolante oltre ogni criterio. Per cui, l'immobile
iscritto nel catasto dei fabbricati come «rurale», con
attribuzione della relativa categoria per la riconosciuta
ricorrenza dei requisiti di legge, non è soggetto
all'imposta, ed è onere del contribuente, al fine di
ottenerne l'esenzione, impugnare l'atto di diverso classamento del cespite; parimenti, il comune, onde poter
legittimamente pretendere il pagamento dell'imposta, deve a
sua volta impugnare autonomamente l'attribuzione della
categoria catastale, ove la stessa rientri nella
classificazione «rurale».
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
La società (omissis) presentò al comune di Bressanvido
istanza di rimborso in relazione all'imposta Ici, versata
per l'anno 2006, in riferimento a un immobile adibito a uso
strumentale all'attività agricola espletata. ( )
Nella fattispecie l'immobile risultava accatastato in D1
categoria relativa ad attività di opificio ma in data
30/09/2011 la società ha presentato istanza di variazione da
D1 in D10 categoria che riguarda specificamente le
costruzioni strumentali all'esercizio di attività agricola.
Il nuovo classamento ha effetto retroattivo ai cinque anni
antecedenti a quello in cui è stata presentata la domanda di
nuovo classamento, essendo tale ipotesi prevista oltre che
per i casi di variazioni costituenti correzioni di errori
materiali di fatto, anche negli altri casi come sancito
dall'art. 7, comma 2-bis, dl 13.05.2011 n. 70 convertito
in legge 12.07.2011 n. 106 il quale ha previsto la
retroattività delle variazioni annotate negli atti catastali
a seguito di domanda presentata in forza della suddetta
normativa.
Infatti secondo sezz. 6-5, ordinanza n. 422 del
10/01/2014 «In tema di Ici, l'immobile iscritto nel catasto
dei fabbricati come «rurale», con attribuzione della
relativa categoria per la riconosciuta ricorrenza dei
requisiti di legge, non è soggetto all'imposta, sicché è
onere del contribuente, al fine di ottenerne l'esenzione,
impugnare l'atto di diverso classamento del cespite, mentre
il comune, onde poterla legittimamente pretendere, deve
impugnare autonomamente l'attribuzione della categoria
catastale «rurale», salva la rilevanza, in ogni stato e
grado di giudizio, dello «jus superveniens», la cui
applicazione compete al giudice del rinvio ove comporti la
necessità di accertamenti di fatto preclusi in sede di
legittimità».
Nella specie successivamente al deposito della sentenza
gravata era intervenuto l'art. 7, comma 2-bis, del dl
13.05.2011, n. 70, convertito, con modificazioni, dalla
legge 12.07.2011, n. 106, che aveva sancito la retroattività
delle variazioni annotate negli atti 41 catastali a seguito
di domanda presentata in forza della suddetta normativa, cui
effetti, in forza dell'art. 2, comma 5-ter, del dl
31.08.2013, n. 102, convertito con la legge 28.10.2013, n.
124, erano stati fatti decorrere dal quinquennio antecedente
alla presentazione della domanda stessa).
Per quanto sopra deve essere accolto il ricorso in ordine ai
motivi dal primo al quinto i quali ripropongono tutti, sotto
differenti profili, la medesima questione sopra affrontata
di immobili strumentali ad attività agricole accatastati in
categoria diversa da quella D1, assorbiti il sesto e settimo
motivo
(articolo ItaliaOggi Sette del
03.08.2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
Indipendentemente dalla previsione della conferenza di
servizi (ora abrogata), in mancanza di parere della
Soprintendenza ex art. 146 dlgs 42/2004 e decorsi sessanta
giorni dalla ricezione degli atti, <<l’amministrazione
procedente provvede comunque sulla domanda di
autorizzazione>> (art. 146, co. 9, cit.).
Essa è dunque tenuta comunque a concludere in proprio il
procedimento, se la Soprintendenza non si è espressa (tanto
più una volta eliminata la previsione della conferenza di
servizi), derivando anche da ciò la necessità di dover
considerare non più vincolante il parere tardivo (in
ipotesi, emesso allorquando l’Amministrazione abbia già
formulato o sia in procinto di esprimere la propria autonoma
valutazione).
Invero, il decorso del termine non consuma il potere della
Soprintendenza di emettere il parere e, dunque, a rigore,
tale termine non ha carattere propriamente perentorio, ne
consegue che il parere può ben essere emesso tardivamente
(la Soprintendenza mantiene il potere di esprimere il
proprio avviso, anche per la rilevanza dei valori alla cui
tutela è preposta, benché spogliato del carattere
vincolante), ma l’Amministrazione procedente non è più
vincolata ad osservarlo, dovendolo considerare alla stregua
di un rilevante contributo istruttorio a cui può o meno
uniformarsi in entrambi i casi illustrando nella
motivazione, anche sinteticamente, le ragioni della scelta
operata.
Diversamente argomentando, ritenendo cioè che il parere di
cui al comma 5 dell’art. 146 d.lgs. n. 42/2004 sarebbe
comunque vincolante anche decorso il termine di adozione, si
perverrebbe ad attribuire alla Soprintendenza il potere di
emettere un parere vincolante in ogni tempo, cosicché, per
un verso, la fissazione del termine stesso non avrebbe
alcuna ragion d’essere e, per altro verso, l’Amministrazione
procedente dovrebbe prendere atto del parere della
Soprintendenza, anche qualora sia decorso il maggior termine
di sessanta giorni e spetti ad essa di provvedere
autonomamente.
In conclusione, il parere del Soprintendente è vincolante se
espresso nei quarantacinque giorni dalla ricezione delle
osservazioni dell’interessato, successive al preavviso di
parere negativo (in mancanza di esse, dalla scadenza dei
dieci giorni ex art. 10-bis della legge n. 241/1990).
Se nelle more è emesso il parere della Soprintendenza, esso
non ha carattere vincolante e l’Amministrazione (chiamata a
concludere il procedimento ma non più tenuta a provvedere
“in conformità”, come stabilito dall’art. 146, ottavo comma,
ultimo periodo) deve considerare i rilievi manifestati
dall’amministrazione statale, che entrano a far parte della
valutazione da assumere in merito all’autorizzazione
paesaggistica.
Ritiene il Collegio di confermare la statuizione cautelare
alla stregua delle considerazioni di seguito proposte.
E’ necessario muovere dalla disciplina di riferimento.
L’art. 146 del d.lgs. 22.01.2004, n. 42, nel prevedere che
sull’istanza di autorizzazione paesaggistica si pronuncia la
Regione (ovvero, l’Autorità comunale delegata), dopo avere
acquisito il parere vincolante del Soprintendente (quinto
comma), stabilisce che quest’ultimo debba essere reso entro
il termine di quarantacinque giorni, previa formulazione del
preavviso di diniego se il parere è negativo (ottavo comma).
Come già rilevato in sede cautelare, deve ritenersi che il
carattere vincolante del parere della Soprintendenza
permanga solamente se esso venga reso entro i quarantacinque
giorni di cui al quinto comma dell’art. 146 del d.lgs. n.
42/2004 (ovvero, dovendo essere preceduto dal preavviso di
rigetto, entro 45 giorni dalle osservazioni dell’interessato
o dal decorso dei 10 giorni di cui all’art. 10-bis della
legge n. 241/1990).
Milita in tal senso la formulazione testuale delle norme che
vengono in rilievo: l’ottavo comma dell’art. 146 si
riferisce al “parere di cui al comma 5” (qualificato
in tale sede vincolante), fissando il termine di 45 giorni e
soggiungendo, all’ultimo periodo, che “l’amministrazione
provvede in conformità”.
Se, quindi, il parere (vincolante ai sensi del quinto comma)
è reso nel termine di 45 giorni (ottavo comma),
l’Amministrazione non può discostarsene ma deve limitarsi a
prenderne atto entro venti giorni dalla ricezione, secondo
quanto previsto dall’ottavo comma, ultimo periodo dell’art.
146 d.lgs. n. 42/2004.
I primi due periodi del successivo nono comma dell’art. 146
citato nel testo (nel testo vigente ratione temporis)
prevedevano che: <<Decorso inutilmente il termine di cui
al primo periodo del comma 8 senza che il soprintendente
abbia reso il prescritto parere, l'amministrazione
competente può indire una conferenza di servizi, alla quale
il soprintendente partecipa o fa pervenire il parere
scritto. La conferenza si pronuncia entro il termine
perentorio di quindici giorni>>.
È evidente che la previsione della conferenza di servizi,
nell’ipotesi in cui il termine non sia rispettato, è
inconciliabile con la possibilità che possa ancora essere
assegnato carattere vincolante al parere tardivo della
Soprintendenza, atteso che la stessa previsione di una
conferenza di sevizi non avrebbe alcun senso se, una volta
pervenuto il parere, le Amministrazioni intervenute non
disponessero di alcun margine di apprezzamento.
La norma dell’art. 146, nono comma, è stata modificata
dall’art. 25, terzo comma, del decreto-legge 12.09.2014, n.
133, convertito con legge 11.11.2014, n. 164, che ha
soppresso il primo e secondo periodo, ma il procedimento
oggetto di causa era stato avviato nella vigenza delle norme
che prevedevano il ricorso alla conferenza di servizi
(essendo la modifica del nono comma dell’art. 146 entrata in
vigore il 13.09.2014), per cui la notazione può valere a
fini argomentativi, rafforzando il convincimento che la
tardività del parere ne faccia venir meno il carattere
vincolante (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 27.04.2015, n. 2136;
TAR Veneto, sez. II, 22/05/2014, n. 698).
In ogni caso, indipendentemente dalla previsione della
conferenza di servizi (ora abrogata), in mancanza di parere
della Soprintendenza e decorsi sessanta giorni dalla
ricezione degli atti, <<l’amministrazione procedente
provvede comunque sulla domanda di autorizzazione>>
(art. 146, co. 9, cit.).
Essa è dunque tenuta comunque a concludere in proprio il
procedimento, se la Soprintendenza non si è espressa (tanto
più una volta eliminata la previsione della conferenza di
servizi), derivando anche da ciò la necessità di dover
considerare non più vincolante il parere tardivo (in
ipotesi, emesso allorquando l’Amministrazione abbia già
formulato o sia in procinto di esprimere la propria autonoma
valutazione).
Invero, il decorso del termine non consuma il potere della
Soprintendenza di emettere il parere e, dunque, a rigore,
tale termine non ha carattere propriamente perentorio, ne
consegue che il parere può ben essere emesso tardivamente
(la Soprintendenza mantiene il potere di esprimere il
proprio avviso, anche per la rilevanza dei valori alla cui
tutela è preposta, benché spogliato del carattere
vincolante), ma l’Amministrazione procedente non è più
vincolata ad osservarlo, dovendolo considerare alla stregua
di un rilevante contributo istruttorio a cui può o meno
uniformarsi in entrambi i casi illustrando nella
motivazione, anche sinteticamente, le ragioni della scelta
operata.
Diversamente argomentando, ritenendo cioè che il parere di
cui al comma 5 dell’art. 146 d.lgs. n. 42/2004 sarebbe
comunque vincolante anche decorso il termine di adozione, si
perverrebbe ad attribuire alla Soprintendenza il potere di
emettere un parere vincolante in ogni tempo, cosicché, per
un verso, la fissazione del termine stesso non avrebbe
alcuna ragion d’essere e, per altro verso, l’Amministrazione
procedente dovrebbe prendere atto del parere della
Soprintendenza, anche qualora sia decorso il maggior termine
di sessanta giorni e spetti ad essa di provvedere
autonomamente (cfr. da ultimo TAR Campania, sez. III,
22.04.2015, n. 2267).
In conclusione, il parere del Soprintendente è vincolante se
espresso nei quarantacinque giorni dalla ricezione delle
osservazioni dell’interessato, successive al preavviso di
parere negativo (in mancanza di esse, dalla scadenza dei
dieci giorni ex art. 10-bis della legge n. 241/1990).
Se nelle more è emesso il parere della Soprintendenza, esso
non ha carattere vincolante e l’Amministrazione (chiamata a
concludere il procedimento ma non più tenuta a provvedere “in
conformità”, come stabilito dall’art. 146, ottavo comma,
ultimo periodo) deve considerare i rilievi manifestati
dall’amministrazione statale, che entrano a far parte della
valutazione da assumere in merito all’autorizzazione
paesaggistica (cfr. in tal senso da ultimo Cons. Stato, sez.
VI, 27.04.2015, n. 2136).
Nel caso di specie, invece, la Regione e il SUAP si sono
limitate a negare l’autorizzazione richiamando il parere
della Soprintendenza, sull’erroneo presupposto che esso
fosse vincolante.
Peraltro, il parere espresso dalla Soprintendenza deve
considerarsi anche affetto anche da vizi suoi propri, atteso
che, come anticipato e rilevato in sede cautelare, esso non
ha preso in considerazione le articolate deduzioni formulate
da parte ricorrente nell’ambito dell’interlocuzione
procedimentale avviata a seguito della comunicazione
dell’avviso di parere negativo ex art. 10-bis l. n. 241/1990
(15.11.2013).
Né può sostenersi che le osservazioni formulate non
potessero modificare l’orientamento espresso dalla
Soprintendenza, atteso che, per un verso, parte ricorrente
ha proposto specifici rimedi volti a superare le criticità
rappresentate nel preavviso e che, per altro verso, ha
fornito informazioni e dettagli sugli aspetti del progetto
di intervento sui quali la Soprintendenza stessa aveva
chiesto integrazioni e chiarimenti rilevando specifiche
carenze.
A fronte di tali oggettivi contributi in sede di
contraddittorio, il parere impugnato si limita a ribadire,
anche sotto il profilo testuale, quanto la medesima
Soprintendenza aveva rilevato già in sede di preavviso di
parere negativo, senza nulla aggiungere e non tenendo in
considerazione le osservazioni formulate da parte
ricorrente, anche solo per ritenerle insufficienti o
inadeguate; ad esempio, nel parere definitivo sono state
ribadite dalla Soprintendenza pretese carenze relative ad
elementi dell’intervento accessori su cui parte ricorrente
aveva, invece, fornito numerose indicazioni che, però,
l’Amministrazione non ha nemmeno menzionato.
Ciò considerato, il ricorso deve essere accolto e gli atti
impugnati devono essere annullati
(TAR Molise,
sentenza 26.06.2015 n. 292 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Non sussiste alcun obbligo di dare comunicazione
ai proprietari di immobili vicini dell'avvio del
procedimento diretto al rilascio di una concessione
edilizia, in quanto gli interessi coinvolti dal
provvedimento con cui si consente la trasformazione edilizia
del territorio sono di tale varietà ed ampiezza da rendere
difficilmente individuabili tutti i soggetti che
dall'emanazione dell'atto potrebbero ricevere nocumento.
Secondo un costante orientamento giurisprudenziale, il
vicino controinteressato (nel nostro caso proprietario
frontista) non è un soggetto contemplato tra quelli cui va
inviata la comunicazione di avvio del procedimento avviato
per il rilascio di una concessione edilizia: “Non
sussiste alcun obbligo di dare comunicazione ai proprietari
di immobili vicini dell'avvio del procedimento diretto al
rilascio di una concessione edilizia, in quanto gli
interessi coinvolti dal provvedimento con cui si consente la
trasformazione edilizia del territorio sono di tale varietà
ed ampiezza da rendere difficilmente individuabili tutti i
soggetti che dall'emanazione dell'atto potrebbero ricevere
nocumento” (cfr. TRGA Trento, 08.04.2010, n. 110; nello
stesso senso, Consiglio di Stato, Sez. IV, 31.07.2009, n.
4847).
Né rileva la circostanza che il vicino risulti essersi
opposto in precedenti occasioni all’attività edilizia
dell’altro soggetto confinante (cfr. TAR Liguria, Genova,
Sez. I, 10.07.2009, n. 1736)
(TRGA Trentino Alto Adige-Bolzano,
sentenza 17.06.2015 n. 201 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Non è il
proprietario che deve ripulire l'area nomadi.
Tar
Lombardia.
Non è il proprietario che deve ripulire, mettere in
sicurezza e recintare l'area occupata abusivamente dai
nomadi. O almeno: non è il Comune che glielo può imporre con
un'ordinanza se manca la prova del dolo o della colpa da
parte del titolare del fondo nel deposito incontrollato di
rifiuti.
È quanto emerge dalla
sentenza
29.06.2015 n. 1482, pubblicata dalla III Sez. del TAR
Lombardia-Milano.
Annullato perché illegittimo il provvedimento adottato da un
Comune in provincia di Milano dopo l'incendio che ha
interessato l'area occupata dai nomadi. In origine c'era una
comunità di giostrai in affitto ma in seguito si sono
aggiunti insediamenti di abusivi che oggi non pagano alcun
canone e si attaccano ai contatori per rubare l'energia
elettrica: si sospetta che proprio dall'allacciamento non
autorizzato si sia sviluppato il rogo.
Il punto è che l'amministrazione locale sa che nel campo ci
sono occupanti senza titolo e non può imporre al
proprietario un'attività che si risolverebbe nel farsi
giustizia da sé: nessun privato può infatti procedere in
proprio a sgomberare un terreno e a portare via i beni
presenti senza il consenso degli interessati. E per le
questioni di ordine pubblico serve sempre l'intervento delle
autorità.
Infine: soltanto chi è corresponsabile dell'abbandono
incontrollato dei rifiuti può essere costretto alla
rimessione in pristino dal provvedimento amministrativo:
manca la prova della responsabilità in capo al proprietario
del terreno. Al Comune non resta che pagare le spese di
giudizio
(articolo ItaliaOggi del 04.08.2015).
---------------
MASSIMA
1. Il ricorso è fondato.
2. Con la prima censura si assume l’illegittimità del
provvedimento impugnato giacché con lo stesso si sarebbe
imposto alla ricorrente, soltanto in qualità di proprietaria
dell’area da mettere in sicurezza, lo svolgimento di
un’attività –ossia impedire l’accesso alla stessa anche
dalla pubblica via nonché l’immediata rimozione di tutte le
parti e gli oggetti potenzialmente pericolosi e/o
maleodoranti presenti– che sarebbe vietata dall’ordinamento,
in quanto nessuno potrebbe farsi ragione da sé, omettendo di
ricorrere all’autorità giurisdizionale.
Inoltre, le questioni di ordine e sicurezza pubblici
sarebbero di competenza dell’autorità pubblica e non
potrebbero essere demandate ai privati cittadini.
2.1. La doglianza è fondata.
L’ordinanza del Sindaco di Bollate impone alla società
ricorrente, in qualità di proprietaria dell’area, di
impedire l’accesso alla stessa e di metterla in sicurezza
tramite l’asportazione degli oggetti potenzialmente
pericolosi. Nelle premesse dell’ordinanza si dà atto della
circostanza che l’incendio divampato nel sito sarebbe stato
causato dalla presenza di insediamenti abusivi collegati
fraudolentemente alla linea elettrica, dimostrandosi in tal
modo la consapevolezza del Comune in relazione allo stato
dell’immobile e ai soggetti che lo detengono in via di
fatto.
La richiamata consapevolezza del Comune in
ordine alla disponibilità dell’area, rende illegittima
l’ordinanza impugnata, atteso che un soggetto privato non
può procedere in proprio a sgomberare un terreno o edificio
occupato e non può asportare i beni ivi presenti senza il
consenso dei soggetti direttamente interessati; in mancanza
di tale assenso, l’unica alternativa che residua è il
ricorso agli strumenti giurisdizionali.
Nel caso di specie si è ordinato alla ricorrente di impedire
l’accesso all’area di sua proprietà, nonostante
l’Amministrazione comunale fosse al corrente
dell’occupazione abusiva del predetto sito e quindi fosse
consapevole di imporre alla destinataria il compimento di
un’attività non consentita dall’ordinamento, che impedisce
di farsi giustizia da sé.
2.2. Inoltre dal contenuto dell’ordinanza, seppure molto
scarna e non accompagnata dai rapporti redatti dall’E.N.E.L.
e dalla Polizia Locale, si evince che la stessa risulta
finalizzata a porre rimedio ad una problematica di ordine
pubblico che, tuttavia, non può essere delegata a soggetti
privati, ma deve essere affrontata dagli Enti competenti con
gli strumenti del diritto pubblico, attesi i risvolti in
materia di ordine, sicurezza, incolumità e igiene pubblici.
In tal senso sembra essere orientata anche la giurisprudenza
più recente, allorquando afferma che l’Amministrazione ha il
dovere di adottare una posizione espressa –quantomeno per
giustificare la sua inerzia– laddove il privato,
proprietario di un bene, prospettando “la
sussistenza di un pericolo per l’igiene o per l’incolumità
pubblica –e non già per il proprio diritto dominicale–
derivante dall’abusiva occupazione del proprio bene
perpetrata da una serie indeterminata di soggetti con
modalità tali da non costituire più o soltanto un semplice
spossessamento del bene e, quindi, un fatto illecito avente
mera rilevanza inter privatos, ma da costituire un pericolo
per l’igiene, l’ordine e la sicurezza pubblici, (…) invochi
conseguentemente l’intervento dell’Amministrazione stessa a
tutela dell’incolumità pubblica. [Tale] aspettativa
differenziata e qualificata del privato si radica nel fatto
che il proprio bene diventa luogo, strumento e occasione in
cui e/o per cui si realizza, ad opera di terzi, il
turbamento dell’ordine, dell’igiene o dell’incolumità
pubblica, con tutta una serie di ipotizzabili effetti
negativi (civili, penali e amministrativi), sul piano
patrimoniale e morale, per la sua sfera giuridica, sicché
egli vanta innegabilmente una situazione che impone
all’Amministrazione, pur nell’ampio potere discrezionale di
apprezzare i presupposti degli artt. 50 e 54 T.U.E.L.,
l’obbligo di adottare un provvedimento espresso”
(Consiglio di Stato, III, 14.11.2014, n. 5601).
2.3. In relazione a quanto evidenziato in precedenza, la
censura deve essere accolta.
3. Con la seconda doglianza si assume l’illegittimità
dell’ordinanza sindacale nella parte in cui impone alla
società ricorrente di rimuovere gli oggetti e le parti
pericolosi e maleodoranti, pur nella consapevolezza della
mancata responsabilità della stessa in ordine all’abbandono
dei predetti rifiuti.
3.1. La doglianza è fondata.
Con l’ordinanza impugnata si è imposta alla
ricorrente la rimozione dei rifiuti presenti nell’area di
sua proprietà, nonostante la stessa non sia responsabile del
loro abbandono, come riconosciuto implicitamente dallo
stesso Comune, allorquando nelle premesse dell’ordinanza
evidenzia l’abusiva occupazione dell’area.
Ciò appare in contrasto con l’art. 192,
comma 3, del D.Lgs. n. 152 del 2006, secondo il quale
chiunque viola i divieti di cui ai commi 1 (divieto di
abbandono e di deposito incontrollati di rifiuti sul suolo e
nel suolo) e 2 (divieto di immissione di rifiuti di
qualsiasi genere, allo stato solido o liquido, nelle acque
superficiali e sotterranee) è tenuto a procedere alla
rimozione, all’avvio a recupero o allo smaltimento dei
rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi in solido
con il proprietario e con i titolari di diritti reali o
personali di godimento sull’area, ai quali tale violazione
sia imputabile a titolo di dolo o colpa.
Non essendo stato dimostrato il dolo o la colpa della
ricorrente in relazione all’abbandono dei rifiuti, non
poteva imporsi alla stessa l’obbligo di rimozione e le spese
per procedere alla realizzazione di tale rimozione
(cfr., da ultimo, TAR Lombardia, Milano, III, 11.03.2015, n.
693).
3.2. Ciò conduce all’accoglimento del predetto motivo.
4. La fondatezza delle suesposte censure determina
l’accoglimento del ricorso e il conseguente annullamento
dell’ordinanza n. 40 del 24.03.2014, emessa dal Sindaco
della Città di Bollate e impugnata nella presente sede. |
ATTI
AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
Al comune
15 giorni per provare l'ordine di demolizione.
Manufatto abusivo.
Il comune deve tirare fuori entro 15 giorni i verbali della
polizia municipale che hanno fatto scattare l'ordine di
demolizione del manufatto ritenuto abusivo: di fronte
all'istanza di accesso dei documenti proposta dal privato,
infatti, l'ente locale non può giustificare il diniego
spiegando che il privato non ha utilizzato il modulo ad hoc
predisposto dall'amministrazione.
È quanto emerge dalla
sentenza
29.06.2015 n. 996, pubblicata dal TAR Toscana, Sez. III.
Forma no, sostanza sì. Non si abbattono, almeno per ora, le
opere che il comune ha individuato come illegittime sui due
fondi del cittadino, riuniti sotto il nome di condominio
«L».
Il proprietario dei cespiti vuole vederci chiaro nell'ordine
di demolizione: chiede dunque all'ente locale di esibire la
comunicazione della polizia municipale e il verbale
congiunto del servizio dei vigili urbani e dei servizi
tecnici del comune, ai ai sensi della legge sulla
trasparenza.
Non regge il diniego opposto dall'amministrazione sul
rilievo di un mero vizio di forma: è irrilevante che il
richiedente non abbia utilizzato la modulistica dedicata
laddove il privato indica comunque l'atto cui si chiede di
accedere, l'interesse che sorregge la pretesa ostensiva e
l'esatta indicazione del richiedente.
Il fatto che l'ente locale abbia elaborato un formato ad
hoc per chi vuole accedere agli atti amministrativi è
una forma di aiuto al cittadino: l'utilizzo non può essere
considerato condizione di ammissibilità dell'istanza. Il
comune paga le spese di giudizio
(articolo ItaliaOggi del 05.08.2015).
--------------
MASSIMA
6 - La censura è fondata, nei sensi di seguito esposti.
7 - L’Amministrazione comunale pone a fondamento del diniego
di ostensione, in primo luogo, la circostanza che “la
domanda non è presentata con l’apposita modulistica dedicata”;
si tratta di motivo di diniego sicuramente
illegittimo, giacché nessuna norma autorizza
l’Amministrazione a pretendere l’utilizzo di modulistica
dalla stessa predisposta a pena di inammissibilità della
pretesa ostensiva; quindi se l’Amministrazione deve certo
pretendere che l’istante presenti una domanda avente il
contenuto previsto dalla legge (indicante quindi l’atto cui
si chiede di accedere, l’interesse che sorregge la pretesa
ostensiva, l’esatta indicazione del soggetto richiedente
ecc.) al contrario essa non può esigere che le indicazioni
stesse siano fornite attraverso l’uso della “modulistica
dedicata” predisposta dall’Amministrazione medesima
dovendo valutarsi la funzione della stessa come ausilio
offerto ai privati e non come condizione di ammissibilità o
procedibilità della procedura di accesso.
8 – In secondo luogo il gravato atto di diniego
statuisce che “non è stata prodotta autorizzazione
dell’avente titolo”.
Anche questo profilo motivazionale appare
illegittimo, non essendo esplicitato chiaramente a cosa
l’Amministrazione si riferisca; l’istanza di accesso è stata
presentata al Comune di Poggio a Caiano dall’avv. F.B.C. a
nome della società L.F. s.r.l. e nell’istanza medesima è
riportato mandato del legale rappresentante della società
stessa con il quale si conferisce all’avv. C., tra l’altro,
“la facoltà di avanzare istanze ai sensi della legge n.
241 del 1990”;
d’altra parte dal società L.F. è senz’altro legittimata ad
avanzare istanze di accesso con riferimento ad atti che
risultano richiamati nell’ordinanza di demolizione n. 7 del
2015 (doc. 4) di cui la società medesima risulta
destinataria; con l’effetto che non appare chiaro a cosa si
riferisca l’Amministrazione quando richiede “autorizzazione
dell’avente titolo”.
9 – In terzo luogo il gravato provvedimento di
diniego motiva con riferimento al fatto che “tali
documentazioni [cioè quelle richieste nella istanza di
accesso] devono essere richieste direttamente alla Procura
della Repubblica di Prato non potendo essere evase
direttamente da questo Ente”.
Anche il suddetto profilo motivazione
risulta inidoneo a fondare l’impugnato diniego di accesso,
non esplicitando in modo chiaro un profilo di preclusione
all’assentimento del richiesto accesso; infatti gli atti a
cui la ricorrente chiede di accedere sono atti propri del
procedimento amministrativo che ha condotto all’emanazione
dell’ordinanza di demolizione pregiudizievole per la
ricorrente; l’Amministrazione non dà prova della esistenza
di un procedimento penale in corso che sia idoneo a
supportare il diniego di accesso, né espressamente riferisce
circa la sussistenza di una azione penale in corso;
l’affermazione circa la necessità di richiedere gli atti
alla Procura della Repubblica sembra evocare semplicemente
l’avvenuta trasmissione degli atti del procedimento
amministrativo alla stessa per gli accertamenti di
competenza; ma, come la giurisprudenza ha chiarito, la
semplice trasmissione degli atti alla Procura, in assenza di
sequestro penale o di dimostrazione di effettivo avvio
dell’azione penale, non è sufficiente a giustificare il
diniego di ostensione di atti amministrativi
(TAR Bari, sez. 1^, 4954 del 2002).
Ne segue che il profilo motivazionale in esame non appare
idoneo a giustificare l’atto gravato.
10 – Alla luce delle considerazioni che precedono il ricorso
deve essere accolto, con spese a carico
dell’Amministrazione, liquidate come da dispositivo. |
APPALTI SERVIZI:
Servizio pubblico affidato a onlus se praticano
prezzi fuori mercato.
La onlus può ottenere in affidamento diretto la gestione del
servizio pubblico, laddove grazie al lavoro dei volontari,
pratica prezzi tanto bassi da risultare «fuori mercato»: non
si tratta di un appalto mascherato, e dunque illegittimo,
perché conferito senza gara in quanto il profitto
imprenditoriale risulta effettivamente escluso mentre la
diffusione sul territorio delle associazioni assicura il
regolare svolgimento delle attività, consentendo
all'amministrazione di centrare l'obiettivo dell'efficienza
economica.
Via libera in Liguria, dunque, alle ambulanze gestite da
associazioni di volontariato aderenti all'Anpas,
Associazione nazionale pubbliche assistenze.
È quanto emerge dalla
sentenza 26.06.2015 n. 3208, pubblicata dalla III
Sez. del Consiglio di Stato, che dà attuazione alla sentenza
11.12.2014, C-113/13 dalla Corte di giustizia europea (V
Sez.) proprio traendo spunto da questa vicenda.
Solidarietà e cassa
Accolto il ricorso dell'Asl che ha siglato l'intesa con le
onlus e la Croce rossa italiana, destando le ire delle
cooperative sociali che non sono in grado di offrire prezzi
tanto competitivi. I giudici eurounitari hanno affidato un
monito alle autorità italiane: non si possono coprire «le
pratiche abusive delle associazioni di volontariato e dei
loro membri». Ma per palazzo Spada nella specie non c'è
alcun rischio del genere: l'accordo quadro sottoscritto non
può essere qualificato come contratto a titolo oneroso che
comporta un ristoro più ampio del rimborso spese, ciò che
farebbe scattare la violazione delle regole comunitarie che
impongono sempre le gare per gli appalti pubblici.
Il punto è che volontariato e Croce rossa sono presenti sul
territorio in modo capillare: così il servizio può essere
gestito utilizzando in modo razionale il complesso delle
risorse di uomini e di mezzi disponibili, limitando al
massimo le distanze da percorrere e i tempi degli
interventi, riducendo anche in questo modo i costi. Insomma:
le onlus sono favorite perché non hanno praticamente costi
di manodopera.
E non c'è motivo di ritenere che la modalità organizzativa
scelta dall'Asl non sia in grado di conseguire gli obiettivi
di solidarietà sociale da un lato e contenimento della spesa
dall'altro. Spese di giudizio compensate per la novità della
questione
(articolo ItaliaOggi dell'11.08.2015). |
TRIBUTI:
Terreni,
allo Iap non basta l’iscrizione al registro imprese. La
conduzione diretta di un terreno agricolo, ai fini delle
agevolazioni in materia di Ici (oggi Imu) va provata dal
contribuente.
Immobili. Il contribuente deve provare la coltivazione
diretta ai fini dell’agevolazione Ici sulle aree
edificabili.
Così si è espressa
la Ctp Caltanisetta con la sentenza 26.06.2015 n. 524/03/15
(presidente Lupo), chiamata a esprimersi su un ricorso in
materia di Ici 2005.
La fattispecie riguardava un’area di oltre quattro ettari
inserita fra le aree edificabili nello strumento urbanistico
del Comune che però, essendo coltivata dalla proprietaria
imprenditrice agricola, ai fini dell’imposta comunale doveva
essere considerata agricola (articoli 2 e 9 del Dlgs
504/1992).
Il collegio ricorda che queste disposizioni agevolative
devono essere coordinate con l’articolo 58, comma 2, del
Dlgs 446/1997, il quale prevede che il beneficio in materia
di Ici spetta ai coltivatori diretti e imprenditori agricoli
(Iap) iscritti negli appositi elenchi comunali per
l’assicurazione invalidità, vecchiaia e malattia. La
Commissione che ha respinto il ricorso ha probabilmente
accertato che la contribuente non aveva questo requisito: la
difesa aveva documentato l’iscrizione come imprenditore
agricolo nel registro delle imprese, insufficiente ai fini
dell’agevolazione Ici.
Un aspetto ulteriore evidenziato nella sentenza riguarda la
prova della coltivazione diretta del terreno che secondo il
giudice va provata in via autonoma dal contribuente.
Potrebbe accadere, infatti, che un soggetto ancorché
iscritto negli elenchi previdenziali non conduca
direttamente il fondo. Con ogni probabilità questa
circostanza è stata contestata dal Comune in quanto la norma
di legge non prevede espressamente l’obbligo di fornire la
prova (anche perché l’iscrizione previdenziale, di per sé,
comporta un accertamento da parte dell’ente previdenziale).
Il terreno edificabile, ai fini Ici, si considera agricolo
se è posseduto e condotto da un coltivatore diretto o Iap
iscritto all’Inps. La conduzione non deve essere
necessariamente manuale, ma anche in economia, e cioè con
l’ausilio di dipendenti o contoterzisti. La prova può essere
fornita mediante la documentazione amministrativa relativa
alle varie pratiche che normalmente svolge una azienda
agricola. Tra queste il libretto Uma per l’assegnazione del
gasolio agevolato, la domanda di attribuzione dei titoli Pac
(il fascicolo aziendale riporta anche i dati catastali del
terreno), le fatture di acquisto di vendita e così via.
I giudici hanno altresì respinto le contestazioni in ordine
alla carenza di motivazione, ricordando che la Corte di
cassazione ha stabilito che la motivazione dell’accertamento
deve ritenersi adempiuta se il contribuente sia posto in
grado di conoscere la pretesa tributaria nei suoi elementi
essenziali e quindi di poter contestare efficacemente l’an e
il quantum dell’imposta.
Non ci è dato di sapere come fosse formulato l’avviso di
accertamento esaminato dai giudici siciliani, ma in generale
questi accertamenti consistono in prospetti spersonalizzati
che riportano i dati catastali dell’immobile con l’imposta
dichiarata e quella accertata; in generale gli accertamenti
comunali sono carenti di motivazione e il contribuente
riesce a sapere le reali ragioni dell’accertamento recandosi
in Comune
(articolo Il Sole 24 Ore del
03.08.2015). |
TRIBUTI:
La tassa rifiuti (Tari) va pagata, anche se non
si utilizza il servizio.
Per il pagamento della tassa rifiuti conta la detenzione del
locale e non l'utilizzo del servizio. I criteri di
ripartizione del costo sostenuto dal comune non sono
collegati al concreto utilizzo del servizio da parte di
ciascun utente e non a caso si basano su indici presuntivi.
Il presupposto impositivo del tributo, anche riferito
all'attuale regime di prelievo (Tari), si identifica con
l'istituzione del servizio, non con la sua materiale
fruizione da parte del contribuente. La ragione istitutiva
della tassa è quella di porre le amministrazioni locali
nelle condizioni di soddisfare interessi generali della
collettività e non di fornire delle prestazioni riferibili
ai singoli cittadini.
Queste importanti precisazioni sono contenute nella
sentenza 10.06.2015 n. 12035 della Corte di
Cassazione, Sez. V civile.
Secondo la Cassazione, «la tassa è dovuta
indipendentemente dal fatto che l'utente utilizzi il
servizio, al verificarsi della sola detenzione dei locali».
«Questo perché il presupposto impositivo del tributo si
identifica con l'istituzione del servizio, non con la
materiale fruizione». Precisano i giudici, che anche i
criteri di ripartizione del costo del servizio «non sono
conferenti al concreto utilizzo da parte di ciascun utente,
tanto che si basano su indici presuntivi». «Sarebbe del
tutto asistematico pretendere di condizionare il pagamento
al rilievo di concrete condizioni di fruibilità».
Ecco perché è stata ritenuta infondata la pronuncia del
giudice d'appello che aveva escluso il pagamento della tassa
poiché la contribuente aveva documentato di non aver potuto
fruire del servizio pubblico per la mancanza di collegamento
stradale tra la sua abitazione e il punto di raccolta dei
rifiuti.
Tra l'altro, anche il mancato svolgimento del servizio di
raccolta da parte del comune non comporta l'esenzione, ma il
pagamento del tributo in misura ridotta. In realtà
l'articolo 59, comma 4, del decreto legislativo 507/1993
disponeva per la Tarsu la riduzione anche se il servizio di
raccolta, sebbene istituito, non venisse svolto nella zona
di residenza, di dimora o dove esercitava l'attività il
contribuente. La riduzione spettava, inoltre, se il servizio
era effettuato in grave violazione delle prescrizioni del
regolamento comunale di nettezza urbana.
Nel regolamento comunale, infatti, devono essere indicati i
limiti della zona di raccolta obbligatoria e dell'eventuale
estensione del servizio a zone con insediamenti sparsi, le
modalità di effettuazione del servizio, con l'individuazione
degli ambiti e delle zone, nonché delle distanze massime di
collocazione dei contenitori. È il contribuente che deve
dare la prova delle condizioni per usufruire eventualmente
della riduzione della tassa.
Le stesse regole valgono oggi per la Tari. I commi 656 e 657
della legge di stabilità 2014 (147/2013) prevedono che la
tassa rifiuti è dovuta nella misura del 20% in caso di
mancato svolgimento del servizio e in misura non superiore
al 40% nelle zone in cui non è effettuata la raccolta, da
graduare in relazione alla distanza dal più vicino punto di
raccolta
(articolo ItaliaOggi dell'11.08.2015). |
SICUREZZA LAVORO: Gare, responsabilità a cascata. Lesioni al lavoratore: il
subappaltatore risponde sempre.
Lo ha stabilito la Corte di cassazione: non si può scaricare
il peso sull'appaltante.
In caso di lavori affidati in appalto la ditta
subappaltatrice non può mai invocare la persistente
concomitante attività della ditta appaltante, con la quale
deve necessariamente cooperare per l'attuazione delle misure
di prevenzione e protezione dei rischi inerenti
all'esecuzione dell'opera appaltata.
Lo ha stabilito la
IV Sez. penale della Corte di Cassazione con la
sentenza 27.05.2015 n. 22369.
Nel caso concreto un operaio di un cantiere allestito per la
costruzione di un parcheggio multipiano è stato vittima di
un grave sinistro, per essere precipitato in una trincea non
segnalata. La procura ha, conseguentemente, avviato un
procedimento penale a carico del datore, nella sua qualità
di presidente del cda della società titolare del contratto
di subappalto per la pavimentazione dell'edificio.
All'esito del giudizio di primo grado l'imputato è stato
condannato per il reato di lesioni colpose, con decisione
confermata in appello. Secondo i giudici di merito, infatti,
l'incidente si sarebbe verificato a causa della mancata
predisposizione, da parte del datore, delle dovute e
opportune cautele atte a impedire il verificarsi di eventi
come quello verificatosi.
La vicenda è stata, da ultimo, sottoposta all'attenzione dei
giudici della cassazione, cui è stato chiesto l'annullamento
del pronunciamento della corte territoriale. In particolare,
la difesa ha insistito nel sostenere come la responsabilità
dell'incidente non potesse affatto imputarsi all'imputato, e
tanto sulla base di due principali argomenti: da un lato, la
circostanza che la vittima fosse alle strette dipendenze
della società subappaltatrice dei lavori di pavimentazione e
non già di quella, titolare dell'appalto, su cui gravava -nell'interezza- l'obbligo di garantire la sicurezza del
cantiere; dall'altro, l'assoluta eccezionalità del
comportamento tenuto dal dipendente tale da recidere ogni
nesso causale tra il l'evento dannoso prodottosi e la
posizione del datore.
Nel confermare il verdetto della sentenza impugnata, gli
ermellini sono tornati a occuparsi dell'annosa problematica
inerente al riparto di responsabilità tra appaltatore e
subappaltatore per i danni subiti dai dipendenti in
occasione dello svolgimento delle mansioni lavorative.
Secondo la Corte nell'ipotesi di subappalto dell'esecuzione
di parte dell'opera ad altra ditta, l'impresa appaltante e
quella subappaltatrice devono cooperare all'attuazione delle
misure di prevenzione e protezione, sicché permane in capo a
ciascun datore di lavoro l'obbligo di assicurare ai propri
dipendenti condizioni di lavoro sicure. Di conseguenza,
«giammai la ditta subappaltatrice può invocare la
persistente concomitante attività della ditta appaltante o
subappaltante, con la quale deve cooperare per l'attuazione
delle misure di prevenzione e protezione per i rischi
inerenti all'esecuzione dell'opera appaltata».
La cessione
dei lavori in subappalto, infatti, comporta sempre il
trasferimento del rischio e dell'onere di tutela della
sicurezza dei lavoratori dal cedente al cessionario. Tale
trasferimento, peraltro, non può essere derogato da
determinazioni pattizie, con conseguente ininfluenza di
eventuali clausole di manleva dal rischio e dalla
responsabilità intercorse tra appaltante e subappaltatore
Semmai -si precisa- è configurabile una esclusione della
responsabilità dell'appaltatore nel caso in cui al
subappaltatore sia affidato lo svolgimento di lavori,
ancorché determinati e circoscritti, che, però, questi
svolga «in piena e assoluta autonomia organizzativa e
dirigenziale». Il che, tuttavia, non si verifica quando
l'interdipendenza dei lavori svolti dai due soggetti -come
nel caso affrontato- escluda ogni estromissione
dell'appaltatore dall'organizzazione del cantiere.
Ciò premesso, la Corte ha altresì escluso che la
responsabilità del sinistro fosse riconducibile alla
semplice inavvedutezza della vittima.
Sotto questo profilo, il Palazzaccio ha ribadito come gli
obblighi prevenzionistici incombenti sul datore si pongono «anche
in funzione di protezione dei lavoratore dai suoi stessi
comportamenti negligenti, imperiti o imprudenti, purché non
completamente avulsi dal contesto lavorativo». Per
l'effetto, la responsabilità del datore può essere esclusa
-per causa sopravvenuta- «solo in virtù di un
comportamento del lavoratore avente i caratteri
dell'eccezionalità, dell'abnormità e, comunque,
dell'esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo e alle
precise direttive organizzative ricevute, connotandosi come
dei tutto imprevedibile o inopinabile»
(articolo ItaliaOggi Sette del 10.08.2015). |
APPALTI FORNITURE:
Specifiche tecniche sopravvenute, la revoca è legittima.
Stazioni appaltanti/sentenza della corte di cassazione.
La stazione appaltante può revocare la gara anche quando, a
seguito dell'aggiudicazione definitiva, sorga l'esigenza di
rivedere le specifiche tecniche dei beni oggetto della
fornitura, con conseguente integrazione del bando e
ripetizione della procedura di selezione.
Lo ha stabilito la I Sez. civile della Corte di Cassazione
con la
sentenza 25.05.2015 n. 10748.
Nel caso di specie un comune marchigiano ha indetto una gara
d'appalto per la fornitura di alcuni arredi, precisando nel
capitolato le relative specifiche tecniche. All'esito del
confronto tra gli operatori economici partecipanti alla
selezione, l'amministrazione ha adottato il provvedimento di
aggiudicazione definitiva in favore del miglior offerente.
Tuttavia, nelle more della stipulazione del contratto, il
comune ha fatto marcia indietro, operando inaspettatamente
la revoca dell'aggiudicazione: secondo l'ente, infatti, i
campioni degli arredi forniti in visione dal primo
classificato non rispondevano appieno alle caratteristiche
tecniche desiderate.
L'aggiudicatario si è, quindi, rivolto al giudice civile per
ottenere il risarcimento dei danni subiti per effetto della
disposta revoca. A supporto della richiesta risarcitoria, il
ricorrente ha evidenziato l'illegittimità della scelta del
comune di precisare i termini del suo fabbisogno in un
momento in cui la selezione era ormai giunta al termine: in
altri termini, secondo l'impresa, l'amministrazione avrebbe
dovuto prevedere fin dall'inizio, nel bando e nel capitolato
di gara, tutte le caratteristiche e i requisiti della
fornitura.
Tanto il tribunale quanto la Corte d'appello hanno respinto
la domanda attorea; entrambi i giudici di merito, infatti,
hanno ritenuto la revoca impugnata in linea con le
previsioni della legge di gara che, seppure non in modo
dettagliato, lasciavano nondimeno intendere quali fossero le
principali specifiche della fornitura che sarebbero rimaste
insoddisfatte se si fosse proceduto con l'esecuzione del
contratto.
Sulla vicenda si è, da ultimo, pronunciata la corte di
cassazione. Il ricorrente ha censurato il verdetto reso
dalla corte d'appello, evidenziando come i giudici di
secondo grado si fossero limitati ad affermare la mera
rispondenza tra gli atti di gara e il provvedimento adottato
in autotutela anziché soffermarsi sulle «aggiunte» richieste
dalla stazione appaltante dopo l'aggiudicazione.
I giudici romani, pur confermando l'esito dei precedenti
giudizi, si sono spinti oltre, riconoscendo la possibilità,
per la stazione appaltante, di revocare l'aggiudicazione
definitiva anche al solo ed unico scopo di fissare, nel
bando di gara, nuove «specifiche tecniche» relative ai beni
oggetto della fornitura.
Tale scelta, si afferma, trova una espressa conferma
testuale nell'art. 11, comma 11, del codice dei contratti
pubblici (dlgs n. 163/2006) secondo cui «divenuta efficace
l'aggiudicazione definitiva, e fatto salvo l'esercizio dei
poteri di autotutela nei casi consentiti dalle norme
vigenti, la stipulazione del contratto di appalto o di
concessione ha luogo entro il termine di sessanta giorni».
La norma, nel far salva l'adozione, pur motivata, di
provvedimenti di secondo grado (i.e. annullamento e revoca),
permette alla p.a. di ritornare sui propri passi al precipuo
fine di garantire la legittimità ovvero l'opportunità della
procedura di gara, e tanto anche se questa sia ormai giunta
al termine.
In conclusione, la forza vincolante, nei confronti della
stazione appaltante, dell'aggiudicazione definitiva trova
pur sempre il suo limite nell'interesse pubblico,
sicché,quantomeno di norma, a fronte della scelta di
annullare o revocare la gara l'aggiudicatario non vanta
alcun diritto a ottenere il risarcimento dei danni che possa
aver eventualmente patito
(articolo ItaliaOggi Sette del
03.08.2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
È insufficiente la nota scritta dall'ufficio tecnico.
Impianti fotovoltaici.
L'impianto fotovoltaico «non comporta grave turbamento
all'ambiente in cui dovrà sorgere». Ma non s'ha da fare
comunque, nonostante le rassicurazioni del Comune, perché
comunque non ha ottenuto l'autorizzazione paesaggistica.
La
mera nota dell'ufficio tecnico dell'ente locale non può
infatti sostituire il placet della Regione previsto dal
piano urbanistico territoriale, che impone più complesse
valutazioni di impatto sull'ambiente.
È quanto emerge dalla
sentenza
27.04.2015 n. 2071, pubblicata dalla V Sez. del
Consiglio di Stato.
È la stessa amministrazione locale a rendersi conto che
nella specie la denuncia di inizio attività non basta al
privato per installare e attivare sul territorio l'impianto
che produce energia da fonte rinnovabile. E ciò perché la
zona del Comune salentino è soggetta a vincolo e
l'autorizzazione paesaggistica in Puglia è richiesta dal
Putt, il piano urbanistico territoriale tematico.
Scatta allora l'annullamento in autotutela della Dia,
considerata l'insufficienza della nota proveniente
dall'ufficio tecnico comunale, peraltro sottoscritta da un
consulente. L'impianto «incriminato» non può essere
qualificato come opera di pubblica utilità, indifferibile e
urgente: sono considerate tali solo le opere che hanno
ottenuto l'autorizzazione unica, che sconta l'avvenuta
verifica del rispetto delle normative vigenti in materia di
tutela dell'ambiente, di tutela del paesaggio e del
patrimonio storico-artistico.
La società paga le spese di lite
(articolo ItaliaOggi del 04.08.2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai sensi e per gli effetti stabiliti dalla legge
n. 122 del 1989 (cd. legge Tognoli) è consentita la
realizzazione di parcheggi pertinenziali interrati o nei
locali siti al piano terra dei fabbricati anche in deroga
agli strumenti urbanistici.
La giurisprudenza amministrativa ha chiarito che
l'applicabilità delle suddette agevolazioni, in
considerazione delle finalità della legge ed in relazione al
suo carattere eccezionale, non può estendersi ad altre
ipotesi non contemplate nella indicata normativa.
Si è in conseguenza affermato che la realizzazione di
autorimesse e parcheggi, se non effettuata in locali
preesistenti o totalmente al di sotto del piano di campagna
naturale, è soggetta alla disciplina urbanistica che regola
le nuove costruzioni fuori terra.
La deroga agli strumenti urbanistici è pertanto consentita
solo quando i parcheggi sono realizzati nel sottosuolo
ovvero nei locali siti al piano terreno dei fabbricati già
esistenti mentre la deroga non è possibile (e quindi i
parcheggi devono essere realizzati nel rispetto delle
disposizioni urbanistiche) se non vengono a ciò adibiti i
locali (preesistenti) siti al piano terra di un fabbricato o
se gli stessi non vengano allocati nel sottosuolo dei
fabbricati.
Del resto per gli edifici di nuova costruzione provvede il
precedente art. 2, comma 2 della stessa legge n. 122 del
1989, che –nel sostituire l’art. 41-sexies della L.U. n.
1150 del 1942– ha stabilito l'obbligo di riservare appositi
spazi per parcheggi in misura non inferiore a 1 mq. per ogni
10 mc. di costruzione.
---------------
Nel ribadire che la possibilità di realizzare parcheggi da
destinare a pertinenze delle singole unità immobiliari anche
in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti
edilizi vigenti, consentita dall’art. 9 della legge n. 122
del 1989, costituisce una disposizione di carattere
eccezionale da interpretarsi nel suo significato
strettamente letterale, in considerazione delle finalità di
una legge volta a favorire la diminuzione del traffico
veicolare all’interno dei centri abitati, la prevalente
giurisprudenza amministrativa ha poi anche affermato che le
indicate disposizioni sono applicabili alla costruzione di
spazi parcheggio nelle sole aree urbane, mentre la
realizzazione di parcheggi in aree extraurbane, e in
particolare nelle zone agricole, resta soggetta alle
ordinarie prescrizioni urbanistiche ed edilizie e necessita
della normale concessione edilizia ed oggi del permesso di
costruire.
12.- Sostiene peraltro il signor A. che la sua istanza non poteva
essere respinta perché presentata ai sensi e per gli effetti
stabiliti dalla legge n. 122 del 1989 (cd. legge Tognoli)
che consente la realizzazione di parcheggi pertinenziali
interrati o nei locali siti al piano terra dei fabbricati
anche in deroga agli strumenti urbanistici.
Stabilisce, al riguardo, l'art. 9 della legge n. 122 del
1989 che "i proprietari di immobili possono realizzare nel
sottosuolo degli stessi ovvero nei locali siti al piano
terreno dei fabbricati parcheggi da destinare a pertinenza
delle singole unità immobiliari anche in deroga agli
strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti". La
norma continua disponendo che tali parcheggi possono essere
realizzati, ad uso esclusivo dei residenti, anche nel
sottosuolo di aree pertinenziali esterne al fabbricato
purché non in contrasto con i piani urbani del traffico,
tenuto conto dell'uso della superficie sovrastante e
compatibilmente con la tutela delle risorse idriche.
Anche l’articolo 6 della legge della Regione Campania n. 19
del 28.11.2001, modificato con l’art. 49 della legge
regionale 22.12.2004, n. 16 ed integrato dall'art. 41,
della legga regionale 30.01.2008, n. 1, detta
specifiche disposizioni per la realizzazione di parcheggi pertinenziali, prevedendo (al primo comma) che la
realizzazione di parcheggi, da destinare a pertinenze di
unità immobiliare e da realizzare nel sottosuolo del lotto
su cui insistono gli edifici, se conformi agli strumenti
urbanistici vigenti, è soggetta a semplice denuncia di
inizio attività, e (al secondo comma) che la realizzazione
di parcheggi in aree libere, anche non di pertinenza del
lotto dove insistono gli edifici, ovvero nel sottosuolo di
fabbricati o al pianterreno di essi, è soggetta a permesso
di costruire non oneroso, anche in deroga agli strumenti
urbanistici vigenti.
13.- Ai sensi delle indicate disposizioni, ma nei limiti
dettati dalle stesse, i parcheggi pertinenziali possono
essere quindi effettivamente realizzati anche in deroga agli
strumenti urbanistici.
La giurisprudenza amministrativa ha quindi chiarito che
l'applicabilità delle suddette agevolazioni, in
considerazione delle finalità della legge ed in relazione al
suo carattere eccezionale, non può estendersi ad altre
ipotesi non contemplate nella indicata normativa (Consiglio
Stato, Sez. V, 29.03.2006, n. 1608).
14.- Si è in conseguenza affermato che la realizzazione di
autorimesse e parcheggi, se non effettuata in locali
preesistenti o totalmente al di sotto del piano di campagna
naturale, è soggetta alla disciplina urbanistica che regola
le nuove costruzioni fuori terra (Consiglio Stato sez. IV,
26.09.2008 n. 4645; 11.11.2006, n. 6065;
Consiglio Stato Sez. V, 29.03.2006 n. 1608; 29.03.2004, n. 1662; TAR Lazio, sede di Roma, Sezione I, n. 3259
del 16.04.2008).
La deroga agli strumenti urbanistici è pertanto consentita
solo quando i parcheggi sono realizzati nel sottosuolo
ovvero nei locali siti al piano terreno dei fabbricati già
esistenti mentre la deroga non è possibile (e quindi i
parcheggi devono essere realizzati nel rispetto delle
disposizioni urbanistiche) se non vengono a ciò adibiti i
locali (preesistenti) siti al piano terra di un fabbricato o
se gli stessi non vengano allocati nel sottosuolo dei
fabbricati.
Del resto per gli edifici di nuova costruzione provvede il
precedente art. 2, comma 2 della stessa legge n. 122 del
1989, che –nel sostituire l’art. 41-sexies della L.U. n.
1150 del 1942– ha stabilito l'obbligo di riservare appositi
spazi per parcheggi in misura non inferiore a 1 mq. per ogni
10 mc. di costruzione (Consiglio di Stato, sez. V, n. 5676
del 24.10.2000).
15.- Nel ribadire che la possibilità di realizzare parcheggi
da destinare a pertinenze delle singole unità immobiliari
anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti
edilizi vigenti, consentita dall’art. 9 della legge n. 122
del 1989, costituisce una disposizione di carattere
eccezionale da interpretarsi nel suo significato
strettamente letterale, in considerazione delle finalità di
una legge volta a favorire la diminuzione del traffico
veicolare all’interno dei centri abitati, la prevalente
giurisprudenza amministrativa ha poi anche affermato che le
indicate disposizioni sono applicabili alla costruzione di
spazi parcheggio nelle sole aree urbane, mentre la
realizzazione di parcheggi in aree extraurbane, e in
particolare nelle zone agricole, resta soggetta alle
ordinarie prescrizioni urbanistiche ed edilizie e necessita
della normale concessione edilizia ed oggi del permesso di
costruire (Consiglio Stato, sez. V, 11.11.2004, n.
7324 e n. 7325; TAR Lazio, sede di Roma, Sezione I, n. 3259
del 16.04.2008 cit.; TAR Veneto, Sez. II, n. 1331 del 02.05.2007; TAR Toscana, Sez. III, n. 817 del 29.05.2007, TAR Sicilia Catania, Sez. I, n. 1531 del
03.10.2005) (TAR
Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 08.06.2009 n. 3134 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
possibilità di realizzare parcheggi da destinare a
pertinenze di unità immobiliari, anche in deroga agli
strumenti urbanistici e ai regolamenti edilizi vigenti è sì
prevista dall’art. 9 della legge n. 122/1989, ma in
concreto, trattandosi di una disposizione di carattere
eccezionale, è applicabile unicamente solo alle aree urbane
e non, come a quella delle ricorrenti, alle aree poste in
zona extra urbana.
In tale senso si è più volte espressa la giurisprudenza e
sul punto il Collegio non ha motivo di discostarsi dal su
illustrato orientamento interpretativo.
In particolare, avuto riguardo alle finalità della legge n.
122/1989, collegate all’esigenza di favorire il
decongestionamento dei centri urbani mediante la
realizzazione di parcheggi in sottosuolo, la norma di cui al
citato art. 9 è di stretta interpretazione con la
conseguenza che il regime di favore da essa recato è
applicabile unicamente alle aree urbane.
Correttamente dunque, l’Amministrazione comunale con gli
atti in contestazione ha opposto il proprio diniego
rilevando l’impossibilità per un’area sita in zona agricola
di realizzare l’autorimessa ai sensi della legge n.
122/1989, come quella, appunto, progettata dalle ricorrenti.
L’immobile in relazione al quale è stata chiesta la
realizzazione di un garage nel sottosuolo ai sensi della
c.d. “legge Tognoli” è sito in zona agricola (zone
boscate normali) e questa circostanza si appalesa decisiva
ai fini della non accoglibilità della richiesta avanzata
dalle ricorrenti.
Invero, la possibilità di realizzare parcheggi da destinare
a pertinenze di unità immobiliari, anche in deroga agli
strumenti urbanistici e ai regolamenti edilizi vigenti è sì
prevista dall’art. 9 della legge n. 122/1989, ma in
concreto, trattandosi di una disposizione di carattere
eccezionale, è applicabile unicamente solo alle aree urbane
e non, come a quella delle ricorrenti, alle aree poste in
zona extra urbana.
In tale senso si è più volte espressa la giurisprudenza
(Cons. Stato Sezione V 11/11/2004 n. 7324; Tar Veneto
Sezione II 06/09/2002 n. 5229, questa stessa Sezione
07/06/2002 n. 1173) e sul punto il Collegio non ha motivo di
discostarsi dal su illustrato orientamento interpretativo.
In particolare, avuto riguardo alle finalità della legge n.
122/1989, collegate all’esigenza di favorire il
decongestionamento dei centri urbani mediante la
realizzazione di parcheggi in sottosuolo, la norma di cui al
citato art. 9 è di stretta interpretazione con la
conseguenza che il regime di favore da essa recato è
applicabile unicamente alle aree urbane (cfr. sentenza n.
1174/2002 di questa Sezione già citata).
Correttamente dunque, l’Amministrazione comunale con gli
atti in contestazione ha opposto il proprio diniego
rilevando l’impossibilità per un’area sita in zona agricola
di realizzare l’autorimessa ai sensi della legge n.
122/1989, come quella, appunto, progettata dalle ricorrenti.
Quanto, poi, al riferimento pure contenuto nel parere
contrario della CEC circa la pretesa alterazione dello stato
dei luoghi dal punto di vista ambientale, è indubbio che
l’immobile è collocato in zona sottoposta a vincolo
paesaggistico e comunque, al di là dell’apprezzamento
espresso dalla Commissione in ordine "all’impatto
ambientale” pure in ipotesi possibile, il diniego di
rilascio di concessione risulta legittimamente giustificato
e sufficientemente motivato in relazione alla espressa
preclusione all’applicabilità della norma di cui all’art. 9
già menzionato per le autorimesse da realizzarsi in area
extraurbana.
Per le suesposte considerazioni il ricorso si appalesa
infondato e va, perciò, respinto (TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 29.05.2007 n. 817 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: Deve
osservare il Collegio che se “il comma 1 dell'art. 9 l.
24.03.1989 n. 122 (nel testo originario) era stato già
interpretato dalla giurisprudenza nel senso che consentisse
la realizzazione di parcheggi in deroga agli strumenti
urbanistici ed ai regolamenti edilizi, anche se collocati in
cortili o aree esterne adiacenti al fabbricato, e senza
necessità di osservanza delle norme di piano sulle distanze
dai confini; interpretazione che poi ha ricevuto il conforto
normativo dall'art. 17, comma 90, l. 15.05.1997 n. 127”,
allora se ne deve dedurre che non può essere condivisa la
tesi (pure sostenuta da alcune pronunce di merito) sulla
natura eccezionale della norma e sulla conseguente natura
tassativa delle sue previsioni e delle sue elencazioni.
Considerate le finalità di pubblico interesse dei parcheggi
a servizio degli edifici residenziali, desumibili dalle
disposizioni di cui alla legge 1150/1942, art. 41-sexies,
per come modificato dall'art. 18 l. 06.08.1967 n. 765 deve
quindi disattendersi l'argomento difensivo della
interveniente secondo il quale non sarebbero possibili
interpretazioni del termine “sottosuolo”, diverse dal tenore
strettamente letterale e compatibili con una condizione del
manufatto di “seminterrato”.
In tal senso, la norma è di stretta interpretazione quanto
alle condizioni espresse della sua applicazione: essa quindi
si applicherà solo con riferimento a posteggi pertinenziali
“nel senso che devono essere al servizio di *singole unità
immobiliari*” nonché in favore dei soli “residenti”,
implicando la coincidenza soggettiva tra i richiedenti ed i
proprietari dell'immobile, dal momento che il legislatore ha
inteso prevedere la deroga al regime urbanistico e
concessorio (ossia introducendo un regime semplificato ed a
titolo gratuito) per i soli residenti e non per tutti gli
usi dell'immobile come ad es. quello commerciale.
Quanto invece al regime interpretativo del termine
“sottosuolo” ritiene il Collegio che non si possa che
aderire a quelle massime che considerano il box interrato su
due lati come compreso nella sfera di applicazione della
norma in esame, riportate dalla difesa della ricorrente, per
due ordini di ragioni.
Il primo è testuale. Recita infatti la norma: “I
proprietari di immobili possono realizzare nel sottosuolo
degli stessi ovvero nei locali siti al piano terreno dei
fabbricati parcheggi da destinare a pertinenza delle singole
unità immobiliari, anche in deroga agli strumenti
urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti. Tali
parcheggi possono essere realizzati, ad uso esclusivo dei
residenti, anche nel sottosuolo di aree pertinenziali
esterne al fabbricato, purché non in contrasto con i piani
urbani del traffico, tenuto conto dell'uso della superficie
sovrastante e compatibilmente con la tutela dei corpi
idrici. Restano in ogni caso fermi i vincoli previsti dalla
legislazione in materia paesaggistica ed ambientale ed i
poteri attribuiti dalla medesima legislazione alle regioni e
ai Ministeri dell'ambiente e per i beni culturali ed
ambientali…(omississ)”.
La norma pone dunque limiti espressi e precisi, quali
condizioni della facoltà dei privati di utilizzare il
sottosuolo delle aree pertinenziali: ossia il rispetto dei
piani urbani del traffico, il rispetto della tutela
paesaggistica ed ambientale e la tutela dei corpi idrici.
All'interno di queste “coordinate” non si comprende quale
ragione teleologica possa consentire all'interprete di
affermare che il termine “sottosuolo” sia equivalente (con
esclusività) alla locuzione “totalmente interrato”. Tale
interpretazione appare infatti solo il frutto di una lettura
“semantica” del termine, lettura che, anche sotto questo
aspetto, presenta peraltro evidenti limiti.
Vero è che, di norma, il termine “sottosuolo” sta ad
indicare la porzione di spazio sottostante il piano di
calpestio, o di campagna; ma è altrettanto vero che se il
terreno è ad andamento non pianeggiante o irregolare, come
avviene nel caso di specie ove è pacifico in punto di fatto
che attorno alla zona oggetto di insediamento del manufatto,
sussistono quote altimetriche differenti, allora nella
stessa locuzione indicata non può che intendersi ricompreso
anche il senso di “porzioni di spazio sottostante ad alcune
quote di livello e coincidenti o sovrastanti ad altre”.
In altri termini e sotto un secondo profilo, quello
che appare essenziale, ai fini del rispetto della norma sul
punto e delle finalità di decongestione del parcheggio
veicolare su strade urbane (elemento, questo sì, di stretta
interpretazione laddove la norma non è applicabile in
ipotesi di edifici in zona agricola o comunque extraurbani)
è che il garage sia realizzato utilizzando aree
pertinenziali all'edificio residenziale cui è a servizio,
che sia vincolato con destinazione non modificabile, non sia
suscettibile cioè di vendita separata e che rispetti le
esigenze inderogabili individuate dalla stessa norma.
Nel rispetto di queste, trovano spazio le finalità di
preminente interesse pubblico che hanno spinto il
legislatore a costituire un regime normativo di favore per
incentivare i privati a ricorrere a posteggi “all'esterno”
della sede stradale e qualsiasi limitazione alla
realizzazione di questo interesse pubblico, diversa dai
limiti già previsti dalla norma, deve intendersi come non
compatibile con le finalità in esame.
Sotto il profilo ricostruttivo della fattispecie, poi, ai
fini delle volumetrie e delle cubature, si richiede che il
garage sia posto al di sotto del piano di campagna, ragione
per cui si giustifica la deroga allo strumento urbanistico
ed al regolamento edilizio. Ma se il piano di calpestio o di
campagna è inserito in un contesto ad andatura irregolare,
ossia possiede diversi livelli di calpestio, allora deve
essere preso a riferimento un piano prevalente, a meno di
non voler sostenere che debba essere interamente sottostante
al piano più basso in assoluto.
Se dev'essere dunque individuato un piano prevalente, ossia
una quota “zero” di riferimento, questo non può che essere
individuato in quello dell'abitazione di cui è pertinenza,
considerando la destinazione quale vincolo edilizio ed
urbanistico atto ad associare la “potenziale” volumetria ad
un immobile assentito già esistente e quindi creare un
“unicum” edilizio.
Quindi appare condivisibile la tesi della interpretabilità
estensiva della norma sul punto del termine “sottosuolo”,
secondo la quale ad un box seminterrato (ossia interrato per
almeno due lati) è applicabile l'art. 9 cit.; (si aggiunge)
che nel caso di un andamento del suolo non pianeggiante, ciò
è possibile a patto che il manufatto sia sottostante al
piano di calpestio del “piano terra” del fabbricato
principale. Ciò che sul piano della fattispecie dedotta in
giudizio appare convincente, quanto alla fondatezza della
tesi della ricorrente, è che il manufatto è del tutto
sottostante alla quota di calpestio del giardino della
abitazione cui è a servizio.
I) Con il quarto motivo di ricorso, terzo motivo
aggiunto, deduce la ricorrente che l'Amministrazione,
nell'annullare il provvedimento ampliativo a suo tempo
rilasciato, avrebbe errato nel non considerare applicabile
alla fattispecie in esame l'art. 9, comma I, l. 24.03.1989,
n. 122. Il provvedimento di annullamento, infatti, sarebbe
motivato, in punto di diritto, con riferimento alla
circostanza che, non essendo il garage totalmente interrato,
non sussisterebbero le condizioni previste dalla legge per
l'autorizzazione in deroga alla normativa urbanistica
(strumenti urbanistici e regolamento edilizio).
Tale motivazione sarebbe errata in quanto secondo la
giurisprudenza richiamata dalla ricorrente (Cons. Stato, V,
03.07.1995 n. 1007 e TAR Piemonte, 04.06.2003, nr. 831) la
dizione di cui all'art. 9 cit. sarebbe da interpretarsi
estensivamente, ricomprendendo anche la tipologia dei box
seminterrati nella sua sfera di applicazione. In punto di
fatto, deduce ancora la ricorrente, essendo il manufatto
realizzato interrato sui due lati ed inferiore alla quota di
calpestio del giardino di proprietà della ricorrente, cui lo
stesso garage accede pertinenzialmente, le condizioni
imposte dalla norma sarebbero rispettate.
Oppongono l'Amministrazione resistente e l'interveniente che
la natura eccezionale della norma invocata dalla ricorrente,
ne impone una interpretazione letterale e rigorosa,
conducendo l'interprete a dover ritenere che siano
ammissibili, quanto ai garage esterni ricadenti su terreno
di proprietà, pertinenza dell'edificio, solo il tipo dei
garage interamente interrati. Anche la difesa della
resistente allega massime giurisprudenziali ad essa
favorevoli (cfr. tra le altre TAR Molise, 05.03.2004, nr.
141, TAR Calabria Catanzaro, II, 14.11.2002, n. 2921; CdS,
V, 29.03.2004, nr. 1662).
Secondo la difesa del Comune, inoltre, la interpretazione
estensiva cui fa riferimento la ricorrente sarebbe stata
sostenuta da arresti giurisprudenziali anteriori alla
riforma di cui alla legge 127/1997 che ha previsto, all'art.
17, comma 90, la modifica dell'art. 9 della legge 122/1989,
inserendo in essa la previsione della possibilità di
realizzare i parcheggi interrati nel sottosuolo delle aree
pertinenziali; detta riforma avrebbe perciò assorbito (ed
esaurito nella sua previsione tassativa e di stretto rigore
interpretativo) la portata innovativa delle pronunce cui si
rifà il ricorrente. Analogamente, anche la difesa
dell'interveniente sostiene la non applicabilità della legge
Tognoli al caso di specie, rifacendosi anch'essa a pronunce
di segno contrario alla tesi del ricorrente (tra le quali in
particolare, CGA, 26.06.2000, nr. 29 che afferma la non
applicabilità dell'art. 9 l. cit. a struttura autonoma
seppure per due lati interrata).
Nella memoria depositata il 26.04.2005, la ricorrente, oltre
a ribadire le proprie argomentazioni difensive, allegando
altra pronuncia favorevole (TAR Lazio, Roma, II, 22.05.1998,
nr. 979), contesta le tesi difensive delle parti resistenti,
deducendo che le massime riportate a loro dimostrazione sono
riferibili tutte a situazioni diverse da quella in esame.
Particolarmente con riferimento alla decisione del CGA
299/2000, rileva che si tratta di fattispecie di fatto
verificatasi prima dell'entrata in vigore della modifica di
cui alla legge 127/1997 e quindi con riferimento alla
precedente versione dell'art. 9 cit. Gli altri casi
sarebbero riconducibili a box interamente fuori terra o
effettuati dietro “riporto di terra”.
Le repliche ulteriori delle parti resistenti insistono nella
interpretazione del termine “sottosuolo” come
inconciliabile con l'esistenza di un manufatto interrato
solo per due lati (ed uno di questi riportante una
differenza di trenta centimetri).
Come anticipato sopra, la risoluzione della questione in
esame appare pregiudiziale rispetto all'esame delle
questioni inerenti il punto 2 e 3 del ricorso (e
corrispondenti motivi aggiunti), nonché, correlativamente,
il punto 4 dei motivi aggiunti.
Osserva il Collegio che, in merito all'applicazione
dell'art. 9 della legge 122/1989, le difese delle parti
hanno esaustivamente e con chiarezza ricostruito tutti i
termini giuridici delle rispettive tesi, suffragandole con
ampia giurisprudenza, al punto che in questa sede è
sufficiente richiamarne le conclusioni.
Intanto, deve osservare il Collegio che se “il comma 1
dell'art. 9 l. 24.03.1989 n. 122 (nel testo originario) era
stato già interpretato dalla giurisprudenza nel senso che
consentisse la realizzazione di parcheggi in deroga agli
strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi, anche se
collocati in cortili o aree esterne adiacenti al fabbricato,
e senza necessità di osservanza delle norme di piano sulle
distanze dai confini; interpretazione che poi ha ricevuto il
conforto normativo dall'art. 17, comma 90, l. 15.05.1997 n.
127” (TAR Campania, Salerno, II 07.04.2003, nr. 243),
allora se ne deve dedurre che non può essere condivisa la
tesi (pure sostenuta da alcune pronunce di merito) sulla
natura eccezionale della norma e sulla conseguente natura
tassativa delle sue previsioni e delle sue elencazioni.
Considerate le finalità di pubblico interesse dei parcheggi
a servizio degli edifici residenziali, desumibili dalle
disposizioni di cui alla legge 1150/1942, art. 41-sexies,
per come modificato dall'art. 18 l. 06.08.1967 n. 765 deve
quindi disattendersi l'argomento difensivo della
interveniente secondo il quale non sarebbero possibili
interpretazioni del termine “sottosuolo”, diverse dal
tenore strettamente letterale e compatibili con una
condizione del manufatto di “seminterrato”.
In tal senso, la norma è di stretta interpretazione quanto
alle condizioni espresse della sua applicazione: essa quindi
si applicherà solo con riferimento a posteggi pertinenziali
“nel senso che devono essere al servizio di *singole
unità immobiliari*” (Consiglio Stato, sez. VI,
17.02.2003, n. 844) nonché in favore dei soli “residenti”,
implicando la coincidenza soggettiva tra i richiedenti ed i
proprietari dell'immobile (TAR Piemonte, I, 05.03.2003, nr.
338), dal momento che il legislatore ha inteso prevedere la
deroga al regime urbanistico e concessorio (ossia
introducendo un regime semplificato ed a titolo gratuito)
per i soli residenti e non per tutti gli usi dell'immobile
come ad es. quello commerciale (Consiglio Stato, sez. VI,
17.02.2003, n. 844).
Quanto invece al regime interpretativo del termine “sottosuolo”
ritiene il Collegio che non si possa che aderire a quelle
massime che considerano il box interrato su due lati come
compreso nella sfera di applicazione della norma in esame,
riportate dalla difesa della ricorrente, per due ordini
di ragioni.
Il primo è testuale. Recita infatti la norma: “I
proprietari di immobili possono realizzare nel sottosuolo
degli stessi ovvero nei locali siti al piano terreno dei
fabbricati parcheggi da destinare a pertinenza delle singole
unità immobiliari, anche in deroga agli strumenti
urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti. Tali
parcheggi possono essere realizzati, ad uso esclusivo dei
residenti, anche nel sottosuolo di aree pertinenziali
esterne al fabbricato, purché non in contrasto con i piani
urbani del traffico, tenuto conto dell'uso della superficie
sovrastante e compatibilmente con la tutela dei corpi
idrici. Restano in ogni caso fermi i vincoli previsti dalla
legislazione in materia paesaggistica ed ambientale ed i
poteri attribuiti dalla medesima legislazione alle regioni e
ai Ministeri dell'ambiente e per i beni culturali ed
ambientali…(omississ)”.
La norma pone dunque limiti espressi e precisi, quali
condizioni della facoltà dei privati di utilizzare il
sottosuolo delle aree pertinenziali: ossia il rispetto dei
piani urbani del traffico, il rispetto della tutela
paesaggistica ed ambientale e la tutela dei corpi idrici.
All'interno di queste “coordinate” non si comprende
quale ragione teleologica possa consentire all'interprete di
affermare che il termine “sottosuolo” sia equivalente
(con esclusività) alla locuzione “totalmente interrato”.
Tale interpretazione appare infatti solo il frutto di una
lettura “semantica” del termine, lettura che, anche
sotto questo aspetto, presenta peraltro evidenti limiti.
Vero è che, di norma, il termine “sottosuolo” sta ad
indicare la porzione di spazio sottostante il piano di
calpestio, o di campagna; ma è altrettanto vero che se il
terreno è ad andamento non pianeggiante o irregolare, come
avviene nel caso di specie ove è pacifico in punto di fatto
che attorno alla zona oggetto di insediamento del manufatto,
sussistono quote altimetriche differenti, allora nella
stessa locuzione indicata non può che intendersi ricompreso
anche il senso di “porzioni di spazio sottostante ad
alcune quote di livello e coincidenti o sovrastanti ad altre”.
In altri termini e sotto un secondo profilo, quello
che appare essenziale, ai fini del rispetto della norma sul
punto e delle finalità di decongestione del parcheggio
veicolare su strade urbane (elemento, questo sì, di stretta
interpretazione, cfr. TAR Veneto, II, 06.09.2002, nr. 5229,
secondo il quale la norma non è applicabile in ipotesi di
edifici in zona agricola o comunque extraurbani) è che il
garage sia realizzato utilizzando aree pertinenziali
all'edificio residenziale cui è a servizio, che sia
vincolato con destinazione non modificabile, non sia
suscettibile cioè di vendita separata e che rispetti le
esigenze inderogabili individuate dalla stessa norma.
Nel rispetto di queste, trovano spazio le finalità di
preminente interesse pubblico che hanno spinto il
legislatore a costituire un regime normativo di favore per
incentivare i privati a ricorrere a posteggi “all'esterno”
della sede stradale e qualsiasi limitazione alla
realizzazione di questo interesse pubblico, diversa dai
limiti già previsti dalla norma, deve intendersi come non
compatibile con le finalità in esame.
Sotto il profilo ricostruttivo della fattispecie, poi, ai
fini delle volumetrie e delle cubature, si richiede che il
garage sia posto al di sotto del piano di campagna, ragione
per cui si giustifica la deroga allo strumento urbanistico
ed al regolamento edilizio. Ma se il piano di calpestio o di
campagna è inserito in un contesto ad andatura irregolare,
ossia possiede diversi livelli di calpestio, allora deve
essere preso a riferimento un piano prevalente, a meno di
non voler sostenere che debba essere interamente sottostante
al piano più basso in assoluto.
Se dev'essere dunque individuato un piano prevalente, ossia
una quota “zero” di riferimento, questo non può che
essere individuato in quello dell'abitazione di cui è
pertinenza, considerando la destinazione quale vincolo
edilizio ed urbanistico atto ad associare la “potenziale”
volumetria ad un immobile assentito già esistente e quindi
creare un “unicum” edilizio.
Quindi appare condivisibile la tesi della interpretabilità
estensiva della norma sul punto del termine “sottosuolo”,
secondo la quale ad un box seminterrato (ossia interrato per
almeno due lati) è applicabile l'art. 9 cit.; (si aggiunge)
che nel caso di un andamento del suolo non pianeggiante, ciò
è possibile a patto che il manufatto sia sottostante al
piano di calpestio del “piano terra” del fabbricato
principale. Ciò che sul piano della fattispecie dedotta in
giudizio appare convincente, quanto alla fondatezza della
tesi della ricorrente, è che il manufatto è del tutto
sottostante alla quota di calpestio del giardino della
abitazione cui è a servizio.
Tale circostanza, oltre che pacifica nelle ricostruzioni
descrittive dello stato dei luoghi contenute negli atti
dell'Amministrazione e nelle deduzioni delle parti, è del
pari resa con immediata evidenza nella produzione
fotografica allegata alla relazione depositata con il
ricorso - punto 14, fotografia nr. 4 e 5, lati est e nord ad
opera ultimata.
Dall'esame degli atti si evince chiaramente che il manufatto
possiede i due lati interrati ed è sottostante il piano del
giardino dell'edificio cui è a servizio, costituendone una
parte integrante non suscettibile di essere considerata un
corpo aggiunto o un volume. Sul punto, non vale osservare,
come fanno le resistenti, che circa uno dei due lati
interrati esiste una differenza di 30 cm rispetto al piano
di calpestio; a parte la rilevanza della differenza ai fini
del regime applicabile in tema di difformità tra il titolo
ed il manufatto, aspetto sul quale si tornerà oltre, si deve
osservare che un eventuale dislivello minimo e contenuto tra
il manufatto stesso ed il piano di calpestio, può apparire
rilevante solo ad una lettura formale ed acritica della
norma che dimentichi la necessaria valorizzazione delle
esigenze di interesse pubblico ampiamente illustrate sopra.
Da tutti questi aspetti deriva che il ricorso, sul punto, è
fondato; ne dovrebbe derivare, a rigore, anche una pronuncia
di “assorbimento” dei motivi indicati in ricorso al
punto 2 (e punto 1 dei motivi aggiunti), in quanto,
all'evidenza, la insussistenza del profilo di illegittimità
del provvedimento annullato rende superflua ogni
considerazione in ordine alla necessità che il provvedimento
di annullamento sia sostenuto dalle motivazioni attuali
circa l'interesse pubblico.
Tuttavia, il collegio ritiene di dover rilevare in merito a
ciò un aspetto particolare, legato alla ricostruzione della
normativa applicabile per come sopra indicata
(TAR
Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 03.10.2005 n. 1531 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sull'annullamento del provvedimento abilitativo circa la
costruzione di un box in deroga ex lege n. 122/1989.
La circostanza che sul problema della
interpretazione dell'art. 9 l. 122/1989 sussista
giurisprudenza diversa, nonché profili di ampio contenuto e
di diverse possibili tesi ricostruttive, implica che avendo
dapprima autorizzato il manufatto sulla base dell'art. 9
della legge Tognoli, l'Amministrazione avrebbe dovuto ancora
più ampiamente dare conto delle ragioni di interesse
pubblico che l'hanno consigliata sia alla diversa
interpretazione e sia alla rimozione del precedente
provvedimento.
Non è sufficiente, infatti, addurre presunte false
rappresentazioni o inesatte indicazioni tecniche inerenti
una pretesa esistenza (o assenza) del terzo muro interrato o
assenza di quote grafiche nel progetto per dare conto di
quale interesse pubblico preminente giustifichi la rinuncia
alla realizzazione di un manufatto che, per condizioni e per
localizzazione, assicura il rispetto di quelle
(inderogabili) finalità di legge già viste sopra.
Né appare sufficiente richiamare il “rispetto della legalità
violata” per motivare l'annullamento del titolo abilitativo
a manufatto realizzato, dopo aver consacrato una valutazione
positiva della istanza in un provvedimento assistito dalla
presunzione di legittimità e quindi come tale pienamente
suscettibile di fondare l'affidamento dell'istante non solo
per l'efficacia sua propria, ma anche in virtù della
rilevanza generale che ad esso si riconduce per effetto del
più volte citato art. 9.
Si tratta all'evidenza di un comportamento contrastante con
i canoni della buona fede esecutiva che deve assistere le
parti di un rapporto pubblico amministrativo al pari delle
parti di un contratto, sorgendo dal procedimento
amministrativo un vero e proprio obbligo di tutela
dell'affidamento.
Affidamento che, nella specie, andava ancora maggiormente
garantito in presenza delle precipue finalità di
incentivazione della norma alla realizzazione di parcheggi
privati, nonché delle differenti possibilità interpretative
che la stessa norma, per come visto sopra, consente e
quindi, al contempo, per il maggiore affidamento che da
tutto questo deriva in capo al privato sulle funzioni
certificative proprie dell'Ente nell'esercizio del potere
ampliativo ad esso affidato.
Inoltre, il provvedimento avrebbe dovuto essere congruamente
motivato sul punto dell'interesse pubblico attuale alla
rimozione anche per il deficit di comprensione e
prevedibilità del comportamento dovuto che deriva dalla
possibile diversa possibile interpretazione della norma in
punto di fatto.
II) Circa l'aspetto
appena indicato, si deve rilevare che il ricorso è fondato
per le seguenti considerazioni.
La circostanza che sul problema della interpretazione della
norma su esposta sussista giurisprudenza diversa, nonché
profili di ampio contenuto e di diverse possibili tesi
ricostruttive, implica che avendo dapprima autorizzato il
manufatto sulla base dell'art. 9 della legge Tognoli,
l'Amministrazione avrebbe dovuto ancora più ampiamente dare
conto delle ragioni di interesse pubblico che l'hanno
consigliata sia alla diversa interpretazione e sia alla
rimozione del precedente provvedimento.
Non è sufficiente, infatti, addurre presunte false
rappresentazioni o inesatte indicazioni tecniche inerenti
una pretesa esistenza (o assenza) del terzo muro interrato o
assenza di quote grafiche nel progetto per dare conto di
quale interesse pubblico preminente giustifichi la rinuncia
alla realizzazione di un manufatto che, per condizioni e per
localizzazione, assicura il rispetto di quelle
(inderogabili) finalità di legge già viste sopra.
Né appare sufficiente richiamare il “rispetto della
legalità violata” per motivare l'annullamento del titolo
abilitativo a manufatto realizzato, dopo aver consacrato una
valutazione positiva della istanza in un provvedimento
assistito dalla presunzione di legittimità e quindi come
tale pienamente suscettibile di fondare l'affidamento
dell'istante non solo per l'efficacia sua propria, ma anche
in virtù della rilevanza generale che ad esso si riconduce
per effetto del più volte citato art. 9.
Si tratta all'evidenza di un comportamento contrastante con
i canoni della buona fede esecutiva che deve assistere le
parti di un rapporto pubblico amministrativo al pari delle
parti di un contratto, sorgendo dal procedimento
amministrativo un vero e proprio obbligo di tutela
dell'affidamento. Affidamento che, nella specie, andava
ancora maggiormente garantito in presenza delle precipue
finalità di incentivazione della norma alla realizzazione di
parcheggi privati, nonché delle differenti possibilità
interpretative che la stessa norma, per come visto sopra,
consente e quindi, al contempo, per il maggiore affidamento
che da tutto questo deriva in capo al privato sulle funzioni
certificative proprie dell'Ente nell'esercizio del potere
ampliativo ad esso affidato.
Inoltre, il provvedimento avrebbe dovuto essere congruamente
motivato sul punto dell'interesse pubblico attuale alla
rimozione anche per il deficit di comprensione e
prevedibilità del comportamento dovuto che deriva dalla
possibile diversa possibile interpretazione della norma in
punto di fatto.
Ne consegue, dunque che il ricorso è fondato in relazione ad
entrambi i profili esposti
(TAR
Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 03.10.2005 n. 1531 -
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EDILIZIA PRIVATA: Alla
luce dell’orientamento condiviso dal Collegio, deve
ritenersi che lo spargimento di ghiaia su un'area che ne era
in precedenza priva richiede la concessione edilizia
allorché appaia preordinata alla modifica della precedente
destinazione d'uso (circostanza questa che deve fondarsi su
fatti positivamente accertati).
Tale indirizzo, peraltro, risulta corroborato dalla
risalente interpretazione del Giudice penale, secondo cui
deve ritenersi soggetto a concessione lo spianamento di un
terreno agricolo ed il riporto di sabbia e ghiaia, al fine
di ottenerne un piazzale per deposito e smistamento di
autocarri e containers (cfr. altresì <<è legittimo il
provvedimento del sindaco che ordini la riduzione in
pristino di un'area destinata, in base al piano regolatore,
a verde pubblico, che sia stata coperta di ghiaia, per
essere destinata a parcheggio).
Per esigenze di completezza si osserva che la tesi
abbracciata dal Collegio sembra, oggi, avere un testuale
riscontro nel nuovo Testo unico in materia edilizia –D.P.R.
n. 380/2001- (che non ha certo potenzialità applicativa e di
risoluzione del caso in esame, ma che può rappresentare un
valido ausilio interpretativo, specie ove “codifica” un
orientamento giurisprudenziale pregresso): l’art. 3, in
materia di definizione degli interventi edilizi, assoggetta
a permesso di costruire –ascrivendole al genus delle nuove
costruzioni- <<la realizzazione di infrastrutture e di
impianti, anche per pubblici servizi, che comporti la
trasformazione in via permanente di suolo inedificato>>
(lett. e.3) e <<la realizzazione di depositi di merci o di
materiali, la realizzazione di impianti per attività
produttive all'aperto ove comportino l'esecuzione di lavori
cui consegua la trasformazione permanente del suolo
inedificato>> (e.7); si tratta, come è facile rilevare, di
interventi privi di connotazione strettamente edilizia e,
nondimeno, assoggettati a titolo abilitativo.
2. Il Collegio ritiene prioritario valutare e decidere se,
in ordine all’intervento realizzato dall’appellante e per la
sanatoria del quale è causa, fosse necessario il rilascio di
titolo concessorio, come ritiene il Comune appellato.
Deve essere preliminarmente osservato che, secondo la
disciplina normativa (articolo 1 -Trasformazione urbanistica
del territorio e concessione di edificare– L. n. 10/1977;
l’articolo in esame è stato abrogato dall'art. 136, comma 1
e 2, d.p.r. 06.06.2001, n. 380, a decorrere dal 30.06.2003,
ai sensi dell'art. 3, d.l. 20.06.2002, n. 122, conv., con
modificazioni, in l. 01.08.2002, n. 185) <<Ogni attività
comportante trasformazione urbanistica ed edilizia del
territorio comunale partecipa agli oneri ad essa relativi e
la esecuzione delle opere è subordinata a concessione da
parte del sindaco, ai sensi della presente legge>>.
L’interpretazione del dato normativo richiamato non è stata
affatto pacifica.
Invero, la giurisprudenza e la dottrina hanno elaborato
due indirizzi ermeneutici: secondo il primo,
andrebbero assoggettati a titolo abilitativo solo gli
interventi di portata -simultaneamente– urbanistica ed
edilizia. Invero, osservano i fautori della tesi in esame,
l’uso congiunto delle due espressioni (urbanistica ed
edilizia) nel citato articolo escluderebbe l’assoggettamento
al previo rilascio del titolo degli interventi che, pur non
mancando di impatto urbanistico, siano privi di consistenza
materiale di opere edilizie.
Secondo l’opposto indirizzo, l’art. 1 l. 28.01.1977
n. 10 sulla edificabilità dei suoli, che pone la regola
della soggezione a concessione di ogni attività comportante
trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, non
comprende le sole attività di edificazione, ma tutte quelle
consistenti in una modificazione dello stato materiale e
della conformazione del suolo per adattarlo ad un impiego
diverso da quello che gli è proprio in relazione alla sua
condizione naturale ed alla sua qualificazione giuridica
(cfr.: Cons. Stato, sez. V, 31/01/2001, n. 343; Cons. Stato,
sez. V, 20/12/1999, n. 2125; Cons. Stato, sez. V,
01/03/1993, n. 319; tale orientamento è condiviso anche
dalla giurisprudenza ordinaria: cfr. Cass. pen., 14/10/1988;
Cass. pen., sez. III, 24/10/1997, n. 10709; Cass. pen., sez.
VI, 24/07/1997, n. 8520).
La giurisprudenza favorevole a tale tesi ha aggiunto che
l’art. 1 l. 28.01.1977 n. 10 impone al soggetto attuatore di
munirsi di concessione edilizia per ogni attività che
comporti la trasformazione del territorio attraverso
l'esecuzione di opere comunque attinenti agli aspetti
urbanistici ed edilizi, ove il mutamento e l'alterazione
abbiano un qualche rilievo ambientale ed estetico, o solo
funzionale (cfr. la recente Cons. Stato, sez. VI,
26/09/2003, n. 5502).
Pertanto, è soggetto a concessione edilizia ogni intervento
sul territorio, preordinato alla perdurante modificazione
dello stato dei luoghi con materiale posto sul suolo, pur in
assenza di opere in muratura (Cons. Stato, sez. V,
06/04/1998, n. 415; cfr. altresì: <<la concessione
edilizia è richiesta sia quando vi sia la realizzazione di
opere murarie, sia quando si intenda realizzare un
intervento sul territorio che, pur non richiedendo opere in
muratura, comporti la perdurante modifica dello stato dei
luoghi con materiale posto sul suolo>> Cons. Stato, sez.
V, 14/12/1994, n. 1486; Cons. Stato, sez. VI, 27/01/2003, n.
419).
E’ ben vero che, secondo un precedente citato dall’appellante,
questo Consesso ha ritenuto che non integra l'ipotesi di
trasformazione urbanisticamente rilevante del territorio,
soggetta a concessione ex art. 1 l. n. 10 del 1977,
l'intervento materialmente consistente nella mera ripulitura
di un terreno parzialmente erboso, con ripristino di una
recinzione preesistente e spargimento di ghiaia, a nulla
rilevando, sotto il profilo urbanistico, la conseguente
utilizzazione del suolo così ripulito e riordinato
all'esposizione di autovetture a scopi commerciali (Cons.
Stato, sez. IV, 08/03/1983, n. 103).
Tuttavia, alla luce dell’orientamento condiviso dal
Collegio, deve ritenersi che lo spargimento di ghiaia su
un'area che ne era in precedenza priva richiede la
concessione edilizia allorché appaia preordinata alla
modifica della precedente destinazione d'uso (circostanza
questa che deve fondarsi su fatti positivamente accertati).
Tale indirizzo, peraltro, risulta corroborato dalla
risalente interpretazione del Giudice penale, secondo cui
deve ritenersi soggetto a concessione lo spianamento di un
terreno agricolo ed il riporto di sabbia e ghiaia, al fine
di ottenerne un piazzale per deposito e smistamento di
autocarri e containers (Cass. pen., 09/06/1982; cfr. altresì
<<è legittimo il provvedimento del sindaco che ordini la
riduzione in pristino di un'area destinata, in base al piano
regolatore, a verde pubblico, che sia stata coperta di
ghiaia, per essere destinata a parcheggio>> Cons. Stato,
sez. II, 15/02/1989, n. 18/89).
Per esigenze di completezza si osserva che la tesi
abbracciata dal Collegio sembra, oggi, avere un testuale
riscontro nel nuovo Testo unico in materia edilizia –D.P.R.
n. 380/2001- (che non ha certo potenzialità applicativa e di
risoluzione del caso in esame, ma che può rappresentare un
valido ausilio interpretativo, specie ove “codifica”
un orientamento giurisprudenziale pregresso): l’art. 3, in
materia di definizione degli interventi edilizi, assoggetta
a permesso di costruire –ascrivendole al genus delle
nuove costruzioni- <<la realizzazione di infrastrutture e
di impianti, anche per pubblici servizi, che comporti la
trasformazione in via permanente di suolo inedificato>>
(lett. e.3) e <<la realizzazione di depositi di merci o
di materiali, la realizzazione di impianti per attività
produttive all'aperto ove comportino l'esecuzione di lavori
cui consegua la trasformazione permanente del suolo
inedificato>> (e.7); si tratta, come è facile rilevare,
di interventi privi di connotazione strettamente edilizia e,
nondimeno, assoggettati a titolo abilitativo.
Significativa è, poi, la previsione dell’art. 10, comma 2,
secondo cui <<Le regioni stabiliscono con legge quali
mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche,
dell'uso di immobili o di loro parti, sono subordinati a
permesso di costruire o a denuncia di inizio attività>>.
L’intervento per cui è causa, alla luce delle superiori
considerazioni, era assoggettato a rilascio di titolo
concessorio
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 11.11.2004 n. 7325 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La possibilità di realizzare parcheggi da
destinare a pertinenze delle singole unità immobiliari anche
in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti
edilizi vigenti, consentita dall'art. 9 l. n. 122 del 1989
(c.d. Legge Tognoli) costituisce disposizione di carattere
eccezionale da interpretarsi nel suo significato
strettamente letterale ed in considerazione delle finalità
della legge nel cui contesto risulta inserita.
Pertanto tale articolo è applicabile alla costruzione di
spazi parcheggio nelle sole aree urbane, mentre la
realizzazione di parcheggi in aree extraurbane resta
soggetta alle ordinarie prescrizioni urbanistiche ed
edilizie necessitando della normale concessione edilizia.
3. E’ inconferente il richiamo operato dall’odierno
appellante alle previsioni racchiuse nella L. n. 122/1989.
Invero, la possibilità di realizzare parcheggi da destinare
a pertinenze delle singole unità immobiliari anche in deroga
agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi
vigenti, consentita dall'art. 9 l. n. 122 del 1989 (c.d.
Legge Tognoli), costituisce disposizione di carattere
eccezionale da interpretarsi nel suo significato
strettamente letterale ed in considerazione delle finalità
della legge nel cui contesto risulta inserita.
Pertanto tale articolo è applicabile alla costruzione di
spazi parcheggio nelle sole aree urbane, mentre la
realizzazione di parcheggi in aree extraurbane resta
soggetta alle ordinarie prescrizioni urbanistiche ed
edilizie necessitando della normale concessione edilizia
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 11.11.2004 n. 7325 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai sensi dell'art. 7 l. 25.03.1982 n. 94 un'opera
che abbia natura pertinenziale è soggetta all'autorizzazione
gratuita anziché alla concessione edilizia; ma senza deroga
alla regola generale che impone la conformità delle
iniziative edilizie a quanto stabilito dagli strumenti
urbanistici, limitando, al contrario, l'art. 7 cit. il
rilascio dell'autorizzazione alle opere <<conformi alle
prescrizioni degli strumenti urbanistici vigenti.
---------------
- La nozione di pertinenza dettata dal diritto civile è più
ampia di quella che regola la materia urbanistica, onde beni
che, secondo quella normativa, assumono senz'altro natura
pertinenziale tali invece non sono ai fini dell'applicazione
delle regole ch e governano l'attività edilizia.
- Considerata la nozione di pertinenza urbanistica, quali
possono considerarsi solo manufatti di dimensioni modeste e
ridotte rispetto alla casa a cui sono annessi, non può
essere permessa la costruzione di opere di rilevante
importanza soltanto perché destinate al servizio ed
all'ornamento del bene principale; ed è perciò necessaria la
concessione edilizia per l'esecuzione di opere che da un
punto di vista edilizio ed urbanistico sono da considerarsi
come ulteriori rispetto al bene principale, poiché occupano
aree e volumi diversi.
- Soggiace a concessione edilizia la realizzazione di
un'opera di rilevanti dimensioni, che modifica l'assetto del
territorio e che occupa aree e volumi diversi rispetto alla
"res principalis", indipendentemente dal vincolo di servizio
o d'ornamento nei riguardi di essa.
4. Del pari inconferente è il richiamo operato
dall’appellante alla normativa ex Legge n. 94/1982
(conversione in legge del D.L. n. 9/1982) posto che ai sensi
dell'art. 7 l. 25.03.1982 n. 94 un'opera che abbia natura
pertinenziale è soggetta all'autorizzazione gratuita anziché
alla concessione edilizia; ma senza deroga alla regola
generale che impone la conformità delle iniziative edilizie
a quanto stabilito dagli strumenti urbanistici, limitando,
al contrario, l'art. 7 cit. il rilascio dell'autorizzazione
alle opere <<conformi alle prescrizioni degli strumenti
urbanistici vigenti>> (Cons. Stato, sez. V, 23/06/1997,
n. 704; Cons. Stato, sez. II, 08/05/1996, n. 3029).
In disparte il rilievo della nozione più ristretta di
pertinenza (rispetto a quella accolta dal diritto civile)
propria del diritto amministrativo che non si attaglia
all’intervento per cui è causa (<<La nozione di
pertinenza dettata dal diritto civile è più ampia di quella
che regola la materia urbanistica, onde beni che, secondo
quella normativa, assumono senz'altro natura pertinenziale
tali invece non sono ai fini dell'applicazione delle regole
ch e governano l'attività edilizia>> Cons. Stato, sez.
V, 18/04/2001, n. 2325; <<Considerata la nozione di
pertinenza urbanistica, quali possono considerarsi solo
manufatti di dimensioni modeste e ridotte rispetto alla casa
a cui sono annessi, non può essere permessa la costruzione
di opere di rilevante importanza soltanto perché destinate
al servizio ed all'ornamento del bene principale; ed è
perciò necessaria la concessione edilizia per l'esecuzione
di opere che da un punto di vista edilizio ed urbanistico
sono da considerarsi come ulteriori rispetto al bene
principale, poiché occupano aree e volumi diversi>>
Cons. Stato, sez. V, 30/11/2000, n. 6358; cfr. altresì Cons.
Stato, sez. V, 30/10/2000, n. 5828; <<Soggiace a
concessione edilizia la realizzazione di un'opera di
rilevanti dimensioni, che modifica l'assetto del territorio
e che occupa aree e volumi diversi rispetto alla "res
principalis", indipendentemente dal vincolo di servizio o
d'ornamento nei riguardi di essa>> Cons. Stato, sez. V,
23/03/2000, n. 1600; Cons. Stato, sez. V, 06/09/1999, n.
1015; Cons. Stato, sez. II, 12/05/1999, n. 729; Cons. Stato,
sez. II, 21/02/1996, n. 1895)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 11.11.2004 n. 7325 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza ammette la riconducibilità alla
qualifica di ristrutturazione degli interventi che
comportino incrementi di superficie purché si tratti di
incrementi di lieve entità: fra gli interventi di
ristrutturazione edilizia, previsti dall'art. 31 lett. d) l.
05.08.1978 n. 457, rientrano quelli rivolti a trasformare
gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di
opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto
–o in parte- diverso dal precedente, ma, trattandosi di
interventi di recupero, resta fermo che il nuovo edificio
deve presentare nel suo complesso le caratteristiche
fondamentali di quello abbattuto.
--------------
L'interpretazione della norma giuridica contenuta in una
circolare in nessun caso vincola il giudice.
6. Né può essere
condivisa la tesi secondo cui trattasi di ristrutturazione
edilizia ex art. 31, lett. d), l. n. 457/1978; invero, la
giurisprudenza ammette la riconducibilità alla qualifica di
ristrutturazione degli interventi che comportino incrementi
di superficie –come correttamente rileva l’appellante che
cita dei precedenti giurisprudenziali– purché si tratti di
incrementi di lieve entità: fra gli interventi di
ristrutturazione edilizia, previsti dall'art. 31 lett. d) l.
05.08.1978 n. 457, rientrano quelli rivolti a trasformare
gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di
opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto
–o in parte- diverso dal precedente, ma, trattandosi di
interventi di recupero, resta fermo che il nuovo edificio
deve presentare nel suo complesso le caratteristiche
fondamentali di quello abbattuto (cfr. Cons. Stato, sez. V,
02/12/1998, n. 1714), fra le quali la superficie.
7. Inoltre, il Collegio ritiene di non poter condividere il
pensiero espresso nelle circolari citate dall’appellante,
per le circostanze sopra riportate (si ricordi, a tal
proposito, che l'interpretazione della norma giuridica
contenuta nella circolare in nessun caso vincola il giudice:
Cons. Stato, Sez. IV, 14/09/1988, n. 745)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 11.11.2004 n. 7325 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Deve
osservare il Collegio che se “il comma 1 dell'art. 9 l.
24.03.1989 n. 122 (nel testo originario) era stato già
interpretato dalla giurisprudenza nel senso che consentisse
la realizzazione di parcheggi in deroga agli strumenti
urbanistici ed ai regolamenti edilizi, anche se collocati in
cortili o aree esterne adiacenti al fabbricato, e senza
necessità di osservanza delle norme di piano sulle distanze
dai confini; interpretazione che poi ha ricevuto il conforto
normativo dall'art. 17, comma 90, l. 15.05.1997 n. 127”,
allora se ne deve dedurre che non può essere condivisa la
tesi (pure sostenuta da alcune pronunce di merito) sulla
natura eccezionale della norma e sulla conseguente natura
tassativa delle sue previsioni e delle sue elencazioni.
Considerate le finalità di pubblico interesse dei parcheggi
a servizio degli edifici residenziali, desumibili dalle
disposizioni di cui alla legge 1150/1942, art. 41-sexies,
per come modificato dall'art. 18 l. 06.08.1967 n. 765 deve
quindi disattendersi l'argomento difensivo della
interveniente secondo il quale non sarebbero possibili
interpretazioni del termine “sottosuolo”, diverse dal tenore
strettamente letterale e compatibili con una condizione del
manufatto di “seminterrato”.
In tal senso, la norma è di stretta interpretazione quanto
alle condizioni espresse della sua applicazione: essa quindi
si applicherà solo con riferimento a posteggi pertinenziali
“nel senso che devono essere al servizio di *singole unità
immobiliari*” nonché in favore dei soli “residenti”,
implicando la coincidenza soggettiva tra i richiedenti ed i
proprietari dell'immobile, dal momento che il legislatore ha
inteso prevedere la deroga al regime urbanistico e
concessorio (ossia introducendo un regime semplificato ed a
titolo gratuito) per i soli residenti e non per tutti gli
usi dell'immobile come ad es. quello commerciale.
Quanto invece al regime interpretativo del termine
“sottosuolo” ritiene il Collegio che non si possa che
aderire a quelle massime che considerano il box interrato su
due lati come compreso nella sfera di applicazione della
norma in esame, riportate dalla difesa della ricorrente, per
due ordini di ragioni.
Il primo è testuale. Recita infatti la norma: “I
proprietari di immobili possono realizzare nel sottosuolo
degli stessi ovvero nei locali siti al piano terreno dei
fabbricati parcheggi da destinare a pertinenza delle singole
unità immobiliari, anche in deroga agli strumenti
urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti. Tali
parcheggi possono essere realizzati, ad uso esclusivo dei
residenti, anche nel sottosuolo di aree pertinenziali
esterne al fabbricato, purché non in contrasto con i piani
urbani del traffico, tenuto conto dell'uso della superficie
sovrastante e compatibilmente con la tutela dei corpi
idrici. Restano in ogni caso fermi i vincoli previsti dalla
legislazione in materia paesaggistica ed ambientale ed i
poteri attribuiti dalla medesima legislazione alle regioni e
ai Ministeri dell'ambiente e per i beni culturali ed
ambientali…(omississ)”.
La norma pone dunque limiti espressi e precisi, quali
condizioni della facoltà dei privati di utilizzare il
sottosuolo delle aree pertinenziali: ossia il rispetto dei
piani urbani del traffico, il rispetto della tutela
paesaggistica ed ambientale e la tutela dei corpi idrici.
All'interno di queste “coordinate” non si comprende quale
ragione teleologica possa consentire all'interprete di
affermare che il termine “sottosuolo” sia equivalente (con
esclusività) alla locuzione “totalmente interrato”. Tale
interpretazione appare infatti solo il frutto di una lettura
“semantica” del termine, lettura che, anche sotto questo
aspetto, presenta peraltro evidenti limiti.
Vero è che, di norma, il termine “sottosuolo” sta ad
indicare la porzione di spazio sottostante il piano di
calpestio, o di campagna; ma è altrettanto vero che se il
terreno è ad andamento non pianeggiante o irregolare, come
avviene nel caso di specie ove è pacifico in punto di fatto
che attorno alla zona oggetto di insediamento del manufatto,
sussistono quote altimetriche differenti, allora nella
stessa locuzione indicata non può che intendersi ricompreso
anche il senso di “porzioni di spazio sottostante ad alcune
quote di livello e coincidenti o sovrastanti ad altre”.
In altri termini e sotto un secondo profilo, quello
che appare essenziale, ai fini del rispetto della norma sul
punto e delle finalità di decongestione del parcheggio
veicolare su strade urbane (elemento, questo sì, di stretta
interpretazione laddove la norma non è applicabile in
ipotesi di edifici in zona agricola o comunque extraurbani)
è che il garage sia realizzato utilizzando aree
pertinenziali all'edificio residenziale cui è a servizio,
che sia vincolato con destinazione non modificabile, non sia
suscettibile cioè di vendita separata e che rispetti le
esigenze inderogabili individuate dalla stessa norma.
Nel rispetto di queste, trovano spazio le finalità di
preminente interesse pubblico che hanno spinto il
legislatore a costituire un regime normativo di favore per
incentivare i privati a ricorrere a posteggi “all'esterno”
della sede stradale e qualsiasi limitazione alla
realizzazione di questo interesse pubblico, diversa dai
limiti già previsti dalla norma, deve intendersi come non
compatibile con le finalità in esame.
Sotto il profilo ricostruttivo della fattispecie, poi, ai
fini delle volumetrie e delle cubature, si richiede che il
garage sia posto al di sotto del piano di campagna, ragione
per cui si giustifica la deroga allo strumento urbanistico
ed al regolamento edilizio. Ma se il piano di calpestio o di
campagna è inserito in un contesto ad andatura irregolare,
ossia possiede diversi livelli di calpestio, allora deve
essere preso a riferimento un piano prevalente, a meno di
non voler sostenere che debba essere interamente sottostante
al piano più basso in assoluto.
Se dev'essere dunque individuato un piano prevalente, ossia
una quota “zero” di riferimento, questo non può che essere
individuato in quello dell'abitazione di cui è pertinenza,
considerando la destinazione quale vincolo edilizio ed
urbanistico atto ad associare la “potenziale” volumetria ad
un immobile assentito già esistente e quindi creare un
“unicum” edilizio.
Quindi appare condivisibile la tesi della interpretabilità
estensiva della norma sul punto del termine “sottosuolo”,
secondo la quale ad un box seminterrato (ossia interrato per
almeno due lati) è applicabile l'art. 9 cit.; (si aggiunge)
che nel caso di un andamento del suolo non pianeggiante, ciò
è possibile a patto che il manufatto sia sottostante al
piano di calpestio del “piano terra” del fabbricato
principale. Ciò che sul piano della fattispecie dedotta in
giudizio appare convincente, quanto alla fondatezza della
tesi della ricorrente, è che il manufatto è del tutto
sottostante alla quota di calpestio del giardino della
abitazione cui è a servizio.
I) Con il quarto motivo di ricorso, terzo motivo
aggiunto, deduce la ricorrente che l'Amministrazione,
nell'annullare il provvedimento ampliativo a suo tempo
rilasciato, avrebbe errato nel non considerare applicabile
alla fattispecie in esame l'art. 9, comma I, l. 24.03.1989,
n. 122. Il provvedimento di annullamento, infatti, sarebbe
motivato, in punto di diritto, con riferimento alla
circostanza che, non essendo il garage totalmente interrato,
non sussisterebbero le condizioni previste dalla legge per
l'autorizzazione in deroga alla normativa urbanistica
(strumenti urbanistici e regolamento edilizio).
Tale motivazione sarebbe errata in quanto secondo la
giurisprudenza richiamata dalla ricorrente (Cons. Stato, V,
03.07.1995 n. 1007 e TAR Piemonte, 04.06.2003, nr. 831) la
dizione di cui all'art. 9 cit. sarebbe da interpretarsi
estensivamente, ricomprendendo anche la tipologia dei box
seminterrati nella sua sfera di applicazione. In punto di
fatto, deduce ancora la ricorrente, essendo il manufatto
realizzato interrato sui due lati ed inferiore alla quota di
calpestio del giardino di proprietà della ricorrente, cui lo
stesso garage accede pertinenzialmente, le condizioni
imposte dalla norma sarebbero rispettate.
Oppongono l'Amministrazione resistente e l'interveniente che
la natura eccezionale della norma invocata dalla ricorrente,
ne impone una interpretazione letterale e rigorosa,
conducendo l'interprete a dover ritenere che siano
ammissibili, quanto ai garage esterni ricadenti su terreno
di proprietà, pertinenza dell'edificio, solo il tipo dei
garage interamente interrati. Anche la difesa della
resistente allega massime giurisprudenziali ad essa
favorevoli (cfr. tra le altre TAR Molise, 05.03.2004, nr.
141, TAR Calabria Catanzaro, II, 14.11.2002, n. 2921; CdS,
V, 29.03.2004, nr. 1662).
Secondo la difesa del Comune, inoltre, la interpretazione
estensiva cui fa riferimento la ricorrente sarebbe stata
sostenuta da arresti giurisprudenziali anteriori alla
riforma di cui alla legge 127/1997 che ha previsto, all'art.
17, comma 90, la modifica dell'art. 9 della legge 122/1989,
inserendo in essa la previsione della possibilità di
realizzare i parcheggi interrati nel sottosuolo delle aree
pertinenziali; detta riforma avrebbe perciò assorbito (ed
esaurito nella sua previsione tassativa e di stretto rigore
interpretativo) la portata innovativa delle pronunce cui si
rifà il ricorrente. Analogamente, anche la difesa
dell'interveniente sostiene la non applicabilità della legge
Tognoli al caso di specie, rifacendosi anch'essa a pronunce
di segno contrario alla tesi del ricorrente (tra le quali in
particolare, CGA, 26.06.2000, nr. 29 che afferma la non
applicabilità dell'art. 9 l. cit. a struttura autonoma
seppure per due lati interrata).
Nella memoria depositata il 26.04.2005, la ricorrente, oltre
a ribadire le proprie argomentazioni difensive, allegando
altra pronuncia favorevole (TAR Lazio, Roma, II, 22.05.1998,
nr. 979), contesta le tesi difensive delle parti resistenti,
deducendo che le massime riportate a loro dimostrazione sono
riferibili tutte a situazioni diverse da quella in esame.
Particolarmente con riferimento alla decisione del CGA
299/2000, rileva che si tratta di fattispecie di fatto
verificatasi prima dell'entrata in vigore della modifica di
cui alla legge 127/1997 e quindi con riferimento alla
precedente versione dell'art. 9 cit. Gli altri casi
sarebbero riconducibili a box interamente fuori terra o
effettuati dietro “riporto di terra”.
Le repliche ulteriori delle parti resistenti insistono nella
interpretazione del termine “sottosuolo” come
inconciliabile con l'esistenza di un manufatto interrato
solo per due lati (ed uno di questi riportante una
differenza di trenta centimetri).
Come anticipato sopra, la risoluzione della questione in
esame appare pregiudiziale rispetto all'esame delle
questioni inerenti il punto 2 e 3 del ricorso (e
corrispondenti motivi aggiunti), nonché, correlativamente,
il punto 4 dei motivi aggiunti.
Osserva il Collegio che, in merito all'applicazione
dell'art. 9 della legge 122/1989, le difese delle parti
hanno esaustivamente e con chiarezza ricostruito tutti i
termini giuridici delle rispettive tesi, suffragandole con
ampia giurisprudenza, al punto che in questa sede è
sufficiente richiamarne le conclusioni.
Intanto, deve osservare il Collegio che se “il comma 1
dell'art. 9 l. 24.03.1989 n. 122 (nel testo originario) era
stato già interpretato dalla giurisprudenza nel senso che
consentisse la realizzazione di parcheggi in deroga agli
strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi, anche se
collocati in cortili o aree esterne adiacenti al fabbricato,
e senza necessità di osservanza delle norme di piano sulle
distanze dai confini; interpretazione che poi ha ricevuto il
conforto normativo dall'art. 17, comma 90, l. 15.05.1997 n.
127” (TAR Campania, Salerno, II 07.04.2003, nr. 243),
allora se ne deve dedurre che non può essere condivisa la
tesi (pure sostenuta da alcune pronunce di merito) sulla
natura eccezionale della norma e sulla conseguente natura
tassativa delle sue previsioni e delle sue elencazioni.
Considerate le finalità di pubblico interesse dei parcheggi
a servizio degli edifici residenziali, desumibili dalle
disposizioni di cui alla legge 1150/1942, art. 41-sexies,
per come modificato dall'art. 18 l. 06.08.1967 n. 765 deve
quindi disattendersi l'argomento difensivo della
interveniente secondo il quale non sarebbero possibili
interpretazioni del termine “sottosuolo”, diverse dal
tenore strettamente letterale e compatibili con una
condizione del manufatto di “seminterrato”.
In tal senso, la norma è di stretta interpretazione quanto
alle condizioni espresse della sua applicazione: essa quindi
si applicherà solo con riferimento a posteggi pertinenziali
“nel senso che devono essere al servizio di *singole
unità immobiliari*” (Consiglio Stato, sez. VI,
17.02.2003, n. 844) nonché in favore dei soli “residenti”,
implicando la coincidenza soggettiva tra i richiedenti ed i
proprietari dell'immobile (TAR Piemonte, I, 05.03.2003, nr.
338), dal momento che il legislatore ha inteso prevedere la
deroga al regime urbanistico e concessorio (ossia
introducendo un regime semplificato ed a titolo gratuito)
per i soli residenti e non per tutti gli usi dell'immobile
come ad es. quello commerciale (Consiglio Stato, sez. VI,
17.02.2003, n. 844).
Quanto invece al regime interpretativo del termine “sottosuolo”
ritiene il Collegio che non si possa che aderire a quelle
massime che considerano il box interrato su due lati come
compreso nella sfera di applicazione della norma in esame,
riportate dalla difesa della ricorrente, per due ordini
di ragioni.
Il primo è testuale. Recita infatti la norma: “I
proprietari di immobili possono realizzare nel sottosuolo
degli stessi ovvero nei locali siti al piano terreno dei
fabbricati parcheggi da destinare a pertinenza delle singole
unità immobiliari, anche in deroga agli strumenti
urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti. Tali
parcheggi possono essere realizzati, ad uso esclusivo dei
residenti, anche nel sottosuolo di aree pertinenziali
esterne al fabbricato, purché non in contrasto con i piani
urbani del traffico, tenuto conto dell'uso della superficie
sovrastante e compatibilmente con la tutela dei corpi
idrici. Restano in ogni caso fermi i vincoli previsti dalla
legislazione in materia paesaggistica ed ambientale ed i
poteri attribuiti dalla medesima legislazione alle regioni e
ai Ministeri dell'ambiente e per i beni culturali ed
ambientali…(omississ)”.
La norma pone dunque limiti espressi e precisi, quali
condizioni della facoltà dei privati di utilizzare il
sottosuolo delle aree pertinenziali: ossia il rispetto dei
piani urbani del traffico, il rispetto della tutela
paesaggistica ed ambientale e la tutela dei corpi idrici.
All'interno di queste “coordinate” non si comprende
quale ragione teleologica possa consentire all'interprete di
affermare che il termine “sottosuolo” sia equivalente
(con esclusività) alla locuzione “totalmente interrato”.
Tale interpretazione appare infatti solo il frutto di una
lettura “semantica” del termine, lettura che, anche
sotto questo aspetto, presenta peraltro evidenti limiti.
Vero è che, di norma, il termine “sottosuolo” sta ad
indicare la porzione di spazio sottostante il piano di
calpestio, o di campagna; ma è altrettanto vero che se il
terreno è ad andamento non pianeggiante o irregolare, come
avviene nel caso di specie ove è pacifico in punto di fatto
che attorno alla zona oggetto di insediamento del manufatto,
sussistono quote altimetriche differenti, allora nella
stessa locuzione indicata non può che intendersi ricompreso
anche il senso di “porzioni di spazio sottostante ad
alcune quote di livello e coincidenti o sovrastanti ad altre”.
In altri termini e sotto un secondo profilo, quello
che appare essenziale, ai fini del rispetto della norma sul
punto e delle finalità di decongestione del parcheggio
veicolare su strade urbane (elemento, questo sì, di stretta
interpretazione, cfr. TAR Veneto, II, 06.09.2002, nr. 5229,
secondo il quale la norma non è applicabile in ipotesi di
edifici in zona agricola o comunque extraurbani) è che il
garage sia realizzato utilizzando aree pertinenziali
all'edificio residenziale cui è a servizio, che sia
vincolato con destinazione non modificabile, non sia
suscettibile cioè di vendita separata e che rispetti le
esigenze inderogabili individuate dalla stessa norma.
Nel rispetto di queste, trovano spazio le finalità di
preminente interesse pubblico che hanno spinto il
legislatore a costituire un regime normativo di favore per
incentivare i privati a ricorrere a posteggi “all'esterno”
della sede stradale e qualsiasi limitazione alla
realizzazione di questo interesse pubblico, diversa dai
limiti già previsti dalla norma, deve intendersi come non
compatibile con le finalità in esame.
Sotto il profilo ricostruttivo della fattispecie, poi, ai
fini delle volumetrie e delle cubature, si richiede che il
garage sia posto al di sotto del piano di campagna, ragione
per cui si giustifica la deroga allo strumento urbanistico
ed al regolamento edilizio. Ma se il piano di calpestio o di
campagna è inserito in un contesto ad andatura irregolare,
ossia possiede diversi livelli di calpestio, allora deve
essere preso a riferimento un piano prevalente, a meno di
non voler sostenere che debba essere interamente sottostante
al piano più basso in assoluto.
Se dev'essere dunque individuato un piano prevalente, ossia
una quota “zero” di riferimento, questo non può che
essere individuato in quello dell'abitazione di cui è
pertinenza, considerando la destinazione quale vincolo
edilizio ed urbanistico atto ad associare la “potenziale”
volumetria ad un immobile assentito già esistente e quindi
creare un “unicum” edilizio.
Quindi appare condivisibile la tesi della interpretabilità
estensiva della norma sul punto del termine “sottosuolo”,
secondo la quale ad un box seminterrato (ossia interrato per
almeno due lati) è applicabile l'art. 9 cit.; (si aggiunge)
che nel caso di un andamento del suolo non pianeggiante, ciò
è possibile a patto che il manufatto sia sottostante al
piano di calpestio del “piano terra” del fabbricato
principale. Ciò che sul piano della fattispecie dedotta in
giudizio appare convincente, quanto alla fondatezza della
tesi della ricorrente, è che il manufatto è del tutto
sottostante alla quota di calpestio del giardino della
abitazione cui è a servizio.
Tale circostanza, oltre che pacifica nelle ricostruzioni
descrittive dello stato dei luoghi contenute negli atti
dell'Amministrazione e nelle deduzioni delle parti, è del
pari resa con immediata evidenza nella produzione
fotografica allegata alla relazione depositata con il
ricorso - punto 14, fotografia nr. 4 e 5, lati est e nord ad
opera ultimata.
Dall'esame degli atti si evince chiaramente che il manufatto
possiede i due lati interrati ed è sottostante il piano del
giardino dell'edificio cui è a servizio, costituendone una
parte integrante non suscettibile di essere considerata un
corpo aggiunto o un volume. Sul punto, non vale osservare,
come fanno le resistenti, che circa uno dei due lati
interrati esiste una differenza di 30 cm rispetto al piano
di calpestio; a parte la rilevanza della differenza ai fini
del regime applicabile in tema di difformità tra il titolo
ed il manufatto, aspetto sul quale si tornerà oltre, si deve
osservare che un eventuale dislivello minimo e contenuto tra
il manufatto stesso ed il piano di calpestio, può apparire
rilevante solo ad una lettura formale ed acritica della
norma che dimentichi la necessaria valorizzazione delle
esigenze di interesse pubblico ampiamente illustrate sopra.
Da tutti questi aspetti deriva che il ricorso, sul punto, è
fondato; ne dovrebbe derivare, a rigore, anche una pronuncia
di “assorbimento” dei motivi indicati in ricorso al
punto 2 (e punto 1 dei motivi aggiunti), in quanto,
all'evidenza, la insussistenza del profilo di illegittimità
del provvedimento annullato rende superflua ogni
considerazione in ordine alla necessità che il provvedimento
di annullamento sia sostenuto dalle motivazioni attuali
circa l'interesse pubblico.
Tuttavia, il collegio ritiene di dover rilevare in merito a
ciò un aspetto particolare, legato alla ricostruzione della
normativa applicabile per come sopra indicata
(TAR
Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 03.10.2005 n. 1531 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sull'annullamento del provvedimento abilitativo circa la
costruzione di un box in deroga ex lege n. 122/1989.
La circostanza che sul problema della
interpretazione dell'art. 9 l. 122/1989 sussista
giurisprudenza diversa, nonché profili di ampio contenuto e
di diverse possibili tesi ricostruttive, implica che avendo
dapprima autorizzato il manufatto sulla base dell'art. 9
della legge Tognoli, l'Amministrazione avrebbe dovuto ancora
più ampiamente dare conto delle ragioni di interesse
pubblico che l'hanno consigliata sia alla diversa
interpretazione e sia alla rimozione del precedente
provvedimento.
Non è sufficiente, infatti, addurre presunte false
rappresentazioni o inesatte indicazioni tecniche inerenti
una pretesa esistenza (o assenza) del terzo muro interrato o
assenza di quote grafiche nel progetto per dare conto di
quale interesse pubblico preminente giustifichi la rinuncia
alla realizzazione di un manufatto che, per condizioni e per
localizzazione, assicura il rispetto di quelle
(inderogabili) finalità di legge già viste sopra.
Né appare sufficiente richiamare il “rispetto della legalità
violata” per motivare l'annullamento del titolo abilitativo
a manufatto realizzato, dopo aver consacrato una valutazione
positiva della istanza in un provvedimento assistito dalla
presunzione di legittimità e quindi come tale pienamente
suscettibile di fondare l'affidamento dell'istante non solo
per l'efficacia sua propria, ma anche in virtù della
rilevanza generale che ad esso si riconduce per effetto del
più volte citato art. 9.
Si tratta all'evidenza di un comportamento contrastante con
i canoni della buona fede esecutiva che deve assistere le
parti di un rapporto pubblico amministrativo al pari delle
parti di un contratto, sorgendo dal procedimento
amministrativo un vero e proprio obbligo di tutela
dell'affidamento.
Affidamento che, nella specie, andava ancora maggiormente
garantito in presenza delle precipue finalità di
incentivazione della norma alla realizzazione di parcheggi
privati, nonché delle differenti possibilità interpretative
che la stessa norma, per come visto sopra, consente e
quindi, al contempo, per il maggiore affidamento che da
tutto questo deriva in capo al privato sulle funzioni
certificative proprie dell'Ente nell'esercizio del potere
ampliativo ad esso affidato.
Inoltre, il provvedimento avrebbe dovuto essere congruamente
motivato sul punto dell'interesse pubblico attuale alla
rimozione anche per il deficit di comprensione e
prevedibilità del comportamento dovuto che deriva dalla
possibile diversa possibile interpretazione della norma in
punto di fatto.
II) Circa l'aspetto
appena indicato, si deve rilevare che il ricorso è fondato
per le seguenti considerazioni.
La circostanza che sul problema della interpretazione della
norma su esposta sussista giurisprudenza diversa, nonché
profili di ampio contenuto e di diverse possibili tesi
ricostruttive, implica che avendo dapprima autorizzato il
manufatto sulla base dell'art. 9 della legge Tognoli,
l'Amministrazione avrebbe dovuto ancora più ampiamente dare
conto delle ragioni di interesse pubblico che l'hanno
consigliata sia alla diversa interpretazione e sia alla
rimozione del precedente provvedimento.
Non è sufficiente, infatti, addurre presunte false
rappresentazioni o inesatte indicazioni tecniche inerenti
una pretesa esistenza (o assenza) del terzo muro interrato o
assenza di quote grafiche nel progetto per dare conto di
quale interesse pubblico preminente giustifichi la rinuncia
alla realizzazione di un manufatto che, per condizioni e per
localizzazione, assicura il rispetto di quelle
(inderogabili) finalità di legge già viste sopra.
Né appare sufficiente richiamare il “rispetto della
legalità violata” per motivare l'annullamento del titolo
abilitativo a manufatto realizzato, dopo aver consacrato una
valutazione positiva della istanza in un provvedimento
assistito dalla presunzione di legittimità e quindi come
tale pienamente suscettibile di fondare l'affidamento
dell'istante non solo per l'efficacia sua propria, ma anche
in virtù della rilevanza generale che ad esso si riconduce
per effetto del più volte citato art. 9.
Si tratta all'evidenza di un comportamento contrastante con
i canoni della buona fede esecutiva che deve assistere le
parti di un rapporto pubblico amministrativo al pari delle
parti di un contratto, sorgendo dal procedimento
amministrativo un vero e proprio obbligo di tutela
dell'affidamento. Affidamento che, nella specie, andava
ancora maggiormente garantito in presenza delle precipue
finalità di incentivazione della norma alla realizzazione di
parcheggi privati, nonché delle differenti possibilità
interpretative che la stessa norma, per come visto sopra,
consente e quindi, al contempo, per il maggiore affidamento
che da tutto questo deriva in capo al privato sulle funzioni
certificative proprie dell'Ente nell'esercizio del potere
ampliativo ad esso affidato.
Inoltre, il provvedimento avrebbe dovuto essere congruamente
motivato sul punto dell'interesse pubblico attuale alla
rimozione anche per il deficit di comprensione e
prevedibilità del comportamento dovuto che deriva dalla
possibile diversa possibile interpretazione della norma in
punto di fatto.
Ne consegue, dunque che il ricorso è fondato in relazione ad
entrambi i profili esposti
(TAR
Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 03.10.2005 n. 1531 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Alla
luce dell’orientamento condiviso dal Collegio, deve
ritenersi che lo spargimento di ghiaia su un'area che ne era
in precedenza priva richiede la concessione edilizia
allorché appaia preordinata alla modifica della precedente
destinazione d'uso (circostanza questa che deve fondarsi su
fatti positivamente accertati).
Tale indirizzo, peraltro, risulta corroborato dalla
risalente interpretazione del Giudice penale, secondo cui
deve ritenersi soggetto a concessione lo spianamento di un
terreno agricolo ed il riporto di sabbia e ghiaia, al fine
di ottenerne un piazzale per deposito e smistamento di
autocarri e containers (cfr. altresì <<è legittimo il
provvedimento del sindaco che ordini la riduzione in
pristino di un'area destinata, in base al piano regolatore,
a verde pubblico, che sia stata coperta di ghiaia, per
essere destinata a parcheggio).
Per esigenze di completezza si osserva che la tesi
abbracciata dal Collegio sembra, oggi, avere un testuale
riscontro nel nuovo Testo unico in materia edilizia –D.P.R.
n. 380/2001- (che non ha certo potenzialità applicativa e di
risoluzione del caso in esame, ma che può rappresentare un
valido ausilio interpretativo, specie ove “codifica” un
orientamento giurisprudenziale pregresso): l’art. 3, in
materia di definizione degli interventi edilizi, assoggetta
a permesso di costruire –ascrivendole al genus delle nuove
costruzioni- <<la realizzazione di infrastrutture e di
impianti, anche per pubblici servizi, che comporti la
trasformazione in via permanente di suolo inedificato>>
(lett. e.3) e <<la realizzazione di depositi di merci o di
materiali, la realizzazione di impianti per attività
produttive all'aperto ove comportino l'esecuzione di lavori
cui consegua la trasformazione permanente del suolo
inedificato>> (e.7); si tratta, come è facile rilevare, di
interventi privi di connotazione strettamente edilizia e,
nondimeno, assoggettati a titolo abilitativo.
2. Il Collegio ritiene prioritario valutare e decidere se,
in ordine all’intervento realizzato dall’appellante e per la
sanatoria del quale è causa, fosse necessario il rilascio di
titolo concessorio, come ritiene il Comune appellato.
Deve essere preliminarmente osservato che, secondo la
disciplina normativa (articolo 1 -Trasformazione urbanistica
del territorio e concessione di edificare– L. n. 10/1977;
l’articolo in esame è stato abrogato dall'art. 136, comma 1
e 2, d.p.r. 06.06.2001, n. 380, a decorrere dal 30.06.2003,
ai sensi dell'art. 3, d.l. 20.06.2002, n. 122, conv., con
modificazioni, in l. 01.08.2002, n. 185) <<Ogni attività
comportante trasformazione urbanistica ed edilizia del
territorio comunale partecipa agli oneri ad essa relativi e
la esecuzione delle opere è subordinata a concessione da
parte del sindaco, ai sensi della presente legge>>.
L’interpretazione del dato normativo richiamato non è stata
affatto pacifica.
Invero, la giurisprudenza e la dottrina hanno elaborato
due indirizzi ermeneutici: secondo il primo,
andrebbero assoggettati a titolo abilitativo solo gli
interventi di portata -simultaneamente– urbanistica ed
edilizia. Invero, osservano i fautori della tesi in esame,
l’uso congiunto delle due espressioni (urbanistica ed
edilizia) nel citato articolo escluderebbe l’assoggettamento
al previo rilascio del titolo degli interventi che, pur non
mancando di impatto urbanistico, siano privi di consistenza
materiale di opere edilizie.
Secondo l’opposto indirizzo, l’art. 1 l. 28.01.1977
n. 10 sulla edificabilità dei suoli, che pone la regola
della soggezione a concessione di ogni attività comportante
trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, non
comprende le sole attività di edificazione, ma tutte quelle
consistenti in una modificazione dello stato materiale e
della conformazione del suolo per adattarlo ad un impiego
diverso da quello che gli è proprio in relazione alla sua
condizione naturale ed alla sua qualificazione giuridica
(cfr.: Cons. Stato, sez. V, 31/01/2001, n. 343; Cons. Stato,
sez. V, 20/12/1999, n. 2125; Cons. Stato, sez. V,
01/03/1993, n. 319; tale orientamento è condiviso anche
dalla giurisprudenza ordinaria: cfr. Cass. pen., 14/10/1988;
Cass. pen., sez. III, 24/10/1997, n. 10709; Cass. pen., sez.
VI, 24/07/1997, n. 8520).
La giurisprudenza favorevole a tale tesi ha aggiunto che
l’art. 1 l. 28.01.1977 n. 10 impone al soggetto attuatore di
munirsi di concessione edilizia per ogni attività che
comporti la trasformazione del territorio attraverso
l'esecuzione di opere comunque attinenti agli aspetti
urbanistici ed edilizi, ove il mutamento e l'alterazione
abbiano un qualche rilievo ambientale ed estetico, o solo
funzionale (cfr. la recente Cons. Stato, sez. VI,
26/09/2003, n. 5502).
Pertanto, è soggetto a concessione edilizia ogni intervento
sul territorio, preordinato alla perdurante modificazione
dello stato dei luoghi con materiale posto sul suolo, pur in
assenza di opere in muratura (Cons. Stato, sez. V,
06/04/1998, n. 415; cfr. altresì: <<la concessione
edilizia è richiesta sia quando vi sia la realizzazione di
opere murarie, sia quando si intenda realizzare un
intervento sul territorio che, pur non richiedendo opere in
muratura, comporti la perdurante modifica dello stato dei
luoghi con materiale posto sul suolo>> Cons. Stato, sez.
V, 14/12/1994, n. 1486; Cons. Stato, sez. VI, 27/01/2003, n.
419).
E’ ben vero che, secondo un precedente citato dall’appellante,
questo Consesso ha ritenuto che non integra l'ipotesi di
trasformazione urbanisticamente rilevante del territorio,
soggetta a concessione ex art. 1 l. n. 10 del 1977,
l'intervento materialmente consistente nella mera ripulitura
di un terreno parzialmente erboso, con ripristino di una
recinzione preesistente e spargimento di ghiaia, a nulla
rilevando, sotto il profilo urbanistico, la conseguente
utilizzazione del suolo così ripulito e riordinato
all'esposizione di autovetture a scopi commerciali (Cons.
Stato, sez. IV, 08/03/1983, n. 103).
Tuttavia, alla luce dell’orientamento condiviso dal
Collegio, deve ritenersi che lo spargimento di ghiaia su
un'area che ne era in precedenza priva richiede la
concessione edilizia allorché appaia preordinata alla
modifica della precedente destinazione d'uso (circostanza
questa che deve fondarsi su fatti positivamente accertati).
Tale indirizzo, peraltro, risulta corroborato dalla
risalente interpretazione del Giudice penale, secondo cui
deve ritenersi soggetto a concessione lo spianamento di un
terreno agricolo ed il riporto di sabbia e ghiaia, al fine
di ottenerne un piazzale per deposito e smistamento di
autocarri e containers (Cass. pen., 09/06/1982; cfr. altresì
<<è legittimo il provvedimento del sindaco che ordini la
riduzione in pristino di un'area destinata, in base al piano
regolatore, a verde pubblico, che sia stata coperta di
ghiaia, per essere destinata a parcheggio>> Cons. Stato,
sez. II, 15/02/1989, n. 18/89).
Per esigenze di completezza si osserva che la tesi
abbracciata dal Collegio sembra, oggi, avere un testuale
riscontro nel nuovo Testo unico in materia edilizia –D.P.R.
n. 380/2001- (che non ha certo potenzialità applicativa e di
risoluzione del caso in esame, ma che può rappresentare un
valido ausilio interpretativo, specie ove “codifica”
un orientamento giurisprudenziale pregresso): l’art. 3, in
materia di definizione degli interventi edilizi, assoggetta
a permesso di costruire –ascrivendole al genus delle
nuove costruzioni- <<la realizzazione di infrastrutture e
di impianti, anche per pubblici servizi, che comporti la
trasformazione in via permanente di suolo inedificato>>
(lett. e.3) e <<la realizzazione di depositi di merci o
di materiali, la realizzazione di impianti per attività
produttive all'aperto ove comportino l'esecuzione di lavori
cui consegua la trasformazione permanente del suolo
inedificato>> (e.7); si tratta, come è facile rilevare,
di interventi privi di connotazione strettamente edilizia e,
nondimeno, assoggettati a titolo abilitativo.
Significativa è, poi, la previsione dell’art. 10, comma 2,
secondo cui <<Le regioni stabiliscono con legge quali
mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche,
dell'uso di immobili o di loro parti, sono subordinati a
permesso di costruire o a denuncia di inizio attività>>.
L’intervento per cui è causa, alla luce delle superiori
considerazioni, era assoggettato a rilascio di titolo
concessorio
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 11.11.2004 n. 7325 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La possibilità di realizzare parcheggi da
destinare a pertinenze delle singole unità immobiliari anche
in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti
edilizi vigenti, consentita dall'art. 9 l. n. 122 del 1989
(c.d. Legge Tognoli) costituisce disposizione di carattere
eccezionale da interpretarsi nel suo significato
strettamente letterale ed in considerazione delle finalità
della legge nel cui contesto risulta inserita.
Pertanto tale articolo è applicabile alla costruzione di
spazi parcheggio nelle sole aree urbane, mentre la
realizzazione di parcheggi in aree extraurbane resta
soggetta alle ordinarie prescrizioni urbanistiche ed
edilizie necessitando della normale concessione edilizia.
3. E’ inconferente il richiamo operato dall’odierno
appellante alle previsioni racchiuse nella L. n. 122/1989.
Invero, la possibilità di realizzare parcheggi da destinare
a pertinenze delle singole unità immobiliari anche in deroga
agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi
vigenti, consentita dall'art. 9 l. n. 122 del 1989 (c.d.
Legge Tognoli), costituisce disposizione di carattere
eccezionale da interpretarsi nel suo significato
strettamente letterale ed in considerazione delle finalità
della legge nel cui contesto risulta inserita.
Pertanto tale articolo è applicabile alla costruzione di
spazi parcheggio nelle sole aree urbane, mentre la
realizzazione di parcheggi in aree extraurbane resta
soggetta alle ordinarie prescrizioni urbanistiche ed
edilizie necessitando della normale concessione edilizia
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 11.11.2004 n. 7325 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Ai sensi dell'art. 7 l. 25.03.1982 n. 94 un'opera
che abbia natura pertinenziale è soggetta all'autorizzazione
gratuita anziché alla concessione edilizia; ma senza deroga
alla regola generale che impone la conformità delle
iniziative edilizie a quanto stabilito dagli strumenti
urbanistici, limitando, al contrario, l'art. 7 cit. il
rilascio dell'autorizzazione alle opere <<conformi alle
prescrizioni degli strumenti urbanistici vigenti.
---------------
- La nozione di pertinenza dettata dal diritto civile è più
ampia di quella che regola la materia urbanistica, onde beni
che, secondo quella normativa, assumono senz'altro natura
pertinenziale tali invece non sono ai fini dell'applicazione
delle regole ch e governano l'attività edilizia.
- Considerata la nozione di pertinenza urbanistica, quali
possono considerarsi solo manufatti di dimensioni modeste e
ridotte rispetto alla casa a cui sono annessi, non può
essere permessa la costruzione di opere di rilevante
importanza soltanto perché destinate al servizio ed
all'ornamento del bene principale; ed è perciò necessaria la
concessione edilizia per l'esecuzione di opere che da un
punto di vista edilizio ed urbanistico sono da considerarsi
come ulteriori rispetto al bene principale, poiché occupano
aree e volumi diversi.
- Soggiace a concessione edilizia la realizzazione di
un'opera di rilevanti dimensioni, che modifica l'assetto del
territorio e che occupa aree e volumi diversi rispetto alla
"res principalis", indipendentemente dal vincolo di servizio
o d'ornamento nei riguardi di essa.
4. Del pari inconferente è il richiamo operato
dall’appellante alla normativa ex Legge n. 94/1982
(conversione in legge del D.L. n. 9/1982) posto che ai sensi
dell'art. 7 l. 25.03.1982 n. 94 un'opera che abbia natura
pertinenziale è soggetta all'autorizzazione gratuita anziché
alla concessione edilizia; ma senza deroga alla regola
generale che impone la conformità delle iniziative edilizie
a quanto stabilito dagli strumenti urbanistici, limitando,
al contrario, l'art. 7 cit. il rilascio dell'autorizzazione
alle opere <<conformi alle prescrizioni degli strumenti
urbanistici vigenti>> (Cons. Stato, sez. V, 23/06/1997,
n. 704; Cons. Stato, sez. II, 08/05/1996, n. 3029).
In disparte il rilievo della nozione più ristretta di
pertinenza (rispetto a quella accolta dal diritto civile)
propria del diritto amministrativo che non si attaglia
all’intervento per cui è causa (<<La nozione di
pertinenza dettata dal diritto civile è più ampia di quella
che regola la materia urbanistica, onde beni che, secondo
quella normativa, assumono senz'altro natura pertinenziale
tali invece non sono ai fini dell'applicazione delle regole
ch e governano l'attività edilizia>> Cons. Stato, sez.
V, 18/04/2001, n. 2325; <<Considerata la nozione di
pertinenza urbanistica, quali possono considerarsi solo
manufatti di dimensioni modeste e ridotte rispetto alla casa
a cui sono annessi, non può essere permessa la costruzione
di opere di rilevante importanza soltanto perché destinate
al servizio ed all'ornamento del bene principale; ed è
perciò necessaria la concessione edilizia per l'esecuzione
di opere che da un punto di vista edilizio ed urbanistico
sono da considerarsi come ulteriori rispetto al bene
principale, poiché occupano aree e volumi diversi>>
Cons. Stato, sez. V, 30/11/2000, n. 6358; cfr. altresì Cons.
Stato, sez. V, 30/10/2000, n. 5828; <<Soggiace a
concessione edilizia la realizzazione di un'opera di
rilevanti dimensioni, che modifica l'assetto del territorio
e che occupa aree e volumi diversi rispetto alla "res
principalis", indipendentemente dal vincolo di servizio o
d'ornamento nei riguardi di essa>> Cons. Stato, sez. V,
23/03/2000, n. 1600; Cons. Stato, sez. V, 06/09/1999, n.
1015; Cons. Stato, sez. II, 12/05/1999, n. 729; Cons. Stato,
sez. II, 21/02/1996, n. 1895)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 11.11.2004 n. 7325 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza ammette la riconducibilità alla
qualifica di ristrutturazione degli interventi che
comportino incrementi di superficie purché si tratti di
incrementi di lieve entità: fra gli interventi di
ristrutturazione edilizia, previsti dall'art. 31 lett. d) l.
05.08.1978 n. 457, rientrano quelli rivolti a trasformare
gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di
opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto
–o in parte- diverso dal precedente, ma, trattandosi di
interventi di recupero, resta fermo che il nuovo edificio
deve presentare nel suo complesso le caratteristiche
fondamentali di quello abbattuto.
--------------
L'interpretazione della norma giuridica contenuta in una
circolare in nessun caso vincola il giudice.
6. Né può essere
condivisa la tesi secondo cui trattasi di ristrutturazione
edilizia ex art. 31, lett. d), l. n. 457/1978; invero, la
giurisprudenza ammette la riconducibilità alla qualifica di
ristrutturazione degli interventi che comportino incrementi
di superficie –come correttamente rileva l’appellante che
cita dei precedenti giurisprudenziali– purché si tratti di
incrementi di lieve entità: fra gli interventi di
ristrutturazione edilizia, previsti dall'art. 31 lett. d) l.
05.08.1978 n. 457, rientrano quelli rivolti a trasformare
gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di
opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto
–o in parte- diverso dal precedente, ma, trattandosi di
interventi di recupero, resta fermo che il nuovo edificio
deve presentare nel suo complesso le caratteristiche
fondamentali di quello abbattuto (cfr. Cons. Stato, sez. V,
02/12/1998, n. 1714), fra le quali la superficie.
7. Inoltre, il Collegio ritiene di non poter condividere il
pensiero espresso nelle circolari citate dall’appellante,
per le circostanze sopra riportate (si ricordi, a tal
proposito, che l'interpretazione della norma giuridica
contenuta nella circolare in nessun caso vincola il giudice:
Cons. Stato, Sez. IV, 14/09/1988, n. 745)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 11.11.2004 n. 7325 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’art.
9 legge n. 122/1989, introducendo una deroga alla disciplina
urbanistica, deve considerarsi norma di carattere
eccezionale e come tale deve essere interpretata con
specifico riferimento alla finalità perseguita dalla legge
citata (risoluzione dei problemi relativi ai parcheggi nelle
aree urbane)..
Conseguentemente l’operatività della stessa non può
ritenersi estesa anche alle zone agricole.
... considerato che l’art. 9 legge n. 122/1989, introducendo
una deroga alla disciplina urbanistica, deve considerarsi
norma di carattere eccezionale e come tale deve essere
interpretata con specifico riferimento alla finalità
perseguita dalla legge citata (risoluzione dei problemi
relativi ai parcheggi nelle aree urbane); conseguentemente
l’operatività della stessa non può ritenersi estesa anche
alle zone agricole
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza
06.09.2002 n. 5229
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’art.
9 legge n. 122/1989, introducendo una deroga alla disciplina
urbanistica, deve considerarsi norma di carattere
eccezionale e come tale deve essere interpretata con
specifico riferimento alla finalità perseguita dalla legge
citata (risoluzione dei problemi relativi ai parcheggi nelle
aree urbane)..
Conseguentemente l’operatività della stessa non può
ritenersi estesa anche alle zone agricole.
... considerato che l’art. 9 legge n. 122/1989, introducendo
una deroga alla disciplina urbanistica, deve considerarsi
norma di carattere eccezionale e come tale deve essere
interpretata con specifico riferimento alla finalità
perseguita dalla legge citata (risoluzione dei problemi
relativi ai parcheggi nelle aree urbane); conseguentemente
l’operatività della stessa non può ritenersi estesa anche
alle zone agricole
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza
06.09.2002 n. 5229
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 05.08.2015 |
ã |
Gli interventi di
ristrutturazione e di ampliamento, in misura non
superiore al 20%, di edifici unifamiliari sono
sempre e comunque gratuiti sic et simpliciter
per mera disposizione normativa??
NO!! |
L'art. 17, comma 3, del DPR 380/2001 così recita: |
Art. 17 (L) - Riduzione o esonero dal contributo di
costruzione.
1. Nei casi di edilizia abitativa convenzionata,
relativa anche ad edifici esistenti, il contributo
afferente al permesso di costruire è ridotto alla
sola quota degli oneri di urbanizzazione qualora il
titolare del permesso si impegni, a mezzo di una
convenzione con il comune, ad applicare prezzi di
vendita e canoni di locazione determinati ai sensi
della convenzione-tipo prevista dall’articolo 18.
2. Il contributo per la realizzazione della prima
abitazione è pari a quanto stabilito per la
corrispondente edilizia residenziale pubblica,
purché sussistano i requisiti indicati dalla
normativa di settore.
3. Il contributo di costruzione non è dovuto:
a) per gli interventi da realizzare nelle zone agricole, ivi
comprese le residenze, in funzione della conduzione
del fondo e delle esigenze dell’imprenditore
agricolo a titolo principale, ai sensi dell’articolo
12 della legge 9 maggio 1975, n. 153;
(l'art. 12 della legge n. 153 del 1975 è stato
abrogato dall'art. 1, comma 5, d.lgs. n. 99 del
2004; si vedano ora l'art. 1, comma 1 del d.lgs. n.
99 del 2004 e l'articolo 2135 del codice civile)
b) per gli interventi di
ristrutturazione e di ampliamento, in misura non
superiore al 20%, di edifici unifamiliari;
c) per gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di
interesse generale realizzate dagli enti
istituzionalmente competenti nonché per le opere di
urbanizzazione, eseguite anche da privati, in
attuazione di strumenti urbanistici;
d) per gli interventi da realizzare in attuazione di norme o di
provvedimenti emanati a seguito di pubbliche
calamità;
e) per i nuovi impianti, lavori, opere, modifiche, installazioni,
relativi alle fonti rinnovabili di energia, alla
conservazione, al risparmio e all'uso razionale
dell'energia, nel rispetto delle norme urbanistiche,
di tutela artistico-storica e ambientale.
|
Qui sotto alcune (condivisibili) pronunce circa la
ratio della norma de qua: |
EDILIZIA PRIVATA:
Non può reputarsi "edificio unifamiliare" una casa
di abitazione avente una volumetria complessiva di
mc. 1.338,78, distribuiti su tre livelli, in
categoria A/7, 13 vani.
L’art. 17, comma 3, lett. b),
del d.P.R. n. 380/2001) prevede l’esenzione dal
contributo di costruzione “per gli interventi di
ristrutturazione e di ampliamento, in misura non
superiore al 20%, di edifici unifamiliari”.
L'esenzione in esame si giustifica come aiuto alla
famiglia che, banalmente, necessiti di ulteriore
spazio per la propria decorosa sistemazione
abitativa.
Accedendo alla doverosa interpretazione della norma
secundum rationem legis occorre inferire
l’estraneità della fattispecie in esame all’alveo
applicativo della norma invocata, proprio in
considerazione delle rilevate caratteristiche
costruttive e dimensionali dell’edificio ancorché
unifamiliare.
... per
l'annullamento:
a - del provvedimento di cui alla nota prot. n.
34045 del 04/03/2015, successivamente conosciuto,
con il quale il Direttore del Settore Trasformazioni
Edilizie - Sportello Unico dell'Edilizia - Ufficio
Permessi di Costruire del comune di Salerno ha
disposto che "per il rilascio del titolo edilizio
di autorizzazione dell'intervento di ampliamento
volumetrico, richiesto ai sensi del Piano Casa… è
dovuto il contributo di costruzione di cui all'art.
16 D.P.R. 380/2001…" e, per l’effetto, ha negato
la richiesta di esenzione invocata dal ricorrente ai
sensi dell’art. 17 – comma 3, lett. b), del D.P.R.
n. 380/2001;
b – di tutti gli atti presupposti, collegati,
connessi e consequenziali ivi compresi, ove e per
quanto occorra ed ove lesivi, il parere dirigenziale
n. 246/2012 e le delibere con le quali il Comune di
Salerno ha determinato i criteri per il pagamento
del contributo di costruzione
nonché per la declaratoria della non debenza della
somma richiesta dalla P.A. a titolo di contributo di
costruzione ricorrendo l’ipotesi di esenzione di cui
all’art. 17 – comma 3 – lett. b), del D.P.R. n.
380/2001.
...
Con ricorso notificato in data 11.05.2015 e
ritualmente depositato il 20 maggio successivo, il
sig. V.S. impugna il provvedimento, meglio distinto
in epigrafe, con il quale il Comune di Salerno ha
disposto che è dovuto il pagamento del contributo di
costruzione di cui all’art. 16 del D.P.R. n.
380/2001 ai fini del rilascio del titolo edilizio di
autorizzazione all’ampliamento volumetrico ai sensi
del Piano Casa, così negando la richiesta di
esenzione invocata dal ricorrente in applicazione
dell’art. 17, comma 3, lett. b), del d.P.R. n.
380/2001.
Avverso tale atto, il ricorrente deduce, sotto
distinti e concorrenti profili, i vizi della
violazione di legge e dell’eccesso di potere, in
quanto, come da orientamento di questa Tribunale,
ricorrerebbero i presupposti per l’invocata
esenzione quando, come nel caso di specie, si tratta
di ampliamento non superiore al 20% di un edificio
unifamiliare. Sarebbe stato altresì omesso il
preavviso di diniego.
Si costituisce il Comune di Salerno al fine di
resistere.
Alla camera di consiglio del 04.06.2015, rese edotte
le parti, il ricorso è trattenuto in decisione
semplificata, sussistendone i presupposti di legge.
Il ricorso è infondato.
La questione agitata in ricorso investe l’ambito
applicativo della norma invocata dall’istante
(dell’art. 17, comma 3, lett. b), del d.P.R. n.
380/2001), laddove prevede l’esenzione dal
contributo di costruzione “per gli interventi di
ristrutturazione e di ampliamento, in misura non
superiore al 20%, di edifici unifamiliari”.
Il diniego opposto dall’Ente civico contiene la
seguente testuale motivazione: “la partecipazione
del privato al costo delle opere di urbanizzazione è
dovuta allorquando l’intervento determini un
incremento del peso insediativo con un’oggettiva
rivalutazione dell’immobile, sicché l’onerosità del
permesso di costruire è funzionale a sopportare il
carico socio-economico che la realizzazione comporta
sotto il profilo urbanistico; la ratio che ispira la
specifica esenzione, di cui all’art. 17 del D.P.R.
380/2001 ss.mm.ii., è di derivazione sociale e
pertanto la nozione di edificio unifamiliare assunta
dalla norma, non è nella sua accezione strutturale,
ma socio-economica e coincide con la piccola
proprietà immobiliare meritevole di un trattamento
differenziato rispetto alle altre tipologia edilizie”.
Si controverte pertanto della corretta
interpretazione della norma su citata, dovendosi
decidere se l’intervento progettato dal ricorrente
rientri o meno nel suo alveo applicativo, avuto
riguardo alla particolare consistenza del fabbricato
di sua proprietà, avendo una volumetria complessiva
attuale di mc. 1.338,78, distribuiti su tre livelli,
in categoria A/7, 13 vani.
A tal riguardo soccorrono i principi sanciti da
recente giurisprudenza (TAR Lombardia-Brescia Sez.
I, Sent., 21/11/2014, n. 1280), secondo cui “il
contributo di cui si ragiona è un tributo
propriamente detto perché ha natura di prestazione
patrimoniale imposta per ragioni di pubblica utilità
- così fra le molte C.d.S. sez. V 13.03.2014 n. 2438
e, nella giurisprudenza della Sezione, sez. I
03.05.2014 n. 464; di conseguenza, le ipotesi in cui
esso non è dovuto hanno natura di esenzioni
tributarie, di carattere eccezionale, e quindi
insuscettibile di interpretazioni estensive ed
analogiche, in quanto eccezioni al principio
costituzionale di capacità contributiva, come
ritenuto da costante giurisprudenza della Corte
costituzionale, da ultimo 20.04.2012 n. 103, e nella
fattispecie in esame in modo specifico da TAR
Campania-Napoli sez. VIII 09.05.2012 n. 2136.
4. Ciò posto, si deve osservare che, sempre secondo
la giurisprudenza -la decisione del TAR Napoli
citata, nonché TAR Campania-Salerno, sez. I,
08.01.2013 n. 25 e TAR Marche 10.05.2012 n. 310-
l'esenzione in esame si giustifica come aiuto alla
famiglia che, banalmente, necessiti di ulteriore
spazio per la propria decorosa sistemazione
abitativa…”.
Accedendo alla doverosa interpretazione della norma
secundum rationem legis occorre inferire
l’estraneità della fattispecie in esame all’alveo
applicativo della norma invocata, proprio in
considerazione delle rilevate caratteristiche
costruttive e dimensionali dell’edificio ancorché
unifamiliare
(TAR
Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 22.06.2015 n. 1416
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: E’
vero che l’art. 17 d.P.R. cit. prescrive, al comma
3, che “il contributo di costruzione non è dovuto:
(…) b) per gli interventi di ristrutturazione e di
ampliamento, in misura non superiore al 20%, di
edifici unifamiliari”.
La giurisprudenza tuttavia, nell’interpretare la
suddetta disposizione, ha condivisibilmente
evidenziato che, nell’ipotesi di immobile destinato
allo svolgimento di attività produttive, “non
ricorre affatto la ratio della norma che dispone
l'esonero dal relativo pagamento; beneficio che è
rivolto solo a quelle situazioni in cui l'intervento
edilizio non è destinato a fini di lucro, ma
esclusivamente a migliorare la funzionalità e
l'usabilità dell'immobile ad esclusivo vantaggio
della famiglia che ci vive e delle relative esigenze
abitative”.
---------------
Per quanto concerne in particolare gli oneri di
urbanizzazione, che vengono direttamente in rilievo
nella presente controversia, la posizione
interpretativa maggiormente seguita in
giurisprudenza è quella secondo cui la relativa
quota costituirebbe un corrispettivo di diritto
pubblico, di natura non tributaria, posto a carico
del costruttore a titolo di partecipazione ai costi
delle opere di urbanizzazione in proporzione ai
benefici che la nuova costruzione ne ritrae,
derivandone che il fatto da cui in concreto nasce
l'obbligo di corrispondere gli "oneri" anzidetti è
l'aumento del carico urbanistico.
Ebbene, è vero che l'incremento del peso insediativo
può conseguire anche ad interventi di
ristrutturazione senza incrementi di volumi e di
superficie e senza cambiamenti della originaria
destinazione d’uso: è compito dell’Amministrazione
tuttavia, quale presupposto per l’esigibilità del
contributo, verificare attentamente l’incidenza
incrementativa delle suddette opere sul carico
urbanistico preesistente e dare congrua
giustificazione delle conclusioni raggiunte.
Deve
invece rilevarsi che non è meritevole di
accoglimento la deduzione attorea, incentrata sulla
gratuità assoluta ed a priori del suddetto
intervento edilizio.
L’art. 22 d.P.R. n. 380/2001 infatti, dopo aver
previsto che, “in alternativa al permesso di
costruire, possono essere realizzati mediante
denuncia di inizio attività: a) gli interventi di
ristrutturazione di cui all'articolo 10, comma 1,
lettera c)” (cui è riconducibile quello oggetto
di controversia), ha aggiunto (comma 5) che “gli
interventi di cui al comma 3 sono soggetti al
contributo di costruzione ai sensi dell'articolo 16”
(il quale stabilisce, a sua volta, che “il
rilascio del permesso di costruire comporta la
corresponsione di un contributo commisurato
all'incidenza degli oneri di urbanizzazione nonché
al costo di costruzione, secondo le modalità
indicate nel presente articolo”).
E’ vero che l’art. 17 d.P.R. cit. prescrive, al
comma 3, che “il contributo di costruzione non è
dovuto: (…) b) per gli interventi di
ristrutturazione e di ampliamento, in misura non
superiore al 20%, di edifici unifamiliari”: la
giurisprudenza tuttavia, nell’interpretare la
suddetta disposizione, ha condivisibilmente
evidenziato (cfr. TAR Marche, Sez. I, 10.05.2012, n.
310) che, nell’ipotesi di immobile destinato allo
svolgimento di attività produttive, “non ricorre
affatto la ratio della norma che dispone l'esonero
dal relativo pagamento; beneficio che è rivolto solo
a quelle situazioni in cui l'intervento edilizio non
è destinato a fini di lucro, ma esclusivamente a
migliorare la funzionalità e l'usabilità
dell'immobile ad esclusivo vantaggio della famiglia
che ci vive e delle relative esigenze abitative”.
Pur con tali precisazioni, non vi è dubbio che la
doverosità in astratto del contributo di costruzione
non valeva, tuttavia, ad esimere l'Amministrazione
dall'obbligo di verificare, nel caso concreto, la
sussistenza dei presupposti per poterlo esigere,
avuto riguardo alla natura e alla funzione tipica
assolta da ciascuna delle sue due componenti.
Per quanto concerne in particolare gli oneri di
urbanizzazione, che vengono direttamente in rilievo
nella presente controversia, la posizione
interpretativa maggiormente seguita in
giurisprudenza è quella secondo cui la relativa
quota costituirebbe un corrispettivo di diritto
pubblico, di natura non tributaria, posto a carico
del costruttore a titolo di partecipazione ai costi
delle opere di urbanizzazione in proporzione ai
benefici che la nuova costruzione ne ritrae,
derivandone che il fatto da cui in concreto nasce
l'obbligo di corrispondere gli "oneri"
anzidetti è l'aumento del carico urbanistico.
Ebbene, è vero che l'incremento del peso insediativo
può conseguire anche ad interventi di
ristrutturazione senza incrementi di volumi e di
superficie e senza cambiamenti della originaria
destinazione d’uso: è compito dell’Amministrazione
tuttavia, quale presupposto per l’esigibilità del
contributo, verificare attentamente l’incidenza
incrementativa delle suddette opere sul carico
urbanistico preesistente e dare congrua
giustificazione delle conclusioni raggiunte
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 08.01.2013 n. 25 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Circa
il regime concessorio gratuito di cui all’art. 17,
comma 3, lett. b), del DPR n. 380/2001, è la realtà
effettiva che deve prevalere su quella cartacea
attraverso cui si vorrebbe dimostrare l’esistenza
dei presupposti per la gratuità dell’intervento:
presupposti che non solo devono sussistere al
momento di rilascio del titolo edilizio ma devono
permanere anche dopo, contrariamente a quanto
accaduto nel caso specifico, in cui l’avvio
dell’attività produttiva di Bad & Breakfast avveniva
addirittura prima della fine dei lavori.
---------------
Anche se nell’edificio sono svolte attività
produttive compatibili con la residenza, non ricorre
affatto la ratio della norma che dispone l’esonero
dal relativo pagamento; beneficio che è rivolto solo
a quelle situazioni in cui l’intervento edilizio non
è destinato a fini di lucro, ma esclusivamente a
migliorare la funzionalità e l’usabilità
dell’immobile ad esclusivo vantaggio della famiglia
che ci vive e delle relative esigenze abitative.
1. La
ricorrente propone ricorso per ottenere la
restituzione del contributo concessorio a suo tempo
versato per il rilascio del permesso di costruire n.
02/2003 del 09.08.2003, poiché considerato non
dovuto in base all’art. 17, comma 3, lett. b), del
DPR n. 380/2001, trattandosi di intervento di
ristrutturazione e di ampliamento, in misura non
superiore al 20%, di edificio unifamiliare.
...
3. Dai fatti sopra ricordati pare evidente, a
giudizio del Collegio, che l’edificio in questione
non costituisce (né mai ha costituito dopo
l’acquisto da parte della ricorrente) una semplice
abitazione unifamiliare, ma presenta funzionalità
miste, in parte residenziali e in parte produttive
(queste ultime fonti di lucro e di aumento di carico
urbanistico rispetto all’edificio utilizzato per
esclusive finalità residenziali di un solo nucleo
familiare).
Risulta quindi irrilevante l’istanza del 03.07.2003
per la modifica del progetto assentito (al fine di
ripristinare la destinazione economica originaria,
cioè casa unifamiliare di civile abitazione),
essendo palese che tale richiesta non corrispondeva
all’effettiva realtà delle cose, ma aveva quale
unico scopo quello di beneficiare del regime
concessorio gratuito di cui all’art. 17, comma 3,
lett. b), del DPR n. 380/2001.
La realtà effettiva deve quindi prevalere su quella
cartacea attraverso cui si vorrebbe dimostrare
l’esistenza dei presupposti per la gratuità
dell’intervento: presupposti che non solo devono
sussistere al momento di rilascio del titolo
edilizio ma devono permanere anche dopo,
contrariamente a quanto accaduto nel caso specifico,
in cui l’avvio dell’attività produttiva di Bad &
Breakfast avveniva addirittura prima della fine dei
lavori.
Ciò dimostra che tali lavori di recupero non erano
certamente rivolti a ripristinare la destinazione
economica originaria.
Correttamente, pertanto, il Comune ha preteso il
pagamento del contributo, poiché anche se
nell’edificio sono svolte attività produttive
compatibili con la residenza, non ricorre affatto la
ratio della norma che dispone l’esonero dal
relativo pagamento; beneficio che è rivolto solo a
quelle situazioni in cui l’intervento edilizio non è
destinato a fini di lucro, ma esclusivamente a
migliorare la funzionalità e l’usabilità
dell’immobile ad esclusivo vantaggio della famiglia
che ci vive e delle relative esigenze abitative.
Al contrario, la destinazione mista (abitativa e
produttiva) persegue anche scopi lucrativi e
determina un maggiore carico urbanistico.
4. Il ricorso va quindi respinto
(TAR Marche,
sentenza 10.05.2012 n. 310 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’art. 9, lettera d), della legge n. 10
del 1977, ha fatto generico riferimento al termine
di “edifici familiari”, sicché deve ritenersi che
sia consentita alla discrezionalità delle singole
Amministrazioni comunali di adottare determinazioni
volte a precisare e circoscrivere il termine in
questione.
Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica
proposto dal sig. A.T. per l ’annullamento del
provvedimento del Comune di Mantova n. 8841/1999 del
25.10.1999, concernente la reiezione della richiesta
di concessione edilizia gratuita.
...
Premesso e considerato in data 28.06.1999, il sig.
A.T. presentava al Comune di Mantova richiesta di
concessione edilizia gratuita ex art. 9, lett. d),
n. 10/1977 per la ristrutturazione di fabbricato di
civile abitazione.
Con provvedimento del 25.10.1999, il Dirigente dello
SUIC (sportello unico per le imprese e i cittadini)
respingeva l’istanza per la considerazione che “l’edificio
non può essere considerato unifamiliare….perché
supera ad intervento ultimato il limite fissato
dalla D.C.C. n. 186/94 di 200 mq. di superficie lorda”.
Con ricorso notificato il 26.02.2000, il sig. T. ha
proposto ricorso straordinario al Presidente della
Repubblica, chiedendo l’annullamento del
summenzionato provvedimento, nonché della
deliberazione consiliare del 18.11.1994 n. 186.
A suo avviso, con la l’art. 9, lett. d), della legge
n. 10 del 1977, il legislatore ha esteso il
beneficio della concessione gratuita ad ipotesi
d’ampliamento di un edificio residenziale
preesistente condizionando il beneficio al concorso
di due condizioni: a) che il fabbricato sia
tipologicamente destinato ad accogliere un unico
nucleo familiare; b) che l’ampliamento non superi il
20%. Al di fuori di tali presupposti, non vi
sarebbero limiti di sorta all’edificio unifamiliare.
L’Amministrazione ha controdedotto ai motivi di
censura, concludendo per la reiezione del gravame.
Il ricorso è infondato.
Nella fattispecie in esame si è trattato di opere
edilizie relative ad una corte rurale, che,
all’epoca dei fatti, erano disciplinate dall’art. 38
delle N.T.U. del piano regolatore generale del
Comune di Mantova.
In particolare, i commi 3 e 5 del predetto art. 38,
richiamati dal provvedimento impugnato, stabilivano
che i proprietari e i titolari di diritti reali,
seppure non imprenditori agricoli, di corti agricole
dismesse alla data del 31.12.1993 potessero eseguire
opere di ristrutturazione edilizia e cambio di
destinazione d’uso nonché recuperare i sottotetti
per fini abitativi, ai sensi della L.R. Lombardia n.
15/1996 mediante concessione edilizia onerosa. A
parte ciò v’è da considerare che l’art. 9, lettera
d), della legge n. 10 del 1977, ha fatto generico
riferimento al termine di “edifici familiari”,
sicché deve ritenersi che sia consentita alla
discrezionalità delle singole Amministrazioni
comunali di adottare determinazioni volte a
precisare e circoscrivere il termine in questione.
In conclusione, per le suesposte considerazioni, si
esprime l’avviso che il ricorso debba essere
respinto
(Consiglio di Stato, Sez. III,
parere 03.03.2009 n. 405 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
Ed altre pronunce, un poco datate, che non paiono
essere in linea -oggi- con l'evolversi della
giurisprudenza sull'argomento: |
EDILIZIA PRIVATA: L'art.
9, lett. d), della Legge 28.01.1977 n. 10, all'epoca
vigente, stabiliva che il contributo per spese di
urbanizzazione e costo di costruzione non era dovuto: “per
gli interventi di restauro, di risanamento conservativo, di
ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore
al 20 per cento, di edifici unifamiliari".
Come ha già osservato la giurisprudenza amministrativa
condivisa da questo Collegio, dalla disposizione in esame si
possono trarre i seguenti principi:
- l'esenzione riguarda anche gli interventi di
ristrutturazione, con la conseguente irrilevanza
dell'eventuale modifica della destinazione d'uso di alcuni
locali, se resta invariata quella complessiva dell'edificio;
- si deve trattare di un edificio "unifamiliare" e, in
mancanza di ulteriori specificazioni limitative, tale è
quello strutturalmente destinato all'uso "abitativo" di un
"solo" nucleo familiare, indipendentemente dalle dimensioni
o meno dell'edificio stesso;
- l'intervento non deve comportare ampliamento del volume
complessivo dell'edificio esistente in misura superiore al
20%.
I ricorrenti, a seguito dell’approvazione di un piano di
recupero, ottenevano la concessione edilizia n. 6453 prot.
957 del 26.02.1991 (e successiva concessione edilizia n.
6453 prot. 1315 del 27.07.1993 relativa a varianti al
progetto originario) per il recupero di un edificio di
civile abitazione.
L’art. 4 della convenzione attuativa del predetto piano di
recupero, conteneva l’impegno dei proprietari a versare gli
oneri di urbanizzazione e il contributo sul costo di
costruzione determinato sulla base di un computo metrico
estimativo.
Le predette concessioni venivano quindi rilasciate a titolo
oneroso, con richiesta del pagamento di Lire 12.820.584
relativamente al contributo afferente al costo di
costruzione; somma che risulta poi essere stata versata dai
ricorrenti a favore dell’Amministrazione comunale.
Gli stessi ricorrenti propongono ora ricorso chiedendo
l’annullamento, in parte qua, dei provvedimenti sopra
indicati e la conseguente condanna del Comune alla
restituzione della somma corrisposta a titolo di contributo
concessorio.
Al riguardo deducono, con una prima censura, che detto
contributo non avrebbe dovuto essere corrisposto in
applicazione dell’art. 9, lett. d), della Legge n. 10/1977,
trattandosi di intervento finalizzato al recupero di un
edificio unifamiliare. Di conseguenza deve considerarsi
illegittima la pretesa economica dell’Amministrazione, come
altrettanto illegittimo deve considerarsi l’art. 4 della
citata convenzione. In punto di fatto evidenziano che
l’edificio ha mantenuto, anche dopo la ristrutturazione, la
configurazione unifamiliare, senza aumenti di volume e di
superfici rispetto alla struttura esistente.
...
2. Nel merito il primo profilo di doglianza è fondato.
In punto di diritto va osservato che l'art. 9, lett. d),
della Legge 28.01.1977 n. 10, all'epoca vigente, stabiliva
che il contributo per spese di urbanizzazione e costo di
costruzione non era dovuto: “per gli interventi di
restauro, di risanamento conservativo, di ristrutturazione e
di ampliamento, in misura non superiore al 20 per cento, di
edifici unifamiliari".
Come ha già osservato la giurisprudenza amministrativa
condivisa da questo Collegio (cfr. TAR Marche, 31.01.2007 n.
8), dalla disposizione in esame si possono trarre i seguenti
principi:
- l'esenzione riguarda anche gli interventi di
ristrutturazione, con la conseguente irrilevanza
dell'eventuale modifica della destinazione d'uso di alcuni
locali, se resta invariata quella complessiva dell'edificio;
- si deve trattare di un edificio "unifamiliare" e,
in mancanza di ulteriori specificazioni limitative, tale è
quello strutturalmente destinato all'uso "abitativo"
di un "solo" nucleo familiare, indipendentemente
dalle dimensioni o meno dell'edificio stesso;
- l'intervento non deve comportare ampliamento del volume
complessivo dell'edificio esistente in misura superiore al
20%.
Esaminando le tavole progettuali e di accatastamento versate
in atti, emerge chiaramente che si tratta di un edificio
unifamiliare. Tale configurazione è compatibile con la
presenza di alcuni piccoli vani accessori tipici del
casolare rurale nel periodo in cui detto edificio venne
realizzato (porticato, latrina, porcile, stalla e stallino,
letamaio e cantina).
Emerge, inoltre, che l’edificio non è stato oggetto di
ampliamento, ma solo di recupero edilizio mediante
ristrutturazione con l’eliminazione delle superfetazioni e
con modifica della destinazione d’uso dei vani accessori (di
natura agricolo/residenziale) non più necessari in relazione
alle moderne esigenze abitative, pur mantenendo la
destinazione monofamiliare secondo i tradizionali schemi
tipologici delle abitazioni rurali.
Sussistono, dunque, tutti i presupposti indicati dal citato
art. 9, lett. d), della Legge n. 10/1977 per il rilascio
gratuito dei titoli edilizi oggetto di ricorso (TAR
Lombardia-Brescia,
sentenza
25.02.2008 n. 151
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’esame della giurisprudenza in argomento fa
ritenere che l’art. 9 della l. n. 10/1977, avendo introdotto
in una certa serie di ipotesi la figura della concessione
gratuita, rappresenti una deroga al principio generale
dell’onerosità della concessione edilizia, tanto è vero che
l’indicazione delle fattispecie di esonero dal versamento
del contributo di concessione ha carattere tassativo.
Pertanto, le predette fattispecie di esonero, inclusa quella
ex art. 9, lett. d), cit., sono di stretta interpretazione.
Ne discende che è legittimo cercare di individuare e
circoscrivere il contenuto della nozione di “edifici
unifamiliari” ricorrendo, come ha fatto il Comune, a criteri
estratti da altri complessi normativi, con l’unico limite di
non stravolgere la portata della disciplina da applicare.
Nel caso di specie, al contrario di quanto sostenuto nel
ricorso, nessun stravolgimento della portata dell’art. 9,
lett. d), della l. n. 10/1977 si può ricavare dall’avere il
predetto Comune fatto ricorso agli artt. 3 del D.M. n.
1444/1968 e 19 della l.r. n. 51/1975 (quest’ultimo, nella
versione anteriore alle modifiche introdotte dall’art. 6
della l.r. n. 1/2001), definendo quali “edifici
unifamiliari” quelli la cui volumetria non superi i 100 mc.
per ciascun componente del nucleo familiare, individuato
attraverso l’Anagrafe comunale.
In particolare, dalle norme citate si ricava che il valore
medio, sulla cui base va computata la capacità insediativa,
è di 100 mc. per abitante. Sembra, quindi, ragionevole
l’utilizzo di siffatto criterio anche ai fini della
definizione della nozione di “edifici unifamiliari”, per il
cui ampliamento entro il 20% è prevista la gratuità della
concessione edilizia: ciò, in quanto, come si è già detto,
il principio è quello opposto, dell’onerosità della
concessione stessa, inteso come dovere di contribuire agli
oneri connessi alla trasformazione del territorio, per la
realizzazione di nuovi insediamenti o l’ampliamento di
quelli esistenti, con il conseguente consumo metrico e
volumetrico.
Sul punto, del resto, la giurisprudenza ha avuto modo di
affermare l’incensurabilità, in sede di legittimità, della
determinazione comunale delle caratteristiche dell’edificio
unifamiliare, stabilite in relazione ad un criterio logico
di abitabilità di un nucleo familiare medio, ai fini
dell’applicazione dell’art. 9, lett. d), cit..
... contro il Comune di Appiano Gentile, non costituito in
giudizio per l’annullamento della nota del Comune di Appiano
Gentile prot. n. 1971/99 del 24.02.1999, con cui è stata
respinta la richiesta di riesame ai fini dell’esonero dal
contributo concessorio ex art. 9, lett. d), della l. n.
10/1977, nonché di ogni altro atto presupposto, connesso e
consequenziale e per l’accertamento dell’indebita
riscossione del contributo concessorio e conseguentemente
per la condanna alla restituzione delle somme indebitamente
versate, pari a £. 7.628.000 (€ 3.939,53), oltre gli
interessi.
...
In ogni caso, anche ai fini di eventuali future ulteriori
azioni giurisdizionali, occorre rilevare come la questione
sollevata dalla ricorrente investa, a ben vedere, l’an
debeatur, cioè la non debenza, nel caso di specie, di
alcun contributo concessorio, atteso l’esonero ex art. 9,
lett. d), della l. n. 10/1977, e non, invece, il quantum
debeatur: poiché, dunque, viene contestata la stessa
imposizione del contributo e non le modalità di calcolo, ci
si trova a contestare la legittimità di un’attività non
paritetica, ma autoritativa, a fronte della quale la
posizione lesa è di interesse legittimo, con il corollario
dell’impugnabilità dell’atto lesivo entro il termine
decadenziale più sopra indicato (C.d.S., Sez. V, 27.09.2004,
n. 6281).
Alle conclusioni fin qui raggiunte nemmeno può obiettarsi
alcunché argomentando dal fatto che la nota comunale
impugnata si pone come conferma in senso proprio e non gi à
come atto meramente confermativo delle precedenti
determinazioni del Comune. Ed infatti, in disparte la
considerazione che la nota comunale prot. n. 1971/99 del
24.02.1999 ha la funzione di indicare alla sig.ra B. l’iter
logico e normativo seguito dall’Amministrazione nel ritenere
non applicabile al suo caso l’esonero dal contributo
concessorio di cui all’art. 9, lett. d), della l. n.
10/1977, piuttosto che di rappresentare l’esito di un
procedimento di vero e proprio riesame della fattispecie
(com’è per la conferma in senso proprio: TAR Sicilia,
Palermo, Sez. II, 22.06.2005, n. 1042), resta il fatto che
la qualificazione della nota in discorso come conferma o
atto meramente confermativo rileva ai soli fini della
necessità o meno dell’impugnativa della nota medesima, ma
non toglie nulla alla necessità che fossero impugnati,
altresì, la “comunicazione” comunale del 13.01.1999,
nonché, in parte qua, la concessione edilizia di pari
data: la mancata impugnazione di tali atti rende, pertanto,
il ricorso inammissibile.
In ogni caso il gravame, oltre che inammissibile, è pure
infondato.
Invero, l’assunto di base della ricorrente è che la
previsione dell’art. 9, comma 1, lett. d), della l. n.
10/1977 non costituisca una deroga ai principi generali in
materia di concessione edilizia, ma anzi ne costituisca una
diretta applicazione, giacché solo le attività comportanti
trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio
comunale determinano la partecipazione del realizzatore ai
relativi oneri: in base a tale regola, quindi, poiché in
caso di ampliamento di edifici unifamiliari entro il 20% non
si avrebbe alcuna trasformazione del territorio, del tutto
logicamente la legge ha previsto l’esonero dal contributo di
concessione.
Sempre secondo la ricorrente, se ne dovrebbe dedurre
l’impossibilità di utilizzare ulteriori limitazioni, a pena,
in caso contrario, di stravolgere significato e portata del
testo normativo: nella vicenda in esame, in cui, invece,
tali limitazioni ulteriori sono state utilizzate, avendo il
Comune fatto ricorso al D.M. n. 1444/1968 ed all’art. 19
della l.r. n. 51/1975 per decifrare la nozione di edificio “unifamiliare”,
l’operato dell’Amministrazione sarebbe stato, perciò,
illegittimo.
Tuttavia, l’esame della giurisprudenza in argomento non
conforta la tesi della ricorrente e anzi fa ritenere che
l’art. 9 della l. n. 10/1977, avendo introdotto in una certa
serie di ipotesi la figura della concessione gratuita,
rappresenti, invece, una deroga al principio generale
dell’onerosità della concessione edilizia, tanto è vero che
l’indicazione delle fattispecie di esonero dal versamento
del contributo di concessione ha carattere tassativo
(C.d.S., Sez. V, 06.02.2003, n. 617). Pertanto, le predette
fattispecie di esonero, inclusa quella ex art. 9, lett. d),
cit., sono di stretta interpretazione.
Ne discende che è legittimo cercare di individuare e
circoscrivere il contenuto della nozione di “edifici
unifamiliari” ricorrendo, come ha fatto il Comune di
Appiano Gentile, a criteri estratti da altri complessi
normativi, con l’unico limite di non stravolgere la portata
della disciplina da applicare.
Nel caso di specie, al contrario di quanto sostenuto nel
ricorso, nessun stravolgimento della portata dell’art. 9,
lett. d), della l. n. 10/1977 si può ricavare dall’avere il
predetto Comune fatto ricorso agli artt. 3 del D.M. n.
1444/1968 e 19 della l.r. n. 51/1975 (quest’ultimo, nella
versione anteriore alle modifiche introdotte dall’art. 6
della l.r. n. 1/2001), definendo quali “edifici
unifamiliari” quelli la cui volumetria non superi i 100
mc. per ciascun componente del nucleo familiare, individuato
attraverso l’Anagrafe comunale.
In particolare, dalle norme citate si ricava che il valore
medio, sulla cui base va computata la capacità insediativa,
è di 100 mc. per abitante. Sembra, quindi, ragionevole
l’utilizzo di siffatto criterio anche ai fini della
definizione della nozione di “edifici unifamiliari”,
per il cui ampliamento entro il 20% è prevista la gratuità
della concessione edilizia: ciò, in quanto, come si è già
detto, il principio è quello opposto, dell’onerosità della
concessione stessa, inteso come dovere di contribuire agli
oneri connessi alla trasformazione del territorio, per la
realizzazione di nuovi insediamenti o l’ampliamento di
quelli esistenti, con il conseguente consumo metrico e
volumetrico.
Sul punto, del resto, la giurisprudenza ha avuto modo di
affermare l’incensurabilità, in sede di legittimità, della
determinazione comunale delle caratteristiche dell’edificio
unifamiliare, stabilite in relazione ad un criterio logico
di abitabilità di un nucleo familiare medio, ai fini
dell’applicazione dell’art. 9, lett. d), cit. (così C.d.S.,
Sez. II, parere n. 1402 del 24.10.1984).
In definitiva, il ricorso è inammissibile e comunque
infondato (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 26.04.2006 n. 1063 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: Il
TAR Lombardia-Brescia scavalca la L.R. 12/2005 Lombardia in materia di
edifici di culto senza attendere che il comune si doti
(preliminarmente)
del piano delle attrezzature
religiose, atto separato facente parte del piano dei
servizi, dove vengono dimensionate e disciplinate sulla base
delle esigenze locali, valutate le istanze avanzate dagli
enti delle confessioni religiose di cui all'articolo
70.
---------------
Per quanto riguarda la rilevanza della
nuova legislazione regionale sulle attrezzature religiose,
si ritiene che il caso in esame, essendo riferito a un
intervento già favorevolmente valutato in sede di variante
al PGT, ricada nella deroga prevista dall’art.
72, comma 8, della LR 12/2005 (“attrezzature religiose
esistenti”).
Più precisamente, poiché si tratta di una situazione in
itinere, devono essere salvaguardate le aspettative dei
privati che si sono ormai consolidate per effetto della
pianificazione vigente.
Non è quindi necessario attendere l’approvazione dello
specifico piano riferito alle attrezzature religiose, perché
la zonizzazione già consente l’inserimento di un luogo di
culto. Su questo presupposto, gli aspetti dell’intervento
edilizio collegati alle opere di urbanizzazione e alle
distanze minime possono essere definiti attraverso
l’elaborazione delle norme tecniche del piano attuativo.
Il Comune deve invece dotarsi dei criteri che compongono la
restante parte della disciplina prevista dall’art. 72, comma
7, della LR 12/2005 (parcheggi, sevizi igienici,
accessibilità, congruità architettonica e dimensionale degli
edifici).
Per l’elaborazione di questi criteri (che non richiedono
necessariamente la modifica del PGT, trattandosi di
prescrizioni di dettaglio) il termine ragionevole è
individuato in 120 giorni dal deposito della presente
ordinanza. In ogni caso, scaduto il termine, l’esame dello
schema preliminare dovrà essere ripreso anche per la parte
relativa alle attrezzature religiose.
... per l'annullamento, previa sospensione dell'efficacia,
del provvedimento del responsabile della Direzione
Pianificazione Urbanistica del 25.03.2015, con il quale è
stata sospesa l’istruttoria sullo schema di piano attuativo
NE21, riguardante aree situate in via Campi Spini;
...
Considerato a un sommario esame:
1. Il Comune di Bergamo, con provvedimento del responsabile
della Direzione Pianificazione Urbanistica del 25.03.2015,
ha sospeso l’istruttoria sullo schema preliminare di piano
attuativo NE21, riguardante aree situate in via Campi Spini.
2. Lo schema prevede, in conformità alla variante al PGT
approvata nel 2014, due corpi di fabbrica, uno a ovest con
destinazioni d’uso terziarie e commerciali, e uno a est con
destinazione a servizi religiosi (la società ricorrente,
soggetto promotore del piano attuativo, ha stipulato il
21.05.2014 un preliminare di vendita con l’Associazione dei
Testimoni di Geova di Bergamo).
3. Il motivo della sospensione dell’istruttoria è indicato
nella nuova formulazione dell’art.
72 della LR 11.03.2005 n. 12, che consente la
realizzazione di attrezzature religiose solo sulla base di
un apposito piano (commi 1 e 2) approvato con la stessa
procedura dei piani inseriti nel PGT (comma 3). Il piano
deve contenere (comma 7) una disciplina puntuale delle
infrastrutture di servizio e degli altri requisiti
urbanistico-edilizi necessari per l’ottimale inserimento
delle attrezzature religiose.
4. Sulla vicenda così sintetizzata si possono formulare le
seguenti considerazioni:
(a) lo schema preliminare di piano attuativo prevede due
edificazioni distinte sia fisicamente sia sotto il profilo
della destinazione d’uso. La decisione del Comune di
sospendere l’istruttoria si basa sulla nuova disciplina
delle attrezzature religiose, che interessa solo una parte
del lotto. Per il principio di proporzionalità appare quindi
necessario consentire la prosecuzione dell’istruttoria
almeno con riguardo alle destinazioni d’uso terziarie e
commerciali, se questo corrisponde a un interesse economico
del soggetto promotore;
(b) in questa prospettiva deve essere affrontato anche il
problema delle opere di urbanizzazione non scindibili, nel
senso che deve essere data la possibilità al soggetto
promotore di elaborare un programma di lavori adeguatamente
graduato nel tempo;
(c) per quanto riguarda la rilevanza della nuova
legislazione regionale sulle attrezzature religiose, si
ritiene che il caso in esame, essendo riferito a un
intervento già favorevolmente valutato in sede di variante
al PGT, ricada nella deroga prevista dall’art.
72, comma 8, della LR 12/2005 (“attrezzature
religiose esistenti”);
(d) più precisamente, poiché si tratta di una situazione in
itinere, devono essere salvaguardate le aspettative dei
privati che si sono ormai consolidate per effetto della
pianificazione vigente;
(e) non è quindi necessario attendere l’approvazione dello
specifico piano riferito alle attrezzature religiose, perché
la zonizzazione già consente l’inserimento di un luogo di
culto. Su questo presupposto, gli aspetti dell’intervento
edilizio collegati alle opere di urbanizzazione e alle
distanze minime possono essere definiti attraverso
l’elaborazione delle norme tecniche del piano attuativo.
Il Comune deve invece dotarsi dei criteri che compongono la
restante parte della disciplina prevista dall’art.
72, comma 7, della LR 12/2005 (parcheggi, sevizi
igienici, accessibilità, congruità architettonica e
dimensionale degli edifici);
(f) per l’elaborazione di questi criteri (che non richiedono
necessariamente la modifica del PGT, trattandosi di
prescrizioni di dettaglio) il termine ragionevole è
individuato in 120 giorni dal deposito della presente
ordinanza. In ogni caso, scaduto il termine, l’esame dello
schema preliminare dovrà essere ripreso anche per la parte
relativa alle attrezzature religiose.
5. Sussistono pertanto le condizioni per adottare una misura
cautelare propulsiva con il contenuto sopra esposto.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia
sezione staccata di Brescia (Sezione Prima)
(a) accoglie la domanda cautelare, come precisato in
motivazione;
(b) fissa la trattazione del merito all'udienza pubblica del
21.09.2016;
(c) compensa le spese della fase cautelare
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
ordinanza 29.07.2015 n. 1443 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
IN EVIDENZA |
COMPETENZE GESTIONALI:
Il sindaco non può essere (legittimamente) il responsabile
del servizio finanziario.
Seppur il comune abbia meno di 5.000
abitanti (nel caso di specie poco meno di 1.000),
non appare conforme all’ordinamento vigente che
il Sindaco assuma su di sé, in aggiunta alle responsabilità
connaturate alla carica elettiva, anche quelle di
responsabile del servizio finanziario dell’ente.
---------------
In sede di esame della relazione trasmessa
dall’Organo di revisione del Comune di Ono San Pietro (BS),
relativo al rendiconto 2012, redatto ai sensi
dell’articolo 1, commi 166 e seguenti, della legge
23.12.2005, n. 266 (Finanziaria 2006), è emerso che
l’ente:
1. non ha rispettato il limite relativo alle spese del
personale previsto dall’art. 1, comma 562, L. 296/2006;
2. non è stato effettuato dal responsabile delle entrate
il riaccertamento dei residui attivi.
Con lettera istruttoria trasmessa in data 09.02.2015 al
numero di protocollo 1314, il magistrato istruttore ha
richiesto all’Organo di revisione delucidazioni in merito
alle motivazioni per cui non è stato effettuato dai singoli
responsabili delle relative entrate il riaccertamento dei
residui attivi e alle ragioni che non hanno permesso il
rispetto del limite previsto relativamente al contenimento
delle spese del personale, la cui variazione nel periodo
2008/2012 è stata del 54,54% (dati del questionario).
...
Mancato riaccertamento dei residui.
Ai sensi degli artt. 153 e 228 del T.U.E.L. il
riaccertamento dei residui è attività obbligatoria a
presidio della sana gestione contabile dell’ente locale e a
tutela degli equilibri di bilancio, in quanto adempimento
ciclico incidente sulla composizione dell’avanzo di
amministrazione. L’operazione di
riaccertamento deve essere compiuta dall’organo individuato
dal T.U.E.L. quale proposto al servizio finanziario, in
possesso dei requisiti tecnici per espletare l’attività
funzionale richiesta.
Quanto poi alla carenza in organico di un responsabile del
servizio finanziario, pur prendendo atto della peculiarità
del caso in esame, in ragione della ridotta struttura
amministrativa dell’ente, il Collegio non
può che rimarcare il principio di separazione dell’azione
amministrativa dalla gestione di indirizzo politico
dell’ente locale. Suddetto principio di organizzazione della
pubblica amministrazione, introdotto compiutamente dalla
c.d. legislazione Bassanini, e ripreso dal D.lgs. 165/2001 e
dalla legge 15/2009, pone quale responsabile dell’azione
amministrativa l’organo al vertice della struttura
burocratica.
Ne consegue che non appare conforme all’ordinamento vigente
che il Sindaco assuma su di sé, in aggiunta alle
responsabilità connaturate alla carica elettiva, anche
quelle di responsabile del servizio finanziario dell’ente.
...
P.Q.M.
La Corte dei conti Sezione Regionale di Controllo per la
Lombardia
1) accerta che in base alle risultanze della certificazione
resa dal Revisore dei conti del Comune di Ono San Pietro,
l'ente non ha rispettato il limite di contenimento delle
spese del personale;
2) invita l’amministrazione comunale al rispetto dei limiti
in tema di spese di personale, anche alla luce della
normativa attualmente in vigore;
3) accerta che il riaccertamento dei
residui attivi non è avvenuto in conformità agli artt. 153 e
228 T.U.E.L. in quanto asseritamente compiuto non dal
responsabile del servizio finanziario, bensì dal
responsabile unico nella persona del sindaco;
4) dispone che la presente deliberazione sia trasmessa al
Presidente del Consiglio Comunale, al Sindaco ed all’Organo
di revisione del Comune di Ono San Pietro (Corte dei Conti,
Sez. controllo Lombardia,
deliberazione 09.06.2015 n. 219). |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: Nel caso in esame, la Soprintendenza, in relazione al tipo
d’intervento effettuato, ha sovrapposto il proprio sindacato
a quello favorevolmente esercitato dall’autorità comunale,
addentrandosi in valutazioni di tipo propriamente
urbanistico–edilizio e trascurando un apprezzamento in
concreto relativo all’effettiva compatibilità
dell’intervento con il vincolo paesaggistico.
---------------
L’art. 167 d.lgs. 42/2004 non esclude affatto che il volume
tecnico, rispetto alla nozione di volume edilizio, possa
ricevere, in considerazione della peculiare destinazione
funzionale, una valutazione differenziata, caso per caso,
suscettibile di concludersi con l’autorizzazione
paesaggistica postuma, qualora in concreto il manufatto non
presenti elementi incompatibili o comunque di estraneità con
il paesaggio nel quale è destinato a collocarsi; non è un
caso che, proprio in tema di autorizzazione paesaggistica in
sanatoria, l’ipotesi del volume tecnico riceva dallo stesso
ministero resistente una considerazione differenziata
rispetto alla disciplina generale relativa ai volumi
edilizi;
Al riguardo, la circolare del Segretario generale n. 33 del
26.06.2009, nel dettare talune linee interpretative ed
operative ai fini dell’autorizzazione paesaggistica postuma,
ai sensi del menzionato art. 167 d.lgs. 42/2004, chiarisce
che “per volumi s’intende qualsiasi manufatto costituito da
parti chiuse emergente dal terreno o dalla sagoma di un
fabbricato preesistente indipendentemente dalla destinazione
d’uso del manufatto”, per poi precisare: “ad esclusione dei
volumi tecnici”;
Benché la circolare sia espressione di un potere
ministeriale di mero indirizzo interno, privo di efficacia
precettiva autonoma e non vincolante per i giudici, essa è
tuttavia un chiaro indizio di come la stessa amministrazione
competente abbia sposato una soluzione interpretativa della
norma in esame che ragionevolmente tiene conto delle
peculiari caratteristiche dei volumi tecnici.
Il ricorso è fondato.
Le censure ivi espresse trovano corrispondenza specifica in
un precedente della Sezione, rappresentato dalla sentenza
breve, n. 1540 del 2013 (ndr: riformata da Consiglio di
Stato, Sez. VI,
sentenza 05.01.2015 n. 12), relativa allo stesso Comune qui
considerato (Pisciotta), la cui motivazione si ritiene
opportuno riportare integralmente:
“Considerato che:
- nel caso in esame, la Soprintendenza, in relazione al tipo
d’intervento effettuato, ha sovrapposto il proprio sindacato
a quello favorevolmente esercitato dall’autorità comunale,
addentrandosi in valutazioni di tipo propriamente
urbanistico–edilizio e trascurando un apprezzamento in
concreto relativo all’effettiva compatibilità
dell’intervento con il vincolo paesaggistico (Tar Campania,
Salerno, sez. I, 01.10.2012, n. 1737);
- l’art. 167 d.lgs. 42/2004 non esclude affatto che il
volume tecnico, rispetto alla nozione di volume edilizio,
possa ricevere, in considerazione della peculiare
destinazione funzionale, una valutazione differenziata, caso
per caso, suscettibile di concludersi con l’autorizzazione
paesaggistica postuma, qualora in concreto il manufatto non
presenti elementi incompatibili o comunque di estraneità con
il paesaggio nel quale è destinato a collocarsi; non è un
caso che, proprio in tema di autorizzazione paesaggistica in
sanatoria, l’ipotesi del volume tecnico riceva dallo stesso
ministero resistente una considerazione differenziata
rispetto alla disciplina generale relativa ai volumi
edilizi;
- al riguardo, la circolare del Segretario generale n. 33
del 26.06.2009, nel dettare talune linee interpretative
ed operative ai fini dell’autorizzazione paesaggistica
postuma, ai sensi del menzionato art. 167 d.lgs. 42/2004,
chiarisce che “per volumi s’intende qualsiasi manufatto
costituito da parti chiuse emergente dal terreno o dalla
sagoma di un fabbricato preesistente indipendentemente dalla
destinazione d’uso del manufatto”, per poi precisare: “ad
esclusione dei volumi tecnici”;
-
benché la circolare sia espressione di un potere
ministeriale di mero indirizzo interno, privo di efficacia
precettiva autonoma e non vincolante per i giudici, essa è
tuttavia un chiaro indizio di come la stessa amministrazione
competente abbia sposato una soluzione interpretativa della
norma in esame che ragionevolmente tiene conto delle
peculiari caratteristiche dei volumi tecnici;
-
il manufatto contestato realizza in concreto un volume
tecnico, di carattere pertinenziale e destinato
esclusivamente ad impianti tecnologici (legnaia, serbatoio
idrico con connesso autoclave); appare invero irrilevante la
circostanza che i locali tecnici ospitanti la non siano
immediatamente contigui alla casa di abitazione ma da essa
separati; questo dato è tuttavia scarsamente significativo
dal punto di vista paesaggistico e, peraltro, non è decisivo
per fare venire meno il carattere di pertinenza dell’opera
all’abitazione principale;
- per quanto sopra, con rilievo di carattere assorbente, il
ricorso merita accoglimento. Ne consegue l’annullamento
degli atti della Soprintendenza, sopra impugnati.
Appare comunque equo compensare le spese in relazione alla
natura della controversia ed all’incerta esatta
interpretazione dell’art. 167 d.lgs. 42/2004 in merito ai
volumi tecnici”.
Rileva il Tribunale come il caso, oggetto del citato
precedente, si presenti assai simile, quasi sovrapponibile,
rispetto alla fattispecie concreta, oggetto dell’odierno
esame del Collegio, riguardante l’ampliamento di un locale
garage e la realizzazione di uno scannafosso, adiacente al
locale garage, quindi l’edificazione di volumi tecnici,
senz’altro non idonei all’uso abitativo, destinati a
ospitare una centrale termica e un serbatoio d’acqua, con
relativa autoclave.
Le considerazioni, in detta decisione espresse, valgano
altresì a superare le controdeduzioni formulate
dall’Avvocatura Erariale nelle proprie difese.
Ne deriva l’annullamento del parere negativo impugnato, e,
secondo la regola dell’invalidità derivata, dei
provvedimenti, conseguentemente adottati dal Comune di
Pisciotta, anch’essi travolti dalla pronunzia d’annullamento
dell’atto presupposto.
Sussistono peraltro, per le oscillazioni giurisprudenziali
in tema di autorizzazioni paesaggistiche postume per i
volumi tecnici, eccezionali motivi per compensare
integralmente, tra le parti, le spese di giudizio
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 09.06.2015 n. 1359 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Come
è noto, ai sensi dell’art. 167, 4° comma, d.lgs. n. 42/2004, vige il divieto
di sanatoria postuma per gli interventi che abbiano
determinato “creazioni di superfici utili o volumi ovvero
aumenti di quelli legittimamente realizzati”.
Nelle volumetrie da considerare rientrano anche, per comune
intendimento, i c.d. volumi tecnici.
Anche secondo il costante orientamento di questo Tribunale
non può sostenersi che l’attività edilizia di
ampliamento compiuta in maniera difforme dal titolo edilizio
possa essere apprezzata quale volumetria tecnica, anche
quando, proprio come nella specie, intesa a realizzare,
tramite una copertura del tetto, uno strumento di isolamento
termico.
Del resto, la nozione di volume tecnico si aggancia ai
seguenti tre parametri:
a) il primo, di tipo funzionale, secondo cui l’opera deve
assumere un rapporto di strumentalità necessaria rispetto
alla costruzione principale perché ne consente un migliore e
più efficiente utilizzo;
b) il secondo ed il terzo di tipo strutturale, nel senso
che, da un lato, la collocazione esterna del volume tecnico
appare l’unica soluzione praticabile per impossibilità di
ricorrere a soluzioni progettuali diverse e, dall’altro,
deve esistere un rapporto di necessaria proporzionalità tra
volume tecnico e costruzione principale.
Nella nozione di volume tecnico non rientrano quindi, ad
esempio, le soffitte, gli stenditoio chiusi e quelli di
sgombero, i piani di copertura qualora, impropriamente
considerati sottotetti, costituiscano in realtà mansarde
perché dotate di rilevante altezza media rispetto al piano
di gronda.
Devono invece considerarsi tali gli impianti serventi
connessi a condotte idrica, termica o all’ascensore.
In tale ribadita prospettiva, quindi, la copertura del
tetto, resasi necessaria al presunto scopo di creare un
isolamento termico, non trova alcuna giustificazione né
nella normativa sopra menzionata né nell’elaborazione
giurisprudenziale ed in quella ministeriale volte ad
individuare la predetta nozione
Del resto, le norme di tutela paesaggistica hanno lo scopo
di salvaguardare la sostanziale integrità di determinati
ambiti territoriali, imponendo per tal via il divieto di
realizzare qualsiasi volume edilizio, e quindi anche quei
volumi che non sono considerati normalmente rilevanti
secondo le norme che regolano l'attività edilizia (nello
stesso senso, con riferimento, per esempio, ai volumi
addirittura interrati, v. TAR Napoli, 04.03.2009 n. 1267).
A maggior ragione, deve ritenersi in ogni caso preclusa la
sanatoria di opere consistenti nella realizzazione di
sottotetti tecnicamente abitabili (e, come tali, neppure
prospetticamente rientranti nella riassunta nozione di
volume tecnico).
3.- In disparte le premesse che precedono, osserva il
Collegio come si debba, in ogni caso, in accoglimento degli
appositi motivi affidati, anche per aggiunzione, al secondo
gravame, affermarsi l’illegittimità dell’autorizzazione
paesaggistica rilasciata a favore di Giorgio Giovanni e del
presupposto parere favorevole rilasciato dalla
Soprintendenza.
Al tal fine, premette il Collegio che, come è noto, ai sensi
dell’art. 167, 4° comma, d.lgs. n. 42/2004, vige il divieto
di sanatoria postuma per gli interventi che abbiano
determinato “creazioni di superfici utili o volumi ovvero
aumenti di quelli legittimamente realizzati”.
Nelle volumetrie da considerare rientrano anche, per comune
intendimento, i c.d. volumi tecnici, (in terminis, Cons.
Stato, sez. IV, 28.03.2011, n. 1879; cfr., inoltre, Cons.
Stato, sez. VI, 12.01.2011, n. 110; sez. IV, 11.05.2005, n. 2388).
Anche secondo il costante orientamento di questo Tribunale
(cfr., da ultimo, TAR Salerno, sez. I, 03.03.2015 e Id. n.
464/2014) non può sostenersi che l’attività edilizia di
ampliamento compiuta in maniera difforme dal titolo edilizio
possa essere apprezzata quale volumetria tecnica, anche
quando, proprio come nella specie, intesa a realizzare,
tramite una copertura del tetto, uno strumento di isolamento
termico.
Del resto, la nozione di volume tecnico si aggancia ai
seguenti tre parametri:
a) il primo, di tipo funzionale, secondo cui l’opera deve
assumere un rapporto di strumentalità necessaria rispetto
alla costruzione principale perché ne consente un migliore e
più efficiente utilizzo;
b) il secondo ed il terzo di tipo strutturale, nel senso
che, da un lato, la collocazione esterna del volume tecnico
appare l’unica soluzione praticabile per impossibilità di
ricorrere a soluzioni progettuali diverse e, dall’altro,
deve esistere un rapporto di necessaria proporzionalità tra
volume tecnico e costruzione principale (TAR Campania,
Napoli, sez. III, 09.11.2010, n. 23699; sez. IV, 10.05.2010, n. 3433).
Nella nozione di volume tecnico non rientrano quindi, ad
esempio, le soffitte, gli stenditoio chiusi e quelli di
sgombero, i piani di copertura qualora, impropriamente
considerati sottotetti, costituiscano in realtà mansarde
perché dotate di rilevante altezza media rispetto al piano
di gronda (Cons. Stato, sez. IV, 28.01.2011, n. 687).
Devono invece considerarsi tali gli impianti serventi
connessi a condotte idrica, termica o all’ascensore.
In tale ribadita prospettiva, quindi, la copertura del
tetto, resasi necessaria al presunto scopo di creare un
isolamento termico, non trova alcuna giustificazione né
nella normativa sopra menzionata né nell’elaborazione
giurisprudenziale ed in quella ministeriale volte ad
individuare la predetta nozione
Del resto, le norme di tutela paesaggistica hanno lo scopo
di salvaguardare la sostanziale integrità di determinati
ambiti territoriali, imponendo per tal via il divieto di
realizzare qualsiasi volume edilizio, e quindi anche quei
volumi che non sono considerati normalmente rilevanti
secondo le norme che regolano l'attività edilizia (nello
stesso senso, con riferimento, per esempio, ai volumi
addirittura interrati, v. TAR Napoli, 04.03.2009 n. 1267).
A maggior ragione, deve ritenersi in ogni caso preclusa la
sanatoria di opere consistenti nella realizzazione di
sottotetti tecnicamente abitabili (e, come tali, neppure
prospetticamente rientranti nella riassunta nozione di
volume tecnico)
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 28.05.2015 n. 1199 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: E’
noto che il legislatore, nel ricondurre l’esercizio della
funzione amministrativa a precisi riferimenti di natura
temporale ricorre alla enucleazione di termini che soltanto
nei casi espressamente previsti assumono natura perentoria,
di guisa che la loro violazione non refluisce sulla
legittimità delle determinazioni emesse tardivamente.
La giurisprudenza si è espressa in tal senso, evidenziando
che, ai sensi dell'art. 146, comma 7, d.lgs. n. 42 del 2004,
l'Amministrazione Comunale, entro quaranta giorni dalla
ricezione dell'istanza, deve provvedere a trasmettere al
Soprintendente la documentazione presentata
dall'interessato, accompagnandola con una relazione tecnica
illustrativa, ai fini dell'espressione del parere vincolante
di cui all'art. 146, comma 5, del medesimo d.lgs. n. 42 del
2004, di tal che, laddove detto termine non sia stato
rispettato, sussiste un illegittimo silenzio-inadempimento
dell'Amministrazione Comunale. La configurazione di tale
fattispecie, integrata dal comportamento silente
dell’Amministrazione, postula invero la persistenza del
potere pur a termine elasso.
Così pure il Supremo Consesso di G.A. ha di recente
osservato che “nel caso di mancato rispetto del termine
fissato dall'art. 146, comma 5, così come del termine
fissato dall'art. 167, comma 5, del D.Lgs. 22.01.2004, n. 42
(Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'
articolo 10 della L. 06.07.2002, n. 137) - il potere della
Soprintendenza continua a sussistere (tanto che un suo
parere tardivo resta comunque disciplinato dai richiamati
commi 5 e mantiene la sua natura vincolante), ma
l'interessato può proporre ricorso al giudice
amministrativo, per contestare l'illegittimo
silenzio-inadempimento dell'organo statale: la perentorietà
del termine riguarda non la sussistenza del potere o la
legittimità del parere, ma l'obbligo di concludere la fase
del procedimento”.
Ne consegue che il potere di verificare la compatibilità
paesaggistica dell’intervento non risente, in punto di
legittimità, della semplice tardività della sua adozione
rispetto al termine previsto dalla legge, e pertanto il
parere negativo espresso dalla Soprintendenza, ancorché
intervenuto ultra tempus, conserva il carattere vincolante
assegnatogli dalla medesima disciplina di riferimento.
---------------
L'illegittimità per disparità di trattamento in materia
paesaggistica è infatti configurabile solo in casi
macroscopici e presuppone un'assoluta identità delle
situazioni, sia sotto il profilo estetico che dimensionale.
Peraltro la giurisprudenza prevalente ritiene che in tema di
autorizzazione paesaggistica la disparità di trattamento sia
vizio assai difficilmente riscontrabile, atteso il
naturalmente diverso impatto sul paesaggio di differenti
progetti, quand'anche simili tra loro; nella specie non è
stata dimostrata un'eccezionale somiglianza dei casi addotti
a paragone con quello per cui è causa, laddove la prova
rigorosa deve essere fornita dall'interessato.
Il Supremo Consesso di G.A. ha peraltro soggiunto che è
nella realtà delle cose che ciascun nuovo manufatto, o
progetto di manufatto, sia normalmente diverso -per quantità
di ingombro e altri caratteri estrinseci- da ogni altro già
assentito; e comunque, anche nell'ipotesi di manufatti
simili, sempre avviene che il nuovo vada a occupare una
porzione fisica di spazio tutelato diverso da quello
dell'altro già assentito, e che così naturalmente diversi ne
siano l'impatto visivo e prospettico e il rischio di
alterazione negativa del contesto protetto.
Sicché il giudizio concreto di compatibilità paesaggistica
-salvi ben rari e macroscopici casi- è normalmente non
comparabile con altri concreti giudizi già operati,
quand'anche nelle immediate vicinanze.
I. Col primo e secondo mezzo, meritevoli per il loro tenore
di trattazione congiunta, parte ricorrente deduce la
violazione dell’art. 146, commi 7 e 8, del d.lvo n. 42/2004,
nonché l’eccesso di potere, in quanto l’Amministrazione
comunale avrebbe trasmesso l’istanza di rilascio del
permesso di costruire per la realizzazione di un fabbricato
in Pisciotta, alla località Terra Bianca, ben oltre il
termine di quaranta giorni e il parere della Soprintendenza
sarebbe stato espresso oltre il termine di quarantacinque
giorni.
In effetti, dalla documentazione versata in atti risulta che
la dinamica procedimentale innescata dalla istanza di parte
ha comportato il superamento di entrambi gli anzidetti
termini, avuto riguardo alla data in cui il Comune di
Pisciotta ha trasmesso la documentazione alla Soprintendenza
per l’acquisizione del relativo parere (avvenuta con nota
prot. n. 4845 del 25.06.2013), rispetto a quella di
presentazione dell’istanza (04.01.2007, prot. n. 69) e la
successiva integrazione documentale (19.11.2007, prot. n.
8288).
Così pure il provvedimento soprintendentizio risulta tardivo
in considerazione del tempo trascorso, superiore ai
prescritti 45 giorni, dalla ricezione degli atti (avvenuta
in data 03.07.2013), laddove non si voglia tener conto del
lasso temporale intercorso tra la comunicazione dei motivi
ostativi e l’acquisizione delle relative osservazioni.
Tuttavia, dalla violazione dei termini anzidetti non
discende la divisata illegittimità dei provvedimenti
negativi adottati, avuto riguardo alla loro natura
ordinatoria, prevedendo il legislatore la sola attivazione
di meccanismi sostitutivi in caso di mancata adozione del
provvedimento soprintendentizio secondo la prevista
scansione temporale.
E’ noto che il legislatore, nel ricondurre l’esercizio della
funzione amministrativa a precisi riferimenti di natura
temporale ricorre alla enucleazione di termini che soltanto
nei casi espressamente previsti assumono natura perentoria,
di guisa che la loro violazione non refluisce sulla
legittimità delle determinazioni emesse tardivamente.
La giurisprudenza (TAR Napoli (Campania) sez. VII 11.02.2011
n. 891) si è espressa in tal senso, evidenziando che, ai
sensi dell'art. 146, comma 7, d.lgs. n. 42 del 2004,
l'Amministrazione Comunale, entro quaranta giorni dalla
ricezione dell'istanza, deve provvedere a trasmettere al
Soprintendente la documentazione presentata
dall'interessato, accompagnandola con una relazione tecnica
illustrativa, ai fini dell'espressione del parere vincolante
di cui all'art. 146, comma 5, del medesimo d.lgs. n. 42 del
2004, di tal che, laddove detto termine non sia stato
rispettato, sussiste un illegittimo silenzio-inadempimento
dell'Amministrazione Comunale. La configurazione di tale
fattispecie, integrata dal comportamento silente
dell’Amministrazione, postula invero la persistenza del
potere pur a termine elasso.
Così pure il Supremo Consesso di G.A. ha di recente
osservato che “nel caso di mancato rispetto del termine
fissato dall'art. 146, comma 5, così come del termine
fissato dall'art. 167, comma 5, del D.Lgs. 22.01.2004, n. 42
(Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'
articolo 10 della L. 06.07.2002, n. 137) - il potere della
Soprintendenza continua a sussistere (tanto che un suo
parere tardivo resta comunque disciplinato dai richiamati
commi 5 e mantiene la sua natura vincolante), ma
l'interessato può proporre ricorso al giudice
amministrativo, per contestare l'illegittimo
silenzio-inadempimento dell'organo statale: la perentorietà
del termine riguarda non la sussistenza del potere o la
legittimità del parere, ma l'obbligo di concludere la fase
del procedimento” (cfr. Cons. Stato Sez. VI, Sent.,
04/10/2013, n. 4914).
Ne consegue che il potere di verificare la compatibilità
paesaggistica dell’intervento non risente, in punto di
legittimità, della semplice tardività della sua adozione
rispetto al termine previsto dalla legge, e pertanto il
parere negativo espresso dalla Soprintendenza, ancorché
intervenuto ultra tempus, conserva il carattere
vincolante assegnatogli dalla medesima disciplina di
riferimento. Le censure in esame vanno quindi disattese.
---------------
IV. Col quinto ed ultimo mezzo, parte ricorrente lamenta
disparità di trattamento per essere stati autorizzati “fabbricati
situati a pochissimi metri di distanza da quello che il
ricorrente avrebbe dovuto realizzare” (cfr. pag. 7 del
gravame). La censura non supera la soglia della genericità,
per come formulata, facendo riferimento a non meglio
identificati interventi edilizi, nemmeno lumeggiati dalla
certificazione del Responsabile UTC del Comune di Pisciotta
del 26.02.2014, pure allegata al ricorso, attestandosi
soltanto che <<“nello stesso foglio di mappa” risultano
rilasciati Concessioni Edilizie e Permesso di Costruire per
la realizzazione di fabbricati ad uso residenziale>>.
La censura non è quindi meritevole di apprezzamento, già
solo per il fatto che non è suffragata dalla specifica
indicazione degli immobili di confronto nella loro esatta
consistenza planovolumetrica oltre che architettonica.
L'illegittimità per disparità di trattamento in materia
paesaggistica è infatti configurabile solo in casi
macroscopici e presuppone un'assoluta identità delle
situazioni, sia sotto il profilo estetico che dimensionale.
Peraltro la giurisprudenza prevalente ritiene che in tema di
autorizzazione paesaggistica la disparità di trattamento sia
vizio assai difficilmente riscontrabile, atteso il
naturalmente diverso impatto sul paesaggio di differenti
progetti, quand'anche simili tra loro (in termini Cons.
Stato, Sez. VI, 01.04.2014, n. 1559; Sez. VI, 11.09.2013, n.
4497); nella specie non è stata dimostrata un'eccezionale
somiglianza dei casi addotti a paragone con quello per cui è
causa, laddove la prova rigorosa deve essere fornita
dall'interessato (Cons. Stato, Sez. VI, 05.03.2013, n.
1323).
Il Supremo Consesso di G.A. ha peraltro soggiunto che è
nella realtà delle cose che ciascun nuovo manufatto, o
progetto di manufatto, sia normalmente diverso -per quantità
di ingombro e altri caratteri estrinseci- da ogni altro già
assentito; e comunque, anche nell'ipotesi di manufatti
simili, sempre avviene che il nuovo vada a occupare una
porzione fisica di spazio tutelato diverso da quello
dell'altro già assentito, e che così naturalmente diversi ne
siano l'impatto visivo e prospettico e il rischio di
alterazione negativa del contesto protetto. Sicché il
giudizio concreto di compatibilità paesaggistica -salvi ben
rari e macroscopici casi- è normalmente non comparabile con
altri concreti giudizi già operati, quand'anche nelle
immediate vicinanze (Consiglio di Stato, sez. VI,
11.09.2013, n. 4497).
Il ricorso va conclusivamente respinto siccome del tutto
infondato
(TAR Calabria-Salerno, Sez. I,
sentenza 26.05.2015 n. 1158 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai sensi del disposto dell'art. 167 del d.lgs. n. 42 del
2004 gli interventi che non determinano creazione di
superfici utili o di volumi e quelli configurabili in
termini di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi
dell'articolo 3 del d.p.r. n. 380 del 2001 sono gli unici
per i quali è possibile l'accertamento postumo di conformità
paesaggistica, a sua volta presupposto del rilascio della
sanatoria edilizia.
Ne consegue, come si osserva in giurisprudenza, che una
valutazione postuma di compatibilità ambientale è consentita
solo nei casi di lavori che non abbiano determinato
creazione o aumento di superfici utili o volumi, per
l’impiego di materiali in difformità dall’autorizzazione
concessa, ovvero di lavori comunque configurabili quali
interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria.
La scelta operata dal legislatore, nel senso cioè di
precludere l’autorizzazione paesaggistica in sanatoria per
gli abusi edilizi concretanti, come nella fattispecie, nuova
superficie utile o nuovo volume realizzato, senza che sia
necessario, ai fini dell’assentibilità, valutarne in
concreto la compatibilità paesaggistica, è stata ritenuta
conforme ai principi costituzionali.
Invero, si è osservato, con la scelta recepita dal Codice
dei Beni Culturali, il legislatore ha inteso presidiare il
regime delle opere incidenti su beni paesaggistici,
escludendo in radice che l'esame di compatibilità
paesaggistica possa essere postergato all’intervento
realizzato (sine titulo o in difformità dal titolo
rilasciato), e ciò al fine di escludere che possa
riconnettersi al fatto compiuto qualsivoglia forma di
legittimazione giuridica.
In altri termini, il richiamato art. 167, evidentemente in
considerazione delle prassi applicative delle leggi
succedutesi in materia di condoni e sanatorie
(caratterizzate di regola dall'esercizio di poteri
discrezionali delle Autorità preposte alla tutela del
vincolo paesaggistico), ha inteso tutelare più rigorosamente
i beni sottoposti al medesimo vincolo, precludendo in radice
ogni valutazione di compatibilità ex post delle opere
abusive, tranne quelle tassativamente indicate nello stesso
art. 167.
Ne consegue che tutte le volte in cui la compatibilità
paesaggistica debba essere negata per profili strettamente
edilizi e sulla base di un “applicazione” vincolata della
disposizione, il parere dell’organo preposto alla tutela del
vincolo in questione potrà essere legittimamente omesso, in
ossequio al divieto di inutile aggravamento del procedimento
amministrativo ex art. 1, comma 2, l. n. 241/1990.
II.1. Orbene, va in primo luogo disattesa la censura
sollevata col terzo mezzo, in ordine alla pretesa
incompetenza dell’Ufficio Urbanistica nel rilevare il
preteso contrasto con l’art. 167 del D.Lgs. n. 42/2004,
assumendosi che a tale organo non sarebbero demandati
compiti che attengono alla valutazione della compatibilità
paesaggistica di un intervento edilizio. Sarebbe stato
quindi obliterato, a parere della ricorrente, quanto
statuito dall’art. 167, comma 5, di cui alla predetta
disciplina codicistica, laddove prevede l’acquisizione del
parere vincolante della soprintendenza.
Va invero rilevato
che l’applicazione di tale norma postula la presentazione di
“apposita domanda all'autorità preposta alla gestione del
vincolo ai fini dell'accertamento della compatibilità
paesaggistica degli interventi”, quando invece la società
ricorrente ha rivolto all’ente comunale istanza di
accertamento di conformità urbanistica ai sensi dell’art. 36
del d.P.R. n. 380/2001. L’adozione di ogni determinazione
conseguente a tale iniziativa procedimentale non può che
competere all’ufficio preposto all’esame delle pratiche
edilizie.
Del resto, con il censurato diniego,
l’Amministrazione, pur richiamando l’art. 167 citato, si
diffonde in argomentazioni che investono la legittimità
delle opere dal punto di vista urbanistico, avendo più volte
sottolineato la presenza di “opere edilizie abusive
all’interno della struttura turistica denominata “Hotel
Stella Maris”, sommariamente consistenti nella modifica
aperture esterne, creazione di nuove aperture esterne,
ampliamento servizi igienici, diversa distribuzione spazi
interni”, e meglio descritte nel verbale di infrazione
edilizia n. 2/2009 del 04.03.2009.
Peraltro, l’Ufficio ha
ritenuto che le stesse, insistenti pacificamente su area
sottoposta a vincolo paesaggistico, non sarebbero sanabili
siccome tali da incrementare volume e superficie, a ciò
ostando la espressa previsione del richiamato art. 167, la
cui applicazione, per come formulata, non involge
apprezzamenti di natura paesaggistica. Ai sensi del disposto
dell'art. 167 del d.lgs. n. 42 del 2004, infatti, gli
interventi che non determinano creazione di superfici utili
o di volumi e quelli configurabili in termini di
manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi
dell'articolo 3 del d.p.r. n. 380 del 2001 sono gli unici
per i quali è possibile l'accertamento postumo di conformità
paesaggistica, a sua volta presupposto del rilascio della
sanatoria edilizia (Consiglio di Stato, sez. VI, 05.01.2015, n. 12).
Ne consegue, come si osserva in giurisprudenza
(TAR Napoli-Campania - sez. VII, 05.11.2014, n.
5703; TAR Palermo-Sicilia - sez. I, 10.04.2013, n.
802), che una valutazione postuma di compatibilità
ambientale è consentita solo nei casi di lavori che non
abbiano determinato creazione o aumento di superfici utili o
volumi, per l’impiego di materiali in difformità
dall’autorizzazione concessa, ovvero di lavori comunque
configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o
straordinaria. La
scelta operata dal legislatore, nel senso cioè di precludere
l’autorizzazione paesaggistica in sanatoria per gli abusi
edilizi concretanti, come nella fattispecie, nuova
superficie utile o nuovo volume realizzato, senza che sia
necessario, ai fini dell’assentibilità, valutarne in
concreto la compatibilità paesaggistica, è stata ritenuta
(TAR Napoli-Campania - sez. VII, 04.06.2014, n.
3066) conforme ai principi costituzionali.
Invero, si è
osservato, con la scelta recepita dal Codice dei Beni
Culturali, il legislatore ha inteso presidiare il regime
delle opere incidenti su beni paesaggistici, escludendo in
radice che l'esame di compatibilità paesaggistica possa
essere postergato all’intervento realizzato (sine titulo o
in difformità dal titolo rilasciato), e ciò al fine di
escludere che possa riconnettersi al fatto compiuto
qualsivoglia forma di legittimazione giuridica.
In altri
termini, il richiamato art. 167, evidentemente in
considerazione delle prassi applicative delle leggi
succedutesi in materia di condoni e sanatorie
(caratterizzate di regola dall'esercizio di poteri
discrezionali delle Autorità preposte alla tutela del
vincolo paesaggistico), ha inteso tutelare più rigorosamente
i beni sottoposti al medesimo vincolo, precludendo in radice
ogni valutazione di compatibilità ex post delle opere
abusive, tranne quelle tassativamente indicate nello stesso
art. 167.
Ne consegue che tutte le volte in cui la
compatibilità paesaggistica debba essere negata per profili
strettamente edilizi e sulla base di un “applicazione” vincolata della disposizione, il parere dell’organo preposto
alla tutela del vincolo in questione potrà essere
legittimamente omesso, in ossequio al divieto di inutile
aggravamento del procedimento amministrativo ex art. 1, comma
2, l. n. 241/1990 (TAR Genova–Liguria - sez. I, 26.02.2014, n. 360).
La censura in esame è quindi da
respingere.
II.2. Ne discende, di conserva, l’infondatezza pure del
secondo mezzo, col quale parte ricorrente lamenta la mancata
verifica, da parte dell’Ente civico, della conformità
paesaggistica delle opere su descritte diverse
dall’ampliamento dei servizi igienici, in quanto privi di
incidenza plano volumetrica, quali la modifica e la
creazione di aperture esterne e la diversa distribuzione di
spazi interni.
La deducente a tal uopo valorizza la
previsione di cui all’art. 167, comma 4, del d.lgs, n.
42/2004, assumendo che tali interventi non sarebbero
riconducibili a nessuna delle ipotesi, ivi contemplate, di
esclusione in via preventiva dal perimetro della possibile
compatibilità paesaggistica. La censura non coglie nel segno
già solo perché postula la scindibilità di un intervento che
va invece va esaminato unitariamente nella sua complessiva
idoneità ad immutare l’esistente.
La prospettiva unitaria si
deve al fatto che le opere afferiscono al medesimo immobile,
dall’unitaria consistenza strutturale e funzionale, che non
consente quindi di accedere ad una visione rapsodica e
frammentaria che scomponga l’intervento oggetto di sanatoria
in singole parti, oggetto di distinta valutazione. Va da sé
che, proprio in tale ottica, appunto unitaria, che emerge il
carattere ostativo dell’incremento volumetrico prodotto
dall’ampliamento dei servizi igienici, come ammesso dallo
stesso ricorrente alla luce del tratto testuale del citato
art. 167, comma 4.
Anche la censura in esame va quindi respinta
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 25.05.2015 n. 1119 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
No al silenzio inadempiente. La p.a. deve
comunque concludere il procedimento.
EDILIZIA E PAESAGGIO/ La Regione Calabria soccombe in
Consiglio di stato.
Di fronte a istanze di accertamento di compatibilità
paesaggistica per opere edilizie, le Regioni e la pubblica
amministrazione non possono opporre ai privati un «silenzio
inadempiente»: sono, al contrario, obbligate a concludere il
procedimento, non fosse altro che per consentire alla parte
privata di poter esercitare il proprio diritto
all'impugnazione.
È questo il principio di fondo sancito dalla
sentenza 04.03.2015 n. 1070 del Consiglio di
Stato, Sez. VI, che ha visto definitivamente soccombere la
Regione Calabria di fronte al ricorso di una cooperativa
edilizia di Lamezia Terme.
I 40 soci della coop lametina quattro anni fa avevano
presentato alla Regione formale domanda d'accertamento della
compatibilità paesaggistica in sanatoria per lavori già
eseguiti. L'istanza veniva trasmessa dalla Regione alla
Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici
competente territorialmente per il previsto «parere
vincolante».
La Regione Calabria non faceva, però, seguire alcun
provvedimento, costringendo la cooperativa, rappresentata e
difesa dall'avvocato Silvia Gulisano, a ricorrere al Tar per
chiedere la condanna di entrambe le amministrazioni (Regione
e Soprintendenza) a provvedere. Il Tar della Calabria, due
anni dopo dichiarava inammissibile il ricorso. Ma contro la
sentenza, la cooperativa ha proposto appello al Consiglio di
Stato invocando l'obbligo della Regione a pronunciarsi e a
concludere il procedimento con un provvedimento, anche in
assenza del parere della Soprintendenza.
La causa, discussa a Palazzo Spada con l'intervento
dell'avvocato Gulisano, si è conclusa con una sentenza,
ormai inoppugnabile, di vittoria piena della parte
ricorrente. I magistrati della suprema corte amministrativa
VI Sezione (presidente Luciano Barca Caracciolo, estensore
Giulio Castriota Scanderbeg) hanno infatti ritenuto che il
carattere vincolante del parere della Soprintendenza non
significa che la Regione risulti esonerata dall'obbligo di
provvedere, ove tale parere non sia espresso.
Per i magistrati del Consiglio di Stato «la totale
omissione di pronuncia», si legge nella sentenza n.
1070/2015, «rappresenta violazione dei termini di cui
alla disciplina speciale in materia di condono paesaggistico
(art. 181 e art. 167 dlgs n. 42 del 2004) e più in generale
del principio di necessaria conclusione con atto espresso di
ogni procedimento amministrativo (per come desumibile
dall'art. 2 della legge 241 del 1990 e s.m.i.), dando così
vita a una fattispecie di silenzio inadempimento, così come
denunciato dall'appellante».
Da ciò l'ordine alla Regione Calabria, impartito in
sentenza, di provvedere entro 30 giorni «con
provvedimento espresso sulla istanza a suo tempo proposta
dalla società appellante»
(articolo ItaliaOggi Sette del 27.07.2015).
----------------
MASSIMA
1.- Con il ricorso di primo grado (RG n. 132 del 2013),
proposto al Tribunale amministrativo regionale per la
Campania, la Rapida Società Cooperativa a r.l. chiedeva
l'accertamento e la declaratoria dell'illegittimità del
silenzio riservato dalla Regione Calabria sulla domanda
d’accertamento della compatibilità paesaggistica presentata,
ai sensi dell'art. 181 comma 1-quater d.lgs. 42 del 2004,
per lavori eseguiti nel Comune di Lamezia Terme riguardanti
“nove corpi di fabbrica (inseriti nei lotti A e B)
facenti parte del complesso edilizio di proprietà della
Cooperativa Edilizia La Rapida e realizzati in difformità
rispetto alla precedente autorizzazione paesaggistica
rilasciata dalla Regione Calabria con DPGR 135/1998”.
L'istanza, con nota 36626 del 01.02.2012, veniva trasmessa
dalla Regione alla Soprintendenza per i Beni architettonici
e paesaggistici territorialmente competente, ai fini della
acquisizione del “parere vincolante” previsto
dall’art. 167, comma 5, d.lgs. n.42 del 2004.
In data 18.04.2012, l'amministrazione statale, in riscontro
della predetta istanza, dichiarava che avrebbe potuto “esprimere
il parere al mantenimento delle opere di che trattasi con
esclusivo riguardo al profilo paesaggistico, contestualmente
alla proposizione di un progetto di completamento degli
immobili in oggetto”.
La Regione Calabria non faceva seguire alcun provvedimento.
La società ricorrente chiedeva, così, la condanna di
entrambe le amministrazioni a provvedere.
Con la
sentenza 23.06.2014 n. 1047, il TAR
Calabria-Catanzaro dichiarava inammissibile il ricorso
diretto ad accertare il silenzio-inadempimento della Regione
Calabria e del Ministero per i beni e le attività culturali,
posto che la Soprintendenza non era stata posta nelle
condizioni di provvedere non avendo mai la società privata
adempiuto all’obbligo di produrre la documentazione
richiesta.
2.- Avverso detta sentenza la Rapida Società Cooperativa a
r.l. ha proposto appello (ricorso n. 9277 del 2014),
lamentandone l'erroneità e chiedendone la riforma sul capo
relativo alla declaratoria di inammissibilità del ricorso,
con conseguente accoglimento delle richieste formulate in
primo grado e con la dichiarazione dell'obbligo di entrambe
le amministrazioni a pronunciarsi e a concludere il
procedimento con un provvedimento espresso.
3.- Si è costituito il Ministero per resistere all'appello e
per chiederne l'inammissibilità e l'infondatezza
dell’appello.
4.- All'udienza del 03.02.2015 la causa è stata trattenuta
per la sentenza.
5.- L'appello, che va definito con sentenza succintamente
motivata ai sensi dell’art. 117, comma 2, Cod.proc.amm., è
fondato e merita accoglimento.
6.- Invero la circostanza che il parere
della Soprintendenza abbia carattere vincolante, non
significa che la Regione risulti esonerata dall'obbligo di
provvedere, ove tale parere non sia espresso.
Nella specie peraltro, come riconosce la sentenza di primo
grado, la Soprintendenza pur non esprimendo
il parere ha comunque risposto alla Regione, esponendo le
ragioni “di sostanziale improcedibilità dell'istanza
(c.d. archiviazione)”.
Dunque, non vi erano preclusioni per la
Regione medesima di concludere pure essa il procedimento nei
termini stabiliti a tal fine, uniformandosi a sua volta alla
pronuncia di archiviazione che, legittimamente o
illegittimamente, aveva assunto la Sopraintendenza a causa
della carenza della documentazione progettuale che si
assumeva mancasse agli atti ovvero, ancor meglio (nella
prospettiva della leale collaborazione), a mezzo della
richiesta dell’ulteriore documentazione richiesta
dall’autorità preposta alla tutela del vincolo
paesaggistico. Il che avrebbe consentito all'attuale
appellante di integrare la documentazione richiesta, ovvero
di impugnare l'atto conclusivo del procedimento, ove avesse
ritenuto l'integrazione documentale non dovuta.
Viceversa la totale omissione di pronuncia,
nel termine di cui si è detto, rappresenta violazione dei
termini di cui alla disciplina speciale in materia di
condono paesaggistico (art. 181 e art. 167 d.lgs n. 42 del
2004) e più in generale del principio di necessaria
conclusione con atto espresso di ogni procedimento
amministrativo (per come desumibile dall'art. 2 della legge
241 del 1990 e s.m.i.), dando così vita a una fattispecie di
silenzio-inadempimento,
così come denunciato dall'appellante.
Né, in senso contrario, vale l'obiezione del Ministero per i
Beni e le attività culturali secondo la quale non sarebbe
ammissibile, in quanto violativa della sfera di
discrezionalità dell'amministrazione, una statuizione circa
l'obbligo di provvedere “sulla base della sola
documentazione fornita dal ricorrente”.
L'obbligo di pronuncia di cui all'art. 30 c. 1 Cod. proc.
amm. prescinde, infatti, dal contenuto della determinazione
che spetta all'amministrazione configurare, salvo
l'ulteriore diritto d'impugnazione della parte privata.
In conclusione, sussiste l'obbligo
dell'amministrazione regionale di concludere il procedimento
e, pertanto, il Collegio non può che ordinare alla Regione
Calabria di provvedere con provvedimento espresso sulla
istanza a suo tempo proposta dalla società appellante, e ciò
nel termine di trenta giorni dalla notificazione ovvero
dalla comunicazione della presente sentenza.
7.- Per quanto sin qui esposto, l'appello risulta fondato e
va, pertanto, accolto; per l'effetto, in riforma della
sentenza impugnata, va accolto nei sensi anzidetti il
ricorso di primo grado. |
EDILIZIA PRIVATA: In
base all’art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004, gli interventi
da eseguire su immobili vincolati sono soggetti alla
preventiva autorizzazione dell’autorità preposta alla tutela
del vincolo e non è ammissibile la sanatoria successiva per
le opere realizzate in assenza o difformità del titolo
paesaggistico fuori dai casi di cui all'articolo 167, co. 4
e 5, del DLgs. n. 42 cit. .
In particolare, una valutazione postuma di compatibilità
ambientale è consentita solo nei casi di lavori che non
abbiano determinato creazione o aumento di superfici utili o
volumi, per l'impiego di materiali in difformità
dall'autorizzazione concessa, ovvero di lavori comunque
configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o
straordinaria.
---------------
Nella specie la Soprintendenza, investita dal Comune per
l’acquisizione del relativo parere, ha appunto rilevato
l’inammissibilità dell’accertamento di compatibilità
paesaggistica degli abusi compiuti a causa degli incrementi
di superficie e di volume.
Tale determinazione ha carattere essenzialmente vincolato
essendo priva di contenuti discrezionali.
Ne consegue che il provvedimento è sufficientemente motivato
mediante la enunciazione dei presupposti di fatto e di
diritto rilevanti ai fini della individuazione della
fattispecie di illecito ed a sostegno della determinazione
adottata.
Inoltre, in applicazione dell'art. 21-octies, della legge n.
241 del 1990, è da escludere l’annullabilità del
provvedimento adottato in violazione delle norme sul
procedimento amministrativo ed in particolare per
l'omissione del preavviso di rigetto dell'istanza, qualora
sia palese che il suo contenuto non avrebbe potuto essere
comunque diverso.
---------------
L'art. 167, co. 4, del dlgs. n. 42 del 2004 esclude la
sanabilità di opere abusive che abbiano comportato un
aumento di cubatura, quale che sia la natura dei volumi, ivi
compresi quindi i volumi tecnici.
Inoltre la realizzazione di una tettoia addossata al muro
dell’edificio con la connessa pavimentazione, anche se
attuata senza opere murarie, non solo modifica la sagoma del
corpo di fabbrica al quale aderisce, ma anche comporta un
incremento della superficie utile.
Per il resto è da osservare che l'oggettiva idoneità del
complesso di opere abusive ad incidere sullo stato dei
luoghi va considerata unitariamente. Infatti un artificioso
frazionamento dei singoli interventi abusivi vanificherebbe
l’effettività delle regole che disciplinano il settore e
l’efficacia della sanzioni previste in caso di inosservanza.
Ne consegue che, secondo consolidato orientamento di questo
Tribunale, la legittimità degli atti impugnati non può che
essere valutata considerando il complesso degli interventi
abusivi in rapporto alla disciplina urbanistica e
paesaggistica che regola la trasformazione del territorio
nell’area interessata.
2.1. Giova premettere che, in base all’art. 146 del d.lgs.
n. 42 del 2004, gli interventi da eseguire su immobili
vincolati sono soggetti alla preventiva autorizzazione
dell’autorità preposta alla tutela del vincolo e non è
ammissibile la sanatoria successiva per le opere realizzate
in assenza o difformità del titolo paesaggistico fuori dai
casi di cui all'articolo 167, co. 4 e 5, del DLgs. n. 42
cit..
In particolare, una valutazione postuma di compatibilità
ambientale è consentita solo nei casi di lavori che non
abbiano determinato creazione o aumento di superfici utili o
volumi, per l'impiego di materiali in difformità
dall'autorizzazione concessa, ovvero di lavori comunque
configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o
straordinaria.
Nella specie la Soprintendenza, investita dal Comune per
l’acquisizione del relativo parere, ha appunto rilevato
l’inammissibilità dell’accertamento di compatibilità
paesaggistica degli abusi compiuti a causa degli incrementi
di superficie e di volume.
Tale determinazione ha carattere essenzialmente vincolato
essendo priva di contenuti discrezionali (cfr. TAR Campania,
sez. VII, 04/06/2014, n. 3066).
Ne consegue che il provvedimento è sufficientemente motivato
mediante la enunciazione dei presupposti di fatto e di
diritto rilevanti ai fini della individuazione della
fattispecie di illecito ed a sostegno della determinazione
adottata.
Inoltre, in applicazione dell'art. 21-octies, della legge n.
241 del 1990, è da escludere l’annullabilità del
provvedimento adottato in violazione delle norme sul
procedimento amministrativo ed in particolare per
l'omissione del preavviso di rigetto dell'istanza, qualora
sia palese che il suo contenuto non avrebbe potuto essere
comunque diverso (cfr. Cons. St., sez. IV, 31/07/2014, n.
4043).
2.2. L'art. 167, co. 4, del dlgs. n. 42 del 2004 esclude la
sanabilità di opere abusive che abbiano comportato un
aumento di cubatura, quale che sia la natura dei volumi, ivi
compresi quindi i volumi tecnici (cfr., Cons. St., sez. VI,
26/03/2013, n. 1671).
Inoltre la realizzazione di una tettoia addossata al muro
dell’edificio con la connessa pavimentazione, anche se
attuata senza opere murarie, non solo modifica la sagoma del
corpo di fabbrica al quale aderisce, ma anche comporta un
incremento della superficie utile (cfr. Cons. St., sez. VI,
05/08/2013, n. 4086).
Per il resto è da osservare che l'oggettiva idoneità del
complesso di opere abusive ad incidere sullo stato dei
luoghi va considerata unitariamente. Infatti un artificioso
frazionamento dei singoli interventi abusivi vanificherebbe
l’effettività delle regole che disciplinano il settore e
l’efficacia della sanzioni previste in caso di inosservanza.
Ne consegue che, secondo consolidato orientamento di questo
Tribunale, la legittimità degli atti impugnati non può che
essere valutata considerando il complesso degli interventi
abusivi in rapporto alla disciplina urbanistica e
paesaggistica che regola la trasformazione del territorio
nell’area interessata
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 05.11.2014 n. 5703 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’istanza di accertamento di conformità e di
compatibilità paesaggistica avanzata dalla parte ricorrente
prevede la realizzazione di interventi edilizi ex novo
(realizzazione di un nuovo solaio) al fine di ripristinare
la volumetria originaria del fabbricato.
Tuttavia, alla luce del vigente ordinamento giuridico, non è
ammissibile il rilascio di una concessione in sanatoria ai
sensi dell’art. 36 D.P.R. 06.06.2001 n. 380 o di
compatibilità paesaggistica ex art. 167 D.Lgs. 22.01.2004 n.
42 subordinata alla esecuzione di opere edilizie, anche se
gli ulteriori interventi sono finalizzati a ricondurre
l'immobile abusivo nell'alveo di conformità degli strumenti
urbanistici o compatibili con il paesaggio.
Invero, ciò contrasta ontologicamente con gli elementi
essenziali dell'accertamento di conformità, i quali
presuppongono la già avvenuta esecuzione delle opere e la
loro integrale conformità alla disciplina urbanistica, dal
momento che la compatibilità paesaggistica va scrutinata con
riguardo alle opere già eseguite e non a quelle da eseguire.
Pertanto, nel valutare l’assentibilità del manufatto le
intimate amministrazioni hanno correttamente valutato la
consistenza del manufatto “al netto” del progetto di
adeguamento proposto dalla parte ricorrente: trattandosi di
immobile la cui volumetria era stata illegittimamente
incrementata, appare quindi pienamente condivisibile
l’argomentazione reiettiva tracciata nell’impugnato
provvedimento secondo cui l’istanza non può essere accolta
in quanto –ravvisandosi incremento volumetrico della
consistenza originaria– deve escludersi la compatibilità
paesaggistica ai sensi dell’art. 167 D.Lgs. 42/2004.
---------------
Con la scelta recepita dal Codice dei Beni Culturali il
legislatore ha inteso presidiare il regime delle opere
incidenti su beni paesaggistici, escludendo in radice che
l’esame di compatibilità paesaggistica possa essere
postergato all’intervento realizzato (sine titulo o in
difformità dal titolo rilasciato) e ciò al fine di escludere
che possa riconnettersi al fatto compiuto qualsivoglia forma
di legittimazione giuridica.
In altri termini, il richiamato art. 167, evidentemente in
considerazione delle prassi applicative delle leggi
succedutesi in materia di condoni e sanatorie
(caratterizzate di regola dall’esercizio di poteri
discrezionali delle Autorità preposte alla tutela del
vincolo paesaggistico), ha inteso tutelare più rigorosamente
i beni sottoposti al medesimo vincolo, precludendo in radice
ogni valutazione di compatibilità ex post delle opere
abusive, tranne quelle tassativamente indicate nello stesso
art. 167.
Sul punto, si è osservato che il principio generale per il
quale l’autorizzazione paesaggistica non può essere
rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione,
anche parziale, degli interventi è stato derogato prevedendo
la possibilità di una valutazione postuma della
compatibilità paesaggistica di alcuni interventi minori. Si
tratta, in particolare, dei lavori, realizzati in assenza o
difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non
abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi
ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati;
dell'impiego di materiali in difformità dall'autorizzazione
paesaggistica; dei lavori configurabili quali interventi di
manutenzione ordinaria o straordinaria, ai sensi dell'art. 3
del T.U. Edilizia.
In tali ipotesi, poiché l’esiguità di interventi realizzati
è circoscritta a casi tassativi per i quali è consentito il
rilascio di un provvedimento di accertamento di
compatibilità paesaggistica in sanatoria, vigendo, al di
fuori di tali casi eccezionali, il divieto previsto
dall’art. 146, quarto comma, del D.Lgs. 42/2004, la
diversificazione tra le situazioni poste a raffronto (abusi
“minori”, che non abbiano determinato creazione di superfici
utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente
realizzati, e “maggiori”), non appare violare alcuno dei
parametri costituzionali evocati dalla parte ricorrente,
trattandosi, per l’appunto, di situazioni in relazione alle
quali, venendo in rilievo la consistenza dell’opera
realizzata sul piano della percezione nel contesto
paesaggistico di riferimento, non risulta irragionevole una
disciplina normativa diversa.
Il ricorso è destituito di giuridico fondamento.
Il Collegio osserva che l’istanza di accertamento di
conformità e di compatibilità paesaggistica avanzata dalla
parte ricorrente prevede la realizzazione di interventi
edilizi ex novo (realizzazione di un nuovo solaio) al
fine di ripristinare la volumetria originaria del
fabbricato.
Tuttavia, alla luce del vigente ordinamento giuridico, non è
ammissibile il rilascio di una concessione in sanatoria ai
sensi dell’art. 36 D.P.R. 06.06.2001 n. 380 o di
compatibilità paesaggistica ex art. 167 D.Lgs. 22.01.2004 n.
42 subordinata alla esecuzione di opere edilizie, anche se
gli ulteriori interventi sono finalizzati a ricondurre
l'immobile abusivo nell'alveo di conformità degli strumenti
urbanistici o compatibili con il paesaggio.
Invero, ciò contrasta ontologicamente con gli elementi
essenziali dell'accertamento di conformità, i quali
presuppongono la già avvenuta esecuzione delle opere e la
loro integrale conformità alla disciplina urbanistica (Cass.
Pen., 12.11.2007 n. 41567; 27.09.2005 n. 986; 30.05.2000 n.
10601), dal momento che la compatibilità paesaggistica va
scrutinata con riguardo alle opere già eseguite e non a
quelle da eseguire (Cass. Pen. 24.03.2009 n. 19081).
Pertanto, nel valutare l’assentibilità del manufatto le
intimate amministrazioni hanno correttamente valutato la
consistenza del manufatto “al netto” del progetto di
adeguamento proposto dalla parte ricorrente: trattandosi di
immobile la cui volumetria era stata illegittimamente
incrementata, appare quindi pienamente condivisibile
l’argomentazione reiettiva tracciata nell’impugnato
provvedimento prot. n. 5704/2007 secondo cui l’istanza non
può essere accolta in quanto –ravvisandosi incremento
volumetrico della consistenza originaria– deve escludersi la
compatibilità paesaggistica ai sensi dell’art. 167 D.Lgs.
42/2004.
Con memoria depositata il 29.04.2008 parte ricorrente pone
la questione di legittimità costituzionale per contrasto
dell’art. 167, commi 4 e 5, del D.Lgs. 42/2004 con gli artt.
3, 9, 32, 41, 42 e 97 della Costituzione nella parte in cui
le citate disposizioni contenute nel Codice dei Beni
Culturali precludono l’autorizzazione paesaggistica in
sanatoria per gli abusi edilizi concretanti, come nel caso
di specie, nuova superficie utile o nuovo volume realizzato,
senza che sia necessario, ai fini dell’assentibilità,
valutarne in concreto la compatibilità paesaggistica.
La questione è manifestamente infondata.
Invero, con la scelta recepita dal Codice dei Beni Culturali
il legislatore ha inteso presidiare il regime delle opere
incidenti su beni paesaggistici, escludendo in radice che
l’esame di compatibilità paesaggistica possa essere
postergato all’intervento realizzato (sine titulo o
in difformità dal titolo rilasciato) e ciò al fine di
escludere che possa riconnettersi al fatto compiuto
qualsivoglia forma di legittimazione giuridica.
In altri termini, il richiamato art. 167, evidentemente in
considerazione delle prassi applicative delle leggi
succedutesi in materia di condoni e sanatorie
(caratterizzate di regola dall’esercizio di poteri
discrezionali delle Autorità preposte alla tutela del
vincolo paesaggistico), ha inteso tutelare più rigorosamente
i beni sottoposti al medesimo vincolo, precludendo in radice
ogni valutazione di compatibilità ex post delle opere
abusive, tranne quelle tassativamente indicate nello stesso
art. 167.
Sul punto, si è osservato (Consiglio di Stato, Sez. II,
08.04.2013 parere n. 1664) che il principio generale per il
quale l’autorizzazione paesaggistica non può essere
rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione,
anche parziale, degli interventi è stato derogato prevedendo
la possibilità di una valutazione postuma della
compatibilità paesaggistica di alcuni interventi minori. Si
tratta, in particolare, dei lavori, realizzati in assenza o
difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non
abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi
ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati;
dell'impiego di materiali in difformità dall'autorizzazione
paesaggistica; dei lavori configurabili quali interventi di
manutenzione ordinaria o straordinaria, ai sensi dell'art. 3
del T.U. Edilizia.
In tali ipotesi, poiché l’esiguità di interventi realizzati
è circoscritta a casi tassativi per i quali è consentito il
rilascio di un provvedimento di accertamento di
compatibilità paesaggistica in sanatoria, vigendo, al di
fuori di tali casi eccezionali, il divieto previsto
dall’art. 146, quarto comma, del D.Lgs. 42/2004, la
diversificazione tra le situazioni poste a raffronto (abusi
“minori”, che non abbiano determinato creazione di
superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli
legittimamente realizzati, e “maggiori”), non appare
violare alcuno dei parametri costituzionali evocati dalla
parte ricorrente, trattandosi, per l’appunto, di situazioni
in relazione alle quali, venendo in rilievo la consistenza
dell’opera realizzata sul piano della percezione nel
contesto paesaggistico di riferimento, non risulta
irragionevole una disciplina normativa diversa.
Le considerazioni svolte circa l’insussistenza di margini
per l’accoglimento dell’istanza di sanatoria conduce inoltre
a dequotare il vizio procedimentale censurato dalla parte
ricorrente per omessa comunicazione del c.d. preavviso di
rigetto ex art. 10-bis L. 241/1990.
Ed invero, con specifico riguardo a tale ultimo profilo deve
rammentarsi che il provvedimento ex art. 36 D.P.R. 380/2001
si caratterizza per la sua connotazione oggettiva e
vincolata in quanto l’amministrazione si limita a effettuare
una valutazione sulla conformità alla disciplina urbanistica
senza svolgere apprezzamenti discrezionali (TAR Campania,
Napoli, Sez. VIII, 06.12.2012 n. 4971; Sez. III, 13.07.2010
n. 16689).
Inoltre, per pacifico e consolidato orientamento
giurisprudenziale, ove le opere risultino diverse da quelle
sanabili e indicate nell’art. 167, le competenti autorità
non possono che emanare un atto dal contenuto vincolato e
cioè esprimersi nel senso della reiezione dell’istanza di
sanatoria (Consiglio di Stato, Sez. VI, 20.06.2012 n. 3578),
con l’unica eccezione a tale rigida prescrizione per il caso
in cui i lavori, pur se realizzati in assenza o difformità
dell’autorizzazione paesaggistica, non abbiano determinato
creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di
quelli legittimamente realizzati.
Alla fattispecie, pertanto, è applicabile l’art. 21-octies
della L. 241/1990 che statuisce la non annullabilità del
provvedimento adottato in violazione delle norme sul
procedimento amministrativo qualora per la sua natura
vincolata sia palese che il suo contenuto non avrebbe potuto
essere diverso da quello concretamente adottato. Attesa la
natura dovuta del diniego di accertamento di conformità e di
compatibilità paesaggistica per le ragioni illustrate, il
relativo procedimento non è quindi inficiato dall’omissione
del preavviso di rigetto dell’istanza.
E’ del pari legittima anche la conseguente ordinanza di
demolizione basata sul presupposto del mancato accoglimento,
per le ragioni sopra enunciate, della domanda di concessione
in sanatoria.
Conclusivamente, ribadite le svolte considerazioni, il
ricorso ed i motivi aggiunti devono essere respinti pur
stimandosi equo disporre l’integrale compensazione delle
spese di giudizio in ragione della peculiare natura delle
questioni dedotte in giudizio
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 04.06.2014 n. 3066 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
parere della commissione paesaggio si rende necessario tutte
le volte in cui venga in questione una valutazione di natura
“discrezionale” circa la compatibilità paesaggistica di un
intervento ex art. 167, comma 4, del D.Lgs. n. 42/2004, per
esempio circa l'impiego di materiali in difformità
dall'autorizzazione paesaggistica.
Diversamente, tutte le volte in cui la compatibilità
paesaggistica debba essere negata per profili strettamente
edilizi e sulla base di un’applicazione “vincolata” della
disposizione (per esempio, per interventi eccedenti la
manutenzione, che abbiano determinato la creazione di
superfici utili o volumi, ovvero aumento di quelli
legittimamente realizzati), il parere in questione potrà
essere legittimamente omesso, in ossequio al divieto di
inutile aggravamento del procedimento amministrativo ex art.
1, comma 2, L. n. 241/1990.
Del resto, per costante giurisprudenza il provvedimento di
diniego di condono edilizio costituisce espressione di
potere vincolato rispetto ai presupposti normativi richiesti
e dei quali deve farsi applicazione, sicché l’omissione di
un parere obbligatorio –che costituisce violazione di norma
sul procedimento– è sanabile mercé l’applicazione dell’art.
21-octies, comma 2, L. n. 241/1990, allorché -come nel caso
di specie, in cui è pacifica la creazione di volume- sia
palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto
essere diverso da quello in concreto adottato.
3. Infondato è anche il terzo motivo di ricorso.
Quanto alla commissione edilizia, l’art. 12 del regolamento
edilizio, nella parte in cui richiedeva il parere della
commissione edilizia in merito ai “dinieghi di sanatorie
e di condoni” è stato abrogato con deliberazione del
consiglio comunale 28.09.2010, n. 84.
Quanto alla commissione locale per il paesaggio, l’art. 2,
comma 2, della L.R. 05.06.2009, n. 22, stabilisce che “le
Commissioni esprimono pareri obbligatori in relazione ai
procedimenti: […] b) di rilascio di pareri su istanze di
condono edilizio o di accertamento di compatibilità
paesaggistica ai sensi degli articoli 167 e 181 del Codice”.
La ratio della normativa (la L.R. n. 22/2009 è stata
emanata in attuazione degli articoli 159, comma 1, 148 e
146, comma 6, del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42-
Codice dei beni culturali e del paesaggio) rende evidente
come il parere della commissione si renda necessario tutte
le volte in cui venga in questione una valutazione di natura
“discrezionale” circa la compatibilità paesaggistica
di un intervento ex art. 167, comma 4, del D.Lgs. n.
42/2004, per esempio circa l'impiego di materiali in
difformità dall'autorizzazione paesaggistica.
Diversamente, tutte le volte in cui la compatibilità
paesaggistica debba essere negata per profili strettamente
edilizi e sulla base di un’applicazione “vincolata”
della disposizione (per esempio, per interventi eccedenti la
manutenzione, che abbiano determinato la creazione di
superfici utili o volumi, ovvero aumento di quelli
legittimamente realizzati), il parere in questione potrà
essere legittimamente omesso, in ossequio al divieto di
inutile aggravamento del procedimento amministrativo ex art.
1, comma 2, L. n. 241/1990.
Del resto, per costante giurisprudenza il provvedimento di
diniego di condono edilizio costituisce espressione di
potere vincolato rispetto ai presupposti normativi richiesti
e dei quali deve farsi applicazione (cfr. Cons. di St., IV,
05.11.2012, n. 5619; TAR Liguria, I, 08.06.2012, n. 785),
sicché l’omissione di un parere obbligatorio –che
costituisce violazione di norma sul procedimento– è sanabile
mercé l’applicazione dell’art. 21-octies, comma 2, L. n.
241/1990, allorché -come nel caso di specie, in cui è
pacifica la creazione di volume- sia palese che il suo
contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da
quello in concreto adottato
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 26.02.2014 n. 360 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
UTILITA' |
EDILIZIA PRIVATA:
IVA in edilizia, ecco un’analisi delle diverse casistiche.
IVA in edilizia, continua la
riproposizione degli Speciali di BibLus-net più utili. In
questo articolo parliamo di IVA, con lo Speciale che tratta
i casi principali.
L’IVA in edilizia costituisce un argomento decisamente
complesso e spesso nasconde insidie anche per gli esperti
del settore.
La legislazione fiscale, infatti, è molto articolata e
classifica in modo dettagliato i diversi ambiti di
applicazione in edilizia, definendo e delimitando i diversi
tipi di intervento e le varie aliquote applicabili.
In linea generale, anche in edilizia l’aliquota ordinaria
dell’IVA è del 22%, ma ci sono due aliquote agevolate al 4%
e al 10%.
In questo articolo proponiamo uno Speciale a cura della
redazione di BibLus-net che ha lo scopo di chiarire e
riassumere le modalità di applicazione dell’IVA ai vari
interventi edilizi.
In particolare, vengono analizzate le 3 aliquote e tutti i
casi e le modalità di applicazione.
In Appendice sono disponibili le seguenti tavole sinottiche:
• Nuove costruzioni
• Interventi di manutenzione, recupero, risanamento e
ristrutturazione di cui al DPR 380/2001 (art. 3, comma 1)
• Beni finiti
• Prestazioni di servizi
• Tabella riepilogativa IVA al 4%
• Tabella riepilogativa IVA al 10%
(03.08.2015 - link a www.acca.it). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA - APPALTI SERVIZI - SICUREZZA LAVORO:
G.U. 03.08.2015 n. 178 "Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti
dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea - Legge
europea
2014" (Legge
29.07.2015 n. 115).
---------------
Di interesse si leggano:
●
Art. 8. - Disposizioni in materia di affidamento di
servizi pubblici locali. Procedure di infrazione n.
2012/2050 e 2011/4003
● Art. 16. -
Disposizioni in materia di salute e sicurezza dei lavoratori
nei cantieri temporanei o mobili. Caso EU Pilot 6155/14/EMPL
● Art. 23. -
Disposizioni finalizzate al corretto recepimento della
direttiva 94/62/CE sugli imballaggi e rifiuti di
imballaggio. Procedura di infrazione n. 2014/2123 |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 32 del 03.08.2015, "Sesto
aggiornamento 2015 dell’elenco degli enti locali idonei
all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005,
art. 80)" (decreto
D.G. 29.07.2015 n. 6391). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI - SICUREZZA LAVORO:
G.U. 31.07.2015 n. 176 "Delega al Governo per il recepimento
delle direttive europee e l’attuazione di altri atti
dell’Unione europea - Legge di delegazione europea 2014" (Legge
09.07.2015 n. 114).
---------------
Di interesse si leggano:
►
Art. 14. - Princìpi e criteri direttivi per
l’attuazione della direttiva 2014/52/UE del Parlamento
europeo e del Consiglio, del 16.04.2014, che modifica la
direttiva 2011/92/ UE concernente la valutazione
dell’impatto ambientale di determinati progetti pubblici e
privati
►
Art. 16. - Criterio direttivo per l’attuazione della
direttiva 2013/35/UE del Parlamento europeo e del Consiglio,
del 26.06.2013, sulle disposizioni minime di sicurezza e di
salute relative all’esposizione dei lavoratori ai rischi
derivanti dagli agenti fisici (campi elettromagnetici) |
CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI:
G.U. 31.07.2015 n. 176 "Regolamento in materia di
esercizio del potere sanzionatorio, ai sensi dell’art. 47
del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33" (A.N.AC.,
provvedimento 15.07.2015). |
APPALTI:
G.U. 30.07.2015 n. 175, suppl. ord. n. 44, "Ripubblicazione
del testo della legge 13.07.2015, n. 107, recante: «Riforma
del sistema nazionale di istruzione e formazione e delega
per il riordino delle disposizioni legislative vigenti.»
corredato delle relative note".
---------------
Di interesse si legga:
- art. 1, comma 169, che rinvia all'01.11.2015 l'entrata in
vigore delle Centrali di committenza: "169. All’articolo
23-ter , comma 1, del decreto-legge 24.06.2014, n. 90,
convertito, con modificazioni, dalla legge 11.08.2014, n.
114, e successive modificazioni, le parole: «1º settembre
2015» sono sostituite dalle seguenti: «1º novembre 2015».". |
ENTI
LOCALI:
G.U. 30.07.2015 n. 175 "Differimento dal 30 luglio al 30.09.2015 del termine
per la deliberazione del bilancio di previsione 2015 delle
città metropolitane, delle province e degli enti locali
della
Regione Siciliana" (Ministero dell'Interno,
decreto 30.07.2015). |
PATRIMONIO: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 31 del 30.07.2015, "POR
FESR 2014-20: Asse IV, Azione IV.4.C.1.1 - Iniziativa per la
riqualificazione energetica degli edifici pubblici di
proprietà di piccoli Comuni, unioni di Comuni, Comuni
derivanti da fusione e Comunità Montane" (deliberazione
G.R. 24.07.2015 n. 3904). |
PUBBLICO IMPIEGO: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 30 del 24.07.2015, "Modalità
di iscrizione e di tenuta dell’elenco dei Comandanti e dei
Responsabili di servizio di Polizia locale istituito presso
la competente direzione della Giunta Regionale ai sensi
dell’articolo 12 della legge regionale 01.04.2015, n. 6"
(deliberazione
G.R. 17.007.2015 n. 3870). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 30 del 24.07.2015:
►
"Deroga regionale per il comune di Certosa di Pavia, in
provincia di Pavia, all’obbligo di gestione associata delle
funzioni fondamentali tra comuni ai sensi dell’art. 21,
comma 4, lett. b) e comma 6 della legge regionale
05.08.2014, n. 24 «Assestamento al bilancio 2014-2016 - I
provvedimento di variazione con modifiche di leggi
regionali»" (deliberazione
G.R. 17.07.2015 n. 3847);
►
"Deroga regionale per i comuni di Copiano e Villanterio
al raggiungimento dei limiti demografici minimi ai comuni
obbligati all’esercizio associato delle funzioni
fondamentali ai sensi dell’articolo 10, della legge
regionale 28.12.2011, n. 22, «Disposizioni per l’attuazione
della programmazione economico-finanziaria regionale, ai
sensi dell’art. 9-ter della l.r. 31.03.1978, n. 34 ‘Norme
sulle procedure della programmazione, sul bilancio e sulla
contabilità della regione’ collegato
2012»" (deliberazione
G.R. 17.07.2015 n. 3848);
►
"Deroga regionale per il comune di Berlingo, in provincia
di Brescia, e di Brunate, in provincia di Como, all’obbligo
di gestione associata delle funzioni fondamentali tra comuni
ai sensi dell’art. 21, comma 4, lett. a) e comma 6 della
legge regionale 05.08.2014, n. 24 «Assestamento al bilancio
2014-2016 - I provvedimento di variazione con modifiche di
leggi regionali»" (deliberazione
G.R. 17.07.2015 n. 3849). |
EDILIZIA PRIVATA:
G.U. 24.07.2015 n. 170 "Disposizioni di prevenzione incendi per le attività
ricettive
turistico - alberghiere con numero di posti letto superiore
a
25 e fino a 50" (Ministero dell'Interno,
decreto 14.07.2015). |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 30 del 23.07.2015, "Disposizioni
in merito alla disciplina per l’efficienza energetica degli
edifici ed al relativo attestato di prestazione energetica a
seguito dell’approvazione dei decreti ministeriali per
l’attuazione del d.lgs. 192/2005, come modificato con l.
90/2013" (deliberazione
G.R. 17.07.2015 n. 3868). |
APPALTI:
G.U. 22.07.2015 n. 168 "Saggio
degli interessi da applicare a favore del creditore nei casi
di ritardo nei pagamenti nelle transazioni commerciali".
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Interessi moratori
all'8,05% per i ritardati pagamenti delle transazioni.
Confermato anche per il 2° semestre 2015 il tasso degli
interessi di mora all'8,05% per i ritardati pagamenti delle
transazioni commerciali.
È stato
pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 167 del 21.07.2014 il nuovo tasso di riferimento dello 0,05%, al quale
vanno aumentati 8 punti percentuali per determinare il tasso
annuale di mora da applicare per i ritardati pagamenti delle
transazioni commerciali, nel periodo che va dal 01.07.2015 al 31.12.2015, in base alla normativa europea
disciplinata dal decreto legislativo 09.10.2002, n. 231.
Anche per il secondo semestre 2015, quindi, la percentuale
degli interessi di mora da applicare sui ritardati pagamenti
è dell’8,05%. Si precisa che, invece, per chi cede prodotti
agricoli e alimentari (non a consumatori privati), il tasso
annuale di mora è del 10,05% dal 01.01.2015 al 03.07.2015 e del 12,05% dal
04.07.2015 fino al 31.12.2015
(commento tratto da www.fiscoetasse.com). |
LAVORI PUBBLICI:
G.U. 21.07.2015 n. 167 "Rilevazione dei prezzi medi per l’anno 2013 e delle
variazioni
percentuali annuali superiori al dieci per cento, relative
all’anno 2014, ai fini della determinazione delle
compensazioni
dei singoli prezzi dei materiali da costruzione più
significativi" (Ministero delle Infrastrutture
e dei Trasporti,
decreto 01.07.2015). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Recepimento della nuova normativa nazionale in
merito all’efficienza energetica degli edifici e relativo
Attestato di Prestazione Energetica (ANCE di Bergamo,
circolare 31.07.2015 n. 174). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI:
Oggetto: Valutazione di Impatto Ambientale per impianti
mobili di trattamento rifiuti (ANCE di Bergamo,
circolare 31.07.2015 n. 169). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Annullamento Durc On-Line anomali - Circolare
CNCE n. 31 (ANCE di Bergamo,
circolare 31.07.2015 n. 168). |
APPALTI: Oggetto:
Indicazioni e chiarimenti in merito al calcolo
dell'indicatore di tempestività dei pagamenti della
amministrazioni pubbliche, ai sensi dell'articolo 8, comma
3-bis, del decreto-legge 24.04.2014, n. 66, convertito, con
modificazioni, dalla legge 23.06.2014, n. 89
(Ministero dell'Economia e delle Finanze, Ragioneria
Generale dello Stato,
circolare 22.07.2015 n. 22). |
PUBBLICO IMPIEGO:
OGGETTO: Decreto legislativo n. 80 del 15.06.2015 in
attuazione dell’art. 1, commi 8 e 9 della legge delega n.
183 del 2014 (Jobs Act) - Congedo parentale. Elevazione dei
limiti temporali di fruibilità del congedo parentale da 8 a
12 anni ed elevazione dei limiti temporali di indennizzo a
prescindere dalle condizioni di reddito da 3 a 6 anni
(INPS,
circolare 17.07.2015 n. 139 - link a
www.inps.it).
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SOMMARIO:
1. Le lavoratrici ed i lavoratori dipendenti possono fruire
dell’eventuale periodo di congedo parentale ancora spettante
fino al compimento dei 12 anni di età del figlio oppure fino
a 12 anni dall’ingresso in famiglia del minore
adottato/affidato. La novità riguarda periodi fruiti entro
il 2015.
2. I periodi di congedo fruiti fino a 6 anni di età del
figlio, oppure fino a 6 anni dall’ingresso in famiglia del
minore adottato/affidato, sono indennizzati al 30% della
retribuzione media giornaliera a prescindere dalle
condizioni di reddito del genitore richiedente. La novità
riguarda i periodi fruiti entro il 2015.
3. La fruizione del congedo parentale tra il 25.06.2015 e il
31.12.2015 è coperta da contribuzione figurativa fino al 12°
anno del bambino ovvero fino al 12° anno di ingresso del
minore in caso di adozione o affidamento; nei limiti
temporali ai quali è sottoposta la riforma in oggetto,
l’allungamento della fruibilità del congedo parentale si
applica anche al beneficio di cui al comma 5 dell’art. 35
del D.lgs. 151/2001.
4.Le domande all’INPS, anche per i periodi fruibili in base
alla riforma, sono presentate on-line, fatto salvo il
periodo transitorio dal 25 giugno alla data
dell’aggiornamento della procedura di presentazione delle
domande. |
ENTI LOCALI - VARI:
MEZZI AEREI A PILOTAGGIO REMOTO (ENAC,
regolamento 16.07.2015 edizione n. 2). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
OGGETTO: Istruzioni applicative circa la decurtazione
permanente da applicare, a partire dal 2015, ai fondi della
contrattazione integrativa, in misura corrispondente ai
risparmi realizzati ai sensi dell'articolo 9, comma 2-bis,
del decreto legge 31.05.2010, n. 78 convertito, con
modificazioni, in legge 30.07.2010, n. 122 come modificato
dall'articolo 1, comma 456, della legge n. 147/2013 (Ministero
dell'Economia e delle Finanze, Ragioneria Generale dello
Stato,
circolare 08.05.2015 n. 20). |
A.N.AC. (già
AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI) |
APPALTI: Via a 35 centrali committenza.
Prorogati a novembre i nuovi obblighi per i comuni.
L'Anac accredita le prime nel suo elenco. Ma la materia è
destinata a cambiare presto.
Ancora due mesi prima che scatti l'obbligo per gli enti
locali di ricorrere a forme aggregate di acquisto di beni e
servizi; il differimento dell'obbligo è previsto dal 1°
settembre al 01.11.2015; intanto l'Anac accredita nel
suo elenco le prime 35 centrali di committenza, ma nel
disegno di legge delega appalti si prefigura un nuovo
pesante intervento sulla materia.
Sono queste alcune delle
novità riguardanti il mondo variegato delle «centrali di
committenza», uno degli strumenti considerati essenziali per
il contenimento della spesa pubblica e per la
semplificazione delle procedure di affidamento a livello
locale, regionale e statale.
Diversi sono i livelli di intervento, dalle urgenze,
all'attuazione della normativa vigente, alle ulteriori
modifiche in corso di esame.
Sul fronte delle «urgenze» il
provvedimento più recente è quello concernente la proroga
per i comuni non capoluogo di fare ricorso a soggetti
delegati di committenza sotto diverse forme (Unione dei
comuni, accordi consortili con altri comuni, o ricorso ai
soggetti aggregatori o alle province), salvi i casi di
acquisti con procedure telematiche (per esempio, tramite Consip) che possono essere effettuati in forma autonoma e
gli affidamenti fino a 40.000 per i comuni non capoluogo con
più di 10.000 abitanti per contratti fino a 40.000 euro.
La
disposizione che fa slittare il termine di entrata in vigore
di quest'obbligo dal 01.09.2015 al 01.11.2015,
è contenuta all'interno della legge n. 107/2015 (cosiddetta
«Buona scuola») pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 15.07.2015.
Nel frattempo l'Anac con propria
delibera
22.07.2015 n. 58 ha diffuso l'elenco dei soggetti aggregatori
di cui all'articolo 9 del dl 66/2014, il provvedimento di
legge che ha stabilito che non potranno essere più di 35 le
centrali di committenza.
L'elenco dei soggetti ammessi è
stato pubblicato dall'Autorità nazionale anticorruzione e
fra di essi figurano, oltre alla Consip, un soggetto
aggregatore per ogni regione (in forma di Sua -Stazione
unica appaltante, o di direzione della regione, o di società
costituita ad hoc, come è il caso del Piemonte con la Scr-
Società di committenza regione Piemonte spa, o di Città
metropolitana per le grandi città. Fra i soggetti non
ammessi spiccano Asmel (in Campania), per carenza di
requisiti soggettivi e, in particolare, per la non
rispondenza ai modelli organizzativi di cui all'art. 33,
comma 3-bis, del codice dei contratti e Invitalia, per
carenza di requisiti.
In prospettiva, però, la materia potrebbe essere soggetta a
ulteriori cambiamenti visto che nel disegno di legge delega
appalti vi è un apposito criterio di delega. In particolare
nella norma che è all'esame della camera si legge che
bisognerà ridurre il numero in base al grado di
qualificazione conseguito dalle stazioni appaltanti (si
istituirà un apposito sistema di qualificazione) e di
capacità di gestire contratti di particolare complessità.
La legge salva però l'obbligo, per i comuni non capoluogo di
provincia, di ricorrere alle centrali di committenza
prevedendo, per gli affidamenti di importo superiore alle
soglie di rilevanza comunitaria, un livello di aggregazione
almeno regionale o di provincia autonoma e, per gli
affidamenti di importo superiore a 100.000 euro e inferiore
alle medesime soglie di rilevanza comunitaria, aggiudicati
da comuni non capoluogo di provincia, livelli di
aggregazione sub provinciali.
In questo caso si dovranno definire gli ambiti ottimali
territorialmente omogenei e garantire la tutela dei diritti
delle minoranze linguistiche come previsto dalla
Costituzione e dalle disposizioni vigenti
(articolo ItaliaOggi del 31.07.2015). |
CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI:
Niente trasparenza? Multa fino a 10mila euro.
Anac. Per le amministrazioni che non rispettano gli obblighi
sui patrimoni.
L’inosservanza
da parte delle amministrazioni pubbliche degli obblighi di
pubblicazione relativi alla situazione patrimoniale dei
soggetti che ricoprono incarichi politici, nonché ai dati
sulle partecipazioni in società e sugli amministratori delle
stesse comporta sanzioni rilevanti che possono essere
contestate dall’Anac nell'esercizio delle sue funzioni di
vigilanza.
L’Autorità nazionale anticorruzione ha pubblicato il 23
luglio il
regolamento
15.07.2015 per la gestione del procedimento per
le sanzioni previste dall’articolo 47 del Dlgs 33/2013 (da
500 a 10mila euro), precisando nelle disposizioni i
comportamenti che danno luogo alle violazioni degli obblighi
e le modalità di contestazione delle stesse. Il regolamento
stabilisce in ordine alle due fattispecie previste dalla
norma i profili comportamentali che determinano le
violazioni.
Per quanto riguarda il comma 1 dell’articolo 47, la mancata
o incompleta comunicazione, da parte del titolare
dell’incarico, delle informazioni e dei dati relativi alla
situazione patrimoniale e alle partecipazioni è dettagliata
nella casistica di sviluppo.
Peraltro, il regolamento evidenzia due ipotesi:
-
nel caso in cui il responsabile della trasparenza attesti
che l’inadempimento sia dipeso dall’omessa comunicazione da
parte del titolare dell’incarico delle informazioni e dei
dati, l'Anac avvia il procedimento sanzionatorio contestando
la violazione;
-
nel caso, invece, in cui i dati siano stati correttamente
comunicati dal titolare dell’incarico al responsabile della
trasparenza e, tuttavia, non siano stati pubblicati in tutto
o in parte, l’autorità si riserva di ordinare
all’amministrazione di pubblicare le informazioni e i dati
mancanti.
Le violazioni previste dall’articolo 47, comma 2, sono
distinte con riferimento anzitutto al primo periodo, che
regola fattispecie che attengono alla mancata pubblicazione,
da parte del soggetto individuato nel programma triennale
trasparenza e integrità, ovvero in altro atto organizzativo
interno, dei dati relativi agli enti.
Le violazioni previste nel secondo periodo del comma 2,
attengono invece alla mancata comunicazione, da parte degli
amministratori societari, ai soci pubblici, del proprio
incarico e del relativo compenso entro trenta giorni dal
conferimento ovvero, per le indennità di risultato, entro 30
giorni dal percepimento.
Vengono quindi ad essere distinte le responsabilità
dell’amministrazione partecipante da quelle degli
amministratori delle società partecipate. .
L’attività di vigilanza dell’Anac si presenta a spettro
molto ampio, tanto che in data 24 luglio è stato emanato un
comunicato del presidente che specifica l’estrazione a
campione degli appalti di lavori affidati in deroga in base
alle norme del decreto sbloccaItalia (articolo 9 legge
164/2014), per i quali l’autorità deve svolgere una
specifica attività di monitoraggio.
Il comunicato evidenzia le modalità con le quali sono stati
individuati i campioni e i sub-campioni da sottoporre ad
analisi, che hanno determinato l'individuazione di 16
affidamenti, con importi variabili tra i 40mila e i tre
milioni di euro, aggiudicati con procedura negoziata con
gara informale o con affidamenti mediante cottimo
fiduciario, sfruttando le deroghe concesse dalla norma (articolo Il Sole 24 Ore del
25.07.2015). |
CORTE DEI CONTI |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Enti, spiragli per le assunzioni.
Mano libera sui budget residui del triennio 2011-2013. Per la sezione autonomie non sono vincolati all'assorbimento
degli esuberi provinciali.
Mano libera degli enti locali sui budget assunzionali
residui del triennio 2011-2013, che non sono vincolati
all'assorbimento degli esuberi delle province, ma possono
essere utilizzati anche per nuove assunzioni.
Lo ha chiarito
la Corte dei conti, sezione delle autonomie, pronunciandosi
con
deliberazione 28.07.2015 n. 26 sulla questione di massima
rimessa dalla sezione regionale di controllo della Lombardia
in merito alla corretta interpretazione dell'art. 1, comma
424, della l. 190/2014.
Tale norma impone agli enti locali,
per il biennio 2015-2016, il blocco delle assunzioni
ordinarie (al netto di quelle riguardanti vincitori di
concorsi collocati in graduatorie già approvate o vigenti al
01/01/2015) e l'utilizzo del proprio budget assunzionale
esclusivamente per il ricollocamento del personale
provinciale dichiarato in esubero (fino al 100% del turn-over).
Fra i tanti dubbi posti da questa disciplina (in gran parte
risolti dalla deliberazione della stessa sezione autonomie
n. 19/2015), rimaneva da sciogliere quella relativo alla
possibilità di utilizzare liberamente nel biennio 2015-2016,
i budget per assunzioni di anni precedenti: per esempio, il
budget 2014 costituito dalle cessazioni 2013 e rinviato al
2015.
Sul punto, invero, la circolare della Funzione
pubblica n. 1/2015 ha espressamente consentito di utilizzare
liberamente le quote residue della capacità assunzionale di
anni precedenti, ma è stata contraddetta dalla sezione
Lombardia, secondo la quale il budget dell'anno 2014
risulterebbe «attratto» nell'ambito delle risorse 2015
destinate alla mobilità obbligatoria del personale
provinciale e, pertanto, anch'esso andrebbe destinato
esclusivamente al ricollocamento degli esuberi.
Invero, la pronuncia lombarda ha sollevato il problema in un
quadro normativo che ammetteva il solo cumulo triennale
verso il «futuro» ex art. 3, comma 5, primo periodo, del dl
90/2014, mentre nel frattempo il dl 78/2015 ha ripristinato
anche la possibilità (prima negata da sezione autonomie n.
27/2014 per gli enti soggetti a Patto) di cumulare i resti
del triennio precedente.
Anche dopo tale novella, tuttavia, altre sezioni regionali
hanno negato tale possibilità (deliberazione n. 304/2015 del
Veneto e n. 163/2015 delle Marche), mentre in senso
favorevole si erano espressi la sezione della Sardegna
(deliberazione n. 32/2015) e di recente anche l'Anci.
Quest'ultima tesi trova ora conferma da parte delle
autonomie, che hanno enunciato il seguente principio di
diritto: «gli enti locali possono effettuare assunzioni di
personale a tempo indeterminato utilizzando la capacità assunzionale del 2014 derivante dalle cessazioni di
personale nel triennio 2011-2013, sempre nel rispetto dei
vincoli di finanza pubblica; mentre, con riguardo al budget
di spesa del biennio 2015-2016 (riferito alle cessazioni di
personale intervenute nel 2014 e nel 2015), la capacità
assunzionale è soggetta ai vincoli posti dall'articolo 1,
comma 424, della legge 190/2014 finalizzati a garantire il
riassorbimento del personale provinciale».
In pratica, quindi, si possono effettuare assunzioni di
personale a tempo indeterminato non vincolate dalla
disposizione del comma 424 utilizzando la capacità
assunzionale del 2014 derivante dalle cessazioni di
personale nel triennio 2011-2013, mentre il budget di spesa
del biennio 2015-2016 (riferito alle cessazioni di personale
intervenute nel 2014 e nel 2015) deve essere riservato al
riassorbimento del personale provinciale (al netto
dell'eventuale quota destinata da assumere i vincitori di
concorso).
La sezione, invece, non ha chiarito se la trasformazione di
un rapporto di lavoro da tempo parziale a tempo pieno sia
ammessa (come sostenuto dalla Funzione pubblica) o ricada
nel blocco previsto dal comma 424 (come affermato dalla
sezione della Lombardia)
(articolo ItaliaOggi dell'01.08.2015). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Gli
enti locali possono effettuare assunzioni di personale a
tempo indeterminato utilizzando la capacità assunzionale del
2014 derivante dalle cessazioni di personale nel triennio
2011-2013, sempre nel rispetto dei vincoli di finanza
pubblica.
Mentre, con riguardo al budget di spesa del biennio
2015-2016 (riferito alle cessazioni di personale intervenute
nel 2014 e nel 2015), la capacità assunzionale è soggetta ai
vincoli posti dall’articolo 1, comma 424 della legge
190/2014 finalizzati a garantire il riassorbimento del
personale provinciale.
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1. Il primo quesito rimesso a questa Sezione è
sostanzialmente il seguente: “se l’ente comunale
procede nell’anno 2015 ad una nuova assunzione utilizzando
il budget relativo all’anno 2014 (nella percentuale del 60%
della spesa riferita al personale cessato nell’anno 2013),
trovano applicazione le limitazioni previste dall’art. 1,
commi 424 e 425, della l. n. 190/2014 in relazione alla
ricollocazione del personale delle provincie e delle città
metropolitane?”
Nel merito, la Sezione lombarda remittente ha ritenuto (con
la citata deliberazione del 23.03.2015, n. 120/2015/QMIG)
che la circolare del Ministro per la semplificazione e la
pubblica amministrazione n. 1/2015 abbia risolto la
questione, per gli enti locali e le regioni, limitando la
portata applicativa del comma 424 cit. al budget delle
assunzioni relativo agli anni 2015 e 2016, nonché precisando
che il budget vincolato dalla legge di stabilità “è
quello riferito alle cessazioni 2014 e 2015” (pag. 15
della circolare citata, sub paragrafo “ambito soggettivo
e disciplina del comma 424”).
Inoltre, la volontà del Ministero di “limitare” la
portata applicativa del comma 424 a quelle sole assunzioni a
tempo indeterminato che verranno effettuate a valere sui
budget 2015-2016, emerge a pag. 17 della circolare in parola
dove –sub paragrafo “divieti ed effetti derivanti dai commi
424 e 425 per le amministrazioni pubbliche”- si afferma
a chiare lettere che “rimangono consentite le assunzioni,
a valere sui budget degli anni precedenti, nonché quelle
previste da norme speciali”.
L’interpretazione fornita dalla circolare è ritenuta dalla
Sezione remittente conforme al dato letterale del richiamato
comma 424; la medesima Sezione, tuttavia, evidenzia che la
ratio della norma è volta ad assicurare che, negli
anni 2015 e 2016, le regioni e gli enti locali devono
destinare le risorse per le assunzioni a tempo indeterminato
di personale unicamente alle seguenti due finalità̀: “immissione
nei ruoli dei vincitori di concorso pubblico collocati nelle
proprie graduatorie vigenti o approvate alla data di entrata
in vigore della presente legge” e “ricollocazione nei
propri ruoli delle unità soprannumerarie destinatarie dei
processi di mobilità”.
Partendo proprio da questa osservazione, la Sezione
remittente ritiene che nell’inciso “per gli anni 2015 e
2016, destinano le risorse per le assunzioni a tempo
indeterminato” possono farsi rientrare non solo i budget
2015 e 2016, bensì anche il budget 2014 oggetto di cumulo
alla stregua dell’ultimo periodo del comma 5 dell’art. 3 del
d.l. n. 90/2014.
Tale soluzione ermeneutica comporta che l’assunzione
programmata dall’ente comunale per l’anno 2015 (anche se
fatta valere sul budget dell’anno precedente) soggiacerebbe
comunque ai vincoli fissati dal comma 424 cit. e, quindi,
favorirebbe in concreto la “immissione nei ruoli dei
vincitori di concorso pubblico collocati nelle proprie
graduatorie vigenti o approvate alla data di entrata in
vigore della presente legge” e la “ricollocazione nei
propri ruoli delle unità soprannumerarie destinatarie dei
processi di mobilità”.
Viceversa, se si applicasse la soluzione interpretativa
fornita dalla circolare n. 1/2015, qualora il Comune
potesse, nel 2015, procedere ad una nuova assunzione, non
soggiacerebbe ai vincoli fissati dal comma 424, in quanto
detta assunzione avverrebbe sulla scorta del budget 2014
maturato per una cessazione intervenuta nell’anno 2013; in
altri termini, l’amministrazione interessata potrebbe indire
un concorso nell’anno 2015 per procedere ad un’assunzione
che si avvale del budget dell’anno 2014, utilizzabile, ove
sia stata effettuata la prescritta programmazione, nel 2015.
Tanto premesso ai fini dell’inquadramento della questione,
questa Sezione rileva che, successivamente alla richiamata
deliberazione della Sezione di controllo per la Lombardia,
il legislatore è intervenuto con l’art. 4, comma 3, del
decreto legge n. 78 del 19.06.2015, disponendo che: “All'articolo
3, comma 5, del decreto legge 24.06.2014, n. 90, convertito,
con modificazioni, dalla legge 11.08.2014, n. 114, dopo le
parole "nel rispetto della programmazione del fabbisogno e
di quella finanziaria e contabile" sono aggiunte le
seguenti: “è altresì consentito l'utilizzo dei residui
ancora disponibili delle quote percentuali delle facoltà
assunzionali riferite al triennio precedente".
Tale novella legislativa, integrando il quadro
interpretativo già fornito dalla circolare n. 1/2015
(registrata dalla Corte dei conti in data 20.02.2015),
autorizza i Comuni ad impiegare nel 2015 l’eventuale budget
residuo del triennio 2011-2013 per assunzioni non vincolate
ai sensi del comma 424.
Ne consegue che per le cessazioni intervenute nel 2013, la
capacità assunzionale del 2014, eventualmente rinviata nel
2015, non soggiace alle limitazioni introdotte dal citato
comma 424, restando regolata da quanto previsto, per gli
enti soggetti al patto di stabilità interno, dall’art. 3,
comma 5, del D.L. n. 90/2014, convertito con legge n.
114/2014, che indica le quote percentuali di turn-over
consentite per le assunzioni di personale a tempo
indeterminato.
Si deve pertanto affermare che gli enti locali possono
effettuare assunzioni di personale a tempo indeterminato non
vincolate dalla disposizione del comma 424 utilizzando la
capacità assunzionale del 2014 derivante dalle cessazioni di
personale nel triennio 2011-2013, sempre nel rispetto dei
vincoli di finanza pubblica; mentre, con riguardo al budget
di spesa del biennio 2015-2016 (riferito alle cessazioni di
personale intervenute nel 2014 e nel 2015), la capacità
assunzionale è soggetta ai vincoli posti dall’articolo 1,
comma 424, della legge 190/2014 finalizzati a garantire il
riassorbimento del personale provinciale.
2. Con il secondo quesito rimesso a questa Sezione si
richiede “se la trasformazione di un rapporto di
lavoro da tempo parziale a tempo pieno, sottoposta alla
disciplina limitativa delle assunzioni di personale
dall’art. 3, comma 101, della legge n. 244/2007, sia
soggetta, per gli anni 2015 e 2016, anche agli ulteriori
limiti e divieti posti dall’art. 1, comma 424, della legge
n. 190/2014”.
La Sezione remittente, sulla scorta del dettato letterale
delle normativa in materia (art. 3, comma 101, legge n.
244/2007; art. 3, comma 5, del d.l. n. 90/2014, convertito
con legge n. 114/2014; art. 1, comma 424, legge n.
190/2014), nonché dei pregressi orientamenti assunti da
alcune Sezioni regionali di controllo, ritiene che,
nell’attesa che si concludano le procedure previste dal
comma 424 della legge di stabilità per il 2015, gli enti
locali non possano procedere alla trasformazione di un
rapporto di lavoro da tempo parziale a tempo pieno in quanto
fattispecie normativamente equiparata alla disciplina
prescritta per le assunzioni a tempo indeterminato.
Al riguardo, poiché la disciplina della trasformazione dei
rapporti di lavoro da tempo parziale a tempo pieno non
presenta profili ermeneutici direttamente riferibili alla
disciplina di cui al citato comma 424, la Sezione delle
Autonomie non può che confermare l’orientamento già espresso
nella propria
deliberazione 16.06.2015 n. 19, concludendo per il non luogo a deliberare sul
quesito deferito dalla Sezione di controllo per la Lombardia
con deliberazione n. 135/2015/QMIG.
In tale ultima deliberazione, infatti, si trova affermato
che “l’esame delle questioni è limitato alle difficoltà
interpretative, sotto il profilo letterale, sistematico e
logico, direttamente ed esclusivamente connesse al tenore
dell’art. 1, comma 424, della legge 190/2014; altri istituti
concernenti altre facoltà assunzionali degli enti
interessati, anche se indirettamente rilevanti nell’ambito
del lavoro esegetico, restano fuori dal perimetro della
questione di massima. La ragione di questa delimitazione
dell’ambito esegetico risiede nel fatto che il comma 424
contiene solo un espresso regime derogatorio a specifiche
norme che regolano la fattispecie dei limiti e dei vincoli
alle assunzioni a tempo indeterminato. Ciò comporta che la
pronuncia di orientamenti interpretativi su altre
disposizioni non toccate da alcuna novella legislativa
esorbita dalla stessa funzione nomofilattica, attesa la
diversità della disciplina e delle fattispecie considerate.
Tali fattispecie, estranee alle disposizioni contenute
nell’art. 1, comma 424, della legge 190/2014, restano
confermate nella loro peculiare disciplina normativa anche
per quello che attiene ai relativi vincoli previsti dalle
leggi”.
P.Q.M.
La Sezione delle autonomie della Corte dei conti, sulla
questione interpretativa posta dalla Sezione regionale di
controllo per la Lombardia con la deliberazione n. 120/2015/QMIG,
pronuncia il seguente principio di diritto: “gli
enti locali possono effettuare assunzioni di personale a
tempo indeterminato utilizzando la capacità assunzionale del
2014 derivante dalle cessazioni di personale nel triennio
2011-2013, sempre nel rispetto dei vincoli di finanza
pubblica; mentre, con riguardo al budget di spesa del
biennio 2015-2016 (riferito alle cessazioni di personale
intervenute nel 2014 e nel 2015), la capacità assunzionale è
soggetta ai vincoli posti dall’articolo 1, comma 424, della
legge 190/2014 finalizzati a garantire il riassorbimento del
personale provinciale”
(Corte dei Conti, Sez. Autonomie,
deliberazione 28.07.2015 n. 26). |
APPALTI: Sulla
possibilità, o meno, di riconoscere quali debiti fuori
bilancio alcune poste relative ad interessi moratori
maturati a seguito del ritardato pagamento di fatture per
contratti stipulati dall’ente con ditte esterne.
...
L’obbligazione di pagamento degli
interessi moratori non può configurare un’ipotesi di debito
fuori bilancio.
Invero, l’Amministrazione
richiedente ha correttamente inquadrato la peculiarità della
tipologia di spesa de qua; infatti, la non riconoscibilità
del debito è riconducibile al difetto del requisito
dell’utilità e dell’arricchimento nei confronti dell’ente
stesso.
---------------
In
generale, l’assenza di un regolare impegno
di spesa, comporta che il pagamento della medesima sia
preceduta dal riconoscimento del debito fuori bilancio nei
termini indicati dall’art. 194, comma 1, lett. e), del TUEL.,
sempre che ne ricorrano tutti i presupposti.
Occorre mettere in luce, infatti, che
può procedersi al riconoscimento del debito solamente nei
limiti nei quali il bene o il servizio acquisito rientrino
“nell'ambito dell'espletamento di pubbliche funzioni e
servizi di competenza” e venga accertata, con delibera
motivata, sia l'utilità del bene o del servizio che
l'arricchimento che l'attività ha comportato per l'ente
(art. 194, co. 1, lett. e).
Il riconoscimento del debito fuori bilancio
che derivi dall'acquisizione di un bene o servizio in
assenza di impegno di spesa risulta essere, quindi,
possibile, sempreché sussistano le condizioni previste dalla
norma suindicata; con la conseguenza che ogni volta che
l'ente abbia seguito una procedura irregolare può attuare
una sorta di regolarizzazione a posteriori.
Tale regolarizzazione, però, non opera
automaticamente in quanto viene demandata al Consiglio
dell'ente la valutazione discrezionale in ordine alla
sussistenza, in concreto, dei presupposti della norma e solo
in caso positivo potrà procedersi all'effettivo
riconoscimento.
Osserva il Collegio che il
legislatore ha richiesto che venga accertata e dimostrata il
requisito dell’“utilità” della prestazione, senza che nella
legislazione vigente si possa rinvenire una precisa nozione
della fattispecie, demandando alla delibera consiliare di
riconoscimento l’individuazione dei requisiti delle spese in
questione, in un ottica di efficienza, efficacia e buona
amministrazione.
In mancanza del requisito dell’utilità
[art. 194, comma 1, lettera e), del TUEL]
il comune non può riconoscere spontaneamente alcun debito
né, tantomeno, quello per interessi che per sua stessa
natura non produce affatto utilità all’ente.
----------------
Peraltro, non è pensabile che il comune, in
presenza di un’obbligazione di interessi di mora per
ritardato pagamento debba sostenere un contenzioso
giudiziale, al fine di poter fare rientrare il debito nella
fattispecie di cui alla lettera a) del citato comma 1
dell’art. 194 TUEL e subire le ulteriori conseguenze
negative della condanna alle spese del giudizio.
Questa Sezione di controllo,
pertanto, ritiene che se l’obbligazione
degli interessi scaturisca dal mancato pagamento di un
credito certo, liquido ed esigibile del creditore, l’ente
debitore debba verificare la fondatezza e la correttezza
delle richieste della parte privata, valutando eventualmente
l’opportunità di giungere ad un accordo transattivo in cui
dovranno, ovviamente, essere ben chiare le reciproche
concessioni (cod.
civ., art. 1965).
L’Amministrazione dovrà assumere
tempestivamente l’impegno di spesa e provvedere, quanto
prima, al relativo pagamento per evitare il proliferare di
ulteriori interessi ed il rischio di subire azioni esecutive
in sede giudiziaria.
---------------
Il Sindaco del Comune di Taranto ha formulato una
richiesta di parere alla Sezione volta a conoscere la
corretta procedura di contabilizzazione degli interessi
maturati, nel caso in cui l’ente non abbia provveduto ad
assumere regolare impegno di spesa.
In particolare, il Rappresentante legale del comune istante,
premettendo che gli interessi derivano dal ritardato
pagamento di fatture relative a contratti stipulati
dall’ente, per i quali è risultato insufficiente il relativo
stanziamento di bilancio, ha posto il seguente quesito:
- “…si chiede se occorra seguire la procedura del
riconoscimento dei debiti fuori bilancio di cui alla lettera
e) art. 194 TUEL, anche se non si tratta di fattispecie
rispetto alla quale in senso stretto è possibile apprezzare
un’utilitas, oppure si debba procedere all’impegno di spesa
sull’esercizio corrente, fatte salve le responsabilità a
causa del ritardo di pagamento della fattura ed agire nei
confronti di chi di ragione…”.
...
La questione in esame concerne la
possibilità o meno,
per il comune di Taranto, di riconoscere
quali debiti fuori bilancio alcune poste relative ad
interessi moratori maturati a seguito del ritardato
pagamento di fatture per contratti stipulati dall’ente con
ditte esterne.
Il comune, quindi, si interroga se debba procedere con
l’ordinaria procedura di spesa, stanziando e impegnando la
somma necessaria nell’esercizio di competenza in cui la
pretesa è sorta e rivolta all’ente, oppure se debba attivare
la procedura del riconoscimento del debito fuori bilancio,
trattandosi, per l’appunto di debiti non precedentemente
impegnati.
Le Sezioni regionali di controllo hanno in
molteplici occasioni
(cfr. ex multis, Sezione regionale di controllo per
la Sardegna, deliberazione n. 118/PAR/2011, Sezione
regionale di controllo per il Piemonte, deliberazione n.
354/PAR/2013, Sezione regionale di controllo per Sezione
regionale di controllo per la Regione siciliana n. 55/2014)
espresso l’avviso che debito fuori bilancio sia ogni
debito che non risulti preventivamente previsto nel bilancio
dell’ente e, quindi, impegnato, su quel bilancio, nelle
forme di legge, in coincidenza con l’assunzione di
un’obbligazione giuridicamente perfezionata.
Ritiene il Collegio che l’obbligazione di
pagamento degli interessi moratori non può configurare
un’ipotesi di debito fuori bilancio.
Invero, l’Amministrazione richiedente ha
correttamente inquadrato la peculiarità della tipologia di
spesa de qua; infatti, la non riconoscibilità del
debito è riconducibile al difetto del requisito dell’utilità
e dell’arricchimento nei confronti dell’ente stesso.
In generale, l’assenza di un regolare
impegno di spesa, comporta che il pagamento della medesima
sia preceduta dal riconoscimento del debito fuori bilancio
nei termini indicati dall’art. 194, comma 1, lett. e), del
TUEL., sempre che ne ricorrano tutti i presupposti.
Occorre mettere in luce, infatti, che può
procedersi al riconoscimento del debito solamente nei limiti
nei quali il bene o il servizio acquisito rientrino “nell'ambito
dell'espletamento di pubbliche funzioni e servizi di
competenza” e venga accertata, con delibera motivata,
sia l'utilità del bene o del servizio che l'arricchimento
che l'attività ha comportato per l'ente
(art. 194, co. 1, lett. e).
Il riconoscimento del debito fuori bilancio
che derivi dall'acquisizione di un bene o servizio in
assenza di impegno di spesa risulta essere, quindi,
possibile, sempreché sussistano le condizioni previste dalla
norma suindicata; con la conseguenza che ogni volta che
l'ente abbia seguito una procedura irregolare può attuare
una sorta di regolarizzazione a posteriori.
Tale regolarizzazione, però, non opera
automaticamente in quanto viene demandata al Consiglio
dell'ente la valutazione discrezionale in ordine alla
sussistenza, in concreto, dei presupposti della norma e solo
in caso positivo potrà procedersi all'effettivo
riconoscimento.
Osserva il Collegio che il legislatore ha
richiesto che venga accertata e dimostrata il requisito
dell’“utilità” della prestazione, senza che nella
legislazione vigente si possa rinvenire una precisa nozione
della fattispecie, demandando alla delibera consiliare di
riconoscimento l’individuazione dei requisiti delle spese in
questione, in un ottica di efficienza, efficacia e buona
amministrazione.
In mancanza del requisito dell’utilità
[art. 194, comma 1, lettera e), del TUEL]
il comune
non può riconoscere spontaneamente alcun debito né,
tantomeno, quello per interessi che per sua stessa natura
non produce affatto utilità all’ente.
Peraltro, non è pensabile che il comune, in
presenza di un’obbligazione di interessi di mora per
ritardato pagamento debba sostenere un contenzioso
giudiziale, al fine di poter fare rientrare il debito nella
fattispecie di cui alla lettera a) del citato comma 1
dell’art. 194 TUEL e subire le ulteriori conseguenze
negative della condanna alle spese del giudizio.
Questa Sezione di controllo,
pertanto, ritiene che se,
come nel caso sottoposto all’esame,
l’obbligazione degli interessi scaturisca dal mancato
pagamento di un credito certo, liquido ed esigibile del
creditore, l’ente debitore debba verificare la fondatezza e
la correttezza delle richieste della parte privata,
valutando eventualmente l’opportunità di giungere ad un
accordo transattivo in cui dovranno, ovviamente, essere ben
chiare le reciproche concessioni
(cod. civ., art. 1965).
L’Amministrazione dovrà assumere
tempestivamente l’impegno di spesa e provvedere, quanto
prima, al relativo pagamento per evitare il proliferare di
ulteriori interessi ed il rischio di subire azioni esecutive
in sede giudiziaria.
Tali considerazioni sono avallate da quanto prescrive il
nuovo principio contabile applicato (Allegato n. 4/2 al
D.Lgs. 118/2011 - Aggiornato al D.M. del 20.05.2015),
concernente la contabilità finanziaria, il quale al punto
6.3, capoverso. 7^ stabilisce che: “…Le attività
gestionali e contabili sono improntate al principio
dell’efficienza e della celerità del procedimento di spesa,
tenuto conto anche della normativa in tema di interessi
moratori per ritardati pagamenti...”.
In disparte, la questione inerente all’eventuale
responsabilità erariale che si potrebbe configurare nel caso
in cui fosse accertato, nelle sedi opportune, il ricorrere
dei requisiti previsti dalla legge. Ne
deriva l’obbligatoria comunicazione alla competente Procura
regionale della Corte dei conti
(Corte dei Conti, Sez. controllo Puglia,
parere 23.07.2015 n. 149). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE:
Il previgente art. 92, comma 5, del d.lgs. n.
163/2006 è stato abrogato dall’art. 13 del d.l. n. 90/2014,
convertito con legge n. 114/2014.
Tuttavia, il legislatore
ha mantenuto ferma la possibilità di attribuzione di un
incentivo ai dipendenti degli enti pubblici cui sono
conferiti incarichi tecnici nell’ambito delle procedure di
aggiudicazione ed esecuzione di un’opera pubblica, salvo ridisciplinarne presupposti e limiti nel nuovo “fondo per
la progettazione e l’innovazione” previsto dall’art.
13-bis della legge n. 114/2014.
Di conseguenza, a decorrere dall’entrata in
vigore della legge n. 114/2014, di conversione del d.l. n.
90/2014, i comuni, come tutte le altre pubbliche
amministrazioni, dovranno fare riferimento, per la
disciplina degli incentivi al personale interno incaricato
di attività tecniche nell’ambito del procedimento di
aggiudicazione ed esecuzione di un’opera pubblica, alla
nuova disciplina legislativa, con conseguente necessaria
adozione di un nuovo regolamento interno che stabilisca la
percentuale massima destinata a tali compensi (comma 7-bis)
e un nuovo accordo integrativo decentrato, da recepire nel
regolamento, che stabilisca i criteri di ripartizione (comma
7-ter).
Entrambi dovranno adeguarsi alle novità normative,
fra le quali spicca l’esclusione, fra i soggetti beneficiari
dell’incentivo, del personale con qualifica dirigenziale
(comma 7-ter, ultimo periodo).
---------------
I punti fermi che il regolamento
interno deve rispettare
sono i seguenti:
- erogazione ai soli dipendenti espletanti
gli incarichi tassativamente indicati dalla norma (responsabile
del procedimento, incaricati della redazione del
progetto, del piano della sicurezza, della
direzione dei lavori, del collaudo, e loro
collaboratori), riferiti all’aggiudicazione ed
esecuzione “di un’opera o un lavoro” (non, pertanto,
di un appalto di fornitura di beni o di servizi).
La norma non richiede, ai fini della legittima erogazione,
il necessario espletamento interno di una o più attività
(per esempio, la progettazione), purché il regolamento
ripartisca gli incentivi in maniera conforme alle
responsabilità attribuite e devolva in economia la quota
relativa agli incarichi conferiti a professionisti esterni;
- puntuale ripartizione del fondo
incentivante tra gli incarichi attribuibili (responsabile
del procedimento, progettista, responsabili
della sicurezza, direttore dei lavori,
collaudatori, nonché loro collaboratori), secondo
percentuali rimesse alla discrezionalità
dell’amministrazione, da mantenere, tuttavia, entro i binari
della logicità, congruenza e ragionevolezza;
- devoluzione in economia delle quote del
fondo incentivante corrispondenti a prestazioni non svolte
dai dipendenti, ma affidate a personale esterno all'organico
dell'amministrazione.
Obbligo che impone di prevedere analiticamente nel
regolamento interno, e graduare, le percentuali spettanti
per ogni incarico espletabile dal personale, in maniera tale
da permettere, nel caso in cui alcune prestazioni siano
affidate a professionisti esterni, la predetta devoluzione;
- devoluzione in economia delle quote parti
dell'incentivo corrispondenti a prestazioni, anche se svolte
da dipendenti interni, prive dell’accertamento di esecuzione
dell’opera in conformità ai tempi ed ai costi prestabiliti.
---------------
In estrema sintesi, quindi, la novella
normativa ha lasciato intatto il potere dell’amministrazione
di riconoscere, sia pure con le diverse forme ed entro i
nuovi limiti indicati, incentivi per l’attività di
progettazione e per l’attività di supporto alla
progettazione esterna, intaccando per contro la
diversa fattispecie
(art. 92, comma 6, del codice dei contratti)
concernente la redazione di atti pianificatori pur
sempre connessi all’espletamento di un’opera pubblica.
In conclusione, quindi, deve ritenersi che
permanga, pur a seguito dell’introduzione, nell’art. 93 del
codice dei contratti pubblici, d.lgs. n. 163/2006, di
quattro nuovi commi (7-bis, 7-ter, 7-quater e 7-quinquies)
il potere dell’amministrazione di disporre un riconoscimento
economico in favore del personale interno concernente la
fase di gestione degli appalti di opere nel caso di attività
di progettazione esterna.
---------------
Il comune di Tartano (SO) richiede chiarimenti sulla
possibilità di prevedere un riconoscimento economico
concernente la fase di gestione degli appalti di opere nel
caso di attività di progettazione esterna in favore del
personale interno dell'ente, e in particolare con
riferimento all'attività relativa alle operazioni di scelta
del contraente, di redazione del bando dì gara, dei
procedimenti di aggiudicazione, liquidazione, verifica in
corso d’opera e controllo di conformità dell’opera.
...
Tanto premesso, con specifico riferimento al caso di specie,
i quesiti devono ritenersi ammissibili, in quanto relativi a
normativa evidentemente diretta al contenimento della spesa
pubblica, oltretutto in passato già affrontata dalla Sezione
(parere
01.10.2014 n. 246
e
parere 01.10.2014 n. 247).
MERITO
La questione è stata già affrontata dalla Sezione con i due
arresti citati, da cui non vi è motivo alcuno di
discostarsi.
In particolare, la Sezione ha avuto modo di evidenziare che
il previgente art. 92, comma 5, del d.lgs. n.
163/2006 è stato abrogato dall’art. 13 del d.l. n. 90/2014,
convertito con legge n. 114/2014. Tuttavia, il legislatore
ha mantenuto ferma la possibilità di attribuzione di un
incentivo ai dipendenti degli enti pubblici cui sono
conferiti incarichi tecnici nell’ambito delle procedure di
aggiudicazione ed esecuzione di un’opera pubblica, salvo
ridisciplinarne presupposti e limiti nel nuovo “fondo per
la progettazione e l’innovazione” previsto dall’art.
13-bis della legge n. 114/2014.
Quest’ultima norma ha inserito, nell’art. 93 del codice dei
contratti pubblici, d.lgs. n. 163/2006, quattro nuovi commi
(7-bis, 7-ter, 7-quater e 7-quinquies).
Di conseguenza, a decorrere dall’entrata in
vigore della legge n. 114/2014, di conversione del d.l. n.
90/2014, i comuni, come tutte le altre pubbliche
amministrazioni, dovranno fare riferimento, per la
disciplina degli incentivi al personale interno incaricato
di attività tecniche nell’ambito del procedimento di
aggiudicazione ed esecuzione di un’opera pubblica, alla
nuova disciplina legislativa, con conseguente necessaria
adozione di un nuovo regolamento interno che stabilisca la
percentuale massima destinata a tali compensi (comma 7-bis)
e un nuovo accordo integrativo decentrato, da recepire nel
regolamento, che stabilisca i criteri di ripartizione (comma
7-ter). Entrambi dovranno adeguarsi alle novità normative,
fra le quali spicca l’esclusione, fra i soggetti beneficiari
dell’incentivo, del personale con qualifica dirigenziale
(comma 7-ter, ultimo periodo).
Circa il quesito specifico posto dal Comune istante, la
nuova disciplina si pone in sostanziale prosecuzione della
precedente, prevedendo esplicitamente che beneficiari dei
compensi in discorso possano essere i dipendenti interni
incaricati delle funzioni di responsabile del
procedimento, della redazione del progetto, del
piano della sicurezza, della direzione dei lavori,
del collaudo, nonché i loro collaboratori.
Allo stesso modo la nuova disciplina
ribadisce la confluenza in economia delle quote parti
dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai
dipendenti sopra indicati, ma affidate a personale esterno
all'organico dell'amministrazione (ovvero prive, novità
normativa, dell’accertamento dell'effettivo rispetto, nella
fase realizzativa dell'opera, dei tempi e dei costi previsti
dal quadro economico del progetto esecutivo).
Nel
parere 08.10.2012 n. 425 e
parere 24.10.2012 n. 453, dopo averne richiamato
il tenore letterale, è stato sottolineato come
la norma (oggi l’art. 93, commi 7-bis, 7-ter e
7-quater, del d.lgs. n. 163/2006) vada letta nel complessivo
contesto delle modalità d’affidamento degli incarichi
tecnico-professionali, previsti dalla legislazione in
materia di contratti pubblici. Quest’ultima
(cfr. artt. 10, 84, 90, 112, 120 e 130 del d.lgs. 163/2006)
è informata da un principio generale, codificato
anche dall’art. 7, comma 6, del d.lgs. n. 165/2001, in base
al quale i predetti incarichi possono essere conferiti a
soggetti esterni al plesso amministrativo solo se non si
disponga di professionalità adeguate nel proprio organico e
tale carenza non sia altrimenti risolvibile con strumenti
flessibili di gestione delle risorse umane. Tale presupposto
mira a preservare le finanze pubbliche, oltre che a
valorizzare il personale interno alle amministrazioni.
Pertanto, nelle ipotesi (che la legge
considera ordinarie) in cui gli incarichi tecnici siano
espletati da personale interno occorre far riferimento, ai
fini della loro remunerazione, alle regole generali previste
per il pubblico impiego, il cui sistema retributivo è
conformato da due principi cardine, quello di
definizione contrattuale delle componenti economiche e
quello di onnicomprensività della retribuzione
(cfr. artt. 2, 24, 40 e 45 del d.lgs. n. 165/2001, nonché
Corte dei Conti, sezione giurisdizionale per la Puglia,
sentenza 20.07.2010 n. 464,
sentenza 22.07.2010 n. 475 e
sentenza 02.08.2010 n. 487).
Secondo questi ultimi nulla è dovuto, oltre al
trattamento economico fondamentale ed accessorio stabilito
dai contratti collettivi, al dipendente che ha svolto una
prestazione che rientra nei suoi doveri d’ufficio, anche se
di particolare complessità.
Tuttavia, la fonte legislativa, oltre a disciplinare la
struttura ed i livelli di contrattazione nel pubblico
impiego (cfr. artt. 2, 24, 40 e 45 d.lgs. 165/2001) può, in
omaggio al generale sistema delle fonti previsto dalla
Costituzione, disciplinare in modo diretto l’ammontare del
trattamento economico (si rimanda, per esempio, ai precetti
posti dall’art. 9 del d.l. n. 78/2010, convertito nella
legge n. 122/2010), nonché attribuire ulteriori specifici
compensi (come nel caso dell’art. 92, comma 5, del Codice
dei contratti pubblici, oggi art. 93, commi 7-bis e
seguenti).
Il c.d. “incentivo alla progettazione”
(la cui denominazione risale all’art. 18 dell’abrogata legge
n. 109/1994), costituisce, infatti, uno di
quei casi nei quali il legislatore, derogando al principio
per cui il trattamento economico è fissato dai contratti
collettivi, attribuisce un compenso ulteriore e speciale,
rinviando ai regolamenti dell’amministrazione aggiudicatrice
ed alla contrattazione decentrata, i criteri e le modalità
di ripartizione. In quanto tale costituisce un’eccezione di
stretta interpretazione con divieto di analogia
(art. 12 delle diposizioni preliminari al codice civile,
cfr. altresì Sezione Campania,
parere 07.05.2008 n. 7/2008).
Come evincibile dalla lettera del comma, la legge pone
alcuni paletti per la ripartizione del predetto incentivo,
rimettendone la disciplina concreta (“modalità e criteri”)
ad un regolamento interno assunto previa contrattazione
decentrata (in virtù della novella legislativa del 2014,
risulta chiarita la competenza della sola amministrazione, a
mezzo di atto regolamentare, per la quantificazione del
fondo, nella percentuale massima del 2% dell’importo posto a
base di gara).
Limitando l’analisi ai soli quesiti avanzati dal comune
istante, i punti fermi che il regolamento
interno deve rispettare
(sull’impossibilità da parte del regolamento di derogare a
quanto previsto dalla legge o di attribuire compensi non
previsti, si rimanda al
parere 30.05.2012 n. 259 della Sezione)
sono i seguenti:
- erogazione ai soli dipendenti espletanti
gli incarichi tassativamente indicati dalla norma (responsabile
del procedimento, incaricati della redazione del
progetto, del piano della sicurezza, della
direzione dei lavori, del collaudo, e loro
collaboratori), riferiti all’aggiudicazione ed
esecuzione “di un’opera o un lavoro” (non, pertanto,
di un appalto di fornitura di beni o di servizi).
La norma non richiede, ai fini della legittima erogazione,
il necessario espletamento interno di una o più attività
(per esempio, la progettazione), purché il regolamento
ripartisca gli incentivi in maniera conforme alle
responsabilità attribuite e devolva in economia la quota
relativa agli incarichi conferiti a professionisti esterni;
- puntuale ripartizione del fondo
incentivante tra gli incarichi attribuibili (responsabile
del procedimento, progettista, responsabili
della sicurezza, direttore dei lavori,
collaudatori, nonché loro collaboratori), secondo
percentuali rimesse alla discrezionalità
dell’amministrazione, da mantenere, tuttavia, entro i binari
della logicità, congruenza e ragionevolezza
(cfr. Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici,
deliberazione 13.12.2007 n. 315,
deliberazione 22.06.2005 n. 70,
deliberazione 19.05.2004 n. 97-bis);
- devoluzione in economia delle quote del
fondo incentivante corrispondenti a prestazioni non svolte
dai dipendenti, ma affidate a personale esterno all'organico
dell'amministrazione.
Obbligo che impone di prevedere analiticamente nel
regolamento interno, e graduare, le percentuali spettanti
per ogni incarico espletabile dal personale, in maniera tale
da permettere, nel caso in cui alcune prestazioni siano
affidate a professionisti esterni, la predetta devoluzione
(si rinvia alla
deliberazione 13.12.2007 n. 315,
deliberazione 08.04.2009 n. 35,
deliberazione 07.05.2008 n. 18
e
deliberazione 02.05.2001 n. 150 dell’Autorità di
vigilanza);
- devoluzione in economia delle quote parti
dell'incentivo corrispondenti a prestazioni, anche se svolte
da dipendenti interni, prive dell’accertamento di esecuzione
dell’opera in conformità ai tempi ed ai costi prestabiliti
(novità discendente dal predetto art. 93, comma 7-ter, per
gli incarichi attribuiti dopo l’entrata in vigore della
legge di conversione n. 114/2014).
Altri principi applicabili alla fattispecie (rilevanti ai
fini del parere di cui si discute) si ricavano dalla
normativa generale sul pubblico impiego e, in particolare,
dall’art. 7, comma 5, del d.lgs. n. 165/2001, in base al
quale “le amministrazioni pubbliche non
possono erogare trattamenti economici accessori che non
corrispondano alle prestazioni effettivamente rese”.
La regola è fatta espressamente propria dal legislatore
anche nella materia degli incentivi di cui si discute, posto
che il nuovo art. 93, comma 7-ter, del d.lgs. n. 163/2006
(riprendendo analoga formulazione del precedente art. 92,
comma 5, dispone che “la corresponsione
dell'incentivo è disposta dal dirigente o dal responsabile
di servizio preposto alla struttura competente, previo
accertamento positivo delle specifiche attività svolte dai
predetti dipendenti”.
Nel caso in cui tale accertamento sia invece negativo,
scatta la medesima regola della devoluzione in economia
esaminata in precedenza (cfr. in tal senso, sia pure nel
previgente contesto normativo, la
deliberazione 22.06.2005 n. 69 dell’Autorità per la
vigilanza sui contratti pubblici).
In estrema sintesi, quindi, la novella
normativa ha lasciato intatto il potere dell’amministrazione
di riconoscere, sia pure con le diverse forme ed entro i
nuovi limiti indicati, incentivi per l’attività di
progettazione e per l’attività di supporto alla
progettazione esterna, intaccando per contro
(sez. Toscana,
parere 05.03.2015 n. 12) la
diversa fattispecie
(art. 92, comma 6, del codice dei contratti)
concernente la redazione di atti pianificatori pur
sempre connessi all’espletamento di un’opera pubblica.
In conclusione, quindi, deve ritenersi che
permanga, pur a seguito dell’introduzione, nell’art. 93 del
codice dei contratti pubblici, d.lgs. n. 163/2006, di
quattro nuovi commi (7-bis, 7-ter, 7-quater e 7-quinquies)
il potere dell’amministrazione di disporre un riconoscimento
economico in favore del personale interno concernente la
fase di gestione degli appalti di opere nel caso di attività
di progettazione esterna
(Corte ei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 20.07.2015 n. 236). |
SEGRETARI COMUNALI:
La
Sezione centrale ha avuto modo di ribadire l’orientamento
propugnato dal dicastero siciliano affermando che "In
difetto di specifica regolamentazione nell’ambito del CCNL
di categoria successivo alla novella normativa i diritti di
rogito sono attribuiti integralmente ai segretari comunali,
laddove gli importi riscossi dal comune, nel corso
dell’esercizio, non eccedano i limiti della quota del quinto
della retribuzione in godimento del segretario”,
negando quindi un autonomo potere regolamentare dell’ente
interessato avulso dal c.c.n.l. di categoria.
---------------
Le somme destinate al pagamento
dell’emolumento in parola devono intendersi al lordo di
tutti gli oneri accessori connessi all’erogazione, ivi
compresi quelli a carico degli enti.
---------------
Il comune di Nave (BS) aveva richiesto l’avviso della
Sezione su una duplice problematica afferente alla nuova
disciplina in tema di diritti spettanti ai segretari
comunali, e in particolare:
i) se l’ente possa deliberare in autonomia la percentuale
dei diritti da corrispondere al segretario comunale;
ii) se, considerando che la corresponsione di un compenso
al segretario comporta ulteriori costi per l'ente (oneri
previdenziali e IRAP), l’ente stesso possa scorporare tali
oneri dalla somma complessiva, in modo tale che quest’ultima
non sia superiore ai diritti ricevuti da parte di terzi.
...
L'art. 10, comma 2-bis, del d.l. 24.06.2014, n. 90,
convertito dal d.l. 11.08.2014, n. 114, ha stabilito che “Negli
enti locali privi di dipendenti con qualifica dirigenziale,
e comunque a tutti i segretari comunali che non hanno
qualifica dirigenziale, una quota del provento annuale
spettante al comune ai sensi dell'articolo 30, secondo
comma, della legge 15.11.1973, n. 734, come sostituito dal
comma 2 del presente articolo, per gli atti di cui ai numeri
1, 2, 3, 4 e 5 della tabella D allegata alla legge
08.06.1962, n. 604, e successive modificazioni, è attribuita
al segretario comunale rogante, in misura non superiore a un
quinto dello stipendio in godimento".
In disparte i profili afferenti all’individuazione dei
soggetti beneficiari di tale voce stipendiale, oggetto di
diverse opzioni ermeneutiche non rilevanti nella presente
sede, in relazione al versante oggettivo della
quantificazione di detti proventi, con la deliberazione
della Sezione citata in premessa, sono stati sollevati dubbi
in ordine alla condivisione della pronunzia della Sezione
regionale per la Regione Sicilia, che con deliberazione del
14.11.2014, n. 194, aveva affermato che “laddove
spettanti, i proventi annuali dei diritti di segreteria e i
diritti di rogito vadano attribuiti al segretario comunale
secondo una quota che non può superare un quinto dello
stipendio in godimento (trattamento teorico della figura
professionale compresa la retribuzione di risultato) da
calcolarsi in relazione al periodo di servizio prestato
nell’anno dal segretario comunale o provinciale”;
e che “L’espressione adottata dal
legislatore, riferita al ‘provento annuale’, induce a
ritenere che gli importi dei diritti di segreteria e di
rogito vadano introitati integralmente al bilancio dell’ente
locale per essere erogati, al termine dell’esercizio, in una
quota calcolata in misura non superiore al quinto dello
stipendio in godimento del segretario comunale, ove
spettante. Pertanto, nel silenzio della legge ed in assenza
di regolamentazione nell’ambito del CCNL di categoria
successivo alla novella normativa, i proventi in esame sono
attribuiti integralmente al segretario comunale, laddove gli
importi riscossi dal comune, nel corso dell’esercizio, non
eccedano i limiti della quota del quinto della retribuzione
in godimento del predetto segretario comunale o provinciale”.
Sul punto, tuttavia, occorre rilevare che la Sezione
centrale investita della risoluzione del quesito (deliberazione
24.06.2015 n. 21) ha avuto modo di ribadire
l’orientamento propugnato dal dicastero siciliano,
affermando che “In difetto di specifica
regolamentazione nell’ambito del CCNL di categoria
successivo alla novella normativa i predetti proventi sono
attribuiti integralmente ai segretari comunali, laddove gli
importi riscossi dal comune, nel corso dell’esercizio, non
eccedano i limiti della quota del quinto della retribuzione
in godimento del segretario”,
negando quindi un autonomo potere regolamentare dell’ente
interessato avulso dal c.c.n.l. di categoria.
In relazione al secondo problema oggetto della richiesta di
parere, la Sezione delle Autonomie ha invece precisato che “le
somme destinate al pagamento dell’emolumento in parola
devono intendersi al lordo di tutti gli oneri accessori
connessi all’erogazione, ivi compresi quelli a carico degli
enti” (Corte
dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 20.07.2015 n. 235). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Per il 2015 ed il 2016 agli enti locali è
consentito indire bandi di procedure di mobilità riservate
esclusivamente al personale soprannumerario degli enti di
area vasta. A conclusione del processo di ricollocazione del
personale soprannumerario destinatario dei processi di
mobilità, è ammissibile indire le ordinarie procedure di
mobilità volontaria.
Fintanto che non sarà implementata la
piattaforma di incontro di domanda e offerta di mobilità
presso il Dipartimento della funzione pubblica, è consentito
alle amministrazioni pubbliche indire bandi di procedure di
mobilità volontaria riservate esclusivamente al personale di
ruolo degli enti di area vasta”.
Le suddette procedure di mobilità
volontaria riservate esclusivamente al personale
soprannumerario di ruolo degli enti di area vasta non
possono essere limitate al solo personale della Provincia in
cui è situato il Comune.
Le procedure in analisi -attivabili,
peraltro, come precisato nella suddetta circolare nelle more
dell’implementazione, ormai prossima al completamento, della
piattaforma di incontro di domanda e offerta di mobilità
presso il Dipartimento della funzione pubblica– sono volte a
favorire e ad agevolare il pieno perseguimento degli
obiettivi perseguiti dal Legislatore con art. 1, commi 424 e
ss. della legge di stabilità 2015, ovvero la ricollocazione
delle unità soprannumerarie degli Enti di area vasta
destinatarie dei processi di mobilità.
Nell’applicazione delle disposizioni
che vincolano le risorse destinate alle assunzioni a tempo
indeterminato per la parte relativa alla ricollocazione del
personale sovrannumerario delle province vanno considerate
tutte le unità da ricollocare e non solo quelle della
provincia nella cui circoscrizione territoriale ricade
l’ente che deve fare le assunzioni.
---------------
Alle procedure di mobilità riservate in
analisi, essendo volte al perseguimento delle finalità ora
ricordate –ovvero la piena ricollocazione delle unità
soprannumerarie degli Enti di area vasta destinatarie-, non
può che trovare applicazione la disciplina contenuta nel
menzionato comma 424, nella parte in cui deroga al limite di
spesa di cui all’art. 1, comma 557, della legge 296/2007,
restando fermi i vincoli del patto di stabilità interno e la
sostenibilità finanziaria e di bilancio dell'ente.
---------------
Il Sindaco del Comune di Mazzano (BS), con nota del
giorno 18.02.2015, dopo aver premesso che:
- “il Comune di Mazzano, onde garantire la normale
funzionalità dell’ufficio tecnico (settore lavori pubblici),
ha la urgente necessità di reperire due risorse umane (un
tempo parziale di 18 ore settimanali e un tempo pieno);
- in tal senso, intende avviare una procedura di mobilità
volontaria, ai sensi dell’art. 30 del D.Lgs. 30.03.2001, n.
165, riservata esclusivamente al personale di ruolo
dell’Amministrazione provinciale di Brescia”,
ha posto alla Sezione i seguenti quesiti:
a) se ”il Comune possa perfezionare la procedura di
mobilità volontaria sopra richiamata (esclusivamente
riservata al personale di ruolo dell'Amministrazione
provinciale di Brescia)”;
b) se “la spesa relativa alla predetta procedura di
mobilità di cui alla lettera a) possa essere esclusa dal
calcolo rilevante al fine del rispetto del tetto di spesa di
cui al comma 557 dell'art. 1 della legge 27.12.2006, n. 296”.
...
2. Venendo all’esame del primo dei quesiti posti dal
Comune istante, va ricordato che la Sezione Autonomie di
questa Corte, con la recente
deliberazione 16.06.2015 n. 19 ha, al riguardo,
ritenuto che “per il 2015 ed il 2016
agli enti locali è consentito indire bandi di procedure di
mobilità riservate esclusivamente al personale
soprannumerario degli enti di area vasta. A conclusione del
processo di ricollocazione del personale soprannumerario
destinatario dei processi di mobilità, è ammissibile indire
le ordinarie procedure di mobilità volontaria”.
Nello stesso senso sono gli indirizzi emanati con
circolare 30.01.2015 n. 1/2015 del Ministro per
la semplificazione e la pubblica amministrazione e del
Ministro per gli affari regionali e le autonomie, ove si
afferma che “fintanto che non sarà
implementata la piattaforma di incontro di domanda e offerta
di mobilità presso il Dipartimento della funzione pubblica,
è consentito alle amministrazioni pubbliche indire bandi di
procedure di mobilità volontaria riservate esclusivamente al
personale di ruolo degli enti di area vasta”.
Rispetto alla concreta prospettazione dell’Ente istante,
dunque, appare da precisare che le suddette
procedure di mobilità volontaria riservate esclusivamente al
personale soprannumerario di ruolo degli enti di area vasta
non possono essere limitate al solo personale della
Provincia in cui è situato il Comune.
Le procedure in analisi -attivabili,
peraltro, come precisato nella suddetta circolare nelle more
dell’implementazione, ormai prossima al completamento, della
piattaforma di incontro di domanda e offerta di mobilità
presso il Dipartimento della funzione pubblica– sono volte a
favorire e ad agevolare il pieno perseguimento degli
obiettivi perseguiti dal Legislatore con art. 1, commi 424 e
ss. della legge di stabilità 2015, ovvero la ricollocazione
delle unità soprannumerarie degli Enti di area vasta
destinatarie dei processi di mobilità.
Al riguardo, la Sezione delle Autonomie, nella citata
deliberazione, ha avuto modo di precisare che “nell’applicazione
delle disposizioni che vincolano le risorse destinate alle
assunzioni a tempo indeterminato per la parte relativa alla
ricollocazione del personale sovrannumerario delle province
vanno considerate tutte le unità da ricollocare e non solo
quelle della provincia nella cui circoscrizione territoriale
ricade l’ente che deve fare le assunzioni”.
3. Alla luce di quanto ora ricordato, può, altresì,
ritenersi, in merito al secondo quesito posto
dall’Ente, che alle procedure di mobilità
riservate in analisi, essendo volte al perseguimento delle
finalità ora ricordate –ovvero la piena ricollocazione delle
unità soprannumerarie degli Enti di area vasta destinatarie-
non può che trovare applicazione la disciplina contenuta nel
menzionato comma 424, nella parte in cui deroga al limite di
spesa di cui all’art. 1, comma 557, della legge 296/2007,
restando fermi i vincoli del patto di stabilità interno e la
sostenibilità finanziaria e di bilancio dell'ente
(Corte dei Conti,
Sez. controllo Lombardia,
parere 20.07.2015 n. 234). |
PUBBLICO IMPIEGO: Presupposto
per l’erogazione dei compensi professionali ai dipendenti
delle avvocature erariali è allora il dato formale
dell’iscrizione all’albo, oltre che quello sostanziale della
“stabile costituzione di un ufficio legale con specifica
attribuzione della trattazione degli affari legali dell'ente
stesso e l'appartenenza a tale ufficio del professionista
incaricato in forma esclusiva di tali funzioni”.
---------------
Il Sindaco del Comune di Lanciano richiede
delucidazioni sulla portata operativa dell’art. 9 del d.l.
24.06.2014, n. 90, convertito nella l. 11.08.2014, n. 114, e
in particolare se sia possibile attribuire quota parte
dei compensi professionali disciplinati da tale legge ai
dipendenti del Settore Avvocatura che non rivestano la
qualifica di avvocati.
...
La normativa conferente dispone che “1. I compensi
professionali corrisposti dalle amministrazioni pubbliche di
cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo
30.03.2001, n. 165, e successive modificazioni, agli
avvocati dipendenti delle amministrazioni stesse, ivi
incluso il personale dell’Avvocatura dello Stato, sono
computati ai fini del raggiungimento del limite retributivo
di cui all’articolo 23-ter del decreto-legge 06.12.2011, n.
201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22.12.2011,
n. 214, e successive modificazioni (omissis).
3. Nelle ipotesi di sentenza favorevole con recupero delle
spese legali a carico delle controparti, le somme recuperate
sono ripartite tra gli avvocati dipendenti delle
amministrazioni di cui al comma 1, esclusi gli avvocati e i
procuratori dello Stato, nella misura e con le modalità
stabilite dai rispettivi regolamenti e dalla contrattazione
collettiva ai sensi del comma 5 e comunque nel rispetto dei
limiti di cui al comma 7. La parte rimanente delle suddette
somme è riversata nel bilancio dell’amministrazione.
4. Nelle ipotesi di sentenza favorevole con recupero delle
spese legali a carico delle controparti, il 50 per cento
delle somme recuperate è ripartito tra gli avvocati e
procuratori dello Stato secondo le previsioni regolamentari
dell’Avvocatura dello Stato, adottate ai sensi del comma 5.
Un ulteriore 25 per cento delle suddette somme è destinato a
borse di studio per lo svolgimento della pratica forense
presso l’Avvocatura dello Stato, da attribuire previa
procedura di valutazione comparativa. Il rimanente 25 per
cento è destinato al Fondo per la riduzione della pressione
fiscale, di cui all’articolo 1, comma 431, della legge
27.12.2013, n. 147, e successive modificazioni.
5. I regolamenti dell’Avvocatura dello Stato e degli altri
enti pubblici e i contratti collettivi prevedono criteri di
riparto delle somme di cui al primo periodo del comma 3 e al
primo periodo del comma 4 in base al rendimento individuale,
secondo criteri oggettivamente misurabili che tengano conto
tra l’altro della puntualità negli adempimenti processuali.
I suddetti regolamenti e contratti collettivi definiscono
altresì i criteri di assegnazione degli affari consultivi e
contenziosi, da operare ove possibile attraverso sistemi
informatici, secondo princìpi di parità di trattamento e di
specializzazione professionale.
6. In tutti i casi di pronunciata compensazione integrale
delle spese, ivi compresi quelli di transazione dopo
sentenza favorevole alle amministrazioni pubbliche di cui al
comma 1, ai dipendenti, ad esclusione del personale
dell’Avvocatura dello Stato, sono corrisposti compensi
professionali in base alle norme regolamentari o
contrattuali vigenti e nei limiti dello stanziamento
previsto, il quale non può superare il corrispondente
stanziamento relativo all’anno 2013. Nei giudizi di cui
all’articolo 152 delle disposizioni per l’attuazione del
codice di procedura civile e disposizioni transitorie, di
cui al regio decreto 18.12.1941, n. 1368, possono essere
corrisposti compensi professionali in base alle norme
regolamentari o contrattuali delle relative amministrazioni
e nei limiti dello stanziamento previsto. Il suddetto
stanziamento non può superare il corrispondente stanziamento
relativo all’anno 2013.
7. I compensi professionali di cui al comma 3 e al primo
periodo del comma 6 possono essere corrisposti in modo da
attribuire a ciascun avvocato una somma non superiore al suo
trattamento economico complessivo (omissis)”.
Come può agevolmente desumersi dalle espressioni
inequivocabilmente utilizzate dal legislatore,
la novella normativa intende operare un chiaro
riferimento ai soli dipendenti degli enti pubblici che
posseggano lo status professionale di avvocato.
Del resto, la novella ha inteso
disciplinare in modo uniforme e al contempo innovativo
l’annosa questione dei compensi professionali riconosciuti
agli avvocati dipendenti degli enti pubblici in ragione
della loro natura sostanzialmente “ibrida”, vale a
dire “sospesa tra l'autonomia e la subordinazione, che
coniuga in sé la qualità di professionista con quella di
impiegato, relazionandosi costantemente con quello che è, al
contempo, il proprio cliente, ma anche il suo datore di
lavoro. Questa duplicità di status (la cd. doppia identità
dell'avvocato dipendente: da un lato professionista,
dall'altro pubblico impiegato) si riflette anche sulla
struttura del trattamento economico a lui spettante,
normalmente composto, pur nella varietà delle situazioni,
per una quota, dallo stipendio tabellare e dalle relative
voci integrative e accessorie e, per altra quota, da
compensi aggiuntivi correlati all'esito favorevole delle
lite, di importo tendenzialmente variabile, ancorché erogati
con continuità (cd. propine)”
(in tal senso e da ultimo TAR Puglia - sez. II, 16.10.2014,
n. 2543).
Esula evidentemente dall’intento del legislatore, invece,
l’obiettivo di fornire alle amministrazioni un crivello per
eludere il principio di onnicomprensività della retribuzione
del pubblico dipendente, che importa che “nulla
è dovuto, oltre al trattamento economico fondamentale ed
accessorio stabilito dai contratti collettivi, al dipendente
che ha svolto una prestazione che rientra nei suoi doveri
d’ufficio, anche se di particolare complessità”
(Sez. controllo Lombardia, 06.03.2013, n. 73).
Da ultimo, si rammenta che la recente legge professionale
(l. 31.12.2012, n. 247) all’art. 23, nel disciplinare lo
status degli avvocati degli enti pubblici, prevede che “gli
avvocati degli uffici legali specificamente istituiti presso
gli enti pubblici, anche se trasformati in persone
giuridiche di diritto privato, sino a quando siano
partecipati prevalentemente da enti pubblici, ai quali venga
assicurata la piena indipendenza ed autonomia nella
trattazione esclusiva e stabile degli affari legali
dell'ente ed un trattamento economico adeguato alla funzione
professionale svolta, sono iscritti in un elenco speciale
annesso all'albo”.
Presupposto per l’erogazione dei compensi
professionali ai dipendenti delle avvocature erariali è
allora il dato formale dell’iscrizione all’albo (comma 2),
oltre che quello sostanziale della “stabile costituzione
di un ufficio legale con specifica attribuzione della
trattazione degli affari legali dell'ente stesso e
l'appartenenza a tale ufficio del professionista incaricato
in forma esclusiva di tali funzioni”
(Corte dei Conti, Sez. controllo Abruzzo,
parere 17.07.2015 n. 187). |
QUESITI & PARERI |
EDILIZIA PRIVATA:
L'opera abusiva.
DOMANDA:
L'art. 31 del DPR 380/2001 al comma 4 sancisce, in caso di
inottemperanza entro i termini stabiliti, l'acquisizione di
diritto gratuita al patrimonio del comune del bene del'aerea
di sedime, nonché di quella necessaria, secondo le vigenti
prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere
analoghe.
La domanda che si rivolge è questa: l'acquisizione di quanto
sopra descritto è una procedura obbligatoria e necessaria al
fine di procedere alla demolizione del manufatto abusivo,
ovviamente sempre a spese dell'inadempiente? Quali sono i
presupposti per non ricorrere all'acquisizione gratuita del
bene e a chi compete tale decisione?
RISPOSTA:
L'acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere
abusive, ai sensi dell'art. 31 DPR 380/2001, "avviene di
diritto e in automatico, non ha alcun carattere di
discrezionalità", avendo natura meramente dichiarativa,
ed è subordinata unicamente all'accertamento
dell'inottemperanza e del decorso del termine di legge per
la demolizione e il ripristino dello stato dei luoghi, che
opera automaticamente con riguardo non solo all'opera
abusiva e all'area di sedime, ma anche alle pertinenze
(Consiglio di Stato 2368/2014, TAR Salerno, sent.
1318/2014).
L’accertamento dell’inottemperanza alla ingiunzione di
demolizione al termine dei 90 giorni previsti, costituisce
titolo per l’immissione in possesso e per la trascrizione
gratuita nei registri immobiliari dell’area acquisita a
patrimonio comunale, previa notifica all’interessato. Il
verbale di accertamento di inottemperanza, di cui sopra, ha
carattere endoprocedimentale e meramente dichiarativo, in
quanto viene redatto automaticamente per effetto
dell’inottemperanza alla demolizione.
L’ordine di demolizione, che costituisce il presupposto per
l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale, può essere
impugnato davanti al giudice amministrativo. Quindi la
semplice scadenza dei 90 giorni per ottemperare alla
demolizione determina l’automatica applicazione della
sanzione amministrativa del trasferimento di proprietà al
Comune che, a sua volta, è presupposto necessario affinché
l’amministrazione possa provvedere alla demolizione. Non
esistono presupposti per non ricorrere all'acquisizione
gratuita del bene, salvo i casi in cui le opere siano state
realizzate solo in parziale difformità dal permesso di
costruire.
In tali fattispecie, è possibile non procedere alla
demolizione del manufatto laddove, dopo attenta analisi e
valutazione da parte della P.A., risulti che le parti
difformi non possano essere eliminate senza compromettere la
stabilità dell'edificio o delle parti conformi: è allora
possibile convertire la demolizione in sanzione pecuniaria
(cd. “fiscalizzazione dell’abuso”), che rimane
pertanto assoggettata alla valutazione di natura
tecnico-edilizia- strutturale del dirigente o responsabile
dell'ufficio comunale preposto (art. 34 del D.P.R. 380/2001)
(link a www.ancirisponde.ancitel.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/
Conflitti, decide l'ente.
Il consiglio delibera sulle incompatibilità.
All'amministratore locale va riconosciuto il diritto alla
difesa.
Sussiste una causa di incompatibilità, ex art. 63, comma 1,
n. 2, dlgs 267/2000, tra la carica di Consigliere comunale e
quella di socio di una libreria privata, fornitrice di libri
per le scuole elementari, destinataria di un contributo
comunale (cedole librarie)?
La questione va esaminata alla luce della citata norma del
Tuel, laddove è prevista l'incompatibilità alla carica di
consigliere comunale di chi, come titolare, amministratore,
dipendente con poteri di rappresentanza o di coordinamento,
ha parte direttamente o indirettamente in servizi,
somministrazioni o appalti nell'interesse del comune.
In proposito, la consolidata giurisprudenza della Corte di
cassazione ha chiarito come la norma sia volta a evitare il
pericolo di deviazioni nell'esercizio del mandato da parte
degli eletti e il conflitto, anche solo potenziale, che la
medesima persona sarebbe chiamata a dirimere se dovesse
scegliere tra l'interesse che deve tutelare in quanto
amministratore dell'ente che gestisce il servizio e
l'interesse che deve tutelare in quanto amministratore del
comune che di quel servizio fruisce.
La Suprema corte ha più volte affermato che l'art. 63
citato, nello stabilire la causa di incompatibilità di
interessi («non può ricoprire la carica») ivi prevista e
rilevante nella fattispecie, pone, ai fini della sua
sussistenza, una duplice, concorrente condizione: la prima
di natura soggettiva, la seconda di natura oggettiva.
Sul piano soggettivo, «è necessario che il soggetto, in
ipotesi incompatibile all'esercizio della carica elettiva,
rivesta la qualità di «titolare» (per es., di impresa
individuale), o «di amministratore» (per es., di società di
persone o di capitali: cfr. il n. 1 del medesimo comma ove
si parla più ampiamente, sia pure ad altri fini, di
«amministratore di ente, istituto o azienda»), ovvero di
«dipendente con poteri di rappresentanza o di
coordinamento» [cfr. Cass. civile, sent. n. 11959 dell'08.08.2003, sez. I, ord.
n. 550 del 16.01.2004].
L'ampia formulazione della norma, per un verso, dimostra che
le menzionate qualità soggettive devono risolversi in poteri
di gestione e/o di decisione, per altro verso legittima il
ricorso a una eventuale interpretazione estensiva della
disposizione. Dal punto di vista oggettivo, l'amministratore
locale, «rivestito di una delle predette qualità, può
considerarsi incompatibile, in quanto abbia parte in appalti
nell'interesse del comune».
L'espressione «avere parte» è
qui usata per indicare una contrapposizione tra l'interesse
particolare del soggetto, in ipotesi incompatibile, e l'
interesse del comune, istituzionalmente generale, quindi una
situazione di potenziale conflitto rispetto all' esercizio
imparziale della carica elettiva.
Nella fattispecie in esame, la questione rappresentata
dall'eventuale incompatibilità con la carica elettiva per il
socio di una libreria privata, fornitrice di libri per le
scuole elementari, destinataria di contributo comunale, deve
essere posta all'attenzione del Consiglio comunale, onde
evitare pregiudizi all'ente, nel pieno rispetto della
normativa volta a garantire il legittimo espletamento della
carica elettiva.
Ciò, in conformità al principio generale
secondo cui ogni organo collegiale delibera sulla regolarità
dei titoli di appartenenza dei propri componenti; la
verifica delle cause ostative all'espletamento del mandato è
compiuta con la procedura prevista dall'art. 69 del dlgs
267/2000, che garantisce il contraddittorio tra organo e
amministratore, assicurando a quest'ultimo l'esercizio alla
difesa e la possibilità di rimuovere entro un congruo
termine la causa di incompatibilità contestata
(articolo ItaliaOggi del 31.07.2015). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Incompatibilità di un consigliere comunale che riveste la
carica di vice Presidente di un'associazione locale che
riceve contributi dal Comune.
1) Per il consigliere comunale che
riveste, altresì, la carica, di vicepresidente di
un'associazione locale calcistica che riceve contributi da
parte dell'amministrazione comunale, potrebbe sussistere la
causa di incompatibilità prevista dall'art. 63, c. 1, n. 1),
del D.Lgs. 267/2000, nella parte in cui dispone che non può
ricoprire la carica di consigliere comunale l'amministratore
di ente, istituto o azienda che riceva dal comune, in via
continuativa, una sovvenzione in tutto o in parte
facoltativa, quando la parte facoltativa superi nell'anno il
dieci per cento del totale delle entrate dell'ente.
2) Qualora l'indicata associazione locale gestisca, sulla
base di apposita convenzione, il campo da calcio comunale
potrebbe venire in rilevo, altresì, la causa di
incompatibilità di cui all'art. 63, comma 1, num. 2), prima
parte del TUEL, il quale prevede che non possa ricoprire la
carica di consigliere comunale colui che, come
amministratore ha parte, direttamente o indirettamente, in
servizi, esazioni di diritti, somministrazioni o appalti,
nell'interesse del comune.
Il Comune chiede di conoscere un parere in merito alla
sussistenza di una causa di incompatibilità tra la carica
consigliere comunale e quella di vicepresidente
[1] di
un'associazione locale [2]
calcistica, sovvenzionata in modo continuativo, dal Comune
stesso e che gestisce, sulla base di apposita convenzione,
il campo da calcio comunale.
Più in particolare, l'Ente, sentito anche per le vie brevi,
precisa che oltre ad erogare annualmente un contributo in
denaro a favore dell'associazione, si accolla, altresì,
alcune spese relative alla gestione ordinaria (luce, acqua,
metano) del campo di calcio affidato in gestione gratuita
all'associazione stessa, senza che sussista alcuna
controprestazione a fronte di un tale accollo.
Sentito il Servizio elettorale, si formulano le seguenti
considerazioni.
In via preliminare, si rileva che la valutazione della
sussistenza delle cause di ineleggibilità o di
incompatibilità dei componenti di un organo elettivo
amministrativo è attribuita dalla legge all'organo medesimo.
È, infatti, principio di carattere generale del nostro
ordinamento che gli organi collegiali elettivi debbano
esaminare i titoli di ammissione dei propri componenti.
Ciò premesso, con riferimento alla fattispecie in esame
potrebbero venire in rilievo le cause di incompatibilità
previste dall'articolo 63, comma 1, numero 1), seconda
parte, e numero 2), prima parte, del decreto legislativo
18.08.2000, n. 267.
Con riferimento alla prima norma citata (articolo 63, comma
1, num. 1) TUEL) si osserva che essa prevede che non può
ricoprire la carica di consigliere comunale l'amministratore
di ente, istituto o azienda che riceva dal comune, in via
continuativa, una sovvenzione in tutto o in parte
facoltativa, quando la parte facoltativa superi nell'anno il
dieci per cento del totale delle entrate dell'ente.
Innanzitutto si osserva come, secondo autorevole dottrina,
[3] il
termine 'ente' deve essere inteso in senso lato e,
pertanto, vi rientrano anche gli organismi privi di
personalità giuridica. In questo senso si è pronunciata
anche la Corte di Cassazione [4]
che ha inteso comprendere nella nozione di ente
sovvenzionato le persone giuridiche pubbliche, private e le
associazioni non riconosciute che, pur non dotate di
personalità giuridica, abbiano autonomia amministrativa e
patrimoniale.
Con riferimento al requisito soggettivo si osserva che, ai
fini del venire in rilievo dell'indicata causa di
incompatibilità, il consigliere comunale deve rivestire,
all'interno dell'associazione, il ruolo di amministratore.
Al riguardo, si tratterà di verificare se sia possibile
ricomprendere lo stesso nella nozione legislativa di 'amministratore'
contemplata dall'articolo 63 del TUEL, in ordine alla quale
è prevista la causa di incompatibilità in argomento. Si
ritiene che tale valutazione debba essere effettuata
considerando la situazione concreta, in relazione a quanto
previsto nelle clausole statutarie dell'associazione: si
rileva comunque al riguardo che, di norma, i membri
dell'esecutivo svolgono funzioni sussumibili tra quelle
proprie dell'organo di amministrazione, con conseguente
configurarsi dell'incompatibilità in esame, nella
sussistenza degli altri requisiti richiesti dalla legge.
Con riferimento, poi, al fatto che il consigliere comunale,
membro del direttivo dell'associazione riveste, altresì, il
ruolo di vice presidente all'interno della stessa si
riportano le considerazioni espresse dalla giurisprudenza la
quale, relativamente ad una questione analoga a quella qui
in esame, ha affermato che 'non è esatto, in primo luogo,
che l'incarico di vicepresidente avrebbe "un valore
prettamente onorifico e simbolico" nell'ambito del
sodalizio. Come messo in luce dai giudici di merito, si
tratta di una figura destinata a sostituire il presidente
dell'associazione in caso d'impedimento di questo "in ogni
sua attribuzione" [...], sicché sia pure in posizione
vicaria può assumere funzioni direttive e rappresentative
dell'associazione al massimo livello. Inoltre egli fa parte
del consiglio direttivo. Tale organo, in base allo statuto,
è responsabile verso l'assemblea della gestione sportiva
dell'associazione ed ha una serie di compiti [...] che lo
rendono l'organo di amministrazione della società sportiva'.
[5]
Passando a trattare del concetto di sovvenzione si evidenzia
che esso si diversifica chiaramente da quello di
corrispettivo. Non si ha, dunque, sovvenzione nel caso in
cui la somma corrisposta avvenga in relazione a prestazioni
svolte in favore dell'Ente.
Per quanto riguarda la specificazione del concetto di
sovvenzione, secondo la dottrina e la giurisprudenza,
[6] essa
deve consistere in un'erogazione continuativa a titolo
gratuito, volta a consentire all'ente sovvenzionato di
raggiungere, con l'integrazione del proprio bilancio, le
finalità in vista delle quali è stato costituito.
In definitiva, affinché si verifichi la situazione di
incompatibilità in questione, la succitata norma prescrive
che tale sovvenzione debba possedere, cumulativamente, tre
caratteri:
- continuità, nel senso che la sua erogazione non deve
essere saltuaria od occasionale;
- facoltatività (in tutto o in parte): l'intervento
finanziario dell'ente non deve cioè derivare da un obbligo,
ovvero può essere in parte obbligatorio e in parte
facoltativo, tenuto conto di quanto in appresso precisato;
- notevole consistenza: l'apporto della sovvenzione deve
essere, per la parte facoltativa, superiore al dieci per
cento del totale delle entrate annuali dell'ente
sovvenzionato.
Con riferimento alla fattispecie in esame l'Ente dovrà,
pertanto, valutare se sussistano tutti i tre requisiti sopra
indicati.
In particolare, mentre pare non sorgano dubbi interpretativi
circa il significato da dare al requisito della continuità
ed a quello della notevole consistenza, si ritiene invece
opportuno fornire alcune considerazioni circa il modo di
intendere il concetto di facoltatività.
Al riguardo si rileva come, in passato, la tesi dottrinaria
prevalente affermava che per determinare l'incompatibilità
la sovvenzione non deve avere il carattere
dell'obbligatorietà, nel senso che 'non deve essere
conseguenza di una legge, o di un regolamento o di un
contratto bilaterale, ma deve rientrare nella
discrezionalità, cioè deve essere concessa a titolo gratuito
o ciò che è lo stesso deve rientrare nella libera
determinazione dell'Ente che la accorda'.
[7] Corre
l'obbligo di rilevare che più di recente ha ottenuto
l'avallo del Ministero dell'Interno la tesi secondo la quale
la sovvenzione è facoltativa 'nel senso e nei limiti in
cui non trovi origine in un obbligo stabilito dalla legge'.
[8]
Trattasi di impostazione più rigorosa che circoscrive il
concetto dell'obbligatorietà a quelle sole elargizioni per
le quali manchi qualsiasi facoltà discrezionale dell'Ente
locale nel concederle. [9]
Da ultimo, con riferimento alla fattispecie prospettata,
necessita chiarire se nella nozione di 'sovvenzione'
rientri, altresì, la somma relativa alle spese di gestione
ordinaria del campo da calcio che l'Ente si accolla
annualmente.
Sul tema sono stati individuati degli orientamenti difformi
relativi, più precisamente, al caso in cui il Comune
provveda al rimborso dei costi di gestione sostenuti
dall'ente 'sovvenzionato'.
Si cita, da un lato, una sentenza del giudice civile la
quale ha affermato che «detta somma non appare
qualificabile come sovvenzione facoltativa, perché in base
al tenore della clausola è riferita a 'parziale rimborso
spese ed eventuali perdite di gestione'».
[10] Nello
stesso senso pare deporre un parere del Ministero
dell'Interno il quale recita 'peraltro, il contributo non
appare comunque qualificabile come sovvenzione facoltativa
in quanto corrisposto, ai sensi della L.R. n. 17/1999, quale
parziale rimborso dei costi di gestione'.
[11]
In senso opposto si è espresso, invece, l'ANCI, il quale
nell'affrontare una questione analoga a quella in esame ha
affermato 'potersi riscontare la sussistenza della causa
di incompatibilità disciplinata dall'art. 63, comma 1, n. 1
del D.Lgs. 267/2000 [...]'. [12]
Alla luce delle considerazioni sopra esposte, l'Ente valuti
se ricorrono, in relazione alla fattispecie concreta, i
requisiti sopra indicati, l'esistenza dei quali porterebbe
all'insorgenza dell'indicata causa di incompatibilità.
Con riferimento alla fattispecie in esame necessita prendere
in considerazione anche l'articolo 63, comma 1, num. 2),
prima parte del TUEL, il quale prevede che non possa
ricoprire la carica di consigliere comunale 'colui che,
come titolare, amministratore, dipendente con poteri di
rappresentanza o di coordinamento ha parte, direttamente o
indirettamente, in servizi, esazioni di diritti,
somministrazioni o appalti, nell'interesse del comune'.
Come evidenziato in diversi pareri ministeriali, 'l'assenza
della finalità di lucro, non è sufficiente ad escludere la
sussistenza dell'incompatibilità. Il comma 2 dell'articolo.
63 ha, infatti, escluso l'applicazione della suddetta
ipotesi solo per coloro che hanno parte in cooperative
sociali, iscritte regolarmente nei registri pubblici, dal
momento che solo tali forme organizzative offrono adeguate
garanzie per evitare il pericolo di deviazioni
nell'esercizio del mandato da parte degli eletti ed il
conflitto, anche solo potenziale, che la medesima persona
sarebbe chiamata a dirimere se dovesse scegliere tra
l'interesse che deve tutelare in quanto amministratore
dell'ente che gestisce il servizio e l'interesse che deve
tutelare in quanto consigliere del comune che di quel
servizio fruisce'. [13]
Si ricorda, infatti, che la norma in esame è finalizzata ad
evitare che la medesima persona fisica rivesta
contestualmente la carica di amministratore di un comune e
la qualità di amministratore di un soggetto che si trovi in
rapporti giuridici con l'ente locale, caratterizzati da una
prestazione da effettuare all'ente o nel suo interesse,
atteso che tale situazione potrebbe determinare l'insorgere
di una posizione di conflitto di interessi.
In particolare, la locuzione 'aver parte', se
correlata alla successiva locuzione 'nell'interesse del
comune' allude alla contrapposizione tra interesse 'particolare'
del soggetto ed interesse del comune, istituzionalmente 'generale',
in relazione alle funzioni attribuitegli, e, quindi,
sottintende alla situazione di potenziale conflitto di
interessi, in cui si trova il predetto soggetto, rispetto
all'esercizio imparziale della carica elettiva.
Inoltre, l'ampia espressione 'servizi nell'interesse del
comune' suole ricomprendere 'qualsiasi rapporto
intercorrente con l'ente locale che a causa della sua durata
e della costanza delle prestazioni effettuate sia in grado
di determinare conflitto di interessi'.
[14] La
giurisprudenza ha, altresì, specificato che l'ampia
espressione di 'servizi nell'interesse del comune' si
riferisce 'a tutte quelle attività che l'ente locale,
nell'ambito dei propri compiti istituzionali e mediante
l'esercizio dei poteri normativi ed amministrativi
attribuitigli, fa e considera proprie [...]'.
[15]
La disposizione in oggetto, quindi, si riferisce al soggetto
che, rivestito di una delle predette qualità soggettive,
partecipi ad un servizio pubblico, inteso nell'ampio senso
sopra specificato, come portatore di un proprio specifico
interesse, contrapposto a quello generale dell'ente locale
e, quindi, per questo potenzialmente confliggente con
l'esercizio imparziale della carica elettiva.
Spetta all'Ente valutare se l'associazione in oggetto svolge
o meno un servizio nell'interesse dell'amministrazione
comunale.
---------------
[1] Il vicepresidente è, altresì, membro del consiglio
direttivo dell'associazione.
[2] Precisa l'Ente che si tratta di un'associazione senza
scopo di lucro.
[3] Cfr. P. Virga, Diritto amministrativo, Amministrazione
locale, 3, ed. Giuffré, II ed. 1994, pag. 78 e segg.; R.O.
Di Stilo - E. Maggiora, Ineleggibilità e incompatibilità
alle cariche elettive, ed. Maggioli, 1985, pag. 73; E.
Maggiora, Ineleggibilità, incompatibilità, incandidabilità
nell'ente locale, 2000, pagg. 136-137.
[4] Corte di Cassazione, sentenza del 22.06.1972, n. 2068.
[5] Cassazione civile, Sez. I, sentenza del 28.12.2000, n.
16203.
[6] Cassazione civile, sez. I, sentenza del 16.05.1972, n.
1479.
[7] ] Rocco Orlando di Stilo, 'Gli organi regionali,
provinciali, comunali e circoscrizionali', Maggioli editore,
1982, pag. 140. Nello stesso senso, Enrico Maggiora,
'Ineleggibilità, incompatibilità, incandidabilità nell'ente
locale', Giuffrè editore, 2000, pag. 142; AA.VV.,
'L'ordinamento comunale', Giuffré editore, 2005, pag. 138.
Tale filone interpretativo è, tutt'ora, seguito dall'ANCI il
quale ha affermato, anche di recente, che la facoltatività
della sovvenzione richiede che 'l'intervento finanziario
dell'ente locale non deve derivare da un obbligo di legge o
da un obbligo convenzionale' (così pareri del 17.09.2014 e
del 28.04.2014).
[8] Ministero dell'Interno, parere del 30.12.2010 (prot. n.
15900/TU/63). In dottrina, si veda, F. Pinto e S. D'Alfonso,
'Incandidabilità, ineleggibilità, incompatibilità e status
degli amministratori locali', Maggioli editore, 2003, pag.
196.
[9] Si veda, anche, il parere dell'08.03.2002 espresso
sull'argomento dalla Regione Val d'Aosta, ove si afferma
che: 'La sovvenzione si intende facoltativa nel senso e nei
limiti in cui non trovi origine in un obbligo stabilito
dalla legge. Non si sottrae dal concetto di sovvenzione
facoltativa un contributo dovuto sulla base di un
regolamento comunale, laddove la determinazione del
regolamento sia riconducibile ad una scelta discrezionale
dell'ente'.
[10] Cassazione civile, Sez. I, sentenza del 28.12.2000, n.
16203 la quale riguardava un caso di presunta
incompatibilità di un amministratore locale che rivestiva,
altresì, la carica di vicepresidente di un'associazione
sportiva che gestiva, sulla base di una apposita
convenzione, gli impianti sportivi comunali a titolo di
comodato. Va precisato, tuttavia, che la sentenza citata ha
fondato l'incompatibilità del consigliere sul diverso
requisito dell'esistenza, nel caso di specie, del rapporto
di vigilanza del Comune sull'ente privato di talché, come
affermato nella sentenza stessa, il diverso profilo dei
requisiti della sovvenzione, che in questa sede rileva, non
è stato oggetto di approfondita analisi.
[11] Ministero dell'Interno, parere del 12.05.2011. Atteso
tuttavia che nel caso affrontato nel parere ministeriale il
rimborso delle spese è avvenuto in attuazione di una
disposizione di legge regionale potrebbe avanzarsi il dubbio
che la mancanza di facoltatività sia da ancorare a tale
ultimo elemento e non già al fatto che trattasi di spesa
consistente in un rimborso di costi di gestione.
[12] ANCI, parere del 21.08.2006.
[13] Ministero dell'Interno, pareri del 12.05.2011 e
dell'11.01.2011.
[14] Saporito, Pisciotta, Albanese, 'Elezioni regionali ed
amministrative', Bologna, 1990, pag. 115.
[15] Cassazione civile, sez. I, sentenza del 16.01.2004, n.
550 (27.07.2015 -
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www.regione.fvg.it). |
ENTI LOCALI:
Possibilità, da parte di un Ente locale, di disporre
un'erogazione liberale a favore di altro Ente locale,
colpito da calamità naturale.
Il Comune è l'ente locale che
rappresenta la propria comunità ed è deputato
istituzionalmente a curarne gli interessi e promuoverne lo
sviluppo, ai sensi dell'art. 8 della legge regionale 1/2006;
qualunque utilizzo di risorse comunali dovrà essere coerente
con le predette finalità.
Un Comune chiede se sia possibile che lo stesso disponga
un'erogazione liberale a favore di altro Ente locale, che è
stato colpito da calamità naturale.
Com'è noto, ogni ente pubblico deve improntare il proprio
operato al primario principio di buona amministrazione, di
cui all'art. 97 Cost..
A tale proposito l'art. 12 della legge 241/1990
[1] impone
che contributi, sovvenzioni, benefici economici di qualunque
genere a soggetti privati, ma anche ad enti pubblici, siano
attribuiti dall'Ente locale previa predeterminazione dei
criteri e modalità con apposito regolamento.
La fattispecie oggi in discussione, in realtà, rappresenta
un'ipotesi particolare: si tratterebbe di un'elargizione da
attribuire specificatamente ad un determinato Ente pubblico
in quanto colpito da una calamità naturale.
Si ritiene utile, preliminarmente, far riferimento ad una
pronuncia della Corte dei conti regionale
[2] nella quale il
Magistrato contabile ribadisce che l'attività di beneficenza
si compie con il denaro proprio e non con quello pubblico;
la fattispecie colà trattata però riguarda l'impiego di
fondi destinati al funzionamento dei gruppi consiliari del
Consiglio regionale.
Nel caso oggi in discussione invece si tratterebbe di
utilizzo di risorse di un Ente locale, deliberate dagli
organi dello stesso. Va considerato, a tale proposito, il
principio costituzionale di solidarietà, sancito dall'art. 2
della Costituzione.
A tale proposito, si ritiene utile citare una pronuncia del
Magistrato contabile [3],
datata, ma che enuncia principi che possono ritenersi ancora
attuali: 'I valori umani, fondamentali e certamente non
disconosciuti dal diritto vigente, della solidarietà con
chi, cittadino o straniero, è colpito dalla sventura, vanno
equamente contemperati con quelli, anch'essi giuridici, da
riportare essenzialmente al principio, su cui riposa ogni
collettività organizzata (locale o no), di corrispondenza
finalistica tra sacrifici imposti ai consociati e cura dei
loro interessi come membri della stessa collettività; è
comunque da escludere che questo secondo ordine di valori
sia violato ogni qualvolta l'attività dell'ente, nella
specie locale: a) non esorbiti in competenze riservate allo
stato, quali quelle attinenti ai rapporti internazionali, né
si ponga in alcun modo in contrasto con dette esclusive
competenze; b) pur producendo effetti diretti fuori
dell'ambito territoriale proprio dell'ente, non sia
estranea, né tanto meno contrapposta alla cura degli
interessi della collettività stanziata sul territorio; c)
per le modalità in cui è posta in essere, non possa apparire
tesa a fini diversi da quelli della solidarietà umana, né
ispirata a finalità politiche dei governanti o di parte; d)
non comporti infine per sua natura né la predisposizione di
uno stabile apparato, né un onere continuativo, o comunque
di entità tale da compromettere praticamente l'assolvimento
delle funzioni dalla legge affidate istituzionalmente
all'ente...'.
Il Comune infatti è l'ente locale che rappresenta la propria
comunità ed è deputato istituzionalmente a curarne gli
interessi e promuoverne lo sviluppo, ai sensi dell'art. 8
della legge regionale 1/2006. Quindi qualunque utilizzo di
risorse comunali dovrà essere coerente con le predette
finalità.
Stante il principio di equiordinazione tra enti e di
autonomia organizzativa, riconosciuta in capo all'Ente
locale, sancita dall'art. 118 Cost., la valutazione di tale
coerenza è rimessa all'Ente stesso, che dovrà comunque
sempre operare le sue scelte tramite canone di
ragionevolezza.
---------------
[1] E l'art. 30 della l.r. 7/2000, in quanto richiamato
dall'art. 2, comma 2-bis, della l.r. 7/2000..
[2] Sez. giurisdizionale, sentenza dell'11.06.2014, n. 47,
riferita all'utilizzo indebito, da parte di consiglieri
regionali, di fondi destinati ai gruppi consiliari del
Consiglio regionale, reperibile sul sito internet nazionale
della Corte dei conti, alla voce 'giurisdizione'.
[3] C. conti, sez. II, sent. del 09.07.1983, n. 74 (24.07.2015
-
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CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/
L'astenuto fa quorum.
Va calcolato per la validità della seduta.
L'astensione non può invece essere equiparata a un voto
contrario.
Al fine di stabilire la validità della seduta del consiglio
comunale, gli astenuti vanno computati tra i votanti?
L'art. 38, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000,
demanda al regolamento comunale, «nel quadro dei principi
stabiliti dallo statuto», la determinazione del numero dei
consiglieri necessario per la validità delle sedute.
Unico limite indicato dal legislatore è che tale numero non
può, in ogni caso, scendere sotto la soglia del «terzo dei
consiglieri assegnati per legge all'ente, senza computare a
tale fine il sindaco e il presidente della provincia».
Il legislatore statale si è, quindi, limitato a stabilire
una soglia minima, inderogabile, di presenze nel consiglio
comunale, rimettendo all'autonomia normativa dell'ente la
determinazione del numero legale per la validità delle
sedute, implicante anche la possibilità di stabilire
maggioranze qualificate per l'adozione di determinati atti
deliberativi sui quali si reputi che debba convergere un più
elevato numero di consensi.
Nel caso di specie, la questione concerne l'eventuale
computabilità degli astenuti tra i votanti e dunque se, nel
caso specifico, ferma restando la necessità
dell'approvazione da parte della maggioranza dei presenti,
la deliberazione debba intendersi non approvata.
In merito, si ritiene che gli astenuti, anche in assenza di
una specifica previsione regolamentare, concorrono alla
formazione del c.d. «quorum strutturale», cioè alla
formazione del numero minimo di consiglieri necessario per
la validità della seduta.
Del resto, anche il richiamato Tuel n. 267/2000, all'articolo
78, comma 2, impone agli amministratori l'astensione dal
prendere parte alla discussione e alla votazione di delibere
riguardanti interessi propri o di loro parenti e affini fino
al quarto grado.
In presenza di una situazione diffusa di astensioni, se non
si ammettesse la formazione del quorum strutturale, il
funzionamento del consiglio comunale potrebbe risultare
compromesso.
Tuttavia, in carenza di apposite disposizioni regolamentari,
proprio per l'esigenza di garantire la funzionalità
dell'assemblea deliberante, gli astenuti devono essere
esclusi dal calcolo del quorum funzionale e le deliberazioni
vengono approvate in presenza di una maggioranza di voti
favorevoli.
Tale assunto è dettato in analogia alla previsione contenuta
nell'art. 48 del regolamento della camera dei deputati, per
cui per l'approvazione delle deliberazioni dovranno essere
conteggiati i soli votanti, compresi coloro che hanno votato
scheda bianca, nulla o non leggibile, ed esclusi gli
astenuti.
Una interpretazione diversa, nel senso di considerare
l'astensione equivalente nei fatti a un voto contrario, non
sarebbe giustificata laddove è previsto il voto favorevole,
il voto contrario e l'astensione.
Pertanto, pur ritenendo opportuno che l'ente si doti di
norme regolamentari che definiscano inequivocabilmente il
quorum funzionale, la deliberazione, che nella fattispecie
in esame ha ricevuto un numero superiore di voti favorevoli
rispetto ai voti contrari, dovrebbe intendersi approvata.
(V. sentenza Cds n. 3372/2012 del 07.06.2012)
(articolo ItaliaOggi del 24.07.2015). |
SICUREZZA LAVORO:
Personale degli enti locali. Gestione ufficio associato.
Datore di lavoro e medico competente.
L'art. 3, comma 6, del d.lgs. 81/2008,
prevede che, per il personale delle pubbliche
amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2, del d.lgs.
165/2001, che presta servizio con rapporto di dipendenza
funzionale presso altre amministrazioni pubbliche, gli
obblighi imposti dal medesimo decreto sono a carico del
datore di lavoro designato dall'amministrazione ospitante
(nel caso di associazione intercomunale, l'amministrazione
presso cui ha sede l'ufficio comune cui viene assegnato il
personale). Pertanto, è compito del datore di lavoro, come
individuato, procedere alla nomina del medico competente per
la sorveglianza sanitaria di tutto il personale assegnato
all'ufficio comune.
Il Comune ha chiesto un parere rappresentando la seguente
fattispecie.
Nell'ambito di un ufficio associato costituito ai sensi
della l.r. 1/2006, il titolare di posizione organizzativa,
dipendente del Comune Y ove ha sede lo stesso ufficio, è
datore di lavoro ex d.lgs. 81/2008 anche per il personale
assegnato all'ufficio medesimo e dipendente del Comune X.
Si precisa che i due Comuni interessati hanno ciascuno il
proprio medico competente e la convenzione attuativa nulla
specifica in relazione agli adempimenti e prestazioni
richieste al medico incaricato nell'ambito della forma
associativa.
Premesso un tanto, si pone la questione se sia corretto che
il titolare di posizione organizzativa del Comune Y
sottoponga a visita medica anche i dipendenti del Comune X,
ricorrendo alle prestazioni professionali del medico
contrattualmente incaricato da e per il Comune Y,
provvedendo poi a chiedere al Comune X il rimborso dei costi
a tal fine sostenuti.
L'Ente istante riterrebbe più corretto che il titolare di
posizione organizzativa garantisca gli adempimenti della
sicurezza sui luoghi di lavoro avvalendosi degli
strumenti/forniture di cui gli altri Comuni sono
autonomamente dotati, facendo effettuare le visite mediche
prescritte dai medici incaricati dai rispettivi comuni per
il proprio personale e con i costi direttamente fatturati al
comune di appartenenza.
Sentito il Servizio finanza locale, Posizione organizzativa
sviluppo forme associative, innovazione finanza locale e
monitoraggio del sistema regionale, si espone quanto segue.
Si osserva preliminarmente che la questione sottoposta si
sarebbe dovuta affrontare e definire, in maniera puntuale,
nell'ambito o della convenzione quadro o dei singoli atti
attuativi della medesima, in quanto atti fondamentali che
disciplinano l'organizzazione e il funzionamento della forma
associativa.
In carenza di tali presupposti, soccorre comunque quanto
disposto in materia dalla legislazione vigente, tenendo
conto che la problematica in esame coinvolge esclusivamente
i dipendenti assegnati all'ufficio comune e non incide sul
contratto di fornitura di servizio già stipulato dal Comune
X, che conserva piena validità nei confronti del restante
personale dipendente del Comune medesimo.
L'art. 2 del d.lgs. 81/2008 definisce la figura del 'datore
di lavoro' nell'ambito delle pubbliche amministrazioni
di cui all'art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 165/2001 (enti
locali compresi).
La citata disposizione precisa che per datore di lavoro si
intende il dirigente al quale spettano i poteri di gestione,
ovvero il funzionario non avente qualifica dirigenziale, nei
soli casi in cui quest'ultimo sia preposto ad un ufficio
avente autonomia gestionale, individuato dall'organo di
vertice delle singole amministrazioni tenendo conto
dell'ubicazione e dell'ambito funzionale degli uffici nei
quali viene svolta l'attività, e dotato di autonomi poteri
decisionali e di spesa.
Pertanto, il datore di lavoro, individuato ai sensi e per le
finalità della normativa di cui trattasi, è in sostanza il
dipendente (dirigente o titolare di p.o.) cui, a termini di
regolamento, viene affidata la responsabilità di un
determinato ufficio/servizio, all'interno della struttura
organizzativa dell'ente [1].
L'art. 18 del citato decreto elenca esaurientemente gli
obblighi organizzativi e gestionali propri del datore di
lavoro e dei dirigenti/responsabili che collaborano con lui,
vigilando sulla sicurezza dell'attività lavorativa dei
rispettivi settori.
Premesso un tanto, si osserva che lo scrivente Ufficio ha in
precedenza affrontato la problematica relativa
all'individuazione del datore di lavoro nell'ambito di
un'associazione intercomunale, nei termini di seguito
riportati [2].
Si è in particolare rilevato che l'art. 3, comma 6, del del
d.lgs. 81/2008 prevede che, per il personale delle pubbliche
amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del d.lgs.
165/2001 che presta servizio con rapporto di dipendenza
funzionale presso altre amministrazioni pubbliche, organi o
autorità nazionali, gli obblighi imposti dall'art. 18 del
citato decreto sono a carico del datore di lavoro designato
dall'amministrazione, organo o autorità ospitante.
Pertanto, nel caso di associazione intercomunale,
l'amministrazione ospitante risulta individuata nell'ente
locale presso cui ha sede l'ufficio comune e al quale viene
assegnato il personale dei Comuni associati, in dipendenza
funzionale.
Detta amministrazione deve quindi procedere a designare il
datore di lavoro responsabile per la sicurezza dell'ufficio
comune ai fini del d.lgs. 81/2008, e spetta a tale datore di
lavoro, come indicato espressamente al comma 1, lett. a),
del citato articolo 18 del d.lgs. 81/2008, nominare il
medico competente per l'effettuazione della sorveglianza
sanitaria nei casi previsti dal legislatore.
Pertanto, è compito del datore di lavoro/titolare di
posizione organizzativa, all'uopo individuato, procedere sia
alla definizione delle modalità di effettuazione delle
visite sanitarie, sia alla designazione del medico
competente, che diviene quindi l'unico referente per gli
adempimenti prescritti dal legislatore in materia di
sorveglianza sanitaria nei confronti di tutto il personale
assegnato all'ufficio comune, e ciò a prescindere
dall'appartenenza a Comuni diversi dell'associazione.
Si osserva peraltro che una soluzione univoca alla
problematica è auspicabile anche alla luce della vigente
disciplina contrattuale, in relazione al peculiare rapporto
che viene a crearsi nell'ambito dell'ufficio comune delle
forme associative.
Si rammenta infatti che l'art. 47, comma 1, del CCRL del
07.12.2006 stabilisce che il personale degli enti che
costituiscono uffici comuni nell'ambito delle forme
associative, ai quali sia affidato l'esercizio delle
funzioni pubbliche in luogo degli enti partecipanti
all'accordo costitutivo, viene assegnato dagli enti stessi
agli uffici comuni.
Come precisato dal successivo comma 2 dell'articolo in
esame, detta assegnazione avviene automaticamente in forza
della stipula della convenzione attuativa che costituisce
l'ufficio della forma associativa.
Il comma 3 del citato art. 47 precisa inoltre che
l'assegnazione del personale non comporta la costituzione di
un distinto rapporto di lavoro, il vincolo di dipendenza
organica permane con l'ente di provenienza, e (ciò che
rileva ai fini della questione sottoposta) il rapporto di
servizio si svolge nell'ambito dell'ufficio della forma
associativa [3].
Esposto quanto sopra se, come segnalato, le varie
convenzioni attuative e la convenzione quadro nulla hanno
disposto in merito all'attività in esame da parte del
responsabile dell'ufficio comune e se, soprattutto, non sono
state indicate le modalità di riparto degli oneri derivanti
dall'effettuazione dei controlli sanitari, il silenzio in
materia parrebbe lasciar intendere una volontà sottesa: che
la gestione di tale attività debba essere comunque svolta in
modo da non determinare oneri aggiuntivi per i comuni
partecipanti alla gestione. Un tanto anche al fine di
garantire l'economicità dell'azione amministrativa.
Al riguardo, peraltro, si rinvia ad una verifica in seno
alla conferenza dei sindaci, anche al fine eventualmente di
apportare le dovute modifiche alle convenzioni in essere,
come anticipato in premessa.
---------------
[1] L'art. 16 del d.lgs. 81/2008 prevede inoltre che il
datore di lavoro possa delegare le proprie funzioni ad altri
soggetti, con determinati limiti e condizioni.
[2] Cfr. prot. n. 20833 dell'08.07.2013 e prot. n. 7268 del
07.03.2014.
[3] Cfr. anche Comparto unico e contrattazione/Pareri -
Convenzioni e forme associative, parere n. 7, consultabile
sul sito della regione.fvg.it (20.07.2015 -
link a
www.regione.fvg.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Richiesta di parere in merito alla procedura da
seguire per il condono c.d. differito a seguito di procedure
immobiliari esecutive ai sensi dell'art. 40, comma 6, della
legge 47/1985 - Comune di Sutri (VT) (Ministero delle
Infrastrutture e dei Trasporti,
nota 15.07.2015 n. 7278 di prot.) |
URBANISTICA:
OGGETTO: Risposta a richiesta di parere circa i limiti
entro cui sono ammissibili modifiche al RUE a seguito
dell'accoglimento di osservazioni (Regione Emilia
Romagna,
nota 13.07.2015 n. 494278 di prot.).
---------------
Con e-mail dell’11.05.2015 si chiede di conoscere il
parere di questo Servizio circa una ampia ricostruzione
normativa e giurisprudenziale sulle seguenti tematiche:
a) se il RUE possa modificare le zonizzazioni degli ambiti
territoriali comunali;
b) quale procedimento debba seguire il RUE che presenti tali
contenuti;
c) se le osservazioni dei soggetti privati possano contenere
la richiesta di modifiche del piano nell’interesse di colui
che presenta le osservazioni stesse;
d) se l’eventuale accoglimento di dette osservazioni
richieda necessariamente la ripubblicazione del piano e, con
essa, un riesame da parte della Provincia (... continua). |
ENTI LOCALI - VARI:
Interpretazione dell'articolo 202, commi 1 e 2, del decreto
legislativo 30.04.1992, n. 285 (codice della strada).
Pagamento, tramite bonifico on-line, della sanzione
amministrativa in misura ridotta del 30 per cento entro
cinque giorni dalla contestazione o dalla notificazione.
Ai sensi dell'art. 202, c. 2, del C.d.S.
(d.lgs. 285/1992), il soggetto contravventore,
nell'ammettere al pagamento tramite le modalità offerte
dalle new tecnology, deve richiamare le norme che le
disciplinano, mentre ai sensi dell'art. 5 del codice
dell'amministrazione digitale (d.lgs. 82/2005), gli enti
pubblici sono tenuti a specificare, a favore del privato, le
condizioni economiche per l'utilizzo delle diverse modalità
di pagamento mediante strumenti elettronici.
Per ciò stesso, nel tentativo di conciliare contrapposte
esigenze -tutela dell'affidamento del cittadino/principio di
favor per il trasgressore da un lato e corretta
amministrazione contabile dall'altro- si ritiene opportuno
che, tra le indicazioni fornite al privato circa le modalità
di pagamento on line, sia richiamata, in particolare,
l'attenzione di questo sull'inserimento della data valuta
nella maschera di carico del bonifico, in modo da consentire
allo stesso di non perdere il beneficio della riduzione del
30 per cento.
Si tratta, infatti, di trovare il giusto contemperamento tra
due opposte esigenze: da un lato quelle del soggetto
contravvenuto che ha, comunque, pagato nel rispetto del
termine di cinque giorni e che ha, quindi, diritto a vedersi
riconosciuto lo sconto previsto dall'art. 202, c. 1, d.lgs.
285/1992; dall'altro, le esigenze del Comune che incassa la
somma prevista dalla legge ma con alcuni giorni di
scostamento rispetto al giorno di pagamento per quanto
attiene la data valuta.
L'Ente chiede un parere in merito all'interpretazione
dell'articolo 202 del decreto legislativo 30.04.1992, n.
285, che disciplina il pagamento in misura ridotta delle
sanzioni amministrative per violazione del codice della
strada.
In particolare, il Comune domanda se si può ritenere
rispettato il termine di cinque giorni, previsto
dall'articolo 202, comma 1 e finalizzato al conseguimento
della riduzione del 30 per cento della sanzione
amministrativa, nel caso in cui l'introito della somma da
parte dell'Ente (valuta al beneficiario) sia successivo ai
cinque giorni previsti dalla norma.
Il soggetto instante segnala, in particolare, che, nel caso
di saldo a mezzo bonifico on-line, la valuta per il Comune
beneficiario risulta posticipata (anche di parecchi giorni)
rispetto alla data dell'ordine di pagamento, comunque
effettuato entro i cinque giorni previsti dall'articolo 202
(Pagamento in misura ridotta), comma 1, del codice della
strada, il quale statuisce: 'Per le violazioni per le
quali il presente codice stabilisce una sanzione
amministrativa pecuniaria ... il trasgressore è ammesso a
pagare, entro sessanta giorni dalla contestazione o dalla
notificazione, una somma pari al minimo fissato dalle
singole norme. Tale somma è ridotta del 30 per cento se il
pagamento è effettuato entro cinque giorni dalla
contestazione o dalla notificazione'.
Dirimente per l'inquadramento della problematica in esame è
anche la disposizione di cui all'articolo 202, comma 2, del
decreto legislativo 285/1992, ove si legge: 'Il
trasgressore può corrispondere la somma dovuta presso
l'ufficio dal quale dipende l'agente accertatore oppure a
mezzo di versamento in conto corrente postale, oppure, se
l'amministrazione lo prevede, a mezzo di conto corrente
bancario ovvero mediante strumenti di pagamento elettronico.
All'uopo, nel verbale contestato o notificato devono essere
indicate le modalità di pagamento, con il richiamo delle
norme sui versamenti in conto corrente postale, o,
eventualmente, su quelli in conto corrente bancario ovvero
mediante strumenti di pagamento elettronico'
[1].
Come anche evidenziato dal Comune instante, ritenere o meno
rispettato il termine di cinque giorni da parte del soggetto
sanzionato comporta un sensibile diverso introito per le
casse comunali: infatti, soltanto se il succitato termine è
osservato, l'importo da corrispondere a titolo di oblazione
è ridotto del trenta per cento; decorso il termine di cinque
giorni, il soggetto contravvenuto è ammesso a corrispondere
una somma pari al minimo della sanzione edittale, sempreché
il pagamento avvenga nel rispetto del termine di sessanta
giorni dall'avvenuta contestazione o notificazione della
violazione al codice della strada.
La fattispecie prospettata dal Comune attiene, quindi, alla
problematica del pagamento delle sanzioni stradali con
strumenti elettronici.
Come emerge dalla lettura della disposizione in esame, le
novità di cui all'articolo 202, entrate in vigore il
21.08.2013, riguardano non solo la possibilità di ottenere
uno 'sconto' in caso di estinzione tempestiva del
dovuto ma anche l'introduzione del pagamento in forma
elettronica delle sanzioni pecuniarie. Il secondo comma
della summenzionata norma prevede, infatti, espressamente,
la possibilità per il trasgressore di effettuare la
liquidazione della sanzione amministrativa anche avvalendosi
di strumenti informatici.
A tal fine, nel verbale deve essere fatta menzione delle
modalità di effettuazione dell'oblazione con il richiamo
delle norme anche sui versamenti mediante sistemi
telematici. Si segnala che, del resto, la problematica
prospettata dal Comune si solleva non solo in relazione al
rispetto del termine per ottenere lo sconto del 30 per
cento, ma, decorsi inutilmente i primi cinque giorni dalla
contestazione o notificazione della violazione, anche in
riferimento al secondo termine previsto dall'articolo 202,
comma 1, e cioè quello di sessanta giorni, finalizzato
all'ammissione al pagamento di una somma pari al minimo
fissato dalle singole norme.
Con la circolare del 19.08.2013 [2],
il Ministero dell'Interno - Dipartimento della pubblica
sicurezza - Direzione centrale per la polizia stradale,
ferroviaria, delle comunicazioni e per i reparti speciali
della polizia di stato -Servizio polizia Stradale- ha
specificato che al cittadino deve essere chiarito che il
pagamento della sanzione nella misura ridotta del 30 per
cento può avvenire utilizzando uno dei sistemi indicati
nelle istruzioni scritte che gli sono consegnate. Nella
medesima circolare, si precisa che 'l'operatore
dell'ufficio verbali deve procedere alla verifica del
rispetto del termine di cinque giorni dalla contestazione o,
se più favorevole, dalla notificazione del verbale. ... il
pagamento con la riduzione del 30 per cento effettuato fuori
termine ed in assenza di integrazioni della somma entro il
sessantesimo giorno dalla contestazione/notificazione del
verbale ... costituisce acconto di quanto dovuto in sede di
riscossione della sanzione mediante iscrizione a ruolo'.
Al fine della risoluzione dell'odierno quesito, è anche
necessario prendere in considerazione le disposizioni del
decreto legislativo 07.03.2005, n. 82 -Codice
dell'amministrazione digitale- ed, in particolare,
l'articolo 5 che disciplina l'effettuazione di pagamenti con
modalità informatiche.
L'articolo citato dispone che le pubbliche amministrazioni
sono tenute 'a far data dal 01.06.2013 ad accettare i
pagamenti ad essi spettanti, a qualsiasi titolo dovuti,
anche con l'uso delle tecnologie dell'informazione e della
comunicazione. A tal fine (gli enti pubblici n.d.r.): a)
sono tenuti a pubblicare nei propri siti istituzionali e a
specificare nelle richieste di pagamento: 1) i codici IBAN
identificativi del conto di pagamento ... tramite i quali i
soggetti versanti possono effettuare i pagamenti mediante
bonifico bancario ... ; 2) i codici identificativi del
pagamento da indicare obbligatoriamente per il versamento;
b) si avvalgono di prestatori di servizi di pagamento, ...
per consentire ai privati di effettuare i pagamenti in loro
favore attraverso l'utilizzo di carte di debito, di credito,
prepagate ovvero di altri strumenti di pagamento elettronico
disponibili, che consentano anche l'addebito in conto
corrente, indicando sempre le condizioni, anche economiche,
per il loro utilizzo. Il prestatore dei servizi di
pagamento, che riceve l'importo dell'operazione di
pagamento, effettua il riversamento dell'importo trasferito
al tesoriere dell'ente, registrando in apposito sistema
informatico, a disposizione dell'amministrazione, il
pagamento eseguito, i codici identificativi del pagamento
medesimo, nonché i codici IBAN identificativi dell'utenza
bancaria ...' [3].
È bene specificare che, con la locuzione "pagamenti
elettronici", si identificano diverse tecniche di
pagamento (quali carte di credito, carte di debito, bonifici
on-line, eccetera) che consentono movimentazioni
patrimoniali da un soggetto ad un altro per il tramite di
ordini inviati elettronicamente, senza il ricorso alla
moneta cartacea [4].
Le principali novità introdotte con la riforma dell'articolo
5, decreto legislativo 82/2005, sono, quindi, per gli
aspetti attinenti all'odierno quesito, le seguenti: a) le
amministrazioni pubbliche devono pubblicare nei propri siti
istituzionali e specificare nelle richieste di pagamento i
codici IBAN del conto di pagamento e le altre indicazioni
richieste per i bonifici bancari e postali; b) nel caso di
pagamento attraverso carte di debito, di credito, prepagate
ovvero altri strumenti di pagamento elettronico, che
consentano anche l'addebito in conto corrente, devono essere
indicate le condizioni anche economiche per il loro
utilizzo.
La diffusione dei pagamenti mediante strumenti elettronici,
previsti anche dal riformato articolo 202 del codice della
strada, ha, tuttavia, fatto sorgere un problema legato
all'home banking e al rischio di perdere il beneficio dello
'sconto'. Chi corrisponde le sanzioni stradali con
l'internet banking deve, infatti, prestare attenzione alla
data della valuta per non perdere i benefici connessi ai
pagamenti tempestivi come lo sconto del 30 per cento o il
pagamento in misura ridotta. Il pagamento tempestivo delle
multe stradali è, infatti, una condizione per accedere ai
benefici dello 'sconto' o del pagamento ridotto entro
sessanta giorni [5].
È, inoltre, doveroso richiamare il decreto legislativo
27.01.2010, n. 11 - Attuazione della direttiva 2007/64/CE,
relativa ai servizi di pagamento nel mercato interno (Payment
Services Directive - PSD), articolo 1 (Definizioni), comma
1, lettera p), ove è specificato che, per data valuta, si
intende 'la data di riferimento usata da un prestatore di
servizi di pagamento per il calcolo degli interessi
applicati ai fondi addebitati o accreditati su un conto di
pagamento'.
All'articolo 20, comma 1, del decreto legislativo 11/2010, è
stabilito, poi, che 'Il prestatore di servizi di
pagamento del pagatore assicura che, dal momento della
ricezione dell'ordine, l'importo dell'operazione venga
accreditato sul conto del prestatore di servizi di pagamento
del beneficiario entro la fine della giornata operativa
successiva' [6].
Ed, ancora, ai sensi dell'articolo 20, comma 2, del medesimo
decreto legislativo 'Il prestatore di servizi di pagamento
del beneficiario applica la data valuta e rende disponibile
l'importo dell'operazione di pagamento sul conto del
beneficiario ...'.
Richiamata la normativa di riferimento nella quale
inquadrare la fattispecie in esame (articolo 202, commi 1 e
2, del codice della strada; articolo 5 del codice
dell'amministrazione digitale; decreto legislativo 11/2010
sui servizi di pagamento) è possibile per lo scrivente
suggerire la seguente soluzione interpretativa.
Si ritiene che, nell'ipotesi in cui il soggetto
contravvenuto abbia effettuato on-line il pagamento della
sanzione, specificando, nella maschera di carico del
bonifico, la data valuta e facendola coincidere con il
giorno del pagamento, non si prospetti nessuna problematica
in quanto il calcolo degli interessi in favore del Comune
avviene sulla somma accreditata proprio a partire dal giorno
del pagamento on-line.
Il problema si pone, invece, nell'ipotesi in cui,
effettuando il pagamento on-line, il contravvenuto non
specifica la data valuta ed in questo caso si può verificare
quello scostamento, denunciato dall'ente locale, tra giorno
del pagamento, effettuato nel termine di legge e introito
della somma da parte della pubblica amministrazione.
È qui doveroso rammentare che, ai sensi dell'articolo 202,
comma 2, del codice della strada (decreto legislativo
285/1992), il soggetto contravventore nell'ammettere al
pagamento tramite le modalità offerte dalle new tecnology
deve, comunque, richiamare le norme che le disciplinano,
mentre ai sensi dell'articolo 5 del codice
dell'amministrazione digitale (decreto legislativo 82/2005),
gli enti pubblici sono tenuti a specificare, a favore del
privato, le condizioni economiche per l'utilizzo delle
diverse modalità di pagamento mediante strumenti
elettronici.
Per ciò stesso nel tentativo di conciliare contrapposte
esigenze -tutela dell'affidamento del cittadino/principio di
favor per il trasgressore da un lato e corretta
amministrazione contabile dall'altro [7]-
si ritiene opportuno che, tra le indicazioni fornite al
privato circa le modalità di pagamento on-line, sia
richiamata, in particolare, l'attenzione di questo
sull'inserimento della data valuta nella maschera di carico
del bonifico, in modo da consentire allo stesso di non
perdere il beneficio della riduzione del 30 per cento.
Si tratta, infatti, di trovare il giusto contemperamento tra
due opposte esigenze: da un lato quelle del soggetto
contravvenuto che ha, comunque, pagato nel rispetto del
termine di cinque giorni e che ha, quindi, diritto a vedersi
riconosciuto lo sconto previsto dall'articolo 202, comma 1,
decreto legislativo 285/1992; dall'altro le esigenze del
Comune che incassa la somma prevista dalla legge ma con
alcuni giorni di scostamento rispetto al giorno di pagamento
per quanto attiene la data valuta.
In conclusione, se, nell'effettuare il pagamento on-line, il
soggetto sanzionato ha specificato, nella maschera di carico
del bonifico, la data valuta, facendola coincidere con il
giorno di pagamento, nulla quaestio.
Se, invece, ciò non è avvenuto, ma il Comune non ha
precisato le modalità di pagamento tra le istruzioni fornite
all'utente della codice della strada, sembrerebbe prevalere
il principio di affidamento a tutela del diritto del
contravvenuto a vedersi riconosciuto un pagamento comunque
effettuato nel termine di legge.
Se, al contrario, l'ente ha fornito tutte le indicazioni per
permettere al contravvenuto di effettuare correttamente il
pagamento nel termine di legge (precisando la necessità di
inserire la data valuta nella maschera di carico del
bonifico, da far coincidere con il giorno di effettuazione
dell'operazione di saldo) e il pagatore non ha specificato
la data valuta nella maschera di carico on-line, allora si
deve ritenere che il pagamento non sia stato effettuato
regolarmente e a norma di legge e, quindi, non possa essere
riconosciuto il beneficio della riduzione del trenta per
cento.
In tal caso, secondo le indicazioni fornite dal Ministero
dell'Interno, nella citata circolare del 19.08.2013,
l'importo già versato potrà valere come acconto sulla somma,
pari al minimo fissato dalle singole norme, da pagare nel
termine di sessanta giorni ovvero, in mancanza, come acconto
della somma da riscuotere tramite iscrizione a ruolo.
---------------
[1] I commi 1 e 2 dell'articolo 202 del codice della
strada sono stati così modificati dall'articolo 20, comma
5-bis, lettera a) e lettera b), numeri 1) e 2), del decreto
legge 21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni,
dalla legge 09.08.2013, n. 98. Sul tema si legga S. Bedessi,
'Sconto sulle multe del codice della strada: è legge', Il
Vigile Urbano, 9-2013, 15-25.
[2] La circolare è intitolata 'Modifica dell'art. 202 del
codice della strada: pagamento delle sanzioni pecuniarie con
la riduzione del 30 per cento. Disposizioni per la redazione
dei verbali di contestazione e per la riscossione delle
somme', prot. 00/A/6399/13/101/20/21/1.
[3] L'articolo è stato, da ultimo, sostituito ad opera
dell'articolo 15 (Pagamenti elettronici), comma 1, del
decreto legge 18.10.2012, n. 179 - Ulteriori misure urgenti
per la crescita del Paese ('Decreto Crescita'), convertito
con modificazioni dalla legge 17.12.2012, n. 221.
[4] Definizione a cura del Formez PA, consultabile on-line
al seguente indirizzo http://egov.formez.it/lista_materiali
[5] Una questione analoga a quella oggi all'attenzione dello
scrivente è stata presa in esame dalla Corte dei Conti,
sezione regionale di controllo per l'Emilia Romagna,
deliberazione n. 195/2014/PAR del 16.10.2014, in relazione
al pagamento, in misura ridotta, di una sanzione
amministrativa per violazione del codice della strada: in
tale fattispecie il pagamento era stato effettuato a mezzo
home banking, senza, tuttavia, specificazione, nella
maschera di carico del bonifico, della data valuta del
beneficiario. La Corte dei Conti ha ritenuto, tuttavia, il
quesito inammissibile non attenendo alla materia della
contabilità pubblica.
[6] Ai sensi del decreto legislativo 11/2010, articolo 1,
comma 1, lettera u), per 'giornata operativa' si intende 'il
giorno in cui il prestatore di servizi di pagamento del
pagatore o del beneficiario coinvolto nell'esecuzione di
un'operazione di pagamento è operativo, in base a quanto è
necessario per l'esecuzione dell'operazione stessa'.
Per le misure attuative delle norme del decreto legislativo
11/2010 (in particolare Titolo II relativo ai diritti e agli
obblighi delle parti di un'operazione di pagamento), si veda
il provvedimento della Banca d'Italia datato 5 luglio 2011.
Le diposizioni contenute nel citato provvedimento
forniscono, invero, indicazioni a contenuto vincolante, cui
prestatori ed utilizzatori di servizi di pagamento devono
attenersi nell'applicazione delle norme contenute nel
richiamato Titolo II.
[7] Fa riferimento ai principi citati nel testo S. Manzelli,
'Occhio alla valuta per chi usa l'home banking', 27.10.2014,
pubblicato su www.dirittoegiustizia.it (10.07.2015
-
link a
www.regione.fvg.it). |
NEWS |
PATRIMONIO:
Piccoli comuni, i sindaci gestiscono le grandi strade.
Spetta all'ente proprietario della strada occuparsi della
manutenzione dei manufatti di servizio che costituiscono un
elemento pertinenziale della sede stradale. Anche nel caso
di strade statali, provinciali o regionali che attraversano
comuni di piccole dimensioni.
Lo ha chiarito il
Ministero
dei Trasporti con il parere 28.05.2015 n. 2553 di prot..
È
molto frequente che una strada di grande percorrenza
attraversi un comune di popolazione inferiore a diecimila
unità, restando di proprietà di un ente diverso dal comune.
In questo caso infatti, ai sensi dell'art. 2 del codice
stradale, la proprietà dell'infrastruttura resta invariata
ma all'ente locale compete comunque disciplinare la
circolazione stradale e porre in essere la relativa
segnaletica, previo parere dell'ente proprietario.
In
pratica restano a carico del titolare dell'infrastruttura i
segnali che riguardano le caratteristiche strutturali o
geometriche della strada.
Ma anche la manutenzione del
tratto adiacente al piano viabile. Ovvero degli eventuali
elementi pertinenziali presenti nell'area
(articolo ItaliaOggi dell'01.08.2015). |
ENTI
LOCALI: Bilanci al 30 settembre anche per i comuni siciliani.
Nessuna ulteriore proroga per i bilanci dei comuni. Per i
municipi la dead-line per l'approvazione dei preventivi è
spirata ieri. Ma non per tutti. Gli enti locali siciliani
avranno tempo fino al 30 settembre così come tutte le città
metropolitane e le province d'Italia.
Così ha deciso la Conferenza stato-città di ieri, presieduta
dal ministro dell'interno, Angelino Alfano a cui hanno
partecipato il sottosegretario alla presidenza del
consiglio, Claudio De Vincenti, il sottosegretario
all'economia, Pier Paolo Baretta, il sottosegretario
all'interno, Gianpiero Bocci, oltre ai rappresentanti di
Anci e Upi.
Il 2015 sarà dunque ricordato come l'anno della proroga
selettiva dei bilanci, con due diverse scadenze motivate
dalla necessità di dare un po' di ossigeno agli enti di area
vasta alle prese con una situazione finanziaria estremamente
critica. Il rinvio a settembre consentirà a province e città
metropolitane di applicare le positive novità introdotte dal
decreto legge enti locali (dl 78/2015) che dopo il sì del
senato sarà convertito in legge senza ulteriori modifiche
dalla camera (Atto
Camera n. 3262) martedì prossimo. La principale è rappresentata
dalla chance di approvare un bilancio solo annuale (anziché
triennale), senza dimenticare i 30 milioni extra che
verranno distribuiti all'interno del comparto.
Per quanto riguarda invece gli enti locali siciliani, la
proroga è stata motivata dalle difficoltà registrate dai
comuni dell'isola nell'adeguare il proprio ordinamento
contabile all'armonizzazione dei bilanci su cui la regione è
intervenuta di recente con la legge 10.07.2015 n. 12.
Tanto che nei giorni scorsi il presidente di Anci Sicilia e
sindaco di Palermo Leoluca Orlando era ufficialmente
intervenuto chiedendo un extra-time
(articolo ItaliaOggi del 31.07.2015). |
TRIBUTI: Imu delle scuole, niente ritocchi.
Padoan alla Camera: «Non c’è bisogno di cambiare ancora le
regole».
Adempimenti. Il ministro dell’Economia respinge le ipotesi
di nuovi interventi ventilate nei giorni scorsi
Il Governo non
ha intenzione di cambiare ancora le regole sull’Imu delle
scuole paritarie perché le due sentenze della Cassazione che
hanno scatenato le polemiche nei giorni scorsi, polemiche
respinte come «fuor d’opera» dallo stesso presidente della
Suprema corte Giorgio Santacroce, avevano al centro la
vecchia disciplina dell’Ici, giudicata dalla Ue come «aiuto
di Stato incompatibile con il mercato interno».
Il chiarimento ieri è arrivato dal ministro dell’Economia
Piercarlo Padoan, in una risposta nel question-time alla
Camera (INTERROGAZIONE
A RISPOSTA IMMEDIATA IN ASSEMBLEA 3/01648 DEL 29.07.2015) che ha messo da parte le ipotesi di «nuove
riflessioni», «norme interpretative» o tavoli tecnici
ipotizzate la scorsa settimana anche da esponenti del
Governo come il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini o
il sottosegretario all’Economia Enrico Zanetti.
Il problema
riguarda l’Ici, è la linea fissata ieri dal titolare di Via XX Settembre, che era già stata bocciata dall’Europa, e
quindi «non è necessario» un intervento sull’Imu,
disciplinata invece nel 2012 proprio per respingere le
obiezioni comunitarie. Il «chiarimento definitivo» di Padoan
piace all’ex ministro delle Infrastrutture e ora capogruppo
di Area Popolare Maurizio Lupi, il quale nella replica ha
sostenuto che «l’Imu non deve essere pagata dalle scuole
paritarie a condizione che l’educazione sia gratuita o che
la retta non ripaghi per intero il costo di gestione
dell’istituto», e soddisfazione è stata espressa anche da
Paola Binetti, sempre di Area popolare, che chiede
all’Economia di «emanare una direttiva agli enti locali».
La distinzione su cui Padoan ha poggiato l’intenzione del
Governo di non rimettere le mani su un tema ad alta tensione
politica è senza dubbio corretta, perché le due sentenze
della Cassazione (la 14225 e la 14226 del 2015, descritte
sul Sole 24 Ore del 15 luglio scorso) hanno rimandato al
mittente, cioè al giudice di secondo grado, le pronunce con
cui si garantiva l’esenzione Ici nel 2004-2009 a due scuole
livornesi, contro l’opinione del Comune.
A scaldare però il dibattito, e soprattutto a preoccupare i
titolari di scuole paritarie, è stato il ragionamento svolto
nelle sentenze, che a giudizio di molti potrebbe far
traballare anche le nuove regole sull’esenzione. Per evitare
l’Ici, spiegano le sentenze, è indispensabile che l’immobile
sia occupato da una delle attività considerate dal fisco
“meritevoli” di un trattamento di favore (sono elencate
all’articolo 7 del Dlgs 504/1992), e per essere tali le
attività devono essere svolte con «modalità non
commerciali». Qui sta il punto perché, prosegue la
Cassazione, l’esistenza di una retta rappresenta in sé «un
fatto rilevatore dell’esercizio dell’attività con modalità
commerciali».
Il ragionamento svolto dai giudici, relativo all’Ici, è in
linea anche con la “riforma” dell’Imu per il terzo settore
approvata dal Governo Monti nel decreto legge 1/2012, ma è
il suo regolamento attuativo a sollevare più interrogativi.
Nelle regole fissate dall’Economia nel Dm 200/2012, infatti,
la retta non basta a qualificare l’attività come
«commerciale», perché viene messo in campo un parametro
diverso fondato sul «costo medio per studente» pubblicato
dal ministero dell’Istruzione, e calcolato dall’Ocse:
l’esenzione è garantita finché la retta media chiesta agli
iscritti non supera questo «costo medio», che varia dai
5.739,17 euro degli asili ai 6.914,17 euro delle superiori e
misura gli oneri complessivi dell’istruzione a carico delle
finanze pubbliche e private.
Tutto questo è contenuto nel regolamento ministeriale, e non
nella legge primaria che si limita a prevedere l’esenzione
per le attività svolte «con modalità non commerciali», ma è
ovviamente quest’ultima a orientare le decisioni dei
giudici. Reggerà questo parametro agli eventuali
contenziosi? Alla domanda, per ora, non c’è risposta (articolo Il Sole 24 Ore del 30.07.2015). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Spese legali rimborsate ai sindaci.
Torna anche per assessori e consiglieri la copertura
«cancellata» dalla Cassazione.
Dl enti locali. Nel decreto approvato alla Camera novità per
gli amministratori - Indennizzi in caso di assoluzione o
archiviazione.
Tornano i rimborsi per le spese legali sostenute da
sindaci, assessori e consiglieri che vanno sotto processo
per cause legate all’esercizio del loro mandato e ne escono
con un’assoluzione o un’archiviazione.
A riportare in campo gli
indennizzi a carico dell’amministrazione locale di
appartenenza è la legge di conversione del decreto legge
enti locali approvata martedì al Senato (Atto
Senato n. 1577-B), e ora attesa alla
Camera dove nelle intenzioni di Governo e maggioranza
dovrebbe ottenere una semplice ratifica per evitare un altro
passaggio a Palazzo Madama.
Fino a ieri la possibilità di vedersi rimborsate le spese
legali era appesa a un’interpretazione estensiva di un
regolamento del 1987 (articolo 67 del Dpr 268/1987, tra
l’altro abrogato nel 2012) relativo ai dipendenti pubblici,
e questa fragile base era stata spazzata via dalla sentenza
5264/2015 della Cassazione: sindaci, assessori e
consiglieri, avevano spiegato i giudici, non sono dipendenti
della Pubblica amministrazione, quindi la tutela legale va
esclusa.
La legge di conversione del decreto enti locali riprende in
mano la questione (si veda anche «Il Sole 24 Ore» del 27
luglio) e fissa tre condizioni per attivare la tutela,
possibile ovviamente solo quando il si chiude in modo
favorevole per il diretto interessato, con un’assoluzione o
un provvedimento di archiviazione: i fatti al centro del
giudizio devono essere collegati da un «nesso causale» con
le funzioni esercitate dall’amministratore locale, non si
devono affacciare conflitti di interesse con l’ente di
appartenenza e deve essere assente dolo o colpa grave. In
questi casi, il rimborso non è comunque automatico ma
«ammissibile», e non può superare i parametri dei compensi
legali fissati dal decreto del ministero della Giustizia.
Dal punto di vista dello status degli amministratori locali
questa è la novità più rilevante in arrivo dagli interventi
raccolti nel maxiemendamento approvato a Palazzo Madama, che
si occupa anche di questioni di dettaglio: una di queste,
conseguenza di alcuni casi scoppiati in Campania nelle
ultime amministrative, permette a un sindaco uscente di
candidarsi in un altro Comune quando le elezioni nei due
enti sono «contestuali».
Quello sugli amministratori è solo uno dei tanti capitoli
affrontati dal provvedimento, che ieri ha incontrato la
soddisfazione del presidente dell’Anci Piero Fassino per «le
molte misure positive», dalla replica del Fondo Tasi
alle risorse per ammorbidire l’impatto della nuova
perequazione nei piccoli Comuni, fino all’abolizione
generalizzata dell’obolo del 10% da girare allo Stato in
caso di alienazioni di patrimonio.
Novità positive che, naturalmente, non chiudono la partita
in vista di una legge di stabilità che si preannuncia
ricchissima di interventi (articolo Il Sole 24 Ore del 30.07.2015). |
ENTI
LOCALI: Bilanci dei Comuni, si torna a discutere del rinvio a
settembre. Stato-Città. La proroga spunta all’ordine del giorno.
Oggi scadono i
termini per l’approvazione dei bilanci preventivi e, in
vista della Conferenza Stato-Città in programma per questa
mattina, ieri sono tornate a circolare voci di una nuova
proroga al 30 settembre, data già fissata per Città
metropolitane e Province dall’inedito rinvio “selettivo”
deciso un paio di settimane fa (si veda «Il Sole 24 Ore» del
16 luglio). Ai ministeri negli ultimi giorni sono arrivate
parecchie telefonate, in particolare dalle amministrazioni
appena rinnovate con le ultime amministrative e dai Comuni
siciliani, alle prese con una giravolta da parte della
Regione sulle regole per l’armonizzazione.
Fino a ieri, nell’ordine del giorno della Conferenza era
previsto solo l’esame del decreto sulle modalità di
distribuzione degli 850 milioni sblocca-debiti messi a
disposizione dal decreto enti locali, ma nel pomeriggio
un’integrazione ha messo in calendario anche la «valutazione
della proroga dei termini del bilancio 2015 dei Comuni».
L’integrazione arriva dal Viminale, cioè il ministero che
scrive i decreti con i rinvii, mentre da Palazzo Chigi
finora si è sempre spinto per non ritoccare più il
calendario con l’obiettivo di “dare un segnale” di svolta
rispetto all’incertezza endemica degli anni passati. La
partita, insomma, appare aperta, all’interno dello stesso
Governo.
Nei Comuni, come sempre, il quadro è articolato, e accanto a
molte amministrazioni locali che hanno già approvato da
tempo i preventivi 2015 si incontrano enti in difficoltà. In
un quadro perennemente in movimento come quello della
finanza locale, ovviamente, gli argomenti per chiedere un
rinvio non mancano mai.
La situazione si è colorata di tinte paradossali in Sicilia,
dove la Regione prima ha concesso ai Comuni di rinviare
all’anno prossimo il debutto della riforma della
contabilità, con il fondo crediti a copertura delle mancate
riscossioni, ma poi si è rimangiata questa opzione anche
perché il fondo crediti serve ad abbattere l’obiettivo del
Patto di stabilità. La marcia indietro, però, è arrivata
solo a luglio inoltrato, gettando i Comuni nel caos, ma
l’idea di una proroga solo siciliana, pure circolata dalle
parti del ministro dell’Interno Alfano, è parsa troppo
particolare anche per un ordinamento come il nostro.
A spiegare i ritardi fuori dall’isola, oltre alle elezioni
che a maggio hanno rinnovato giunte e consigli in oltre
mille Comuni, c’è il debutto a pieno regime
dell’armonizzazione, e i tempi lunghi del decreto enti
locali non hanno aiutato: le risorse destinate ad
ammorbidire il taglio perequativo per i piccoli Comuni, per
esempio, saranno distribuite solo a settembre.
Di tutto questo si discuterà stamattina in conferenza, per
scegliere se spostare i termini al 30 settembre o confermare
la scadenza di oggi, assegnando agli assestamenti in corso
d’opera il compito di tener conto delle novità (articolo Il Sole 24 Ore del 30.07.2015). |
TRIBUTI: Ici e scuole? Non è cambiato nulla.
Question-time del ministro Padoan alla camera dei deputati.
Scuole paritarie (gestite da un ente ecclesiastico) soggette
al pagamento dell'Ici, secondo la Cassazione? Nulla cambia
rispetto alla «normativa attualmente in vigore» sulla
tassazione degli immobili, quindi non è previsto, ad oggi,
alcun «intervento di modifica».
A dirlo è stato il ministro
dell'economia Pier Carlo Padoan, fugando ieri pomeriggio,
nel corso del question time nell'aula della Camera
(INTERROGAZIONE
A RISPOSTA IMMEDIATA IN ASSEMBLEA 3/01648 DEL 29.07.2015), ogni
dubbio sulle conseguenze del pronunciamento dei giudici di
piazza Cavour, che con le sentenze 14225 e 14226 avevano
sollevato un polverone giuridico, oltre che politico.
E,
prima che il titolare del dicastero di via XX Settembre
mettesse la parola fine sulla vicenda chiarendo, alla
domanda di un deputato di Ap, che la Suprema corte si
riferiva all'Ici richiesta per immobili per gli anni
2004-2009, e non toccava l'«attuale regime Imu», aveva detto
la sua il sottosegretario Enrico Zanetti, ritenendo, al
contrario, che «sulla questione dell'esenzione Ici-Imu non
vedo soluzioni diverse da una norma di interpretazione
autentica sul concetto di attività commerciale» (si veda ItaliaOggi del 28/07/2015).
Sollecitato, poi, a rispondere a
un'interrogazione che, riportando articoli giornalistici,
evidenziava l'ipotesi di una proposta del ministro delle
finanze tedesco, Wolfgang Schaeuble, per l'introduzione di
una «eurotassa», l'esponente governativo, menzionando
«contatti diretti» avuti con l'omologo della Germania, ha
smentito vi sia una «iniziativa esplicita» in tal senso.
Nel
contempo, però, Padoan non ha nascosto che, «naturalmente,
il tema in generale delle tasse a livello europeo»,
nonché, soprattutto, dell'adozione di «eventuali misure
di armonizzazione fiscale è da parecchie settimane nel
dibattito pubblico, e anche in quello ufficiale», a
seguito del confronto in corso sul «futuro dell'Unione
monetaria».
La più importante iniziativa in questa direzione, ha
proseguito, viene dal gruppo di studio presieduto dal
senatore a vita Mario Monti, che «sta ragionando su un
Rapporto che verrà reso pubblico l'anno prossimo». E,
finora, è emersa «la conferma della difficoltà di
qualsiasi esercizio di riforma del sistema delle risorse
proprie», determinate anche da «complicazioni
procedurali e istituzionali», ha concluso il ministro
(articolo ItaliaOggi del 30.07.2015). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Scaricabarile sulle province.
Il peso della riforma passa dallo stato alle regioni.
Il maxiemendamento del governo al dl enti locali ha
ufficializzato la decisione.
Lo Stato scarica sulle regioni il peso finanziario della
riforma delle province. Il
maxiemendamento alla legge di
conversione del dl 78/2015 su cui martedì scorso il senato
(Atto
Senato n. 1977) ha votato la fiducia e che è ora alla camera per il sì
definitivo, ufficializza quanto era divenuto ormai evidente:
una volta che la legge 190/2014 ha prelevato forzosamente
alle province la somma a regime di 3 miliardi rendendo
impossibile, come dimostrato dall'Upi, perfino la gestione
delle funzioni fondamentali, si è aperta una voragine di
circa 1,5 miliardi nella gestione delle funzioni non
fondamentali. Quelle, cioè, da riordinare, sottraendole alle
province e riallocandole in regioni o comuni.
A dover riordinare e riallocare quelle funzioni sono le
regioni, che avrebbero dovuto provvedere entro il
31/12/2014. Ma, se ne sono guardate bene. Infatti,
nell'autunno 2014 mentre partiva il processo di riordino, si
avviava anche il disegno di legge di stabilità 2015,
sfociato poi nella legge 190/2014, che avrebbe radicalmente
stravolto l'impianto della legge Delrio in merito al
riordino.
La legge 56/2014, infatti, all'articolo 1, commi
92 e 96, dispone che le funzioni non fondamentali delle
province transitino verso regioni e comuni, insieme con
tutte le risorse necessarie al loro funzionamento, oltre che
col personale addetto. Gli insostenibili prelievi forzosi
imposti alle province dalla legge 190/2014 impediscono di
attuare quanto prevede la legge Delrio: sicché, le regioni o
i comuni dovrebbero fare fronte alle funzioni provinciali
nelle quali subentrano a proprie spese. Per questa ragione,
moltissime regioni hanno fatto di tutto per non emanare le
leggi di riordino delle funzioni.
Il maxiemendamento, ora, tenta di «stanare» le regioni,
attraverso due strade. In primo luogo, un (ennesimo)
ultimatum: adottare entro il 31.10.2015 le leggi
regionali di riordino (stando al timing della legge 56/2014,
la prima scadenza era il 31.10.2014 ).
Laddove le regioni decidano di rimanere ancora inerti, il
maxiemendamento impone loro una «sanzione»: versare entro il
30.11.2015 ed entro il 30 aprile degli «anni
successivi» a province e città metropolitane «le somme
corrispondenti alle spese sostenute dalle medesime per
l'esercizio delle funzioni non fondamentali, come
quantificate, su base annuale, con decreto del ministro per
gli affari regionali, di concerto con i ministri
dell'interno e dell'economia e delle finanze, da adottare
entro il 31.10.2015.
Quindi, le regioni «renitenti»
dovrebbero comunque accollarsi la spesa complessiva per
l'esercizio delle funzioni che dovessero restare sulle
spalle delle province. Il versamento non sarebbe più dovuto
a decorrere dalla data nella quale gli enti individuati
dalle leggi regionali di riordino inizieranno realmente a
gestire le funzioni provinciali loro trasferite. La
previsione pare intendere spingere le regioni a versare alle
province e alle città metropolitane le risorse per le spese
connesse alle funzioni non fondamentali a tempo
indeterminato, come dimostra il riferimento all'obbligo di
provvedere entro il 30 aprile per gli anni successivi.
Si
nota, allora, uno sfasamento con le previsioni della legge
190/2014, secondo la quale, invece, il processo di riordino
dovrebbe concludersi entro il 31.12.2016. Occorre
comprendere come coordinare le previsioni del
maxiemendamento con quelle della legge di stabilità. Se,
infatti, le regioni saranno obbligate a coprire la spesa di
province e città metropolitane per le funzioni non
fondamentali finché non siano riordinate, a questo punto che
senso ha il taglio lineare al costo del personale degli enti
di area vasta, imposto dall'articolo 421, della legge
190/2014?
Ancora, c'è da chiedersi perché il personale
addetto alle funzioni non fondamentali debba essere ex lege
posto in sovrannumero e rischiare di andare in disponibilità
e verso il licenziamento, se entro il 31.12.2016 non sia
ricollocato, visto che la copertura dei costi per le
funzioni non fondamentali di province e città metropolitane,
a carico delle regioni, a rigor di logica, dovrebbe
riguardare anche il costo del personale.
Il maxiemendamento sottende, forse, ad un complessivo
ripensamento delle logiche della legge 190/2014, che
oggettivamente hanno determinato lo stallo della riforma, a
meno che non si ritenga di escludere, dalle spese che le
regioni saranno tenute a coprire, quelle di personale
(articolo ItaliaOggi del 30.07.2015). |
ENTI
LOCALI: Estensione a tappeto del rinvio dei bilanci.
Tema oggi in Conferenza stato-città-autonomie.
Estendere anche ai comuni il rinvio al 30 settembre del
termine per il varo del bilancio di previsione 2015 al
momento disposto solo per gli enti di area vasta.
Potrebbe
essere questa la decisione a sorpresa della Conferenza
stato-città e autonomie locali convocata per oggi.
Si tratterebbe di un piccolo colpo di scena, visto che
appena due settimane fa la proroga venne consentita solo a
favore di province e città metropolitane.
In quell'occasione, peraltro, si verificò un mezzo giallo.
Sul tavolo della Conferenza, infatti, arrivò una richiesta
firmata, oltre che dal presidente dell'Upi, Achille Variati,
anche dal n. 1 di Anci, Piero Fassino. Essa, tuttavia, non
menzionava i comuni, che quindi rimasero tagliati fuori, con
inevitabile coda di polemiche, visto il clima non proprio
idilliaco che in questi mesi si respira all'interno
dell'associazione dei sindaci.
Oggi la questione verrà nuovamente discussa e l'opzione di
un rinvio generalizzato pare al momento quella più
gettonata, anche perché in qualche modo legittimata dal
fatto che il decreto «enti locali» (dl 78/2015), che nel
corso dell'iter di conversione ha imbarcato ulteriori misure
correttive (Atto
Senato n. 1977), non diventerà legge prima della settimana
prossima.
Sempre oggi la Conferenza dovrebbe dare il via libera allo
schema di decreto del Mef chiamato a definire criteri, tempi
e modalità per la distribuzione degli 850 milioni di euro
messi a disposizione dall'art. 8 dello stesso dl 78 per
l'erogazione agli enti locali di anticipazioni di liquidità
finalizzate a consentire il pagamento dei debiti pregressi.
In realtà, il provvedimento si limita a rinviare a quanto
sarà previsto da un atto integrativo alla convezione in
essere fra Via XX Settembre e la Cassa depositi e prestiti,
che gestirà le risorse e sottoscriverà i contratti con i
beneficiari. Le richieste dovranno essere presentate, a pena
di nullità, entro la data che sarà fissata dall'atto
integrativo
(articolo ItaliaOggi del 30.07.2015). |
APPALTI: Indice tempestività, il Durc nel calcolo.
PAGAMENTI P.A./ Circolare della Ragioneria.
Non sono esclusi dal calcolo dell'indicatore di tempestività
dei pagamenti delle amministrazioni pubbliche i periodi di
tempo intercorrenti tra la richiesta del Durc e il suo
ottenimento.
È uno dei chiarimenti forniti dalla
circolare 22.07.2015 n. 22, diffusa martedì dalla Ragioneria generale dello
stato per fare luce sulle modalità applicative dell'art. 8,
comma 3-bis, del dl 66/2014.
Tale norma ha previsto, nel
quadro degli obblighi di pubblicità, trasparenza e
diffusione di informazioni imposti alle p.a., di calcolare e
pubblicare un indicatore annuale e trimestrale sulla
tempestività dei pagamenti.
Quest'ultimo è definito in termini di ritardo medio di
pagamento ponderato in base all'importo delle fatture. In
pratica, si tratta di calcolare un rapporto fra la somma
dell'importo di ciascuna fattura pagata (al netto dell'Iva
da split payment) moltiplicato per la differenza, in giorni
effettivi, tra la data di pagamento della fattura ai
fornitori e la data di scadenza e la somma degli importi
pagati nell'anno solare o nel trimestre di riferimento.
Il
calcolo deve tenere conto di tutte le transazioni
commerciali pagate nel periodo di riferimento (anno solare o
trimestre), ma attribuisce un peso maggiore ai casi in cui
sono pagate in ritardo le fatture di importo più elevato.
Possono essere escluse solo le fatture tassativamente
indicate dalla legge, fra cui quelle pagate grazie ai cd
decreti sblocca debiti (dl 35/2013 e dl 66).
La data di pagamento è quella di trasmissione degli
ordinativi di pagamento in tesoreria, mentre la data di
scadenza è quella prevista dal dlgs 231/2002, ossia in
generale 30 giorni dalla data di ricevimento della fattura,
salvo il diverso termine previsto a livello contrattuale (ma
in ogni non può essere superiore a 60 giorni). Al riguardo,
la circolare precisa che la p.a. debitrice non può
artificiosamente abbassare l'indicatore neutralizzando il
periodo di tempo necessario per acquisire il Durc (che
adesso peraltro viaggia online e quindi in tempo reale).
Tali adempimenti fanno parte della ordinaria attività
contabile finanziaria posta a carico dell'ente, che quindi
deve adottare opportune procedure gestionali al fine di
evitare ritardi.
La circolare ricorda che i nuovi termini di pagamento si
applicano ai soli contratti stipulati a decorrere dal 01.01.2013, mentre a quelli stipulati prima di tale data
continuano ad applicarsi le norme vigenti al momento della
loro conclusione. Tuttavia, qualora sia stipulato un atto
aggiuntivo o si proceda al rinnovo, si applica la nuova
disciplina dettata dal dlgs 192
(articolo ItaliaOggi del 30.07.2015). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Province, mobilità per 10mila «esuberi».
Sanzioni alle Regioni in ritardo nell’attuazione - Via
libera ai rinnovi dei contratti a termine.
Sanzioni alle
regioni che non si affrettano ad attuare la legge Delrio,
nuovi canali per il trasferimento di circa 10mila dipendenti
provinciali a Regioni e Comuni e qualche ritocco vitale alle
regole dei bilanci degli enti di area vasta.
Il decreto legge enti locali (Atto
Senato n. 1977)
che ieri ha ottenuto la fiducia
al Senato è anche una sorta di riforma-bis di Province e
Città metropolitane, soprattutto dopo che il passaggio
parlamentare lo ha arricchito di una serie di misure per
sbloccare le parti incagliate del riordino.
Il
provvedimento, che dopo l’ok di Palazzo Madama viaggia ora
verso la Camera per quella che secondo i programmi del
governo dovrebbe essere una ratifica, guarda agli ostacoli
fondamentali al decollo della riforma.
I problemi sono
chiari: la legge Delrio aveva previsto l’abbandono di una
serie di attività da parte degli enti di area vasta, che nel
nuovo quadro si devono concentrare sulla pianificazione di
trasporto e rete scolastica (e sul coordinamento di
viabilità, servizi pubblici e piani di sviluppo nel caso
delle Città metropolitane), e le Regioni avrebbero dovuto
decidere quali “rami” sarebbero passati, con il relativo
personale, alle Regioni o ai Comuni del territorio.
Tra
ritardi governativi, con i decreti sulla mobilità ancora in
fase di adozione, e territoriali, costi e dipendenti sono
rimasti in carico a Province e Città, che però hanno subito
i tagli da un miliardo previsti dall’ultima manovra e quindi
rischiano di saltare, con duri colpi alla gestione dei
servizi locali (già in forte crisi) ma anche all’immagine di
una politica che su quella riforma ha puntato molto.
Con il voto del Senato il presidente dell’Unione delle
Province Achille Variati parla di «prime risposte positive»,
anche se la nuova geografia di costi e servizi territoriali
a regime deve ancora essere disegnata e giusto ieri è stata
al centro di un incontro fra lo stesso Variati e il ministro
dell’Economia Piercarlo Padoan.
La prima mossa passa dalle sanzioni previste per le Regioni
che entro il 30 ottobre non avranno completato l’attuazione
della Delrio. I ritardatari dovranno coprire entro novembre
i costi che Province e Città del loro territorio sostengono
per le «funzioni non fondamentali», cioè le attività che
sarebbero dovute passare ad altri enti, e se il ritardo
continuerà negli anni successivi ci sarà il bis ogni 30
aprile. A quantificare l’assegno che le Regioni dovranno
girare agli enti di area vasta sarà il governo, e per
fermare la catena delle penalità non basterà scrivere le
leggi di riordino, ma occorrerà garantire l’«effettivo
esercizio» delle funzioni da parte dei nuovi enti.
Per provare davvero a tenere in piedi i conti di Province e
Città, però, occorre spostare il personale, e su questo
arrivano altre due misure i cui effetti però andranno
testati sul campo. I dipendenti dei centri per l’impiego,
circa 8mila, dovrebbero passare alle Regioni, sulla base di
convenzioni con il ministero del Lavoro che mette sul piatto
90 milioni da distribuire tra i firmatari; per quel che
riguarda la Polizia provinciale, invece, gli enti dovranno
individuare entro il 31 ottobre quanti dei circa 2.700
dipendenti deve restare per svolgere le «funzioni
fondamentali», mentre gli altri dovranno «transitare» nei
ruoli dei Comuni in deroga ai tetti di spesa per il
personale (purché si mantenga l’equilibrio di bilancio e il
rispetto del Patto di stabilità).
Nella speranza che questi meccanismi funzionino, anche se
nei decreti ministeriali rimangono le incognite sulle tutele
stipendiali per chi si sposta, il testo votato ieri dal
Senato permette il rinnovo dei contratti a termine nelle 33
Province e Città che hanno sforato il Patto nel 2014,
chiudendo il periodo di limbo dei precari interessati, e
permette agli enti di area vasta di scrivere (entro il 30
settembre) un preventivo solo annuale, e non triennale come
prevedono le regole ordinarie della finanza pubblica.
Dietro
a questo apparente dettaglio tecnico si nasconde il problema
dei problemi, ancora da risolvere: per l’anno prossimo è in
calendario un taglio aggiuntivo da un miliardo, e da due per
il 2017, che però Province e Città non riusciranno a
sostenere nemmeno centrando in pieno la spesa standard
calcolata dalla Sose. La possibilità di scrivere il bilancio
solo annuale riconosce il problema, che però andrà
affrontato nella manovra d’autunno: un altro compito per la
spending review già alle prese con la caccia alle coperture
in vista dei tagli fiscali (articolo Il Sole 24 Ore del
29.07.2015). |
ENTI LOCALI - VARI: Arriva l’identità digitale unica. Cittadini e Pa. Entro dicembre il debutto dello Spid per
accedere alla rete.
Entro dicembre
2015 verranno rilasciate le prime identità digitali che
permetteranno a cittadini e imprese di accedere ai servizi
in rete offerti dalla pubblica amministrazione e dai
privati.
L’Agid (Agenzia per l’Italia digitale), in
collaborazione con il Garante per la protezione dei dati
personali, ha emanato infatti ieri i quattro regolamenti
tecnici necessari all’avvio dello Spid (Sistema pubblico per
la gestione dell’identità digitale) dando così attuazione
concreta all’articolo 64 del Codice dell’amministrazione
digitale e al correlato decreto del Presidente del consiglio
dei ministri datato 24.10.2014, pubblicato in Gazzetta
Ufficiale n. 285 del 09.12.2014.
Le prime pubbliche amministrazioni che permetteranno
l’accesso ai propri servizi tramite Spid sono agenzia delle
Entrate, Inail, Inps, regione Piemonte, Friuli Venezia
Giulia, Emilia Romagna, Liguria, Toscana e Marche. Le altre
pubbliche amministrazioni sono obbligate ad aderire a Spid
entro i ventiquattro mesi successivi all’accreditamento del
primo gestore di identità digitale. L’identità Spid è
costituita infatti dalle credenziali erogate, previa
richiesta e identificazione dell’utente, dagli identity
provider o gestori di identità digitale: si tratta di
aziende in possesso delle caratteristiche definite dai
regolamenti tecnici e che dal 15 settembre 2015 potranno
fare richiesta di accreditamento ad Agid.
Con lo Spid si potrà accedere a qualunque servizio online
con le medesime credenziali di autenticazione universalmente
accettato. Nel sistema attuale ogni servizio richiede invece
credenziali specifiche per singolo ente. Il cittadino potrà
così autenticarsi una sola volta presso uno dei gestori di
identità digitali e utilizzare tale autenticazione con
qualunque erogatore di servizi online, pubblico e privato,
sia italiano che della Ue.
Gli utenti potranno disporre di
una o più identità digitali, costituite da alcune
informazioni identificative obbligatorie, quali codice
fiscale, nome, cognome, luogo e data di nascita, sesso. Le
identità digitali vengono rilasciate dai gestori su
richiesta dell’interessato dietro presentazione di un modulo
di richiesta di adesione, contenente tutte le informazioni
necessarie all’identificazione del richiedente, distinte a
seconda che si tratti di persona fisica o giuridica. Alla
richiesta segue la fase di identificazione e cioè
l’accertamento delle informazioni sufficienti a identificare
il richiedente sulla base dei documenti forniti.
L’identificazione può essere a vista, con presenza fisica
del richiedente presso le sedi preposte, oppure a vista da
remoto mediante l’utilizzo di strumenti di registrazione
audio/video. L’identificazione può aversi anche in modo
informatico, tramite documenti digitali di identità, altre
identità Spid o con firma elettronica qualificata o
digitale. All’identificazione segue la verifica
dell’identità dichiarata con accertamenti effettuati tramite
fonti autoritative istituzionali per verificare la
veridicità dei dati raccolti.
Il sistema Spid è basato su tre livelli di sicurezza. Il
primo permette l’autenticazione del titolare tramite Id e
password stabilita dallo stesso utente. L’identità Spid di
secondo livello permette invece l’autenticazione tramite
password e generazione di una Otp - One time password
inviata al titolare. Il terzo livello permette, infine,
l’autenticazione tramite utilizzo di una password e una
smart card (articolo Il Sole 24 Ore del
29.07.2015). |
CONDOMINIO: Tutte le strategie per evitare i danni.
L’amministratore deve risarcire in caso di omissione ai suoi
doveri.
Vacanze sicure. Perdite d’acqua, allarmi a vuoto, lavori
urgenti possono essere affrontati facilmente.
Il periodo
estivo comporta alcuni problemi per la vita condominiale,
che si trova solitamente “svuotata” da molti dei suoi usuali
protagonisti, dai condòmini (salvo pochi superstiti) allo
stesso amministratore. Ci si può pertanto trovare ad
affrontare emergenze o situazioni che normalmente non si
presentano nella restante parte dell'anno.
Va detto, anzitutto, che l’amministratore professionale,
prima di lasciare lo studio, avrà l'accortezza (soprattutto
se il condominio non usufruisce dei servizi di un portinaio)
di tutelare i suoi amministrati anche nel periodo nel quale
non sarà presente (e magari neppure reperibile) stilando (e
lasciando in bella evidenza in condominio) una comunicazione
con la lista e i riferimenti delle aziende e dei
professionisti ai quali, di norma, ci si deve rivolgere per
le riparazioni e la manutenzione dei vari impianti
condominiali: pensiamo per esempio all'ascensore rotto o a
una chiave che si spezza nel portone o ancora alla piscina
condominiale con problemi di depurazione.
All'amministratore, ovviamente, non potrà essere richiesto
di essere presente tutto l'anno senza interruzioni, ma di
fare in modo che dalla sua assenza non derivino possibili
danni per lo stabile certamente sì: quindi l'amministratore
che venisse meno a tale avvertenza potrebbe certamente
essere ritenuto (in forza del rapporto di mandato che lo
lega ai suoi amministrati) responsabile e quindi chiamato a
risarcire i danni occorsi allo stabile a causa di un suo
comportamento omissivo.
Anche il condòmino, ovviamente, prima di abbandonare
temporaneamente la propria abitazione dovrà preoccuparsi (al
pari dell'amministratore) di chi resta, e mettere in atto
quei necessari accorgimenti volti ad evitare un possibile
danno per i pochi che si trovino a trascorrere agosto in
città. Anche perché di tali danni, al pari
dell'amministratore, lo stesso condomino potrebbe poi essere
chiamato a rispondere sia civilmente che, ricorrendone i
presupposti, penalmente in base alla responsabilità delle
“cose in custodia” regolata dal codice civile all''articolo
2051.
Come prima cosa, anzitutto, anche il condomino (al pari
dell'amministratore) dovrà lasciare la propria reperibilità
(al portinaio se presente, all'amministratore o piuttosto ad
un condomino che resti sulla località), in modo che sia
possibile avvisarlo in caso di emergenza.
Il condòmino, inoltre, potrebbe lasciare a persone di
fiducia (amministratore, portinaio, vicini che non vadano in
vacanza nel suo stesso periodo) il numero dell'azienda che
ha installato l'allarme antifurto, dato che tutti conosciamo
lo sgradevolissimo fenomeno di allarmi che suonano sino ad
esaurimento o al ritorno dei diretti interessati. In questo
modo, fatti ovviamente gli opportuni controlli, la ditta
potrebbe intervenire a disinnescare la fonte di molestie
sonore.
A questo proposito, va ricordata una recente decisione della
Cassazione che ha stabilito che per considerare o meno
illecita (e quindi vietata) una immissione sonora, occorre
anche tenere presente il rumore “di fondo” presente sul
posto: più tale rumore (come d'estate a città semi deserte)
sarà attenuato, e più una singola fonte sonora potrà
risultare molesta.
Altra avvertenza da seguire, per il condòmino che voglia
allontanarsi dal proprio alloggio per un certo periodo, è
quello di chiudere l'interruttore dell'acqua, assicurandosi
così dal rischio di perdite indesiderate. Qualora
avvenissero, infatti, è ovvio che l'amministratore (o
persino altri condòmini) potrebbero intervenire per evitare
che dall'acqua che fuoriesce derivino danni alle parti
comuni o private dello stabile. Attenzione: a meno che ci si
trovi in una fase tale di emergenza e pericolo assoluti, i
condòmini dovranno evitare di agire di propria iniziativa e
chiedere invece l'intervento della autorità pubblica (ad
esempio vigili del fuoco) per segnalare quanto sta
accadendo. Nonostante l'esistenza di una perdita d'acqua,
infatti, nessun privato ha il diritto di introdursi in un
altro appartamento e deve necessariamente richiedere
l'intervento della forza pubblica.
L’amministratore, inoltre, inviterà i condòmini a staccare
nei propri alloggi la corrente elettrica o almeno, se non è
possibile, almeno tutte le spine di televisione computer e
telefono dato che le prese elettriche sono conduttori di
fulmini (tipici del periodo estivo) e per evitare il
fenomeno ricorrente (d'estate) del blocco dell'elettricità.
Nel periodo estivo non viene , dunque, meno il legame (e le
conseguenze che necessariamente ne derivano) che lega o in
forza di un contratto di mandato (l'amministratore) o in
forza di un diritto reale (il condomino) il singolo al bene
immobile: per entrambi varrà quindi il principio di evitare
o almeno circoscrivere le insidie che ne possono derivare.
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Le emergenze si gestiscono meglio con il «consiglio».
Parti comuni. Interventi rapidi.
Durante
l'estate in condominio le attività non si fermano. Non
soltanto vi è da curare, come sempre, l'erogazione delle
spese, l'osservanza del regolamento, la tutela delle parti
comuni e la gestione dei servizi condominiali, ma si
presentano specifiche situazioni connesse alla stagione e
alle sue caratteristiche.
Così, ad esempio, molti interventi sulle parti comuni (in
particolare quelli che riguardano i tetti e le coperture)
devono, necessariamente, essere eseguiti nel periodo estivo
per evitare che le piogge o altri imprevisti metereologici
possano comprometterne la corretta esecuzione e i risultati.
Inoltre, l'apertura delle finestre imposta dal clima più
caldo può accentuare i problemi legati a immissioni di
rumore (magari durante feste svolte sui terrazzi) e/o di
fumi e odori (a causa di inopportune grigliate).
Infine, gli appartamenti lasciati vuoti dai loro occupanti,
che sono andati in ferie, possono attirare i ladri, spesso
facilitati dalle finestre aperte, e, quindi, se sono anche
presenti ponteggi per l'esecuzione di interventi di
manutenzione in facciata o sulla copertura, si possono
verificare furti, rispetto a cui le sentenze hanno
attribuito la responsabilità, oltre che all'impresa
esecutrice, anche al condominio, ai sensi dell'articolo 2051
del Codice civile, per l'insufficiente controllo sulle parti
comuni oggetti dei lavori e di cui esso è custode.
Quindi, in sostanza, durante il periodo feriale, vi possono
essere eventi imprevisti che richiedono un intervento
immediato, e anche se l'amministratore si è diligentemente
organizzato, cercando di prevenire le emergenze e lasciando
i propri recapiti, a volte è necessaria una presenza fisica
e concreta per risolvere i problemi insorti e tutelare gli
interessi comuni.
Proprio per questo, nel regolamento di molti condominii è
previsto il “consiglio di condominio” deputato, da un lato,
ad affiancare e coadiuvare l'amministratore nelle decisioni
per le quali non vi è il tempo sufficiente a convocare
l'assemblea, e, dall'altro, a risolvere i problemi più
urgenti e/o di minor rilievo.
Tale organo, che, prima della riforma, era previsto
esclusivamente dai singoli regolamenti, e, spesso, quindi,
disciplinato in modo diverso da un condominio all'altro,
ora, a seguito delle modifiche introdotte dalla legge
220/2012, è espressamente menzionato dall'ultimo comma
dell'articolo 1130 bis del codice civile, il quale prevede
che «l'assemblea può anche nominare, oltre
all'amministratore, un consiglio di condominio composto da
almeno tre condomini negli edifici di almeno dodici unità
immobiliari» il quale «ha funzioni consultive e di
controllo».
Insomma, il condominio che non lo ha dovrebbe proprio
istituirlo, anche in assenza di una previsione del
regolamento condominiale. Infatti, sono proprio i
consiglieri che, durante il periodo feriale, mantengono i
contatti con l'amministratore, sostituendolo per le
necessità più urgenti (articolo Il Sole 24 Ore del
28.07.2015). |
EDILIZIA PRIVATA: Lombardia, contabilizzatori senza correttivi.
Consumi energetici. Il Pirellone si adegua alle norme Ue -
In difficoltà chi ha seguito la disciplina regionale.
Addio
definitivo ai “correttivi” per i contabilizzatori. Anche la
Lombardia li abbandona, in linea con il principio del pagare
solo sul consumo effettivo.
In effetti i coefficienti correttivi sono vietati dalla
legge 10/1991, articolo 26, comma 5, dalla direttiva europea
2012/27/Ue e dal dlgs 102/2015, articolo 9, comma 5, lettera
d). Nessuna norma regionale li può prevedere.
Ma la Regione Lombardia, con la Delibera di Giunta regionale
(Dgr) del 20.12.2013, n. X/1118, all'articolo 10, comma
11, prevede che «Nella progettazione del sistema di
termoregolazione e contabilizzazione dell'energia termica,
il Tecnico abilitato deve tenere conto delle diverse
esposizioni delle unità abitative, degli ambienti situati al
primo e all'ultimo piano dell'edificio, dell'equilibratura
dell'impianto. Tali caratteristiche dovranno essere
evidenziate in una relazione da consegnare al Committente
per individuare (omissis) i criteri di ripartizione delle
spese».
È evidente il riferimento ai così detti “coefficienti
correttivi” che “correggono” i dati del calore prelevato dal
termosifone tenendo in considerazione le dispersioni dalle
pareti. Da più parti sono sorte perplessità circa questa
disposizione, che contrasta con altre norme di rango
superiore. La perplessità maggiore derivava dal fatto che
una norma Regionale non avrebbe potuto dettare disposizioni
in materia di ripartizioni delle spese. L'articolo 117 della
Costituzione, infatti, non assegna tale potere alle Regioni.
Il ripensamento, indirettamente, arriva dalla stessa Regione
Lombardia. Questa, infatti, nella conferenza delle regioni
15/69/cu7/c5 del 16.07.2015, ha sottoscritto lo schema
di decreto legislativo recante disposizioni integrative al
decreto legislativo 04.07.2014, n. 102.
In esso viene chiaramente specificato che il ricorso ai
coefficienti correttivi potrebbe essere contenuto sono in
una legge dello Stato in quanto la materia non rientra nelle
competenze delle Regioni. Tuttavia, viene anche ricordato
che gli stessi non sono previsti né dalla Direttiva Europea
2012/27/UE e nemmeno dalla Legge 10/1991. Nella bozza di
modifica approvata dalla Conferenza delle Regioni, infatti,
non ne viene fatto riferimento alcuno.
Non solo. Le leggi e le norme regolamentari (quali sono le
Dgr) non possono derogare alle direttive europee, anche se
queste non sono ancora state recepite. La Dgr Lombarda n.
1118 è del dicembre 2013, quando era già in vigore la
Direttiva 2012/27/UE che, di fatto, vieta proprio il ricorso
ai coefficienti correttivi.
E qui subentra l’assurdità: allo stato attuale, dal 01.01.2017, i cittadini della Regione Lombardia che si
sono attenuti alla Dgr 1118/2013 rischiano di vedersi
irrogare vedranno irrogare una sanzione amministrativa da
500 a 2.500 euro dalla Regione stessa, in quanto non
ripartiscono le spese del riscaldamento in base ai consumi
effettivi. A meno che non cambino i metodi di calcolo (articolo Il Sole 24 Ore del
28.07.2015). |
APPALTI: Acquisti senza deroghe (per ora) nei Comuni fino a 10mila
abitanti. Centrali uniche. Tra i soggetti aggregatori anche nove Città
metropolitane.
Nel pacchetto
di emendamenti approvati dalla commissione Bilancio del
Senato non arriva la deroga alla centralizzazione degli
acquisti per i piccoli Comuni, che quindi (a meno di novità
dal maxiemendamento) continuano a vedere in prospettiva (dal
1° novembre) l’obbligo di rivolgersi alle centrali uniche
per tutti gli acquisti, mentre la deroga per i mini-acquisti
fino a 40mila euro vale solo per i Comuni sopra i 10mila
abitanti.
Per i piccoli, il Governo aveva ipotizzato una
soglia intermedia, a 20mila euro, ma resta da capire la
sorte di questa idea. Intanto l’individuazione dei soggetti
aggregatori da parte dell’Anac avvia il percorso operativo.
Nell’elenco Anac (su cui si veda anche Il Sole 24 Ore del 24
luglio) rientrano Consip e 21 centrali di committenza
regionali, individuate secondo modelli diversi, che vanno
dalle strutture direzionali delle stesse Regioni (come nel
caso della Toscana), a centri regionali di acquisto (come il
Crav in Veneto), a stazioni uniche appaltanti (come in
Liguria), ad agenzie (come Intercent, in Emilia-Romagna),
sino alle società specializzate (come Arca in Lombardia).
Nel novero rientrano anche 9 Città metropolitane e 2
province, per le quali è ipotizzabile un ruolo significativo
rispetto ai contesti territoriali di riferimento, che dovrà
essere coordinato con quello delle centrali regionali.
Il 35esimo organismo ammesso nel numero massimo previsto
dalla legge è il consorzio Cev, istituito dagli enti locali
per l’approvvigionamento di energia: l’ammissione è peraltro
condizionata a una modifica statutaria che deve escludere
qualsiasi possibilità di partecipazione di privati al
consorzio. Tra i soggetti esclusi per mancanza dei requisiti
soggettivi risultano anche Invitalia e la società consortile
Asmel
Lo sviluppo concreto del sistema si trasferisce ora al
tavolo dei soggetti aggregatori (nel quale sono presenti
anche Mef, Anci e Upi), che dovrà definire le tipologie e i
volumi di beni e servizi da ricondurre alle
macro-committenze
In questa prospettiva è utile che le amministrazioni
(soprattutto gli enti locali) diano corso alla
programmazione per gli acquisti di beni e servizi (prevista
dall’articolo 271 del Dpr 207/2010), in modo tale da poter
rilevare eventuali specificità e, soprattutto, enucleare le
forniture e le prestazioni che potranno essere acquisite
autonomamente con procedure semplificate o da riservare
all’affidamento alle coop di tipo B.
Il profilo più complesso risulta dal doppio ruolo che i
soggetti aggregatori verranno ad avere in base al quadro
normativo attuale: da un lato, infatti, assolvono al ruolo
di centrali di committenza per i fabbisogni relativi a beni
e servizi, dall’altro, tuttavia, possono anche configurarsi
come stazioni appaltanti delegate (su base normativa) a
svolgere singole procedure di gara, in particolare per gli
appalti di lavori (articolo Il Sole 24 Ore del
27.07.2015). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Per i nuovi fondi decentrati solo la replica dei tagli 2014.
Personale. Le conseguenze delle istruzioni della Ragioneria.
Le
amministrazioni pubbliche devono fare il «copia e incolla»
del fondo stabile del 2014 per avere la base del fondo
stabile del 2015: può essere così sintetizzata la
indicazione di maggiore rilievo contenuta nella
circolare 08.05.2015 n. 20 della Ragioneria Generale dello Stato (si veda Il
Sole 24 Ore del 24 luglio).
Gli organismi di controllo interno, negli enti locali i
revisori dei conti, vengono impegnati a verificare la
corretta applicazione delle nuove regole. Il documento
riprende le indicazioni dettate nella precedente circolare
n. 8, diretta alle sole amministrazioni statali, e quelle
implicitamente contenute nella circolare 17/2015, sul conto
annuale, in cui si ipotizza il vincolo di lasciare
inalterata la incidenza media dei dipendenti sul fondo per
le risorse decentrate.
Essa dà una lettura radicalmente diversa delle prescrizioni
dettate dall’articolo 9, comma 2-bis, del Dl 78/2010, come
modificato dalla legge 147/2013 rispetto alle sezioni
regionali di controllo della Corte dei Conti della Puglia,
della Sicilia e dell’Abruzzo. Questi organismi ritengono che
nel 2015 occorra detrarre dal fondo per la contrattazione
decentrata i tagli operati negli anni dal 2011 al 2014, il
che può portare in molti casi a ulteriori decurtazioni del
fondo.
Le differenze interpretative nascono a seguito della
infelice formulazione legislativa, che utilizza il plurale
quanto ai tagli da effettuare nel 2015, senza precisare se
ci si riferisce solamente agli obblighi di decurtazione per
restare entro il tetto del 2010 e in caso di diminuzione del
personale in servizio, come inteso dalla Ragioneria Generale
dello Stato, o anche a quelle effettuate negli anni dal 2011
al 2014, come inteso dalle citate sezioni della magistratura
contabile.
In termini sostanziali il vincolo legislativo viene
correttamente interpretato da Via XX Settembre nel senso che
si vuole impedire di rimettere nel fondo i tagli che sono
stati operati negli anni dal 2011 al 2014 in ossequio alle
previsioni del Dl 78/2010 e non determinare un’ulteriore
riduzione del fondo.
La presa di posizione della Ragioneria è molto attenta a
distinguere i casi in cui nel fondo 2014 sono state inserite
tutte le risorse previste dai contratti decentrati, anche se
determinavano un aumento teorico, rispetto alle
amministrazioni in cui tali risorse non sono state inserite.
Il risultato che si deve avere è in ogni caso eguale.
Quindi, riproposizione del fondo 2014 di parte stabile,
stando attenti a inserire anche gli aumenti derivanti
dall’applicazione delle norme contrattuali, essenzialmente
la Ria e gli assegni ad personam dei cessati. Ovviamente ciò
non impedisce che, nel caso in cui maturino le condizioni
per nuovi incrementi, essi debbano essere disposti. Per la
parte stabile il riferimento va alla Ria e agli assegni ad personam dei dipendenti cessati nel 2014, per la parte che
matura nell’anno successivo, e del 2015; ma va anche –alla
luce delle indicazioni contenute nell’emanando decreto del
ministro della Pa- alle risorse necessarie alla
corresponsione del salario accessorio, quanto meno per la
parte fissa, dei dipendenti in sovrannumero degli enti di
area vasta assorbiti.
Si deve evidenziare inoltre che non sembrano esserci vincoli
alla parte variabile del fondo, dal momento che viene
costituito annualmente, ovviamente ferma restando la
necessità di rispettare i vincoli dettati dal legislatore,
per cui risorse aggiuntive possono essere inserite solamente
dagli enti che rispettano il Patto e i vincoli di spesa del
personale.
La circolare si conclude responsabilizzando gli
organi di controllo ad effettuare la certificazione
«dell’ammontare della decurtazione permanente». È facile
prevedere che queste indicazioni saranno tradotte in
prescrizioni operative nel conto annuale 2015 (articolo Il Sole 24 Ore del
27.07.2015). |
EDILIZIA PRIVATA: Contributi straordinari, la mappa dei pagamenti.
Oneri aggiuntivi in tre Regioni e in diversi Comuni.
Urbanistica. Versamenti extra quando si aumenta
l’edificabilità in deroga al Prg.
Le Regioni e i
Comuni stanno applicando senza molte deviazioni le norme
statali per il contributo straordinario di urbanizzazione,
ovvero l’onere dovuto sull’incremento di valore che deriva
dagli accordi tra Comune e privati per aumentare gli indici
di edificabilità, in deroga ai piani regolatori generali.
È quanto risulta da una prima ricognizione svolta
dall’associazione nazionale dei costruttori edili (Ance)
sull’applicazione delle modifiche introdotte dal decreto
legge 133/2014 (il cosiddetto Sblocca Italia), alla norma
sugli oneri di urbanizzazione (articolo 16 del Dpr 380/2001,
testo unico dell’edilizia).
La previsione
La realizzazione, secondo le previsioni degli strumenti
urbanistici vigenti, di un immobile residenziale, di un
capannone industriale o di un centro commerciale comporta
sempre il pagamento al Comune di contributo commisurato al
costo di costruzione e agli oneri di urbanizzazione. Le
somme che i proprietari degli immobili devono pagare sono
stabilite dai consigli comunali partendo da griglie di
valori definite dalle Regioni sulla base di un insieme di
parametri.
Non di rado, però, vengono realizzati interventi che vanno
oltre le previsioni dei Prg, introducendo una variante alle
previsioni del Prg o derogandovi. Quando accade, il
proprietario dell’area o dell’immobile ottiene un bel
vantaggio: il valore del suo bene aumenta. La stessa cosa
capita quando si consente di cambiare la destinazione d’uso
di un immobile, per esempio trasformando un capannone
industriale in appartamenti.
Con la modifica al testo unico dell’edilizia, per
determinare gli oneri di urbanizzazione i Comuni devono
tener conto anche di quell’eventuale aumento di valore, che
deve essere «suddiviso in misura non inferiore al 50 per
cento tra il Comune e la parte privata ed è erogato da
quest’ultima al Comune stesso sotto forma di contributo
straordinario».É straordinario perché si somma al normale
pagamento degli oneri di urbanizzazione. Poiché si crea una
plusvalenza dovuta unicamente a una decisione
amministrativa, si è ritenuto che debbano beneficiarne anche
le casse dell’ente pubblico. Il legislatore ha pensato di
attestare, in questo modo, che la variante, la deroga o il
cambio di destinazione d’uso non è vantaggiosa solo per il
proprietario interessato, ma che è stato perseguito anche un
interesse pubblico.
L’attuazione
Dalla ricognizione sullo stato dell’arte fatta dall’Ance,
risulta che non tutte le amministrazioni si sono attenute
alla regola della suddivisione a metà nella ripartizione tra
pubblico e privato del maggior valore. D’altra parte, la
norma statale per la determinazione del valore del
contributo fa salve le disposizioni regionali e degli
strumenti urbanistici comunali.
Ad esempio Roma chiede di incassarne almeno i due terzi, con
possibilità di fermarsi al 60% di fronte ad un’elevata
qualità progettuale degli interventi. Restando in provincia
di Roma, a Fiano Romano chi si accorda con il Comune per
costruire oltre le previsioni del Prg deve versare tra il 40
e il 60 per cento del plus valore; la percentuale esatta è
stabilita di volta in volta tenendo conto anche
dell’importanza dell’intervento per la comunità.
La norma statale obbliga i Comuni a reinvestire i contributi
straordinari, negli stessi ambiti territoriali in cui sono
stati realizzati gli incrementi di valore, in opere
pubbliche e servizi o per accrescere la dotazione di
edilizia pubblica. Regioni e Comuni hanno dettagliato gli
interventi da realizzare, secondo le priorità di ogni
amministrazione. La Liguria, per esempio, ha dato
disposizione ai Comuni di indirizzare la spesa anche nella
realizzazione di opere anti dissesto idrogeologico, vista la
particolare vulnerabilità. In alternativa al pagamento
monetario, il contributo straordinario può anche tradursi
nella cessione di aree o di immobili da destinare a edilizia
residenziale sociale o servizi sociali, come nel caso del
comune di Thiene. Sempre Roma prevede, come alternativa, la
realizzazione e la gestione da parte di privati, per un
determinato periodo, di servizi di uso pubblico e di
edilizia per l’affitto a tariffe e cononi concordati.
Sono sempre i Comuni a stabilire le modalità di calcolo
dell’incremento di valore dovuto alla variante o alla deroga
al Prg. In genere, viene determinato come differenza tra il
valore dell’area o dell’immobile a seguito della modifica
dello strumento urbanistico e il loro valore a piano
vigente (articolo Il Sole 24 Ore del
27.07.2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Ambiente,
contravvenzioni con via d’uscita amministrativa.
L’articolo 1,
comma 9 della legge 68/2015 introduce nel corpo del Testo
unico ambientale la Parte sesta–bis, rubricata «Disciplina
sanzionatoria degli illeciti amministrativi e penali in
materia di tutela ambientale» e sviluppata in sei articoli
(da 318-bis a 318-octies), con la quale si prevede un
meccanismo estintivo che ricalca quella prevista dal Dlgs
758/1994 in materia di violazioni della normativa sulla
sicurezza sul lavoro.
A discapito della rubrica, tale disciplina (non retroattiva)
si applica a una sola categoria di illecito, ovvero le
fattispecie penali contravvenzionali previste dal Dlgs
152/2006 (e dunque non da altre fonti normative che pure
contengono contravvenzioni in materia ambientale), che non
abbiano cagionato un danno o pericolo concreto ed attuale di
danno alle risorse ambientali, urbanistiche o paesaggistiche
protette.
La procedura prevede che l’organo di vigilanza detti al
contravventore prescrizioni asseverate dell’autorità
competente, volte a regolarizzare la situazione non
conforme; una volta accertato l’adempimento della
prescrizione nel termine tecnicamente necessario dettato
dallo stesso organo di vigilanza, ed eventualmente prorogato
su richiesta di parte, il contravventore è ammesso alla
definizione del procedimento penale (che nelle more rimane
sospeso) con il pagamento in via amministrativa di un
importo pari a un quarto della pena pecuniaria massima,
estinguendo così il reato.
La prescrizione dettata dall’organo di vigilanza non è
impugnabile in sede amministrativa; se, dunque, il
trasgressore non riterrà di adempiere la prescrizione o non
sarà in grado di ottemperarvi nella tempistica prescritta,
il procedimento penale riprenderà il proprio corso.
Tuttavia, l’adempimento eseguito con modalità diverse o in
un termine maggiore, ma comunque congruo, potrà essere
valutato ai fini dell’ammissione all’oblazione “penale” ai
sensi dell’articolo 162-bis Cp (l’importo sarà però della
metà della pena pecuniaria massima).
La novità legislativa ha sicuramente il pregio di introdurre
una modalità deflattiva che potrà servire ad alleggerire il
carico giudiziario, trovando una “via d’uscita” per molti
processi che verrebbero altrimenti istruiti per violazioni
meramente formali o scarsamente offensive; restano però
diversi dubbi dettati da una tecnica redazionale che rimane
per molti versi non particolarmente chiara.
Innanzitutto, è lasciata una significativa discrezionalità
dell’organo di vigilanza nell’individuare se la violazione
possa o meno aver generato un danno o un pericolo di danno
(che potrebbe, in ipotesi, manifestarsi in futuro con una
contaminazione non percepibile o prevedibile nell’immediato
dall’ente accertatore), con il rischio di una sperequazione
applicativa, anche in base agli orientamenti interpretativi
che potrebbero radicarsi nei diversi ambiti territoriali.
Non è poi chiaro in che termini e tempistiche (e da quale
Autorità) debba essere emessa l’asseverazione della
prescrizione, né se essa sia effettivamente necessaria anche
per casi non complessi quali le violazioni di natura formale
o di condotta già esaurita.
Manca poi (e si auspica in tal senso in un orientamento
estensivo in sede giurisprudenziale) un coordinamento tra
l’estinzione delle contravvenzioni ascritte alla persona
fisica e il correlato illecito amministrativo che, in
relazione allo stesso fatto contravvenzionale, potrebbe
essere contestato alla persona giuridica ai sensi del Dlgs
231/2001. Attendiamo dunque di apprezzare se, giungendo alla
“fase pratica”, la riforma troverà una efficace e uniforme
applicazione, garantendo gli obiettivi che l’hanno ispirata (articolo Il Sole 24 Ore del
25.07.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO: Congedi parentali anche a ore.
Permessi frazionabili fino a metà dell'orario giornaliero.
Nella nuova modulistica Inps la possibilità di chiedere la
modalità alternativa di fruizione.
Via libera alla fruizione del congedo parentale su base
oraria. Anche se non disciplinato da un contratto
collettivo, i lavoratori possono scegliere di fruire del
congedo su base oraria oltre che su base giornaliera.
La
novità è prevista dal dlgs n. 80/2015 (riforma maternità in
attuazione del Jobs act), in vigore dal 25 giugno, che ha
svincolato la facoltà della fruizione oraria dalla
previsione di una disciplina nel Ccnl.
L'Inps ha aggiornato
la modulistica (il che consente ai lavoratori di presentare
le richieste) in attesa di emanare apposita circolare con le
istruzioni (come anticipato nella
circolare 17.07.2015 n. 139, su ItaliaOggi del 21 luglio). Quando non esista una disciplina
collettiva, la fruizione oraria è consentita per la metà
dell'orario giornaliero (per esempio quattro ore se la
giornata lavorativa è di otto ore).
Congedo parentale. Per congedo parentale s'intende
l'astensione facoltativa del lavoratore/trice dipendente. In
seguito alla riforma del Jobs act, per ogni bambino, nei
primi suoi 12 anni di vita, ciascun genitore (lavoratore
dipendente) ha diritto di astenersi per un periodo
complessivamente (tra i due) non eccedente dieci mesi (11 se
il papà ne fruisce per almeno tre mesi).
La legge n.
228/2012 aveva introdotto la possibilità di frazionare a ore
la fruizione del congedo parentale. Una facoltà, tuttavia,
subordinata alla preventiva previsione, da parte della
contrattazione collettiva di settore, delle modalità di
fruizione, nonché dei criteri di calcolo e
dell'equiparazione di un determinato monte ore alla singola
giornata lavorativa, il che di fatto aveva lasciato
impraticabile la nuova opportunità.
Base oraria per tutti. A rendere effettivo il diritto di
fruire del congedo orario ci ha pensato il dlgs n. 80/2015.
Infatti, ha stabilito che, in caso di mancata
regolamentazione da parte della contrattazione collettiva,
anche di livello aziendale, delle modalità di fruizione del
congedo su base oraria, ciascun genitore può scegliere tra
la fruizione giornaliera e quella oraria. E che, nel caso la
scelta cada sulla seconda chance, la fruizione oraria è
consentita in misura pari alla metà dell'orario medio
giornaliero del periodo di paga quadri-settimanale o mensile
immediatamente precedente a quello nel corso del quale ha
avuto inizio il congedo parentale.
A corredo della nuova
opportunità vale la pena ricordare che, sempre il dlgs n.
80/2015, ha anche stabilito che, in caso di fruizione oraria
ex lege (cioè in assenza di contratto collettivo), è esclusa
la cumulabilità con gli altri permessi e riposi e che è
escluso dalla facoltà il personale del comparto sicurezza e
difesa e a quello dei vigili del fuoco e soccorso pubblico.
La domanda. La domanda di congedo parentale, qualunque sia
la modalità scelta per la fruizione (oraria o giornaliera),
va presentata all'Inps telematicamente prima dell'inizio del
periodo di congedo richiesto. Per quanto riguarda la nuova
opportunità di fruizione oraria, nella domanda andrà:
• specificato il numero di giorni di congedo parentale da
fruire a ore nell'arco del periodo individuato;
• indicato un periodo, al massimo un mese solare, entro il
quale intende fruire del congedo parentale frazionato a ore.
Al fine di facilitare le acquisizioni, il sistema telematico
dell'Inps permette di:
• acquisire una domanda simile a quella su base oraria già
presentata; i dati vengono replicati e possono essere
modificati prima della conferma di protocollazione della
nuova domanda;
• acquisire una domanda con un nuovo periodo partendo da una
domanda su base oraria già presentata, confermando i dati
precedentemente immessi e inserendo il nuovo periodo e il
relativo numero di giorni
(articolo ItaliaOggi del 25.07.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO: Integrativi,
niente tagli a catena sui fondi.
Ragioneria generale.
Niente tagli a
catena per i fondi decentrati negli enti locali.
Diventa
ufficiale l’orientamento della Ragioneria generale dello
Stato, nella
circolare 08.05.2015 n. 20 diffusa ieri (e anticipata
sul Sole 24 Ore del 6 luglio scorso) che evita di
raddoppiare nel 2015 i tagli cumulati negli anni 2010-2014.
Tutto nasce dal fatto che l’articolo 9 del Dl 78/2010 ha
imposto alle amministrazioni di frenare il fondo per gli
integrativi in due mosse: prima di tutto, è stato fissato il
congelamento del suo valore a quello registrato nel 2010, e
poi è stato imposto di ridurlo di anno in anno in
proporzione all’alleggerimento del personale prodotto dal
turn-over.
Da quest’anno è entrata invece in vigore la nuova
regola, scritta al comma 456 della legge 147/2014, che con
la consueta formulazione infelice chiede di tagliare i fondi
«di un importo pari» alla sforbiciata prodotta dalle vecchie
norme.
Alcune sezioni di controllo della Corte dei conti hanno
interpretato questa regola come una sorta di raddoppio dei
vecchi tagli, mentre la Ragioneria sgombra il campo da
questa ipotesi e propone di replicare, senza raddoppiare, le
vecchie riduzioni.
L’obiettivo, spiegano espressamente le
istruzioni diffuse da Via XX Settembre (anche senza
riprodurre gli esempi numerici presenti nelle prime bozze),
è quello di «storicizzare» i tagli. Da quest’anno, inoltre,
non opera più il tetto che imponeva di non superare il
livello registrato nel 2010 (articolo Il Sole 24 Ore del
24.07.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Conferenze servizi più rapide.
Iter snello per grandi opere e insediamenti produttivi.
La riduzione dei termini nel ddl delega per la riforma della
p.a. che ora passa al senato.
Riduzione dei termini delle conferenze di servizi, che si
esprimeranno non più a maggioranza ma a prevalenza delle
posizioni espresse; procedure autorizzative semplificate con
riduzione della metà dei termini per gli insediamenti
produttivi e per le grandi opere; revisione della disciplina
della Scia; riordino degli obblighi di pubblicità e
trasparenza per le stazioni appaltanti e per gli enti
privati soggetti a controllo pubblico.
Sono queste alcune delle principali novità previste dal
disegno di legge delega per la riforma della pubblica
amministrazione approvato all'inizio di questa settimana
(Atto
Camera n. 3098) e
adesso passato al senato.
Sono numerosi gli ambiti dai interesse per il settore degli
appalti e dell' edilizia a partire dall' intervento sulla
disciplina della conferenza di servizi, fase che spesso
rallenta l'iter di approvazione dei progetti e quindi
l'avvio delle opere.
L'articolo 2 del provvedimento prevede innanzitutto la
ridefinizione e riduzione dei casi in cui la convocazione
della conferenza di servizi sia obbligatoria, con un
possibile «révirement» rispetto a quanto previsto oggi;
inoltre si prevede l'introduzione di modelli di istruttoria
pubblica nei casi di adozione di «provvedimenti di interesse
generale», in alternativa al diritto di partecipazione al
procedimento. Ma il punto più rilevante è quello della
riduzione dei termini per la convocazione della conferenza
(che potrà essere convocata e svolta anche utilizzando
strumenti informatici) e per l'acquisizione degli atti per
l'adozione del provvedimento conclusivo, oltre a quello
concernente una nuova disciplina del calcolo delle presenze
e delle maggioranze, per rendere più celere i lavori della
conferenza.
Si stabilisce poi che in caso di più uffici
della stessa amministrazione statale, dovrà partecipare un
solo soggetto che si esprimerà per tutti gli uffici. Per
quel che riguarda la adozione del provvedimento si passa al
principio della prevalenza delle posizioni che supera quello
della maggioranza per dare peso e importanza alle
determinazioni di soggetti che abbiano un ruolo di maggiore
rilievo rispetto ad altri in relazione alla questione da
decidere.
Per le grandi opere e gli insediamenti produttivi si delinea
un procedimento ad hoc semplificato nel quale la presidenza
del consiglio potrà decidere a quali interventi applicare il
rito semplificato che prevede una riduzione della metà dei
termini ordinari. Alla presidenza del consiglio smetterà
anche la attivazione di poteri sostitutivi per lo sblocco di
situazioni problematiche.
Prevista anche la revisione della
disciplina della Scia, in maniera da chiarire quando sia
necessaria e quando si procede con silenzio assenso o con
comunicazioni preventive, il tutto con tempi certi per la
conclusione dei procedimenti. In attuazione della delega
(tempo previsto: un anno) si dovrà dettare la disciplina
generale delle attività non assoggettate ad autorizzazione
preventiva espressa, nonché definire le modalità di
presentazione e i contenuti standard degli atti degli
interessati, così come le modalità di svolgimento della
procedura, anche telematica.
Il disegno di legge approvato
dalla camera, infine, prevede che entro sei mesi siano
approvate disposizioni integrative e correttive dei decreti
attuativi della legge Severino (dlgs 33 e 39/2013)
relativamente alla materia attinente gli obblighi di
pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da
parte delle pubbliche amministrazioni (oggi previsti in
diverse fonti normative) e l'inconferibilità e
incompatibilità di incarichi presso le amministrazioni
pubbliche e presso gli enti privati sottoposti a controllo
pubblico
(articolo ItaliaOggi del 24.07.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO: Congedo
parentale, moduli on-line.
Welfare. Disponibile l’aggiornamento telematico per la
versione rinnovata dal decreto genitorialità
È on-line il
modulo con cui richiedere il congedo parentale nella
versione rinnovata dal decreto genitorialità in vigore dal
25 giugno scorso.
Lo ha reso noto l’Inps nella
circolare
17.07.2015 n. 139, nella quale sono state specificatamente illustrate
le novità introdotte dal Dlgs 80/2015 in materia di congedo
parentale.
Per effetto dell’aggiornamento del modulo da trasmettere
telematicamente, i genitori non dovranno pertanto più
utilizzare il modello cartaceo SR23 che l’Istituto, nel
messaggio
06.07.2015 n. 4576, aveva invece consentito di
usare nel breve periodo transitorio dall’entrata in vigore
del decreto ai necessari adeguamenti tecnici.
Il modello ospita quindi le nuove regole sui congedi
parentali, applicabili dal 25 giugno al 31.12.2015,
salvo rifinanziamento delle nuove misure di tutela (che
dovrebbe essere sicuro), e che hanno comportato la modifica
degli articoli 32, 34 e 36 del testo unico sulla maternità (Dlgs
151/2001).
La novità più importante è sicuramente rappresentata
dall’estensione del periodo di fruizione che dagli originari
8 anni è diventato utilizzabile fino ai 12 anni di età del
bambino o 12 anni dall’ingresso in famiglia del minore in
caso di adozione e/o affidamento.
Conseguentemente è stato modificato il relativo trattamento
economico, rispetto al quale l’Inps nel recente
provvedimento ha esaminato le diverse casistiche che possono
verificarsi, evidenziandone le rispettive differenze
rispetto al passato.
In primo luogo, il periodo indennizzabile a carico dell’Inps
(nella misura del 30% della retribuzione media giornaliera),
è stato ampliato fino al 6° anno di età del bambino o di
ingresso del minore in famiglia (contro i precedenti tre),
sempre comunque nei limiti dei sei mesi complessivi.
Si tratta del caso più generale in cui l’indennità è sempre
riconosciuta, senza che rilevino le condizioni reddituali
del lavoratore richiedente.
Più specifico, invece, è il caso in cui il genitore
richiedente abbia un reddito che non supera 2,5 volte
l’importo del trattamento minimo pensionistico dell’anno
(limite che per il 2015 è pari ad euro 6.531,07), condizione
quest’ultima che consente di ricevere l’indennità c/Inps
fino all’8° anno di età (o di ingresso in famiglia) del
bambino (contro i precedenti 6 anni).
In presenza di questa condizione reddituale, l’Istituto
indennizza anche i congedo fruiti tra il 6° e l’8° anno di
età del bambino (o di ingresso), nonché i periodi di congedo
eccedenti il limite complessivo indennizzabile (madre e
padre congiuntamente considerati) dei 6 mesi, ancora
previsto dall’articolo 34 del Dlgs n. 151/2001.
L’ulteriore caso che potrebbe verificarsi è quello del
congedo utilizzato tra gli 8 ed i 12 anni di età del
bambino, periodo quest’ultimo che, sebbene fruibile, non è
mai indennizzabile da parte dell’Istituto.
L’effetto delle modifiche apportate al periodo di fruizione
nonché conseguentemente al periodo di indennizzabilità,
spiega infine l’Inps, è che la copertura contributiva
figurativa è estesa fino al dodicesimo anno di età (o di
ingresso) del bambino, ferma restando l’applicazione delle
specifiche regole di valorizzazione di cui al comma 2
dell’articolo 35 del testo unico, per i congedi fruiti dal
7° anno di vita (articolo Il Sole 24 Ore del
23.07.2015). |
EDILIZIA PRIVATA: Antincendio negli hotel con regola.
In arrivo la regola tecnica per l'adeguamento antincendio
degli hotel. Le nuove disposizioni si applicano alle
attività ricettive turistico-alberghiere tra 26 e 50 posti
letto. I materiali devono avere adeguate caratteristiche di
reazione al fuoco e rispondere alle caratteristiche del
luogo di installazione. L'intera struttura ricettiva, ad
eccezione delle aree a rischio, può costituire un unico
compartimento. Le porte in tutti i locali in diretta
comunicazione con le vie di esodo o con spazi adiacenti e
non separati dalle vie di esodo, devono essere dotate di
dispositivo di auto chiusura.
È con il decreto del ministero
dell'interno «disposizioni di prevenzione incendi per le
attività ricettive turistico-alberghiere con numero di posti
letto superiore a 25 e fino a 50», che vengono stabilite
le regole per l'adeguamento antincendio delle strutture
alberghiere sarà presto pubblicato in gazzetta ufficiale.
La larghezza utile delle vie d'uscita deve essere misurata
deducendo l'ingombro di eventuali elementi sporgenti, con
esclusione dei medaglioni antipanico.
Nel sistema di vie d'uscita è vietato collocare specchi che
possano tranne in inganno sulla direzione da seguire
nell'esodo
(articolo ItaliaOggi del 23.07.2015). |
EDILIZIA PRIVATA: Detrazioni
edilizie legate al permesso del Comune.
Agevolazioni. La disciplina per gli interventi iniziati prima
del 21.08.2013.
Nel caso di un
intervento edilizio iniziato prima del 21.08.2013 e
terminato successivamente, riguardante demolizione e
ricostruzione di un edificio con modifica della sagoma, ma
con identica volumetria, le detrazioni fiscali per il
recupero edilizio e per il risparmio energetico sono
applicabili solo sulle spese sostenute dopo l’eventuale
modifica del titolo abilitativo ottenuta dal Comune.
Con questa risposta a un interpello del giugno scorso
(protocollo 909-195/2015), la Dre Emilia-Romagna prende
posizione su una questione spinosa e che può incidere
notevolmente sulla dichiarazione che alcuni contribuenti
presenteranno entro il prossimo 30 settembre (nonché sui
relativi versamenti d’imposta già effettuati o in corso).
Il problema riguarda gli effetti fiscali della modifica
apportata all’articolo 3, comma 1, lettera d), del Dpr
380/2001 dall’articolo 30, comma 1, del Dl 69/2013, in
vigore dal 21.08.2013. Per effetto della modifica, la
definizione di “ristrutturazione edilizia” in caso di
demolizione e ricostruzione dell’edificio non si ha più a
condizione che l’intervento avvenga «con la stessa
volumetria e sagoma di quello preesistente, fatte salve le
sole innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa
antisismica», ma eliminando da tale locuzione le parole «e
sagoma». Un intervento di demolizione e ricostruzione con
stessa volumetria e diversa sagoma, quindi, è una
“ristrutturazione”, mentre se si varia anche la volumetria è
una “nuova costruzione”.
Quando mutano le definizioni in edilizia si ha
inevitabilmente un “effetto domino” su quelle fiscali, che
alle prime si ricollegano. Infatti, l’articolo 16-bis, comma
1, lettera a), del Tuir (che disciplina la detrazione per il
recupero edilizio, attualmente pari al 50%) rinvia al Dpr
380/2001, come pure, indirettamente, la tabella A, parte II
e III, del Dpr 633/1972 in tema di aliquote Iva applicabili
alle prestazioni di servizio dipendenti dai contratti di
appalto per l’esecuzione dei relativi lavori.
La stessa
detrazione sul risparmio energetico (attualmente fissata al
65%) non spetta in caso di nuova costruzione ma solo di
“ristrutturazione” (Risoluzione 4/E/2011, circolare
36/E/2007 e Faq Enea del 26.06.2014 n. 41). Si ricorda
altresì che il bonus fiscale del 36-50% spetta anche se
l’edificio demolito aveva una destinazione diversa da quella
residenziale, a patto che l’uso residenziale sia rispettato
dal nuovo edificio ricostruito (risoluzione 14/E/2005).
Nell’ipotesi oggetto di interpello, l’autorizzazione era
stata rilasciata a dicembre 2012 e quindi prima della
modifica normativa, per cui essa si riferiva a un intervento
di “demolizione e ricostruzione” all’epoca non assimilabile
a una ristrutturazione. L’istante, tuttavia, facendo
presente che l’intervento realizzato mantiene la stessa
volumetria dell’edificio precedente e che, quindi in base
alla legge 98/2013 è da qualificarsi tecnicamente come
“ristrutturazione”, riteneva di poter detrarre al 50% ai
fini Irpef le spese sostenute successivamente al 21.08.2013 (criterio di cassa), mentre ai fini Iva l’aliquota del
4% applicata sulle fatture emesse sino a quella data
(tabella A, parte II, n. 39, Dpr 633/1972) avrebbe dovuto
lasciare il posto a quella del 10% (tabella A, parte III, n.
127-quaterdecies).
La Dre Emilia-Romagna, invece, ha sposato una tesi più
conservativa, trincerandosi dietro al fatto che la corretta
qualificazione di un intervento edilizio non è riscontrabile
in un interpello né «in sede di correzione delle
dichiarazioni dei redditi» se non basandosi sui documenti in
possesso del contribuente. Senza prendere esplicitamente
posizione sulle aliquote Iva, l’Agenzia nega al caso
specifico le detrazioni per la ristrutturazione edilizia
almeno sino a quando non «sia possibile ottenere dal Comune
una modifica del titolo abilitativo», peraltro «solo sulle
spese sostenute dopo l’eventuale modifica».
In proposito, al di là del fatto che l’esatta qualificazione
dei lavori può essere asseverata anche da un tecnico, si
osserva che potrebbe non essere necessario nella fattispecie
considerata richiedere una «modifica del titolo
abilitativo». Ove il Comune, infatti, certificasse che
l’intervento oggetto del primo permesso sia da qualificarsi,
in base alle prescrizioni in vigore dal 21.08.2013, come
«ristrutturazione edilizia», potrebbe presumibilmente essere
possibile considerare agevolabili le spese sostenute (“per
cassa”) almeno a decorrere da quella data, non essendo
mutato l’intervento, ma solo la sua definizione urbanistica
(e fiscale).
Anche ai fini Iva non sembra soluzione immune
da critiche far dipendere la corretta aliquota applicabile
non dall’esatta natura dell’intervento, ma dal fatto che il
contribuente si attivi o meno per farne modificare la
dizione sul titolo abilitativo (articolo Il Sole 24 Ore del
22.07.2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - CONDOMINIO: Doppia
tutela contro il rumore. Si va dal risarcimento dei danni in
sede civile fino alla denuncia penale.
Le regole sulle immissioni. Con caldo e finestre aperte si
fanno più intensi i fastidi provenienti dal vicinato.
Nel
caseggiato, soprattutto nel periodo estivo, aumentano in
modo esponenziale le liti dovute al comportamento di quei condòmini che innaffiano abbondantemente le piante sul
balcone senza alcuna precauzione o accendono i
condizionatori senza preoccuparsi dell’acqua di condensa che
inevitabilmente cade nella proprietà sottostante. Del resto,
con le finestre aperte, è inevitabile che si avvertano con
maggiore facilità anche gli odori prodotti dal vicinato o le
emissioni di vapori provenienti da locali commerciali nel
caseggiato.
In questi casi, qualora sia superata la normale
tollerabilità delle immissioni, il condòmino danneggiato può
tutelarsi in sede civile o in sede penale, se è stato
commesso il reato di getto pericoloso di cose.
La «normale tollerabilità»
Secondo l’articolo 844 del Codice civile, il proprietario
non può impedire le immissioni di fumo o di calore, le
esalazioni, i rumori, gli scuotimenti e simili propagazioni
derivanti dal vicino, se non superano la normale
tollerabilità, avendo anche riguardo alla condizione dei
luoghi. Tale disposizione si basa sul criterio della
“normale tollerabilità” che è un criterio relativo, poiché
esso non trova il suo punto di riferimento in dati
aritmetici fissati dal legislatore. L’indagine del
magistrato, diretta a stabilire se le immissioni restino
comprese o meno nei limiti della norma, deve essere quindi
riferita, da un lato, alla sensibilità dell’uomo medio e,
dall’altro, alla situazione locale.
Al giudice è così affidato un ruolo di moderatore da
esercitarsi di volta in volta con riguardo, oltre alle
condizioni di tempo e di luogo nelle quali si verificano le
immissioni, anche alla loro intensità e idoneità a
ripercuotersi sfavorevolmente nei confronti dei condòmini
che le ricevono.
Lo stillicidio
È certamente vietata la collocazione di vasi di piante su
parapetti, ove gli stessi non siano fissati e creino
problemi di stillicidio. Molto spesso questo divieto è
contenuto in una norma del regolamento di condominio. In tal
caso l’unica soluzione è quella di utilizzare sottovasi e
fioriere interne, saldamente ancorate alla ringhiera dei
balconi, con conseguente rispetto della disposizione di cui
all’articolo 844 del Codice civile della la norma
regolamentare che vieta la collocazione di vasi di piante su
parapetti.
Commette addirittura il reato di getto pericolo di cose il
condòmino che, senza precauzioni, innaffia i fiori del
proprio appartamento, facendo cadere al piano di sotto acqua
e terriccio e imbrattando il davanzale, i vetri e altre
suppellettili.
Precauzioni sono necessarie pure per l’acqua condensata
dall’unità esterna di un impianto di condizionamento
singolo, che deve essere convogliata in contenitori
periodicamente svuotati, onde evitare lo stillicidio verso
altre unità immobiliari.
Non è possibile, invece, innestare il tubo di scarico della
condensa del condizionatore nel pluviale condominiale,
comportando tale attività un’alterazione della cosa comune
perché il pluviale ha la finalità di scaricare solamente
acque meteoriche.
Odori molesti
L’articolo 844 del Codice civile non detta un criterio
univoco e prestabilito per determinare fino a quando si
debba tollerare le immissioni odorose del condomino vicino:
il giudizio del giudice potrebbe variare e la stessa fonte
di disturbo potrebbe essere valutata in modo differente.
In ogni caso il condòmino (o un suo inquilino) che,
nell’esercizio di un’attività commerciale, determini
l’emissione nell’atmosfera di fumi e vapori nauseabondi, al
punto da determinare disagio in tutti i condomini dello
stabile, che sono costretti a tenere le finestre chiuse, può
arrivare a commettere il reato di getto pericoloso di cose
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 01.07.2015 n. 27562), soprattutto se i vapori
illeciti provengono da una canna fumaria che è in aperto
contrasto con le leggi sanitarie vigenti.
La tutela civile e penale
Il condòmino danneggiato dalle immissioni intollerabili è
legittimato a chiedere al giudice civile di proibire al
vicino la prosecuzione della sua attività e di ordinare a
suo carico il risarcimento dei danni, anche non patrimoniali
(danno biologico, morale eccetera).
Prima o contemporaneamente all’azione ordinaria innanzi al
giudice si può anche chiedere un provvedimento d’urgenza per
far cessare immediatamente le molestie. In ogni caso il tema
delle immissioni, oltre ai risvolti civilistici, può
rilevare anche in ambito penale come conseguenze del
comportamento del singolo condòmino che commette il reato di
getto pericoloso di cose, punito con l’arresto fino a un
mese o con l’ammenda fino a duecentosei euro
(articolo Il Sole 24 Ore del
21.07.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO: Congedi retribuiti fino a 8 anni.
Per i periodi successivi spettano solo i contributi
figurativi. Una circolare dell'Inps riepiloga tutte le novità introdotte
dal dlgs 139/2015 (Jobs act).
Benefici a metà dall'estensione del periodo di fruizione del
congedo parentale a dodici anni. È sempre garantita,
infatti, la contribuzione figurativa, ma non l'indennità
economica; la quale, in particolare, non spetta mai per le
giornate fruite dopo gli otto anni del figlio (fino a
dodici).
Lo precisa l'Inps nella
circolare 17.07.2015 n. 139,
illustrando le novità sul congedo parentale introdotte dal dlgs n. 80/2015 attuativo del Jobs Act.
Dal 25 giugno. Le novità, spiega l'Inps, si applicano in via
sperimentale per il solo anno 2015 e soltanto per le
giornate di astensione riconosciute nello stesso anno 2015.
Quindi, tenuto conto che sono in vigore dal 25.06.2015,
trovano applicazione per le giornate di astensione fruite
dal 25 giugno al 31.12.2015. Per gli anni successivi
il riconoscimento degli stessi benefici potrà avvenire solo
previa adozione di appositi decreti che individuino adeguata
copertura finanziaria.
Da 8 a 12 anni. È l'estensione del periodo di fruizione, la
novità fondamentale in tema di congedo parentale: il limite
è passato da otto a dodici anni del figlio per il quale si
richiede il congedo.
La riforma, invece, ha lasciato
invariato la durata dei congedi nel doppio limite massimo:
a) individuale (del singolo lavoratore dipendente, papà o
mamma) pari a sei mesi, elevabile a sette nel caso in cui il
padre ne fruisca di almeno tre mesi; b) complessivo, tra i
genitori, pari a dieci mesi, elevabili a undici nel caso in
cui il padre fruisca di un periodo non inferiore a tre mesi;
ovvero limite massimo di dieci mesi in caso di genitore
solo.
L'elevazione del limite comporta che, dal 25 giugno al
prossimo 31 dicembre, ciascun genitore può fruire degli
eventuali periodi residui di congedo parentale fino ai
dodici anni di vita del figlio. La novità si applica anche
per i casi di adozione, nazionale e internazionale, e di
affidamento.
Pertanto, sempre per l'anno 2015, il congedo
parentale può essere fruito dai genitori adottivi e
affidatari, qualunque sia l'età del minore, entro dodici
anni (e non più otto) dall'ingresso del minore in famiglia,
fermo restando che il congedo non può essere fruito oltre la
maggiore età del figlio.
Da 3 a 6 anni. La riforma, inoltre, ha elevato da tre a sei
anni di vita del figlio il periodo entro cui, nel limite
massimo di sei mesi, il genitore che fruisce del congedo
parentale ha diritto all'indennità pari al 30% della
retribuzione media giornaliera. Lo stesso vale nei casi di
adozione o affidamento (entro i sei anni, e non più i tre
anni dall'ingresso in famiglia del minore). Anche questa
novità, ovviamente, trova applicazione limitatamente ai
periodi di congedo parentale fruiti dal 25 giugno al 31.12.2015.
Alla luce della riforma, pertanto, si distinguono tre
ipotesi (si veda tabella) in presenza delle quali il congedo
parentale:
a) è indennizzato a prescindere dalle condizioni di reddito
del genitore richiedente;
b) è indennizzato subordinatamente alle condizioni di
reddito del genitore richiedente;
c) non è indennizzato.
La contribuzione figurativa. L'Inps precisa, infine, che la
fruizione del congedo parentale tra il 25 giugno e il 31.12.2015 è sempre coperta da contribuzione figurativa
fino al dodicesimo anno di vita del bambino (ovvero di
ingresso del minore in caso di adozione o affidamento)
(articolo ItaliaOggi del 21.07.2015). |
EDILIZIA PRIVATA: Libretto
unico ma non per tutti. Seguono le regole nazionali 15
Regioni, nelle altre può servire un modello per ogni
apparecchio.
Impianti termici. Ricade su proprietario, inquilino o
amministratore condominiale la responsabilità di errori
nella compilazione.
Lo Stato ha
semplificato. E ha varato un modello unico che permette -a
chi in casa ha più impianti per il riscaldamento e/o per il raffrescamento- di compilare un solo documento per tutti,
completo di diverse schede. Alcune Regioni, però, hanno
introdotto regole locali: con il risultato che, a un anno e
mezzo dalla norma statale (Dm 10.02.2014 in
applicazione del Dpr 74/2013), c’è chi ha una modulistica
diversa da quella nazionale e chi di libretti continua a
chiederne uno per ogni apparato presente nel fabbricato.
Da un lato ci sono 15 tra Regioni e province autonome che
hanno deciso di attenersi alla normativa nazionale sul
libretto unico. Dall’altro, ci sono le eccezioni che vanno
dall’Emilia Romagna al Piemonte, dal Veneto alla Lombardia.
Fino all’estremo della Provincia di Bolzano che, nei mesi
scorsi, ha fatto circolare un documento d’intenti dove viene
messa in discussione l’esistenza stessa del libretto,
considerato “inutile”, perché in Alto Adige esiste una
disciplina locale sulla sicurezza degli impianti (Lp
18/1992).
In questo caso, la complessità delle discipline locali
ricade direttamente anche sull’utente finale, e non solo su
tecnici e installatori. Perché –stando al Dpr 74/2013–
l’obbligo di predisporre il libretto d’impianto,
compilandolo secondo i nuovi modelli, spetta al proprietario
di un alloggio o all’inquilino (anche quando ha ereditato la
gestione di un impianto esistente) o all’amministratore per
una caldaia centralizzata condominiale.
Per questo, tocca al cittadino sapere che in Emilia Romagna
occorre compilare un libretto per ogni impianto presente in
casa (ma con una serie di distinguo sulle potenze, che
costringono anche chi non è esperto a confrontarsi con una
norma davvero complessa). E ancora, tenere conto, come
spiega Giovanni Maj della società di formazione e-training
«che nel libretto emiliano bisogna indicare
obbligatoriamente anche il numero dell’attestato di
prestazione energetica e i codici Pdr (o punto di
riconsegna) e Pod (o point of delivery). Sono codici,
rinvenibili in bolletta, che vengono assegnati a ciascuna
utenza rispettivamente dai distributori di gas in rete e
dalla aziende di fornitura di energia elettrica».
Stessa situazione in Veneto (dove non è richiesto però il
Pod) e in Lombardia: qui per gli impianti sotto i 5 kW si
segue la regola nazionale (nessun libretto) e così anche per
i condizionatori sotto i 12 kW (al contrario di ciò che
accade nel resto d’Italia). E dove, anziché indicare Pdr e
Pod, bisogna invece ricopiare il codice di targatura
rilasciato dall’installatore o dal manutentore al momento
del controllo dell’apparato (nel caso non sia ancora
assegnato, viene apposto dopo la prima verifica dei fumi).
Al contrario, in Piemonte, oltre ad Ape, Pod e Pdr, è
richiesta anche la misurazione dei valori di emissione degli
ossidi di azoto, i cosiddetti NOx. «Una prassi –prosegue Maj– non prevista dalla norma in materia, peraltro
recentemente aggiornata con le Uni 10389-1 del 2009 e che
comporta l’utilizzo di strumenti più sofisticati da parte
dei tecnici manutentori. Con l’aggravante che, laddove si
trovino valori di NOx superiori ai limiti imposti nella sola
regione Piemonte, non resta che sostituire l’apparecchio
visto che non è possibile intervenire sul generatore di
calore per ricondurre gli inquinanti sotto le soglie
stabilite».
Tutto, infine, si riflette nella pratica. Poniamo il caso di
una casa con un impianto composto da caldaia a gas con
produzione di acqua calda sanitaria (sotto i 35 kW); sistema
di condizionamento domestico (dual) split da 2 kW; caldaia a
pellet da 16 kW. Secondo la norma nazionale, il libretto è
unico, con una scheda per ciascuno dei tre sistemi. Ma in
Lombardia, dovranno essere predisposti due libretti (perché
per i condizionatori sotto una certa potenza non è richiesto
il libretto) mentre in Emilia Romagna e Veneto i libretti
dovranno essere tre (articolo Il Sole 24 Ore del
20.07.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Mobilità. Personale in «eccesso», tempi e criteri di
destinazione.
Entro il mese
di novembre, se il decreto della Funzione Pubblica sulla
mobilità del personale in sovrannumero sarà pubblicato in
Gazzetta ufficiale nel mese di luglio (cioè entro i 120
giorni successivi), i dipendenti intressati degli enti di
area vasta e della Croce Rossa, compresi i vigili (con
l’unica esclusione dei “provinciali” impegnati nelle
attività connesse al mercato dei lavoro), prenderanno
servizio nelle Pa di destinazione.
Nelle assegnazioni le amministrazioni riceventi non hanno
alcuno spazio di apprezzamento o valutazione: i criteri
dettati fanno riferimento esclusivamente a fattori che hanno
natura oggettiva, quali la residenza, l’età, la presenza di
condizioni di handicap, anche di familiari, le tipologie di
attività svolte. Questo potrà alimentare le perplessità, per
non dire ostilità, di molti Comuni. Le amministrazioni
riceventi si dovranno fare carico, attingendo dai fondi per
le assunzioni a tempo indeterminato, non solo del
trattamento economico fondamentale, ma anche di quello
accessorio in godimento per le voci che hanno natura fissa e
continuativa.
Nelle regioni che non daranno attuazione al riordino delle
funzioni delle Province si applica, comunque, il
collocamento in sovrannumero del personale degli enti di
area vasta e, se a statuto speciale, dovranno provvedere
all’assunzione diretta. Il personale degli enti di area
vasta, in caso di ritardi o inadempimenti, può direttamente
iscriversi negli elenchi di mobilità.
Sono queste le principali indicazioni dettate dalla proposta
di decreto della Funzione Pubblica.
Le finalità sono quelle
di mettere finalmente in moto il concreto passaggio dei
dipendenti delle province e delle città metropolitane a
Comuni, regioni, amministrazioni statali e, novità, enti del
servizio sanitario nazionale e i pubblici non economici
controllati da regioni e comuni. Nel contempo si vuole dare
una garanzia sul trattamento economico accessorio del
personale trasferito.
In assenza di una specifica previsione
di legge e di risorse disponibili da parte degli enti di
area vasta, non si prevede che i singoli dipendenti si
portino dietro tutto il trattamento in godimento, ma solo le
voci fisse e continuative, e si dispone che tali oneri siano
sostenuti dalle amministrazioni che li assumono con risorse
proprie, che sono tratte da quelle per le assunzioni e che
devono andare ad alimentare uno specifico fondo riservato.
In modo ambiguo si dispone anche il divieto di incrementare
i compensi di produttività, di risultato e le indennità
accessorie, voci che rimangono confermati negli importi in
godimento all’atto del trasferimento.
I tempi di attuazione sono rigidamente prefissati e
decorrono dalla data di pubblicazione del provvedimento in
Gazzetta ufficiale: entro 20 giorni province e città
metropolitane pubblicano sul portale della mobilità della
Funzione Pubblica l’elenco dei dipendenti in sovrannumero;
entro 40 giorni le regioni pubblicano le informazioni sul
personale degli enti di area vasta per i quali hanno
proceduto alla ricollocazione diretta; sempre entro 40
giorni tutte le Pa rendono noto l’elenco dei posti
disponibili, distinguendoli per categorie e per funzioni
(operazione da ripetere per il 2016 entro il mese di
gennaio); entro 60 giorni (ovvero entro febbraio per il
2016) la Funzione Pubblica indica i posti disponibili; entro
30 giorni da tale pubblicazione i dipendenti interessati
presentano le domande ed entro i 30 giorni successivi sono
assegnati alle singole Pa.
I criteri di assegnazione sono assai rigidi sia per
l’individuazione delle amministrazioni (che preferibilmente
sono della stessa provincia), sia del personale
(assegnazione agli stessi compiti), per le precedenza
(disabili, che assistono congiunti disabili, con figli di
età inferiore a 3 anni), che per le preferenze (situazione
di famiglia ed età) (articolo Il Sole 24 Ore del
20.07.2015). |
VARI:
Il dossier sanitario è blindato. Costituzione con
il consenso. Illeciti segnalati entro 48 h.
I contenuti delle linee guide varate dal Garante.
Interessate strutture pubbliche e private.
Stop al Far west dei dossier sanitari. Tanti e confusi,
senza procedure standard a garanzia della correttezza delle
informazioni, del loro aggiornamento e delle condizioni del
loro utilizzo.
L'argine è stato alzato dal garante della privacy con
apposite linee guida, approvate con la
deliberazione
04.06.2015 n. 331
(pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 164 del 17/7), che
richiede consenso informato, diritto di oscuramento, accesso
solo per il personale autorizzato, segnalazione delle
violazioni.
Molto spesso nella prassi si riscontrano veri e propri
illeciti: accessi abusivi; consultazione, estrazione, copia
delle informazioni sanitarie da parte di personale
amministrativo o personale medico che non era stato mai
coinvolto nel processo di cura del paziente e che per motivi
di interesse personale aveva acceduto allo stesso per poi
divulgare le informazioni così acquisite a terzi
all'insaputa dell'interessato.
Questo anche con riferimento a informazioni relative a
prestazioni sanitarie particolarmente delicate (affezioni da
Hiv, interruzione volontaria della gravidanza, parto in
anonimato).
La gestione del dossier sanitario deve, invece, essere
ispirata a criteri di correttezza e legittimità.
Ecco in sintesi i contenuti del provvedimento, che riguarda
le strutture sanitarie sia pubbliche sia private.
Che cos'è il dossier sanitario. Il dossier elettronico va
tenuto distinto dalla cartella clinica e dal Fascicolo
sanitario elettronico (Fse). Il dossier sanitario
elettronico è lo strumento costituito presso un'unica
struttura sanitaria (un ospedale, un'azienda sanitaria, una
casa di cura), che raccoglie informazioni sulla salute di un
paziente al fine di documentarne la storia clinica presso
quella singola struttura.
Si differenzia dal fascicolo sanitario elettronico in cui
invece confluisce l'intera storia clinica di una persona
generata da più strutture sanitarie. Il dossier è diverso
anche dalla cartella clinica, che è finalizzata a rilevare
tutte le informazioni su un paziente e a un singolo episodio
di ricovero.
Solo con il consenso. La prima prescrizione concerne il
consenso del paziente: all'interessato è consentito di
scegliere se far costituire o meno il dossier sanitario. Il
consenso al dossier, anche se manifestato unitamente a
quello previsto per il trattamento dei dati a fini di cura,
deve essere autonomo e specifico. In caso di incapacità di
agire dell'interessato deve essere acquisito il consenso di
chi esercita la potestà legale su di esso. In caso di
minori, raggiunta la maggiore età, deve essere acquisito, al
primo contatto utile, nuovamente il consenso informato
dell'interessato divenuto maggiorenne.
Una volta prestato il
consenso, il dossier sanitario sarà a disposizione da parte
di tutti gli operatori sanitari che, nel corso del tempo, lo
prenderanno in cura, senza che l'interessato debba
manifestare tale volontà ogni volta che accede per vari
motivi alla struttura sanitaria. Questo vale anche nel caso
del paziente che giunga al pronto soccorso in gravi
condizioni e non sia in grado di esprimere alcuna specifica
volontà. Inoltre una volta che l'interessato abbia
acconsentito al trattamento, il dossier sanitario potrà
essere consultato, se indispensabile per la salvaguardia
della salute di un terzo o della collettività, per esempio,
nei casi di rischio di insorgenza di patologie su soggetti
terzi a causa della condivisione di ambienti con
l'interessato
Se il paziente non acconsente ad aprire il dossier
sanitario, il professionista che lo prende in cura avrà a
disposizione solo le informazioni rese in quel momento dallo
stesso interessato (in sostanza anamnesi e documentazione
diagnostica consegnata) e quelle relative alle precedenti
prestazioni erogate dallo stesso professionista. Anche il
personale sanitario di reparto/ambulatorio, in mancanza di
dossier, avrà accesso solo alle informazioni relative
all'episodio per il quale l'interessato si è rivolto presso
quella struttura e alle altre informazioni relative alle
eventuali prestazioni sanitarie erogate in passato da quel
reparto/ambulatorio.
Il consenso è necessario anche per
l'inserimento delle informazioni relative a eventi sanitari
pregressi e il paziente può anche scegliere che le
informazioni sanitarie pregresse non siano trattate mediante
il dossier. La mancanza del consenso non deve, però,
incidere minimamente sulla possibilità di accedere alle cure
richieste.
Per poter inserire nel dossier informazioni particolarmente
delicate sarà necessario un consenso specifico: si tratta,
in particolare, dei dati ad atti di violenza sessuale o di
pedofilia, alle infezioni da Hiv o all'uso di sostanze
stupefacenti, di sostanze psicotrope e di alcool, interventi
di interruzione volontaria della gravidanza o parti in
anonimato e i servizi offerti dai consultori familiari. In
tali casi, l'interessato può richiedere che tali
informazioni siano consultabili solo da parte di alcuni
soggetti dallo stesso individuati (per esempio, solo dallo
specialista presso cui è in cura), fermo restando la
possibilità che agli stessi possano sempre accedere i
professionisti che li hanno elaborati.
Data breach. Eventuali violazioni di dati o incidenti
informatici relativi ai dossier sanitari dovranno essere
comunicati al garante, entro quarantotto ore dalla
conoscenza del fatto, attraverso un modulo reperibile
all'indirizzo databreach.dossier@pec.gpdp.it.
La mancata comunicazione al Garante delle suddette
violazioni o dei predetti incidenti informatici configura un
illecito amministrativo. Inoltre si prescrive che la
struttura individui una procedura per comunicare senza
ritardo al paziente le operazioni di trattamento illecito
effettuate dagli incaricati o da chiunque sui dati personali
trattati mediante il relativo dossier. Tale tempestiva
informazione, infatti, in termini generali, può consentire
all'interessato di minimizzare i rischi connessi alla
violazione subita.
---------------
Possibile oscurare alcuni dati.
La struttura sanitaria deve garantire al paziente
l'esercizio dei diritti riconosciuti dal Codice privacy
(accesso ai dati, integrazione, rettifica e la conoscenza
del reparto, della data e dell'orario in cui è avvenuta la
consultazione del suo dossier).
Al paziente dovrà essere garantita anche la possibilità di
oscurare alcuni dati o documenti sanitari che non intende
far confluire nel dossier.
D'altra parte è quello che accade nel rapporto
paziente-medico curante, nel quale il primo può addivenire a
una determinazione consapevole di non informare il secondo
di alcuni eventi sanitari che lo riguardano. Ciò, anche nel
rispetto della legittima volontà dell'interessato di
richiedere il parere di un altro specialista senza che
quest'ultimo possa essere influenzato da quanto già espresso
da un collega.
Si consideri, poi, che di per sé il dossier sanitario
costituisce uno strumento informativo incompleto.
Indipendentemente dalle ipotesi di oscuramento, infatti, il
dossier include solo le informazioni cliniche derivanti
dagli accessi del paziente nella struttura sanitaria che
utilizza il dossier e non anche quelle relative agli accessi
effettuati presso altre strutture pubbliche e private.
Per tutto questo la struttura sanitaria deve avvisare che i
dati potrebbero non essere completi, in quanto l'interessato
potrebbe aver esercitato il diritto di oscuramento.
Il garante evidenzia che i dossier sanitari non certificano
lo stato di salute dei pazienti, in quanto consistono in
strumenti che possono aiutare il clinico a inquadrare meglio
e più rapidamente lo stato di salute di questi, ma è
diritto/dovere del medico effettuare gli accertamenti che
riterrà più opportuni.
L'oscuramento dell'evento clinico (revocabile nel tempo)
deve avvenire con modalità tali da garantire che i soggetti
abilitati all'accesso non possano venire automaticamente a
conoscenza del fatto che l'interessato ha effettuato tale
scelta (oscuramento dell'oscuramento).
I dati oscurati restano comunque disponibili al
professionista sanitario o alla struttura interna al
titolare che li ha raccolti o elaborati (per esempio,
referto accessibile tramite dossier da parte del
professionista, che lo ha redatto, cartella clinica
accessibile da parte del reparto di ricovero).
Le strutture sanitarie confidano, in ogni caso, che ci siano
pochi oscuramenti: secondo quanto riportato dagli operatori
di settore, laddove agli interessati sia stato ben
illustrato sia l'esercizio di tale diritto che le
implicazioni mediche di tale scelta la percentuale di
oscuramento, come quella di negazione del consenso al
dossier, è risultata essere minore dell'1%.
--------------
Accesso limitato al personale coinvolto.
L'accesso al dossier sarà consentito solo al personale
sanitario coinvolto nella cura. Ogni accesso e ogni
operazione effettuata, anche la semplice consultazione,
saranno tracciati e registrati automaticamente in appositi
file di log che la struttura dovrà conservare per almeno 24
mesi. In tale quadro, le strutture sanitarie dovranno
fornire all'interessato un riscontro alla richiesta di
conoscere gli accessi eseguiti sul proprio dossier con
l'indicazione della struttura/reparto che ha effettuato
l'accesso, e anche della data e dell'ora dello stesso. Il
titolare del trattamento o un suo delegato deve fornire
riscontro alla richiesta di accesso dell'interessato entro
15 giorni dal suo ricevimento.
Se le operazioni necessarie per un integrale riscontro alla
richiesta sono di particolare complessità, oppure ricorre
altro giustificato motivo, il titolare o un suo delegato ne
danno comunicazione all'interessato e in tal caso, il
termine per l'integrale riscontro è di trenta giorni dal
ricevimento della richiesta. Sono esclusi dall'accesso alle
informazioni contenute del dossier periti, compagnie di
assicurazione, datori di lavoro, associazioni o
organizzazioni scientifiche, organismi amministrativi anche
operanti in ambito sanitario, e anche il personale medico
nell'esercizio di attività medico-legale (per esempio visite
per l'accertamento dell'idoneità lavorativa o per il
rilascio di certificazioni necessarie al conferimento di
permessi o abilitazioni).
L'insieme delle informazioni sanitarie trattate mediante il
dossier sanitario costituisce una banca dati di
significativo rilievo non solo clinico ma anche economico.
Al fine di scongiurare il rischio di un accesso da parte di
soggetti non autorizzati o di comunicazione a terzi da parte
di soggetti a ciò abilitati, è necessario, pertanto, che la
struttura sanitaria ponga attenzione nell'individuazione dei
profili di autorizzazione e nella formazione dei soggetti
abilitati
(articolo ItaliaOggi Sette del 20.07.2015). |
GIURISPRUDENZA |
PATRIMONIO: Incidenti. Velocità.
Il limite basso non scagiona il gestore della strada.
La III Sez. civile della
Corte di Cassazione “demolisce” una certezza dei
gestori di strade e della giurisprudenza: il fatto che su un
tratto poco sicuro basti fissare un limite di velocità
bassissimo per scaricarsi da ogni responsabilità in caso
d’incidente.
La
sentenza 28.07.2015 n. 15859, depositata ieri a
chiusura di un giudizio iniziato nel 1992, ha ritenuto
legittima l’interpretazione della Corte di appello di
Catanzaro, che aveva affermato la responsabilità dell’Anas
per la caduta di un’auto lungo una scarpata, nonostante il
conducente avesse superato il limite di 30 km/h.
In sostanza, la Cassazione non ha riscontrato alcun vizio di
motivazione nella sentenza di appello, che aveva considerato
sia la velocità sia il limite, ma aveva ritenuto che la
responsabilità del sinistro fosse interamente del gestore.
Un convincimento dettato dalla presenza sull’asfalto di
acqua e fango in gran quantità (dovuta a una fontana
evidentemente fuori controllo) e dall’assenza sia di un
segnale di pericolo sia di un guard-rail.
A protezione del
bordo della carreggiata verso la scarpata c’era solo un
terrapieno, che secondo i giudici avrebbe ceduto anche solo
con l’impatto a velocità moderata da parte di un veicolo
leggero come un’auto (articolo Il Sole 24 Ore del
29.07.2015). |
ATTI AMMINISTRATIVI: In
presenza di atto plurimotivato anche la legittimità di una
delle motivazioni è da sola idonea a sorreggerlo, con la
conseguenza che alcun rilievo avrebbero le ulteriori censure
volte a contestare gli ulteriori profili motivazionali (è
stato affermato: - “Per un atto c.d. "plurimotivato", anche
l'eventuale fondatezza di una delle argomentazioni addotte
non potrebbe in ogni caso condurre all'annullamento
dell'impugnato provvedimento sindacale, che rimarrebbe
sorretto dal primo versante motivazionale risultato immune
ai vizi lamentati"; - “Nel caso di provvedimento di
esclusione da una gara d'appalto "plurimotivato", la
riconosciuta legittimità di una delle ragioni dell'atto è
sufficiente a reggere il provvedimento di estromissione”; -
“Nel caso in cui il provvedimento impugnato sia fondato su
di una pluralità di autonomi motivi (c.d. provvedimento
plurimotivato), il rigetto della doglianza volta a
contestare una delle sue ragioni giustificatrici comporta la
carenza di interesse della parte ricorrente all'esame delle
ulteriori doglianze volte a contestare le altre ragioni
giustificatrici atteso che, seppure tali ulteriori censure
si rivelassero fondate, il loro accoglimento non sarebbe
comunque idoneo a soddisfare l'interesse del ricorrente ad
ottenere l'annullamento del provvedimento impugnato, che
resterebbe supportato dall'autonomo motivo riconosciuto
sussistente”).
11.1 Ciò posto va prioritariamente chiarito che nell’ipotesi
di specie si è in presenza di un atto plurimotivato, essendo
il provvedimento di diniego, da intendersi altresì motivato
per relationem con rinvio alla richiamata nota di
comunicazione di avvio del procedimento e di comunicazione
dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza, motivato
sotto il duplice rilievo dell’insanabilità delle opere sub
condono ex lege 326/2003, da qualificarsi quale opere di
nuova costruzione, in quanto contrarie alla normativa
urbanistico edilizia e realizzate in zona sottoposta a
vincolo paesaggistico ai sensi dell’art. 32, commi 26 e 27, l.
326/2003, nonché per carenza documentale.
11.1.1. Pertanto alcun interesse allo scrutinio del primo
motivo di ricorso –relativo alla parte motivazionale
relativa alla carenza documentale– può vantare parte
ricorrente, essendo il provvedimento adeguatamente motivato,
alla stregua di quanto di seguito precisato, anche in
relazione al solo profilo della non condonabilità delle
opere in quanto ricadenti in zona sottoposta a vincolo
paesaggistico e contrarie alla normativa urbanistica
edilizia alla luce delle previsioni ostative di cui ai commi
26 e 27 della l. 326/2003.
11.1.2 Infatti alla luce del costante orientamento
giurisprudenziale, condiviso della Sezione, in presenza di
atto plurimotivato anche la legittimità di una delle
motivazioni è da sola idonea a sorreggerlo, con la
conseguenza che alcun rilievo avrebbero le ulteriori censure
volte a contestare gli ulteriori profili motivazionali
(giurisprudenza costante, cfr. TAR Campania Salerno, sez. II, 17.01.2011, n. 63 secondo cui “Per un atto c.d. "plurimotivato",
anche l'eventuale fondatezza di una delle argomentazioni
addotte non potrebbe in ogni caso condurre all'annullamento
dell'impugnato provvedimento sindacale, che rimarrebbe
sorretto dal primo versante motivazionale risultato immune
ai vizi lamentati"; TAR Campania Napoli, sez. VIII, 14.01.2011, n. 139 secondo cui “Nel caso di provvedimento
di esclusione da una gara d'appalto "plurimotivato", la
riconosciuta legittimità di una delle ragioni dell'atto è
sufficiente a reggere il provvedimento di estromissione”;
TAR Campania Napoli, sez. VII, 14.01.2011, n. 164
secondo cui “Nel caso in cui il provvedimento impugnato sia
fondato su di una pluralità di autonomi motivi (c.d.
provvedimento plurimotivato), il rigetto della doglianza
volta a contestare una delle sue ragioni giustificatrici
comporta la carenza di interesse della parte ricorrente
all'esame delle ulteriori doglianze volte a contestare le
altre ragioni giustificatrici atteso che, seppure tali
ulteriori censure si rivelassero fondate, il loro
accoglimento non sarebbe comunque idoneo a soddisfare
l'interesse del ricorrente ad ottenere l'annullamento del
provvedimento impugnato, che resterebbe supportato
dall'autonomo motivo riconosciuto sussistente”).
12. Con
riguardo al terzo motivo di ricorso vi è poi da evidenziare
come la mancata indicazione, nella nota di comunicazione dei
motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza, della carenza
documentale indicata invece nel provvedimento di diniego di
condono, sia parimenti del tutto irrilevante, essendo, come
detto, il provvedimento correttamente ed esaurientemente
motivato in relazione all’ulteriore profilo motivazionale,
idoneo da solo a sorreggerlo, ovvero la non condonabilità
delle opere per contrarietà alla normativa urbanistica ed
edilizia, profilo per contro evidenziato nella nota di
comunicazione dei motivi ostativi, nella quale si faceva
altresì presente che le opere sub condono erano da
qualificarsi quale opere di nuova costruzione
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 28.07.2015 n. 3971 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA:
La dedotta censura di violazione del disposto
dell’art. 10-bis l. 241/1990 non potrebbe in ogni caso
condurre all’annullamento dell’atto, vertendosi in tema di
attività vincolata per cui ben può farsi applicazione del
disposto sanante di cui all’art. 21-octies, comma 2, prima
parte l. 241/1990, secondo il quale “Non è annullabile il
provvedimento adottato in violazione di norme sul
procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura
vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto
dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in
concreto adottato”.
Ed invero, come evincibile claris verbis dal disposto de
quo, lo stesso è applicabile in relazione a tutti i vizi
formali e procedimentali nell’ipotesi in cui si verta in
tema di attività vincolata e sia palese che il contenuto del
provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in
concreto adottato e pertanto anche al vizio di omessa
comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento
dell’istanza (giurisprudenza costante: - “Nell’ipotesi in
cui l’impugnato provvedimento si manifesta a contenuto
vincolato ne consegue automaticamente il superamento della
dedotta omissione del preavviso di rigetto ex art. 10-bis
della L. n. 241/1990, trovando applicazione l'art. 21-octies
della medesima fonte normativa posto che, trattandosi di
attività doverosa e vincolata, il contenuto dell'atto non
avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto
stabilito”; - “Nel procedimento di accertamento di
conformità ex art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001 (in passato,
art. 13, l. n. 47 del 1985), non è necessaria l'acquisizione
del parere della Commissione edilizia, quando, come nella
fattispecie, non si debba procedere a valutazioni tecniche,
ma occorra l'effettuazione solo di valutazioni di natura
giuridica, e altresì il vizio connesso alla mancata previa
comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento
dell'istanza di sanatoria (dovuta in applicazione dell'art.
10-bis, l. n. 241 del 1990) risulta superabile ai sensi
dell'art. 21-octies, l. n. 241 del 1990, posto che,
trattandosi di attività doverosa e vincolata, il contenuto
dell'atto non avrebbe potuto essere diverso da quello in
concreto stabilito”).
Infatti è la seconda parte dell’indicato comma 2 dell’art.
21-octies l. 241/1990, secondo la quale “Il provvedimento
amministrativo non è comunque annullabile per mancata
comunicazione dell'avvio del procedimento qualora
l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del
provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in
concreto adottato” che ha un ambito di applicazione diverso,
per un verso più ampio, in quanto riferito anche agli atti
discrezionali, e per altro verso più ristretto in quanto
riferito alla sola omissione della comunicazione di avvio
del procedimento ed al ricorrere del presupposto che
l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del
provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in
concreto adottato (è stato affermato: “L'art. 21-octies, l.
n. 141 del 07.08.1990 (in base al quale il provvedimento
amministrativo non è comunque annullabile per mancata
comunicazione di avvio del procedimento, qualora
l'amministrazione dimostri in giudizio che suo contenuto
dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in
concreto adottato) non trova applicazione solo in caso di
attività amministrativa di carattere vincolato, atteso che
la sua formulazione risulta riferibile anche alle ipotesi di
attività di tipo discrezionale”).
12. Con
riguardo al terzo motivo di ricorso vi è poi da evidenziare
come la mancata indicazione, nella nota di comunicazione dei
motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza, della carenza
documentale indicata invece nel provvedimento di diniego di
condono, sia parimenti del tutto irrilevante, essendo, come
detto, il provvedimento correttamente ed esaurientemente
motivato in relazione all’ulteriore profilo motivazionale,
idoneo da solo a sorreggerlo, ovvero la non condonabilità
delle opere per contrarietà alla normativa urbanistica ed
edilizia, profilo per contro evidenziato nella nota di
comunicazione dei motivi ostativi, nella quale si faceva
altresì presente che le opere sub condono erano da
qualificarsi quale opere di nuova costruzione.
12.1. Peraltro a prescindere da tali rilievi, vi è da
evidenziare che la dedotta censura di violazione del
disposto dell’art. 10-bis l. 241/1990 non potrebbe in ogni
caso condurre all’annullamento dell’atto, vertendosi in tema
di attività vincolata per cui ben può farsi applicazione del
disposto sanante di cui all’art. 21-octies, comma 2, prima
parte l. 241/1990, secondo il quale “Non è annullabile il
provvedimento adottato in violazione di norme sul
procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura
vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto
dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in
concreto adottato”.
Ed invero, come evincibile claris verbis
dal disposto de quo, lo stesso è applicabile in relazione a
tutti i vizi formali e procedimentali nell’ipotesi in cui si
verta in tema di attività vincolata e sia palese che il
contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere
diverso da quello in concreto adottato e pertanto anche al
vizio di omessa comunicazione dei motivi ostativi
all’accoglimento dell’istanza (giurisprudenza costante: ex multis TAR Emilia Romagna-Parma sez. I, 16/04/2014, n.
97 secondo cui “Nell’ipotesi in cui l’impugnato
provvedimento si manifesta a contenuto vincolato ne consegue
automaticamente il superamento della dedotta omissione del
preavviso di rigetto ex art. 10-bis della L. n. 241/1990,
trovando applicazione l'art. 21-octies della medesima fonte
normativa posto che, trattandosi di attività doverosa e
vincolata, il contenuto dell'atto non avrebbe potuto essere
diverso da quello in concreto stabilito”; in senso analogo
TAR Campania Napoli sez. VII, 06/09/2012 n. 3775 cit.
secondo il cui “Nel procedimento di accertamento di
conformità ex art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001 (in passato,
art. 13, l. n. 47 del 1985), non è necessaria l'acquisizione
del parere della Commissione edilizia, quando, come nella
fattispecie, non si debba procedere a valutazioni tecniche,
ma occorra l'effettuazione solo di valutazioni di natura
giuridica, e altresì il vizio connesso alla mancata previa
comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento
dell'istanza di sanatoria (dovuta in applicazione dell'art.
10-bis, l. n. 241 del 1990) risulta superabile ai sensi
dell'art. 21-octies, l. n. 241 del 1990, posto che,
trattandosi di attività doverosa e vincolata, il contenuto
dell'atto non avrebbe potuto essere diverso da quello in
concreto stabilito”).
Infatti è la seconda parte
dell’indicato comma 2 dell’art. 21-octies l. 241/1990, secondo
la quale “Il provvedimento amministrativo non è comunque
annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del
procedimento qualora l'amministrazione dimostri in giudizio
che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere
diverso da quello in concreto adottato” che ha un ambito di
applicazione diverso, per un verso più ampio, in quanto
riferito anche agli atti discrezionali, e per altro verso
più ristretto in quanto riferito alla sola omissione della
comunicazione di avvio del procedimento ed al ricorrere del
presupposto che l'amministrazione dimostri in giudizio che
il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere
diverso da quello in concreto adottato (cfr. TAR Sardegna
Cagliari sez. I, 27/11/2012 n. 1015 secondo cui “L'art. 21-octies, l. n. 141 del
07.08.1990 (in base al quale il
provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per
mancata comunicazione di avvio del procedimento, qualora
l'amministrazione dimostri in giudizio che suo contenuto
dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in
concreto adottato) non trova applicazione solo in caso di
attività amministrativa di carattere vincolato, atteso che
la sua formulazione risulta riferibile anche alle ipotesi di
attività di tipo discrezionale”)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 28.07.2015 n. 3971 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Circa
la fattispecie del lottizzante che si rifiuta di cedere al
comune le opere di urbanizzazione realizzate e già
collaudate.
La controversia rientra nella giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo ai sensi dell’art. 133, comma 1,
lett. a), n. 2, e lett. f), cod. proc. amm. perché riguarda
l'esecuzione di obbligazioni derivanti da una convenzione
urbanistica che rientra tra gli accordi sostitutivi di
provvedimenti amministrativi ai sensi dell’art. 11 della
legge n. 07.08.1990, n. 241, in materia urbanistica.
---------------
L’art. 2932 c.c., primo comma, prevede infatti che "se colui
che è obbligato a concludere un contratto non adempie
l'obbligazione, l'altra parte, qualora sia possibile e non
sia escluso dal titolo, può ottenere una sentenza che
produca gli effetti del contratto non concluso" e, al
secondo comma, dispone che, se ove come nella specie il
contratto abbia "per oggetto il trasferimento della
proprietà di una cosa determinata", "la domanda non può
essere accolta, se la parte che l'ha proposta non esegue la
sua prestazione o non ne fa offerta nei modi di legge, a
meno che la prestazione non sia ancora esigibile".
La convenuta non ha adempiuto all’obbligo di trasferimento
delle aree previsto dalla convenzione e la giurisprudenza ha
chiarito che “il rimedio previsto dall’art. 2932 c.c. al
fine di ottenere l’esecuzione specifica dell’obbligo di
concludere un contratto, deve ritenersi applicabile non solo
nelle ipotesi di contratto preliminare non seguito da quello
definitivo, ma anche in qualsiasi altra ipotesi dalla quale
sorga l’obbligazione di prestare il consenso per il
trasferimento o la costituzione di un diritto, sia in
relazione ad un negozio unilaterale, sia in relazione ad un
atto o ad un fatto dai quali detto obbligo possa sorgere ex
lege”.
...per l’accertamento dell’inadempimento agli obblighi
previsti dalla convenzione urbanistica intercorsa tra il
Comune di Castelgomberto e la ditta Grandangolo Immobiliare
S.r.l. relativa al piano di lottizzazione Tezzon nel Comune
di Castelgomberto e la condanna all’esecuzione in forma
specifica della predetta convenzione mediante il
trasferimento dei mappali nn. 563, 564, 565, 566, 568, 569,
571, 573, 585, 587, 658, 668, 671, 679, 681, 684, 715, 716,
717, 718, 719, 720, 721, 723, 724, 725, 726, 728, 729, 730,
731, 732, 733, 734, 735, 738.
...
Con il ricorso in epigrafe il Comune di Castelgomberto ha
convenuto avanti questo Tribunale la Società Grandangolo
Immobiliare.
Il Comune espone di aver stipulato in data 28.07.2003,
avanti il notaio dott. V.G., una convenzione
urbanistica relativa al piano di lottizzazione “Tezzon”, il
cui art. 5 prevede l’obbligo per la ditta lottizzante, i
suoi successori ed aventi causa, di trasferire al Comune a
propria cura e spese entro sei mesi dal collaudo finale, le
aree relative a sedi stradali, marciapiedi, piazze,
parcheggi pubblici, verde, ed altre eventuali aree destinate
a standard.
Acquisiti i titoli edilizi e realizzate le opere di
urbanizzazione, la convenuta in data 23.02.2006, ne ha
chiesto il collaudo, accompagnando la richiesta, così come
previsto dall’art. 7, punto 11, della convenzione, con una
planimetria che evidenzia le aree da cedere, e con la Tavola
n. 3, che reca l’elenco analitico dei relativi mappali.
Il collaudo è stato eseguito in data 14.06.2006, ma la
Società convenuta non si è presentata avanti il notaio per
la stipula del rogito né in data 17.07.2014, né in data
27.11.2014, e in entrambi i casi non ha proposto una data
alternativa.
Ciò premesso, il Comune chiede l’accertamento
dell’inadempimento e il trasferimento delle aree ai sensi
dell’art. 2932 c.c..
La convenuta Grandangolo Immobiliare Srl non si è costituita
in giudizio.
Alla pubblica udienza del 25.06.2015, la causa è stata
trattenuta in decisione.
Il ricorso è fondato e deve essere accolto.
La controversia rientra nella giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo ai sensi dell’art. 133, comma 1,
lett. a), n. 2, e lett. f), cod. proc. amm. perché riguarda
l'esecuzione di obbligazioni derivanti da una convenzione
urbanistica che rientra tra gli accordi sostitutivi di
provvedimenti amministrativi ai sensi dell’art. 11 della
legge n. 07.08.1990, n. 241, in materia urbanistica (ex
pluribus cfr. Consiglio di Stato, Ad. Plen. 20.07.2012,
n. 28; Tar Lombardia, Brescia, Sez. I, 26.03.2014, n. 298;
Tar Marche, 24.05.2013, n. 388; Tar Veneto, Sez. II,
25.01.2012, n. 33; Tar Veneto, Sez. II, 13.07.2011, n.
1219).
Nel merito ricorrono i presupposti per l’accoglimento della
domanda.
L’art. 2932 c.c., primo comma, prevede infatti che "se
colui che è obbligato a concludere un contratto non adempie
l'obbligazione, l'altra parte, qualora sia possibile e non
sia escluso dal titolo, può ottenere una sentenza che
produca gli effetti del contratto non concluso" e, al
secondo comma, dispone che, se ove come nella specie il
contratto abbia "per oggetto il trasferimento della
proprietà di una cosa determinata", "la domanda non
può essere accolta, se la parte che l'ha proposta non esegue
la sua prestazione o non ne fa offerta nei modi di legge, a
meno che la prestazione non sia ancora esigibile".
La convenuta non ha adempiuto all’obbligo di trasferimento
delle aree previsto dalla convenzione e la giurisprudenza ha
chiarito (cfr. Cass. civ., Sez. II, 30.03.2012, n. 5160) che
“il rimedio previsto dall’art. 2932 c.c. al fine di
ottenere l’esecuzione specifica dell’obbligo di concludere
un contratto, deve ritenersi applicabile non solo nelle
ipotesi di contratto preliminare non seguito da quello
definitivo, ma anche in qualsiasi altra ipotesi dalla quale
sorga l’obbligazione di prestare il consenso per il
trasferimento o la costituzione di un diritto, sia in
relazione ad un negozio unilaterale, sia in relazione ad un
atto o ad un fatto dai quali detto obbligo possa sorgere ex
lege”.
Nel caso di specie il Comune ha dedotto l'inadempimento
della convenuta all'obbligazione di trasferimento prevista
dalla convenzione, rispetto alla quale, trattandosi di
un’obbligazione contrattuale, l’inadempimento deve essere
semplicemente allegato, e non emerge alcuna circostanza
ostativa all’accoglimento della domanda, dato che il Comune
risulta aver assolto agli obblighi a suo carico previsti
dalla convenzione e dal punto di vista istruttorio vi è
l’analitica identificazione dei mappali da trasferire ad
opera della documentazione formata dalla stessa convenuta al
fine di ottenere il collaudo delle opere.
Pertanto sussistono tutte le condizioni per accogliere la
domanda del Comune nei termini specificati nel dispositivo.
Le spese di giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate
nella misura liquidata in dispositivo.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto (Sezione
Seconda) definitivamente pronunciando sul ricorso, come in
epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto:
a) accerta, in favore del Comune di Castelgomberto ed a
carico della convenuta Grandangolo Immobiliare Srl,
l'inadempimento dell'obbligo di trasferimento delle aree
relative a sedi stradali, marciapiedi, piazze, parcheggi
pubblici, verde, ed altre destinate a standard, previsto
dalla convenzione urbanistica stipulata il 28.07.2003, rep.
35269, del notaio Guglielmi, relativa al piano di
lottizzazione “Tezzon”;
b) dispone, ai sensi dell'art. 2932 c.c., il trasferimento
dalla convenuta Grandangolo Immobiliare Srl (P. IVA
.....) con sede in ....... n. 2, al ricorrente Comune di Castelgomberto (P. IVA
00185650249) con sede a Castelgomberto, Piazza Marconi n. 1,
delle aree individuate dalle singole particelle del Catasto
terreni del Comune di Castelgomberto, foglio 1, di seguito
precisate: mappali nn. 563, 564, 565, 566, 568, 569, 571,
573, 585, 587, 658, 668, 671, 679, 681, 684, 715, 716, 717,
718, 719, 720, 721, 723, 724, 725, 726, 728, 729, 730, 731,
732, 733, 734, 735, 738;
c) ordina al competente Conservatore dei registri
immobiliari di procedere alle relative trascrizioni, con
esonero da ogni sua responsabilità al riguardo;
d) condanna la convenuta alla refusione delle spese di
giudizio, liquidandole in € 5.000,00, a titolo di compensi e
spese
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 24.07.2015 n. 875 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Illegittimo
qualificare i manufatti leggeri come interventi di nuova
costruzione.
È illegittima la norma del TU Edilizia,
rimasta in vigore per soli otto mesi e adesso modificata,
che considerava quali “interventi di nuova costruzione”
l’installazione di “manufatti leggeri, anche prefabbricati,
e di strutture di qualsiasi genere” che non fossero diretti
a soddisfare esigenze meramente temporanee “ancorché siano
installati, con temporaneo ancoraggio al suolo, all'interno
di strutture ricettive all'aperto”.
Parimenti illegittima la norma che prevede che una quota dei
proventi derivanti dalla dismissione dell'originario
patrimonio immobiliare disponibile degli enti territoriali
venga destinato al Fondo per l'ammortamento dei titoli di
Stato.
La Corte Costituzionale è intervenuta, su ricorso promosso
dalla Regione Veneto, per dichiarare l’illegittima della
norma del TU Edilizia (DPR n. 380/2001) che considerava
quali “interventi di nuova costruzione”
l’installazione di “manufatti leggeri, anche
prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere” che
non fossero diretti a soddisfare esigenze meramente
temporanee “ancorché siano installati, con temporaneo
ancoraggio al suolo, all'interno di strutture ricettive
all'aperto”.
Nella specie, la norma illegittima è l’art. 41, comma 4, del
D.L. n. 69/2013 che aveva modificato l’art. 3, comma 1,
lettera e.5), del TU Edilizia: tale previsione è rimasta in
vigore per circa otto mesi (dal 21.08.2013 al 27.05.2014),
dato che il c.d. “Decreto casa” (segnatamente, l’art.
10-ter, del D.L. n. 47/2014) ha sostituito la parola “ancorché”
con le parole “e salvo che”.
La norma impugnata si inserisce nell’ambito della disciplina
urbanistico-edilizia, dettata dal legislatore statale
all’art. 3 (L) del D.P.R. n. 380/2001, in tema di
realizzazione di strutture mobili configurate come “interventi
di nuova costruzione”, per le quali è necessario lo
specifico titolo abilitativo costituito dal permesso di
costruire.
La Corte Costituzionale ha già avuto occasione di osservare
che tale disciplina deve essere ricondotta alla materia del
“governo del territorio” e, in merito, ha dichiarato
l’illegittimità costituzionale di una norma statale che
escludeva che le installazioni ed i rimessaggi di mezzi
mobili di pernottamento (campers, roulottes, case mobili ed
altro), anche se collocati permanentemente, per l’esercizio
dell’attività, entro il perimetro di strutture
turistico-ricettive regolarmente autorizzate, fossero
attività rilevanti sul piano urbanistico ed edilizio,
escludendo la necessità di conseguire apposito titolo
abilitativo per la loro realizzazione, in considerazione del
mero dato della precarietà strutturale del manufatto.
La Consulta in tal modo richiamava il legislatore statale
che aveva dettato una disciplina puntuale inerente a
specifiche tipologie di interventi edilizi realizzati in
contesti ben definiti e circoscritti, senza lasciare alcuno
spazio al legislatore regionale, competente per la normativa
di dettaglio.
La norma dichiarata illegittima con la
sentenza
24.07.2015 n. 189
presenta analoghi vizi di illegittimità costituzionale,
laddove nel ricomprendere nella nozione di “interventi di
nuova costruzione” l’installazione di manufatti leggeri
anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere
(etc.):
- ha esteso, con norma di dettaglio, l’ambito oggettivo
degli “interventi di nuova costruzione”, per i quali
è richiesto il permesso di costruire;
- ha individuato specifiche tipologie di interventi edilizi,
realizzati nell’ambito delle strutture turistico-ricettive
all’aperto, molto peculiari, che peraltro contraddicono i
criteri generali (della trasformazione permanente del
territorio e della precarietà strutturale e funzionale degli
interventi) forniti, dallo stesso legislatore statale, ai
fini dell’identificazione della necessità o meno del titolo
abilitativo.
In tal modo, l’art. 41, comma 4, del D.L. n. 69/2013 ha
sottratto al legislatore regionale ogni spazio di
intervento, determinando la compressione della sua
competenza concorrente in materia di governo del territorio,
nonché la lesione della competenza residuale del medesimo in
materia di turismo, strettamente connessa, nel caso di
specie, alla prima.
Parimenti, la Consulta ha dichiarato illegittima la norma
che prevede che una quota dei proventi derivanti dalla
dismissione dell'originario patrimonio immobiliare
disponibile degli enti territoriali venga destinato al Fondo
per l'ammortamento dei titoli di Stato.
Nel dettaglio, la norma in questione è l’art. 56-bis, comma
11, del D.L. n. 69/2013 (c.d. “decreto del fare”),
nella parte in cui impone un vincolo di destinazione a
favore del Fondo per l’ammortamento dei titoli di Stato
sulla quota del 10% delle risorse derivanti dall’alienazione
dell’originario patrimonio immobiliare disponibile delle
Regioni.
La norma colpita dalla declaratoria di illegittimità dei
giudici costituzionali si colloca nel quadro delle recenti
misure adottate dal legislatore statale volte alla riduzione
del debito pubblico, al fine precipuo di fronteggiare, in
termini dichiaratamente derogatori e straordinari, l’«eccezionalità
della situazione economica» e, appunto, le «esigenze
prioritarie di riduzione del debito pubblico» (art.
56-bis, comma 11, primo periodo, del D.L. n. 69/2013).
Tale norma ha fissato un vincolo puntuale ed esaustivo al
fine di perseguire gli obiettivi di finanza pubblica,
imponendo agli enti territoriali di destinare una quota dei
proventi derivanti dalla dismissione di loro beni alla
riduzione del debito pubblico dello Stato, con ciò ledendo i
parametri evocati.
La pronuncia conferma l’orientamento della Corte
Costituzionale segnato con la sentenza n. 63/2013), con la
quale ha ritenuto che la previsione statale dell’obbligo di
destinazione delle risorse derivanti dalle operazioni di
dismissione di terreni demaniali agricoli e a vocazione
agricola dello Stato, delle Regioni e degli altri enti
territoriali alla riduzione del proprio debito, sia
espressiva, oltre che «del perseguimento di un obiettivo
di interesse generale in un quadro di necessario concorso
anche delle autonomie al risanamento della finanza
pubblica», di un «principio fondamentale nella materia, di
competenza concorrente, del coordinamento della finanza
pubblica», come tale non invasivo delle attribuzioni
della Regione nella materia stessa, in quanto proporzionato
al fine perseguito.
Sempre nella stessa sentenza n. 63/2013, la Consulta ha
dichiarato l’illegittimità costituzionale di una
disposizione statale che prescriveva agli enti territoriali,
in assenza di debito o per la parte eventualmente eccedente,
di destinare le risorse derivanti dalle operazioni di
dismissione dei terreni demaniali agricoli e a vocazione
agricola al Fondo per l’ammortamento dei titoli di Stato.
E ciò sulla base del rilievo che detta previsione, “non
essendo finalizzata ad assicurare l’esigenza del risanamento
del debito degli enti territoriali e, quindi, non essendo
correlata alla realizzazione del ricordato principio
fondamentale, si risolve in una indebita ingerenza
nell’autonomia della Regione”.
Tale norma determinava “una indebita appropriazione da
parte dello Stato di risorse appartenenti agli enti
territoriali, in quanto realizzate attraverso la dismissione
di beni di loro proprietà e, con ciò, sottrae ad essi il
potere di utilizzazione dei propri mezzi finanziari, che fa
parte integrante di detta autonomia finanziaria, funzionale
all’assolvimento dei compiti istituzionali che gli enti
territoriali sono chiamati a svolgere […] con conseguente
violazione degli articoli 117, terzo comma, e 119 Cost.”.
Conclusioni richiamate e condivise dalla Consulta anche
nella sentenza n. 189/2015, dato che anche l’art. 56-bis,
comma 11, del “decreto del fare”, nella parte in cui
impone un vincolo di destinazione a favore del Fondo è,
infatti, volto a destinare le risorse derivanti da
operazioni di dismissione di beni degli enti territoriali
alla riduzione del debito pubblico di pertinenza, e, in
assenza del debito o per la parte eventualmente eccedente il
debito degli enti medesimi, al Fondo per l’ammortamento dei
titoli di Stato.
Tale norma, inoltre, non soddisfa alcuna delle condizioni
ripetutamente poste dalla giurisprudenza di questa Corte in
ordine all’individuazione dei princípi di coordinamento
della finanza pubblica (27.07.2015 - tratto da
www.ipsoa.it).
---------------
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 18,
comma 9, 41, comma 4, e 56-bis, comma 11, del decreto-legge
21.06.2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio
dell’economia), convertito, con modificazioni, dall’art. 1,
comma 1, della legge 09.08.2013, n. 98, promosso dalla
Regione Veneto con ricorso notificato il 19.10.2013,
depositato in cancelleria il 29.10.2013 ed iscritto al n. 98
del registro ricorsi 2013.
...
3.2.– Nel merito, la questione è fondata.
La norma impugnata si inserisce nell’ambito della disciplina
urbanistico-edilizia, dettata dal legislatore statale
all’art. 3 (L) del d.P.R. n. 380 del 2001, in tema di
realizzazione di strutture mobili configurate come «interventi
di nuova costruzione», in quanto tali subordinati al
conseguimento di specifico titolo abilitativo costituito dal
permesso di costruire.
Con riferimento a tale disciplina questa Corte ha già avuto
occasione di osservare che essa, la quale deve essere
ricondotta alla materia del «governo del territorio»
di cui al terzo comma dell’art. 117 Cost., «sancisce il
principio per cui ogni trasformazione permanente del
territorio necessita di titolo abilitativo e ciò anche ove
si tratti di strutture mobili allorché esse non abbiano
carattere precario» (sentenza n. 278 del 2010).
Quanto a quest’ultimo si è, poi, precisato che «[i]l
discrimine tra necessità o meno di titolo abilitativo è dato
dal duplice elemento: precarietà oggettiva
dell’intervento, in base alle tipologie dei materiali
utilizzati, e precarietà funzionale, in quanto
caratterizzata dalla temporaneità dello stesso»
(sentenza n. 278 del 2010).
Su tali premesse, è stata allora dichiarata l’illegittimità
costituzionale di una norma statale che escludeva che le
installazioni ed i rimessaggi di mezzi mobili di
pernottamento (campers, roulottes, case mobili ed altro),
anche se collocati permanentemente, per l’esercizio
dell’attività, entro il perimetro di strutture
turistico-ricettive regolarmente autorizzate, fossero
attività rilevanti sul piano urbanistico ed edilizio,
escludendo la necessità di conseguire apposito titolo
abilitativo per la loro realizzazione, in considerazione del
mero dato della precarietà strutturale del manufatto.
Così disponendo, infatti, il legislatore statale aveva
dettato una disciplina puntuale inerente a specifiche
tipologie di interventi edilizi realizzati in contesti ben
definiti e circoscritti, senza lasciare alcuno spazio al
legislatore regionale, in contrasto con quanto più volte
chiarito da questa Corte e cioè che «alla normativa di
principio spetta di prescrivere criteri e obiettivi, mentre
alla normativa di dettaglio è riservata l’individuazione
degli strumenti concreti da utilizzare per raggiungere tali
obiettivi» (sentenza n. 278 del 2010; anche sentenze n.
16 del 2010, n. 340 del 2009, n. 401 del 2007).
La norma impugnata in questo giudizio presenta analoghi vizi
di illegittimità costituzionale. Essa, infatti, nella parte
in cui stabilisce che costituiscono «interventi di nuova
costruzione» l’installazione di manufatti leggeri anche
prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali
roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, che siano
utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come
depositi, magazzini e simili, e che non siano diretti a
soddisfare esigenze meramente temporanee, «ancorché siano
installati, con temporaneo ancoraggio al suolo, all’interno
di strutture ricettive all’aperto, in conformità alla
normativa regionale di settore, per la sosta ed il soggiorno
di turisti», estende, con norma di dettaglio, l’ambito
oggettivo degli «interventi di nuova costruzione»,
per i quali è richiesto il permesso di costruire.
Essa in specie individua, al pari della norma dichiarata
costituzionalmente illegittima con la citata sentenza n. 278
del 2010, specifiche tipologie di interventi edilizi,
realizzati nell’ambito delle strutture turistico-ricettive
all’aperto, molto peculiari, che peraltro contraddicono i
criteri generali (della trasformazione permanente del
territorio e della precarietà strutturale e funzionale degli
interventi) forniti, dallo stesso legislatore statale, ai
fini dell’identificazione della necessità o meno del titolo
abilitativo.
In tal modo, la norma impugnata sottrae al legislatore
regionale ogni spazio di intervento, determinando la
compressione della sua competenza concorrente in materia di
governo del territorio, nonché la lesione della competenza
residuale del medesimo in materia di turismo, strettamente
connessa, nel caso di specie, alla prima.
Deve, pertanto, essere dichiarata
l’illegittimità costituzionale dell’art. 41, comma 4, del
d.l. n. 69 del 2013
(Corte Costituzionale,
sentenza
24.07.2015 n. 189). |
EDILIZIA PRIVATA:
a) il potere di annullamento della Soprintendenza
non consente il riesame nel merito delle valutazioni
discrezionali compiute dalla Regione, o dall'ente
subdelegato, ma si esprime in un sindacato di legittimità,
esteso a tutte le ipotesi riconducibili all'eccesso di
potere, anche per difetto di motivazione o di istruttoria;
b) la Regione (nella specie il Comune subdelegato) deve
quindi esercitare il proprio potere motivando adeguatamente
sulla compatibilità con il vincolo paesaggistico dell'opera
specificamente assentita, in relazione a tutte le
circostanze rilevanti nel caso di specie, sussistendo, in
caso contrario, illegittimità per carenza di motivazione o
di istruttoria.
---------------
Al riguardo va ricordato che l'autorizzazione paesistica
rilasciata deve essere congruamente motivata, esponendo le
ragioni di effettiva compatibilità delle opere da realizzare
con gli specifici valori paesistici dei luoghi, con la
conseguenza che il difetto di motivazione
dell'autorizzazione giustifica per ciò solo il suo
annullamento in sede di controllo.
Difatti, il paesaggio è un valore costituzionale primario e,
pertanto, l'autorità amministrativa deve operare un giudizio
in concreto circa il rispetto da parte dell'intervento
progettato delle esigenze connesse alla tutela del paesaggio
stesso. La determinazione dell’autorità competente al
rilascio dell’autorizzazione de qua deve, dunque, essere
motivata anche quando abbia contenuto positivo, favorevole
al richiedente.
Tale principio, già consolidato in giurisprudenza in
relazione alla peculiare natura dell'atto ed alla rilevanza
degli interessi coinvolti, trova oggi espresso fondamento
normativo nell'articolo 3 della legge n. 241/1990, secondo
il quale ogni provvedimento amministrativo, di contenuto sia
negativo che positivo, deve essere motivato, recando
l'indicazione dei presupposti di fatto e delle ragioni
giuridiche che hanno determinato la decisione in relazione
alle risultanze dell'istruttoria.
Quanto, poi, al contenuto di tale motivazione, la
giurisprudenza è ferma nel ritenere, ai fini della congruità
e sufficienza della stessa, che debba esservi l'indicazione
della ricostruzione dell'iter logico seguito, in ordine alle
ragioni di compatibilità effettive che -in riferimento agli
specifici valori paesistici dei luoghi- possano consentire
tutti i progettati lavori, considerati nella loro globalità
e non esclusivamente in semplici episodi di dettaglio.
Quanto ai limiti
dell'esame da parte della Soprintendenza dell'autorizzazione
paesaggistica rilasciata dalla Regione (o da un ente
subdelegato), si richiama la giurisprudenza costante del
Giudice amministrativo, per la quale:
a) il potere di annullamento della Soprintendenza non
consente il riesame nel merito delle valutazioni
discrezionali compiute dalla Regione, o dall'ente
subdelegato, ma si esprime in un sindacato di legittimità,
esteso a tutte le ipotesi riconducibili all'eccesso di
potere, anche per difetto di motivazione o di istruttoria;
b) la Regione (nella specie il Comune subdelegato) deve
quindi esercitare il proprio potere motivando adeguatamente
sulla compatibilità con il vincolo paesaggistico dell'opera
specificamente assentita, in relazione a tutte le
circostanze rilevanti nel caso di specie, sussistendo, in
caso contrario, illegittimità per carenza di motivazione o
di istruttoria (cfr. Cons. St. sopra citato cui adde sez. VI,
n. 3767 del 2011, n. 4861 del 2010, nn. 7609 e 772 del
2009).
Al riguardo va ricordato che l'autorizzazione paesistica
rilasciata deve essere congruamente motivata, esponendo le
ragioni di effettiva compatibilità delle opere da realizzare
con gli specifici valori paesistici dei luoghi, con la
conseguenza che il difetto di motivazione
dell'autorizzazione giustifica per ciò solo il suo
annullamento in sede di controllo. Difatti, il paesaggio è
un valore costituzionale primario e, pertanto, l'autorità
amministrativa deve operare un giudizio in concreto circa il
rispetto da parte dell'intervento progettato delle esigenze
connesse alla tutela del paesaggio stesso. La determinazione
dell’autorità competente al rilascio dell’autorizzazione de
qua deve, dunque, essere motivata anche quando abbia
contenuto positivo, favorevole al richiedente.
Tale principio, già consolidato in giurisprudenza in
relazione alla peculiare natura dell'atto ed alla rilevanza
degli interessi coinvolti, trova oggi espresso fondamento
normativo nell'articolo 3 della legge n. 241/1990, secondo
il quale ogni provvedimento amministrativo, di contenuto sia
negativo che positivo, deve essere motivato, recando
l'indicazione dei presupposti di fatto e delle ragioni
giuridiche che hanno determinato la decisione in relazione
alle risultanze dell'istruttoria.
Quanto, poi, al contenuto di tale motivazione, la
giurisprudenza è ferma nel ritenere, ai fini della congruità
e sufficienza della stessa, che debba esservi l'indicazione
della ricostruzione dell'iter logico seguito, in ordine alle
ragioni di compatibilità effettive che -in riferimento agli
specifici valori paesistici dei luoghi- possano consentire
tutti i progettati lavori, considerati nella loro globalità
e non esclusivamente in semplici episodi di dettaglio (ved.
Cons. St., nr. 2395 del 2012).
Ciò richiamato si deve osservare che nel provvedimento
regionale di cui si tratta la motivazione della
compatibilità dell'intervento autorizzato con la disciplina
vincolistica della zona in cui ricade il manufatto, riposa
nella considerazione che “dall’esame istruttorio ….è
risultato che le opere realizzate, descritte nel progetto,
non presentano motivi di contrasto con il contesto
paesistico e panoramico vincolato e non sono tali da
impedirne l’inserimento nel medesimo”. Ne consegue,
all’evidenza, che sono rimaste indeterminate le ragioni in
forza delle quali il progetto della è stato ritenuto
conforme alle previsioni di conformazione dell'area, e
dunque non solo a quelle di livello comunale, ma anche a
quelle territoriali di rilievo paesaggistico, comunque
prevalenti (cfr., in tal senso, ex plurimis, Cons.
St. n. 2401 del 2008).
Il provvedimento rilasciato dall'ente subdelegato non ha
assolto perciò al compito proprio di dare "da solo, piena
contezza dell'ammissibilità dell'intervento con una congrua
descrizione sia dell'ambiente nel quale l'opera deve
inserirsi, che dell'opera medesima” (così Cons. St., n.
6885 del 2011 e n. 2219/2012 cit.) e correttamente, di
conseguenza, la Soprintendenza ha nel proprio decreto
rilevato che nel provvedimento in esame l'Autorità decidente
non spiega come e perché l'intervento sanato sia compatibile
con le esigenze della tutela ambientale e, su tale base,
conclude che l’autorizzazione o il parere non adempiono
all’obbligo legale di una motivazione esauriente e completa
in ordine alla compatibilità dell’opera realizzata rispetto
alle valenze del vincolo ed alla sua disciplina, restando
con ciò nei limiti della propria competenza.
Né può ritenersi che la Soprintendenza avrebbe dovuto
prendere in considerazione la perdita dei caratteri
paesistici del sito a causa dell'intervenuta urbanizzazione
dell'area in questione. E difatti -ed a prescindere dalla
circostanza che detta urbanizzazione è solo assunta e, in
alcun modo, documentata dalla ricorrente; mentre nel
provvedimento impugnato l’area interessata all’abuso viene
indicata come ricadente nella zona V2 (verde di P.r.g.)-
come ripetutamente affermato dalla Sezione (cfr., ex
plurimis, sent. n. 10167 del 2012) lo stato di
compromissione dell'area oggetto di tutela non può
considerarsi un corretto parametro per le valutazioni (di
mera legittimità) dell'atto impugnato, che deve giudicare la
legittimità del nulla osta sulla base dei valori paesistici
giuridicamente tutelati tralasciando "lo stato di fatto"
della zona al momento della decisione dell'istanza di
sanatoria.
Non è infatti consentito all’ente competente di prescindere
da tali valori, in considerazione della loro frequente
violazione per effetto del fenomeno dell'abusivismo.
Infatti, come più volte chiarito dal Consiglio di Stato "ove
la trasformazione illecitamente realizzata in assenza di
autorizzazione e di concessione edilizia dovesse
condizionare -per le modificazioni introdotte, di fatto, al
territorio- la valutazione paesaggistica, da un lato non
avrebbe significato che il legislatore continui a
condizionare la sanatoria alla previa autorizzazione
paesaggistica, e, d'altra parte, vanificherebbe la tutela,
sostanzialmente rimessa alla volontà degli amministrati di
non perpetrare e realizzare interventi abusivi" (Cons.
st., sez. V n. 40 del 10.01.2007)
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 23.07.2015 n. 10145 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Alla
funzione di tutela del paesaggio è estranea ogni forma di
attenuazione della tutela paesaggistica determinata dal
bilanciamento o dalla comparazione con altri interessi,
ancorché pubblici, che di volta in volta possono venire in
considerazione: tale attenuazione, nella traduzione
provvedimentale, condurrebbe illegittimamente a dare minor
tutela, malgrado l’intensità del valore paesaggistico del
bene, quanto più intenso e forte sia o possa essere
l’interesse pubblico alla trasformazione del territorio.
Invero, il parere in ordine alla compatibilità paesaggistica
non può che essere un atto strettamente espressivo di
discrezionalità tecnica, dove l’intervento progettato va
messo in relazione con i valori protetti ai fini della
valutazione tecnica della compatibilità fra l’intervento
medesimo e il tutelato interesse pubblico paesaggistico:
valutazione che è istituzionalmente finalizzata a evitare
che sopravvengano alterazioni inaccettabili del preesistente
valore protetto.
Questa caratterizzazione tecnica del giudizio di
compatibilità da parte degli organi del MIBAC (che concerne
tutti gli elementi di impatto dell’intervento sul paesaggio:
non solo localizzazione, densità e volumi ma anche e
soprattutto linee, forme, materiali, ingombro, disposizione
e così via) non viene meno –a pena di disattendere il
contenuto e il particolare rilievo dell’art. 9 Cost.– in
procedimenti semplificatori per opere considerate dalla
legge di particolare significato, come quello dell’art.
1-sexies (Semplificazione dei procedimenti di autorizzazione
per le reti nazionali di trasporto dell’energia e per gli
impianti di energia elettrica di potenza superiore a 300 MW
termici) d.l. 29.08.2003, n. 239 d.l. 29.08.2003, n. 239
(Disposizioni urgenti per la sicurezza [e lo sviluppo] del
sistema elettrico nazionale e per il recupero di potenza di
energia elettrica) come convertito con modificazioni dalla
l. 27.10.2003, n. 290 (nella specie, il MIBAC, dopo aver
dato parere negativo alla realizzazione di un elettrodotto,
aveva rivisto il suo orientamento compiendo una non
consentita attività di comparazione e di bilanciamento
dell’interesse affidato alla sua cura -la tutela del
paesaggio– con interessi pubblici di altra natura e
spettanza –essenzialmente quelli sottesi alla realizzazione
dell’elettrodotto e al trasporto dell’energia elettrica).
15. Nel merito l’appello merita accoglimento.
Risulta fondato, in particolare, il secondo motivo di
appello con cui si deducono, sotto diversi profili, vizi di
eccesso di potere e difetto di motivazione in relazione al
provvedimento con il quale il Ministero per i beni e le
attività culturali (nota prot. 6440 del 24.02.2011),
mutando il precedente parere contrario della Soprintendenza
per i beni architettonici e paesaggistici del Friuli -
Venezia Giulia (espresso nella nota prot. 10889 del 24.11.2010), ha espresso parere favorevole sul progetto
di elettrodotto con l’unica condizione di spostare il tratto
di elettrodotto previsto nell’area golenale del fiume Torre.
16. Giova ricostruire con maggiore dettaglio questa fase del
procedimento su cui si appuntano le censure dei ricorrenti.
La Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici
del Friuli - Venezia Giulia aveva inizialmente espresso
parere contrario all’intervento nelle aree oggetto di tutela
ai sensi degli articoli 136 e 142, comma 1, lett. c) del
d.lgs. 22.01.2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e
del paesaggio), rilevandone l’impatto negativo sul paesaggio
consistente:
- nel deturpamento della scenografia di tratti di corridoi
fluviali di elevato valore paesaggistico del torrente Comor,
del fiume Torre, del fiume Isonzo nonché della Roggia di
Udine e delle Roggia Mille acque con la irruzione nel campo
visivo di sostegni e di cavi, che costituiscono elementi
anomali, per consistenza ed altezza, rispetto alla matrice
agricola e naturalistica del paesaggio e che, inoltre, in
nove casi, avendo un’altezza superiore a 61 metri,
dovrebbero, per rispettare le norme di sicurezza del volo a
bassa quota, presentare una verniciatura bianca e arancione
nel terzo superiore;
- in un rilevante esbosco di specie arboree di valore
paesaggistico, oltre che naturalistico ed ecologico.
Sulla base di questi rilievi, la Soprintendenza aveva,
quindi, proposto l’interramento dell’elettrodotto nelle
fasce sottoposte a tutela paesaggistica.
Successivamente però, con l’atto impugnato (nota prot. 6440
del 24.02.2011), il Ministero per i beni e le attività
culturali (di seguito anche solo MIBAC), “considerata
l’impossibilità di realizzare l’elettrodotto in cavo
[sotterraneo] nelle zone sottoposte a tutela paesaggistica,
come chiarito dalla società Terna s.p.a.”, mutando avviso si
esprimeva favorevolmente, ponendo come unica condizione che
il tratto di elettrodotto del fiume Torre venisse spostato
all’esterno della fascia di elevato valore paesaggistico.
17. Gli appellanti lamentano che questo mutamento di
giudizio (non assistito da adeguata motivazione) si
rivelerebbe contraddittorio ed irragionevole, ed evidenziano
–criticando, sotto questo specifico profilo, la sentenza
appellate anche per il vizio di omessa pronuncia rispetto
alla censura proposta in primo grado– che il parere
favorevole del Ministero, anche a prescindere dal
ripensamento rispetto al precedente parere negativo,
sarebbe, comunque, in sé affetto da vizi di sviamento di
potere: infatti attraverso tale atto di assenso il MIBAC
avrebbe illegittimamente subordinato il perseguimento
dell’interesse pubblico primario (alla tutela paesaggistica)
affidato alla sua cura alla realizzabilità comunque
dell’opera, quasi che l’an del progetto non potesse essere
nemmeno posto in discussione.
18. Il Collegio ritiene che, nei termini che seguono,
sussistano i denunciati profili di sviamento di potere.
19. Alla funzione di tutela del paesaggio (che il MBAC qui
esercita attraverso esprimendo il suo obbligatorio parere
nell’ambito del procedimento di compatibilità ambientale) è
estranea ogni forma di attenuazione della tutela
paesaggistica determinata dal bilanciamento o dalla
comparazione con altri interessi, ancorché pubblici, che di
volta in volta possono venire in considerazione: tale
attenuazione, nella traduzione provvedimentale, condurrebbe
illegittimamente, e paradossalmente, a dare minor tutela,
malgrado l’intensità del valore paesaggistico del bene,
quanto più intenso e forte sia o possa essere l’interesse
pubblico alla trasformazione del territorio.
Invero, anche
nel procedimento in questione (circa il quale è il caso di
rammentare il precedente di cui a Cons. Stato, VI, 10.06.2013, n. 3205) il parere del MIBAC in ordine alla
compatibilità paesaggistica non può che essere un atto
strettamente espressivo di discrezionalità tecnica, dove –similmente al parere dell’art. 146 d.lgs. 22.01.2004,
n. 42- l’intervento progettato va messo in relazione con i
valori protetti ai fini della valutazione tecnica della
compatibilità fra l’intervento medesimo e il tutelato
interesse pubblico paesaggistico: valutazione che è
istituzionalmente finalizzata a evitare che sopravvengano
alterazioni inaccettabili del preesistente valore protetto.
Questa regola essenziale di tecnicità e di concretezza, per
cui il giudizio di compatibilità dev’essere tecnico e
proprio del caso concreto, applica il principio fondamentale
dell’art. 9 Cost., il quale fa eccezione a regole di
semplificazione a effetti sostanziali altrimenti praticabili
(cfr. Corte cost., 29.12.1982, n. 239; 21.12.1985, n. 359; 27.06.1986, n. 151; 10.03.1988, n. 302;
Cons. Stato, VI, 18.04.2011, n. 2378). La norma costituzionalizza e al massimo rango la tutela del paesaggio
e del patrimonio storico e artistico della Nazione – e
questo richiede, a opera dell’Amministrazione appositamente
preposta, che si esprimano valutazioni tecnico-professionali
e non già comparative di interessi, quand’anche pubblici e
da altre amministrazioni stimabili di particolare
importanza.
Questa caratterizzazione tecnica del giudizio di
compatibilità da parte degli organi del MIBAC (che concerne
tutti gli elementi di impatto dell’intervento sul paesaggio:
non solo localizzazione, densità e volumi ma anche e
soprattutto linee, forme, materiali, ingombro, disposizione
e così via) non viene meno –a pena di disattendere il
contenuto e il particolare rilievo dell’art. 9 Cost.– in
procedimenti semplificatori per opere considerate dalla
legge di particolare significato, come quello dell’art.
1-sexies (Semplificazione dei procedimenti di autorizzazione
per le reti nazionali di trasporto dell'energia e per gli
impianti di energia elettrica di potenza superiore a 300 MW
termici) d.l. 29.08.2003, n. 239 d.l. 29.08.2003,
n. 239 (Disposizioni urgenti per la sicurezza [e lo
sviluppo] del sistema elettrico nazionale e per il recupero
di potenza di energia elettrica) come convertito con
modificazioni dalla l. 27.10.2003, n. 290, a tenore del
cui comma 1 «L'autorizzazione alla costruzione e
all'esercizio degli elettrodotti, degli oleodotti e dei
gasdotti, facenti parte delle reti nazionali di trasporto
dell'energia, è rilasciata dalle amministrazioni statali
competenti mediante un procedimento unico secondo i principi
di cui alla legge 07.08.1990, n. 241, entro il termine di
sei mesi dalla data di presentazione della domanda».
La speciale concentrazione procedimentale, cioè, di questo e
di analoghi procedimenti non comporta un’attenuazione della
rilevanza della tutela paesaggistica perché questa si fonda
su un espresso principio fondamentale costituzionale. Questa
speciale disciplina incentrata sulla concentrazione
procedimentale è volta a dare speditezza al confronto
richiesto dall’approvvigionamento energetico e nello stesso
confronto dialettico delle amministrazioni interessate ha il
suo valore aggiunto. La semplificazione procedimentale
persegue la speditezza in ragione delle necessità
energetiche: ma si tratta di un effetto procedimentale e non
di contenuti, perché non inverte il rapporto sostanziale tra
interessi e non sottrae effettività (come farebbe se negasse
la ricordata eccezione) a un principio fondamentale
dell’ordinamento costituzionale (cfr. Cons. Stato, VI, 23.05.2012, n. 3039; 15.01.2013, n. 220).
Perciò, per quanto concerne il ruolo del MIBAC nel
procedimento, le valutazioni di comparazione e ponderazione
di interessi, proprie della discrezionalità amministrativa,
restano del tutto estranee alla fattispecie di legge e, ove
di fatto introdotte, rendono l’atto viziato per eccesso di
potere. Come ben evidenziato in dottrina, la discrezionalità
tecnica, a differenza di quella amministrativa, si concentra
su un unico interesse, nel caso quello paesaggistico,
attraverso la verifica in fatto della sua configurazione e
trasformazione nel caso concreto.
Diversamente dalla
discrezionalità amministrativa, la discrezionalità tecnica
non può dar luogo ad alcuna forma di comparazione e
valutazione eterogenea. Nell’esercizio della funzione di
tutela spettante al MIBAC, l’interesse che va preso in
considerazione è solo quello circa la tutela paesaggistica,
il quale non può essere aprioristicamente sacrificato dal
MIBAC stesso, nella formulazione del suo parere, in
considerazione di altri interessi pubblici la cui cura esula
dalle sue attribuzioni.
20. L’indeclinabilità della funzione pubblica di tutela del
paesaggio per la particolare dignità data dall’essere
iscritta dall’art. 9 Cost. tra i principi fondamentali della
Repubblica, è stata del resto più volte affermata dalla
giurisprudenza costituzionale (cfr., ad esempio, Corte
cost., 27.06.1986, n. 151, 29.12.1982, n. 239; 21.12.1985, n. 359;
05.05.1986, n. 182; 10.10.1998, n. 302; 19.10.1992, n. 393; 12.02.1996, n.
2; 28.06.2004, n. 196; 29.102009, n. 272; 23.11.2011, n. 309) sia di questo Consiglio di Stato
(cfr. ex multis Cons. Stato, Ad. plen., 14.12.2001, n.
9; VI, 03.07.2012, n. 3893; VI, 18.04.2011, n. 2378;
22.09.2014, n. 4775).;
21. Quanto sopra risulta patentemente leso nel procedimento
oggetto del presente giudizio, in cui il MBAC –ponendo, per
l’inequivoca logica interna al giudizio, la sua seconda
valutazione in comparazione con altri interessi pubblici-
si è spinto ultra vires rispetto al compito assegnatogli
dalla legge e ha di fatto abdicato, sulla soverchiante base
di un suo inammissibile bilanciamento con altri interessi,
ad esercitare correttamente l’indeclinabile funzione di
tutela di cui è esso per legge titolare.
Il Ministero invero, anziché occuparsi, come debito suo
compito, di curare l’interesse paesaggistico (e di valutare,
quindi, in termini non relativi ad altri interessi l’impatto
paesaggistico dell’intervento), ha illegittimamente compiuto
una non consentita attività di comparazione e di
bilanciamento dell’interesse affidato alla sue cura (la
tutela del paesaggio) con interessi pubblici di altra natura
e spettanza (essenzialmente quelli sottesi alla
realizzazione dell’elettrodotto e, dunque, al trasporto
dell’energia elettrica). Non ad esso, ma ad altre
Amministrazioni competeva esprimere, nel confronto
dialettico proprio della conferenza di servizi, quelle
valutazioni, indicandone le rispettive ragioni.
È patente che questa distorsione di fatto nel confronto
dialettico istituzionalizzato –generata dall’introduzione
di elementi spuri di ragionamento e giudizio- ne ha
alterato la proporzione e la ragionevolezza, con l’effetto
di squilibrare e viziare per inattendibilità gli atti finali
che ne sono seguiti, poi fatti oggetto di impugnazione
davanti al giudice amministrativo. Se il giudizio
sull’impatto paesaggistico è negativo, il MIBAC, per quella
che è la sua parte, non può, compiendo un’inammissibile
scelta di merito fondata sull’esigenza di dare priorità ad
altri e non suoi interessi, esprimere un parere sviato, per
quanto condizionato al rispetto di alcune prescrizioni.
22. Rimane estranea alle valutazioni di cui sopra -che si
incentrano sul contenuto che per legge deve avere il parere
del MIBAC e che di loro assorbono il vizio in concreto
rilevante negli atti impugnati–, e dunque al presente
giudizio, la considerazione degli effetti di un ipotetico
ortodosso confronto dialettico, che si svolga secondo le
forme e le competenze di legge, con le Amministrazioni
pubbliche portatrici di altri e opposti interessi. Vi
provvedono le disposizioni che, anche mediante rinvio,
regolano il procedimento in questione.
23. Qui è sufficiente rilevare l’evidenza dell’eccesso di
potere che inficia il parere favorevole espresso dal MIBAC
con la nota n. 38241 del 20.12.2010. In tale
provvedimento, invero, il MIBAC, disattendendo la precedente
posizione negativa espressa con il parere della
Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici del
Friuli - Venezia Giulia con nota prot.n. 10889 del 24.11.2010, fonda il mutamento di giudizio esclusivamente
sulla “considerata impossibilità di realizzare
l’elettrodotto in cavo [sotterraneo]”: con ciò muovendo
dalla considerazione non già dello stretto interesse
paesaggistico, ma dall’interesse, da esso stesso fatto
superiore, alla realizzazione dell’opera: cosa che non è di
sua cura.
In pratica violazione, quindi, della propria funzione,
l’assunto fatto prioritario e sovrastante dallo stesso MIBAC
della realizzazione dell’elettrodotto ha sviato il suo
parere col mezzo di un inammissibile bilanciamento,
indebitamente fatto intrinseco al parere medesimo anziché al
successivo confronto dialettico: il che è andato in fatale
detrimento della considerazione sul reale impatto
paesaggistico dell’elettrodotto e delle relative
incompatibilità. Perché un confronto dialettico -come
quello della conferenza di servizi- possa essere corretto e
attendibile, infatti, occorre che ciascuna delle parti
amministrative chiamate a parteciparvi si riferisca in
partenza a quanto per legge di propria competenza.
Sono state così semplicemente pretermesse e accantonate le
ragioni ostative del precedente parere del 24.11.2010,
dove il giudizio negativo (e la conseguente proposta di
interrare l’elettrodotto nelle fasce sottoposte a tutela) si
fondava su una pluralità di ragioni ostative consistenti in
particolare nel “deturpamento della scenografica di tratti
di corridoi fluviali di elevato valore paesaggistico”, e in
un “rilevante esbosco di specie arboree di valore
paesaggistico, oltre che naturalistico ed ecologico”. È
sintomatico, al riguardo, che nessuna confutazione in fatto,
come sarebbe nell’ambito proprio di un giudizio di
discrezionalità tecnica, sia stato fatto in sede di questa
pratica revocazione del precedente parere.
24. Non basta: la riscontrata impossibilità di soluzioni
tecniche alternative non è stata oggetto di adeguata
motivazione ad opera del parere, che sotto questo profilo si
limita a richiamare e a recepire senz’altro le
considerazioni svolte da Terna che ha proposto il progetto.
Vizio, anche questo, sufficiente a concretare l’invalidità
degli atti, perché sarebbe comunque stato obbligo del MIBAC
svolgere la relativa indagine ed esternare le ragioni della
sua specifica nuova valutazione.
Vale rammentare che, giusta il rammentato e noto precedente
di cui a Cons. Stato, VI, 10.06.2013, n. 3205, è
illegittima la determinazione di giudizio positivo di
compatibilità, superando un precedente decreto in cui si
evidenziava l’opportunità di “considerare l’opzione cavo
interrato, al fine di non interferire con l’ambito
paesaggistico ambientale”, senza una congrua motivazione né
sulla necessità di determinarsi in modo diverso, né
sull’impossibilità di perseguire soluzioni alternative di
tracciato o la possibilità di parziale interramento della
linea. Anche in quel caso f2 valutato che “l’esclusiva
rilevanza attribuita alle ragioni di Terna, in assenza di
qualsiasi considerazione atta a evidenziare i motivi per i
quali queste debbano avere la prevalenza sulle esigenze di
tutela del patrimonio culturale, del quale tuttavia si
riconosce la compromissione, non è sufficiente a fondare
un’adeguata motivazione circa il mutamento di parere,
rispetto alla primitiva valutazione del progetto”.
25. Il procedimento che ha condotto ad esprimere la
valutazione positiva di compatibilità ambientale e,
successivamente, all’approvazione del progetto definitivo
risulta, quindi, viziato in radice perché è mancata una
logica ed attendibile acquisizione del fondamentale giudizio
tecnico del MIBAC circa l’oggetto istituzionale della sua
cura, pretermesso e sacrificato dalla stessa Amministrazione
chiamata a occuparsi della sua tutela.
Insomma, lo sviamento che inficia il parere sul progetto di
elettrodotto porta a rilevare che è mancato, nella sostanza,
il razionale espletamento di una fase procedimentale
obbligatoria.
26. Il mancato attendibile esercizio di un potere tecnico
obbligatoriamente previsto nell’ambito del procedimento
determina, seguendo anche i principi di cui a Cons. Stato,
Ad. plen., 27.04.2015, n. 5, l’assorbimento degli altri
motivi, stante anche la previsione di cui all’art. 34, comma
2, Cod. proc. amm. che non consente al giudice
amministrativo di pronunciarsi rispetto a poteri non ancora
esercitati.
27. Alla luce delle conclusioni che precedono, gli appelli
vanno accolti e, per l’effetto, in riforma della sentenze
appellate, vanno accolti, nei limiti indicati, i ricorsi
proposti in primo grado dagli odierni appellanti (massima
tratta da http://renatodisa.com -
Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 23.07.2015 n. 3652 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Disciplina rifiuti, la competenza è dello Stato.
Corte costituzionale.
L'ammissibilità in discarica dei rifiuti è riconducibile
alla materia della «tutela dell'ambiente e dell'ecosistema»,
di competenza esclusiva dello Stato. È riservato allo Stato
il potere di fissare livelli di tutela uniforme sull'intero
territorio nazionale, ferma restando la competenza delle
regioni alla cura di interessi funzionalmente collegati con
quelli propriamente ambientali.
Questo è il principio
espresso dalla Corte Costituzionale con la sentenza 23.07.2015 n. 180.
Pertanto, la disciplina statale
costituisce, anche in attuazione degli obblighi comunitari,
un livello di tutela uniforme e si impone sull'intero
territorio nazionale, come un limite alla disciplina che le
regioni e le province autonome dettano in altre materie di
loro competenza, per evitare che esse deroghino al livello
di tutela ambientale stabilito dallo Stato, ovvero lo
peggiorino.
Nella specie, il dlgs n. 36 del 2003 ha provveduto a
recepire la direttiva n. 1999/31/Ce in vista del più
generale obiettivo di «assicurare un'elevata protezione
dell'ambiente e controlli efficaci».
In tale decreto, oltre a stabilirsi, in linea con la citata
direttiva, che «i rifiuti possono essere collocati in
discarica solo dopo trattamento» intendendosi per «trattamento»
tutti «i processi fisici, termici, chimici, o biologici,
incluse le operazioni di cernita, che modificano le
caratteristiche dei rifiuti, allo scopo di ridurne il volume
o la natura pericolosa, di facilitarne il trasporto, di
agevolare il recupero o di favorirne lo smaltimento in
condizioni di sicurezza»
(articolo ItaliaOggi del 29.07.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO: Ccnl, niente blocchi all'infinito.
Il congelamento degli stipendi ha leso la libertà sindacale.
La Consulta ha depositato le motivazioni della sentenza. I
sindacati: subito i nuovi contratti.
«Il reiterato protrarsi della sospensione delle procedure di
contrattazione economica altera la dinamica negoziale in un
settore che al contratto collettivo assegna un ruolo
centrale». Da qui l'illegittimità costituzionale della
sequenza di norme che dal 2010 ha bloccato la contrattazione
nazionale collettiva riguardante il lavoro pubblico,
violando l'articolo 39, comma 1, della Costituzione e,
dunque, le prerogative sindacali.
La Corte costituzionale ha depositato ieri le attesissime
motivazioni della
sentenza 23.07.2015 n. 178, che ha salvato il
governo dall'obbligo di restituire ai dipendenti pubblici
quanto perso per effetto dei blocchi alla contrattazione, ma
lo obbliga a riaprire al più presto i tavoli negoziali.
La Consulta ha fatto salvi gli effetti pregressi dei vari
blocchi succedutesi nel tempo, perché ha ritenuto coerenti
con la pluriennalità dei bilanci pubblici una durata a sua
volta pluriennale di una misura di contenimento della spesa
pubblica, espressamente adottata per fare fronte a una
situazione di emergenza finanziaria.
Il legislatore, dunque, ben poteva disporre un blocco della
contrattazione prolungato, nell'ambito di un disegno
sostanzialmente unitario di risanamento finanziario.
Le proroghe alla durata iniziale di tre anni del blocco,
secondo la sentenza sono da considerare costituzionalmente
legittime, in quanto funzionali a rafforzare nel tempo
manovre di risparmio.
Tuttavia, secondo la Consulta, «se i periodi di sospensione
delle procedure negoziali e contrattuali non possono essere
ancorati al rigido termine di un anno, individuato dalla
giurisprudenza di questa Corte in relazione a misure diverse
e a un diverso contesto di emergenza (sentenza n. 245 del
1997, ordinanza n. 299 del 1999), è parimenti innegabile che
tali periodi debbano essere comunque definiti e non possano
essere protratti ad libitum».
La sentenza censura «il carattere ormai sistematico» del
blocco della contrattazione, che è sconfinato «in un
bilanciamento irragionevole tra libertà sindacale (art. 39,
primo comma, Cost.), indissolubilmente connessa con altri
valori di rilievo costituzionale e già vincolata da limiti
normativi e da controlli contabili penetranti (artt. 47 e 48
del dlgs n. 165 del 2001), ed esigenze di razionale
distribuzione delle risorse e controllo della spesa,
all'interno di una coerente programmazione finanziaria (art.
81, primo comma, Cost.)». Sicché «il sacrificio del diritto
fondamentale tutelato dall'art. 39 Cost., proprio per
questo, non è più tollerabile».
La sentenza rileva che è stata l'entrata in vigore delle
disposizioni della legge di stabilità per il 2015 a tendere
«a rendere strutturali» i blocchi contrattuali introdotti
«per effetto del dpr n. 122 del 2013 e della legge n. 147
del 2013», come dimostrato «dall'art. 1, comma 255, della
legge n. 190 del 2014, che, fino al 2018, cristallizza
l'ammontare dell'indennità di vacanza contrattuale ai valori
del 31.12.2013».
Solo nel 2015, allora, «si è palesata appieno la natura
strutturale della sospensione della contrattazione e può,
pertanto, considerarsi verificata la sopravvenuta
illegittimità costituzionale, che spiega i suoi effetti a
séguito della pubblicazione di questa sentenza».
Ecco, dunque, perché la Consulta ha ritenuto di far valere
l'incostituzionalità della reiterazione del blocco della
contrattazione (derivante anche dalla violazione di una
fitta elencazione di norme e accordi internazionali) solo
per il futuro e non per il passato.
Ora, la palla passa al parlamento. La sentenza dà
espressamente atto che «sarà compito del legislatore dare
nuovo impulso all'ordinaria dialettica contrattuale,
scegliendo i modi e le forme che meglio ne rispecchino la
natura, disgiunta da ogni vincolo di risultato».
Le reazioni dei sindacati al deposito delle motivazioni
della sentenza non si sono fatte attendere. Tutti chiedono
al governo di riaprire immediatamente il tavolo
contrattuale.
«Da una prima valutazione delle motivazioni della sentenza
della Corte costituzionale, che ha dichiarato illegittimo il
blocco dei contratti nella p.a., rivendichiamo l'apertura
immediata del tavolo di contrattazione per il rinnovo dei
contratti pubblici», hanno commentato i segretari generali
di Fp Cgil (Rossana Dettori), Cisl Fp (Giovanni Faverin),
Uil Fpl (Giovanni Torluccio) e Uilpa (Nicola Turco) sulle
motivazioni della sentenza dell'Alta corte. «Il blocco di
sei anni non è più tollerabile, per usare le stesse parole
della Consulta, e rivendichiamo il pieno diritto al
contratto, anche e soprattutto per il ruolo che
autorevolmente la Corte ci riconosce. Quest'ultima ha
infatti scritto nel suo dispositivo che il blocco
sistematico della contrattazione sconfina in un
bilanciamento irragionevole tra libertà sindacale ed
esigenze di controllo della spesa».
«La Corte», proseguono i
sindacati, «con parole nette e chiare, scrive che il
sacrificio del diritto fondamentale tutelato dall'art. 39 Cost.
non è più tollerabile. Noi lo diciamo da tempo mentre il
governo ha irresponsabilmente aspettato che si pronunciasse
la Corte». Tutti temi che il sindacato riproporrà
mercoledì prossimo in occasione della manifestazione
nazionale per il rinnovo dei contratti e «per una vera
riforma della p.a.»
(articolo ItaliaOggi del 24.07.2015). |
APPALTI:
Sulla finalità dell'informativa antimafia c.d.
atipica.
L'informativa c.d. atipica, nel testo risalente all'art. 4,
c.10, del d.lgs. n. 490 del 1994, ora tradotto nell'art. 84
del d.lgs. 159 del 2011, dà rilievo, agli effetti
dell'adozione della misura di prevenzione, al riscontro di
elementi significativi di tentativi di infiltrazione
mafiosa.
La nozione di tentativo comporta che la situazione di
condizionamento dell'impresa da parte della criminalità
organizzata non debba essere in atto, ma che ciò possa
avvenire con azioni dirette in modo non equivoco, allo scopo
anzidetto, di cui emergano quantomeno elementi rivelatori
anche se solo sul piano indiziario. Le cautele antimafia non
obbediscono, infatti, a finalità di accertamento di
responsabilità.
Esse possono muovere da un insieme di elementi e circostanze
che, pur non dovendo necessariamente essere sostenute da
rilevanze probatorie tipiche del diritto penale e del
diritto processuale in genere, siano tali da formare un
mosaico di condotte, intrecci, interferenze e contiguità che
incidano sull'affidabilità dell'impresa che debba
intrattenere rapporti economici con lo Stato o altri
organismi di diritto pubblico.
L'innalzamento della soglia di anticipata tutela delle
condizioni di sicurezza e ordine pubblico non esime,
tuttavia, da una prudente, esatta ed esaustiva acquisizione
e valutazione dei presupposti del provvedere, considerata
anche l'incidenza della misura interdittiva sulla sfera di
libertà e di iniziativa economica del destinatario.
Le conclusioni cui pervenga Autorità di pubblica sicurezza
non si sottraggono al controllo esterno di legittimità, nei
limiti del vizio di eccesso di potere nei profili
dell'adeguatezza e della sufficienza dell'istruttoria, del
corretto apprezzamento dei presupposti del provvedere, della
ragionevolezza delle statuizioni adottate e della
proporzionalità della scelta provvedimentale al fine di
interesse pubblico perseguito (Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 22.07.2015 n. 3636 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it) |
EDILIZIA PRIVATA:
E' illegittima la norma regolamentare comunale che obbliga
alla presentazione della copia della documentazione
dalla quale si rileva la regolarità con i tributi comunali
significando che in mancanza di detta documentazione il
permesso di costruire non potrà essere rilasciato.
Premesso che:
- al giudice amministrativo è consentito
disapplicare, ai fini della decisione sulla legittimità del
provvedimento amministrativo, la norma secondaria di
regolamento, qualora essa contrasti in termini di palese
contrapposizione con il disposto legislativo primario, cui
dovrebbe dare esecuzione;
- il giudice amministrativo, in applicazione del principio
della gerarchia delle fonti, può valutare direttamente,
attraverso lo strumento della disapplicazione del
regolamento, il contrasto tra provvedimento e legge,
eventualmente annullando il provvedimento a prescindere
dell'impugnazione congiunta del regolamento,
nella fattispecie in esame sussiste il dedotto contrasto
della citata prescrizione regolamentare con la disciplina di
rango sovraordinato, rappresentata dal disposto di cui
all’art. 12, comma 1, d.P.R. n. 380/2001, ai sensi del quale
“il permesso di costruire è rilasciato in conformità alle
previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti
edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente”.
L’amministrazione intimata infatti, introducendo un
ulteriore presupposto per il rilascio del permesso di
costruire, attinente peraltro ad un ordine di valutazioni e
di interessi estraneo alla materia urbanistico-edilizia, ha
palesemente violato la norma suindicata, piegando
l’esercizio del potere de quo, in deroga allo schema
legislativo, al perseguimento di interessi eterogenei
rispetto a quelli tipici.
Tanto premesso, ritiene il Tribunale che possa prescindersi
dalla verifica della fondatezza dell’eccezione di
inammissibilità del ricorso e dei motivi aggiunti formulata
dalla parte resistente, sulla scorta dell’omessa
impugnazione della delibera consiliare n. 71/2011, laddove
subordina l’esame dell’istanza di permesso di costruire alla
sussistenza di una situazione di regolarità tributaria in
capo al richiedente il titolo edilizio: impugnazione che,
secondo il Comune di Fisciano, avrebbe dovuto essere
proposta allorché la società ricorrente ha ricevuto la nota
prot. n. 19513 del 29.10.2013, con la quale, richiamata la
citata delibera, veniva richiesta dall’amministrazione “copia
della documentazione dalla quale si rileva la regolarità con
i tributi comunali significando che in mancanza di detta
documentazione il permesso non potrà essere rilasciato”.
Evidenziato infatti che la suddetta delibera assume, in
parte qua, carattere regolamentare, essendo diretta a
fissare in via generale ed astratta, sebbene praeter
legem, i presupposti in presenza dei quali è assentibile
l’istanza di rilascio del permesso di costruire, ritiene il
Tribunale che l’interesse della parte ricorrente, rivolto
all’annullamento del provvedimento applicativo di diniego,
possa trovare pieno soddisfacimento nell’esercizio del
potere di disapplicazione, alla luce dell’insegnamento della
più recente giurisprudenza (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI,
n. 3623 del 14.07.2014: “al giudice amministrativo è
consentito disapplicare, ai fini della decisione sulla
legittimità del provvedimento amministrativo, la norma
secondaria di regolamento, qualora essa contrasti in termini
di palese contrapposizione con il disposto legislativo
primario, cui dovrebbe dare esecuzione" (Cons. Stato,
sez. VI, 29.05.2008, n. 2535; ma si veda anche, nello stesso
senso, Cons. Stato, sez. VI, 03.10.2007, n. 5098: “il
giudice amministrativo, in applicazione del principio della
gerarchia delle fonti, può valutare direttamente, attraverso
lo strumento della disapplicazione del regolamento, il
contrasto tra provvedimento e legge, eventualmente
annullando il provvedimento a prescindere dell'impugnazione
congiunta del regolamento").
Sussiste invero, nella fattispecie in esame, il dedotto
contrasto della citata prescrizione regolamentare con la
disciplina di rango sovraordinato, rappresentata dal
disposto di cui all’art. 12, comma 1, d.P.R. n. 380/2001, ai
sensi del quale “il permesso di costruire è rilasciato in
conformità alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei
regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia
vigente”.
L’amministrazione intimata infatti, introducendo un
ulteriore presupposto per il rilascio del permesso di
costruire, attinente peraltro ad un ordine di valutazioni e
di interessi estraneo alla materia urbanistico-edilizia, ha
palesemente violato la norma suindicata, piegando
l’esercizio del potere de quo, in deroga allo schema
legislativo, al perseguimento di interessi eterogenei
rispetto a quelli tipici.
L’accertata illegittimità della norma regolamentare, posta a
fondamento del provvedimento di diniego impugnato, non può
che ridondare nella invalidità di quest’ultimo, che deve
quindi essere annullato, in accoglimento dei relativi motivi
aggiunti: può quindi prescindersi, perché irrilevante ai
fini del decidere, dall’esaminare funditus la censura
con la quale la parte ricorrente ha dedotto di essere
pienamente in regola dal punto di vista tributario (TAR
Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 22.07.2015 n. 1611 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
TRIBUTI: Rendite,
il Comune può impugnare davanti ai giudici fiscali.
Contenzioso. La Cassazione legittima gli enti.
Il Comune è legittimato a impugnare le rendite catastali
presso il giudice tributario.
Lo ha deciso la Corte di
Cassazione –Sezz. unite civili– con l’ordinanza 21.07.2015 n.
15201, delineando un cambio di indirizzo sulla
partecipazione dell’ente alla procedura di accertamento
della rendita.
In passato, negli accertamenti Ici, spesso i
Comuni hanno impugnato alcune attribuzioni di rendite
effettuate dall’ex agenzia del Territorio perché ritenute
sperequate rispetto all’effettiva redditività del bene. Su
questo tema, l’orientamento giurisprudenziale di legittimità
era rivolto a escludere la partecipazione del Comune al
contenzioso, precisando che appartiene alla giurisdizione
amministrativa la controversia instaurata per far dichiarare
illegittimi i provvedimenti di classamento di immobili che
pregiudicano il suo diritto a imporre il pagamento dell’Ici.
L’ordinanza del 21 luglio scorso si concentra sull’esegesi
dell’articolo 2, secondo comma, del Dlgs 546/1992 e in
particolare sulla frase «controversie promosse dai singoli
possessori». Per la Cassazione, in una lettura letterale,
logica e sistematica, nonché costituzionalmente orientata di
questa norma deve escludersi che quell’inciso possa avere la
funzione di contribuire (unitamente al profilo oggettivo) a
delimitare la giurisdizione del giudice tributario: aver
precisato soggetto “promotore” e oggetto della lite non
concorrono a quel fine.
Diversamente, il Comune non avrebbe alcuna possibilità di
agire in giudizio a tutela del proprio interesse, e ciò in
contrasto con l’articolo 24, comma primo, della
Costituzione, oppure, mentre il contribuente può impugnare
la rendita catastale ricorrendo al giudice tributario, il
Comune deve invece rivolgersi al giudice amministrativo, con
l’effetto di dilapidare un bene prezioso come la
giurisdizione.
Si innesta, inoltre, l’effetto di compromettere la certezza
e la stabilità delle situazioni giuridiche, nonché la stessa
funzionalità del processo, potendo intervenire sulla stessa
questione decisioni contrastanti, irrimediabili. Ciò in
quanto la possibilità di giudicati contrastanti nel nostro
ordinamento è considerata e “risolta” solo nell’ambito della
medesima giurisdizione.
Pertanto, la Cassazione, escluso che l’inciso «promosse dai
singoli possessori» sia idoneo a condizionare i limiti della
giurisdizione tributaria, statuisce che rientrano in quella
anche le ipotesi in cui la rendita o l’atto di classamento
siano impugnate dal Comune e non (o non solo) dal
contribuente.
Si apre quindi, dirompente, un panorama operativo del tutto
nuovo che necessita di importanti chiarimenti preliminari
circa le modalità di notifica degli accertamenti catastali,
anche ai Comuni, e dei relativi ricorsi, proprio nell’ottica
della certezza del diritto, invocata dalla Corte di
Cassazione come una delle motivazioni a supporto della
decisione contenuta nell’ordinanza (articolo Il Sole 24 Ore del
24.07.2015). |
TRIBUTI: Il catasto ai giudici tributari.
Competenza sulle cause su classamento e rendite.
CASSAZIONE/ Il dietrofront della Suprema corte. Tribunali
fuori dal gioco.
Le cause relative al classamento degli immobili e
all'attribuzione delle rendite catastali sono competenza del
giudice tributario. Anche quando a ricorrere nei confronti
dell'amministrazione non è il contribuente, ma il comune nel
cui territorio si trova il bene accatastato.
È questa la
decisione assunta dalle Sezz. unite civili della Corte di Cassazione
nell'ordinanza 21.07.2015 n.
15201, che ribalta gli
orientamenti del passato e le conclusioni del pg (che nella
sua requisitoria si era espresso a favore della
giurisdizione del giudice amministrativo).
Il regolamento preventivo di giurisdizione era stato
presentato dalla Ctp Trento dopo che un municipio aveva
impugnato nei confronti della provincia autonoma la nuova
rendita catastale attribuita ad alcuni impianti per la
produzione di energia elettrica.
I dubbi nascono in quanto l'articolo 2 del dlgs n. 546/1992,
che definisce l'oggetto della giurisdizione tributaria, fa
riferimento tra l'altro a «controversie promosse dai singoli
possessori». Ma le sezioni unite escludono che ciò possa far
venir meno la competenza del giudice tributario quando a
ricorrere sia un soggetto (in questo caso il comune) che pur
non possedendo l'immobile gode comunque della relativa
legittimazione sostanziale, per esempio perché da quella
rendita dipende il relativo incasso Imu e Tasi.
In passato gli Ermellini avevano individuato nel Tar
l'organo competente a decidere sulle impugnazioni proposte
da enti locali nei confronti dell'Agenzia del territorio (si
veda la pronuncia delle sezioni unite n. 675/2000).
«Tuttavia occorre evidenziare che la giurisprudenza di
questo giudice di legittimità in materia è in rapida e
continua evoluzione», spiega la nuova ordinanza, «e, non
senza esitazioni, comincia a mostrare la consapevolezza sia
del fatto che il comune in relazione al classamento e alla
rendita catastale è portatore di un proprio interesse ad
agire sia del fatto che l'impugnazione deve essere valutata
nel medesimo processo e in relazione a tutti i potenziali
interessati».
Pertanto, alla luce di «una lettura
costituzionalmente orientata», viene ribadita la competenza
di Ctp e Ctr sulle controversie catastali nelle quali ad
agire in giudizio sia il comune e non (o non solo) il
contribuente
(articolo ItaliaOggi del 23.07.2015
- tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI SERVIZI: La revisione dei prezzi non applicabile a rinnovi.
Tar Lazio su appalti servizi.
Negli appalti di servizi le controversie sulla revisione
prezzi sono devolute alla giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo sia che la contestazione riguardi la
spettanza della stessa, sia l'esatto suo importo: la
revisione prezzi si applica alle proroghe contrattuali e non
ai rinnovi.
Lo afferma il TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, con
la
sentenza 21.07.2015 n. 9945 che in primo luogo
precisa come l'obbligo di revisione del prezzo di un appalto
di durata su base periodica ha lo scopo di munire i
contratti di forniture e servizi di un meccanismo che, a
cadenze determinate, comporti la definizione di un «nuovo»
corrispettivo per le prestazioni oggetto del contratto,
conseguente alla dinamica dei prezzi registrata in un dato
arco temporale.
La legge è quindi a vantaggio di entrambi i contraenti:
l'appaltatore vede ridotta, anche se non eliminata, l'alea
propria dei contratti di durata, mentre la stazione
appaltante vede diminuito il pericolo di un peggioramento
della qualità o quantità di una prestazione, divenuta per
l'appaltatore eccessivamente onerosa o, comunque, non
remunerativa.
Ciò premesso i giudici affermano che le controversie in tema
di revisione prezzi sono devolute alla giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo sia che la
contestazione riguardi la spettanza della stessa, sia
l'esatto suo importo come quantificato dal concreto
provvedimento. Rispetto invece alla richiesta di revisione
dei prezzi per i periodi di proroga, la sentenza stabilisce
che è necessario dapprima qualificare i contratti
sottoscritti e qualificati come contratti di proroga.
Infatti la revisione dei prezzi dei contratti della p.a. si
applica soltanto alle proroghe contrattuali non anche ai
rinnovi.
Il criterio distintivo tra rinnovo e proroga è indicato
nell'elemento della novità: si può parlare di proroga solo
nel caso in cui vi sia l'integrale conferma delle precedenti
condizioni o con la modifica di alcune di esse in quanto non
più attuali, con il solo effetto del differimento del
termine finale del rapporto, il quale rimane per il resto
regolato dall'atto originario. Anche la sola modifica del
prezzo pone il contratto nella categoria del rinnovo
(articolo ItaliaOggi del 31.07.2015).
---------------
MASSIMA
Il Collegio –alla luce di tutti gli atti depositati-
condivide completamente le considerazioni svolte da
controparte.
In particolare, si precisa quanto segue:
-a) in punto di giurisdizione, ai sensi dell'art. 133, comma
1, lett. e.2), c.p.a. le controversie in tema di revisione
prezzi sono devolute alla giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo sia che la contestazione riguardi la
spettanza della stessa, sia l'esatto suo importo come
quantificato dal concreto provvedimento applicativo (cfr.,
TAR Lecce sez. III 10.10.2013 n. 2111);
-b) l’istituto della revisione prezzi oggi è disciplinato
dall’art. 115 del codice appalti (DLGS n. 163/2006).
Come noto, la revisione prezzi si applica
ai contratti di durata, trascorso un determinato periodo di
tempo dal momento in cui è iniziato il rapporto, e fino a
quando lo stesso rapporto, fondato su uno specifico
contratto, non sia cessato ed eventualmente sostituito da un
altro.
Con la previsione dell’obbligo di revisione
del prezzo di un appalto di durata su base periodica il
legislatore ha inteso munire i contratti di forniture e
servizi di un meccanismo che, a cadenze determinate,
comporti la definizione di un "nuovo" corrispettivo
per le prestazioni oggetto del contratto, conseguente alla
dinamica dei prezzi registrata in un dato arco temporale,
con beneficio per entrambi i contraenti, in quanto incidente
sull’equilibrio contrattuale.
Da un lato l’appaltatore vede ridotta, anche se non
eliminata, l’alea propria dei contratti di durata,
dall’altro la stazione appaltante vede diminuito il pericolo
di un peggioramento della qualità o quantità di una
prestazione, divenuta per l’appaltatore eccessivamente
onerosa o, comunque, non remunerativa
(cfr., Tar Lazio–Roma sez. III-quater 18.03.2014 n. 2953).
-c) Rispetto invece alla richiesta di revisione dei prezzi
per i periodi di proroga, è necessario dapprima
qualificare i contratti sottoscritti e qualificati come
contratti di proroga.
Infatti la revisione dei prezzi dei
contratti della PA si applica soltanto alle proroghe
contrattuali non anche ai rinnovi.
Si intendono come rinnovi quei
contratti successivi al contratto originario con cui,
attraverso specifiche manifestazioni di volontà, è stato
dato corso tra le parti a distinti, nuovi ed autonomi
rapporti giuridici, ancorché di contenuto analogo a quello
originario.
Il criterio distintivo tra rinnovo e proroga è
indicato nell’elemento della novità: si può parlare di
proroga solo nel caso in cui vi sia l'integrale conferma
delle precedenti condizioni o con la modifica di alcune di
esse in quanto non più attuali, con il solo effetto del
differimento del termine finale del rapporto, il quale
rimane per il resto regolato dall'atto originario.
Anche la sola modifica del prezzo pone il contratto nella
categoria del rinnovo.
In questa ipotesi, (e in particolare quando il contratto
rinnovato ha effettuato l’adeguamento del prezzo), non vi
può essere spazio per la revisione del prezzo, perché con
l’adeguamento del prezzo già si attua lo scopo della
revisione prezzi.
In definitiva, se la fonte del rapporto cambia, per rinnovo
o altro, l’appaltatore non potrà più invocare l’adeguamento
dei prezzi, pur se la prestazione persiste nei termini
precedenti: insomma, il rinnovo “comporta una nuova
negoziazione con il medesimo soggetto, che può concludersi
con l'integrale conferma delle precedenti condizioni o con
la modifica di alcune di esse in quanto non più attuali … la
proroga, invece, consiste nel solo effetto del differimento
del termine finale del rapporto, il quale rimane per il
resto regolato dall'atto originario"
(così, ex pluribus, C.d.S., III, 09.05.2012, n.
2682);
-d) nel caso di specie –alla luce degli atti depositati in
giudizio e di tutte le precisazioni fornite dalla
controparte– si versa indubbiamente in ipotesi di <rinnovo>.
Questo –in special modo– avuto riguardo alla modificazione
soggettiva intervenuta in seno all’originaria ATI; al nuovo
contratto n. 8769/2013; e alla autonoma determinazione
dirigenziale n. 293/DIR10/2012 che lo ha preceduto.
Ad avviso del Collegio, si è trattato di rinnovo del
contratto originario e non già di proroghe atteso che non vi
è stato il mero spostamento in avanti del termine di
scadenza del rapporto, bensì la rinegoziazione del complesso
delle condizioni.
In ogni caso, vi è stata sempre un'istruttoria da parte
dell’Amministrazione diretta a verificarne attualità e
convenienza, nonché l’espressa adesione alla proposta della
medesima Amministrazione da parte del contraente.
In sintesi, può senz'altro affermarsi che vi è stato un
rinnovato esercizio dell'autonomia negoziale;
-e) vi è ancora da osservare che –nella specie– quando il
Comune ha voluto adottare semplici atti di proroga lo ha
fatto espressamente (cfr., atto aggiuntivo al primo
contratto di appalto n. 6307/2007, recante la proroga fino
al 05.12.2012).
In conclusione, stante la legittimità dell’operato della PA,
la completezza dell’istruttoria svolta e l’adeguatezza della
motivazione del provvedimento impugnato, il ricorso deve
essere respinto. |
EDILIZIA PRIVATA: E'
illegittima la determinazione dirigenziale recante
l'ingiunzione di pagamento delle somme occorse per la
demolizione d'ufficio di opere edilizie abusivamente
realizzate, che non sia stata preceduta da una valutazione
tecnico-economica della giunta municipale.
... per l'annullamento:
- del provvedimento prot. n. 36116 del 09.09.2008 recante
ingiunzione al pagamento di euro 7.703,88 per le spese di
demolizione di opere abusive realizzate dal ricorrente;
- della determina dirigenziale n. 828 del 21.07.2005 con cui
è approvato il certificato di regolare esecuzione delle
opere di demolizione e di ogni altro ad essi presupposto,
collegato e consequenziale;
...
L’art. 41 del d.P.R. n. 380/2001, nel testo in vigore al
tempo dell’adozione dell’ordinanza di demolizione stabilisce
che “In tutti i casi in cui la demolizione deve avvenire
a cura del comune, essa è disposta dal dirigente o dal
responsabile del competente ufficio comunale su valutazione
tecnico-economica approvata dalla giunta comunale”.
La disposizione risponde alle regole di trasparenza
dell’azione amministrativa, insite nel principio di adeguata
motivazione dei provvedimenti delle pubbliche autorità (art.
3 della L. n. 241/1990), riveniente dal più generale
principio di buon andamento dei pubblici uffici (art. 97
Cost.), a tutela e garanzia degli amministrati.
Per come chiaramente è emerso dalla complessa istruttoria
svolta, non risulta che la giunta municipale abbia espresso
un giudizio di congruità della rilevante somma che il
dirigente, successivamente, ha liquidato a carico del
ricorrente per le spese della demolizione, nonostante un
diverso preventivo richiamato nell’ordinanza di demolizione
di importo di 2.000,00 euro più iva.
La giurisprudenza d’altro canto ha pacificamente affermato
che è illegittima la delibera dirigenziale recante
l'ingiunzione di pagamento delle somme occorse per la
demolizione d'ufficio di opere edilizie abusivamente
realizzate, che non sia stata preceduta da una valutazione
tecnico-economica della giunta municipale (così Consiglio di
Stato, sez. V, 02.11.2007 n. 5966, Tar Lazio–Roma, II-bis,
n. 7887 dell’11/10/2011)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 21.07.2015 n. 3854 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Sull'istituto della concessione amministrativa e
chiarimenti sui tratti distintivi della concessioni di
servizi rispetto alla concessione di lavori pubblici.
Lo strumento privilegiato per l'affidamento di concessioni
di lavori pubblici è quello della finanza di progetto.
L'istituto della concessione amministrativa, secondo il
costante orientamento delle Sezioni unite della Cassazione,
è connotato dalla permanenza nel corso del rapporto
concessorio, e fino al suo scioglimento, degli stessi poteri
pubblicistici dell'autorità concedente che hanno dato luogo
alla relativa costituzione, benché questa si avvalga di
moduli consensuali di stampo privatistico, da considerarsi
comunque sempre in funzione sostitutiva dei primi.
Al fine di distinguere le figure di concessione di lavori
pubblici e quella di pubblico servizio oltre al
criterio della "prevalenza economica", deve essere
svolta una valutazione di tipo funzionale, in virtù della
quale deve optarsi per l'ipotesi della concessione di lavori
pubblici "se la gestione del servizio è strumentale alla
costruzione dell'opera, in quanto diretta a consentire il
reperimento dei mezzi finanziari necessari alla
realizzazione, mentre si versa in tema di concessione di
servizi pubblici quando l'espletamento dei lavori è
strumentale, sotto i profili della manutenzione, del
restauro e dell'implementazione, alla gestione di un
servizio pubblico il cui funzionamento è già assicurato da
un'opera esistente".
Pertanto, in base al criterio funzionale, in caso di
concessione di lavori l'attività di gestione dell'opera
realizzata in esecuzione della stessa è strumentale a
reperire le risorse necessarie a sostenerne il costo di
costruzione. Nel caso inverso in cui i lavori abbiano la
finalità di rendere possibile o a creare le condizioni per
l'esercizio, o il miglior esercizio, del servizio pubblico,
il contratto è qualificabile come concessione di servizi.
Quindi traslando queste coordinate di carattere generale al
caso di specie, è indubbio che l'affidamento delle aree
pubbliche di sosta in virtù di appositi provvedimenti
concessori è strumentale alla gestione del servizio di
riscossione dei "proventi dei parcheggi a pagamento"
(art. 7, c. 7, del codice della strada), anch'essa affidato
in concessione in luogo dell'esercizio diretto dello stesso
da parte dell'ente comunale proprietario (ai sensi del
successivo c. 8).
L'attività di riscossione è infatti l'unica economicamente
valutabile in questa tipologia di concessione, dal momento
che i proventi con essa ottenuti costituiscono l'unico
cespite patrimoniale attraverso il quale il concessionario
può conseguire il margine positivo di gestione del servizio.
Per contro, con la gestione delle aree ed il mantenimento
della loro funzionalità viene costituito in favore del
concessionario il necessario titolo giuridico, opponibile ai
terzi, mediante il quale questo è posto nelle condizioni di
esercitare l'attività di interesse pubblico affidatagli
dall'autorità concedente.
---------------
Lo strumento privilegiato per l'affidamento di concessioni
di lavori pubblici è quello della finanza di progetto (o
project financing, ora disciplinato in via generale agli
artt. 152 e ss. d.lgs. n. 152/2006). Attraverso il
project financing le pubbliche amministrazioni, non in
grado di finanziare la costruzione dell'opera, possono
ricorrere a capitali di origine privata (e principalmente
dalle banche).
A loro volta, in tanto i privati possono essere indotti a
sovvenire investimenti di rilevante portata come quelli
richiesti dalla costruzione di opere pubbliche o di pubblica
utilità, e ad assumerne i rischi inerenti alla costruzione e
gestione, in quanto il relativo progetto appaia in grado di
autosostenersi sul piano economico, per la sua capacità di
generare alla fine della durata prevista un margine
gestionale positivo (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 21.07.2015 n. 3631 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it) |
ATTI AMMINISTRATIVI: Giudizi generici (spesso) ingiusti.
Negligenza del magistrato sotto tiro.
Se il giudice di merito non tiene conto delle circostanze
messe in luce dalla parte ricorrente, limitandosi a
pronunciare in astratto e genericamente, questo è
sintomatico di una possibile decisione ingiusta. La
manifesta negligenza nella valutazione dei dati istruttori è
oggetto di possibile rilievo in cassazione ai fini del
controllo di legittimità.
Così ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. VI civile,
con la
sentenza 20.07.2015 n. 15175.
Al di là della specifica vicenda di merito, il principio
generale, di ordine processuale, espresso dai giudici di
legittimità attiene all'ammissibilità della censura in sede
di cassazione, espressa «non già come valutazione della
giustezza o meno della decisione, valutazione che non
compete alla Corte, ma come indice della presenza di difetti
sintomatici di una possibile decisione ingiusta», come
quando la negligenza dell'esame degli elementi istruttori ha
avuto un'incidenza causale sulla decisione con riferimento a
un «punto decisivo», il cui corretto esame la
decisione stessa avrebbe invece potuto cambiare.
Sono dunque rilevanti in tal senso quegli elementi non
adeguatamente e specificamente considerati dal giudice del
merito e capaci di generare una difettosa ricostruzione del
fatto dedotto in giudizio, con conseguente legittima censura
avente a oggetto il vizio motivazionale della sentenza.
Anche dopo l'abrogazione del vizio di insufficiente
motivazione è del resto possibile far valere il vizio di
violazione della legge, quando una motivazione non è stata
formulata affatto, oppure vi è una motivazione apparente, o
una motivazione obiettivamente incomprensibile. In questi
casi, infatti, il vizio di motivazione diventa un vero e
proprio vizio di violazione della legge, che impone al
giudice di motivare la sentenza.
Quanto poi al significato del concetto di omesso esame di un
fatto storico decisivo per il giudizio, allorché il fatto
storico sia stato comunque preso in considerazione dal
giudice, anche se poi la sentenza non ha dato conto di tutte
le risultanze probatorie, l'omesso esame di elementi
istruttori non integra di per sé vizio della sentenza
(articolo ItaliaOggi del 23.07.2015
- tratto da www.centrostudicni.it). |
TRIBUTI: Legittime le regole comunali sui canoni.
Consiglio di Stato. Per le concessioni ai gestori dei
servizi pubblici.
Sono legittimi
i regolamenti comunali applicativi del canone di concessione
previsto dall’articolo 27 del Codice della strada, posto a
carico dei gestori di servizi pubblici (telecomunicazioni e
acquedotto).
Lo ha chiarito il Consiglio di Stato
-Sez. V- con sei
ordinanze depositate il 16 luglio (ordinanza
16.07.2015 n. 3214,
n. 3215,
n. 3216,
n. 3217,
n. 3218,
n.
3219), sospendendo l’efficacia di altrettante sentenze del
Tar Milano che aveva annullato integralmente i regolamenti
adottati dagli enti locali.
I giudici di Palazzo Spada
confermano l’orientamento espresso con la sentenza
31.12.2014 n. 6459 (citata nelle sei ordinanze del 16
luglio), che aveva ritenuto applicabile il canone concessorio anche alle occupazioni dei sottoservizi
telefonici e delle altre reti di telecomunicazione, finendo
per conferire al prelievo in questione la patente di
legittimità.
Tuttavia si è sviluppato un contenzioso di
ampia portata, in prevalenza in Lombardia, che si è concluso
in primo grado con l’annullamento dei regolamenti istitutivi
del prelievo. Dall’inizio del 2015 sono state emesse ben 35
sentenze, da parte del Tar Lombardia (Milano e Brescia) e di
altri Tar (L’Aquila e Catanzaro).
In particolare il Tar
Milano, con le sue 25 sentenze del 2015 (l’ultima in ordine
cronologico è la n. 1545 del 03.07.2015), ha censurato i
regolamenti locali per diversi motivi, tra cui: l’importo
del canone deve essere indicato nell’atto di autorizzazione
o concessione; il comune non può determinare le tariffe in
base all’estensione delle aree (adottando un solo criterio
quantitativo); l’importo a titolo di Cosap-Tosap deve
costituire la misura massima applicabile ed eventuali canoni
devono essere detratti da tale misura massima; non è
possibile prevedere un prelievo in presenza di una
convenzione che aveva già previsto un corrispettivo per la
stessa occupazione.
Tutti rilievi che non sembrano
considerare l’ampia potestà regolamentare degli enti locali
riconosciuta dal Consiglio di Stato con la sentenza n.
6459/2014. Decisione che, pur provenendo dal vertice della
giustizia amministrativa, viene prima ignorata dal Tar
Milano, poi ritenuta non in contrasto con le valutazioni
effettuate in sede di esame delle censure proposte dal
gestore del servizio (si veda la sentenza del Tar Milano
1007/2015), successivamente non condivisa e considerata
«isolata nel panorama giurisprudenziale» (si veda Tar Milano
n. 1410/2015).
Ora il Consiglio di Stato rimette in discussione
l’orientamento contrario dei giudici di primo grado. Al
momento quindi i comuni possono sperare in un’inversione di
rotta da parte dei Tar oppure nel verdetto definitivo di
Palazzo Spada, che dovrebbe chiudere la partita a favore
degli enti locali (ove l’esito del giudizio cautelare venga
confermato nel merito).
Si tratta peraltro di un contenzioso
che si trascinerà ancora per diverso tempo, poiché
riguardante richieste di pagamento almeno fino a tutto il
2015, quindi seguiranno altri ricorsi o giudizi di appello.
Dal 2016 è invece prevista l’introduzione di un nuovo canone
di concessione “unico”, che dovrebbe sostituire l’intero
comparto dei tributi minori (imposta sulla pubblicità, Tosap,
Cosap) e assorbire anche il canone del Codice della strada (articolo Il Sole 24 Ore del
28.07.2015). |
APPALTI: Requisiti integrabili.
Tar Campania su cessioni rami d'azienda.
È legittimo documentare i requisiti con riferimento alle
referenze dell'impresa di cui si è acquisito o affittato il
ramo di azienda e questo anche in assenza di apposita
previsione nel bando di gara di appalto e senza necessità di
formalizzare un contratto di avvalimento.
Lo afferma il TAR
Campania-Napoli, Sez. VI,, con la
sentenza 15.07.2015 n. 3790 in tema di documentazione dei requisiti
di partecipazione a una gara.
I giudici in particolare hanno
stabilito che al fine di integrare i requisiti di
partecipazione ad una gara di appalto e a prescindere da
un'espressa previsione del bando, sono certamente
riconducibili al patrimonio di un'impresa i titoli posseduti
da altro soggetto che gli abbia ceduto o affittato l'azienda
o un suo ramo. Per il Tar, infatti, attraverso il contratto
di cessione o di affitto, si determina il «subingresso del
contraente in tutti i rapporti attivi e passivi del cedente
o locatore ivi compresi i titoli e le referenze che derivano
dallo svolgimento dell'attività svolta».
La precisazione
rileva soprattutto con riguarda al contratto di affitto: «È
applicabile», si legge nella sentenza, «al contratto di
affitto il principio di diritto affermato a proposito della
cessione di ramo d'azienda, ossia che sono riconducibili al
patrimonio della società o dell'imprenditore cessionari i
requisiti posseduti dal soggetto cedente, giacché essi
devono considerarsi compresi nella cessione in quanto
strettamente connessi all'attività propria del ramo ceduto».
Nel caso esaminato dai giudici la società che aveva
partecipato alla gara era stata costituita un anno prima e i
requisiti richiesti abbracciavano più anni, per cui il
concorrente aveva fatto riferimento ai requisiti di altre
imprese di cui aveva acquisito la disponibilità di rami di
azienda.
Ovviamente è elemento essenziale che l'affitto o la
cessione siano intervenuti prima dell'avvio della procedura
di gara. Per questa ipotesi la sentenza specifica che
l'integrazione dei requisiti mancanti scatta a prescindere
da un'espressa previsione del bando e non era quindi
necessario formalizzare un apposito contratto di avvalimento
(articolo ItaliaOggi del 24.07.2015).
---------------
MASSIMA
3.2 Quanto al requisito sub b), relativo alla “capacità
tecnica” il costituendo raggruppamento temporaneo
aggiudicatario ha allegato agli atti di gara, come
prescritto dal bando, una dichiarazione sostitutiva del
19.02.2015 resa ai sensi dell’art. 47 del d.p.r. n. 445/2000
con cui R.G., nella veste di legale rappresentante della
Mate soc. coop. capogruppo, e A.O., U.U. e R.T., quali
mandanti e liberi professionisti, dichiaravano, sotto la
propria rispettiva responsabilità: “che il raggruppamento
temporaneo nel suo complesso possiede i requisiti minimi di
idoneità tecnica ed economica di cui al punto L ivi
riportando l’elencazione di ciascuno dei servizi di
pianificazione urbanistica espletati dal G. quale
progettista incaricato in un periodo compreso tra il 2009 ed
il 2011 per un fatturato di € 369.075,74, e degli strumenti
di pianificazione urbanistica comunale redatti dal Gerometta
quale progettista incaricato, salvo il primo quale
co-progettista, nel periodo compreso tra il 2008 ed il 2013
per vari Comuni di popolazione superiore a 20.000 abitanti".
Nella specie la ditta aggiudicataria, oltre la predetta
autodichiarazione, ha altresì prodotto agli atti di gara una
dichiarazione del 19.02.2015 a firma di R.G. quale legale
rappresentante della Mate soc. coop. attestante che la
predetta società, in forza di distinti contratti di affitto
d’azienda stipulati con atti notarili del 30.12.2014, aveva
affittato la società “Veneto progetti s.c.” –di cui
il G. era legale rappresentante- con sede in San Vendemiano
(Treviso) e la società Tecnicoop soc. coop. con sede in
Bologna via ... n. 21, attestando altresì di allegare i
detti contratti di affitto.
Come noto, l’art. 2555 c.c. definisce
l’azienda come il complesso dei beni organizzati
dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa per cui essa
ricomprende in sé sia i beni immateriali che quelli
materiali, nonché tutti i rapporti giuridici inerenti
l’esercizio dell’impresa, e dunque i contratti, i crediti ed
i debiti.
Il contratto di affitto d’azienda è previsto dall’art. 2562
c.c. che opera un rinvio alla disposizione di cui all’art.
2561 c.c. stabilendo che all’affitto si applichino le
disposizioni in tema di usufrutto d’azienda.
L’affittuario quindi vanta sui beni aziendali un diritto
personale di godimento e i suoi poteri ed i suoi doveri
corrispondono essenzialmente a quelli dell’usufruttario,
sicché egli ha il potere di disporre dei beni aziendali nel
rispetto del complessivo vincolo di destinazione. Nella
sostanza, l’affitto di azienda è un contratto di locazione
avente ad oggetto un bene produttivo, ossia l’azienda intesa
come complesso organizzato di beni preordinati all’esercizio
di una attività d’impresa.
L’affitto d’azienda oltre ad essere disciplinato dalle norme
che regolano l’usufrutto di azienda, in forza del richiamo
operato dall’art. 2562 del codice civile, è altresì regolato
da alcune delle norme che regolano la cessione d’azienda. In
particolare si applica all’affitto di azienda, per espresso
richiamo, l’art. 2558 cc. che regola la successione nei
contratti nel caso del trasferimento d’azienda. La norma
prevede un’ipotesi di cessione del contratto, ricondotta
alla legge che, al verificarsi di una vicenda successoria
relativa all’azienda, prevede il subentro automatico
dell’acquirente nei contratti stipulati per l’esercizio
della stessa, così derogando alla disciplina generale in
materia di cessione del contratto che, come noto, richiede
per il perfezionamento della fattispecie il consenso del
contraente ceduto (art. 1406 cc.).
In seguito all’affitto d’azienda il locatario ha quindi la
facoltà di usufruire del patrimonio la cui disponibilità è
stata trasferita, e quindi di comprovare i requisiti
richiesti dal bando in sede di gara, poiché con la cessione
dei contratti si perfeziona il passaggio della capacità
economica e delle competenze possedute dall’affittante.
Ciò premesso, ritiene il Collegio che, al
fine di integrare i requisiti di partecipazione ad una gara
di appalto ed a prescindere da un’espressa previsione del
bando, sono certamente riconducibili al patrimonio di
un’impresa i titoli posseduti da altro soggetto che gli
abbia ceduto o affittato l’azienda o un suo ramo, in quanto
detti contratti comportano il subingresso del contraente in
tutti i rapporti attivi e passivi del cedente o locatore ivi
compresi i titoli e le referenze che derivano dallo
svolgimento dell'attività svolta. Infatti, è applicabile al
contratto di affitto il principio di diritto affermato a
proposito della cessione di ramo d’azienda, ossia che sono
riconducibili al patrimonio della società o
dell’imprenditore cessionari i requisiti posseduti dal
soggetto cedente, giacché essi devono considerarsi compresi
nella cessione in quanto strettamente connessi all'attività
propria del ramo ceduto
(Cons. Stato, sez. V, 10.09.2010, n. 6550).
Per l’ipotesi di cessione di ramo d’azienda (cui l’affitto è
equiparato) avvenuta prima della partecipazione alla gara
l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha osservato che:
“sebbene per suo tramite si realizzi una
successione a titolo particolare, essa tuttavia assume una
forma del tutto peculiare, consistente nel passaggio
all'avente causa dell'intero complesso dei rapporti attivi e
passivi nei quali l'azienda stessa o il suo ramo si
sostanzia (tanto
da farsi riferimento in giurisprudenza al concetto di
trasferimento di universitas, v. Cass., 12.06.2007, n.
13765; Cass., 13.06.2006, n. 13676; Cass., 19.07.2000, n.
9460). Il che rende la vicenda ben suscettibile di
comportare pur essa la continuità tra precedente e nuova
gestione imprenditoriale”.
Nel caso in cui, come nella specie, l’affitto sia
intervenuto prima dell’avvio della procedura di gara, sono
certamente riconducibili al patrimonio della società o
dell’imprenditore locatari prima della partecipazione alla
gara di un’azienda i requisiti posseduti dal soggetto
locatore, giacché essi devono considerarsi compresi nella
cessione in quanto strettamente connessi all'attività
propria del locatore, e pertanto possono integrare i
requisiti di partecipazione ad una gara di appalto a
prescindere da un'espressa previsione del bando.
Non può quindi sostenersi pertanto che l’aggiudicataria
avrebbe dovuto dichiarare nella domanda di partecipazione, a
pena di esclusione, l'intenzione di avvalersi dei requisiti
acquisiti per effetto dell’affitto delle aziende stipulato a
anteriormente alla procedura. Del resto l’art. 51 del d.lgs.
163 cit., nel disciplinare le vicende soggettive del
candidato, dell’offerente e dell’aggiudicatario nella fase
successiva all’avvio della procedura di gara prevede nei
casi, tra l’altro, di cessione o affitto l’azienda o di un
ramo di essa finanche la possibilità di sub ingresso del
cessionario ad cedente subordinatamente all’accertamento del
possesso dei requisiti di ordine generale e speciale.
Del resto al fine di assicurare la massima estensione dei
principi comunitari e delle regole di concorrenza negli
appalti di servizi o di servizi pubblici locali, per la
comprova del requisito in parola il Codice dei contratti, al
successivo comma 4-bis dello stesso art. 42 ammette finanche
la possibilità di ricorrere a contratti di locazione
finanziaria con soggetti terzi. |
COMPETENZE PROGETTUALI: Catasto, chiarezza sulle competenze.
La sentenza della consulta.
Con la
sentenza
15.07.2015 n. 154 la
Corte costituzionale ha dichiarato illegittima la
disposizione di legge che amplia le competenze degli
agrotecnici in materia catastale ed estimativa nel settore
immobiliare (art. 26, comma 7-ter, dl 248/2007).
La
questione di legittimità era stata sollevata dal Consiglio
di stato nel 2014 in base a osservazioni di merito e di
sostanza. Nella sostanza, il contrasto con l'art. 77, comma
2 della Costituzione perché inserita all'interno di un «Milleproroghe»
in assenza dei requisiti di straordinarietà e urgenza (nelle
parole della Corte «uso improprio, da parte del Parlamento,
di un potere che la Costituzione attribuisce a esso»).
Nel
merito, il contrasto con l'art. 3 della Costituzione nella
parte in cui «verrebbe a incidere sulla leale concorrenza in
danno alla categoria dei geometri, ad onta della comprovata
e più adeguata preparazione di questi ultimi nella materia
catastale».
«La sentenza», commenta Maurizio Savoncelli,
presidente del Cngegl, «rimanda ai profili culturali che
abilitano ciascuna Categoria a svolgere specifiche attività
intellettuali. Nella fattispecie, il catasto ha carattere di
materia principale nel curriculum formativo di ogni
geometra, abilitandolo a una competenza professionale
specifica, non posseduta da altre categorie»
(articolo ItaliaOggi del 30.07.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO: Contratti,
niente responsabilità ai sindacati.
Personale. Le Sezioni unite della Cassazione negano la
possibilità di danno erariale in caso di integrativi
illegittimi.
Con l'ordinanza
14.07.2015 n. 14689 le Sezz. unite civili della
Corte di Cassazione
escludono la responsabilità erariale per le organizzazioni
sindacali che hanno firmato negli enti pubblici contratti
integrativi illegittimi. Un tema, quello della
responsabilità prodotta dai decentrati fuori norma, tornato
di stretta attualità dopo che la Corte dei conti (sentenza
98/2015 della sezione giurisdizionale del Veneto, su cui si
veda Il Sole 24 Ore del 5 luglio) ha negato che la sanatoria
scritta all’articolo 4 del Dl 16/2014 cancelli anche il
danno erariale.
Come la stessa Cassazione dà atto nell’incipit del suo
argomentare, da tempo la giurisprudenza ha esteso il
concetto di Pa, anche ai fini della responsabilità erariale,
così da includervi tutti quei soggetti partecipi della
gestione o comunque rappresentativi di interessi generali.
In questo contesto vanno innestate alcune pronunce della
Corte dei conti (sezione giurisdizionale Lombardia, 10.03.2006 n. 172 e 14.06.2006 n. 372) che giungono ad
affermare la corresponsabilità dei rappresentanti sindacali
nella sottoscrizione di clausole contrattuali decentrate
nulle per contrasto con quelle negoziali nazionali, di rango
superiore, concorrendo con il loro apporto a danneggiare
l’erario della singola amministrazione, almeno nei casi in
cui le disposizioni ed i limiti dei contratti collettivi
nazionali di comparto fossero di piana lettura e
applicazione.
Nelle sue pronunce, però, la Corte ha quantificato la
portata di questa corresponsabilità al solo fine di
scomputarla da quella dei rappresentanti della Pa
danneggiata.
Le Sezioni Unite escono dal solco tracciato dai giudici
contabili, perché, ricordando che con la privatizzazione la
disciplina del rapporto di lavoro è contrattualizzata e che
i rapporti sindacali nel comparto pubblico sono ormai
uniformi a quelli vigenti nell’impresa, secondo quanto
espressamente previsto dagli articoli 2 e 40 del Dlgs
165/2001, chiariscono che i sindacalisti nello svolgimento
della loro funzione non partecipano a quella pubblica, ma,
anzi, se ne distaccano per natura in maniera completamente
opposta, mirando a perseguire gli interessi dei lavoratori.
Quindi essi si sottraggono sia all’ambito dei soggetti
assimilabili alla Pubblica amministrazione sia,
conseguentemente, a quello della responsabilità e della
giurisdizione contabile, anche qualora il loro operato
concorra alla stipula di clausole contrattuali decentrate
nulle per violazione di quelle di riferimento di portata
collettiva nazionale.
Questo approdo giurisprudenziale tuttavia, pur non
escludendo a rigore che la Corte dei conti valuti comunque
la pressione del sindacato come un fattore riduttivo della
colpa degli esponenti della parte pubblica, in concorrenza
con altri elementi riscontrabili nel caso concreto e fatti
valere dagli interessati in giudizio, non di meno potrebbe
indurre i rappresentanti dell’amministrazione a una gestione
più prudente delle trattative.
Nel caso del salario
accessorio va ricordata anche la possibilità di avviare una
disciplina unilaterale, secondo quanto previsto
dall’articolo 40, comma 3-ter, del Dlgs 165/2001, quanto
meno nelle more di un assestamento della giurisprudenza
contabile in merito alla valenza da attribuire al sindacato
ai fini del concorso di colpa e del corrispondente discarico
della responsabilità contabile dei funzionari pubblici (articolo Il Sole 24 Ore del
22.07.2015). |
VARI:
Esami avvocati, non basta il voto in forma
numerica.
Nell'esame di abilitazione alla professione di avvocato la
valutazione in forma numerica è insufficiente.
Questo è quanto ha stabilito il TAR Lazio-Roma, Sez.
II-quater, con la
sentenza 14.07.2015 n. 9366 rivedendo il
tradizionale orientamento.
Ad avviso del collegio, in assenza della predeterminazione
normativa di un metodo, è possibile immaginare vari sistemi
di motivazione del giudizio. Non è, però, ammissibile che
sia sottratto a qualsiasi forma di esternazione e quindi di
conoscibilità da parte del destinatario.
In considerazione dell'evoluzione dell'ordinamento in
materia di esami di abilitazione alla professione di
avvocato e in particolare della novella introdotta dall'art.
46, comma 5, della legge 31.12.2012, n. 247, che ha previsto
il meccanismo basato sulle annotazioni dirette
sull'elaborato da esaminare, deve ritenersi che il giudizio
negativo in ordine alle prove scritte di tali esami di
abilitazione non possa fondarsi sulla mera indicazione di un
punteggio numerico, ma richieda anche, a pena di
illegittimità, «che negli elaborati corretti sia presente
una esternazione grafica o testuale della commissione
esaminatrice, la quale possa fungere da tramite
logico-argomentativo tra i criteri generali e l'espressione
finale numerica del singolo giudizio». Deve, quindi,
ritenersi illegittimo il giudizio negativo espresso in forma
meramente numerica in ordine alle prove scritte qualora
dagli atti non si riscontri alcuna espressione della
commissione.
I giudici ricordano, infine, come l'obbligo di motivare i
provvedimenti amministrativi è diretto a realizzare la
conoscibilità, e quindi la trasparenza, dell'azione
amministrativa, «ai quali va riconosciuto il valore di
principi generali, diretti ad attuare sia i canoni
costituzionali di imparzialità e buon andamento
dell'amministrazione, sia la tutela di altri interessi
costituzionalmente protetti, come il diritto di difesa nei
confronti della stessa amministrazione».
L'obbligo di motivazione, quindi è radicato da un lato negli
artt. 97 e 113 della Costituzione, in quanto costituisce
corollario dei principi di buon andamento e d'imparzialità
dell'amministrazione e, dall'altro, nell'articolo 24 della
Costituzione, in quanto consente al destinatario del
provvedimento, che ritenga lesa una propria situazione
giuridica, di far valere la relativa tutela giurisdizionale
(articolo ItaliaOggi Sette del 27.07.2015
- tratto da www.centrostudicni.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - TRIBUTI: Spese compensate eccezionalmente e motivando.
Contenzioso fiscale.
Si rafforza sempre più lo stop alle compensazioni a pioggia
nel processo tributario. La vittoria non può mai tradursi di
fatto in una sconfitta. È quello che accade se il giudice
tributario compensa le spese di lite solo perché la causa è
di valore modesto.
La compensazione deve essere un fatto eccezionale ed esige
un'adeguata motivazione. Si lede, infatti, il diritto di
agire in giudizio se la parte vittoriosa non recupera le
spese sostenute. Inoltre, subisce un evidente danno se
l'importo delle spese supera quello del pregiudizio
economico che ha inteso evitare agendo in giudizio.
Questo
importante principio è stato affermato dalla Corte di
Cassazione, Sez. VI civile, con l'ordinanza
13.07.2015 n. 14550.
Per i giudici di legittimità, ove non sussista reciproca
soccombenza, è legittima la compensazione delle spese
processuali se concorrono «giusti motivi, esplicitamente
indicati nella motivazione». Il giudice, però, non può
motivare la compensazione delle spese in considerazione del
«valore assai esiguo della causa». In questo modo la parte
processuale vittoriosa viene penalizzata e di fatto rimane
soccombente nel caso in cui «l'importo delle spese sia tale
da superare quello del pregiudizio economico» che ha inteso
evitare agendo in giudizio.
Del resto, la Cassazione si è già espressa più volte in tal
senso (si veda ordinanza 766/2014), sostenendo che la
condanna al pagamento delle spese processuali di chi
soccombe nel giudizio tributario è una forma di tutela della
parte vittoriosa, che ha fatto valere in sede giudiziale le
proprie ragioni e ha tutto l'interesse a recuperare, in
tutto o in parte, i costi sostenuti. La compensazione delle
spese deve essere limitata a casi eccezionali e esige
un'adeguata motivazione.
Quindi, il giudice tributario non
può limitarsi nella sentenza a compensare in tutto o in
parte le spese per giusti motivi. Si tratta di una formula
criptica che viola il diritto di difesa perché non consente
alle parti di esaminare le ragioni poste a base della
decisione. Vero è che la soccombenza in giudizio del
contribuente o del fisco non comporta l'automatica condanna
a pagare le spese processuali.
Infatti, come posto in
rilievo dalla commissione tributaria regionale di Milano,
sezione XXX, con la sentenza 103/2013, la novità delle
questioni trattate, la loro complessità o le contrastanti
prese di posizione della giurisprudenza su determinate
materie possono spingere una delle parti a proporre azione
giudiziale e, in caso di esito negativo della causa, il
giudice può decidere di non addebitare i costi del processo
(articolo ItaliaOggi del 23.07.2015). |
APPALTI SERVIZI:
Agli affidamenti aventi ad oggetto le concessioni
di servizi ex art. 30 D.Lgs. n. 163/2006 non si applicano,
secondo un principio di "eterointegrazione", le disposizioni
del Codice degli Appalti.
Non trovano in alcun modo diretta applicazione (secondo un
principio di "eterointegrazione") le disposizioni del
D.Lgs. n. 163/2006 (Codice degli Appalti), agli affidamenti
aventi ad oggetto concessioni di servizi salvo che possano
essere configurate esse stesse quali principi fondamentali
generali relativi ai contratti pubblici e/o risultino
diretta specificazione di detti principi, ovvero siano
espressamente richiamate nel predetto art. 30 D.Lgs. n.
163/2006.
In particolare, nel caso di specie, non trova automatica e
diretta applicazione la disciplina (di dettaglio) di cui
all'art. 75 del D.Lgs. n. 163/2006, trattandosi di
disposizione "preordinata alla costituzione di idonea
garanzia per la valutazione dell'idoneità complessiva
dell'offerta e rispetto alla quale non è possibile
individuare alcuna correlazione con le previsioni richiamate
dal c. 1 del citato art. 30 del codice dei contratti
pubblici. Diversamente opinando, l'intero corpus del Codice
sarebbe di fatto applicabile alle concessioni di servizi,
rendendo del tutto superflui i precetti dettati nel citato
art. 30".
Ciò, in ogni caso, non preclude la possibilità per le
stazioni appaltanti, nell'ambito della discrezionalità loro
riconosciuta, di fissare condizioni più stringenti per la
partecipazione alle gare e, dunque, di "autovincolarsi",
tramite il recepimento (non necessariamente a mezzo di
esplicito richiamo della specifica disposizione, ma anche
sostanzialmente e parzialmente) nella lex specialis
di ulteriori norme del D.Lgs. n. 163/2006, in quanto il
summenzionato art. 30 non obbliga, ma neanche vieta di
applicare in tutto o in parte alle concessioni di servizi la
disciplina codicistica dettata per gli appalti pubblici,
purché compatibile con l'istituto, ed eventualmente con i
necessari e/o opportuni adeguamenti (ad esempio, con
riferimento alla cauzione provvisoria ed a quella
definitiva, specificando il parametro rispetto al quale
calcolarne l'importo ovvero mercé definizione dell'importo
stesso).
Naturalmente, gli unici limiti da osservare sono quelli
derivanti dal "rispetto dei principi desumibili dal
Trattato e dei principi generali relativi ai contratti
pubblici" di cui allo stesso art. 30, co. 3, D.Lgs. n.
163/2006, tra i quali i principi di proporzionalità,
ragionevolezza ed adeguatezza. Laddove i suddetti principi
risultino in concreto rispettati dalle prescrizioni della
lex specialis, non si configura alcuna violazione del
principio di tassatività delle cause di esclusione di cui
all'art. 46, c. 1-bis D.Lgs. n. 163/2006 (TAR Puglia-Lecce,
Sez. III,
sentenza 13.07.2015 n. 2411 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it) |
ENTI LOCALI - VARI: Nessun divieto ai cani nelle spiagge libere.
Tar del Lazio. Bocciato lo stop del Comune - Diverso il caso
delle aree in concessione che sono pubblici esercizi.
Via libera ai
cani sulle spiagge libere: lo sottolinea il TAR Lazio-Roma,
Sez. II-bis, con la
sentenza 10.07.2015 n. 9302.
Il Comune di Anzio, con
specifica ordinanza, aveva vietato l’accesso sulle spiagge
libere, senza tuttavia adottare una motivazione che
giustificasse tale scelta.
Sul ricorso di un’associazione ambientalista, arriva ora la
sentenza dei giudici amministrativi che ritiene illegittima
l’ordinanza comunale, poiché manca una giustificazione a
tale divieto e non sono specificate quali cautele di
comportamento siano necessarie per la tutela dell’igiene
delle spiagge o l’incolumità dei bagnanti. Sul punto è
infatti necessario rispettare un principio di
proporzionalità, che impone alla Pa di optare, tra più
possibili scelte ugualmente idonee nel pubblico interesse,
per quella meno gravosa per i destinatari del provvedimento.
Evitando sacrifici inutili, la scelta di vietare l’ingresso
agli animali sulle spiagge destinate alla libera
balneazione, non deve risultare irragionevole e illogica, né
irrazionale e sproporzionata.
Stesso principio è espresso
dal Tar Reggio Calabria (28.05.2014 sentenza n.
2254/2014), con una pronuncia preceduta da un provvedimento
urgente, emesso a pochi giorni di distanza dal ricorso, che
sollecita le amministrazioni comunali ad individuare tratti
di spiaggia libera dove consentire l’accesso ai conduttori
di animali con disposizioni idonee a garantire decoro,
igiene e pulizia.
Sul demanio marittimo, il Comune e la Capitaneria di porto
possono emettere specifiche ordinanze: alcuni problemi si
pongono per le spiagge in concessione, considerando le
attività turistico-ricettive come pubblici esercizi. Le aree
concesse a pubblici esercizi sono interdette ai cani se vi è
specifica richiesta del gestore e presa d’atto
dell’amministrazione. Anche tali aree hanno tuttavia deroghe
nella zona di battigia, sulla quale –indipendentemente dai
concessionari- operano le ordinanze comunali e della
Capitaneria.
Infine, hanno voce anche le Regioni: in Friuli Venezia
Giulia l’articolo 21 della Lr 20/2012 prevede l’accesso dei
cani nelle spiagge libere, mentre l’eventuale utilizzo della
battigia antistante le spiagge date in concessione è
disciplinato nelle ordinanze dei Comuni. In Toscana (Lr
59/2009) l’articolo 19 conferma il libero accesso a spiagge
pubbliche e il 20 consente che il responsabile del pubblico
esercizio possa adottare misure limitative, comunicandole al
sindaco.
In Emilia Romagna vige un principio diverso: i cani non
hanno ingresso (ordinanza regionale balneare 1/2015) ma i
concessionari demaniali possono chiedere con Scia
(segnalazione al Comune) di individuare aree che accettano
cani. Tutto ciò, con salvezza delle misure veterinarie
(guinzaglio, museruola) dell’articolo 83 Dpr 320/1954 e
dell’ordinanza Ministero Salute 28.08.2014, con le
logiche eccezioni per i cani di ausilio ed accompagnamento
(articolo Il Sole 24 Ore del
23.07.2015).
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MASSIMA
III - Passando al merito del ricorso, il Collegio lo
ritiene fondato e dunque da accogliersi.
La ricorrente deduce che l’ordinanza balneare gravata –in
parte qua– irragionevolmente impone ai conduttori di
animali il generalizzato divieto di accesso alle spiagge
libere, in assenza di una motivazione che giustifichi tale
scelta e senza specificare quali cautele comportamentali
siano necessarie per la tutela dell’igiene delle spiagge,
ovvero della incolumità dei bagnanti.
Deduce altresì il difetto di motivazione, la manifesta
irragionevolezza e la violazione del principio di
proporzionalità, circa il rapporto tra le esigenze pubbliche
da soddisfare e l’incidenza sulle sfere giuridiche dei
privati.
La totale assenza di motivazione, infatti, non consentirebbe
di apprezzare se esso sia riferibile a ragioni riconducibili
all’igiene dei luoghi ovvero alla sicurezza di chi frequenta
le spiagge.
In ogni caso, la motivazione del provvedimento avrebbe
dovuto contenere una specifica giustificazione delle misure
adottate, che consentisse di verificare il rispetto del
principio di proporzionalità, poiché l’Autorità comunale
avrebbe dovuto individuare le misure comportamentali
ritenute più adeguate, piuttosto che porre un divieto
assoluto di accesso alle spiagge.
Di fatto tale limitazione alla libertà personale
costituirebbe un limite non consentito alla libera
circolazione degli individui.
La ricorrente evidenzia inoltre come l’ordinanza sarebbe in
contrasto con i principi espressi in sede regionale.
Tali censure meritano accoglimento.
Il provvedimento impugnato è illegittimo
per difetto di motivazione, come dedotto dalla ricorrente.
E tale vizio incide, altresì, sulla possibilità di
supportare la ragionevolezza delle scelte operate dalla
p.a., nella odierna fattispecie.
Il provvedimento impugnato è, altresì, illegittimo sotto il
connesso profilo della violazione del principio di
proporzionalità, che impone alla pubblica amministrazione di
optare, tra più possibili scelte ugualmente idonee al
raggiungimento del pubblico interesse, per quella meno
gravosa per i destinatari incisi dal provvedimento, onde
evitare agli stessi ‘inutili’ sacrifici.
La scelta di vietare l’ingresso agli animali –e,
conseguentemente, ai loro padroni o detentori– sulle spiagge
destinate alla libera balneazione, risulta irragionevole ed
illogica, oltre che irrazionale e sproporzionata.
Né possono trovare condivisioni le argomentazioni di parte
resistente, che comporterebbero, ove assecondate, una
elusione delle indicazioni regionali ed una compressione
generalizzata della posizione giuridica in esame senza un
limite temporale. |
EDILIZIA PRIVATA: Non esiste un tacito permesso di costruire.
Altro che silenzio-assenso dell'amministrazione. Va eseguito
l'ordine di demolizione adottato dal Comune a carico del
manufatto abusivo: nessun «tacito» permesso di costruire si
può essere formato nelle more quando nell'istanza manca
l'asseverazione di un tecnico abilitato che dichiari la
conformità dell'opera agli strumenti urbanistici e alle
norme edilizie, di sicurezza e ambientali.
Lo ricorda la
sentenza
09.07.2015 n. 3650 del TAR Campania-Napoli, Sez.
II.
Corretto equilibrio
Dovrà essere abbattuto il manufatto realizzato in un paesone
dell'hinterland partenopeo: un immobile incorpora l'altro
sulla stesso piano dell'edificio e scatta anche il cambio di
destinazione perché alla fine dei lavori non è più un «locale
attività» ma una vera e propria abitazione, in contrasto
con la destinazione urbanistica che in zona prevede aree
industriali.
Irrilevante la condotta inerte dell'ente locale rispetto
all'istanza di permesso di costruire presentata a suo tempo
dal privato, inutile invocare la legge regionale campana. In
realtà è lo stesso testo unico dell'edilizia a disporre che
la domanda di permesso di costruire sia corredata
dall'asseverazione di un tecnico abilitato che certifichi
come l'opera sia a norma.
E il professionista che dichiara il falso rischia sanzioni
penali e disciplinari che da una parte responsabilizzano
l'interessato e dall'altro garantiscono un corretto
equilibrio fra le esigenze di semplificazione amministrativa
e la lotta all'abusivismo edilizio e allo sviluppo selvaggio
delle aree urbane. Al privato non resta che pagare le spese
di giudizio
(articolo ItaliaOggi del 23.07.2015).
---------------
MASSIMA
Considerato:
- che il ricorrente impugna il provvedimento in epigrafe
-recante l’ordine di demolizione di opere di ampliamento
(mediante incorporazione di una parte di un altro locale
allo stesso piano) e cambio di destinazione d’uso ad
abitazione di un “locale attività” posto al secondo
piano dell’edificio sito in Arzano alla via ... 22,
realizzate in assenza di permesso di costruire ed in
contrasto con la destinazione urbanistica di zona (D- zona
industriale)– sostenendo che l’immobile è conforme ad una
richiesta di permesso di costruire presentata, ai sensi
della legge regionale n. 1/2011, in data 11.07.2012, sulla
quale si sarebbe formato il silenzio-assenso;
- che il Comune si è difeso replicando che la formazione del
silenzio assenso necessita che l’istanza sia completa di
tutti gli indispensabili elementi tecnici di valutazione, di
cui il ricorrente non ha fornito prova, e che, in
particolare, sarebbe mancante la relazione di un tecnico
abilitato attestante la conformità dell’opera allo strumento
urbanistico vigente, quale requisito essenziale della
domanda; soggiunge che la formazione del silenzio assenso è
esclusa dalla legislazione regionale, la quale, in caso di
inerzia, prevede l’intervento sostitutivo dell’ente
competente;
Ritenuto il ricorso infondato, alla luce della
giurisprudenza di questa stessa Sezione (sent. n. 6032 del
21.11.2014) secondo cui:
- in base all’art. 20, comma 1, del D.P.R.
380/2001, la domanda per il rilascio del permesso di
costruire deve essere accompagnata «da una dichiarazione
del progettista abilitato che asseveri la conformità del
progetto agli strumenti urbanistici approvati ed adottati,
ai regolamenti edilizi vigenti, e alle altre normative di
settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività
edilizia e, in particolare, alle norme antisismiche, di
sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie nel caso in cui
la verifica in ordine a tale conformità non comporti
valutazioni tecnico-discrezionali, alle norme relative
all’efficienza energetica»;
- la veridicità dell’asseverazione è presidiata
dall’irrogazione di sanzioni penali e disciplinari in caso
di mendacio che responsabilizzano l’interessato, concorrendo
a definire un equilibrio tra le esigenze della
semplificazione amministrativa e la necessità di prevenire
il pericolo di una più facile proliferazione degli
interventi edilizi contrari alla strumentazione urbanistica
ed alle altre normative di settore;
- la completa assenza di qualsiasi asseverazione del genere
da parte del progettista abilitato esclude in radice la
possibilità della formazione di un titolo abilitativo tacito
sulla domanda della società istante, assorbendo ogni
questione sulla compatibilità tra il regime semplificato
dell’art. 20 del D.P.R. n. 380/2001 e la legislazione
regionale;
Rilevato, infatti,
che la copia dell’istanza di permesso di costruire agli atti
del giudizio non è corredata da alcuna dichiarazione di un
tecnico abilitato e che, neppure a fronte della specifica
eccezione sollevata dal Comune, il ricorrente nulla ha
obiettato o prodotto al riguardo;
Considerato inoltre, senza pregiudizio alcuno per il
carattere conclusivo delle suesposte ragioni, che la Sezione
ha chiarito che nella regione Campania l’istituto del
silenzio-assenso non può trovare applicazione in presenza
della normativa regionale (ll.rr. n. 19 del 28.11.2001 e n.
10 del 18.11.2004) che disciplina l’esercizio
dell’intervento sostitutivo da parte dell’amministrazione
competente, il cui tenore letterale porta a qualificare il
comportamento inerte tenuto dal comune, non come assenso, ma
come mero inadempimento (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. II,
11.10.2013, n. 4559). |
EDILIZIA PRIVATA: La
prevalente giurisprudenza ritiene che le disposizioni di cui
all'art. 9 l. 122/1989 abbiano carattere eccezionale,
perseguendo esse la finalità di dare soluzione ai problemi
relativi ai parcheggi nelle aree urbane.
Pertanto, l'operatività delle stesse (in deroga agli
strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti) non
può ritenersi estesa anche alle zone agricole. Ne consegue
che la realizzazione di parcheggi in dette zone resta
comunque soggetta alle ordinarie prescrizioni urbanistiche
ed edilizie
20. Si può ora passare all’esame della prima parte del primo
motivo, laddove i ricorrenti sostengono che, in base
all’art. 9 della legge n. 122 del 1989, la possibilità di
realizzare autorimesse interrate sarebbe sempre ammessa,
anche in deroga alle previsioni degli strumenti urbanistici.
21. In proposito si osserva quanto segue.
22. Stabilisce l’art. 9, primo comma, della legge 10.03.1989, n. 122 (Disposizioni in materia di parcheggi,
programma triennale per le aree urbane maggiormente popolate
nonché modificazioni di alcune norme del testo unico sulla
disciplina della circolazione stradale, approvato con
decreto del Presidente della Repubblica 15.06.1959, n.
393) che <<I proprietari di immobili possono realizzare nel
sottosuolo degli stessi ovvero nei locali siti al piano
terreno dei fabbricati parcheggi da destinare a pertinenza
delle singole unità immobiliari, anche in deroga agli
strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti…>>.
23. Come si vede, la norma ammette effettivamente la
possibilità di realizzare autorimesse interrate anche in
deroga alle disposizioni contenute nei vigenti piani
urbanistici.
24. Va però osservato che la prevalente giurisprudenza
ritiene che le indicate disposizioni abbiano carattere
eccezionale, perseguendo esse la finalità di dare soluzione
ai problemi relativi ai parcheggi nelle aree urbane; e che,
pertanto, l'operatività delle stesse non possa ritenersi
estesa anche alle zone agricole. Ne consegue che la
realizzazione di parcheggi in dette zone resta comunque
soggetta alle ordinarie prescrizioni urbanistiche ed
edilizie (cfr. TAR Campania Napoli, sez. II, 08.06.2009, n. 3134; TAR Veneto, sez. II,
06.09.2002, n.
5229).
25. Per queste ragioni, la doglianza in esame non può essere
accolta
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 09.07.2015 n. 1590 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
In caso d'impugnazione di provvedimenti
amministrativi fondati su una pluralità di ragioni, ciascuna
delle quali di per sé idonea a supportare la parte
dispositiva del provvedimento, è sufficiente che una sola di
tali ragioni resista al vaglio giurisdizionale perché il
provvedimento nel suo complesso resti indenne dalle censure
articolate.
26. Con la seconda parte del primo motivo e con il secondo
motivo, i ricorrenti contestano l’altra ragione ostativa al
rilascio del permesso di costruire: l’inclusione dell’area
in zona di classe 4.
27. L’esame di queste doglianze può essere tralasciato in
quanto può farsi applicazione del consolidato insegnamento
giurisprudenziale secondo cui, in caso d'impugnazione di
provvedimenti amministrativi fondati su una pluralità di
ragioni, ciascuna delle quali di per sé idonea a supportare
la parte dispositiva del provvedimento, è sufficiente che
una sola di tali ragioni resista al vaglio giurisdizionale
perché il provvedimento nel suo complesso resti indenne
dalle censure articolate (cfr. Consiglio di Stato, sez. V,
27.08.2014, n. 4386; id. 09.10.2013, n. 4969)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 09.07.2015 n. 1590 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
TRIBUTI: Scuole
paritarie, per l’esenzione servono regole su misura.
Con due
sentenze (sentenza 08.07.2015 n. 14225 e la successiva
sentenza 08.07.2015 n. 14226) la Corte
di Cassazione -Sez. V civile- ha accolto il ricorso con cui il comune di
Livorno aveva chiesto il pagamento dell’Ici (anni 2004-2009)
a due scuole gestite da istituti religiosi privi dei
requisiti richiesti per l’esenzione.
La Cassazione conferma il principio per cui l’esenzione Ici
prevista dalla legge 504/1992 «è subordinata alla
compresenza di un requisito oggettivo» (lo svolgimento
esclusivo nell’immobile di attività meritorie tra le quali
l’insegnamento), «e di un requisito soggettivo, costituito
dal diretto svolgimento di tali attività da parte di un ente
pubblico o privato che non abbia come oggetto esclusivo o
principale l’esercizio di attività commerciali». Sul
requisito oggettivo, la Corte non ha ritenuto
sufficientemente dimostrato che l’attività didattica
dell’istituto religioso si svolgesse con modalità non
commerciali.
Le sentenze –che dispongono la ripetizione del giudizio di
merito e non determinano direttamente un nuovo e definitivo
esito– possono riflettersi sull’applicazione delle
agevolazioni Imu. Il regolamento ministeriale 200/2012,
infatti, per le scuole prevede che la non commercialità
dell’attività sia verificata tramite alcuni criteri
ordinamentali e uno di tipo economico: che sia svolta «a
titolo gratuito, o dietro versamento di corrispettivi di
importo simbolico e tali da coprire solamente una frazione
del costo effettivo del servizio».
Le argomentazioni delle
sentenze non prendono in considerazione gli aspetti ordinamentali, mentre riguardo al criterio economico
ritengono il corrispettivo pagato dagli utenti «fatto
rivelatore dell’esercizio dell’attività svolta con modalità
commerciali», indipendentemente dalla sua entità.
La commercialità dell’attività sottoposta a valutazione,
insomma, va sempre riconosciuta quando c’è l’attitudine alla
remunerazione dei fattori produttivi, essendo giuridicamente
irrilevante lo scopo di lucro. Se questa impostazione è
definitiva, non c’è dubbio che quasi tutte le attività
scolastiche private, tanto più se svolte in regime
“paritario” rispetto al sistema dell’istruzione pubblica,
rientrino nei criteri di “commercialità”, che precludono
l’esenzione Ici e Imu.
Il mantenimento del regime di favore per paritarie dovrà
percorrere la strada della normativa speciale di settore,
che forse dovrebbe comprendere tutte le scuole private e non
solo quelle condotte da enti non commerciali, superando così
il regime “interpretativo” adottato con il
regolamento 200/2012. Potrebbe essere di supporto la legge
62/2001, che riconosce alle scuole paritarie “senza fini
di lucro” le agevolazioni fiscali previste nel decreto
460/1997 sulle Onlus.
Diverse esenzioni e riduzioni, che però non menzionano la
fiscalità immobiliare locale, lasciando ai Comuni la facoltà
di intervenire. La dichiarata volontà politica di assicurare
un trattamento fiscale di favore al settore scolastico
privato, però, non può minare la certezza delle basi
imponibili su cui i Comuni devono poter contare stabilmente,
magari attraverso compensazioni
(articolo Il Sole 24 Ore dell'01.08.2015). |
TRIBUTI: Scuole paritarie soggette all'Ici.
Lo dice la Corte di Cassazione.
Le scuole paritarie gestite da un ente ecclesiastico sono
soggette al pagamento dell'Ici se gli utenti pagano un
corrispettivo, nonostante le rette richieste siano modeste e
la gestione operi in perdita. L'attività didattica non si
può ritenere svolta in forma non commerciale, ancorché si
tratti di un ente religioso, poiché non è a titolo gratuito.
Per integrare il fine di lucro è sufficiente che con i
ricavi si tenda a perseguire il pareggio di bilancio.
È
l'importante principio affermato dalla Corte di Cassazione,
con la sentenza 08.07.2015 n. 14225 e la successiva
sentenza 08.07.2015 n. 14226, con le quali ha anche respinto l'istanza di
annullamento delle sanzioni tributarie irrogate dal comune
di Livorno.
Per i giudici di piazza Cavour, l'attività didattica
esercitata dall'ente religioso rientra tra quelle esenti, ma
non è svolta in forma non commerciale. In realtà, per la
scuola paritaria gli utenti «pagano un corrispettivo, che
erroneamente il giudice di merito ritiene irrilevante ai
fini Ici». «Altrettanto erroneamente il giudicante
attribuisce rilevanza al fatto che la gestione operi in
perdita». È da escludere, per la Cassazione, «che
l'esenzione spetti sempre laddove l'ente si proponga
finalità diverse dalla produzione di reddito». Manca il
«carattere imprenditoriale dell'attività nel caso in cui
essa sia svolta in modo del tutto gratuito». Mentre, «per
integrare il fine di lucro è sufficiente l'idoneità, almeno
tendenziale, dei ricavi a perseguire il pareggio di
bilancio».
La Cassazione, con le pronunce in esame, ha inoltre respinto
al mittente l'istanza di disapplicazione delle sanzioni,
poiché ha ritenuto che non ci sia alcuna incertezza
oggettiva sulla materia e che le nuove regole introdotte per
l'Imu sull'esenzione per gli enti non commerciali hanno
carattere innovativo e non interpretativo. Non a caso, con
la sentenza n. 4342/2015 ha già chiarito che le disposizioni
sull'Imu non sono applicabili anche all'Ici per l'esenzione
degli immobili posseduti dagli enti non commerciali.
L'evoluzione della norma che riconosce i benefici fiscali
per una parte dell'immobile, per esempio, non può avere
effetti retroattivi. L'esenzione Ici prevista dall'articolo
7, comma 1, lettera i), del decreto legislativo 504/1992 era
limitata all'ipotesi in cui gli immobili fossero destinati
totalmente allo svolgimento di una delle attività elencate
dalla norma (sanitarie, didattiche, ricettive, ricreative,
sportive e così via) in forma non commerciale.
Le esenzioni
per Imu e Tasi, invece, spettano se sugli immobili vengono
svolte le suddette attività con modalità non commerciali,
anche qualora l'unità immobiliare abbia un'utilizzazione
mista. L'agevolazione, però, è limitata alla parte nella
quale si svolge l'attività non commerciale, sempre che sia
identificabile.
La porzione dell'immobile dotata di autonomia funzionale e
reddituale permanente deve essere iscritta in catasto, con
attribuzione della relativa rendita. Se non è possibile
accatastarla autonomamente, l'esenzione spetta in
proporzione all'utilizzazione non commerciale dell'immobile
che deve risultare da apposita dichiarazione dell'ente
interessato
(articolo ItaliaOggi del 25.07.2015). |
TRIBUTI: Paritarie, rischio stangata La retta fa scattare l'Imu.
La cassazione: l'attività è commerciale.
Torna sulle scuole paritarie lo spettro dell'Ici. Nodo della
questione: l'attività didattica considerata attività
commerciale. Secondo la Corte di Cassazione l'immobile
posseduto da un ente religioso e destinato all'esercizio di
una scuola paritaria è potenzialmente soggetto all'Ici,
perché la gestione di un istituto paritario si configura
come un'attività commerciale. Ago della bilancia, secondo i
giudici, la retta che le famiglie versano alla scuola
paritaria.
La Corte di Cassazione -Sez. V civile-
con la
sentenza 08.07.2015 n. 14225 e la successiva
sentenza 08.07.2015 n. 14226 interviene sul caso di un
ente religioso proprietario dell'immobile adibito a scuola
paritaria che aveva impugnato gli avvisi di accertamento del
comune per il pagamento dell'Ici, chiedendo l'applicazione
dell'esenzione prevista dal decreto legislativo 504 del 1992
(art. 7).
Esaminando l'evoluzione legislativa sul tema, da
una parte l'ente sottolinea che l'art. 39 del decreto legge
223 del 2006 stabilisce l'esenzione dell'Ici per gli
immobili debiti ad attività che non hanno esclusiva natura
commerciale, dall'altra i giudici dichiarano che
quell'articolo non è conforme alla disciplina comunitaria
sul divieto di aiuti di Stato alle imprese. Sul caso
concreto, poi, la Suprema Corte osserva la potenziale
sussistenza di un'attività commerciale poiché gli utenti
della paritaria pagano una retta per frequentarla. E
respinge le obiezioni dell'ente riguardo la perdita nella
gestione, perché «è irrilevante dal punto di vista giuridico
lo scopo di lucro».
L'ente quindi dovrà pagare l'Ici ma,
sentenziano i giudici, senza sanzioni vista l'obiettiva
incertezza sull'applicazione delle legge. La sentenza è
importante anche per le interpretazioni delle disposizioni
sull'Imu. Secondo le istruzioni del Miur sulla compilazione
del modello Imu Enc il carattere non commerciale
dell'attività didattica si verifica nel momento in cui le
rette degli utenti coprono solo una parte di tutto il costo
del servizio.
Le stesse istruzioni però utilizzano come
parametro di riferimento il costo medio per studente
sostenuto dallo Stato per un alunno nelle proprie scuole,
fissato dal ministero dell'economia: 5.739,17 euro per uno
studente di scuole dell'infanzia, 6.634,12 nella primaria,
6.835,85 alle medie, 6.914,31 alla superiori.
Se il
corrispettivo della paritaria non supera questo costo medio
per alunno, l'immobile è esente dall'Imu per la parte della
struttura destinata all'attività didattica. Questo però è in
contrasto con la Cassazione
(articolo ItaliaOggi del 21.07.2015). |
TRIBUTI:
Istituti scolastici religiosi, dovuta l'Ici. La
Cassazione dà ragione al Comune.
La suprema Corte ha accolto il ricorso di Livorno: primo
pronunciamento di questo tipo in Italia.
La Corte di Cassazione ha riconosciuto
la legittimità della richiesta dell’Ici avanzata nel 2010
dal Comune di Livorno agli istituti scolastici del
territorio gestiti da enti religiosi.
Con la
sentenza 08.07.2015 n. 14225 e la successiva
sentenza 08.07.2015 n. 14226, la suprema Corte,
Sez. V civile, ha di fatto ribaltato quanto stabilito nei
primi due gradi di giudizio, sentenziando che, poiché gli
utenti della scuola paritaria pagano un corrispettivo per la
frequenza, tale attività è di carattere commerciale, “senza
che a ciò osti la gestione in perdita”.
In proposito il giudice di legittimità ha precisato che, ai
fini in esame, è giuridicamente irrilevante lo scopo di
lucro, risultando sufficiente l’idoneità tendenziale dei
ricavi a perseguire il pareggio di bilancio.
E cioè, il conseguimento di ricavi è di per sé indice
sufficiente del carattere commerciale dell’attività svolta.
Si ricorda che il contenzioso che vede contrapposti il
Comune ed alcuni istituti scolastici paritari, è sorto nel
2010 a seguito della notifica da parte dell’ufficio Tributi
di avvisi di accertamento per omessa dichiarazione e omesso
pagamento dell’Ici, per gli anni dal 2004 al 2009.
In particolare gli importi relativi alle scuole “Santo
Spirito” ed “Immacolata” sono pari a €
422.178,00.
Si ricorda che anche la Commissione Provinciale Tributaria
di Livorno aveva stabilito che l'ICI fosse dovuta,
respingendo i ricorsi degli istituti.
A questo punto, a seguito delle sentenze, si provvederà a
notificare anche gli importi dovuti per le annualità 2010 e
2011, imponibili a fine Ici.
Come spiega l’ufficio Tributi, è da sottolineare che questo
genere di pronunciamento da parte della Corte di Cassazione
è il primo in Italia sul tema specifico.
Queste sentenze assumono, tra l’altro, rilievo ai fini
dell’interpretazione delle disposizioni in materia di Imu,
relativamente all’imposizione fiscale dall’anno 2012.
Grande soddisfazione perché si tratta del riconoscimento
dell’ottimo lavoro svolto dagli uffici comunali i quali, con
l’obiettivo di reperire risorse e lavorare per l’equità
fiscale, da anni hanno avviato una linea tesa al recupero
dell’elusione e dell’evasione fiscale.
La vicesindaco Stella Sorgente in proposito dichiara: “Abbiamo
fatto degli incontri con le scuole interessate e l’ufficio
tributi, nei quali era stata proposta un’ipotesi di
conciliazione fra Comune e Istituti che sarebbe stata
vantaggiosa per le scuole stesse, rispetto ad un’eventuale
sentenza favorevole per il Comune da parte della Cassazione.
Successivamente ci è stato comunicato dalle scuole stesse
che avrebbero invece preferito attendere l'esito del
giudizio in Cassazione.
L’Amministrazione comunale è stata ringraziata per il
sincero atteggiamento di apertura e dialogo dimostrato, ma
non è stata accettata la proposta fatta. Pertanto, adesso
che la Cassazione si è espressa con le due sentenze, le
scuole sono costrette a pagare l’intero importo, comprensivo
delle relative sanzioni.
Ci fa piacere che questa sia la prima sentenza a livello
nazionale che riguarda immobili di questa tipologia,
destinati ad uso scolastico, affinché sia fatta
definitivamente chiarezza sulla legittimità di tali
pagamenti tributari da parte degli enti religiosi”
(commento tratto da www.comune.livorno.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'aver
realizzato un pilastro in c.a. di
diametro 0,40 per 0,40 h mt. 4 circa su plinto di fondazione
di mt. 1,30 per 1,30 in sostituzione di un pregresso
pilastro in ferro a sezione quadra di dimensioni inferiori
ed un cornicione in c.a. lungo il perimetro del lastrico
solare sporgente mt. 0,50 ed h mt. 0,45
risulta rientrare nel
novero degli interventi qualificabili come manutenzione straordinaria, stante la preesistenza del pilastro in
oggetto e del cornicione, dei quali è stata solo eseguita
opera di rafforzamento e di rifacimento di parti ammalorate.
---------------
Considerato che non si tratta di opere
eseguite in zona vincolata, deve ritenersi che le stesse non
siano sussumibili nel concetto di ristrutturazione edilizia invocato dall’amministrazione
comunale, ma rientrino esattamente nei lavori di manutenzione straordinaria.
In particolare, in riferimento a quanto previsto dal D.P.R.
n. 380/2001 (art. 3, comma 1, lettere b e d), l'elemento che
caratterizza la ristrutturazione rispetto alla manutenzione
straordinaria è la prevalenza della finalità di
trasformazione rispetto al più limitato scopo di rinnovare e
sostituire parti anche strutturali dell'edificio specie ove
risulti ,come nella specie, che le modifiche rispetto alle
opere autorizzate siano tutte, nessuna esclusa, di minore
entità e comunque giustificate da precise ragioni tecniche.
Il rinnovamento proprio della manutenzione straordinaria può
comprendere anche innovazioni, ossia l'introduzione di
elementi che modificano il precedente aspetto degli spazi e
le relative funzionalità, laddove le stesse siano di
carattere accessorio e minimale, mentre se le innovazioni
seguono un disegno sistematico, il cui risultato oggettivo è
la creazione di un organismo edilizio nell'insieme diverso
da quello esistente, si ricade inevitabilmente nella
ristrutturazione.
Come esposto nella parte narrativa il presente ricorso verte
sulla legittimità dell’ordine di demolizione spedito dal
Comune di Napoli alla ricorrente a fronte delle seguenti
opere ritenute in difformità dalla DIA 2601/2007: pilastro
in c.a. di diametro 0,40 per 0,40 h mt. 4 circa su plinto di
fondazione di mt. 1,30 per 1,30 in sostituzione di un
pregresso pilastro in ferro a sezione quadra di dimensioni
inferiori; cornicione in c.a. lungo il perimetro del
lastrico solare sporgente mt. 0,50 ed h mt. 0,45.
Le censure proposte meritano favorevole considerazione,
atteso che quanto eseguito risulta rientrare nel novero
degli interventi qualificabili come manutenzione straordinaria, stante la preesistenza del pilastro in
oggetto e del cornicione, dei quali è stata solo eseguita
opera di rafforzamento e di rifacimento di parti ammalorate.
Il tutto come risulta dalla perizia giurata in atti
depositata dalla ricorrente il 17.02.2009 (perizia giurata
il 05.02.2009 dall’ing. B.V. e non contrastata da
elementi di segno contrario).
In particolare lo stesso Comune di Napoli, nella memoria
depositata il 23.02.2009 ed atti allegati, attesta che la
difformità consiste nella circostanza che le dimensioni del
vecchio pilastro erano inferiori, ma lo stesso risultava
preesistente, e che il cornicione, pure preesistente, per
effetto degli interventi, era sporgente 0,50 mt.. Ribadisce
che nella DIA non si parla del plinto di fondazione del
pilastro di mt. 1,30 per 1,30 e della sporgenza di 0,50 mt.
del cornicione.
Alla stregua di tali elementi fattuali, e considerato che
non si tratta di opere eseguite in zona vincolata, deve
ritenersi che le stesse non siano sussumibili nel concetto
di ristrutturazione edilizia invocato dall’amministrazione
comunale, ma rientrino esattamente nei lavori di manutenzione straordinaria.
In particolare, in riferimento a quanto previsto dal D.P.R.
n. 380/2001 (art. 3, comma 1, lettere b e d), l'elemento che
caratterizza la ristrutturazione rispetto alla manutenzione
straordinaria è la prevalenza della finalità di
trasformazione rispetto al più limitato scopo di rinnovare e
sostituire parti anche strutturali dell'edificio specie ove
risulti ,come nella specie, che le modifiche rispetto alle
opere autorizzate siano tutte, nessuna esclusa, di minore
entità e comunque giustificate da precise ragioni tecniche.
Il rinnovamento proprio della manutenzione straordinaria può
comprendere anche innovazioni, ossia l'introduzione di
elementi che modificano il precedente aspetto degli spazi e
le relative funzionalità, laddove le stesse siano di
carattere accessorio e minimale, mentre se le innovazioni
seguono un disegno sistematico, il cui risultato oggettivo è
la creazione di un organismo edilizio nell'insieme diverso
da quello esistente, si ricade inevitabilmente nella
ristrutturazione.
Nel caso di specie appare configurabile il carattere ridotto
delle contestate difformità dalla dia, consistenti nella
base di fondazione del plinto che è stata giustificata dalla
necessità di evitare corrosione a causa della ruggine e non
si configura quale elemento autonomamente utilizzabile, né
preordinato ad una trasformazione funzionale del pilastro
stesso. Egualmente è a dirsi per la sporgenza del
cornicione, atteso che la sua preesistenza rende conto della
mancanza di innovazioni significative, e di trasformazioni
funzionali degli elementi stessi.
Il gravato provvedimento è quindi illegittimo in quanto
classifica le opere anzidette come intervento di
ristrutturazione edilizia, rientrando le stesse nel novero
della manutenzione straordinaria, e consistendo gli elementi
contestati in difformità minime dai grafici della dia
presentata nel 2007, che non alterano l’organismo edilizio.
Sussiste pertanto la lamentata violazione degli artt. 3 , 22
e 37 del DPR 380/2001, non comportando le modeste difformità
riscontrate il rilascio del permesso di costruire e
tantomeno la sanzione demolitoria prevista per ben più gravi
ipotesi di abusi.
Il ricorso va conclusivamente accolto con annullamento dei
gravati atti.
Non può invece accogliersi la domanda risarcitoria, proposta
genericamente solo nell’epigrafe del ricorso e non seguita
da ulteriori specificazioni neppure in corso di causa, per
cui la stessa risulta sfornita di prova non avendo parte
ricorrente documentato l’entità del danno e le sua
derivazione causale dall’illegittimità del provvedimento
impugnato
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 03.07.2015 n. 3563 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: La
verifica non è obbligatoria sull’offerta a rischio di
anomalia.
Appalti. Controlli di congruità solo a certe condizioni.
Quando un’offerta non è rilevata come troppo bassa, la
verifica di congruità prevista dal codice dei contratti come
ulteriore strumento di analisi non è obbligatoria.
Il Consiglio di
Stato, Sez. III, con la
sentenza
03.07.2015 n. 3329
ha chiarito quali sono le condizioni di utilizzo della
particolare verifica realizzabile dalle stazioni appaltanti
sulle offerte (all’articolo 86, comma 3, del Dlgs 163/2006).
Nel caso analizzato, l’offerta dell’operatore economico
oggetto del ricorso non rientrava in uno dei casi
disciplinati dall’articolo 86, comma 2, del codice dei
contratti, nei quali è prevista la verifica obbligatoria e
l’amministrazione ha ritenuto di non dover procedere nella
verifica facoltativa prevista dall’articolo 86, comma 3, del
codice dei contratti pubblici.
Il Consiglio di Stato evidenzia che l’articolo 86 del codice
dei contratti individua, nei commi 1 e 2, distinti criteri
per l’individuazione delle offerte che si sospettino essere
anomale, a seconda che il criterio di aggiudicazione sia
quello del prezzo più basso, ovvero, come nella fattispecie,
quello dell’offerta economicamente più vantaggiosa. Al comma
3, invece, con una clausola generale valida per entrambe le
ipotesi, stabilisce poi che la stazione appaltante può
procedere in ogni caso alla valutazione della congruità di
ogni altra offerta che in base a elementi specifici appaia
anormalmente bassa.
L’esercizio di tale facoltà comporta, pertanto, l’apertura
di un subprocedimento in contraddittorio con il concorrente
che ha presentato l’offerta ritenuta a rischio di anomalia.
Il supremo organo di giustizia amministrativa precisa
tuttavia come la scelta della stazione appaltante di
attivare il procedimento di verifica della congruità
dell’offerta sia ampiamente discrezionale e possa essere
sindacata, in conseguenza, davanti al giudice amministrativo
solo in caso di macroscopica irragionevolezza o di decisivo
errore di fatto.
Anche per la verifica di congruità (qualora
l’amministrazione decida di avvalersene) il Consiglio di
Stato rileva come le valutazioni debbano essere compiute in
modo globale e sintetico, con riguardo alla serietà
dell’offerta nel suo complesso e non con riferimento alle
singole voci dell’offerta (collegandosi anche alla linea
affermata di recente in altri interventi: sezione VI,
Consiglio di Stato 2662/2015; sezione V 2274/2015, ).
Nella stessa sentenza i giudici amministrativi affrontano
anche il tema del rispetto dei minimi salariali da parte
dell’offerente, richiesto nelle gare con il prezzo più basso
dal comma 3-bis dell’articolo 82 del codice, ribadendo come
i valori del costo del lavoro risultanti dalle tabelle
ministeriali non costituiscano un limite inderogabile, ma
semplicemente un parametro di valutazione: l’eventuale
scostamento di questi parametri dalle relative voci di costo
non legittima di per sé un giudizio di anomalia.
In sede di
valutazione di congruità delle offerte non possono non
essere considerati aspetti particolari che riguardano le
imprese: la stazione appaltante deve tenere conto anche
delle possibili economie che le imprese possono conseguire
(anche con riferimento al costo del lavoro), nel rispetto
delle disposizioni di legge e dei contratti collettivi.
Pertanto, secondo il Consiglio di Stato un’offerta non può
ritenersi anomala, ed essere esclusa da una gara, per il
solo fatto che il costo del lavoro sia stato calcolato
secondo valori inferiori a quelli risultanti dalle tabelle
ministeriali o dai contratti collettivi: occorre, invece,
una discordanza considerevole e palesemente ingiustificata (articolo Il Sole 24 Ore del
20.07.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).
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MASSIMA
10.- In proposito, si deve preliminarmente osservare
che, nella fattispecie, l’Amministrazione non ha ritenuto di
dover attivare il procedimento di verifica di anomalia
dell’offerta di Elisicilia.
L’offerta di Elisiscilia non rientrava, infatti, in uno dei
casi, disciplinati dall’art. 86, comma 2, del codice dei
contratti, nei quali è prevista la verifica obbligatoria e
l’Amministrazione ha ritenuto di non dover procedere nella
verifica facoltativa prevista dall’art. 86, comma 3, del
codice dei contratti pubblici.
10.1.- Al riguardo si deve ricordare che
l’art. 86, del codice dei contratti individua, nei commi 1 e
2, distinti criteri per l’individuazione delle offerte che
si sospetti essere anomale, a seconda che il criterio di
aggiudicazione sia quello del prezzo più basso, ovvero, come
nella fattispecie, quello dell’offerta economicamente più
vantaggiosa.
Al comma 3, con una clausola generale valida per entrambe le
ipotesi, stabilisce poi che la stazione appaltante può
procedere in ogni caso alla valutazione della congruità di
ogni altra offerta che in base ad elementi specifici appaia
anormalmente bassa.
10.2.- L’esercizio di tale facoltà
comporta, pertanto, l’apertura di un subprocedimento in
contraddittorio con il concorrente che ha presentato
l’offerta ritenuta a rischio di anomalia.
10.3.- La scelta dell’amministrazione di
attivare il procedimento di verifica dell’anomalia
dell’offerta è, tuttavia, ampiamente discrezionale e può
essere sindacata, in conseguenza, davanti al giudice
amministrativo solo in caso di macroscopica irragionevolezza
o di decisivo errore di fatto.
La giurisprudenza ha anche chiarito che le
valutazioni sul punto devono essere compiute
dall’Amministrazione in modo globale e sintetico, con
riguardo alla serietà dell’offerta nel suo complesso e non
con riferimento alle singole voci dell’offerta
(fra le più recenti: Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 2662
del 26.05.2015, Sezione V n. 2274 del 06.05. 2015).
11.- Facendo applicazione di tali principi, le censure
sollevate da GSA sull’incongruità dell’offerta di Elisicilia
devono essere respinte.
Gli elementi di asserita criticità dell’offerta di
Elisicilia, indicati dall’appellante (nel terzo ed anche nel
quarto motivo di appello), non sono, infatti, sufficienti a
manifestare una chiara illogicità nella scelta compiuta
dall’Amministrazione intimata di ritenere attendibile e
congrua l’offerta di Elisicilia e di non procedere ad una
specifica valutazione sulla sua possibile anomalia.
11.1. Invero, come emerge dagli atti, l’Amministrazione ha
adeguatamente e compiutamente esaminato le offerte delle
imprese partecipanti alla gara, anche ricorrendo agli
approfondimenti necessari per la loro migliore disamina, ed
ha, quindi, ritenuto l’offerta di Elisicilia, nel suo
complesso e per l’importo indicato, congrua, attendibile e
affidabile.
12.- Ciò chiarito, non si può ritenere
illegittima la scelta dell’Amministrazione di non sottoporre
l’offerta di Elisicilia alla verifica dell’anomalia in
relazione all’asserita difformità dalle tabelle ministeriali
di riferimento posto che, come si è ricordato, la
valutazione sulla serietà e congruità dell’offerta ha per
oggetto l’offerta nel suo insieme e non riguarda i suoi
singoli aspetti, e tenuto conto che la società Elisicilia,
risultata aggiudicataria, aveva dato una chiara esposizione,
anche nel dettaglio, dei costi per il personale che avrebbe
sopportato per dare esecuzione all’appalto.
13.- Con riferimento poi al rispetto dei minimi stabiliti
dalle tabelle ministeriali, si deve ricordare che
l’art. 86, comma 3-bis, del Codice dei contratti
pubblici prevede che «nella predisposizione delle gare di
appalto e nella valutazione dell'anomalia delle offerte
nelle procedure di affidamento di appalti di lavori
pubblici, di servizi e di forniture, gli enti aggiudicatori
sono tenuti a valutare che il valore economico sia adeguato
e sufficiente rispetto al costo del lavoro e al costo
relativo alla sicurezza, il quale deve essere specificamente
indicato e risultare congruo rispetto all'entità e alle
caratteristiche dei lavori, dei servizi o delle forniture»
e che, ai fini di tale disposizione, «il costo del lavoro
è determinato periodicamente, in apposite tabelle, dal
Ministro del lavoro e della previdenza sociale, sulla base
dei valori economici previsti dalla contrattazione
collettiva stipulata dai sindacati comparativamente più
rappresentativi, delle norme in materia previdenziale ed
assistenziale, dei diversi settori merceologici e delle
differenti aree territoriali».
13.1.- Sul punto la giurisprudenza, anche di questa Sezione,
ha ritenuto che i valori del costo del
lavoro risultanti dalle tabelle ministeriali non
costituiscono tuttavia un limite inderogabile, ma
semplicemente un parametro di valutazione della congruità
dell'offerta, con la conseguenza che l'eventuale scostamento
da tali parametri delle relative voci di costo non legittima
di per sé un giudizio di anomalia
(cfr., fra le tante, Consiglio di Stato, sez. III, n. 1743
del 02.04.2015, Sez. V, n. 3937 del 24.07.2014).
13.2.- Si è quindi affermato che devono
considerarsi anormalmente basse le offerte che si discostino
in modo evidente dai costi medi del lavoro indicati nelle
tabelle predisposte dal Ministero del lavoro in base ai
valori previsti dalla contrattazione collettiva, in quanto i
costi medi costituiscono non parametri inderogabili ma
indici del giudizio di adeguatezza dell'offerta, con la
conseguenza che è ammissibile l'offerta che da essi si
discosti, purché lo scostamento non sia eccessivo e vengano
salvaguardate le retribuzioni dei lavoratori, così come
stabilito in sede di contrattazione collettiva.
13.3.- Questa Sezione ha peraltro di recente anche affermato
che non possono non essere considerati, in
sede di valutazione delle offerte, aspetti particolari che
riguardano le diverse imprese, con la conseguenza che, ai
fini di una valutazione sulla congruità dell’offerta, la
stazione appaltante deve tenere conto anche delle possibili
economie che le diverse singole imprese possono conseguire
(anche con riferimento al costo del lavoro), nel rispetto
delle disposizioni di legge e dei contratti collettivi
(Consiglio di Stato, sez. III, n. 1743 del 02.04.2015 cit.).
14.- In applicazione di tali principi,
un'offerta non può ritenersi anomala, ed essere esclusa da
una gara, per il solo fatto che il costo del lavoro è stato
calcolato secondo valori inferiori a quelli risultanti dalle
tabelle ministeriali o dai contratti collettivi occorrendo,
perché possa dubitarsi della sua congruità, che la
discordanza sia considerevole e palesemente ingiustificata.
15.- Nella fattispecie, invece, Elisicilia ha fornito, come
si è accennato, chiare indicazioni sulle modalità con le
quali era stato determinato il costo del lavoro per il
servizio in questione e, in base a tali indicazioni,
l’Amministrazione ha ritenuto nel suo complesso l’offerta
presentata seria e congrua.
16.- Per le ragioni che si sono esposte, non assumono poi un
decisivo rilievo, ai fini di una valutazione sulla
legittimità della scelta dell’Amministrazione, nemmeno le
asserite incongruità riscontrate (rispetto all’offerta
economica) in una parte dell’offerta tecnica contenente una
tabella di riepilogo del personale, né la mancata
previsione, nell’offerta economica, di personale inquadrato
nel livello E, con mansioni di caposquadra, che è stata
peraltro giustificata dalla resistente con una motivazione
che non appare manifestamente illogica.
Infondata, anche nel merito, è poi la censura riguardante
l’applicazione al servizio in esame delle disposizioni sul
lavoro effemeridiale, con orario giornaliero di durata
variabile in funzione del variare dell’ora del sorgere del
sole e del tramonto. |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Contributo unificato ko. Esenti anche i ricorsi
al capo dello stato. Lo ha precisato
il Cds analizzando l'art. 10 del dpr 115 del 2002.
Anche al ricorso straordinario al capo dello stato si
applicano le esenzioni dal contributo unificato previste
dall'art. 10 del dpr 30.05.2002 n. 115 (Testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese
di giustizia) e la riduzione alla metà per le controversie
in materia di pubblico impiego.
Lo ha precisato il Consiglio di Stato, Sez. I con il
parere 03.07.2015 n. 1958.
Secondo i giudici di palazzo Spada, chiamati a esprimersi in
merito alle modalità applicative del contributo unificato
per atti giudiziari, l'applicabilità delle esenzioni ex art.
10 si trae dal carattere generale delle disposizioni
contenute nello stesso articolo, che valgono sia per i
processi civili, sia per i processi amministrativi, sia per
i processi tributari.
In assenza di altre specifiche disposizioni normative e in
applicazione del principio «quod lex voluit dixit», è
consequenziale che al ricorso straordinario debbano essere
estese le regole generali per determinare la misura del
contributo unificato in sede giurisdizionale, compresi i
casi di esenzione previsti dall'art. 10 del T.u. Si può,
quindi, a ragione ritenere che le esenzioni elencate
nell'art. 10 del T.u. e qualsiasi altra disposizione
dell'ordinamento che consenta in via generale l'esenzione
dal contributo in esame siano applicabili anche al ricorso
straordinario.
Non può essere condivisa, in questo contesto,
l'interpretazione restrittiva fornita dall'ufficio del
coordinamento legislativo-finanze del 05.11.2012 circa la
non estensibilità al ricorso straordinario della riduzione
alla metà del contributo unificato per le controversie in
materia di pubblico impiego. Infatti, il comma 3 dell'art.
13 del T.u. assicura «un eguale trattamento alle
controversie individuali di lavoro, che sono di competenza
del giudice ordinario, e a quelle concernenti il pubblico
impiego, la cui cognizione compete al giudice amministrativo»,
prevedendo per entrambe il dimezzamento del contributo
unificato.
Infine, non pare applicabile al ricorso straordinario al
capo dello stato l'istituto del patrocino a spese dello
stato per i soggetti non abbienti: questa tipologia di
ricorso, infatti, risulta un rimedio atecnico, che non
richiede l'assistenza di un difensore, in quanto erede di un
istituto risalente, riconducibile alla cosiddetta giustizia
ritenuta amministrata dal sovrano che si poneva al disopra
dell'ordinamento costituito.
In tale contesto, da un lato non sussistono i presupposti
logici affinché lo stato si faccia carico del patrocinio dei
ricorrenti per una domanda di giustizia che non richiede
necessariamente l'assistenza legale, dall'altro, secondo la
disciplina vigente recata dall'art. 11 del T.u., anche nel
caso di ammissione al patrocinio la riscossione del
contributo unificato risulta sospesa e prenotata a debito
del ricorrente in attesa dell'esito del giudizio
(articolo ItaliaOggi Sette del 27.07.2015). |
EDILIZIA PRIVATA: La
disposizione di cui all’art. 12 del d.lgs. 42/2004 ha
introdotto un vincolo culturale in forza di una presunzione
di legge, superabile soltanto a seguito di una verifica
negativa finalizzata all’esclusione dell’interesse culturale
e -conseguentemente- al definitivo esonero dall’applicazione
delle disposizioni di tutela dei beni culturali (art. 12,
comma 4), anche in vista di una loro eventuale
sdemanializzazione (art. 12, commi 5 e 6).
Diversamente, in caso di conferma dell’interesse culturale
presunto, le cose di cui all’art. 10 del medesimo d.lgs.
42/2004 restano definitivamente sottoposte alle disposizioni
di tutela del codice dei beni culturali, ai sensi dell’art.
12, comma 7.
Ciò posto, la norma invocata dall’Ente ricorrente (art. 27,
comma 10, del d.l. n. 269/2003) a sostegno della tesi
secondo cui la mancata conclusione del procedimento nel
termine di 120 giorni equivale a verifica negativa, è stata
definitivamente abrogata dall’art. 6, comma 1, lettera c),
del d.lgs. 24.03.2006, n. 156.
Conseguentemente, in mancanza di una espressa disposizione
volta ad attribuire valenza significativa al silenzio, vale
il principio in base al quale il superamento del termine
legale di 120 giorni per la conclusione del procedimento, ai
sensi dell’art. 12, comma 10, del d.lgs. n. 42/2004, non
comporta la consumazione del potere di vincolo, in tal modo
non determinando alcun effetto viziante su provvedimento
comunque adottato in ritardo.
---------------
Le valutazioni in ordine all'esistenza di un interesse
storico-artistico su un immobile, tali da giustificare
l'apposizione del relativo vincolo, costituiscono
espressione di un potere nel quale sono presenti sia momenti
di discrezionalità tecnica, sia momenti di propria
discrezionalità amministrativa.
Tale valutazione è espressione di una prerogativa esclusiva
dell'amministrazione e può essere sindacata in sede
giurisdizionale solo in presenza di profili di incongruità
ed illogicità di evidenza tale da far emergere
inattendibilità della valutazione tecnico-discrezionale
compiuta da valutarsi nella sua portata complessiva, sicché,
in presenza di valutazioni di interesse storico-artistico
fondate su una pluralità di indici rivelatori, non è
sufficiente che alcuni soltanto di essi palesino aspetti di
particolare opinabilità per infirmare nel complesso la
validità delle conclusioni raggiunte, ma è necessario che la
sommatoria delle lacune individuate risulti di tale
pregnanza da compromettere nel suo complesso l'attendibilità
del giudizio espresso dall'organo competente.
---------------
Quanto all’asserita violazione delle garanzie partecipative,
essa non sussiste, dal momento che trattasi di un
procedimento avviato su iniziativa di parte, della cui
esistenza la ricorrente era perfettamente a conoscenza per
poter partecipare; trattasi, peraltro, di un procedimento
volto alla verifica dell’interesse culturale di un immobile
conclusosi con un accertamento positivo, rispetto al quale
non si intravvede alcun obbligo di preavviso, quest’ultimo
necessario nell’ipotesi in cui debba provvedersi al rigetto
di una istanza, nella fattispecie non sussistente.
Occorre infine precisare che l’omessa indicazione nel
provvedimento del nominativo del responsabile del
procedimento non costituisce motivo d'invalidità del
provvedimento medesimo, posto che supplisce il criterio
legale d'imputazione del ruolo al dirigente preposto
all'Unità organizzativa competente.
---------------
Parimenti destituita di fondamento è la censura con cui si
lamenta la violazione dell’art. 14 del d.lgs. n. 42/2004,
atteso che la comunicazione al proprietario possessore o
detentore a qualsiasi titolo del bene, contente gli elementi
di identificazione e di valutazione della cosa risultanti
dalle prime indagini, l’indicazione degli effetti previsti
dal comma 4, nonché l’indicazione del termine, comunque non
inferiore a trenta giorni, per la presentazione di eventuali
osservazioni, è prescritta dalla norma per la sola ipotesi
in cui il procedimento per la dichiarazione dell'interesse
culturale del bene medesimo è avviata dall’Amministrazione;
nel caso di specie, come sopra precisato, il procedimento è
stato avviato su iniziativa di parte.
I. L’Istituto Muzio Gallo è stato fondato nel 1945 quale
Ente morale senza scopo di lucro per volere della contessa
Ida Fregonara Gallo, in memoria del defunto consorte Muzio,
ed è dotato di un proprio patrimonio immobiliare
prevalentemente destinato agli scopi e alle attività
dell’Ente medesimo.
Dal 2001, a seguito di privatizzazione, ha mutato la propria
configurazione giuridica in fondazione, pur mantenendo
inalterati gli scopi statutari originari.
Tra le proprietà della fondazione vi è un fabbricato ex
colonico situato in località Campocavallo del Comune di
Osimo, rispetto al quale, con istanza del 12.03.2014,
indirizzata alla Direzione Regionale dei Beni e delle
Attività Culturali e del Turismo delle Marche, l’Ente ha
richiesto la verifica dell’interesse culturale ai sensi
dell’art. 12 del d.lgs. n. 42/2004.
Con gli atti in questa sede impugnati l’Amministrazione ha
concluso il procedimento dichiarando l’immobile in questione
di interesse storico-artistico ai sensi dell’art. 10, comma
1, del d.lgs. n. 42/2004, con la conseguenza che esso è
assoggettato al regime di tutela di cui al predetto decreto.
A sostegno del gravame parte ricorrente deduce:
1) violazione del termine di 120 giorni previsto dall’art.
12 del d.lgs. n. 42/2004 per la conclusione del
procedimento, stante il disposto dell’art. 27, comma 10, del
d.l. n. 269/2003, in base al quale la mancata comunicazione
dell’esito della verifica nel termine di 120 giorni dalla
ricezione della scheda equivale ad esito negativo della
verifica stessa;
2) assenza e, comunque, carenza di motivazione sia con
riferimento al decreto impugnato, sia con riferimento alla
lettera di accompagnamento allo stesso;
3) violazione degli artt. 7, 8, 10 e 10 bis della legge n.
241/1990 e dell’art. 14 del d.lgs. n. 42/2004;
4) difetto di istruttoria, contraddittorietà dell’azione
amministrativa, eccesso di potere per ingiustizia manifesta
e sviamento;
5) violazione del principio di affidamento.
Si è costituito in giudizio, per resistere al ricorso, il
Ministero per i Beni e le Attività Culturali.
Alla pubblica udienza del 04.06.2015 la causa è stata
trattenuta in decisione.
II. Tanto premesso in fatto, si osserva in diritto quanto
segue.
II.1. Il primo motivo di ricorso è infondato.
La disposizione di cui all’art. 12 del d.lgs. 42/2004 ha
introdotto un vincolo culturale in forza di una presunzione
di legge, superabile soltanto a seguito di una verifica
negativa finalizzata all’esclusione dell’interesse culturale
e -conseguentemente- al definitivo esonero dall’applicazione
delle disposizioni di tutela dei beni culturali (art. 12,
comma 4), anche in vista di una loro eventuale
sdemanializzazione (art. 12, commi 5 e 6). Diversamente, in
caso di conferma dell’interesse culturale presunto, le cose
di cui all’art. 10 del medesimo d.lgs. 42/2004 restano
definitivamente sottoposte alle disposizioni di tutela del
codice dei beni culturali, ai sensi dell’art. 12, comma 7
(TAR Liguria, Genova, sez. I, 19.05.2014, n. 787).
Ciò posto, la norma invocata dall’Ente ricorrente (art. 27,
comma 10, del d.l. n. 269/2003) a sostegno della tesi
secondo cui la mancata conclusione del procedimento nel
termine di 120 giorni equivale a verifica negativa, è stata
definitivamente abrogata dall’art. 6, comma 1, lettera c),
del d.lgs. 24.03.2006, n. 156.
Conseguentemente, in mancanza di una espressa disposizione
volta ad attribuire valenza significativa al silenzio, vale
il principio in base al quale il superamento del termine
legale di 120 giorni per la conclusione del procedimento, ai
sensi dell’art. 12, comma 10, del d.lgs. n. 42/2004, non
comporta la consumazione del potere di vincolo, in tal modo
non determinando alcun effetto viziante su provvedimento
comunque adottato in ritardo (Cons. Stato, sez. VI,
30.06.2011, n. 3894).
II.2. Neppure sussiste il lamentato difetto istruttorio e di
motivazione, atteso che i motivi posti a base del vincolo
sono dettagliatamente esplicitati nella relazione storico
artistica architettonica della Soprintendenza per i Beni
Architettonici e Paesaggistici delle Marche datata
12.09.2014, inviata alla Direzione Regionale per i Beni
Culturali e Paesaggistici delle Marche con nota prot. 14019
del 17.09.2014, ricevuta in data 19.09.2014 con protocollo
n. 4951, espressamente richiamata nel decreto impugnato, da
intendersi, per tale ragione, motivato per relationem.
In particolare, in detta relazione si evidenzia che
l’immobile in questione conserva i caratteri architettonici
costruttivi e gli elementi strutturali originali legati
all’edilizia rurale tipica delle case coloniche marchigiane
monofamiliari e possiede una significativa valenza
antropologica che caratterizza lo scenario rurale delle
Marche, che oggi si tende il più possibile a preservare.
Già tali argomentazioni appaiono sufficienti a giustificare
la valutazione tecnico-discezionale dell’Amministrazione, a
prescindere da qualsiasi ulteriore specificazione o
istruttoria, atteso che gli elementi di interesse
storico-architettonico evidenziati nella relazione sono ben
riconoscibili ad un occhio esperto anche dalla sola
consultazione della documentazione grafica e fotografica a
corredo della pratica. Ad ogni modo, a conferma delle
verifiche effettuate, la soprintendenza cita espressamente,
in documenti pubblici, un sopralluogo del 12.09.2014,
rispetto al quale la ricorrente lamenta l’inesistenza di un
verbale o di qualsiasi altra prova, senza tuttavia fornire
elementi di prova contraria idonei a smentire che dette
verifiche in loco siano state effettivamente condotte.
In ogni caso, la giurisprudenza ha chiarito che “Le
valutazioni in ordine all'esistenza di un interesse
storico-artistico su un immobile, tali da giustificare
l'apposizione del relativo vincolo, costituiscono
espressione di un potere nel quale sono presenti sia momenti
di discrezionalità tecnica, sia momenti di propria
discrezionalità amministrativa. Tale valutazione è
espressione di una prerogativa esclusiva
dell'amministrazione e può essere sindacata in sede
giurisdizionale solo in presenza di profili di incongruità
ed illogicità di evidenza tale da far emergere
inattendibilità della valutazione tecnico-discrezionale
compiuta da valutarsi nella sua portata complessiva, sicché,
in presenza di valutazioni di interesse storico-artistico
fondate su una pluralità di indici rivelatori, non è
sufficiente che alcuni soltanto di essi palesino aspetti di
particolare opinabilità per infirmare nel complesso la
validità delle conclusioni raggiunte, ma è necessario che la
sommatoria delle lacune individuate risulti di tale
pregnanza da compromettere nel suo complesso l'attendibilità
del giudizio espresso dall'organo competente” (Cons.
Stato, VI, 30.06.2011, n. 3894).
Nel caso in esame, il Collegio non ravvisa elementi di
contraddittorietà o illogicità evidenti da dubitare della
validità e attendibilità della complessiva valutazione posta
in essere dall’Amministrazione, sicché, anche sotto tale
profilo, l’atto impugnato si rivela immune dai vizi dedotti.
II.3. Quanto all’asserita violazione delle garanzie
partecipative, essa non sussiste, dal momento che trattasi
di un procedimento avviato su iniziativa di parte, della cui
esistenza la ricorrente era perfettamente a conoscenza per
poter partecipare; trattasi, peraltro, di un procedimento
volto alla verifica dell’interesse culturale di un immobile
conclusosi con un accertamento positivo, rispetto al quale
non si intravvede alcun obbligo di preavviso, quest’ultimo
necessario nell’ipotesi in cui debba provvedersi al rigetto
di una istanza, nella fattispecie non sussistente.
Occorre infine precisare che l’omessa indicazione nel
provvedimento del nominativo del responsabile del
procedimento non costituisce motivo d'invalidità del
provvedimento medesimo, posto che supplisce il criterio
legale d'imputazione del ruolo al dirigente preposto
all'Unità organizzativa competente (Cons. Stato, III,
24.09.2013, n. 4694).
II.4. Parimenti destituita di fondamento è la censura con
cui si lamenta la violazione dell’art. 14 del d.lgs. n.
42/2004, atteso che la comunicazione al proprietario
possessore o detentore a qualsiasi titolo del bene, contente
gli elementi di identificazione e di valutazione della cosa
risultanti dalle prime indagini, l’indicazione degli effetti
previsti dal comma 4, nonché l’indicazione del termine,
comunque non inferiore a trenta giorni, per la presentazione
di eventuali osservazioni, è prescritta dalla norma per la
sola ipotesi in cui il procedimento per la dichiarazione
dell'interesse culturale del bene medesimo è avviata
dall’Amministrazione; nel caso di specie, come sopra
precisato, il procedimento è stato avviato su iniziativa di
parte.
III. In conclusione, il ricorso è infondato e va respinto
(TAR Marche,
sentenza 03.07.2015 n. 568 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Obblighi verdi, delega ampia. Anche le piccole
aziende possono ricorrere all'istituto.
La Corte di cassazione rinnova i principi per il
trasferimento di funzioni ambientali.
Delega di funzioni per l'adempimento degli obblighi
ambientali adottabile anche da aziende di modeste dimensioni
ed entità organizzativa.
Ad allargare i confini di applicazione dell'istituto è la
Corte di Cassazione - Sez. II penale, che con
sentenza
02.07.2015 n.
27862, ha superato l'orientamento che ne condizionava la
validità alla sussistenza di esigenze legate alla
complessità della struttura produttiva.
La pronuncia della Suprema corte.
Con la sentenza in parola il giudice di legittimità ha,
infatti, sottolineato come in materia ambientale per
attribuirsi rilevanza di esimente penale all'istituto della
delega di funzioni tra i requisiti di cui è necessaria la
compresenza non è più richiesto che il trasferimento delle
attività delegate debba essere giustificato dalle dimensioni
dell'impresa o dalle esigenze organizzative della stessa.
Il
nuovo principio di diritto dettato della Corte di cassazione
è fondato sulla necessità logico-giuridica di assicurare
coerenza applicativa dell'ordinamento. La Suprema corte
precisa, infatti, come nell'attuale disciplina sulla
sicurezza sul lavoro (rappresentata dal dlgs 81/2008) che ha
regolamentato (con il suo articolo 16) l'istituto della
delega di funzioni in materia non è contemplato tra i
requisiti di efficacia quello della «necessità», ammettendo
dunque essa delega anche in realtà aziendali di ridotta
entità.
E, argomenta la Corte, poiché la disciplina
prevenzionistica ha inevitabili punti di contatto con quella
sulla tutela ambientale (nella quale, lo ricordiamo, una
specifica delega non è espressamente disciplinata), in
ossequio del principio di non contraddizione
dell'ordinamento detta condizione non può che considerarsi
inesistente anche in quest'ultima normativa.
Diversamente,
avverte il giudice di legittimità, si avrebbe
un'ingiustificata disparità di trattamento tra chi è
delegato ad adempimenti ambientali e chi, invece è delegato
ad adempimenti in materia antinfortunistica (incarichi, tra
l'altro, molto spesso conferiti a un'unica persona fisica).
Le rinnovate condizioni della delega
ambientale. Alla
luce del rinnovato quadro giurisprudenziale in materia, la
validità della delega di funzioni in campo ambientale appare
dunque ora condizionata al rispetto dei seguenti requisiti:
formalizzazione tramite atto scritto recante data certa, sia
del conferimento che dell'accettazione; esistenza in capo al
delegato di requisiti di professionalità ed esperienza per
lo svolgimento delle specifiche funzioni; titolarità del
delegato di tutti i poteri di organizzazione, gestione e
controllo richiesti dalla natura delle attività da eseguire;
autonomia di spesa necessaria all'espletamento dell'ufficio;
adeguata e tempestiva pubblicità del conferimento
dell'incarico.
La delega di funzioni, è bene ricordarlo, non
esclude (come espressamente previsto dal dlgs 81/2008 per la
sicurezza sul lavoro e come già confermato dalla precedente
giurisprudenza anche in materia ambientale) l'obbligo di
vigilanza del delegante sulla corretta esecuzione da parte
del delegato delle funzioni trasferite (salvo, come più
avanti specificato, la possibilità di scegliere particolari
modalità per onorarlo).
Ancora, affinché la delega (a un
dipendente aziendale come a un consulente esterno) abbia
effettiva validità occorre altresì, in base ai più generali
principi di diritto, che sia conferita dall'effettivo
titolare della specifica posizione di garanzia da trasferire
(ossia dal soggetto sul quale gravano ex legis gli obblighi
ambientali sottesi). Infine, l'effetto esimente in capo al
delegante sarà evidentemente relativo ai soli fatti illeciti
eventualmente posti in essere dopo da data del conferimento
della delega e sempre che egli non abbia successivamente
interferito nell'attività del delegato.
Il sempre più
stretto parallelismo giurisprudenziale tra le condizioni di
delega formalizzate dal dlgs 81/2008 per la sicurezza sul
lavoro e quelle non normativizzate per gli adempimenti
ambientali spinge tuttavia ad interrogarsi se anche a questi
ultimi appaia efficacemente applicabile la figura della
sub-delega prevista dal comma 3-bis dell'articolo 16 del
suddetto decreto legislativo, che ne consente una «di primo
livello» qualora sia autorizzata dall'originario delegante e
siano comunque rispettate tutte le previste condizioni di
validità.
La delega nella gestione dei rifiuti.
In relazione al campo ambientale, lo ricordiamo, la
necessità di una valida delega nell'ambito aziendale si pone
dal punto di vista operativo soprattutto in relazione alla
delicata tenuta delle cd. «scritture ambientali», ossia
registri di carico/scarico e formulario di trasporto rifiuti
(secondo il regime tradizionale) e tracciamento Sistri
(secondo il nuovo regime informatico, già operativo, ma
sanzionabile solo dal prossimo 01.01.2016).
Con
riferimento alla delega ambientale conferita a soggetti
esterni alla compagine aziendale è altresì il caso di
ricordare come i menzionati oneri di controllo e vigilanza
sull'attività di terzi appaiono dallo scorso 04.07.2015
rafforzati dalla rinnovata definizione di produttore di
rifiuti ex lettera f), comma 1, articolo 183 del dlgs
152/2006.
Dopo l'intervento effettuato dal decreto legge 04.07.2015 n. 92 sul Codice ambientale detta nozione
risulta infatti ora comprendere oltre al «soggetto la cui
attività produce rifiuti» anche la persona cui sia
«giuridicamente riferibile detta produzione», ossia colui
che ha affidato nel proprio interesse a terzi delle attività
che comportano la generazione di residui.
La formalizzazione
normativa della figura (di fonte giurisprudenziale) del
«produttore giuridico» di rifiuti pone dunque ancor più
l'accento sugli inderogabili obblighi di diligenza nella
scelta di figure idonee e legittimate all'esercizio di
determinate attività nonché sul monitoraggio del loro
operato.
Delega e «responsabilità 231».
È utile evidenziare come la valida delega ambientale, pur
essendo titolo idoneo a sollevare da responsabilità penale
il delegante, non costituisce di per sé sufficiente
strumento per esimere invece la struttura aziendale dalla
diversa responsabilità amministrativa prevista dal dlgs
231/2001 per gli illeciti commessi a vantaggio
dell'organizzazione da propri soggetti apicali o da persone
sottoposte alla direzione o vigilanza di questi (figure
normalmente delegate, appunto, ad adempimenti ambientali).
Ai sensi del dlgs 231/2001 la responsabilità dell'Ente (sia
persona giuridica o meno) può infatti essere utilmente
arginata solo con la previa predisposizione e attuazione di
un «modello organizzativo» idoneo a prevenire detti illeciti
e la dimostrazione che i protocolli di sicurezza previsti
siano stati fraudolentemente violati. E al fine di garantire
la suddetta idoneità (esimente) a tale modello organizzativo
è necessario che nello stesso trovino collocazione misure di
controllo e verifica sia della legittimità che del corretto
esercizio delle (eventuali) deleghe aziendali in essere.
Oltre a consentire l'individuazione dell'effettiva persona
fisica responsabile del cd. «reato presupposto» (ossia
dell'illecito contemplato dal dlgs 231/2001 che si riflette
sull'ente) la puntale disciplina di tali deleghe nel
«modello» (come espressamente richiesto dall'articolo 6 del
suddetto provvedimento) consente infatti all'organizzazione
sia di dimostrare la propria diligenza nella predisposizione
dei protocolli preventivi sia di godere (come previsto
specificamente anche dal dlgs 81/2008 in materia di
sicurezza sul lavoro) della presunzione di assolvimento
degli oneri di direzione e vigilanza da parte dei soggetti
apicali sull'attività delle altre figure aziendali
(articolo ItaliaOggi Sette del 20.07.2015). |
EDILIZIA PRIVATA: L’ordinanza
di demolizione è sufficientemente motivata, ai sensi di
quanto previsto dall’art. 3 della legge n. 241/1990, laddove
faccia riferimento agli atti istruttori di accertamento
dell’abuso, riportando i presupposti di fatto e le ragioni
che hanno determinato l’ordinanza demolitoria, ovverosia la
difformità delle opere riscontrate rispetto al titolo
abilitativo, e facendo riferimento alle specifiche norme che
prescrivono la sanzione adottata.
Inoltre, l'abusività di un'opera edilizia costituisce già di
per sé presupposto per l'applicazione della prescritta
sanzione demolitoria e, per costante giurisprudenza, la
diffida a demolire manufatti abusivi è atto vincolato e come
tale non necessita di una puntuale valutazione delle ragioni
di interesse pubblico, né di un bilanciamento di questo con
gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né di una
motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione.
---------------
Quanto all’intervenuto passaggio di un rilevante lasso di
tempo, parte ricorrente fa, incongruamente, riferimento al
lasso di tempo (circa quattro anni) intercorso tra il
rilascio del permesso di costruire in sanatoria e l’adozione
del provvedimento sanzionatorio.
Tale lasso di tempo, tuttavia, non ha alcuna valenza al fine
di poter ingenerare un qualsiasi legittimo affidamento in
capo al privato, in quanto ciò che eventualmente potrebbe,
invia teorica, rilevare a questo scopo è il diverso lasso di
tempo intercorso tra il momento di realizzazione dell’abuso
(o del suo accertamento da parte dell’Amministrazione) e
l’esercizio del potere sanzionatorio.
Né poi quattro anni appaiono, di fatto, un lasso di tempo
sufficiente ad ingenerare un affidamento sul mancato
esercizio del potere sanzionatorio, anche tenuto conto
altresì che l’accertamento dell’abuso è stato frutto di
autonomi accertamenti dell’amministrazione.
In ogni caso il Collegio aderisce a quel filone
giurisprudenziale che si è più volte espresso, nel senso di
non ammettere l'esistenza di alcun affidamento tutelabile
alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che
il tempo non può giammai legittimare, non potendo
l'interessato dolersi del fatto che l'Amministrazione non
abbia emanato in data antecedente i dovuti atti repressivi.
In particolare, nel caso di abusi edilizi vi è un soggetto
che pone in essere un comportamento contrastante con le
prescrizioni dell’ordinamento, che confida nell’omissione
dei controlli o comunque nella persistente inerzia
dell’amministrazione nell’esercizio del potere di vigilanza.
In questi casi il fattore tempo non agisce qui in sinergia
con l’apparente legittimità dell’azione amministrativa
favorevole, a tutela di un’aspettativa conforme alle
statuizioni amministrative pregresse.
2) Quanto al merito dell’impugnativa dell’ordinanza di
demolizione, con il primo motivo di ricorso parte ricorrente
ha dedotto la carenza di motivazione, il difetto di
istruttoria per la mancata valutazione della sussistenza
dell’interesse pubblico alla demolizione, tenuto altresì
conto dell’intervenuto passaggio di quattro anni dal titolo
in sanatoria.
Il motivo è infondato.
L’ordinanza di demolizione in questione risulta
sufficientemente motivata, ai sensi di quanto previsto
dall’art. 3 della legge n. 241/1990, facendo riferimento agli
atti istruttori di accertamento dell’abuso, riportando i
presupposti di fatto e le ragioni che hanno determinato
l’ordinanza demolitoria, ovverosia la difformità delle opere
riscontrate rispetto al titolo abilitativo, e facendo
riferimento alle specifiche norme che prescrivono la
sanzione adottata.
Inoltre, l'abusività di un'opera edilizia costituisce già di
per sé presupposto per l'applicazione della prescritta
sanzione demolitoria (Consiglio Stato, sez. V, 30.11.2000, n. 6357) e, per costante giurisprudenza, la diffida a
demolire manufatti abusivi è atto vincolato (ex multis,
C.d.S., VI, 28.06.2004, n. 4743; C.d.S., sez. V, 10.07.2003, n. 4107; TAR Campania Napoli, Sez. IV,
04.02.2003, n. 617; 15.07.2003, n. 8246) e come tale
non necessita di una puntuale valutazione delle ragioni di
interesse pubblico, né di un bilanciamento di questo con gli
interessi privati coinvolti e sacrificati, né di una
motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione (Cons. Stato Sez. VI,
28.01.2013, n. 496; Cons. Stato Sez. IV, 28.12.2012, n.
6702).
Quanto all’intervenuto passaggio di un rilevante lasso di
tempo, parte ricorrente fa, incongruamente, riferimento al
lasso di tempo (circa quattro anni) intercorso tra il
rilascio del permesso di costruire in sanatoria e l’adozione
del provvedimento sanzionatorio.
Tale lasso di tempo, tuttavia, non ha alcuna valenza al fine
di poter ingenerare un qualsiasi legittimo affidamento in
capo al privato, in quanto ciò che eventualmente potrebbe,
invia teorica, rilevare a questo scopo è il diverso lasso di
tempo intercorso tra il momento di realizzazione dell’abuso
(o del suo accertamento da parte dell’Amministrazione) e
l’esercizio del potere sanzionatorio.
Né poi quattro anni appaiono, di fatto, un lasso di tempo
sufficiente ad ingenerare un affidamento sul mancato
esercizio del potere sanzionatorio, anche tenuto conto
altresì che l’accertamento dell’abuso è stato frutto di
autonomi accertamenti dell’amministrazione.
In ogni caso il Collegio aderisce a quel filone
giurisprudenziale che si è più volte espresso (Cons. Stato,
Sez. VI, 21.10.2013, n. 5088; Cons. Stato, Sez. VI, 04.10.2013, n. 4907), nel senso di non ammettere
l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il
tempo non può giammai legittimare (Cons. Stato Sez. VI, 28.01.2013, n. 496; Cons. Stato Sez. IV, 16.04.2012,
n. 2185; Cons. Stato Sez. IV, 28.12.2012, n. 6702,
Cons. Stato Sez. VI, 27.03.2012, n. 1813; Cons. Stato
Sez. IV, 27.10.2011, n. 5758; Cons. Stato Sez. IV, 20.07.2011, n. 4403; Cons. Stato Sez. V, 27.04.2011,
dalla n. 2497 alla n. 2527; Cons. Stato Sez. V, 11.01.2011, n. 79; TAR Lombardia Milano Sez. II,
08.09.2011, n. 2183; TAR Lazio Roma Sez. I-quater, 23.06.2011, n. 5582; TAR Campania Napoli Sez. III, 16.06.2011, n. 3211; TAR Campania Napoli Sez. VIII,
09.06.2011, n. 3029), non potendo l'interessato dolersi del fatto
che l'Amministrazione non abbia emanato in data antecedente
i dovuti atti repressivi (Cons. Stato, VI, 31.05.2013,
n. 3010; Cons. Stato, VI, 11.05.2011, n. 2781).
In particolare, nel caso di abusi edilizi vi è un soggetto
che pone in essere un comportamento contrastante con le
prescrizioni dell’ordinamento, che confida nell’omissione
dei controlli o comunque nella persistente inerzia
dell’amministrazione nell’esercizio del potere di vigilanza.
In questi casi il fattore tempo non agisce qui in sinergia
con l’apparente legittimità dell’azione amministrativa
favorevole, a tutela di un’aspettativa conforme alle
statuizioni amministrative pregresse (Cons. Stato, Sez. VI,
21.10.2013, n. 5088; Cons. Stato, Sez. VI, 04.10.2013, n. 4907; Cons. Stato, IV,
04.05.2012, n. 2592)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 02.07.2015 n. 3490 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il prolungamento di un vano di 1,10 mt. in
larghezza e mt. 8,40 in lunghezza al piano rialzato,
costituisce una totale difformità rispetto all’autorizzato,
nonché un intervento che, aumentando in modo non
trascurabile la volumetria dell’immobile, necessitava del
permesso di costruire, comportando la sua assenza unicamente
la sanzione della riduzione in pristino.
Tale sanzione si presenta quale atto vincolato e nessuna
rilevanza può avere il generico richiamo al principio di
proporzionalità delle sanzioni amministrative.
---------------
Parimenti infondato è il richiamo, anch’esso generico,
all’art. 34, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001,
sull’impossibilità di demolire senza pregiudizio della parte
eseguita in conformità, in quanto la citata previsione del
comma 2, dell’art. 34, si applica espressamente solo agli
“interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di
costruire” mentre quello in questione è un intervento in
totale difformità del permesso di costruire o con variazioni
essenziali e, come tale è stato espressamente sanzionato ai
sensi dell’art. 31 D.P.R. 380/2001 che non dà alcun rilievo
all’impossibilità di demolire senza pregiudizio
dell’assentito.
L’indicato art. 31, infatti, non contempla al riguardo
l’irrogazione di una sanzione pecuniaria alternativa
rispetto all’ingiunzione di demolizione e pertanto la stessa
non può trovare applicazione rispetto agli interventi del
tipo in esame.
Inoltre, in ogni caso, l'impossibilità tecnica di demolire
il manufatto senza grave pregiudizio per l’assentito non
incide sulla legittimità del provvedimento sanzionatorio,
per cui la possibilità di non procedere alla rimozione delle
parti abusive (quando ciò sia pregiudizievole per quelle
legittime) costituisce solo un'eventualità della fase
esecutiva, subordinato alla circostanza dell'impossibilità
del ripristino dello stato dei luoghi.
3) Con il secondo motivo di ricorso parte ricorrente prende
in esame le singole opere indicate nell’ordinanza di
demolizione deducendo:
- che il prolungamento di un vano di
1,10 mt. in larghezza e mt. 8,40 in lunghezza al piano
rialzato costituisce una difformità parziale non
sanzionabile con una misura demolitoria ma semmai con una
sanzione pecuniaria, invocando inoltre genericamente il
principio di proporzionalità e l’art. 34, comma 2, del
D.P.R. sull’impossibilità di demolire senza pregiudizio
della parte eseguita in conformità; e pecuniaria;
- la
pensilina di circa mq. 30 per ricovero autovetture
costituirebbe opera non soggetta la regime del permesso di
costruire;
- il locale delle dimensioni di mt. 17,50 x 3,70
con altezza di mt. 3,30 sarebbe un volume tecnico non
soggetto anch’esso al regime del permesso di costruire.
Le censure sono infondate.
Innanzitutto, le opere devono essere intese quale intervento
unitario di modificazione dell’immobile in difformità
rispetto all’autorizzato, per cui non è corretta
l’impostazione tenuta nel ricorso di considerare i vari
interventi atomisticamente, ovverosia quali opere autonome.
Nella questa corretta ottica unitaria, infatti, le opere
realizzate costituiscono sicuramente un intervento che
necessitava del permesso di costruire e realizzate in totale
difformità rispetto all’autorizzato.
3.1) Ma anche intesi atomisticamente e considerati in modo
autonomo, i suddetti interventi necessitavano del permesso
di costruire e costituiscono una totale difformità rispetto
all’autorizzato che giustifica l’ordine demolitorio
adottato.
Il prolungamento di un vano di 1,10 mt. in larghezza e mt.
8,40 in lunghezza al piano rialzato, costituisce una totale
difformità rispetto all’autorizzato, nonché un intervento
che, aumentando in modo non trascurabile la volumetria
dell’immobile, necessitava del permesso di costruire,
comportando la sua assenza unicamente la sanzione della
riduzione in pristino.
Tale sanzione si presenta quale atto vincolato e nessuna
rilevanza può avere il generico richiamo al principio di
proporzionalità delle sanzioni amministrative.
Parimenti infondato è il richiamo, anch’esso generico,
all’art. 34, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001,
sull’impossibilità di demolire senza pregiudizio della parte
eseguita in conformità, in quanto la citata previsione del
comma 2, dell’art. 34, si applica espressamente solo agli
“interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di
costruire” mentre quello in questione è un intervento in
totale difformità del permesso di costruire o con variazioni
essenziali e, come tale è stato espressamente sanzionato ai
sensi dell’art. 31 D.P.R. 380/2001 che non dà alcun rilievo
all’impossibilità di demolire senza pregiudizio
dell’assentito.
L’indicato art. 31, infatti, non contempla al riguardo
l’irrogazione di una sanzione pecuniaria alternativa
rispetto all’ingiunzione di demolizione (TAR Campania
Napoli, sez. VII, 05.06.2008, n. 5244) e pertanto la
stessa non può trovare applicazione rispetto agli interventi
del tipo in esame.
Inoltre, in ogni caso, l'impossibilità tecnica di demolire
il manufatto senza grave pregiudizio per l’assentito non
incide sulla legittimità del provvedimento sanzionatorio,
per cui la possibilità di non procedere alla rimozione delle
parti abusive (quando ciò sia pregiudizievole per quelle
legittime) costituisce solo un'eventualità della fase
esecutiva, subordinato alla circostanza dell'impossibilità
del ripristino dello stato dei luoghi (TAR Campania
Napoli Sez. II, 10.01.2014, n. 186; TAR Campania Napoli
Sez. III, 22.07.2013, n. 3786; TAR Campania Napoli Sez. VI, 20.06.2013,
n. 3193)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 02.07.2015 n. 3490 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Gli interventi consistenti nell'installazione di
tettoie o di altre strutture che siano comunque apposte a
parti di preesistenti edifici come strutture accessorie di
protezione o di riparo di spazi liberi (cioè non compresi
entro coperture volumetriche previste in un progetto
assentito) possono ritenersi sottratti al regime del
permesso di costruire soltanto e nei limiti in cui la loro
conformazione e le loro ridotte dimensioni rendano evidente
e riconoscibile la loro finalità di arredo o di riparo e
protezione (anche da agenti atmosferici) dell'immobile cui
accedono.
Tali strutture non possono invece ritenersi installabili
senza permesso di costruire allorquando abbiano dimensioni
tali da arrecare una visibile alterazione del prospetto e
della sagoma dell'edificio.
In quest’ultimo caso la realizzazione di una tettoia,
indipendentemente dalla sua eventuale natura pertinenziale,
è configurabile come intervento di ristrutturazione edilizia
ai sensi dell'art. 3, comma 1, lettera d), del D.P.R. n.
380/2001, nella misura in cui realizza "l'inserimento di
nuovi elementi ed impianti", ed è quindi subordinata al
regime del permesso di costruire, ai sensi dell'articolo 10,
comma primo, lettera c), dello stesso D.P.R. laddove
comporti una modifica della sagoma o del prospetto del
fabbricato cui accede.
La tettoia in esame, avendo dimensioni non trascurabili (mq.
30), era assoggettata al regime del permesso di costruire e
pertanto l’ordine demolitorio adottato si palesa
giustificato.
3.2) La realizzata pensilina di circa mq. 30 per ricovero
autovetture costituisce anch’essa una totale difformità o,
quantomeno, una variazione essenziale rispetto
all’autorizzato e la sua realizzazione, anche autonomamente
considerata, richiedeva il permesso di costruire.
A nulla vale la specificazione di parte ricorrente che la
stessa è aperta da tutti e quattro i lati.
Il Collegio, aderisce alla giurisprudenza di questo TAR,
formatasi sotto il regime di vigenza regime, applicabile ratione temporis al caso in esame, del testo del suddetto
art. 10 prima della sua modifica ad opera D.L. 21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla L.
09.08.2013, n. 98.
Secondo tale orientamento giurisprudenziale gli interventi
consistenti nell'installazione di tettoie o di altre
strutture che siano comunque apposte a parti di preesistenti
edifici come strutture accessorie di protezione o di riparo
di spazi liberi (cioè non compresi entro coperture
volumetriche previste in un progetto assentito) possono
ritenersi sottratti al regime del permesso di costruire
soltanto e nei limiti in cui la loro conformazione e le loro
ridotte dimensioni rendano evidente e riconoscibile la loro
finalità di arredo o di riparo e protezione (anche da agenti
atmosferici) dell'immobile cui accedono. Tali strutture non
possono invece ritenersi installabili senza permesso di
costruire allorquando abbiano dimensioni tali da arrecare
una visibile alterazione del prospetto e della sagoma
dell'edificio (ex multis, TAR Campania Napoli, Sez. VII,
27.04.2001, n. 2313; TAR Campania Napoli, Sez. IV, 13.01.2011, n. 84).
In quest’ultimo caso la realizzazione di una tettoia,
indipendentemente dalla sua eventuale natura pertinenziale,
è configurabile come intervento di ristrutturazione edilizia
ai sensi dell'art. 3, comma 1, lettera d), del D.P.R. n.
380/2001, nella misura in cui realizza "l'inserimento di nuovi
elementi ed impianti", ed è quindi subordinata al regime del
permesso di costruire, ai sensi dell'articolo 10, comma
primo, lettera c), dello stesso D.P.R. laddove comporti una
modifica della sagoma o del prospetto del fabbricato cui
accede.
La tettoia in esame, avendo dimensioni non trascurabili (mq.
30), era assoggettata al regime del permesso di costruire e
pertanto l’ordine demolitorio adottato si palesa
giustificato
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 02.07.2015 n. 3490 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per volumi tecnici, ai fini dell'esclusione dal
calcolo della volumetria ammissibile, devono intendersi i
locali completamente privi di un’autonomia funzionale, anche
potenziale, in quanto destinati a contenere impianti
serventi di una costruzione principale, per esigenze
tecnico-funzionali della costruzione stessa e, in
particolare, quei volumi strettamente necessari a contenere
ed a consentire l'ubicazione di quegli impianti tecnici
indispensabili per assicurare il comfort degli edifici, che
non possano, per esigenze tecniche di funzionalità degli
impianti, essere inglobati entro il corpo della costruzione
realizzabile nei limiti imposti dalle norme urbanistiche.
Per l’identificazione della nozione di volume tecnico, va
fatto riferimento a tre ordini di parametri: il primo,
positivo, di tipo funzionale, dovendo avere un rapporto di
strumentalità necessaria con l’utilizzo della costruzione;
il secondo e il terzo negativi, ricollegati: -
all’impossibilità di soluzioni progettuali diverse, nel
senso che tali costruzioni non devono essere ubicate
all’interno della parte abitativa; - a un rapporto di
necessaria proporzionalità che deve sussistere fra i volumi
e le esigenze edilizie completamente prive di una propria
autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto destinate
a contenere gli impianti serventi di una costruzione
principale stessa.
In virtù di tale ricostruzione si è riconosciuto che i
volumi tecnici degli edifici sono esclusi dal calcolo della
volumetria a condizione che non assumano le caratteristiche
di vano chiuso, utilizzabile e suscettibile di abitabilità.
Nel caso in cui un intervento edilizio sia di altezza e
volume tale da poter essere destinato a locale abitabile,
ancorché designato in progetto come volume tecnico, deve
essere computato a ogni effetto, sia ai fini della cubatura
autorizzabile, sia ai fini del calcolo dell’altezza e delle
distanza ragguagliate all’altezza.
Non possono essere considerati volumi tecnici, ad esempio, i
sottotetti degli edifici, quando sono di altezza tale da
poter essere suscettibili d'abitazione o d'assolvere a
funzioni complementari, quale quella ad esempio di deposito
di materiali, le soffitte, gli stenditori chiusi e
quelli «di sgombero», nonché il piano di copertura,
impropriamente definito sottotetto, ma costituente in
realtà, come nella specie, una mansarda in quanto dotato di
rilevante altezza media rispetto al piano di gronda, un vano
scala finalizzato non all'installazione ed all'accesso a
impianti tecnologici necessari alle esigenze abitative, ma a
consentire l'accesso da un appartamento ad una terrazza
praticabile.
Allo stesso modo non può considerarsi un volume tecnico un
locale sottotetto che abbia una rilevante altezza media
rispetto al piano di gronda che sia collegato agli altri
locali mediante una scala interna, dotato di una ampia
finestra di aerazione e di una ulteriore apertura per
accedere ad un terrazzo calpestabile e locali complementari
all'abitazione, tra cui la mansarda (nonché la soffitta, gli
stenditoi chiusi o di sgombero, ecc.).
3.3) Quanto al locale sul confine nord, delle dimensioni di
mt. 17,50 e 3,70 con altezza di mt. 3,30, quest’ultimo,
contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente non può
essere considerato un mero volume tecnico, attesa la sua
caratteristica e consistenza.
Secondo quanto chiarito da giurisprudenza, difatti, per
volumi tecnici, ai fini dell'esclusione dal calcolo della
volumetria ammissibile, devono intendersi i locali
completamente privi di un’autonomia funzionale, anche
potenziale, in quanto destinati a contenere impianti
serventi di una costruzione principale, per esigenze
tecnico-funzionali della costruzione stessa (Consiglio
Stato, sez. IV, 04.05.2010 , n. 2565; TAR Sicilia-Palermo Sez. I - sentenza
09.07.2007, n. 1749; TAR
Lombardia-Milano, Sez. II, 04.04.2002 n. 1337) e, in
particolare, quei volumi strettamente necessari a contenere
ed a consentire l'ubicazione di quegli impianti tecnici
indispensabili per assicurare il comfort degli edifici, che
non possano, per esigenze tecniche di funzionalità degli
impianti, essere inglobati entro il corpo della costruzione
realizzabile nei limiti imposti dalle norme urbanistiche
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III - sentenza 15.01.2005
n. 143; TAR Puglia-Bari sentenza n. 2843/2004).
Per l’identificazione della nozione di volume tecnico, va
fatto riferimento a tre ordini di parametri: il primo,
positivo, di tipo funzionale, dovendo avere un rapporto di
strumentalità necessaria con l’utilizzo della costruzione;
il secondo e il terzo negativi, ricollegati: -
all’impossibilità di soluzioni progettuali diverse, nel
senso che tali costruzioni non devono essere ubicate
all’interno della parte abitativa; - a un rapporto di
necessaria proporzionalità che deve sussistere fra i volumi
e le esigenze edilizie completamente prive di una propria
autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto destinate
a contenere gli impianti serventi di una costruzione
principale stessa (TAR Sicilia Palermo Sez. I, 09.07.2007).
In virtù di tale ricostruzione si è riconosciuto che i
volumi tecnici degli edifici sono esclusi dal calcolo della
volumetria a condizione che non assumano le caratteristiche
di vano chiuso, utilizzabile e suscettibile di abitabilità
(TAR Puglia Lecce, Sez. III, 15.01.2005 n. 143;
TAR Puglia-Bari sentenza n. 2843/2004).
Nel caso in cui un intervento edilizio sia di altezza e
volume tale da poter essere destinato a locale abitabile,
ancorché designato in progetto come volume tecnico, deve
essere computato a ogni effetto, sia ai fini della cubatura
autorizzabile, sia ai fini del calcolo dell’altezza e delle
distanza ragguagliate all’altezza (TAR Puglia-Bari
sentenza n. 2843/2004).
Non possono essere considerati volumi tecnici, ad esempio, i
sottotetti degli edifici, quando sono di altezza tale da
poter essere suscettibili d'abitazione o d'assolvere a
funzioni complementari, quale quella ad esempio di deposito
di materiali (TAR Puglia-Lecce, Sez. III - sentenza 15.01.2005 n. 143), le soffitte, gli stenditori chiusi e
quelli «di sgombero», nonché il piano di copertura,
impropriamente definito sottotetto, ma costituente in
realtà, come nella specie, una mansarda in quanto dotato di
rilevante altezza media rispetto al piano di gronda
(Consiglio Stato, sez. V, 04.03.2008, n. 918), un vano
scala finalizzato non all'installazione ed all'accesso a
impianti tecnologici necessari alle esigenze abitative, ma a
consentire l'accesso da un appartamento ad una terrazza
praticabile (TAR Campania Napoli Sez. III, 25.05.2010, n. 8748).
Allo stesso modo non può considerarsi un volume tecnico un
locale sottotetto che abbia una rilevante altezza media
rispetto al piano di gronda che sia collegato agli altri
locali mediante una scala interna, dotato di una ampia
finestra di aerazione e di una ulteriore apertura per
accedere ad un terrazzo calpestabile (TAR Sicilia–Palermo Sez. I - sentenza
09.07.2007, n. 1749) e locali
complementari all'abitazione, tra cui la mansarda (nonché la
soffitta, gli stenditoi chiusi o di sgombero, ecc.) ( Cons.
Stato, Sez. V, 13.05.1997, n. 483).
Nel caso di specie al locale in questione mancano del tutto
le caratteristiche per essere considerato volume tecnico.
Non risulta, infatti, dimostrato un rapporto di
strumentalità necessaria con l’utilizzo della costruzione,
nel senso della sua unica finalità e stretta necessità di
contenere impianti tecnici serventi una costruzione
principale che non possano per esigenze tecniche essere
inglobati entro il corpo della costruzione. Ed anzi dalla
stessa ordinanza di demolizione risulta, in base alle
risultanze istruttorie, che il locale ha alche finalità
ulteriori, quali funzione di deposito e bagno, come peraltro
è ragionevole presumere data l’ampiezza dello stesso.
Non è stato in alcun modo dimostrata l’impossibilità di
soluzioni progettuali diverse comportanti l’ubicazione
all’interno della parte abitativa.
Inoltre, lo stesso, per ampiezza e caratteristiche (vano
chiuso, autonomamente utilizzabile e suscettibile di
abitabilità) si palesa come idoneo ad assumere una propria
autonomia funzionale e pertanto non può essere considerato
volume tecnico.
Risulta, infine, irrilevante l’intervenuta presentazione da
parte della ricorrente di una D.I.A. in sanatoria essendo
gli interventi assoggettati al regime del permesso di
costruire.
Le cesure formulate vanno pertanto rigettate.
4) Per le ragioni indicate il ricorso deve essere rigettato
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 02.07.2015 n. 3490 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Per l'attività di deposito temporaneo dei rifiuti
all'interno dello stabilimento del produttore iniziale non
sono necessarie le autorizzazioni e le iscrizioni previste
dall'art. 183 del d.lgs. 152/2006.
Sul triennio da prendere in considerazione per verificare la
sussistenza del requisito della capacità economico
finanziaria di cui all'art. 41 del d.lgs. n. 163/2006.
Esula dalle attività assoggettate alle autorizzazioni e alle
iscrizioni previste dall'art. 183 del d.lgs. 152/2006
l'attività di deposito temporaneo dei rifiuti all'interno
dello stabilimento del produttore iniziale (allegato B della
parte quarta del d.lgs. 152/2006 che esclude dalle
operazioni di smaltimento "il deposito temporaneo, prima
della raccolta nel luogo in cui sono prodotti i rifiuti").
Pertanto, nel caso di specie, inerente una gara indetta da
una Azienda Ospedaliera per l'affidamento del servizio di
pulizia delle aree esterne nonché delle aree a basso, medio,
alto e altissimo rischio dell'Azienda Ospedaliera,
correttamente la stazione appaltante non aveva indicato
negli atti di gara la necessità in capo alle partecipanti
delle autorizzazioni previste dal d.lvo n.152/2006 ai fini
della preventiva effettuazione di operazione di gestione dei
rifiuti, trattandosi di attività da espletare all'interno
delle strutture del produttore iniziale.
Né il bando in tale fattispecie poteva considerarsi etero
integrabile, tenuto conto dei principi fondamentali di
certezza del diritto, lealtà, buona fede e tutela
dell'affidamento, che impediscono di disporre in via
giurisdizionale la esclusione di un concorrente da una gara
pubblica per requisiti non prescritti dal bando di gara.
---------------
Per la dimostrazione della capacità economico finanziaria di
cui all'art. 41 del d.lgs. n. 163/2006 il triennio da
prendere in considerazione per verificare la sussistenza del
requisito è quello solare decorrente dal 1° gennaio e
ricomprende i tre anni solari antecedenti la data del bando,
in quanto la norma fa riferimento alla nozione di esercizio
inteso come anno solare, mentre per la capacità tecnica e
professionale di cui all'art. 42 "il triennio di
riferimento è quello effettivamente antecendente la data di
pubblicazione del bando e, quindi, non coincide
necessariamente con il triennio relativo al requisito di
capacità economico finanziaria" (Consiglio di Stato,
Sez. III,
sentenza 02.07.2015 n. 3285 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it) |
VARI:
Il proprietario dell'auto non ha obbligo di
ricordo.
Il proprietario di un automezzo non ha «l'obbligo di
ricordare» chi sia stato il conducente dello stesso al
momento dell'infrazione qualora questo sia particolarmente
difficoltoso o addirittura impossibile. La conseguente
dichiarazione alla prefettura, che deve comunque essere
inoltrata, deve attestare tale impossibilità.
Lo afferma il giudice di pace di Messina con sentenza
02.07.2014 n. 2135/14, nella causa civile, promossa da
un automobilista contro la prefettura di Messina. La
sentenza, che risulta essere di indubbia utilità per molti
automobilisti, è definitiva.
Raggiunto dal verbale con cui si contestava di non avere
comunicato i dati personali e della patente di guida del
conducente, il ricorrente, che nel frattempo aveva pagato i
verbali pregressi, adiva il giudice di pace di Messina
eccependo di avere tempestivamente comunicato alla
competente prefettura di non ricordare chi fosse alla guida
della sua autovettura al momento dell'infrazione, per cui
chiedeva l'annullamento dei verbali in omaggio al principio
per cui «a impossibilia nemo tenetur».
In tale
dichiarazione, confermata poi nell'istruttoria del giudizio,
il proprietario del mezzo affermava che l'auto veniva
utilizzata dalla moglie, dai figli e dai collaboratori del
suo studio commerciale. Si costituiva la prefettura con gli
assunti di rito, deducendo la legittimità dei verbali e
chiedendo il rigetto del ricorso. Il giudice di pace di
Messina riteneva gli assunti della prefettura destituiti di
fondamento in fatto e inattendibili in diritto.
Infatti,
posta la causa in decisione, il Gdp di Messina diceva
ammissibile il ricorso, fondato e per l'effetto lo
accoglieva, argomentando che la normativa invocata dalla
prefettura viola il principio per il quale è impossibile
pretendere da alcuno una dichiarazione tendente, se del
caso, alla propria incolpazione, con inversione dell'onere
della prova (onere della prova che invece nella fattispecie
afferisce proprio alla p.a.).
Chiarisce il Gdp che non è
invocabile nessuno spirito collaborativo, dovendosi
piuttosto tener conto dei principi costituzionali, come
quello anzidetto, che sono cardini del diritto e che il
giudicante può rilevare anche d'ufficio e che quindi appare
conforme a legge ed è quindi da ritenersi che il
proprietario del mezzo abbia, comunque adempiuto al
«preteso» obbligo d'indicare il conducente. Così il Gdp ha
annullato i verbali, condannando la prefettura alle spese
del giudizio.
La sentenza si inquadra in un filone
giurisprudenziale (espressamente richiamato: Corte cost.
534/1990; 517/1995; Cass. civ. sez. II del 20/01/2010 n. 927;
Cass. 10/05/2010 n. 11283; Cass. ss. uu. del 30/09/2009 n.
20929) ormai prevalente secondo cui la p.a. deve provare la
fondatezza dei suoi atti e che viene qui applicato in tema
di decurtazione dei punti sulla patente, il cui automatismo
viene meno
(articolo ItaliaOggi Sette del 27.07.2015). |
COMMERCIO -
EDILIZIA PRIVATA: Autorizzazioni preventive su medi e grandi esercizi.
L’impatto giustifica la tutela dell’«interesse generale».
Tar Venezia. Bocciato un ricorso che contestava la
legittimità del «vincolo».
Fissare un’autorizzazione preventiva per le strutture commerciali di
medie e grandi dimensioni a tutela della salute,
dell’ambiente e dei consumatori non altera il confronto
concorrenziale né viola i principi comunitari di libertà di
insediamento, apertura e liberalizzazione delle attività
economiche.
L’ha stabilito il TAR Veneto,
Sez. III, nella
sentenza
01.07.2015 n. 766, bocciando il ricorso di Federdistribuzione, a difesa
delle imprese della distribuzione rappresentate, contro il
regolamento sugli «indirizzi per lo sviluppo del sistema
commerciale» (n. 1/2013) adottato dalla Regione Veneto per
attuare la legge regionale in materia (n. 50/2012) già
bocciata in parte dalla Corte costituzionale per altre
ragioni (sentenza n. 251/2013).
Stando alle contestazioni, l’atto avrebbe violato i principi
di libera prestazione di servizi e libertà di iniziativa
economica garantiti dal Trattato Ue (articolo 56) e dalla
Costituzione (articolo 41) poiché subordina l’esercizio
delle grandi strutture con più di 1.500 metri quadri di
superficie di vendita ad «autorizzazione commerciale» e
«valutazione integrata degli impatti», ovvero ad un «un
controllo pubblico, preventivo o successivo, a tutela dei
motivi imperativi di interesse generale», dalla tutela
dell’ambiente e della sanità pubblica a quella dei
lavoratori e dei beni culturali.
Al contrario, il Tar ha affermato che «la realizzazione di
una grande struttura di vendita ha un considerevole impatto
sul territorio, condizionandone la destinazione e gli
sviluppi futuri, circostanza quest’ultima che impone, di per
sé, la necessità che i principi in materia di
liberalizzazione del commercio siano contemperati dalla
tutela di un interesse generale, evidentemente inciso dalla
realizzazione di una struttura di una tale dimensione. Ne
consegue la legittimità di un controllo preventivo, e quindi autorizzatorio».
Nel dettaglio, ha spiegato che «se è vero
che a seguito della direttiva Bolkestein (2006/123/Ce, ndr)
l’iniziativa economica non possa, di regola, essere
assoggettata ad autorizzazioni e limitazioni (...) atti di
programmazione aventi natura non economica (...) possono
imporre limiti rispondenti ad esigenze annoverabili fra i
motivi imperativi di interesse generale».
In base a tale principio -confermato da Corte di giustizia
Ue (sentenza 24.03.2011, C-400/08) e Consulta (n.
104/2014)– tale regolamento è quindi legittimo poiché «non
ha imposto limitazioni di tipo economico, ma si è limitata a
porre una disciplina idonea a tutelare il territorio e
l’ambiente urbano» e nel rispetto delle norme sulle
liberalizzazioni che ammettono limiti per «interesse
generale» (articoli 1 e 2, legge n. 27/2012) e di quelle per
la crescita del Paese per cui gli enti locali possono porre
tali restrizioni nell’insediamento di attività produttive e
commerciali (comma 2, articolo 31, legge n. 214/2011,
conversione Dl “Salva-Italia” n. 201/2011) (articolo Il Sole 24 Ore del 30.07.2015). |
CONDOMINIO: Lo
scarico è sempre comune. Anche se c’è un distacco dal collegamento occorre
pagare il rifacimento.
Obbligatorio
contribuire al rifacimento della fogna, anche se non si è
collegati. Per essere esclusi dalla partecipazione alle
spese occorre fornire la prova, attraverso il titolo di
proprietà, che l’impianto appartiene, in via esclusiva, ad
altri condòmini.
Inutile chiamare in causa il principio che
prevede il pagamento delle spese in funzione dell’utilizzo
in quanto tale modalità di ripartizione (articolo 1123
Codice civile) trova applicazione solo nel caso di impianti
di cui è previsto l’utilizzo separato da parte dei singoli condòmini.
A stabilirlo è stata la
II Sez. civile della
Corte di Cassazione, con la
sentenza 30.06.2015 n.
13415.
Secondo la giurisprudenza, l’impianto fognario rientra tra i
beni comuni indicati nell’articolo 1117 Codice civile
(Cassazione 13160/1991) di cui il singolo condòmino è
proprietario in proporzione al valore della proprietà
esclusiva (valore in genere indicato nella Tabella
millesimale A) pertanto, «le spese per la conservazione sono
assoggettate alla ripartizione in misura proporzionale al
valore delle singole proprietà» (Cassazione, 11423/1990).
Viene poi posto un quesito: le spese vanno divise in base
all’articolo 1123 Codice civile in proporzione all’uso
concreto del bene comune o in base al criterio generale di
cui all’articolo 1117 Codice civile?
La Cassazione chiarisce
che le spese devono essere suddivise in funzione della quota
di partecipazione alla proprietà e non in funzione del
concreto utilizzo degli impianti. L’articolo 1123 Codice
civile trova applicazione in relazione alle «cose comuni
suscettibili di destinazione al servizio dei condomini in
misura diversa ovvero al godimento di alcuni condomini e non
di altri» (Cassazione, 403/1999).
Il condòmino può evitare di concorrere alle spese solo
sostenendo di non essere proprietario dell’impianto, neppure
pro-quota, ma ciò è possibile solo esibendo un titolo. In
altre parole, l’atto di acquisto dell’immobile deve
specificare che l’impianto fognario è di proprietà esclusiva
di altri condomini (Cassazione, sentenze 11391/2002 e
7449/1993) (articolo Il Sole 24 Ore del
21.07.2015). |
EDILIZIA PRIVATA: Gli
atti di repressione degli abusi edilizi hanno natura urgente
e strettamente vincolata (essendo dovuti in assenza di
titolo per l’avvenuta trasformazione del territorio), con la
conseguenza che, ai fini della loro adozione, non sono
richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario e
quindi non devono essere necessariamente preceduti dalla
comunicazione di avvio del procedimento.
L’adozione
di provvedimenti repressivi di abusi edilizi non deve essere
preceduta dall’avviso di avvio del procedimento, trattandosi
di provvedimenti tipici e vincolati, emessi all’esito di
numero accertamento tecnico della consistenza delle opere
realizzate e del carattere abusivo delle medesime.
Gli atti sanzionatori in materia edilizia, dato il loro
contenuto vincolato si nell’an che nel quid, non devono
essere preceduti dalla comunicazione di avvio del relativo
procedimento ai sensi dell’art. 7, L. n. 241 del 1990 e non
richiedono apporti partecipativi del soggetto destinatario.
L’ordine di demolizione scaturisce dal mero fatto della
commissione dell’abuso e, stante la sua natura vincolata,
non deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del
procedimento e non richiede una specifica motivazione né la
valutazione sull’interesse pubblico, che è in re ipsa.
L’esercizio
del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce
manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la
conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l’ordinanza
di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui
adozione non è necessario dare notizia dell’avvio del
procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi
del destinatario dell’atto.
---------------
La giurisprudenza, onde evitare che inutili formalismi che
possono andare a detrimento della celerità e speditezza
dell’azione amministrativa è approdata al convincimento che:
<<l’art. 21-octies, comma 2, L. n. 241 del 1990, come
modificato dalla L. n. 13 del 2005 (il quale ormai pone in
capo all’Amministrazione -e non al privato- l’onere di
dimostrare, in caso di mancata comunicazione dell’avvio, che
l’esito del provvedimento non poteva essere diverso) va
interpretato nel senso che, onde evitare di gravare la P.A.
di una probatio diabolica, il privato non può limitarsi a
dolersi della mancata comunicazione di avvio, ma deve anche
quantomeno indicare o allegare quali sono gli elementi
conoscitivi che avrebbe introdotto nel procedimento ove
avesse ricevuto la comunicazione. Solo dopo che il
ricorrente ha adempiuto questo onere di allegazione (che la
norma implicitamente pone a suo carico), la P.A. sarà
gravata dal ben più consistente onere di dimostrare che,
anche ove quegli elementi fossero stati valutati, il
contenuto dispositivo del provvedimento non sarebbe mutato>>
Con la prima censura è dedotta la violazione dell’art. 7, L.
07.08.1990, n. 241 e succ, modd.; L. 28.01.1977, n. 10; L.
28.02.1985, n. 47; L. 23.12.1994, n. 724; art. 97 Cost.).
Secondo parti ricorrenti, nella specie, la comunicazione da
loro ricevuta, non sarebbe adeguatamente motivata con
gravissimo pregiudizio, in quanto non messi in condizione di
contraddire sulla scelta sanzionatoria dell’Amministrazione,
con riguardo al suo ambito di incidenza, alla concreta
eseguibilità del provvedimento demolitorio (contenente al
suo interno madornali errori che dimostrerebbero una totale
disinformazione) ed alle connesse valutazioni delle sanzioni
pecuniarie alternative.
La censura è infondata.
Al riguardo deve rammentarsi che l’orientamento
giurisprudenziale in tema di comunicazione di avvio del
procedimento è pressoché costante nel ritenere che: <<Gli
atti di repressione degli abusi edilizi hanno natura urgente
e strettamente vincolata (essendo dovuti in assenza di
titolo per l’avvenuta trasformazione del territorio), con la
conseguenza che, ai fini della loro adozione, non sono
richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario e
quindi non devono essere necessariamente preceduti dalla
comunicazione di avvio del procedimento>> (TAR Campania,
Napoli, sez. II, 15.01.2015, n. 233); <<L’adozione di
provvedimenti repressivi di abusi edilizi non deve essere
preceduta dall’avviso di avvio del procedimento, trattandosi
di provvedimenti tipici e vincolati, emessi all’esito di
numero accertamento tecnico della consistenza delle opere
realizzate e del carattere abusivo delle medesime>> (TAR
Lazio Roma, Sez. I, 30.12.2014, n. 13335); <<Gli atti
sanzionatori in materia edilizia, dato il loro contenuto
vincolato si nell’an che nel quid, non devono essere
preceduti dalla comunicazione di avvio del relativo
procedimento ai sensi dell’art. 7, L. n. 241 del 1990 e non
richiedono apporti partecipativi del soggetto destinatario.
L’ordine di demolizione scaturisce dal mero fatto della
commissione dell’abuso e, stante la sua natura vincolata,
non deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del
procedimento e non richiede una specifica motivazione né la
valutazione sull’interesse pubblico, che è in re ipsa>>
TAR Campania, Sez. III 02.12.2014, n. 6302 e 09.12.214, n.
6425); <<L’esercizio del potere repressivo degli abusi
edilizi costituisce manifestazione di attività
amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi
provvedimenti, quali l’ordinanza di demolizione,
costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è
necessario dare notizia dell’avvio del procedimento, non
essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario
dell’atto>> (TAR Campania Sez. VII, 05.12.2014, n. 6383).
Pur con tali premesse, tuttavia, nella fattispecie in esame
il Comune -documentato dalla difesa resistente nella memoria
del 10.02.2014- ha ritenuto di dover comunicare ad entrambi
i ricorrenti l’avvio del procedimento (senza, però, che
questi ultimi abbiano presentare memorie), ma, alla stregua
della su riferita giurisprudenza, la censura è infondata
atteso che un’eventuale inadeguatezza della comunicazione
inviata, in ogni caso, non influisce sulla legittimità
dell’impugnata ordinanza.
Inoltre la giurisprudenza, onde evitare che inutili
formalismi che possono andare a detrimento della celerità e
speditezza dell’azione amministrativa è approdata al
convincimento che: <<l’art. 21-octies, comma 2, L. n. 241
del 1990, come modificato dalla L. n. 13 del 2005 (il quale
ormai pone in capo all’Amministrazione -e non al privato-
l’onere di dimostrare, in caso di mancata comunicazione
dell’avvio, che l’esito del provvedimento non poteva essere
diverso) va interpretato nel senso che, onde evitare di
gravare la P.A. di una probatio diabolica, il privato non
può limitarsi a dolersi della mancata comunicazione di
avvio, ma deve anche quantomeno indicare o allegare quali
sono gli elementi conoscitivi che avrebbe introdotto nel
procedimento ove avesse ricevuto la comunicazione. Solo dopo
che il ricorrente ha adempiuto questo onere di allegazione
(che la norma implicitamente pone a suo carico), la P.A.
sarà gravata dal ben più consistente onere di dimostrare
che, anche ove quegli elementi fossero stati valutati, il
contenuto dispositivo del provvedimento non sarebbe mutato>> (C di S., sez. V, 29.04.2009, n. 2737).
Orbene se, alla stregua di siffatta giurisprudenza,
dolendosi per la mancata comunicazione di avvio del
procedimento, il privato deve anche quantomeno indicare o
allegare quali sono gli elementi conoscitivi che avrebbe
introdotto nel procedimento ove avesse ricevuto la
comunicazione, ciò a maggior ragione deve valere nel caso in
cui -come nella specie- la comunicazione in parola vi sia
stata (cfr. nota 21637 del 03.07.2013), ma il ricorrente
lamenta che essa non sarebbe adeguatamente motivata con
gravissimo pregiudizio nei suoi confronti, in quanto non
messo in condizione di contraddire sulla scelta
sanzionatoria dell’Amministrazione.
Nella fattispecie, non esplicitandosi lo specifico profilo
di inadeguatezza della comunicazione inviata, non si mette
il giudice in condizione di esaminare le ragioni per le
quali la comunicazione de qua non sarebbe funzionale allo
scopo per il quale essa è prevista
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 26.06.2015 n. 3405 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
caso di successione nel tempo di strumenti urbanistici
generali, relativamente al rapporto fra opere abusive e la
normativa urbanistica deve tenersi conto della c.d. coppia
conformità, positivamente sancita dall’art. 36 del D.P.R. n.
380 del 2001, nella valutazione da effettuarsi in occasione
della presentazione di istanza di accertamento di
conformità, nel senso che condizione fondamentale per
l’accoglimento della predetta istanza è che le opere siano
conformi, sia con riferimento allo strumento urbanistico
vigente all’atto della realizzazione delle opere per le
quali si chiede la sanatoria, che con riferimento allo
strumento urbanistico esistente all’atto della presentazione
dell’istanza di sanatoria.
Ne consegue che secondo l’ordinamento positivo l’opera
realizzata è da considerare illegittima e non sanabile (e,
quindi, da eliminare), allorquando essa si presenta conforme
allo strumento urbanistico vigente all’atto della
valutazione dell’istanza di sanatoria, ma non altrettanto
con riferimento allo strumento urbanistico vigente all’atto
della sua realizzazione.
Con la seconda censura è dedotta la violazione di legge (L.R.
Campania 21/2003; D.L. vo 42/2004; L. 17.08.1942, n. 1150), oltre
alla Violazione Piano Regolatore Generale D.P.G.R. 29.12.1980, n. 14069 ed al Regolamento edilizio D.P.G.R.
29.11.1976, n. 4160.
La censura va disattesa.
Contrariamente a quanto erroneamente ritenuto dai
ricorrenti, il Comune non pone in discussione che la
realizzazione dell’immobile sia avvenuta previa rilascio di
concessione edilizia e non fa derivare l’abusività
dell’opera per la circostanza di non essere stata previo
rilascio di adeguato titolo abilitativo, ma, sulla base del
verbale redatto in data 28.06.2014, dal locale Comando di
Polizia Municipale n. 135/2003/Ed, atto facente fede
privilegiata, sino a querela di falso (cfr. C. di S., sez. V,
05.11.2010, n. 7770), ritiene che, in difformità con quanto
previsto nella concessione n. 813/92, è stato realizzato un
“Cambio di destinazione d’uso del piano a civile abitazione,
precedentemente adibito a vano garage, mediante messa in
opere di tramezzature interne e di tutte le componenti
tecnico-idraulico ed elettriche ed il completo arredamento
delle superfici abitative pari a mt. 12,00 x 13.00 ed
altezza m. 3,00”, opere che, quindi, non risultano presidiate
dall’appropriato titolo abilitativo.
Infatti la suddetta concessione edilizia abilitava i
ricorrenti soltanto a costruire il manufatto nella
conformazione planovolumetrica assentita e non certo a
mutare la destinazione del piano seminterrato,
precedentemente adibito a garage, in civile abitazione con
la realizzazioni di ulteriori opere non previste nella
suddetta concessione edilizia, peraltro in una zona
classificata urbanisticamente come E1 agricola normale.
Inoltre la legge regionale n. 21 del 2003 tende appunto ad
escludere l'aumento dei volumi abitabili e dei carichi
urbanistici nelle zone a rischio vulcanico dell'area
Vesuviana, contemplando espressamente il divieto di ogni
mutamento di destinazione d'uso che comporta l'utilizzo a
scopo abitativo.
Le parti ricorrenti contestano siffatta destinazione ed a
comprova di tanto asseriscono che fin dalla realizzazione
dell’immobile lo hanno utilizzato a scopo abitativo-residenziale.
Tuttavia tali argomentazioni sono ultronee e inconferenti.
Nell’impugnato provvedimento si afferma che l'opera edile
ricade in zona classificata urbanisticamente in E1 agricola
normale, mentre parti ricorrenti soltanto apoditticamente,
senza sul punto fornire alcuna prova, ad esempio esibendo un
certificato di attuale destinazione urbanistica,
asseriscono, fermamente, con il supporto della relazione
tecnica allegata, che le opere realizzate dovrebbero
urbanisticamente inquadrarsi, rispetto al vigente P.R.G., in
zona B3 di “completamento delle frazioni”, rispetto al quale
le predette opere risulterebbero compatibili.
In ogni caso la valutazione di compatibilità urbanistica
delle opere ritenute abusive va operata sempre con
riferimento (anche) alla strumentazione urbanistica vigente
all’epoca di realizzazione dell’immobile.
Infatti, in caso di successione nel tempo di strumenti
urbanistici generali, relativamente al rapporto fra opere
abusive e la normativa urbanistica deve tenersi conto della
c.d. coppia conformità, positivamente sancita dall’art. 36
del D.P.R. n. 380 del 2001, nella valutazione da effettuarsi
in occasione della presentazione di istanza di accertamento
di conformità, nel senso che condizione fondamentale per
l’accoglimento della predetta istanza è che le opere siano
conformi, sia con riferimento allo strumento urbanistico
vigente all’atto della realizzazione delle opere per le
quali si chiede la sanatoria, che con riferimento allo
strumento urbanistico esistente all’atto della presentazione
dell’istanza di sanatoria.
Ne consegue che secondo l’ordinamento positivo l’opera
realizzata è da considerare illegittima e non sanabile (e,
quindi, da eliminare), allorquando essa si presenta conforme
allo strumento urbanistico vigente all’atto della
valutazione dell’istanza di sanatoria, ma non altrettanto
con riferimento allo strumento urbanistico vigente all’atto
della sua realizzazione, come nel caso di specie, laddove
nel Piano Regolatore Generale approvato con D.P.G.R. n.
14069 del 29.12.1980 la zona interessata dall’intervento era
classificata urbanisticamente come E1, agricola normale e le
previsioni urbanistiche contenute nel suddetto Piano
Regolatore Generale ed invocate dai ricorrenti si rivelano,
nel caso di specie, inapplicabili ed analogo discorso vale
per le limitazioni d’uso del territorio, attuate con la
Legge Regionale n. 21/2003, secondo i ricorrenti,
ripetutamente violata dal Comune di Pompei, in uno alle
altre leggi indicate nel secondo motivo di impugnazione
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 26.06.2015 n. 3405 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
Comune risulta avere correttamente valutato la tipologia
delle opere, dalla cui abusività scaturisce con carattere
vincolato l’ordine di demolizione, che in ragione di tale
sua natura, non esige una specifica motivazione o la
comparazione dei contrapposti interessi, né deve essere
preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento.
Inoltre parti ricorrente esprimono perplessità sulla
legittimità del censurato intervento repressivo, a distanza
di circa venti anni dalla realizzazione dell’immobile,
previa rilascio di regolare concessione edilizia, senza
tener conto, però che, secondo condivisa giurisprudenza:
<<In tema di attività sanzionatoria degli abusi edilizi, è
irrilevante il decorso del tempo e l’eventuale affidamento
riposto dal privato, che non può confidare sul mantenimento
di una situazione contraria alla legge, non essendo inoltre
richiesta una specifica motivazione né la valutazione
sull’interesse pubblico, che è “in re ipsa”>>.
Ed, ancora: <<La norma di cui all’art. 27, D.P.R. n. 380 del
2001, tanto più quanto riferita alla repressione di abusi su
beni vincolati, non appare contrastare con il principio di
ragionevolezza in quanto l’esigenza di ripristinare i valori
urbanistici e paesaggistici violati giustificano il
ripristino anche a distanza di tempo. Per lo stesso motivo,
non si ravvisa alcun contrasto con il principio
dell’affidamento, stante la preminenza dell’esigenza del
ripristino a fronte della permanenza della situazione di
illecito e di pregnanza del bene tutelato>>.
Relativamente alla compatibilità paesaggistica delle opere
realizzate che -secondo il C.T. di parti ricorrenti- non
avrebbero modificato l’aspetto esterno del fabbricato,
deducono i ricorrenti che il Comune di Pompei rientrerebbe
nella perimetrazione del P.T.P. (Piano Territoriale
Paesistico), con la conseguenza che non vi sarebbero delle
prescrizioni specifiche da osservare, ribadendosi ancora una
volta che le opere non avrebbero mai modificato l’aspetto
esterno del fabbricato, rendendo inutile lo specifico parere
della competente Soprintendenza.
La censura è generica ed inammissibile, in quanto, fermo
restando che all’intervento in questione potrebbe implicare
(anche) problematiche di carattere paesaggistico-ambientale che, tuttavia, non risultano esplicitate
nell’impugnato provvedimento il quale si limita a richiamare
il D.L.vo n. 42/2004, nell’impugnata ordinanza non si fa
alcun cenno alla necessità di uno specifico parere della
competente Soprintendenza, per modo che -contrariamente a
quanto erroneamente rilevato dai ricorrenti- tale aspetto
non rientra tra “le ragioni della notifica della impugnata
ordinanza di demolizione”.
Analogamente estranea al presente giudizio, essenzialmente
incentrato sui profili strettamente urbanistici del
contestato intervento è l’asserzione, contenuta in gravame,
secondo cui i volumi interrati o tecnici, rientrando
nell’eccezione di cui agli all’art. 167, comma 4, lett. a),
del D.L.vo n. 42/2004, sarebbero suscettibili di
compatibilità paesaggistica. Vero è piuttosto che gli
incrementi di superfici utili o volumi abusivamente
realizzati sono comunque ostativi al rilascio di
un’autorizzazione paesaggistica postuma.
Parti ricorrenti escludono l’esistenza di ogni abuso
edilizio, anche alla stregua di molteplici sentenze della
giurisprudenza amministrativa per le quali il semplice
cambio di destinazione d’uso, effettuato senza opere
evidenti, non implicherebbe necessariamente un mutamento
urbanistico-edilizio del territorio comunale qualora non
sconvolgerebbe l’area in cui l’intervento ricadrebbe,
all’uopo richiamando specifica giurisprudenza.
Tuttavia, preso atto, dalla medesima documentazione esibita
dai ricorrenti ed, in particolare dalle piantine catastali
contenute nel progetto allegato all’istanza di concessione
edilizia che i locali al piano seminterrato oggetto del
provvedimento impugnati, non avevano ab origine natura
residenziale, come si evince chiaramente dalla presenza di
un unico ambiente privo di tramezzature e di locali per
servizi igienico sanitari, nella fattispecie, deve ritenersi
essersi avverato un non consentito cambio di destinazione
urbanistica strutturale e non meramente funzionale
accompagnato dalla realizzazione di opere per eliminare
barriere architettoniche.
Peraltro le opere contestate delle quali se ne è ingiunta la
demolizione non si limitano al mero abbattimento -OMISSIS-,
ma sono consistite in un “cambio di destinazione d’uso del
piano a civile abitazione, precedentemente adibito a vano
garage, mediante messa in opere di tramezzature interne e di
tutte le componenti tecnico, idrauliche ed elettriche”,
oltre alla realizzazione di una “rampa di collegamento per
persone diversamente abili”, interventi che -specie per
quanto concerne il cambio di destinazione strutturale
disciplinato da normative regionali che richiedono specifici
titoli abilitanti e per quanto si dirà nella trattazione
della successiva censura- vanno ben al di là del mero
abbattimento -OMISSIS-, ai sensi dell’art. 1, comma 3, legge
n. 31/1980.
Pertanto il Comune risulta avere correttamente valutato la
tipologia delle opere, dalla cui abusività scaturisce con
carattere vincolato l’ordine di demolizione, che in ragione
di tale sua natura, non esige una specifica motivazione o la
comparazione dei contrapposti interessi, né deve essere
preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento
(cfr., per tutte, Cons. Stato - Sez. V, 28.04.2014, n.
2196).
Inoltre parti ricorrente esprimono perplessità sulla
legittimità del censurato intervento repressivo, a distanza
di circa venti anni dalla realizzazione dell’immobile,
previa rilascio di regolare concessione edilizia, senza
tener conto, però che, secondo condivisa giurisprudenza: <<In tema di attività sanzionatoria degli abusi edilizi, è
irrilevante il decorso del tempo e l’eventuale affidamento
riposto dal privato, che non può confidare sul mantenimento
di una situazione contraria alla legge, non essendo inoltre
richiesta una specifica motivazione né la valutazione
sull’interesse pubblico, che è “in re ipsa”>> (TAR
Campania, Napoli, sez. III, 03.02.2015, n. 634); ed,
ancora: <<La norma di cui all’art. 27, D.P.R. n. 380 del
2001, tanto più quanto riferita alla repressione di abusi su
beni vincolati, non appare contrastare con il principio di
ragionevolezza in quanto l’esigenza di ripristinare i valori
urbanistici e paesaggistici violati giustificano il
ripristino anche a distanza di tempo. Per lo stesso motivo,
non si ravvisa alcun contrasto con il principio
dell’affidamento, stante la preminenza dell’esigenza del
ripristino a fronte della permanenza della situazione di
illecito e di pregnanza del bene tutelato>> (TAR
Campania, sez. IV, 08.09.2014, n. 4745).
Ne deriva l’infondatezza della censura
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 26.06.2015 n. 3405 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
In gara senza assumersi responsabilità.
La mancanza della dichiarazione di assunzione di
responsabilità dell'impresa ausiliaria nei confronti
dell'amministrazione appaltante non può costituire motivo di
esclusione dalla gara.
È quanto hanno affermato i giudici della II Sez. del TAR
Emilia Romagna-Bologna con la
sentenza 26.06.2015 n. 626.
I giudici amministrativi bolognesi, hanno altresì
considerato che, l'amministrazione appaltante risulti
comunque garantita pleno iure relativamente
all'adempimento delle obbligazioni assunte dalla concorrente
e dall'impresa ausiliaria con l'aggiudicazione dell'appalto,
dalla responsabilità solidale tra dette imprese
espressamente prevista dall'art. 49, comma 4, del dlgs n.
163 del 2006. Trattandosi di obbligo chiaramente derivante
ex lege, è evidente l'ultroneità della ricerca di
un'ulteriore fonte dell'obbligo solidale.
Non può inoltre essere presa in considerazione parte della
giurisprudenza (si vedano, ad esempio, Cons. stato sez. IV,
19/03/2015 n. 1425), poiché si occupa di casi in cui è stata
omessa in toto la presentazione della dichiarazione
dell'impresa ausiliaria ex art. 49, dlgs n. 163 del 2006.
I giudici amministrativi bolognesi sono stati chiamati ad
esprimersi su un caso in cui A.T.I. avente Alfa srl quale
capogruppo mandataria, concorrente che ha partecipato,
classificandosi al secondo posto della graduatoria finale,
alla gara pubblica a procedura aperta bandita dal comune per
l'affidamento dei servizi integrati in materia di tutela
della salute pubblica e della sicurezza nei luoghi di lavoro
per il periodo quinquennale 2014–2019, chiedeva
l'annullamento del provvedimento con il quale
l'amministrazione comunale appaltante ha aggiudicato
definitivamente la gara a Beta Gruppo srl.
La ricorrente impugnava, inoltre, l'atto di comunicazione
della predetta aggiudicazione definitiva, nonché tutti i
verbali di gara, limitatamente alle parti di essi che
ammettono la concorrente Beta Gruppo srl alla gara e che
valutavano non anomala l'offerta presentata dalla stessa,
ivi incluso l'atto con cui il R.U.P. non ha rilevato detta
anomalia dell'offerta.
La società instante chiedeva, inoltre, pronuncia
dichiarativa dell'inefficacia del contratto di appalto,
nonché pronuncia di condanna del Comune al risarcimento dei
danni subiti dalla stessa a causa degli atti impugnati
(articolo ItaliaOggi Sette del 20.07.2015). |
APPALTI: Turba la libertà delle gare ciò che incide sul bando.
«I comportamenti che incidono sulla formazione del bando di
gara che venga successivamente emesso, devono essere
inquadrati nella fattispecie prevista dall'art. 353 c.p.
(turbata libertà degli incanti), a nulla rilevando che gli
stessi siano stati posti in essere nel periodo precedente
all'introduzione dell'art. 353-bis c.p. (turbata libertà nel
procedimento di scelta del contraente)».
Lo ha affermato la
Corte di Cassazione, Sez. VI penale, con
sentenza
25.06.2015 n. 26840.
Secondo la Cassazione
non può essere stabilita l'irrilevanza, in via generale,
delle condotte che precedono l'emissione del bando la cui
finalità consiste in un illecito condizionamento, anche se
poste in essere prima dell'entrata in vigore dell'art.
353-bis c.p., poiché non si può escludere che abbiano
effettivamente inciso sulla formulazione del bando.
Nell'ipotesi in cui la gara venga indetta, l'idoneità e
l'incidenza del condizionamento deve essere valutata sulla
base delle emergenze processuali del caso concreto.
Qualora
«il bando venga emesso e risulti coerente con le
manipolazioni contestate» si configura il reato previsto
dall'art. 353 c.p. Nel caso in cui alle condotte di illecita
interferenza non segua l'indizione di una gara o il bando
non sia influenzato da tali pressioni, ricorre l'art.
353-bis c.p. che si configura a prescindere «dalla
realizzazione del fine di condizionare le modalità di scelta
del contraente».
Tale sentenza contrasta però con un'altra sentenza della
Cassazione (27719/2013), che ha affermato che il reato di
turbata libertà degli incanti non è configurabile neanche
nella forma del tentativo prima che la procedura di gara
abbia avuto inizio
(articolo ItaliaOggi del 31.07.2015).
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MASSIMA
6. Il motivo relativo ai capi Ce D è infondato, nei
termini che seguono.
L'art. 353-bis c.p. disciplina la turbata libertà del
procedimento di scelta del contraente prima dell'eventuale
gara. La norma è stata introdotta dal Legislatore, nel corso
dell'iter che ha condotto alla legge n. 136 del 2010, al
dichiarato scopo di prevedere espressamente la rilevanza
penale delle condotte di turbamento (specificamente
indicate) anche alla fase precedente la gara, preso atto che
parte della giurisprudenza di questa Corte si andava
apparentemente assestando in direzione diversa
(Sez. 6 sent. 11005/09, 27719/13, 44896/14),
nel senso di negare la rilevanza delle stesse, pur in
termini di mero tentativo, in assenza del presupposto della
gara.
L'art. 353-bis c.p. prevede così che, salvo che il fatto
costituisca fatto più grave, abbia autonoma rilevanza penale
la condotta di chiunque, alternativamente con violenza
minaccia doni promesse collusioni o altri mezzi fraudolenti
(i medesimi comportamenti considerati dalla fattispecie ex
art. 353 c.p.), turba il procedimento amministrativo diretto
a stabilire il contenuto del bando ovvero di altro atto
equipollente, al fine di condizionarne le modalità di scelta
del contraente da parte della pubblica amministrazione.
6.1 Come è stato evidenziato anche da pertinente relazione
dell'Ufficio del Massimario, "attraverso
l'art. 353-bis c.p. si è inteso evitare ogni vuoto di
tutela, incriminando anche quei tentativi di condizionamento
'a monte' degli appalti pubblici che risultino, ex post,
inidonei ad alterare l'esito delle relative procedure.
L'illecita interferenza nel procedimento amministrativo
diretto a stabilire il contenuto del bando, finalizzata a
condizionare le modalità di scelta del contraente (ad
esempio, mediante la "personalizzazione' dei requisiti
prescritti), determina, già di per sé sola, l'applicazione
delle sanzioni penali".
Come è stato osservato anche dalla dottrina, in sintesi
il condizionamento del contenuto del bando è il fine
dell'azione sicché il reato si consuma indipendentemente
dalla realizzazione del fine: è quindi sufficiente che la
correttezza della procedura amministrativa volta a
predisporre il contenuto del bando (o dell'atto
equipollente) sia messa concretamente in pericolo, in ciò
consumandosi il suo 'turbamento'. Il quale appunto
assume autonoma rilevanza penale quale che sia l'esito della
procedura e, in particolare, anche quando poi in concreto
non si pervenga ad alcuna 'gara' ovvero il contenuto
del bando risulti concretizzato senza che le condotte di 'turbamento'
abbiano avuto efficacia alcuna.
In definitiva,
nella consapevolezza che i beni ed interessi giuridici che
meritano tutela nel contesto (sia quello della pubblica
amministrazione ad individuare il contraente più competente
alle condizioni economiche migliori; sia quello della tutela
della libertà di iniziativa economica) sono lesi non solo da
condotte successive a un bando il cui contenuto sia stato
determinato nel pieno rispetto di tali beni e interessi
giuridici, ma anche dalle condotte precedenti che abbiano
influito sul contenuto o che potrebbero avere influenza, il
Legislatore ha inteso anticipare la tutela penale rispetto
al momento di effettiva indizione formale della 'gara'
ed anche quando una procedura volta alla determinazione del
bando (o di atto equivalente) sia stata svolta pur senza
approdare a un positivo provvedimento formale.
Ciò, come
osservato da autorevole dottrina,
in un contesto di anticipazione della soglia della tutela a
fasi dell'iter criminis anteriori alla consumazione
dell'offesa finale, che caratterizza la frammentazione
casistica del tentativo in autonome fattispecie di atti
preparatori o prodromici, rispetto ad attività
delinquenziali caratterizzate da forte complessità, in cui
il pregiudizio finale si realizza a seguito di processi
comportamentali estremamente articolati, cui possono
concorrere plurimi soggetti e la cui efficacia causale è
molto difficilmente riferibile a ciascun agente.
6.2 Con tali premesse, va qui richiamata parte della
motivazione della sentenza Sez. 2 sent. 47444/14, i cui
passaggi argomentativi sono integralmente condivisi: <<Sviluppando
il percorso interpretativo segnato da tali pronunce il
collegio ritiene che non è possibile effettuare una
valutazione generalizzata di irrilevanza penale dei
comportamenti precedenti la emissione del bando quando
questi siano orientati alla manipolazione dell'atto genetico
della gara, a nulla rilevando che tali condotte risalgano al
periodo precedente la introduzione dell'art. 353-bis c.p. e
trovano il loro "unico" riferimento nell'art. 353 c.p..
Nulla esclude infatti che condotte manipolatrici precedenti
all'emissione del bando ottengano il risultato di far venire
alla luce un bando manipolato, viziando ab origine l'intero
sviluppo della procedura.
Piuttosto che escludere la rilevanza penale delle condotte
perturbatrici finalizzate alla manipolazione del bando, nei
casi in cui la gara prenda avvio ed il bando venga
effettivamente emanato, occorre invece valutare sulla base
delle concrete emergenze processuali l'idoneità delle
condotte contestate ad incidere sulla configurazione
dell'atto genetico della gara. Sicché, anche nel periodo che
precede l'introduzione dell'art. 353-bis c.p. gli atti volti
ad orientare il bando per aderire alle caratteristiche
dell'impresa che intende aggiudicarsi l'appalto possono
essere considerate estranee all'area di applicazione
dell'art. 353 cod. pen. solo qualora la gara non venga
indetta o il bando non si presenti in concreto influenzato
dai comportamenti contestati a produrre la turbativa.
Diversamente, se il bando viene emesso e risulta coerente
con le manipolazioni contestate, il reato previsto dall'art.
353 c.p. deve considerarsi integrato in quanto la libertà di
concorrenza che è il bene protetto, patisce un'evidente
compressione essendo stato minato fin dalla fase precoce
della individuazione dei requisiti per la partecipazione
alla gara. Così perimetrata l'area di rilevanza dell'art.
353 c.p., ne segue che tutti i comportamenti manipolatori
che non incidono sul bando possono essere inquadrati
nell'area residuale individuata dall'art. 353-bis c.p..
In coerenza con tale impostazione la giurisprudenza di
legittimità ha chiarito che "il delitto di turbata libertà
del procedimento di scelta del contraente, previsto
dall'art. 353-bis c.p., è reato di pericolo, che si consuma
indipendentemente dalla realizzazione del fine di
condizionare le modalità di scelta del contraente, e per il
cui perfezionamento, quindi, occorre che sia posta
concretamente in pericolo la correttezza della procedura di
predisposizione del bando di gara, ma non anche che il
contenuto dell'atto di indizione del concorso venga
effettivamente modificato in modo tale da interferire
sull'individuazione dell'aggiudicatario", (fattispecie in
cui la Corte ha ritenuto configurabili i gravi indizi di
colpevolezza nei confronti del sindaco di un comune che
aveva concorso a predisporre la bozza di un bando di gara
con un imprenditore interessato all'aggiudicazione ed aveva
poi ordinato, senza successo, al funzionario competente di
recepirne i contenuti negli atti amministrativi necessari:
Cass. sez. 6, n. 44896 del 22/10/2013 Rv. 257270).
3.2. Può essere pertanto individuato il seguente principio
di diritto: i comportamenti che incidono sulla formazione
del bando di gara che venga successivamente emesso, devono
essere inquadrati nella fattispecie prevista dall'art. 353
c.p., a nulla rilevando che gli stessi sono stati posti in
essere nel periodo precedente all'introduzione dell'art.
353-bis c.p., fattispecie che trova applicazione in
relazione a tutti i comportamenti diretti alla manipolazione
del bando di gara nei casi in cui questa non venga
successivamente bandita>>.
Il richiamo giova a definire anche l'odierno processo,
perché questa Sezione giudica che analoga impostazione debba
essere data al quesito, che il contrasto sul punto tra il
GUP e il pubblico ministero ricorrente pone,
dell'individuazione del momento in cui le condotte di
turbamento che si verifichino prima del formale inizio della
'gara' assumono rilevanza penale.
Vi è infatti un evidente parallelismo tra le strutture
dell'art. 353 c.p. e dell'art. 353-bis c.p.. La prima
presuppone l'esistenza di una 'gara' (quindi di un
bando o atto equipollente che l'abbia formalmente indetta
determinandone l'ambito specifico); la seconda presuppone
l'esistenza di un 'procedimento amministrativo'
diretto a stabilire il contenuto del bando o dell'atto
equipollente.
Vi sono pertanto due presupposti (la 'gara', il 'procedimento
amministrativo'), in mancanza dei quali le condotte in
ipotesi consumate, pur quando in sé corrispondenti alle
tipologie indicate nelle due norme, non assumono rilevanza
penale autonoma: ovviamente, in relazione a queste due
fattispecie, potendo invece rilevare a dar conto
dell'esistenza di diversi reati (ad esempio quello
associativo o alcuno di quelli di corruzione).
6.3
Questo però non significa che in ogni caso le condotte
corrispondenti alle tipologie descritte anche nell'art.
353-bis c.p. e consumate prima del procedimento
amministrativo mai possano assumere rilievo penale. Invece
(e riprendendo i segnalati e condivisi spunti argomentativi
della richiamata sentenza 47444/14)
sono penalmente irrilevanti (e con la precisazione appena
chiarita: limitatamente alla configurabilità di questa
specifica fattispecie incriminatrice) solo quelle condotte
che siano poste in essere prima del procedimento
amministrativo quando poi in concreto il procedimento
neppure inizi.
Ma se il procedimento volto a stabilire il contenuto di
bando/atto equipollente inizia, le condotte precedenti,
finalizzate al suo turbamento e idonee allo scopo assumono
autonoma rilevanza penale. E la conclusione si impone
(ancora richiamando i passaggi argomentativi della sentenza
47444/14)
perché se il procedimento iniziasse già inquinato nelle sue
determinazioni da condotte riconducibili a quelle previste
dall'art. 353-bis c.p. risulterebbe del tutto evidente la
lesione in atto dei beni giuridici tutelati dalla norma.
In altri termini: è evidente che al 'bando-fotocopia'
può benissimo corrispondere un 'procedimento
amministrativo-fotocopia', a quello funzionale, ogni
qualvolta questo inizi già contaminato nei suoi contenuti e
nelle sue determinazioni da precedenti condotte
riconducibili a quelle indicate dall'art. 353-bis c.p..
In questi termini l'intenzione del Legislatore si
concretizza e sul piano sistematico si completa: tutte le
condotte, riconducibili a quelle indicate dagli artt. 353 e
353-bis c.p., rilevano penalmente ai sensi di tali norme
quando in concreto abbiano avuto incidenza effettiva sul
bando o sulla gara, ovvero abbiano mirato a influire, già
nel suo inizio, sullo svolgimento della procedura volta a
giungere eventualmente a un bando/gara che pur non si sia
conclusa. |
EDILIZIA PRIVATA:
E' inammissibile la cosiddetta sanatoria "giurisprudenziale"
o "impropria".
Per costante giurisprudenza di legittimità, l'eventuale
sopravvenienza di strumenti di pianificazione urbanistica
che modifichino il preesistente regime edificatorio dei
suoli non è fattore idoneo a rimuovere la illegittimità
penale delle eventuali condotte già poste in essere in
contrasto con la preesistente disciplina urbanistica.
Ha, infatti, chiarito questa Corte che in tema di reati
urbanistici, la sanatoria degli abusi edilizi idonea ad
estinguere il reato di cui all'art. 44 del dPR n. 380 del
2001, non ammettendo termini o condizioni, deve riguardare
l'intervento edilizio nel suo complesso e può essere
conseguita solo qualora ricorrano tutte le condizioni
espressamente indicate dall'art. 36 del dPR cit. e,
precisamente, la doppia conformità delle opere alla
disciplina urbanistica vigente sia al momento della
realizzazione del manufatto, che al momento della
presentazione della domanda di sanatoria, dovendo escludersi
la possibilità di una legittimazione postuma di opere
originariamente abusive che, solo successivamente, in
applicazione della cosiddetta sanatoria "giurisprudenziale"
o "impropria", siano divenute conformi alle norme edilizie
ovvero ai sopravvenuti strumenti di pianificazione
urbanistica.
Ritenere, come parrebbe fare il ricorrente, che
l'intervenuta modificazione degli strumenti urbanistici
adottati in sede locale possa valere a recuperare a
legittimità tutti i manufatti che, realizzati in contrasto
con la disciplina vigente al momento della loro
edificazione, si trovino per avventura ad essere conformi a
quella sopravvenuta, equivarrebbe ad attribuire non al
legislatore, tantomeno a quello nazionale, ma
all'amministratore locale il potere (che, si badi, per
essere legittimamente utilizzato dal legislatore nazionale
deve essere dominato dal carattere della eccezionalità, come
più volte sottolineato dalla Corte costituzionale) di
adottare sostanziali misure di condono edilizio
territorialmente circoscritte, i cui effetti, difficilmente
preventivabili, sarebbero certamente pesantemente
pregiudizievoli sull'ordinato assetto del territorio.
Quale ulteriore motivo di lagnanza il D. ha dedotto la
ingiustificata protrazione del sequestro sull'intera area
del complesso edilizio, evidenziandosi in tale modo
l'evidente sproporzione fra gli effetti dell'atto impugnato
e le sue finalità cautelari; d'altra parte, aggiungeva il
ricorrente, la approvazione del nuovo PUG da parte del
Comune di Porto Cesareo dovrebbe sicuramente incidere
positivamente nel senso della revoca del sequestro stante la
evidente manifestazione di volontà da parte del detto Comune
di riconoscere, ex post, la conformità degli
interventi realizzati alle nuove previsioni urbanistiche.
Ambedue le doglianze non appaiono condivisibili.
Con riferimento alla prima, osserva la Corte che, per
costante giurisprudenza di legittimità, l'eventuale
sopravvenienza di strumenti di pianificazione urbanistica
che modifichino il preesistente regime edificatorio dei
suoli non è fattore idoneo a rimuovere la illegittimità
penale delle eventuali condotte già poste in essere in
contrasto con la preesistente disciplina urbanistica.
Ha, infatti, chiarito questa Corte che in tema di reati
urbanistici, la sanatoria degli abusi edilizi idonea ad
estinguere il reato di cui all'art. 44 del dPR n. 380 del
2001, non ammettendo termini o condizioni, deve riguardare
l'intervento edilizio nel suo complesso e può essere
conseguita solo qualora ricorrano tutte le condizioni
espressamente indicate dall'art. 36 del dPR cit. e,
precisamente, la doppia conformità delle opere alla
disciplina urbanistica vigente sia al momento della
realizzazione del manufatto, che al momento della
presentazione della domanda di sanatoria, dovendo escludersi
la possibilità di una legittimazione postuma di opere
originariamente abusive che, solo successivamente, in
applicazione della cosiddetta sanatoria "giurisprudenziale"
o "impropria", siano divenute conformi alle norme
edilizie ovvero ai sopravvenuti strumenti di pianificazione
urbanistica (Corte di cassazione, Sezione III penale,
18.11.2014, n. 47402; idem Sezione III penale, 21.06.2007,
n. 24451).
D'altra parte la originaria illiceità degli interventi
edilizi compiuti nel tempo all'interno del complesso
turistico denominato Riva degli angeli è stata ampiamente
testimoniata dalla sentenza di questa Corte, richiamata
anche dalla difesa del D., con la quale è stata rigettata la
impugnazione della ordinanza reiettiva del riesame ex art.
309 cod. proc. pen. del provvedimento di sequestro
preventivo emesso dal Gip di Lecce; in quella sede, infatti,
questa Corte ebbe a ritenere che "in buona sostanza, le
opere realizzate dovevano ritenersi assolutamente
incompatibili con la destinazione urbanistica della zona e,
sin dall'origine, finalizzate a realizzare un ampio
complesso residenziale che è stato abusivamente e
progressivamente ampliato".
Ritenere, come parrebbe fare il ricorrente, che
l'intervenuta modificazione degli strumenti urbanistici
adottati in sede locale possa valere a recuperare a
legittimità tutti i manufatti che, realizzati in contrasto
con la disciplina vigente al momento della loro
edificazione, si trovino per avventura ad essere conformi a
quella sopravvenuta, equivarrebbe ad attribuire non al
legislatore, tantomeno a quello nazionale, ma
all'amministratore locale il potere (che, si badi, per
essere legittimamente utilizzato dal legislatore nazionale
deve essere dominato dal carattere della eccezionalità, come
più volte sottolineato dalla Corte costituzionale: cfr.
sentenze n. 196 del 2004 e n. 256 del 1996) di adottare
sostanziali misure di condono edilizio territorialmente
circoscritte, i cui effetti, difficilmente preventivabili,
sarebbero certamente pesantemente pregiudizievoli
sull'ordinato assetto del territorio
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 25.06.2015 n. 26715). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Per il compenso serve l'incarico.
L'avvocato deve dimostrare il titolo.
Il compenso può essere richiesto dall'avvocato, solo se
quest'ultimo dimostra l'avvenuto conferimento dell'incarico.
È quanto hanno affermato i giudici della II Sez. civile
della Corte di Cassazione con la
sentenza 24.06.2015 n. 13106.
Il thema decidendum
Un avvocato conveniva in giudizio i propri clienti, padre e
figlio, per i quali aveva svolto un incarico stragiudiziale,
denunciando il disinteresse dei clienti medesimi e chiedeva,
quindi, la liquidazione dei compensi spettanti.
Il Tribunale adito rigettava le richieste di condanna.
La Corte d'appello confermava quanto pronunciato dal
Tribunale, poiché da quanto portato in giudizio non si
evinceva alcun conferimento di incarichi professionali
all'avvocato.
Il ricorso in Cassazione: il conferimento dell'incarico.
L'avvocato ricorreva in Cassazione, che evidenziava come la
decisione della Corte territoriale fosse logica e congruente
nell'osservare come l'espletamento dell'attività
professionale di cui il ricorrente chiedeva la remunerazione
non trovava alcun fondamento, in termini di conferimento di
incarico.
Appello e nuove prove
Nella medesima sentenza in commento, i giudici di piazza
Cavour hanno ribadito che esiste il divieto di nuove prove
in appello. L'avvocato affermava che il divieto di prove
nuove in appello si applicherebbe solo alle prove
costituende e non a quelle precostituite come nel caso di
specie.
Si osserva che l'articolo 345 cpc, comma 3, nel subordinare
l'ammissione di nuovi mezzi di prova in grado di appello
alla condizione che il collegio li ritenga indispensabili ai
fini della decisione ovvero, in via alternativa, che la
parte dimostri di non averli potuti proporre in primo grado
per causa ad essa non imputabile, stabilisce il principio
dell'inammissibilità di mezzi di prova nuovi, cioè di mezzi
di prova la cui ammissione non sia stata richiesta in
precedenza.
Gli Ermellini hanno, altresì escluso, ogni differenza tra
prove precostituite e prove costituende ai fini del divieto
di cui all'art. 345 c.p.c. e, inoltre, nel caso di specie,
l'eventuale lesione del diritto di difesa, lamentata
dall'avvocato, non ha formato oggetto di appello
(articolo ItaliaOggi Sette del 20.07.2015). |
EDILIZIA PRIVATA: Sul
potere comunale di limitare l'installazione degli impianti
di distribuzione carburanti.
Il Collegio è consapevole dell’esistenza
di un dibattito giurisprudenziale in ordine alla concreta
portata applicativa dell’art. 2 del d.lgs. n. 32/1998, e
ritiene di dovere aderire ad un’interpretazione di tale
norma che non impedisca ai comuni l’esercizio di qualsiasi
ulteriore potere pianificatorio, oltre alle facoltà di
intervento ad esso consentite dal comma 1-bis della citata
norma, che statuisce che “la localizzazione degli impianti
di carburanti costituisce un mero adeguamento degli
strumenti urbanistici in tutte le zone e sottozone del piano
regolatore generale non sottoposte a particolari vincoli
paesaggistici, ambientali ovvero monumentali e non comprese
nelle zone territoriali omogenee A".
Invero, una lettura formalistica della previsione di cui al
comma 1-bis risulterebbe di dubbia ammissibilità
costituzionale, anche in considerazione del fatto che la
stessa non risulta prevedere possibili limitazioni a tutela
di interessi di sanitari ovvero di salubrità ambientale.
In tale ottica, la giurisprudenza ha chiarito che la
normativa richiamata va letta "non certo nel senso di
consentire un'immunità totale dall'applicazione delle
ulteriori regole dettate in sede di pianificazione", ma come
previsione di una astratta compatibilità funzionale degli
impianti di carburante con le diverse parti del territorio
comunale, ad eccezione di quelle comprese in zona
territoriale omogenea A ovvero soggette a particolari
vincoli paesaggistici, ambientali o monumentali (art. 2,
comma 1-bis), con l'effetto che essi non devono di necessità
essere collocati in zona territoriale omogenea a
destinazione industriale.
Ciò non esclude tuttavia la permanenza di un potere di
regolamentazione urbanistica in materia, “cosicché resta
possibile opporre l'incompatibilità dell'intervento con le
disposizioni edilizie del piano regolatore, le prescrizioni
sulla sicurezza sanitaria, ambientale e stradale, le norme
di tutela dei beni storici e artistici e le norme di
indirizzo programmatico delle regioni; è infatti salva la
potestà comunale di individuare le caratteristiche delle
aree sulle quali possono essere realizzati tali impianti”.
---------------
Nel caso di specie il potere pianificatorio dell’ente locale
è stato utilizzato in modo irragionevole, poiché, a fronte
del dato normativo sopra citato, è stata prevista dall’art.
47, comma 3, lett. b), del piano delle regole un’assoluta
incompatibilità tra le aree destinate all’esercizio
dell’attività agricola, esclusa una limitata fascia
stradale, e la realizzazione di nuovi impianti per la
distribuzione di carburanti, senza alcuna specificazione di
quali sarebbero le disposizioni edilizie del piano
regolatore, le prescrizioni sulla sicurezza sanitaria,
ambientale e stradale, le norme di tutela dei beni storici e
artistici o le norme di indirizzo programmatico delle
regioni ostative alla suddetta installazione.
La norma del PGT citata non rispetta, pertanto, né il
letterale disposto dell’art. 2, comma 1-bis del d.lgs. n.
32/1998, né un’interpretazione ragionevole dell’estensione
di tale precetto in materia di adeguamento degli strumenti
urbanistici, che implica, come detto, una compatibilità
astratta dell’installazione di distributori di carburanti in
tutte le zone del territorio comunale non rientranti nelle
eccezioni espresse di legge o nei limiti individuati di
volta in volta dall’amministrazione con riferimento ad
interessi vitali da salvaguardare tramite lo strumento di
pianificazione.
Nel caso di specie, come detto, l’autorizzazione è stata
negata con riferimento ad un limite non rientrante nei
suddetti parametri e dettato in modo assoluto e non motivato
con riferimento ad una zona (zona agricola) astrattamente
compatibile con l’installazione di impianti di distribuzione
di carburanti.
Ne consegue che vanno annullati, in parte qua, in quanto
illegittimi, sia il provvedimento di diniego impugnato che
la norma del piano delle regole su citata, posto che su tale
ultima disposizione è integralmente basata la motivazione
dell’atto di diniego.
Il ricorso è fondato, sotto il profilo assorbente
dell’illegittimità della norma del piano delle regole
opposta dal comune di Busto Garolfo per rigettare l’istanza
di rilascio dell’autorizzazione all’installazione di un
nuovo impianto stradale di distribuzione di carburanti per
autotrazione.
Il Collegio è consapevole dell’esistenza di un dibattito
giurisprudenziale in ordine alla concreta portata
applicativa dell’art. 2 del d.lgs. n. 32/1998, e ritiene di
dovere aderire ad un’interpretazione di tale norma che non
impedisca ai comuni l’esercizio di qualsiasi ulteriore
potere pianificatorio, oltre alle facoltà di intervento ad
esso consentite dal comma 1-bis della citata norma, che
statuisce che “la localizzazione degli impianti di
carburanti costituisce un mero adeguamento degli strumenti
urbanistici in tutte le zone e sottozone del piano
regolatore generale non sottoposte a particolari vincoli
paesaggistici, ambientali ovvero monumentali e non comprese
nelle zone territoriali omogenee A".
Invero, una lettura formalistica della previsione di cui al
comma 1-bis risulterebbe di dubbia ammissibilità
costituzionale, anche in considerazione del fatto che la
stessa non risulta prevedere possibili limitazioni a tutela
di interessi di sanitari ovvero di salubrità ambientale.
In tale ottica, la giurisprudenza ha chiarito che la
normativa richiamata va letta "non certo nel senso di
consentire un'immunità totale dall'applicazione delle
ulteriori regole dettate in sede di pianificazione" (Cons.
Stato, sez. 5^, 13.11.2009, n. 7096), ma come
previsione di una astratta compatibilità funzionale degli
impianti di carburante con le diverse parti del territorio
comunale, ad eccezione di quelle comprese in zona
territoriale omogenea A ovvero soggette a particolari
vincoli paesaggistici, ambientali o monumentali (art. 2,
comma 1-bis), con l'effetto che essi non devono di necessità
essere collocati in zona territoriale omogenea a
destinazione industriale. Ciò non esclude tuttavia la
permanenza di un potere di regolamentazione urbanistica in
materia, “cosicché resta possibile opporre l'incompatibilità
dell'intervento con le disposizioni edilizie del piano
regolatore, le prescrizioni sulla sicurezza sanitaria,
ambientale e stradale, le norme di tutela dei beni storici e
artistici e le norme di indirizzo programmatico delle
regioni; è infatti salva la potestà comunale di individuare
le caratteristiche delle aree sulle quali possono essere
realizzati tali impianti” (così, da ultimo, Tar Liguria,
sent. n. 188/2014).
Nel caso di specie, tuttavia, il potere pianificatorio
dell’ente locale è stato utilizzato in modo irragionevole,
poiché, a fronte del dato normativo sopra citato, è stata
prevista dall’art. 47, comma 3, lett. b), del piano delle
regole un’assoluta incompatibilità tra le aree destinate
all’esercizio dell’attività agricola, esclusa una limitata
fascia stradale, e la realizzazione di nuovi impianti per la
distribuzione di carburanti, senza alcuna specificazione di
quali sarebbero le disposizioni edilizie del piano
regolatore, le prescrizioni sulla sicurezza sanitaria,
ambientale e stradale, le norme di tutela dei beni storici e
artistici o le norme di indirizzo programmatico delle
regioni ostative alla suddetta installazione (cfr., negli
stessi termini, Tar Sicilia, sede di Catania, sent. n.
390/2013).
La norma del PGT citata non rispetta, pertanto, né il
letterale disposto dell’art. 2, comma 1-bis del d.lgs. n.
32/1998, né un’interpretazione ragionevole dell’estensione
di tale precetto in materia di adeguamento degli strumenti
urbanistici, che implica, come detto, una compatibilità
astratta dell’installazione di distributori di carburanti in
tutte le zone del territorio comunale non rientranti nelle
eccezioni espresse di legge o nei limiti individuati di
volta in volta dall’amministrazione con riferimento ad
interessi vitali da salvaguardare tramite lo strumento di
pianificazione.
Nel caso di specie, come detto, l’autorizzazione è stata
negata con riferimento ad un limite non rientrante nei
suddetti parametri e dettato in modo assoluto e non motivato
con riferimento ad una zona (zona agricola) astrattamente
compatibile con l’installazione di impianti di distribuzione
di carburanti.
Ne consegue che vanno annullati, in parte qua, in quanto
illegittimi, sia il provvedimento di diniego impugnato che
la norma del piano delle regole su citata, posto che su tale
ultima disposizione è integralmente basata la motivazione
dell’atto di diniego.
Inammissibili sono, infine, le domande
di annullamento degli altri atti impugnati, in quanto
relative a meri atti endoprocedimentali
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 24.06.2015 n. 1463 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
materia edilizia è qualificabile pertinenza qualsiasi
manufatto strumentale rispetto ad uno principale e di
dimensioni modeste rispetto a quest'ultimo; più in
particolare la pertinenza è configurabile quando vi è un
oggettivo nesso funzionale e strumentale tra cosa accessoria
e principale, cioè un nesso che non consenta altro che la
destinazione della cosa ad un uso pertinenziale durevole,
oltre che una dimensione ridotta e modesta del manufatto
rispetto alla cosa cui esso inerisce.
Inoltre, a differenza della nozione di pertinenza di
derivazione civilistica, ai fini edilizi il manufatto può
essere considerato pertinenza quando non solo è preordinato
ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale e
funzionalmente inserito al suo servizio, ma è anche sfornito
di un autonomo valore di mercato e non comporta un c.d.
carico urbanistico.
8. Infondata è la censura, articolata nella prima parte del
primo motivo di ricorso, con cui il ricorrente deduce il
difetto di presupposti e il connesso di difetto di
motivazione e di istruttoria, per essere la gravata
ordinanza di demolizione riferita ad un manufatto di
carattere pertinenziale, non qualificabile pertanto quale
nuova costruzione e non sanzionabile ai sensi dell’invocato
disposto dell’art. 31 D.P.R. 380/2001.
Va infatti rammentato che secondo la costante giurisprudenza
“In materia edilizia è qualificabile pertinenza qualsiasi
manufatto strumentale rispetto ad uno principale e di
dimensioni modeste rispetto a quest'ultimo; più in
particolare la pertinenza è configurabile quando vi è un
oggettivo nesso funzionale e strumentale tra cosa accessoria
e principale, cioè un nesso che non consenta altro che la
destinazione della cosa ad un uso pertinenziale durevole,
oltre che una dimensione ridotta e modesta del manufatto
rispetto alla cosa cui esso inerisce; inoltre, a differenza
della nozione di pertinenza di derivazione civilistica, ai
fini edilizi il manufatto può essere considerato pertinenza
quando non solo è preordinato ad un'oggettiva esigenza
dell'edificio principale e funzionalmente inserito al suo
servizio, ma è anche sfornito di un autonomo valore di
mercato e non comporta un c.d. carico urbanistico” (da
ultimo Consiglio di Stato sez. VI, 05/01/2015, n. 13).
Da ciò la non configurabilità del carattere pertinenziale
del manufatto di cui è causa, non avendo parte ricorrente
allegato i relativi presupposti, neppure indicando la
destinazione del medesimo e le ragioni del suo asservimento
al manufatto principale, sulla cui esistenza e consistenza
del pari nulla ha allegato e provato.
Inoltre dal combinato disposto dell’art. 3, comma 1, lettera
e.6), del D.P.R. n. 380/2001, che configura espressamente
come interventi di nuova costruzione anche gli “interventi pertinenziali … che comportino la realizzazione di un volume
superiore al 20% del volume dell'edificio principale”, con i
successivi articoli 10, comma 1, lettera a), che subordina
al rilascio del permesso di costruire gli interventi di
nuova costruzione, e 31, comma 2, che prevede la sanzione
della demolizione per gli interventi edilizi di nuova
costruzione eseguiti in assenza del prescritto permesso di
costruire, risulta che l’Amministrazione ha correttamente
ordinato la demolizione delle opere abusive di cui trattasi,
consistenti nella realizzazione di un manufatto fuori terra,
perché la parte ricorrente non ha adeguatamente provato che
il nuovo volume realizzato è inferiore al 20% del volume
dell’edificio principale, la cui consistenza, come detto,
non è stata neppure allegata.
Da ciò la piena applicabilità della sanzione demolitoria ex
art. 31 D.P.R. 380/2001, dovendosi qualificare quale nuova
costruzione ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. e)1, D.P.R.
380/2001 “la costruzione di manufatti edilizi fuori terra o
interrati, ovvero l'ampliamento di quelli esistenti
all'esterno della sagoma esistente, fermo restando, per gli
interventi pertinenziali, quanto previsto alla lettera
e.6”), secondo cui sono interventi di nuova costruzione “gli
interventi pertinenziali che le norme tecniche degli
strumenti urbanistici, in relazione alla zonizzazione e al
pregio ambientale e paesaggistico delle aree, qualifichino
come interventi di nuova costruzione, ovvero che comportino
la realizzazione di un volume superiore al 20% del volume
dell'edificio principale”.
Ciò in quanto, giova ripeterlo, parte ricorrente non ha in
primo luogo provato trattarsi di manufatto di carattere
pertinenziale -non avendo neppure indicato quale sarebbe il
manufatto principale– ed in secondo luogo in quanto non ha
provato che si tratti di pertinenza avente una consistenza
volumetrica inferiore al 20% del manufatto principale,
essendo comunque le pertinenze di maggiore consistenza
asservite al regime delle nuove costruzioni
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 23.06.2015 n. 3321 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Presupposto per l’adozione dell’ordine di
demolizione di opere abusive è soltanto la constatata
esecuzione di un intervento edilizio in assenza del
prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che,
essendo tale ordine un atto dovuto, esso è sufficientemente
motivato con l’accertamento dell’abuso, e non necessita di
una particolare motivazione in ordine all’interesse pubblico
alla rimozione dell’abuso stesso -che è in re ipsa,
consistendo nel ripristino dell’assetto urbanistico violato-
ed alla possibilità di adottare provvedimenti alternativi.
8.1. Né il manufatto in questione, in quanto di carattere
autonomo e fuori terra, può essere annoverato fra gli
interventi di ristrutturazione, dovendo comunque intendersi
quali interventi di ristrutturazione, come evincibile a
contrario dal cennato disposto dell’art. 3, comma 1, lett.
e1), quelli eseguiti all’interno della sagoma di un
preesistente edificio.
8.2. Da ciò la correttezza della sanzione demolitoria ex
art. 31 D.P.R. 380/2001 e della motivazione e dell’istruttoria
del gravato provvedimento, alla luce del costante
orientamento in materia secondo cui “Presupposto per
l’adozione dell’ordine di demolizione di opere abusive è
soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio
in assenza del prescritto titolo abilitativo, con la
conseguenza che, essendo tale ordine un atto dovuto, esso è
sufficientemente motivato con l’accertamento dell’abuso, e
non necessita di una particolare motivazione in ordine
all’interesse pubblico alla rimozione dell’abuso stesso -che è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell’assetto
urbanistico violato- ed alla possibilità di adottare
provvedimenti alternativi" (ex multis, TAR Campania
Napoli, Sez. IV, 28.12.2009, n. 9638; Sez. VI, 09.11.2009, n. 7077; Sez. VII,
04.12.2008, n.
20987; Cons. Stato, Sez. IV, 27.04.2004, n. 2529)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 23.06.2015 n. 3321 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
sola presentazione dell’istanza di accertamento di
conformità è inidonea a determinare l’improcedibilità del
ricorso avverso l’ingiunzione di demolizione, determinando
la mera sospensione dell’efficacia dell’ordinanza di
demolizione, che si consolida e riacquista efficacia a
seguito del rigetto espresso o tacito, per formarsi del
silenzio-rigetto al decorso del termine di sessanta giorni
dalla presentazione dell’istanza, ex art. 36 D.P.R. 380/2001
sull’istanza medesima, senza che all’occorrenza sia
necessaria l’adozione di una nuova ordinanza di demolizione
(è stato anche affermato che “L'inutile decorso del
prescritto termine comporta dunque, inesorabilmente, la
reiezione dell'istanza del privato” e in mancanza di
impugnativa del silenzio provvedimentale ovvero della prova
di tale reazione processuale, l'atto tacito di rigetto della
domanda di sanatoria si consolida e diviene inoppugnabile,
con conseguente piena riespansione dell'efficacia
dell'ingiunzione di demolizione, non occorrendo in alcun
modo a tali effetti la reiterazione comunale dell'ordine
demolitorio”).
Questo orientamento è stato del resto di recente condiviso
anche dal Consiglio di Stato laddove il Supremo Consesso,
esprimendosi in senso contrario a quanto ritenuto dal
Tribunale amministrativo regionale per la Campania, ha
affermato che “la consolidata giurisprudenza cui fa
riferimento la sentenza impugnata si è formata in tema di
condono edilizio, ossia di richiesta che trova il suo
fondamento in una norma di carattere legislativo, che,
innovando alla disciplina urbanistica vigente, consente, a
determinate condizioni e per un limitato periodo di tempo,
la sanatoria degli abusi commessi.
8. Preliminarmente va rilevato come la documentazione
prodotta dalla parte in vista dell’udienza di discussione
sia inidonea, da sola considerata, a determinare
l’improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di
interesse, in quanto dalla medesima si evince il rilascio
del solo titolo paesaggistico a sanatoria, ex art. 167 Dlgs.
42/2004 e non anche del consequenziale titolo edilizio, ex
art. 36 D.P.R. 380/2001, per cui non può dirsi superata
l’ordinanza contestata, adottata in relazione a lavori
eseguiti in assenza di permesso di costruire in zona
sottoposta a vincolo paesaggistico.
8.1. Ciò anche in quanto, secondo l’orientamento
giurisprudenziale condiviso dalla Sezione, la sola
presentazione dell’istanza di accertamento di conformità è
inidonea a determinare l’improcedibilità del ricorso avverso
l’ingiunzione di demolizione, determinando la mera
sospensione dell’efficacia dell’ordinanza di demolizione,
che si consolida e riacquista efficacia a seguito del
rigetto espresso o tacito, per formarsi del silenzio-rigetto
al decorso del termine di sessanta giorni dalla
presentazione dell’istanza, ex art. 36 D.P.R. 380/2001
sull’istanza medesima, senza che all’occorrenza sia
necessaria l’adozione di una nuova ordinanza di demolizione
(ex multis TAR Campania, Napoli, VII, 28.10.2013, n. 4508
secondo cui “L'inutile decorso del prescritto termine
comporta dunque, inesorabilmente, la reiezione dell'istanza
del privato” (TAR Campania Napoli, sez. II, 13.12.2011,
n. 5759) e in mancanza di impugnativa del silenzio provvedimentale ovvero della prova di tale reazione
processuale, l'atto tacito di rigetto della domanda di
sanatoria si consolida e diviene inoppugnabile, con
conseguente piena riespansione dell'efficacia
dell'ingiunzione di demolizione, non occorrendo in alcun
modo a tali effetti la reiterazione comunale dell'ordine
demolitorio (cfr. TAR Campania, Napoli, III, 07.11.2011, n.
5157)”).
Questo orientamento è stato del resto di recente condiviso
anche dal Consiglio di Stato con sentenza n. 2307 del 06.05.2014, nella quale il Supremo Consesso, esprimendosi
in senso contrario a quanto ritenuto dal Tribunale
amministrativo regionale per la Campania, sezione VIII, 09.10.2013, n. 4525, ha affermato che “la consolidata
giurisprudenza cui fa riferimento la sentenza impugnata si è
formata in tema di condono edilizio (Cons. Stato VI, 26.03.2010, n. 1750), ossia di richiesta che trova il suo
fondamento in una norma di carattere legislativo, che,
innovando alla disciplina urbanistica vigente, consente, a
determinate condizioni e per un limitato periodo di tempo,
la sanatoria degli abusi commessi.
Quei principi non possono trovare applicazione al caso di
specie, in cui il ricorrente ha formulato istanza ai sensi
dell’art. 36 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, ossia ai
sensi di una norma che, prevedendo quella che,
sinteticamente, si definisce doppia conformità, limita la
valutazione dell’opera sulla base di una disciplina
preesistente.
Sostenere, come affermato dalla sentenza impugnata, che,
nell’ipotesi di rigetto, esplicito o implicito, dell’istanza
di accertamento di conformità, l’amministrazione debba
riadottare l’ordinanza di demolizione, equivale al
riconoscimento in capo a un soggetto privato, destinatario
di un provvedimento sanzionatorio, il potere di paralizzare,
attraverso un sostanziale annullamento, quel medesimo
provvedimento.
La ricostruzione dell’intero procedimento nei termini
suddetti non può essere effettuata in via meramente
interpretativa, ponendosi essa al di fuori di ogni
concezione sull’esercizio del potere, e richiede
un’esplicita scansione legislativa, allo stato assente, in
ordine ai tempi e ai modi della partecipazione dei soggetti
del rapporto”.
9. Il ricorso va dunque esaminato nel merito
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 23.06.2015 n. 3320 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Secondo la giurisprudenza "Per eseguire
interventi edilizi su immobili ricadenti in aree sottoposte
a tutela paesaggistica è necessario acquisire il preventivo
rilascio del parere favorevole dell'autorità preposta alla
tutela del vincolo. Di contro, in mancanza di prova
dell'avvenuto rilascio di tale parere, non può dirsi
maturato il perfezionamento della denuncia di inizio
attività per silentium. Ne discende che la stessa mancanza
di un titolo abilitativo, valido ed efficace, svincola
l'esercizio del potere repressivo dalla necessità di
rimuovere (in autotutela) una situazione giuridica (id est
abilitazione a realizzare i lavori denunciati) inesistente”.
Infatti, come noto, il nulla osta paesaggistico costituisce
atto presupposto rispetto ai titoli edilizi (ivi compresa la
d.i.a.) che devono pertanto considerarsi tamquan non esset
in assenza del medesimo.
10. Il Collegio procederà allo scrutinio delle censure in
ordine logico, con disamina prioritaria delle censure
fondate sull’assenza dei presupposti e con accorpamento di
quelle connesse.
Ciò posto, va esaminata prioritariamente la censura
contenuta nella prima parte del primo motivo di ricorso, con
cui parte ricorrente lamenta l’illegittimità dell’ordinanza
impugnata sulla base del rilievo che in relazione agli
interventi che ne erano oggetto aveva presentato D.I.A.,
sulla quale il Comune non era intervenuto né in via
inibitoria, né un via di autotutela. Pertanto, nella
prospettazione attorea, l’ordinanza di demolizione sarebbe
illegittima per essere la D.I.A. di cui è causa
perfettamente valida ed efficace.
La censura non merita accoglimento, in quanto come emerge
dal chiaro tenore letterale dell’ordinanza gravata e non
contestato da parte ricorrente, i lavori di cui è causa sono
stati eseguiti in zona paesaggisticamente vincolata, per cui
ai fini del perfezionamento della D.I.A. occorreva il previo
rilascio del nulla osta paesaggistico, del resto richiesto
dalla parte a sanatoria, come risulta dalla documentazione
prodotta in vista dell’udienza di discussione.
Ed invero secondo la giurisprudenza (ex multis TAR Napoli
(Campania) sez. VI, 20/03/2014, n. 1616) “Per eseguire
interventi edilizi su immobili ricadenti in aree sottoposte
a tutela paesaggistica è necessario acquisire il preventivo
rilascio del parere favorevole dell'autorità preposta alla
tutela del vincolo. Di contro, in mancanza di prova
dell'avvenuto rilascio di tale parere, non può dirsi
maturato il perfezionamento della denuncia di inizio
attività per silentium. Ne discende che la stessa mancanza
di un titolo abilitativo, valido ed efficace, svincola
l'esercizio del potere repressivo dalla necessità di
rimuovere (in autotutela) una situazione giuridica (id est
abilitazione a realizzare i lavori denunciati) inesistente”.
Infatti, come noto, il nulla osta paesaggistico costituisce
atto presupposto rispetto ai titoli edilizi (ivi compresa la
d.i.a.) che devono pertanto considerarsi tamquan non esset
in assenza del medesimo
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 23.06.2015 n. 3320 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Secondo costante orientamento giurisprudenziale,
dal chiaro tenore letterale dell’articolo 36 del D.P.R. n.
380/2001 (che ha sostituito l’art. 13 della legge n.
47/1985) si desume che il rilascio del permesso di costruire
in sanatoria consegue necessariamente ad un’istanza
dell’interessato, mentre al Comune compete, ai sensi
dell’art. 27, comma 1, del D.P.R. n. 380/2001, l’esercizio
della vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia che si
svolge nel territorio comunale.
Pertanto, una volta accertata l’esecuzione di opere in
assenza del prescritto permesso di costruire,
l’Amministrazione comunale deve senz’altro disporne la
demolizione, non essendo tenuta a valutare preventivamente
la sanabilità delle stesse.
Infatti presupposto per l’adozione dell’ordine di
demolizione di opere abusive è soltanto la constatata
esecuzione di un intervento edilizio in assenza del
prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che,
essendo tale ordine un atto dovuto, esso è sufficientemente
motivato con l’accertamento dell’abuso, e non necessita di
una particolare motivazione in ordine all’interesse pubblico
alla rimozione dell’abuso stesso -che è in re ipsa,
consistendo nel ripristino dell’assetto urbanistico violato-
ed alla possibilità di adottare provvedimenti alternativi.
11. Infondate sono anche le censure, del pari vertenti
sull’assenza dei presupposti (oltreché sull’assenza di
istruttoria e di motivazione), articolate nel secondo e
terzo motivo di ricorso, secondo cui il Comune non poteva
ingiungere la demolizione senza previamente valutare la
sanabilità delle opere di cui è causa (terzo motivo) in
considerazione tra l’altro della loro legittimità
urbanistica e paesaggistica (secondo motivo di ricorso).
Ed invero, secondo costante orientamento giurisprudenziale,
dal chiaro tenore letterale dell’articolo 36 del D.P.R. n.
380/2001 (che ha sostituito l’art. 13 della legge n.
47/1985) si desume che il rilascio del permesso di costruire
in sanatoria consegue necessariamente ad un’istanza
dell’interessato, mentre al Comune compete, ai sensi
dell’art. 27, comma 1, del D.P.R. n. 380/2001, l’esercizio
della vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia che si
svolge nel territorio comunale. Pertanto, una volta
accertata l’esecuzione di opere in assenza del prescritto
permesso di costruire, l’Amministrazione comunale deve
senz’altro disporne la demolizione, non essendo tenuta a
valutare preventivamente la sanabilità delle stesse (ex multis, TAR Campania Napoli, Sez. III, 27.09.2006,
n. 8331; Sez. IV, 04.02.2003, n. 617).
Infatti presupposto per l’adozione dell’ordine di
demolizione di opere abusive è soltanto la constatata
esecuzione di un intervento edilizio in assenza del
prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che,
essendo tale ordine un atto dovuto, esso è sufficientemente
motivato con l’accertamento dell’abuso, e non necessita di
una particolare motivazione in ordine all’interesse pubblico
alla rimozione dell’abuso stesso -che è in re ipsa,
consistendo nel ripristino dell’assetto urbanistico violato- ed alla possibilità di adottare provvedimenti alternativi
(ex multis, TAR Campania Napoli, Sez. IV, 28.12.2009, n. 9638; Sez. VI,
09.11.2009, n. 7077; Sez. VII,
04.12.2008, n. 20987)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 23.06.2015 n. 3320 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Gli interventi che si vorrebbero classificare
quali di risanamento conservativo o di manutenzione
straordinaria poiché comportati cambio di destinazione
d’uso, da agricola a civile abitazione di parte di un
fabbricato rustico, già in parte adibito ad abitazione –con
il connesso aumento del carico urbanistico– in quanto
comportanti variazioni prospettiche, vanno invece
(correttamente) qualificati quali interventi di
ristrutturazione, necessitanti di permesso di costruire,
come evincibile dal combinato disposto degli artt., vigenti
ratione temporis, 3, comma 1, lett. d) D.P.R. 380/2001,
secondo cui sono interventi di ristrutturazione “gli
interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi
mediante un insieme sistematico di opere che possono portare
ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente” e 10 D.P.R. 380/2001, secondo il quale sono
soggetti a permesso di costruire “c) gli interventi di
ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo
edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che
comportino aumento di unità immobiliari, modifiche del
volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici,
ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone
omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d'uso”.
Detta qualificazione dell’intervento prevarrebbe in ogni
caso su quella diversa contenuta negli strumenti
urbanistici, in quanto ai sensi del medesimo art. 3, comma
2, D.P.R. 380/2001 “Le definizioni di cui al comma 1
prevalgono sulle disposizioni degli strumenti urbanistici
generali e dei regolamenti edilizi”.
12. Parimenti infondato è l’assunto, sotteso al primo e
secondo motivo di ricorso, secondo il quale gli interventi
di cui è causa andrebbero qualificati quali interventi di
risanamento conservativo o di manutenzione straordinaria,
assentibili tramite d.i.a. .
Ed invero gli interventi medesimi, in quanto comportati
cambio di destinazione d’uso, da agricola a civile
abitazione di parte di un fabbricato rustico, già in parte
adibito ad abitazione –con il connesso aumento del carico
urbanistico– in quanto comportanti variazioni
prospettiche, vanno qualificati quali interventi di
ristrutturazione, necessitanti di permesso di costruire,
come evincibile dal combinato disposto degli artt., vigenti
ratione temporis, 3, comma 1, lett. d) D.P.R. 380/2001, secondo
cui sono interventi di ristrutturazione “gli interventi
rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un
insieme sistematico di opere che possono portare ad un
organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente” e 10 D.P.R. 380/2001, secondo il quale sono
soggetti a permesso di costruire “c) gli interventi di
ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo
edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che
comportino aumento di unità immobiliari, modifiche del
volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici,
ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone
omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d'uso”.
Detta qualificazione dell’intervento prevarrebbe in ogni
caso su quella diversa contenuta negli strumenti
urbanistici, in quanto ai sensi del medesimo art. 3, comma 2,
D.P.R. 380/2001 “Le definizioni di cui al comma 1 prevalgono
sulle disposizioni degli strumenti urbanistici generali e
dei regolamenti edilizi”.
Peraltro gli interventi di cui è causa non potrebbero essere
qualificati quali interventi di manutenzione straordinaria
neanche ai sensi della più lata e sopravvenuta disciplina di
cui all'art. 17, comma 1, lett. a), nn. 1) e 2), D.L. 12.09.2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla
L. 11.11.2014, n. 164, che ha riscritto in parte qua
l’art. 3 D.P.R. 380/2001 secondo il quale sono “b) "interventi
di manutenzione straordinaria", le opere e le modifiche
necessarie per rinnovare e sostituire parti anche
strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed
integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici, sempre
che non alterino la volumetria complessiva degli edifici e
non comportino modifiche delle destinazioni di uso.
Nell'ambito degli interventi di manutenzione straordinaria
sono ricompresi anche quelli consistenti nel frazionamento o
accorpamento delle unità immobiliari con esecuzione di opere
anche se comportanti la variazione delle superfici delle
singole unità immobiliari nonché del carico urbanistico
purché non sia modificata la volumetria complessiva degli
edifici e si mantenga l'originaria destinazione di uso”,
ostando a tale qualificazione il realizzato cambio di
destinazione d’uso.
Né, in considerazione del realizzato
cambio di destinazione d’uso e delle variazioni prospettiche
operate, l’intervento può essere ascritto alla categoria
degli interventi di risanamento conservativo, dovendo
considerarsi tali ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. c),
D.P.R. 380/2001 “gli interventi edilizi rivolti a conservare
l'organismo edilizio e ad assicurarne la funzionalità
mediante un insieme sistematico di opere che, nel rispetto
degli elementi tipologici, formali e strutturali
dell'organismo stesso, ne consentano destinazioni d'uso con
essi compatibili. Tali interventi comprendono il
consolidamento, il ripristino e il rinnovo degli elementi
costitutivi dell'edificio, l'inserimento degli elementi
accessori e degli impianti richiesti dalle esigenze
dell'uso, l'eliminazione degli elementi estranei
all'organismo edilizio”).
13. Alla qualificazione dell’intervento di cui è causa quale
intervento di ristrutturazione edilizia peraltro consegue la
fondatezza della censura contenuta nella seconda parte del
primo motivo di ricorso, secondo il quale il Comune non
avrebbe potuto irrogare la sanzione demolitoria ai sensi
dell’art. 31 D.P.R. 380/2001, prevista in relazione agli
interventi di nuova costruzione e comportante acquisizione
al patrimonio comunale in ipotesi di inottemperanza, ma
avrebbe dovuto irrogare la sanzione demolitoria ai sensi del
distinto disposto dell’art. 33 D.P.R. 380/2001.
13.1 Ciò
risulta confermato dalla circostanza che il medesimo Comune,
previo parere della Soprintendenza, abbia rilasciato il
nulla osta paesaggistico ex post per l’intervento di cui è
causa e lo abbia pertanto qualificato quale intervento
assentibile ex post da un punto di vista paesaggistico, non
comportante, in altri termini, aumento di volume e/o
superficie, ex art. 167, comma 4, Dlgs. 42/2004. Ed invero lo
stesso va qualificato quale intervento di ristrutturazione,
con cambio di destinazione d’uso e variazioni prospettiche,
ma senza aumento di superficie (determinando la sola
trasformazione della superficie esistente in superficie
residenziale) e di volume.
14. Il ricorso va dunque accolto sotto questo profilo
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 23.06.2015 n. 3320 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
mera presentazione dell'istanza di condono non autorizza la
prosecuzione dei lavori abusivi a completamento delle opere
oggetto della richiesta di sanatoria, le quali, fino al
momento dell'eventuale accoglimento della domanda di
condono, devono ritenersi comunque abusive" (è stato anche
affermato che "laddove poi si tratti di opere eseguite in
area vincolata occorre che venga acquisito il parere delle
autorità competenti ai sensi dell'articolo 32 della stessa
legge ed è inapplicabile il meccanismo del silenzio-assenso,
alla luce delle disposizioni di cui alla legge
summenzionata”).
La giurisprudenza ha pertanto ritenuto al riguardo che
l’ingiunzione di demolizione è in tali ipotesi del tutto
legittima atteso che “in presenza di manufatti abusivi non
condonati né sanati, gli interventi ulteriori (sia pure
riconducibili, nella loro oggettività, alle categorie della
manutenzione straordinaria, del restauro e/o risanamento
conservativo, della ristrutturazione, della realizzazione di
opere costituenti pertinenze urbanistiche) ripetono le
caratteristiche di illegittimità dell'opera principale, alla
quale ineriscono strutturalmente, sicché non può ammettersi
la prosecuzione dei lavori abusivi a completamento di opere
che, fino al momento di eventuali sanatorie, devono
ritenersi comunque abusive, con conseguente obbligo del
Comune di ordinarne la demolizione. Ciò non significa negare
in assoluto la possibilità di intervenire su immobili
rispetto ai quali pende istanza di condono, ma solo
affermare che, a pena di assoggettamento della medesima
sanzione prevista per l'immobile abusivo cui ineriscono, ciò
deve avvenire nel rispetto delle procedure di legge, ovvero
segnatamente dell'art. 35, l. n. 47 del 1985".
Detta norma consente in presenza dei richiesti presupposti,
fra i quali che si tratti di opere di cui all'art. 31, non
comprese tra quelle indicate nell'art. 33 —queste non
suscettibili di sanatoria in quanto incidenti su aree
gravate da vincoli di inedificabilità assoluta— il
completamento «sotto la propria responsabilità» di quanto
già realizzato e fatto oggetto di domanda di condono
edilizio «solo al decorso del termine dilatorio di trenta
giorni dalla notifica al Comune del proprio intendimento,
con allegazione di perizia giurata ovvero documentazione
avente data certa in ordine allo stato dei lavori abusivi».
7. Ciò posto, va analizzata prioritariamente la censura
riferita all’erronea applicazione dell’art. 31 D.P.R.
380/2001, laddove, secondo parte ricorrente, in relazione
all’intervento sanzionato, in quanto configurabile quale
opera di ristrutturazione, la sanzione demolitoria poteva
essere applicata solo ai sensi dell’art. 33 D.P.R. 380/2001,
non comportante la successiva acquisizione al patrimonio
comunale in ipotesi di inottemperanza.
7.1 La censura è infondata, in quanto, come evincibile dalle
premesse del provvedimento impugnato, le opere di cui è
causa sono state realizzate in relazione ad un immobile
sottoposto ad una pluralità di domande di condono non ancora
definite, per cui deve ritenersi che le opere sanzionate con
la gravata ordinanza, riferite ad un manufatto sub condono
configurabile quale “nuova costruzione”, ripetano la
medesima caratteristica d’illegittimità dell’opera
principale alla quale accedono, e come tali siano sottoposte
alla medesima sanzione.
Ed invero, secondo il costante orientamento
giurisprudenziale di questo Tribunale “la mera presentazione
dell'istanza di condono non autorizza la prosecuzione dei
lavori abusivi a completamento delle opere oggetto della
richiesta di sanatoria, le quali, fino al momento
dell'eventuale accoglimento della domanda di condono, devono
ritenersi comunque abusive" (TAR Campania Napoli, sez. VII,
03.11.2010, n. 22302; in senso analogo TAR
Campania Napoli, sez. IV, 24.11.2009, n. 7961 secondo
cui inoltre “laddove poi si tratti di opere eseguite in area
vincolata” –come nella specie- “occorre che venga
acquisito il parere delle autorità competenti ai sensi
dell'articolo 32 della stessa legge ed è inapplicabile il
meccanismo del silenzio-assenso, alla luce delle
disposizioni di cui alla legge summenzionata”).
La giurisprudenza ha pertanto ritenuto al riguardo che
l’ingiunzione di demolizione è in tali ipotesi del tutto
legittima atteso che “in presenza di manufatti abusivi non
condonati né sanati, gli interventi ulteriori (sia pure
riconducibili, nella loro oggettività, alle categorie della
manutenzione straordinaria, del restauro e/o risanamento
conservativo, della ristrutturazione, della realizzazione di
opere costituenti pertinenze urbanistiche) ripetono le
caratteristiche di illegittimità dell'opera principale, alla
quale ineriscono strutturalmente, sicché non può ammettersi
la prosecuzione dei lavori abusivi a completamento di opere
che, fino al momento di eventuali sanatorie, devono
ritenersi comunque abusive, con conseguente obbligo del
Comune di ordinarne la demolizione. Ciò non significa negare
in assoluto la possibilità di intervenire su immobili
rispetto ai quali pende istanza di condono, ma solo
affermare che, a pena di assoggettamento della medesima
sanzione prevista per l'immobile abusivo cui ineriscono, ciò
deve avvenire nel rispetto delle procedure di legge, ovvero
segnatamente dell'art. 35, l. n. 47 del 1985" (TAR
Campania Napoli, sez. VI, 03.12.2010, n. 26788).
Detta norma consente in presenza dei richiesti
presupposti, fra i quali che si tratti di opere di cui
all'art. 31, non comprese tra quelle indicate nell'art. 33 —queste non suscettibili di sanatoria in quanto incidenti su
aree gravate da vincoli di inedificabilità assoluta— il
completamento «sotto la propria responsabilità» di quanto
già realizzato e fatto oggetto di domanda di condono
edilizio «solo al decorso del termine dilatorio di trenta
giorni dalla notifica al Comune del proprio intendimento,
con allegazione di perizia giurata ovvero documentazione
avente data certa in ordine allo stato dei lavori abusivi»
(TAR Campania Napoli, sez. VI, 12.11.2010, n.
24017; Tar Campania, Napoli, sez. VII , 08.04.2011, n.
1999).
7.2. Da ciò pertanto la non applicabilità della sanzione ex
art. 33 D.P.R. 380/2001 riferita ad opere di
ristrutturazione, la quale presuppone la legittimità
dell’opera principale cui accedono le opere medesime,
laddove nell’ipotesi di specie l’opera principale deve
considerarsi abusiva fino alla definizione in senso positivo
delle istanze di condono
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 23.06.2015 n. 3319 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
I) Presupposto per l’adozione dell’ordine di
demolizione di opere abusive è soltanto la constatata
esecuzione di un intervento edilizio in assenza del
prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che,
essendo tale ordine un atto dovuto, esso è sufficientemente
motivato con l’accertamento dell’abuso, e non necessita di
una particolare motivazione in ordine all’interesse pubblico
alla rimozione dell’abuso stesso -che è in re ipsa,
consistendo nel ripristino dell’assetto urbanistico violato-
ed alla possibilità di adottare provvedimenti alternativi.
L’ordine di demolizione, pertanto, come tutti i
provvedimenti sanzionatori edilizi, è un atto vincolato che
non richiede una specifica valutazione delle ragioni di
interesse pubblico, né una comparazione di questo con gli
interessi privati coinvolti e sacrificati, né una
motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione, non potendo ammettersi
l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il
tempo non può giammai legittimare.
Infatti, secondo la giurisprudenza, la natura interamente
vincolata del provvedimento di demolizione esclude la
necessaria ponderazione di interessi diversi da quelli
pubblici tutelati e non richiede motivazione ulteriore
rispetto alla dichiarata abusività;
---------------
II) A fronte della motivazione in re ipsa che incontra
l’ordine di demolizione all’esito dell’accertamento
dell’abuso edilizio, il lasso temporale che fa sorgere
l’onere di una motivazione rafforzata in capo
all’amministrazione -ma sempre in presenza di circostanze
eccezionali rigorosamente provate da chi le invoca- non è
quello che intercorre tra il compimento dell’abuso e il
provvedimento sanzionatorio ma quello che intercorre tra la
conoscenza dell’illecito e il provvedimento sanzionatorio
adottato.
In mancanza di conoscenza della violazione da parte
dell’amministrazione non può consolidarsi in capo al privato
alcun affidamento giuridicamente apprezzabile, il cui
sacrificio meriti di essere adeguatamente apprezzato in sede
motivazionale.
---------------
III) Il Collegio ritiene che laddove, come nella specie, le
opere abusive insistano su zona paesaggisticamente vincolata
la prevalenza dell’interesse pubblico sull’interesse privato
deve considerarsi in re ipsa, in considerazione del rilievo
costituzionale del Paesaggio, ex art. 9, comma 2, Cost.,
assurgente a principio fondamentale, con conseguente
primazia su gli altri interessi, pubblici e privati, del
pari considerati dalla Costituzione, ma non annoverati fra i
principi fondamentali (come afferma la Consulta, la
demolizione si impone, nelle zone vincolate, stante la
“straordinaria importanza della tutela «reale» dei beni
paesaggistici ed ambientali”).
E' allora per tali ragioni che, “in relazione appunto ai
vincoli paesaggistici, non possono trovare spazio
applicativo i peculiari principi in base ai quali la
giurisprudenza amministrativa ha individuato una posizione
di affidamento tutelabile (quanto meno con il richiedersi
nel provvedimento sanzionatorio una motivazione specifica,
ulteriore rispetto a quella fondata sul mero perseguimento
di un ripristino della legalità, in ordine alla necessità
della demolizione dei manufatti e al connesso sacrificio
dell'interesse privato) per colui che, pur avendo posto in
essere abusi edilizi, abbia visto trascorrere un lungo lasso
di tempo dalla loro commissione con inerzia
dell'Amministrazione preposta alla vigilanza”.
---------------
IV) Dal chiaro tenore letterale dell’articolo 36 del D.P.R.
n. 380/2001 (che ha sostituito l’art. 13 della legge n.
47/1985) si desume che il rilascio del permesso di costruire
in sanatoria consegue necessariamente ad un’istanza
dell’interessato, mentre al Comune compete, ai sensi
dell’art. 27, comma 1, del D.P.R. n. 380/2001, l’esercizio
della vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia che si
svolge nel territorio comunale.
Pertanto, una volta accertata l’esecuzione di opere in
assenza del prescritto permesso di costruire,
l’Amministrazione comunale deve senz’altro disporne la
demolizione, non essendo tenuta a valutare preventivamente
la sanabilità delle stesse.
Peraltro, l’istanza di accertamento di conformità ex art. 36
D.P.R. 380/2001 sarebbe comunque inammissibile in quanto le
opere sanzionate non sarebbero comunque sanabili in difetto
della necessaria autorizzazione paesaggistica, che, come
noto, non può essere rilasciata ex post in relazione ad
interventi, come nella specie, caratterizzati da aumento di
volumetria e superficie, ex art. 167, comma 4, Dlgs.
42/2004.
---------------
V) Parimenti infondata è la censura circa l’illegittimità
dell’ordinanza di demolizione per mancata indicazione
dell’area destinata ad essere acquisita in ipotesi di
inottemperanza.
Infatti secondo una consolidata giurisprudenza, seguita
dalla Sezione, nella motivazione dell’ordine di demolizione
è necessaria e sufficiente l’analitica descrizione delle
opere abusivamente realizzate, in modo da consentire al
destinatario della sanzione di rimuoverle spontaneamente,
mentre non è necessaria la descrizione precisa della
superficie occupata e dell’area di sedime destinata ad
essere gratuitamente acquisita al patrimonio comunale in
caso di inottemperanza all’ordine di demolizione, perché
tali elementi afferiscono all’eventuale successiva ordinanza
di acquisizione al patrimonio comunale.
8. Le ulteriori censure, in quanto fondate sul difetto di
istruttoria e di motivazione dell’ordinanza gravata, possono
invece essere esaminate congiuntamente.
8.1 Le stesse si rilevano parimenti infondate.
La Sezione al riguardo facendo proprio il consolidato
indirizzo giurisprudenziale concernente i punti controversi
(cfr., fra le tante, Cons. Stato, sez. V, 09.09.2013,
n. 4470; sez. VI, 05.08.2013, n. 4086; sez. II, 26.06.2013, n. 649/13; sez. VI,
04.03.2013, n. 1268; sez. IV, 15.02.2013, n. 915; sez. VI, 08.02.2013, n. 718;
sez. IV, 02.02.2012, n. 615, Cass. pen., sez. fer., 01.09.2011, n. 33267; Cass. pen., sez. III, 26.06.2013, n. 42330; Consiglio di Stato, sez. V, sent. 28/04/2014
n. 2196) precisa quanto segue:
I) Presupposto per l’adozione dell’ordine di demolizione di
opere abusive è soltanto la constatata esecuzione di un
intervento edilizio in assenza del prescritto titolo
abilitativo, con la conseguenza che, essendo tale ordine un
atto dovuto, esso è sufficientemente motivato con
l’accertamento dell’abuso, e non necessita di una
particolare motivazione in ordine all’interesse pubblico
alla rimozione dell’abuso stesso -che è in re ipsa,
consistendo nel ripristino dell’assetto urbanistico violato- ed alla possibilità di adottare provvedimenti alternativi
(ex multis, TAR Campania Napoli, Sez. IV, 28.12.2009, n. 9638; Sez. VI,
09.11.2009, n. 7077; Sez. VII,
04.12.2008 , n. 20987);
L’ordine di demolizione, pertanto, come tutti i
provvedimenti sanzionatori edilizi, è un atto vincolato che
non richiede una specifica valutazione delle ragioni di
interesse pubblico, né una comparazione di questo con gli
interessi privati coinvolti e sacrificati, né una
motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione, non potendo ammettersi
l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il
tempo non può giammai legittimare.
Infatti, secondo la giurisprudenza (TAR Campania Napoli,
Sez. VI, 05.04.2005, n. 3312 Cons. Stato, Sez. IV, 27.04.2004, n. 2529) la natura interamente vincolata del
provvedimento di demolizione esclude la necessaria
ponderazione di interessi diversi da quelli pubblici
tutelati e non richiede motivazione ulteriore rispetto alla
dichiarata abusività;
II) A fronte della motivazione in re ipsa che incontra
l’ordine di demolizione all’esito dell’accertamento
dell’abuso edilizio, il lasso temporale che fa sorgere
l’onere di una motivazione rafforzata in capo
all’amministrazione -ma sempre in presenza di circostanze
eccezionali rigorosamente provate da chi le invoca (come non
verificatosi nel caso di specie)- non è quello che
intercorre tra il compimento dell’abuso e il provvedimento
sanzionatorio ma quello che intercorre tra la conoscenza
dell’illecito e il provvedimento sanzionatorio adottato; in
mancanza di conoscenza della violazione da parte
dell’amministrazione non può consolidarsi in capo al privato
alcun affidamento giuridicamente apprezzabile, il cui
sacrificio meriti di essere adeguatamente apprezzato in sede
motivazionale;
III) peraltro il Collegio ritiene, rifacendosi al proprio
orientamento giurisprudenziale che laddove, come nella
specie, le opere abusive insistano su zona
paesaggisticamente vincolata la prevalenza dell’interesse
pubblico sull’interesse privato deve considerarsi in re ipsa,
in considerazione del rilievo costituzionale del Paesaggio,
ex art. 9, comma 2, Cost., assurgente a principio
fondamentale, con conseguente primazia su gli altri
interessi, pubblici e privati, del pari considerati dalla
Costituzione, ma non annoverati fra i principi fondamentali.
(Come afferma la Consulta, la demolizione si impone, nelle
zone vincolate, stante la “straordinaria importanza della
tutela «reale» dei beni paesaggistici ed ambientali” (cfr.,
C. Cost. ord.za 12/20.12.2007 nr. 439).
E' allora per tali ragioni che, “in relazione appunto ai
vincoli paesaggistici, non possono trovare spazio
applicativo i peculiari principi in base ai quali la
giurisprudenza amministrativa (cfr. Cons. di Stato sez. IV,
n. 2705 del 06.06.2008; Cons. di Stato sez. V, n. 883 del
04.03.2008; Cons. di Stato sez. IV, n. 2441 del 14.05.2007;
Cons. di Stato sez. V, n. 247 del 12.03.1996; TAR Liguria
n. 4127 del 31.12.2009; TAR Calabria Catanzaro n. 1026
del 06.10.2009; TAR Piemonte n. 2247 del 04.09.2009; TAR
Campania Napoli n. 504 del 29.01.2009) ha individuato una
posizione di affidamento tutelabile (quanto meno con il
richiedersi nel provvedimento sanzionatorio una motivazione
specifica, ulteriore rispetto a quella fondata sul mero
perseguimento di un ripristino della legalità, in ordine
alla necessità della demolizione dei manufatti e al connesso
sacrificio dell'interesse privato) per colui che, pur avendo
posto in essere abusi edilizi, abbia visto trascorrere un
lungo lasso di tempo dalla loro commissione con inerzia
dell'Amministrazione preposta alla vigilanza” (TAR
Campania Napoli Sez. VII, Sent., 14.06.2010, n. 14156, cui
si rinvia);
IV) Del tutto priva di pregio è la deduzione fondata sulla
sanabilità delle opere di cui è causa, non avendo parte
ricorrente dedotto né provato di avere presentato alcuna
istanza di accertamento di conformità ex art. 36 D.P.R.
380/2001.
Pertanto alcun rilievo ha la deduzione che il provvedimento
impugnato sia stato adottato senza una preventiva
valutazione della sanabilità delle opere abusive.
Infatti dal chiaro tenore letterale dell’articolo 36 del
D.P.R. n. 380/2001 (che ha sostituito l’art. 13 della legge
n. 47/1985) si desume che il rilascio del permesso di
costruire in sanatoria consegue necessariamente ad
un’istanza dell’interessato, mentre al Comune compete, ai
sensi dell’art. 27, comma 1, del D.P.R. n. 380/2001,
l’esercizio della vigilanza sull’attività
urbanistico-edilizia che si svolge nel territorio comunale.
Pertanto, una volta accertata l’esecuzione di opere in
assenza del prescritto permesso di costruire,
l’Amministrazione comunale deve senz’altro disporne la
demolizione, non essendo tenuta a valutare preventivamente
la sanabilità delle stesse (ex multis, TAR Campania
Napoli, Sez. III, 27.09.2006, n. 8331; Sez. IV, 04.02.2003, n. 617).
Peraltro, l’istanza di accertamento di conformità ex art. 36
D.P.R. 380/2001 sarebbe comunque inammissibile in quanto le
opere sanzionate non sarebbero comunque sanabili in difetto
della necessaria autorizzazione paesaggistica, che, come
noto, non può essere rilasciata ex post in relazione ad
interventi, come nella specie, caratterizzati da aumento di
volumetria e superficie, ex art. 167, comma 4, Dlgs. 42/2004.
V) Parimenti infondata è la censura circa l’illegittimità
dell’ordinanza di demolizione per mancata indicazione
dell’area destinata ad essere acquisita in ipotesi di
inottemperanza.
Infatti secondo una consolidata giurisprudenza (ex multis,
TAR Toscana Firenze, Sez. III, 06.02.2008, n. 117;
TAR Campania Napoli, Sez. III, 17.12.2007, n.
16311), seguita dalla Sezione, nella motivazione dell’ordine
di demolizione è necessaria e sufficiente l’analitica
descrizione delle opere abusivamente realizzate, in modo da
consentire al destinatario della sanzione di rimuoverle
spontaneamente, mentre non è necessaria la descrizione
precisa della superficie occupata e dell’area di sedime
destinata ad essere gratuitamente acquisita al patrimonio
comunale in caso di inottemperanza all’ordine di
demolizione, perché tali elementi afferiscono all’eventuale
successiva ordinanza di acquisizione al patrimonio comunale.
9. In considerazione dell’infondatezza di tutte le censure,
il ricorso va rigettato
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 23.06.2015 n. 3319 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Nel procedimento amministrativo, la mancata
comunicazione del preavviso di rigetto non comporta ex se
l'illegittimità del provvedimento finale, in quanto la
disposizione contenuta nell'art. 10-bis, l. 07.08.1990, n.
241 va interpretata alla luce del successivo art. 21-octies,
comma 2, il quale, nell'imporre al giudice di valutare il
contenuto sostanziale del provvedimento e di non annullare
l'atto nel caso in cui le violazioni formali non abbiano
inciso sulla legittimità sostanziale del medesimo, rende
irrilevante la violazione delle norme sul procedimento o
sulla forma dell'atto allorché il contenuto dispositivo non
avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto
adottato.
Di qui l’infondatezza non solo dei primi due motivi di
gravame, suscettibili di trattazione congiunta, ma anche del
terzo, con il quale si lamenta il difetto partecipativo,
nelle forme dell’obliterato art. 10-bis l. n. 241/1990,
avendo tale censura carattere recessivo alla luce della
inattitudine delle argomentazioni svolte dal ricorrente ad
indurre decisioni di segno contrario rispetto a quella
adottata dall’Amministrazione.
E’ opinione di questo Tribunale, infatti (sez. I 10.10.2014
n. 1719), che, nel procedimento amministrativo, la mancata
comunicazione del preavviso di rigetto non comporta ex se
l'illegittimità del provvedimento finale, in quanto la
disposizione contenuta nell'art. 10-bis, l. 07.08.1990, n.
241 va interpretata alla luce del successivo art. 21-octies,
comma 2, il quale, nell'imporre al giudice di valutare il
contenuto sostanziale del provvedimento e di non annullare
l'atto nel caso in cui le violazioni formali non abbiano
inciso sulla legittimità sostanziale del medesimo, rende
irrilevante la violazione delle norme sul procedimento o
sulla forma dell'atto allorché il contenuto dispositivo non
avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato
(TAR
Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 22.06.2015 n. 1416
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
La Pa che ignora la mediazione rischia il danno erariale.
Conciliazione. Il Tribunale di Roma.
La pubblica amministrazione che scelga di tenere una
condotta «agnostica, immotivatamente anodina e
deresponsabilizzata» rispetto ad una proposta conciliativa
del giudice o all’invio in mediazione espone potenzialmente
la stessa a danno erariale.
Perviene a queste
conclusioni il TRIBUNALE di Roma (estensore Moriconi) con
l'ordinanza 22.06.2015 riprendendo e rafforzando un
orientamento espresso in controversie analoghe. L’obiettivo
è evitare che le Pa ignorino gli strumenti conciliativi sia
giudiziali sia stragiudiziali, sul presupposto che soltanto
con una sentenza possano evitare potenziali rischi di danno
erariale rispetto a eventuali accordi che definiscano
consensualmente la lite, sia pur sulla base di una proposta
giudiziale o di un percorso mediativo demandato dal giudice.
La controversia riguarda il risarcimento dei danni derivanti
dal mancato corretto funzionamento dell’impianto di
sollevamento delle acque reflue in occasione di forti
piogge. Il consulente tecnico (Ctu) nominato dal tribunale
ha stimato i danni in 60mila euro: dopodiché il giudice ha
proposto in via conciliativa il versamento di 40mila euro e
ha disposto anche lo svolgimento della mediazione, qualora
le parti non dovessero giungere ad un accordo sulla base
della proposta conciliativa.
E qui il giudice rimarca con
forza che «l’eventuale deprecata scelta di una condotta
agnostica, immotivatamente anodina e deresponsabilizzata
dell’amministrazione pubblica potrebbe esporre a danno
erariale sotto il profilo delle conseguenze del mancato
accordo sulla proposta del giudice e/o dell’invio in
mediazione comparativamente valutato rispetto al contenuto
della sentenza. Conseguenze che, in relazione alle
circostanze del caso concreto, sarebbe doveroso segnalare
agli organi competenti (Corte dei Conti)».
Ciò non esclude secondo quanto chiarito nell’ordinanza anche
la possibile valutazione della condotta processuale ai fini
della condanna alle spese nel caso di proposta conciliativa
della parte (articolo 91, comma 1, II parte, Codice di
procedura civile) e della responsabilità aggravata (articolo
96, comma 3, Codice di procedura civile).
In relazione alla mediazione demandata l’ordinanza ribadisce
inoltre che è richiesta l’effettiva partecipazione al
procedimento, nel senso che le parti non debbono arrestarsi
alla sessione informativa e che oltre agli avvocati
difensori debbono essere presenti personalmente. Tant’è che
la mancata partecipazione (o l’irrituale partecipazione)
senza giustificato motivo, oltre a poter attingere, secondo
una diffusa interpretazione giurisprudenziale, alla stessa
procedibilità della domanda, è in ogni caso comportamento
valutabile nel merito della causa (articolo Il Sole 24 Ore del
27.07.2015). |
URBANISTICA: La
decisone della Provincia di preservare gran parte del
proprio territorio inedificato non costituisce di per sé
atto di arbitraria compressione dei poteri e delle funzioni
costituzionalmente attribuite ai comuni, i quali potranno
comunque esercitare la propria potestà pianificatoria
assecondando le direttive e le prescrizioni dettate dal PTCP
a tutela dei suindicati valori.
Va poi osservato che, come ogni altra scelta pianificatoria,
queste decisioni sono espressione dell'ampia discrezionalità
tecnica di cui l’amministrazione dispone in materia e dalla
quale discende la loro sindacabilità solo nei ristretti
limiti costituiti dalla manifesta illogicità ed evidente
travisamento dei fatti; e che, nel caso di specie, non sono
stati evidenziati macroscopici profili di illogicità nelle
scelte operate dalla Provincia, non apparendo, al contrario,
illogica la decisione di porre rimedio all’eccessivo consumo
di suolo ormai posto in essere in una parte del territorio
provinciale.
18. In base all’art. 2, quarto comma, della legge della
Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12, il piano
territoriale regionale ed i piani territoriali di
coordinamento provinciale hanno efficacia di orientamento,
indirizzo e coordinamento, fatte salve le previsioni che ai
sensi stessa legge-regionale n. 12 del 2005, abbiano
efficacia prevalente e vincolante.
19. Come notato dalla dottrina, queste disposizioni hanno
profondamente innovato l’impostazione propria della legge n.
1150 del 1942 (legge urbanistica) la quale prevedeva un
sistema basato sul principio gerarchico, nel quale il piano
collocato sul gradino inferiore della scala doveva attenersi
rigidamente alle previsioni dei piani collocati ai livelli
superiori e limitarsi a dare a questi specifica attuazione.
20. Il modello delineato dalla legge regionale è, come
visto, del tutto diverso: salve particolari eccezioni, i
piani collocati al livello superiore non sono
gerarchicamente sovraordinati agli altri, ma dettano una
disciplina di orientamento, indirizzo e coordinamento, che
non può essere stravolta ma, in particolari casi, derogata
dalla disciplina puntuale dettata dallo strumento di
pianificazione contenete disposizioni di maggior dettaglio.
21. Peraltro, anche con riferimento al regime tracciato
dalla legislazione statale (che come visto si ispira al
principio di gerarchia), la Corte Costituzionale, con
sentenza n. 83 dell’08.04.1997, aveva chiarito che, in
applicazione degli artt. 5, 117 e 128 (oggi abrogato ma
vigente all’epoca della decisione) della Costituzione, non è
possibile, per gli enti infraregionali, dettare prescrizioni
che azzerino il potere pianificatorio dei comuni, prevedendo
procedimenti che non assicurino la partecipazione degli enti
il cui assetto territoriale venga coinvolto. La
partecipazione deve essere quindi assicurata e non può
essere puramente nominale ma deve essere effettiva e
congrua, nel senso che non potrebbero regioni e province
disporre la trasformazione dei poteri comunali in ordine
all'uso del territorio in funzioni meramente consultive
prive di reale incidenza, o in funzioni di proposta o ancora
in semplici attività esecutive.
22. Ritiene però il Collegio, che nel caso di specie, la
Provincia di Monza e Brianza non abbia, con il proprio PTCP,
arbitrariamente compresso il potere di pianificazione
urbanistica spettante comuni.
23. L’individuazione delle AAS e delle aree da inserire
nella rete verde di ricomposizione paesaggistica costituisce
scelta che involge interessi di carattere sovracomule,
ambientali e paesaggistici, la cui tutela è stata affidata
dalla legge regionale n. 12 del 2005 -in ossequio ai
principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza
di cui all’art. 118, coma primo, della Costituzione- alla
Regione e alle province. Questi interessi sono dunque presi
in considerazione dagli strumenti di pianificazione
territoriale approvati da tali enti (PTR e PTCP) e si
sovrappongono agli interessi di carattere urbanistico la cui
tutela è principalmente affidata ai comuni.
24. E’ pertanto del tutto fisiologico che i poteri in
materia urbanistica, attribuiti ai comuni, trovino limite
nelle prescrizioni dettate dagli atti di pianificazione
emessi dagli enti infraregionali a tutela dei primari valori
dell’ambiente e del paesaggio.
25. Ed è altrettanto fisiologico che, se ne ricorrono i
presupposti, ampie porzioni del territorio provinciale siano
prese in considerazione dalle suddette prescrizioni.
26. Ne consegue che la decisone della Provincia di Monza e
Brianza di preservare gran parte del proprio territorio
inedificato non costituisce di per sé atto di arbitraria
compressione dei poteri e delle funzioni costituzionalmente
attribuite ai comuni, i quali potranno comunque esercitare
la propria potestà pianificatoria assecondando le direttive
e le prescrizioni dettate dal PTCP a tutela dei suindicati
valori.
27. Va poi osservato che, come ogni altra scelta
pianificatoria, queste decisioni sono espressione dell'ampia
discrezionalità tecnica di cui l’amministrazione dispone in
materia e dalla quale discende la loro sindacabilità solo
nei ristretti limiti costituiti dalla manifesta illogicità
ed evidente travisamento dei fatti (ex plurimis Cons. Stato,
sez. IV, 27.12.2007, n. 6686); e che, nel caso di
specie, non sono stati evidenziati macroscopici profili di
illogicità nelle scelte operate dalla Provincia, non
apparendo, al contrario, illogica la decisione di porre
rimedio all’eccessivo consumo di suolo ormai posto in essere
in una parte del territorio provinciale (cfr. TAR Lombardia
Milano, sez. II, 27.05.2014, n. 1355)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 19.06.2015 n. 1430 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
tema di ordine di demolizione di opere edilizie abusive, non
occorre la comunicazione di avvio del procedimento ai sensi
dell'art. 7 L. 07.08.1990 n. 241, trattandosi di atto dovuto
e rigorosamente vincolato, con riferimento al quale non sono
richiesti apporti partecipativi del destinatario, tenendo
presente che ciò che appare necessario è che al privato sia
data la possibilità di partecipare a quelle attività di
rilevamento fattuale che preludono alla valutazione circa
l'adozione dell'ordine in parola.
9. L’appello principale è fondato nella misura in cui
evidenzia l’erroneità della sentenza di primo grado che ha
rilevato una lesione del diritto di partecipazione
procedimentale dei destinatari del provvedimento impugnato
che non risulta sussistente, né rilevante.
Occorre, al riguardo, rammentare l’orientamento di questo
Consiglio (Cons. St., Sez. V, 09.09.2013, n. 4470; Id., Sez.
II, 19.03.2008, n. 3702; Id., Sez. IV, 01.10.2007, n. 5049)
secondo il quale: “In tema di ordine di demolizione di
opere edilizie abusive, non occorre la comunicazione di
avvio del procedimento ai sensi dell'art. 7 L. 07.08.1990 n.
241, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente vincolato,
con riferimento al quale non sono richiesti apporti
partecipativi del destinatario, tenendo presente che ciò che
appare necessario è che al privato sia data la possibilità
di partecipare a quelle attività di rilevamento fattuale che
preludono alla valutazione circa l'adozione dell'ordine in
parola”.
Nella fattispecie deve rilevarsi come gli atti istruttori
prodromici all’adozione del provvedimento impugnato siano
stati posti in essere nel contraddittorio con gli originari
ricorrenti. Ed, infatti, i comproprietari (P.S. e M.S.)
erano tutti edotti dell’apertura del procedimento ed hanno
descritto qualità e natura degli abusi nell’esposto con il
quale hanno chiesto l’intervento repressivo
dell’amministrazione comunale dagli stessi firmato in data
06.06.2000, inoltre in data 27.07.2000 è stato fatto
accertamento in loco dalla polizia municipale, ed in data
22.08.2000 Schiappa Luciano è stato individuato come autore
degli abusi, il ché deve ritenersi abbia reso edotto anche
quest’ultimo del procedimento in corso.
Ancora, la richiesta di completare l’accertamento del
27.07.2000 è stato comunicata anche all’altro
comproprietario Giulio Scalfati.
Pertanto, gli appellanti incidentali sono stati messi nelle
condizioni di partecipare al procedimento sfociato nell’atto
impugnato, sicché la mancata adozione di un formale avviso
di avvio del procedimento non ha impedito loro di prendere
parte all’iter procedimentale e non vale ad inficiare la
legittimità dell’ordinanza dirigenziale del 24.08.2000
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 17.06.2015 n. 3051 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Difetto secondario senza colpa.
Cassazione. L’appaltatore non ha responsabilità se le porte
si sono ossidate.
Secondo la
Corte di Cassazione -Sez. II civile (sentenza
12.06.2015 n. 12186)- non
è rinvenibile nessuna responsabilità, a carico
dell'appaltatore che ha installato l'ascensore, se le porte
dell'impianto si sono ossidate perché il vizio non riduce in
modo apprezzabile la fruizione dell'impianto e il valore del
bene stesso.
La sentenza si inserisce in un settore giurisprudenziale in
continuo fermento. La Corte di Cassazione, nel caso di
specie, ha rigettato il ricorso di un condominio, che
ricorreva contro la decisione emessa dai giudici di merito,
adducendo di non aver considerato l'ossidazione presente
sulle porte dell'ascensore un «grave difetto dell'opera».
Il motivo della decisione è il seguente: «(…) anche un
difetto di costruzione che incida su elementi accessori o
secondari può rientrare nella previsione della norma citata,
purché determini un apprezzabile diminuzione del valore del
bene, una menomazione di esso, o incida sul godimento in
modo considerevole o addirittura ne impedisca l'impiego», ma
nel caso di specie la Cassazione precisa che «l'ossidazione
presente sulle porte dell'ascensore non rappresenta di per
sé un difetto di costruzione che possa incidere sulla
funzionalità dell'impianto e quindi sul godimento del bene
stesso».
I giudici di legittimità aderiscono a quanto osservato dalla
Corte di appello la quale aveva avuto modo di precisare che:
«fenomeni corrosivi di ossidazione delle porte dell'impianto
non potevano annoverarsi nella categoria dei “gravi difetti”
(…) perché lo stato in cui vertevano le porte descritte non
incideva sulla funzionalità dell'impianto, né
compromettevano la funzionalità o l'uso degli appartamenti
cui esso accede». La Cassazione non imputa alcune
responsabilità all'appaltatore e rigetta il ricorso del
condominio (articolo Il Sole 24 Ore del
28.07.2015). |
APPALTI: E
noto al collegio che la giurisprudenza, in materia di costo
del lavoro, è unanime nel ritenere derogabili i limiti
tabellari specificati dall’Autorità ministeriale anche
quando sia la stessa disciplina di gara a indicarli come non
soggetti a ribasso.
Tuttavia, come affermato dalla stessa pronunzia allegata
dalla ricorrente, lo scostamento deve essere puntualmente
giustificato affinché “l'impresa possa dimostrare di poter
sostenere (per tale voce) oneri inferiori in modo da
compensare i costi previsti per le altre voci e così
acquisire un utile (anche minimo) dall'esecuzione del
servizio oggetto della gara”.
Nel caso di specie il minor importo veniva giustificato,
sotto un primo profilo, sul presupposto che il coordinatore
usufruirebbe delle ferie nel solo mese di agosto quando la
struttura è chiusa e, pertanto, non verrebbero sostenuti
costi per la sostituzione del medesimo; sotto altro profilo,
allegando il basso tasso di assenteismo aziendale che
consentirebbe, in deroga ai valori tabellari, di considerare
un più elevato numero di ore annue lavorate pari a 1713.
Il motivo è infondato atteso che le giustificazioni della
ricorrente non sono sufficienti a giustificare i livelli di
costo indicati.
La circostanza che il coordinatore non fruirebbe di ferie
nel corso degli 11 mesi di attività è, infatti, inidonea a
giustificare l’allegato abbattimento dei costi poiché, a
tacere del fatto che la possibilità di fruire una quota
delle ferie nell’arco dei 12 mesi integra un diritto
contrattualmente riconosciuto, le ferie, indipendentemente
dal periodo nel quale vengono fruite, maturano nel corso
dell’intero anno e, in quanto retribuite, integrano una voce
di costo.
Con il primo motivo di ricorso, la ricorrente contesta il
supporto motivazionale della patita esclusione nella parte
in cui le viene contestata l’incongruità del costo orario
del coordinatore per contrasto con gli importi previsti
dalle tabelle ministeriali (€ 20,02 contro € 21,22) che la
Stazione appaltante avrebbe erroneamente ritenuto
inderogabili mentre, si afferma, la giurisprudenza
amministrativa avrebbe riconosciuto la possibilità di
derogare a detti livelli retributivi “quando risulti
puntualmente giustificato” (Cons. Stato, Sez. VI,
21.07.2010, n. 4783).
La censura è infondata.
E noto al collegio che la giurisprudenza, in materia di
costo del lavoro, è unanime nel ritenere derogabili i limiti
tabellari specificati dall’Autorità ministeriale anche
quando sia la stessa disciplina di gara a indicarli come non
soggetti a ribasso.
Tuttavia, come affermato dalla stessa pronunzia allegata
dalla ricorrente, lo scostamento deve essere puntualmente
giustificato affinché “l'impresa possa dimostrare di
poter sostenere (per tale voce) oneri inferiori in modo da
compensare i costi previsti per le altre voci e così
acquisire un utile (anche minimo) dall'esecuzione del
servizio oggetto della gara” (Cons. Stato, Sez. III,
02.04.2015, n. 1743).
Nel caso di specie il minor importo veniva giustificato,
sotto un primo profilo, sul presupposto che il coordinatore
usufruirebbe delle ferie nel solo mese di agosto quando la
struttura è chiusa e, pertanto, non verrebbero sostenuti
costi per la sostituzione del medesimo; sotto altro profilo,
allegando il basso tasso di assenteismo aziendale che
consentirebbe, in deroga ai valori tabellari, di considerare
un più elevato numero di ore annue lavorate pari a 1713.
Il motivo è infondato atteso che le giustificazioni della
ricorrente non sono sufficienti a giustificare i livelli di
costo indicati.
La circostanza che il coordinatore non fruirebbe di ferie
nel corso degli 11 mesi di attività è, infatti, inidonea a
giustificare l’allegato abbattimento dei costi poiché, a
tacere del fatto che la possibilità di fruire una quota
delle ferie nell’arco dei 12 mesi integra un diritto
contrattualmente riconosciuto, le ferie, indipendentemente
dal periodo nel quale vengono fruite, maturano nel corso
dell’intero anno e, in quanto retribuite, integrano una voce
di costo.
L’inattendibilità delle complessive difese della ricorrente
sul punto emerge dalle giustificazioni rese in sede di
contraddittorio laddove si afferma che “la cooperativa
comunque applicherà al coordinatore il costo previsto dalla
tabella de costo del lavoro della provincia di Piacenza. Ciò
che cambia è il prezzo che verrà fatturato al Comune che è
minore rispetto a quanto previsto…” .
In disparte ogni considerazione circa la singolarità
dell’affermazione in base alla quale verrebbe sopportato un
costo superiore a quello fatturato, non è fornita alcuna
giustificazione circa la copertura di tale incremento di
costo dato per certo dalla stessa ricorrente.
Priva di pregio é, inoltre, l’affermazione relativa al basso
tasso di assenteismo aziendale che garantirebbe un più
elevato numero di ore lavorate annue determinando un
abbattimento del costo orario.
L’allegata favorevole statistica aziendale è, infatti,
affermata ma non altrimenti documentata.
Deve ulteriormente respingersi l’affermazione in base alla
quale la Stazione appaltante avrebbe fondato il proprio
giudizio di anomalia unicamente sulla criticità testé
esaminata poiché, come verrà d seguito argomentato, la
Commissione ha valutato l’insostenibilità dell’offerta anche
relativamente ad altri profili riferiti all’insufficienza
dei costi allegati per le ulteriori figure professionali a
far fronte al complesso dei progetti facenti parte
dell’offerta
(TAR Emilia Romagna-Parma,
sentenza 10.06.2015 n. 173 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Tar
Sicilia.
Appalto salvo post-interdittiva alla mandataria.
Si va avanti con l'appalto vinto dall'Ati se l'interdittiva
prefettizia colpisce la mandataria anche dopo il nuovo
codice antimafia. E ciò perché il decreto legislativo 159/11
ha abrogato in modo esplicito tutte le norme incompatibili:
deve quindi continuare a essere applicata la deroga al
principio di immodificabilità dell'associazione temporanea
d'impresa quando lo stop dell'autorità governativa colpisce
non l'impresa mandante ma quella “delegata”.
Lo stabilisce
la III Sez. del TAR Sicilia-Catania, Sez. III, con la
sentenza
13.05.2015 n. 1267.
Vuoto escluso
Dovrà rassegnarsi la concorrente che ha perso la gara
bandita dall'ospedale benché il prefetto di Milano abbia nel
frattempo “appiedato” la cooperativa mandataria dell'Ati
vincente. Non convince infatti l'interpretazione secondo cui
l'articolo 95 del testo unico antimafia che blocca la
mandante Ati colpita dall'informativa negativa prefettizia
dovrebbe applicarsi anche al caso della mandataria raggiunta
dall'interdittiva, altrimenti ne scaturirebbe un vuoto
normativo.
Secondo i giudici, invece, la norma di cui
articolo 37, comma 18, del decreto legislativo 163/2006 non è
stata mai modificata rispetto al testo risultante dal primo
correttivo al codice dei contratti (decreto legislativo
113/2007), nonostante le diverse modifiche successive allo
stesso nuovo codice antimafia: se il legislatore avesse
ritenuto superata la disposizione, «non avrebbe perso
l'occasione per adeguarlo alla asserita nuova e diversa precettività».
Resta, dunque, la deroga al principio
generale secondo cui Ati che vince non si cambia
(articolo ItaliaOggi del 25.07.2015
- tratto da www.centrostudicni.it).
---------------
MASSIMA
La controversia in esame concerne la legittimità
dell’attività posta in essere dalla Azienda intimata la
quale in seguito al provvedimento interdittivo emesso dalla
Prefettura di Milano nei confronti della Co.lo.coop ha
deliberato la stipula del nuovo contratto, per la durata
residua con lo stesso raggruppamento temporaneo di imprese
risultato aggiudicatario, depurato dalla partecipazione
della Co.lo.coop e integrato (per conservare la struttura
associativa del contraente con altra impresa in possesso dei
requisiti di qualificazione).
Ciò posto, come statuito dal C.G.A. nella citata ordinanza
cautelare n. 623/2014, “il nodo della controversia
consiste nello stabilire -alla luce del disposto dell’art.
95 del codice antimafia riferito alle mandanti- se l’attuale
testo dell’art. 94 si pone in contrasto con l’art. 37, comma
18,del codice appalti”.
Secondo la difesa della ricorrente, con l’entrata in vigore
dell'art. 94 del Codice antimafia, non troverebbe più
applicazione l'art. 37, comma 18, del D.Lgs. n. 163/06 e
ss.mm.ii., e ciò in quanto il predetto art. 94, diversamente
dalla precedente normativa di cui al D.P.R. n. 252/1998, non
prevederebbe più la facoltà ma l'obbligo per la Stazione
appaltante di recedere dal contratto di appalto in corso
stipulato con un impresa colpita da un'informativa
prefettizia.
In sintesi, la norma sopravvenuta (art. 94 D.Lgs. 159/2011),
asseritamente incompatibile con quella anteriore (art. 37,
comma 18, D.Lgs. 163/2006, come modificata con il D.Lgs.
113/2007), ne determinerebbe l'abrogazione implicita.
Il Collegio ritiene di non condividere siffatta
interpretazione delle citate disposizioni.
Ciò in quanto il Codice antimafia (D.Lgs.
n. 159/2011 e ss.mm.ii.) ha abrogato espressamente le
precedenti disposizioni contenute in diversi testi normativi
confluite nel predetto codice antimafia nonché altre
disposizioni con esso incompatibili (e tra le disposizioni
espressamente abrogate non figura l’art. 37, comma 18, del
Codice dei contratti).
Pertanto, tale disposizione, che, com’è noto, detta una
eccezione al principio generale di immodificabilità dell'ATI
allorché l'impresa mandataria di un raggruppamento sia
colpita da determinati eventi (tra cui una interdittivi
prefettizia negativa), continua a trovare applicazione.
Infatti, nonostante le diverse novellazioni del Codice dei
Contratti, successive al Codice antimafia (D.Lgs. 159/2011),
la norma dell'art. 37, comma 18, D.Lgs. 163/2006 non è stata
mai modificata rispetto al testo risultante dal D.Lgs.
113/2007 (c.d. primo correttivo al Codice dei contratti);
laddove, per converso, se si fosse ritenuto che il testo del
comma 18 dell'art. 37, cit., fosse stato superato, il
Legislatore non avrebbe perso l'occasione per adeguarlo alla
asserita nuova e diversa precettività.
Il Collegio inoltre ritiene di non doversi discostare dalla
giurisprudenza del Consiglio di Stato, secondo cui il comma
18 dell'art. 37, D.Lgs. n. 163/2006, così come risultante
dalle modifiche apportate dal D.Lgs. n. 113/2007,
costituisce una eccezione al principio generale di
immodificabilità dell'ATI sancito dal coma 9 del medesimo
art. 37; eccezione che, così come riconosciuto dal Supremo
consesso della giustizia amministrativa, opera anche nelle
ipotesi previste dalla normativa antimafia
(cfr. Cons. St., Sez. V, 02.03.2015, n. 986; Cons. Sez. V,
20.01.2015, n. 169).
Alla luce della richiamata giurisprudenza, dalla quale il
Collegio non intende discostarsi, non può
essere accolta la tesi sostenuta dalla difesa della
ricorrente secondo cui l'eccezione al principio di
immodificabilità dell'ATI prevista dall'art. 37, comma 18,
D.Lgs. n. 163/2006 non opererebbe nell'ipotesi in cui ad
essere colpita dall'interdittiva prefettizia sia l'impresa
mandataria.
A ciò si aggiunga che, come rilevato in sede cautelare,
l'art. 94 del Codice antimafia non può che riguardare
l’impresa singola, dovendosi dunque distinguere tra le
ipotesi in cui l'interdittiva colpisca il soggetto singolo e
la diversa ipotesi in cui l'interdittiva colpisca l'impresa
capogruppo di un'ATI.
Nel primo caso, atteso che l'interdittiva riguarda
l'unica e sola impresa che costituisce la parte appaltatrice
(ossia senza interferenze con soggetti terzi estranei a
dubbi antimafia), troverà applicazione il 2° comma dell'art.
94, D.Lgs. n. 159/2011 e ss.mm.ii. e, quindi, la Stazione
appaltante dovrà procedere a recedere dal contratto, a meno
che non ricorra una delle ipotesi derogatorie previste dal
successivo comma 3 della norma in parola, le quali danno
rilievo ad esigenze pratiche che si focalizzano
precipuamente in capo alla stazione appaltante.
Nel secondo caso, invece, si pone l'esigenza di
contemperare l'interesse della Stazione appaltante con
quello degli altri soggetti (imprese mandanti) estranei alle
problematiche antimafia che hanno interessato l'impresa
mandataria e che sono in possesso dei requisiti necessari
per proseguire nell'appalto; ed è proprio in tale ipotesi
che trova applicazione il comma 18 dell'art. 37 del Codice
dei contratti.
Destituite di fondamento risultano inoltre le censure
afferenti alla pretesa natura unitaria ed inscindibile del
contratto di appalto in caso di raggruppamento temporaneo di
imprese, sicché, il recesso nei confronti del capogruppo
opererebbe nei confronti di tutti gli altri soggetti
mandanti, dovendosi al riguardo osservare che il
raggruppamento di imprese non è un soggetto giuridico e
nemmeno un centro di imputazione di atti e rapporti
giuridici distinto ed autonomo rispetto alle imprese
raggruppate; di talché nell'ambito dell'ATI, ciascuna
impresa che la compone mantiene la propria identità.
Ne consegue che la stipula di un contratto di appalto con
un’ATI non lega affatto la Stazione appaltante all’ATI (che
non ha alcuna autonomia giuridica) ma a ciascuna delle
imprese associate, le quali agiscono nei confronti della
Committenza attraverso l'istituto del mandato con
rappresentanza conferito alla capogruppo.
Pertanto, laddove un determinato evento
(come ad esempio un’interdittiva negativa) colpisca la
società mandataria, alla luce del chiaro disposto dell'art.
37, comma 18, D.Lgs. n. 163/2006 e ss.mm.ii. lo stesso non
si ripercuote sulla società mandante, la quale, pertanto,
potrà continuare nell'appalto, allorché siano rispettate le
condizioni dettate dalla suddetta disposizione speciale.
In altre parole, in caso di interdittiva
che colpisca l'impresa mandataria, la prosecuzione
dell'appalto con l'impresa mandante non è affatto preclusa
dall'art. 94, comma 2, D.Lgs. n. 159/2011, trovando
applicazione al caso di specie la speciale disposizione
contenuta nell'art. 37, comma 18, D.Lgs. n. 163/2006 e
ss.mm.ii. |
EDILIZIA PRIVATA:
Ancora sull'indissolubilità del vincolo di cui all'art.
41-sexies della Legge urbanistica.
È nulla la vendita di un’abitazione quando il venditore ceda
solo l’unità abitativa e non anche (quantomeno) il diritto
d’uso del posto auto che si riserva in collegamento con la
mansarda abusiva.
In materia edilizia l'art. 41-sexies
della l. n. 1150/1942 pone un vincolo di destinazione
obbligatorio tra spazi destinati a parcheggio e cubatura
totale dell'edificio, con la conseguenza che in favore di
tutti i condomini sorge un diritto reale d'uso sugli spazi
anzidetti. Tale vincolo di destinazione, imposto dalla
normativa di settore, viene eluso nel caso di alterazione
dello standard urbanistico, effettuato mediante la
realizzazione ex post di una unità immobiliare abusiva.
Ne consegue che deve essere annullata con rinvio la sentenza
di merito che, dopo aver accertato che il contratto di
compravendita non aveva trasferito la proprietà del posto
auto unitamente a quella dell'appartamento, ha ritenuto che
i venditori potessero legittimamente non trasferire il
diritto reale d'uso del posto auto, stante la riserva dello
stesso all'unità abitativa realizzata ex post nel locale
mansarda, riconoscendo tuttavia che quest'ultimo costituisce
un'unità immobiliare abusiva, così acclarando l'avvenuta
alterazione del rapporto tra superficie di parcheggio e
metri cubi di costruzione, in danno del diritto degli
acquirenti dell'appartamento a fruire del posto auto, sotto
forma di diritto reale d'uso, dovendo dunque ritenersi eluso
il vincolo di destinazione imposto dalla normativa speciale
richiamata (Corte
di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 10.03.2015 n. 4733).
---------------
Commento (di Daniele Minussi)
Nel caso in esame era stata realizzata da un condomino una
mansarda abusiva ricavata nel sottotetto. Detto condomino,
venduto l'appartamento di cui era titolare senza aver
contestualmente ceduto anche il posto auto, era andato ad
abitare nella mansarda, continuando a fruire del parcheggio
originariamente acquistato unitamente all'unità abitativa di
poi ceduta.
Chi aveva acquistato l'appartamento senza posto auto aveva
successivamente agito per far dichiarare l'invalidità
dell'atto, laddove non veniva trasferito anche il posto auto
pertinenziale. La Corte d'Appello, sovvertendo il giudizio
di primo grado, aveva dato torto all'attore sulla scorta del
modo di disporre del più volte novellato art. 26 della l.
47/1985. Insomma: summum jus, summa iniuria.
Provvede a "riparare" la S.C. con la pronunzia in
commento, rilevando come il nodo in realtà non consista
nell'astratta previsione della norma citata, quanto
piuttosto nel rilievo in base al quale la condotta abusiva
di chi ebbe a realizzare la mansarda senza titolo
autorizzativo, ha alterato l'originario rapporto
planivolumetrico disciplinato dall'art. 41-sexies della
legge 1150/1942.
Tale condotta antigiuridica non può non riverberarsi sulla
conformità a legge della vendita dell'appartamento privo di
posto auto eseguita da chi, illegittimamente, intende
mantenere il diritto di parcheggio
(tratto da www.e-glossa.it).
---------------
1. - Il ricorso è fondato.
1.1. - Con l'unico motivo è dedotta violazione dell'art.
41-sexies legge n. 1150 del 1942, introdotto dall'art. 18
della legge n. 765 del 1967.
Si assume che la realizzazione di una unità abitativa in
assenza di concessione e di sanatoria, nella specie il vano
sottotetto o mansarda, alla quale era stato destinato dai
coniugi F.-Z. l'uso del posto auto avrebbe alterato lo
standard urbanistico degli spazi destinati ad uso
parcheggio, stabilito dall'art. 41-sexíes.
Il vincolo pubblicistico di servizio tra il fabbricato e
l'area destinata a parcheggio risulterebbe eluso dal
contratto di compravendita inter partes, in forza del
quale il vincolo permarrebbe in quanto collegato ad una
unità abitativa abusiva, in quanto tale precaria, potendo
essere oggetto di demolizione ovvero riduzione in pristino.
2. - La doglianza è fondata.
2.1. - La fattispecie in esame è regolata, ratione
temporis, dall'art. 41-sexies della legge n. 1152 del
1942, che pone un vincolo di destinazione obbligatorio tra
spazi destinati a parcheggio e cubatura totale
dell'edificio, e determina perciò il sorgere di un diritto
reale d'uso sugli spazi predetti a favore di tutti i
condomini (ex plurimis, Cass., sez. 2^, sentenze n.
21003 del 2008; n. 15509 del 2011; n. 28950 del 2011; n.
1214 del 2012).
2.2. - La Corte d'appello, dopo aver accertato che il
contratto di compravendita non aveva trasferito la proprietà
del posto auto unitamente a quella dell'appartamento, ha
ritenuto che i venditori potessero legittimamente non
trasferire il diritto reale d'uso del posto auto, stante la
riserva dello stesso all'unità abitativa realizzata ex post
nel locale mansarda.
Ma la stessa Corte d'appello ha riconosciuto che si trattava
di unità immobiliare abusiva, così acclarando l'avvenuta
alterazione del rapporto tra superficie di parcheggio e
metri cubi di costruzione, in danno del diritto degli
acquirenti dell'appartamento a fruire del posto auto, sotto
forma di diritto reale d'uso.
Il vincolo di destinazione, Imposto dalla normativa speciale
richiamata, risulta nella specie eluso mediante
l'alterazione del precedente standard urbanistico, attuata
con la realizzazione ex post di una unità immobiliare
abusiva.
2.3. - La sentenza Impugnata deve quindi essere cassata e il
giudice del rinvio, individuato in dispositivo, procederà
all'applicazione del principio di diritto secondo cui
costituisce violazione dell'art. 41-sexies della legge n.
1150 del 1942 l'alterazione del rapporto tra superficie di
parcheggio e metri cubi di costruzione che si produce
attraverso la realizzazione ex post di unità
Immobiliari abusive
(Corte di Cassazione, Sez.
II civile,
sentenza 10.03.2015 n. 4733).
|
EDILIZIA PRIVATA: Stop alla fabbrica «dormitorio».
Tar Toscana. Sulla destinazione d’uso le norme urbanistiche
sono tassative.
Esaminando la
vicenda di un capannone diviso con pareti in cartongesso
dagli “inquilini cinesi”, il Tar Toscana ha affrontato i
problemi legati al mutamento di destinazione degli edifici
produttivi.
Dall’ordinaria iniziale destinazione artigianale, il
capannone era stato suddiviso in due porzioni, una delle
quali definita show room di capi di abbigliamento finiti,
l’altra rimasta deposito e laboratorio con macchine per
taglio e cucito.
La sanzione (obbligo di ripristino) disposta dal Comune di
Prato rifletteva il mutamento di destinazione, che l’impresa
riteneva possibile perché l’articolo 5, comma 8, della legge
433/1985 abilita le attività artigiane a vendere i propri
manufatti nei locali di produzione o in quelli adiacenti.
Secondo il TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 27.02.2015 n. 339, tuttavia, ciò non significa che si possa
derogare alle norme urbanistiche che regolamentano le
destinazioni d’uso ammissibili.
La sentenza non esamina la norma contenuta nel successivo
articolo 6 del Dpr 380/2001 (modificato dall’articolo 17,
comma 1, del Dl 133/2014, convertito dalla legge 164/2014),
secondo il quale «fatte salve le prescrizioni degli
strumenti urbanistici comunali, e comunque nel rispetto
delle altre normative di settore aventi incidenza sulla
disciplina dell’attività edilizia e, in particolare, delle
norme antisismiche, di sicurezza, antincendio,
igienicosanitarie, di quelle relative all’efficienza
energetica, nonché delle disposizioni contenute nel codice
dei beni culturali e del paesaggio (...) sono eseguiti senza
alcun titolo abilitativo (...)», (lettera e-bis) «le
modifiche interne di carattere edilizio sulla superficie
coperta dei fabbricati adibiti ad esercizio d’impresa ovvero
le modifiche della destinazione d’uso dei locali adibiti ad
esercizio d’impresa».
Questa norma, quando applicabile, va poi coordinata con
quella che accorpa i vari tipi di destinazioni (articolo
23-ter Dpr 380/2001) distinguendo la destinazione produttiva
e direzionale rispetto a quella commerciale, anche se
attuata senza opere.
Anche tale seconda norma statale fa comunque salve le
normative regionali. Di fatto, quindi, la liberalizzazione
riguarda solo le previsioni più restrittive, quali per
esempio quella che in un Comune turistico (Laigueglia) della
zona delle “cinque terre” in Liguria, escludeva la
possibilità che agenzie immobiliari aprissero uffici al
piano terreno nel centro storico: il TAR Liguria, Sez. I (sentenza
02.04.2015 n.
349) annullò la norma urbanistica locale di dettaglio,
precisando che non trova giustificazione un diverso
trattamento tra agenzie immobiliari (non consentite in
centro storico) e uffici, banche e pubblici esercizi
(consentiti), posto che anche queste attività non risultano
essere ricercate dai turisti dell’antico borgo.
Inoltre, i vincoli sulle destinazioni, come quelli sulle
distanze, contrastano con gli sforzi compiuti dal
legislatore per rendere conformi alle norme europee e
statali quelle regionali o gli strumenti pianificatori di
diverso livello (articolo Il Sole 24 Ore del 30.07.2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
Non è configurabile alcun affidamento
giuridicamente tutelabile alla conservazione di una
situazione di illecito permanente che non può di norma
essere sanata dal mero trascorrere del tempo.
3. Con i secondi motivi aggiunti, il ricorrente deduce
contro l’ordinanza di demolizione che l’intervento avrebbe
carattere manutentivo e pertinenziale, non costituirebbe
nuova costruzione, non comporterebbe aumenti di superficie
utile e volume, non richiederebbe il permesso di costruire
bensì la DIA a norma dell’art. 22 del d.P.R. n. 380 del
2001; il sottobalcone ed il vano di comunicazione sarebbero
volumi tecnici; gli interventi contestati risalirebbero a
molti anni addietro.
3.1. L’ingiunzione impugnata risulta consequenziale alla
reiezione dell’accertamento di conformità urbanistica e di
compatibilità paesaggistica di cui al precedente paragrafo
2.
Si tratta quindi di atto dovuto rispetto al quale vanno
ribadite le considerazioni svolte nei paragrafi 2.1 e 2.2.
Parimenti, va ribadita la funzionalità unitaria degli
interventi che ne assorbono la intrinseca valutabilità
atomizzata.
3.2. Giova altresì soggiungere che non è configurabile alcun
affidamento giuridicamente tutelabile alla conservazione di
una situazione di illecito permanente che non può di norma
essere sanata dal mero trascorrere del tempo (cfr. Cons.
St., sez. IV, 29/04/2014, n. 2228)
(TAR Campania-Napoi, Sez. VII,
sentenza 05.11.2014 n. 5703 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO: Al
moroso non si può sospendere l’acqua. Una pronuncia che sembra in contrasto con la
legge 220/2012 «salva» un condòmino in debito.
La
riforma del condominio, legge 11.12.2012 n. 220, ha
modificato, tra l’altro, il comma 3 dell’articolo 63 delle
disposizioni di attuazione del Codice civile che prevedeva i
casi in cui l’amministratore può sospendere i
servizi ai condòmini in mora con i pagamenti delle spese
condominiali.
Il nuovo testo dispone ora che «in caso di mora nel
pagamento dei contributi che si sia protratta per un
semestre, l’amministratore può sospendere il condòmino
moroso dalla fruizione dei servizi comuni suscettibili di
godimento separato».
La possibilità di sospensione del servizio è applicabile
quindi al verificarsi contemporaneo delle seguenti
condizioni: a) che ci sia una mora del condòmino; b) che la
mora si sia protratta per almeno sei mesi; c) che il servizio
da sospendere sia un servizio comune; d) che il servizio sia
suscettibile di godimento separato.
Le ipotesi concrete che si possono fare sono comunemente
quelle relative al servizio di fornitura di acqua ai singoli
attraverso un unico contatore con contratto unico intestato
al condominio, quello del servizio centralizzato di
riscaldamento ed altri simili.
La nuova formulazione del testo dell’articolo 63 sembrava
aver semplificato la procedura ampliando la possibilità di
sospensione dei servizi al verificarsi delle sole condizioni
indicate al comma 3.
Le varie ordinanze, salvo rarissime eccezioni, emesse dai
tribunali a seguito di ricorsi presentati dagli
amministratori di condominio, nelle ipotesi in cui non era
possibile procedere alla chiusura del servizio senza
accedere alla unità immobiliare privata, avevano confermato
la pienezza di tale potere.
Ma con l’ordinanza 29.09.2014 n. 15600 il
Tribunale di Brescia in sede collegiale ha negato
all’amministratore il potere di sospendere l’erogazione
dell’acqua al condòmino moroso con considerazioni che
sembrerebbero in contrasto con un’interpretazione letterale
del testo normativo.
Il Tribunale ha ritenuto che l’erogazione dell’acqua non
possa essere sospesa nonostante la morosità in quanto: a) il
servizio di fornitura attraverso un unico contratto
condominiale non è un servizio erogato dal condominio, ma
dalla società erogatrice, instaurandosi tra il condominio e
l’ente «un contratto di mera intermediazione economica»; b)
i condomini virtuosi possono evitare di farsi carico delle
morosità stipulando contratti individuali autonomi diretti
con l’ente fornitore; c) dalla mancata erogazione dell’acqua
ne deriverebbe un pregiudizio diretto e immediato alle
condizioni di vita e salute con pregiudizio di valori di
rilievo costituzionale.
È chiaro che se tale interpretazione trovasse conferma in
altre pronunce si renderebbe inutile la nuova formulazione
dell’articolo 63 e la sua forza deterrente.
Ma la cosa ben più grave è il rischio, con risvolti penali,
in cui incorrerebbe l’amministratore là dove, potendolo
tecnicamente fare, procedesse direttamente alla sospensione
del servizio. La
riforma del condominio, legge 11.12.2012 n. 220, ha
modificato, tra l’altro, il comma 3 dell’articolo 63 delle
disposizioni di attuazione del Codice civile che prevedeva i
casi in cui l’amministratore può sospendere i servizi ai condòmini in mora con i pagamenti delle spese condominiali.
Il nuovo testo dispone ora che «in caso di mora nel
pagamento dei contributi che si sia protratta per un
semestre, l’amministratore può sospendere il condòmino
moroso dalla fruizione dei servizi comuni suscettibili di
godimento separato».
La possibilità di sospensione del servizio è applicabile
quindi al verificarsi contemporaneo delle seguenti
condizioni: a) che ci sia una mora del condòmino; b) che la
mora si sia protratta per almeno sei mesi; c) che il servizio
da sospendere sia un servizio comune; d) che il servizio sia
suscettibile di godimento separato.
Le ipotesi concrete che si possono fare sono comunemente
quelle relative al servizio di fornitura di acqua ai singoli
attraverso un unico contatore con contratto unico intestato
al condominio, quello del servizio centralizzato di
riscaldamento ed altri simili.
La nuova formulazione del testo dell’articolo 63 sembrava
aver semplificato la procedura ampliando la possibilità di
sospensione dei servizi al verificarsi delle sole condizioni
indicate al comma 3.
Le varie ordinanze, salvo rarissime eccezioni, emesse dai
tribunali a seguito di ricorsi presentati dagli
amministratori di condominio, nelle ipotesi in cui non era
possibile procedere alla chiusura del servizio senza
accedere alla unità immobiliare privata, avevano confermato
la pienezza di tale potere.
Ma con l’ordinanza 29.09.2014 n. 15600 il
Tribunale di Brescia in sede collegiale ha negato
all’amministratore il potere di sospendere l’erogazione
dell’acqua al condòmino moroso con considerazioni che
sembrerebbero in contrasto con un’interpretazione letterale
del testo normativo.
Il Tribunale ha ritenuto che l’erogazione dell’acqua non
possa essere sospesa nonostante la morosità in quanto: a) il
servizio di fornitura attraverso un unico contratto
condominiale non è un servizio erogato dal condominio, ma
dalla società erogatrice, instaurandosi tra il condominio e
l’ente «un contratto di mera intermediazione economica»;
b)
i condomini virtuosi possono evitare di farsi carico delle
morosità stipulando contratti individuali autonomi diretti
con l’ente fornitore;
c) dalla mancata erogazione dell’acqua
ne deriverebbe un pregiudizio diretto e immediato alle
condizioni di vita e salute con pregiudizio di valori di
rilievo costituzionale.
È chiaro che se tale interpretazione trovasse conferma in
altre pronunce si renderebbe inutile la nuova formulazione
dell’articolo 63 e la sua forza deterrente.
Ma la cosa ben più grave è il rischio, con risvolti penali,
in cui incorrerebbe l’amministratore là dove, potendolo
tecnicamente fare, procedesse direttamente alla sospensione
del servizio (articolo Il Sole 24 Ore del
21.07.2015). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Corrispondenza tra legali sempre riservata.
È sempre riservata la corrispondenza tra avvocati. È
comportamento disciplinarmente rilevante, infatti, produrre
in giudizio una lettera ricevuta dal collega di controparte
con una proposta transattiva.
Lo conferma il Consiglio
nazionale forense, nella
sentenza
10.06.2014 n. 92/14 pubblicata nei
giorni scorsi sulla banca dati deontologica del Cnf.
Il
precetto, del resto, è contenuto sia nel nuovo codice
deontologico (art. 48), sia in quello precedente (art. 28),
e secondo il Cnf non soffre alcuna eccezione. Il principio
della riservatezza, infatti, rimarca la sentenza, riguarda
non solo tutte le comunicazioni espressamente dichiarate
riservate, ma anche le comunicazioni scambiate tra avvocati
nel corso del giudizio, e quelle anteriori allo stesso,
quando le stesse contengano espressioni di fatti,
illustrazioni di ragioni e proposte a carattere transattivo,
ancorché non dichiarate espressamente «riservate».
La norma
deontologica, in particolare, mira a salvaguardare il
corretto svolgimento dell'attività professionale, con il
fine di non consentire che leali rapporti tra colleghi
possano dar luogo a conseguenze negative nello svolgimento
della funzione di difesa.
Secondo il Cnf, quindi, il divieto di produrre in giudizio
la corrispondenza tra professionisti contenente proposte
transattive assume la valenza «di un principio
invalicabile di affidabilità e lealtà nei rapporti
interprofessionali indipendentemente dagli effetti
processuali della produzione vietata, in quanto la norma
mira a tutelare la riservatezza del mittente e la
credibilità del destinatario, nel senso che il primo, quando
scrive a un collega di un proposito transattivo, non deve
essere condizionato dal timore che il contenuto del
documento possa essere valutato in giudizio contro le
ragioni del suo cliente, mentre il secondo deve essere
portatore di un indispensabile bagaglio di credibilità e
lealtà»
(articolo ItaliaOggi del 31.07.2015).
----------------
MASSIMA
Avvocato - Norme deontologiche - Principi generali -
Dovere di riservatezza - Dovere di colleganza -Proposta
transattiva inviata via fax - Trascrizione parziale in atti
del giudizio - Illecito deontologico - Sussiste.
Pone in essere un comportamento
disciplinarmente rilevante il professionista che abbia
trascritto nei propri atti i difensivi, anche se in forma
incompleta, il contenuto di un fax pervenutogli dal legale
di controparte, qualificato come "riservato e non
producibile" e contenente proposte transattive.
Il divieto di produrre in giudizio la corrispondenza tra
professionisti contenente proposte transattive, di cui
all'art. 28 C.d.F, assume infatti la valenza di un principio
invalicabile di affidabilità e lealtà nei rapporti
interprofessionali indipendentemente dagli effetti
processuali della produzione vietata, in quanto la norma
mira a tutelare la riservatezza del mittente e la
credibilità del destinatario, nel senso che il primo, quando
scrive ad un collega di un proposito transattivo, non deve
essere condizionato dal timore che il contenuto del
documento possa essere valutato in giudizio contro le
ragioni del suo cliente, mentre il secondo deve essere
portatore di un indispensabile bagaglio di credibilità e
lealtà che rappresenta la base del patrimonio di ogni
avvocato. |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Per
costante giurisprudenza, laddove le osservazioni presentate
dai privati, ai sensi dell'art. 10-bis della l. 07.08.1990,
n. 241, siano acquisite al procedimento e tenute presenti
dall'Amministrazione ai fini del processo decisionale, non
può riconoscersi alcun rilievo invalidante alla mancanza di
una confutazione analitica dei singoli punti oggetto del
contraddittorio, essendo sufficiente, ai fini della
giustificazione del provvedimento adottato, la motivazione
complessivamente e logicamente resa a sostegno dell'atto
stesso.
4. Quanto alla denunciata omessa valutazione delle
osservazioni presentate dopo la comunicazione del preavviso
di rigetto, per costante giurisprudenza, laddove le
osservazioni presentate dai privati, ai sensi dell'art. 10-bis
della l. 07.08.1990, n. 241, siano acquisite al procedimento
e tenute presenti dall'Amministrazione ai fini del processo
decisionale, non può riconoscersi alcun rilievo invalidante
alla mancanza di una confutazione analitica dei singoli
punti oggetto del contraddittorio, essendo sufficiente, ai
fini della giustificazione del provvedimento adottato, la
motivazione complessivamente e logicamente resa a sostegno
dell'atto stesso (Cons. di St., IV, 28.10.2013, n. 5189; TAR
Piemonte, I, 27.06.2013, n. 846)
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 26.02.2014 n. 360 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Secondo
la giurisprudenza penale, l'attività di demolizione e
ricostruzione di un manufatto abusivo preesistente non può
essere considerata quale ristrutturazione, costituendo al
contrario una riattivazione dell'attività illecita
originaria e configurandosi in tal caso il reato di cui
all'art. 44, lett. b), D.P.R. n. 380 del 2001, pur in
pendenza di una domanda di condono edilizio il cui
procedimento non si sia ancora concluso.
Del resto, in pendenza di condono, le esigenze di tutela
della proprietà legittimano solo interventi indispensabili
alla tutela del manufatto, quali quelli di manutenzione,
mentre l’intervento di demolizione e ricostruzione è
sussumibile tra quelli di nuova costruzione ex art. 14,
comma 2, L.R. 06.06.2008, n. 16.
A ciò si aggiunga che, secondo un consolidato indirizzo
giurisprudenziale, non è ammissibile il
rilascio di una concessione in sanatoria, ex art. 13 L. n.
47 del 1985, relativa soltanto a parte degli interventi
abusivi realizzati, ovvero parziale, o subordinata alla
esecuzione di opere, atteso che ciò contrasta
ontologicamente con gli elementi essenziali
dell'accertamento di conformità, i quali presuppongono la
già avvenuta esecuzione delle opere.
Si tratta di conclusioni che debbono valere –a più forte
ragione– nel caso della sanatoria straordinaria, posto che
anche l’art. 31 L. 47/1985 fa riferimento alle opere
“ultimate” ed "eseguite”, e che, trattandosi di normativa
eccezionale, essa soffre di un’interpretazione restrittiva.
Il ricorso è infondato.
1. Con il primo motivo di ricorso la ricorrente sostiene che
il manufatto originario, per quanto interamente distrutto,
sarebbe stato ricostruito –quantomeno per quanto riguarda il
piano terra– con le stesse caratteristiche di quello
originario, e che ella si era detta comunque disponibile a
ricondurre il manufatto alla situazione originaria
rimuovendo le opere eseguite in difformità, sicché il comune
avrebbe dovuto quantomeno rilasciare una sanatoria parziale
e condizionata.
Il motivo è infondato.
Giova premettere che è pacifico in punto di fatto che il
manufatto originario è stato completamente distrutto e
ricostruito, sicché è effettivamente venuto meno l’oggetto
dell’istanza di condono edilizio.
Ciò posto, si osserva che, secondo la giurisprudenza penale,
l'attività di demolizione e ricostruzione di un manufatto
abusivo preesistente non può essere considerata quale
ristrutturazione, costituendo al contrario una riattivazione
dell'attività illecita originaria e configurandosi in tal
caso il reato di cui all'art. 44, lett. b), D.P.R. n. 380
del 2001, pur in pendenza di una domanda di condono edilizio
il cui procedimento non si sia ancora concluso (così Cass.
Pen., III, 27.09.2006, n. 40189).
Del resto, in pendenza di condono, le esigenze di tutela
della proprietà legittimano solo interventi indispensabili
alla tutela del manufatto, quali quelli di manutenzione (TAR
Liguria, I, 17.02.2010, n. 603), mentre l’intervento di
demolizione e ricostruzione è sussumibile tra quelli di
nuova costruzione ex art. 14, comma 2, L.R. 06.06.2008, n.
16.
A ciò si aggiunga che, secondo un consolidato indirizzo
giurisprudenziale –anche della Sezione- non è ammissibile il
rilascio di una concessione in sanatoria, ex art. 13 L. n.
47 del 1985, relativa soltanto a parte degli interventi
abusivi realizzati, ovvero parziale, o subordinata alla
esecuzione di opere, atteso che ciò contrasta
ontologicamente con gli elementi essenziali
dell'accertamento di conformità, i quali presuppongono la
già avvenuta esecuzione delle opere (Cass. Pen., III,
14.06.2007, n. 23129; TAR Liguria, I, 29.05.2013, n. 848).
Si tratta di conclusioni che debbono valere –a più forte
ragione– nel caso della sanatoria straordinaria, posto che
anche l’art. 31 L. 47/1985 fa riferimento alle opere “ultimate”
ed "eseguite”, e che, trattandosi di normativa
eccezionale, essa soffre di un’interpretazione restrittiva.
2. Palesemente infondato è il secondo motivo, con il quale
si lamenta che il provvedimento impugnato non terrebbe conto
del parere espresso in data 02.10.1997 dalla commissione
edilizia integrata, la quale avrebbe rinviato l’esame della
pratica in attesa dell’approvazione di un piano urbanistico
particolareggiato, piano mai presentato.
Difatti, l’affermata necessità della presentazione di un
piano attuativo esteso a tutto il contesto presuppone
comunque la persistenza dell’immobile oggetto
dell’originaria istanza di condono, sicché la sua
demolizione costituisce –come detto– autonomo e sufficiente
motivo di diniego
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 26.02.2014 n. 360 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO: Balconi
«aggettanti» proprietà esclusiva dell’appartamento.
Parti comuni e private. Per la Cassazione.
Sui balconi la
discussione è sempre aperta. Soprattutto perché, per la loro
struttura, si compongono di una pluralità di elementi (piano
di calpestio, soletta, frontalino, sottobalcone, intradossi
eccetera) e assolvono una duplice funzione: costituiscono,
infatti, una proiezione esterna dell’appartamento, perché
tramite essi il condòmino può affacciarsi ed esplicare il
suo diritto di veduta.
In questi casi ci si trova di fronte
ai balconi «aggettanti» che per loro struttura sono
sporgenti dalla facciate e quindi godono di una loro
autonomia, perché possono sussistere indipendentemente
dall’esistenza di altre tipologie di balconi. Ma sono anche
parte integrante e strutturale della facciata, in quanto
rappresentano un elemento decorativo ed estetico dello
stabile.
Il tema dei balconi «aggettanti» è stato affrontato dalla
Cassazione a seguito di una causa approdata al Giudice di
Pace di Avellino, dove viene citato il proprietario per
ottenere l’eliminazione delle infiltrazioni derivanti dal
balcone di sua proprietà nonché il risarcimento per i danni
subiti.
Il Giudice accoglie il ricorso e condanna il convenuto. Il
soccombente ricorre al Tribunale di Avellino che rigetta le
impugnazioni. Avverso detta pronuncia, il ricorrente
deduceva il proprio difetto di legittimazione passiva,
assumendo che le infiltrazioni lamentate sarebbero dipese
dalla cattiva manutenzione di parti del balcone da
considerarsi parti comuni.
Dall’analisi della perizia svolta dal Ctu, era emerso che la
causa delle infiltrazioni era ascrivibile al «cattivo stato
di manutenzione di finitura dell’estradosso delle solette
del balcone (...) e dai correntini risultati ammalorati e
sconnessi nella pavimentazione divelta e sconnessa in più
punti». I giudici rammentano che, nel caso di specie,
trattasi di una particolare tipologia di balconi cosiddetti
aggettanti che, costituendo un prolungamento della
corrispondente unità immobiliare, sono di proprietà
esclusiva del proprietario di questa, dovendosi considerare
comuni solo gli elementi decorativi delle parti frontale e
inferiore del manufatto, qualora si inseriscano nella
facciata di prospetto dell’edificio (Corte di Cassazione,
Sez. II civile,
sentenza
30.04.2012 n.
6624).
I balconi aggettanti, quindi, costituendo un prolungamento
dell’unità immobiliare, appartengono in via esclusiva al
proprietario. Ne consegue l’esclusione dalla comproprietà
condominiale e la loro appartenenza in via esclusiva ai
proprietari delle relative unità abitative. Poiché viene
esclusa la presunzione di condominialità, le opere di
manutenzione dei balconi medesimi competono ai
corrispondenti proprietari.
Tuttavia, ogni qual volta si
interviene su di essi, per effettuare lavori di
manutenzione, occorre preliminarmente discernere la
rispettiva valenza strutturale da quella estetica
ornamentale –ove sussistente– al fine di individuare
esattamente i criteri di riparto della spesa anche tra condòmini (articolo Il Sole 24 Ore del
21.07.2015). |
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